Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

GLI STATISTI

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 


 


 

GLI STATISTI

INDICE PRIMA PARTE


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le carte segrete del Caso Moro.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando il Divo.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Secessionisti.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ricordando Craxi.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italiano per Antonomasia.

La Biografia.

Berlusconi e la Morte.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Berlusconi e la Salute.

Berlusconi e gli Affari.

Berlusconi e la Politica.

Berlusconi e lo Sport.

Berlusconi ed i Media.

Berlusconi e la Chiesa.

Berlusconi e la Cultura.

Berlusconi e la Gastronomia.

Berlusconi e gli Animali.

Berlusconi e la Famiglia.

Berlusconi e le donne.

Berlusconi e la Giustizia.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Al tempo del Nazismo.

Al tempo del Fascismo.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli eredi del Duce.

 


 

GLI STATISTI

QUARTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Fake News.

Lui.

Lo Sport.

La Cultura.

I Viaggi.

Gli scontri tra Oriente e Occidente.

La nascita del Nazismo.

L’Epoca tra due Guerre.

La Svolta della Guerra.

I Combattenti.

I Raid.

La Shoah.

La Shoah degli Zingari.

Le Fughe.

Le Resistenti.

Le Spie.

Norimberga 1945.

I Condannati.

I Tesori.

L’Esoterismo.

Le Fake News.

La Bandiera sovietica sul Reichstag, storia di un "falso" d'autore. Andrea Muratore il 2 Maggio 2023 su Il Giornale.

Come accaduto per la foto di Iwo Jima, anche l'immagine della "Bandiera della Vittoria" è un "falso" che non celebra la conquista del parlamento della Germania mentre avveniva in tempo reale, ma è stato costruito ex post. Ottenendo l'obiettivo di mostrare il trionfo di Mosca sul nazismo

Tabella dei contenuti

 La battaglia di Berlino e la marcia sul Reichstag

 La foto definitiva

 Il simbolo dei sacrifici dell'Armata Rossa

L'immagine del soldato sovietico che issa una bandiera sovietica sul Reichstag, per la precisione la Bandiera della Vittoria che in tutta l'ex Unione Sovietica accompagna le celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale, è passata alla storia come simbolo della sconfitta della Germania di Hitler e della liberazione dell'Europa del nazismo. L'immagine scattata il 2 maggio 1945 è però a tutti gli effetti una brillante opera di comunicazione politica, ma di fatto un "falso" d'autore.

La battaglia di Berlino e la marcia sul Reichstag

Intendiamoci: fu verissima, e brutale, la battaglia con cui l'Unione Sovietica espugnò la capitale del Terzo Reich. L'offensiva compiuta all'inizio del 1945 per accerchiare e assediare Berlino causò oltre 80mila morti tra i sovietici e più di 100mila tra i tedeschi. Fu parimenti comprensibile la volontà di Mosca e del governo di Iosif Stalin di celebrare enfaticamente la vittoria nella Grande Guerra Patriottica, dopo che la marcia per cacciare l'invasore tedesco che aveva attaccato l'Urss nel 1945 aveva portato in due anni dalle rive del Volga a quelle della Sprea, attraverso una serie di offensive travolgenti con cui l'Armata Rossa aveva liberato Polonia, Paesi baltici, Ungheria, Romania e Bulgaria. E il terribile tributo di sangue pagato dall'Urss - oltre 20 milioni di morti tra militari e civili - da un lato e gli odi accumulati per le repressioni, le stragi e le deportazioni di civili sul territorio sovietico avevano reso spietata la campagna di occupazione della Germania.

Ciononostante, la storia del "falso" del Reichstag è interessante e merita di essere raccontata. Perché mostra come realtà e propaganda in guerra spesso si sovrappongano. Nel pieno della battaglia per conquistare Berlino, mentre anche Adolf Hitler vedendo persa ogni speranza di riscossa meditava il suicidio che avrebbe compiuto il 30 aprile 1945, Stalin ordinò che, simbolicamente, il Reichstag dovesse essere occupato entro il primo maggio, Festa dei Lavoratori e giornata nazionale di celebrazione in tutta l'Urss. L'obiettivo simbolo era lo storico palazzo del parlamento tedesco identificato come un simbolo della Germania e del nazismo, nonostante Hitler ritenesse il Reichstag il tempio di una democrazia imperfetta che si riprometteva di superare col progetto del "Reich millenario". Ma il nome, la riconoscibilità e la solennità del Reichstag lo rendevano il luogo simbolo per un'offensiva. Stalin sognava di produrre, amplificandolo, lo stesso effetto emotivo che quattro anni prima aveva suscitato l'immagine della bandiera tedesca con la svastica innalzata sul Partenone.

L'obiettivo fu dunque politico nel pieno di una battaglia inclemente. Il maresciallo Georgij Zhukov, comandante del teatro di Berlino, decise di amplifiare la prospettiva di Stalin immaginando la scena della foto e annunciandola anzitempo. Mentre ancora il Reichstag non era stato bonificato dalle truppe tedesche al suo interno Zukhov annunciò il 30 aprile, giorno del suicidio di Hitler nel Bunker della Cancelleria, che il palazzo del Parlamento era stato occupato. La notte, mentre parte del Reichstag era già caduto nelle mani dei sovietici, il soldato kirghizo 23enne Rakhimzhan Qoshqarbaev del 674esimo Reggimento di Fanteria salì sull'edificio e inserì una bandiera nella corona della statua femminile rappresentante l'allegoria della Germania. Qoshqarbaev, "fegataccio" che poche settimane prima si era distinto guidando un assalto nell'attraversamento dell'Oder, compì un atto ad altissimo rischio in un edificio ancora teatro di guerra.

La foto definitiva

La giornata successiva, tuttavia, il vessillo fu tolto dai tedeschi che resistevano. Restava l'annuncio di Zhukov, che molti corrispondenti sovietici provarono ad andare a verificare ricevendo però, dall'interno del Reichstag, un nutrito fuoco di sbarramento tedesco in risposta. Fu solo il 2 maggio 1945, ultimo giorno della difesa di Berlino da parte della Wehrmacht, che il Reichstag cadde totalmente in mano alle armate sovietiche. Mentre il generale Helmuth Weilding, comandante della difesa della capitale, offriva la resa delle forze tedesche definendo "un abbandono" dei combattenti il suicidio del Fuhrer, la propaganda sovietica preparò l'agognata foto desiderata da Stalin. Che si classificò come "falso" perché immagine costrutita ad arte e non genuina conclusione della campagna di occupazione del Reichstag.

Un ufficiale ebreo ucraino di Donetsk, Yevgeny Ananyevich Khaldei, che aveva perso la madre e tre delle quattro sorelle durante la brutale occupazione tedesca, fu il fotografo incaricato di redigere la foto passata alla storia con il nome di "La Bandiera della Vittoria sul Reichstag" (in russo Znamya Pobedy nad Reykhstagom). L'immagine, potente nel messaggio evocativo, mostra il vessillo sventolare su una Berlino in macerie, sostenuta da due soldati. Il gruppo di soldati scelti per innalzare la bandiera sull'ex sede del Parlamento diventata ultima ridotta tedesca è rimasto a lungo oggetto di questione. Ed è un "falso nel falso". Inizialmente si pensò a dei soldati del 380esimo e del 756esimo reggimento di fantiera sovietica identificati nel russo Mikhail Yegorov e nel georgiano Meliton Kantaria. Il motivo di questo duo è comprensibile: la Grande Guerra Patriottica conclusa dall'unione tra un esponente del popolo sovietico che si era intestato la massima parte di sofferenze e lutti, il russo, e di quello del comandante Stalin, il georgiano.

Ma oltre la storia ufficiale sovietica la realtà è un'altra. A issare la bandiera furono tre soldati: Aleksei Kovalyev, un 20enne russo, è il militare che appare tenere la bandiera sul Reichstag, mentre il nativo del Daghestan Abdulchakim Ismailov appare nel principale degli scatti di Khaldei. In alcune sequenze appare anche il soldato bielorusso Aleksei Goryachev, nativo di Minsk, che ha coadiuvato l'operazione. Nella foto diffusa, poi, Ismailov appariva inizialmente con due orologi. Visto che si temeva potesse averne saccheggiato uno, compiendo un reato passibile di pena capitale, l'immagine modificata "ufficiale" mostrava il soldato daghestano, ultimo a morire nel 2010 tra i membri dell'impresa, solo con l'orologio sinistro. Evitando ogni ulteriore polemica.

Nella foto originale non compaiono orologi sul polso del soldato sovietico. 

Il simbolo dei sacrifici dell'Armata Rossa

La foto fu pubblicata il 13 maggio, pochi giorni dopo la capitolazione definitiva della Germania, sulla rivista Ogonëk, come risposta a un altro falso d'autore di altissimo valore simbolico, l'alzabandiera di Iwo Jima dei soldati Usa ritratto nel febbraio precedente dopo la già avvenuta conquista del Monte Suribachi, realizzata da Joe Rosenthal dell'Associated Press. A prescindere dalla storia "artefatta" dell'evento è indubbio che la vittoria di Berlino, cruenta fino all'ultimo istante e ultima fatica dell'Armata Rossa prima della vittoria finale, meritasse un simbolo di livello. La foto del Reichstag conquistato dai sovietici ottenne infatti l'effetto voluto, mostrando al mondo il tracollo militare del Reich hitleriano e spegnendo sul nascere qualsiasi mito simile a quello post-Grande Guerra, che parlava di una Germania tradita ma non sconfitta sul campo.

Uno tra migliaia a Iwo Jima: identificato il marine dello storico scatto

L'immagine del Reichstag riassunse per la propaganda comunista i sacrifici dell'Urss e della sua forza armata per liberare dal nazismo l'Europa orientale e riassunse in un'istantantea le vittorie di Stalingrado, di Kursk, dell'Operazione Bagration, della rottura dell'assedio di Leningrado, dell'offensiva sull'Oder. Vittorie pagate con un tributo di sangue immenso da parte sovietica, inferiore tuttavia alla conta dei morti caduti nelle camere a gas, nelle rappresaglie, nelle marce della morte o per le carestie causate dall'occupazione tedesca. Preludio alla vittoria finale e alla definitiva demolizione del progetto di Hitler e dei suoi intenti di destabilizzazione e dominio dell'Europa. Conclusisi col "Crepuscolo degli Dei" di Berlino in cui solo il suicidio del Fuhrer evitò ulteriori, inutili morti da parte tedesca in una difesa ormai vana.

Lui.

Estratto dell’articolo di Uski Audino per “La Stampa” mercoledì 23 agosto 2023.

È di nuovo polemica sulla casa natale di Hitler a Braunau am Inn, nell'Alta Austria. […] L'immobile, da decenni meta di pellegrinaggio dei nazisti dell'intero orbe terracqueo, è stato espropriato nel 2017 dalla Repubblica austriaca e poi destinato a diventare – così si è deciso nel 2019 – la sede di una stazione di polizia. Fin qui un'opzione legittima, per quanto discutibile. 

Ora, secondo la ricostruzione del documentario presentato lunedì alla stampa «Chi ha paura di Braunau?», si è saputo che questa destinazione sarebbe nient'altro che la realizzazione esatta della volontà del Führer.

[…] La prova fornita nel documentario emerge da un fondo di archivio locale ed è un articolo uscito il 10 maggio del 1939, poco più di un anno dopo l'Anschluss, l'annessione dell'Austria da parte del Terzo Reich. «Il Führer ha messo la sua casa natale a disposizione della direzione del distretto di Braunau. Su sua richiesta, sarà trasformata negli uffici della direzione del distretto» si scriveva sul quotidiano locale Neuen Warte am Inn. In altre parole Hitler avrebbe voluto destinare la sua casa d'origine a funzioni pubbliche.

È una peculiare "ironia della storia" che la volontà di Hitler ora sia in qualche modo messa in opera, ha commentato lo storico che dirige l'Archivio della città di Braunau, Florian Kontako. Proprio quanto sta facendo ora il governo Nehammer che, lo stesso giorno della proiezione del filmato, ha confermato al quotidiano austriaco Kurier l'intenzione di partire con i lavori di ristrutturazione il 2 ottobre prossimo. 

Per il rinnovo saranno messi a disposizione circa venti milioni di euro, quattro volte tanto l'importo previsto inizialmente, fa sapere il ministero degli Interni austriaco. E il tutto dovrebbe concludersi entro il 2026, autorizzazioni permettendo. 

Secondo Günther Schwaiger, il regista del documentario, sulla futura stazione di polizia «graverà sempre il sospetto di essere stata voluta da Hitler» anche nel caso diventasse un ufficio dell'agenzia dell'Entrate o di altre istituzioni amministrative. «Qui ci deve essere un ripensamento» ha detto il regista in conferenza stampa nel café Landtmann, nel cuore di Vienna.

«Si possono commettere errori, ma bisogna riconoscerli», ha aggiunto. La critica è stata invece definita «assurda» dallo storico Oliver Rathkolb, membro della commissione di esperti incaricata di trovare un nuovo uso dell'abitazione del dittatore. 

[…] Ma c'è una seconda e non banale osservazione che emerge nel documentario. Secondo gli abitanti di Braunau il disprezzo con cui viene additata la loro città nasconde il desiderio della maggior parte degli austriaci di lavarsi la coscienza. Relegare il male in un luogo geografico ben delimitato è comodo per tutti. 

Questa la tesi del regista, secondo il quale «la vera paura è fare i conti con la nostra storia familiare», perché la maggior parte di noi discende dai carnefici, dai collaboratori, dai simpatizzanti e non dalle vittime. Un'affermazione scomoda che porta in luce un tema poco affrontato. 

Quanto ha fatto i conti l'Austria con il suo passato nazista? È noto a tutti che l'Anschluss fu sostenuto da un referendum che vide un'adesione dell'oltre 99% della popolazione austriaca? Konrad Adenauer nel 1955, a chi gli chiedeva un commento sull'autofedinizione dell'Austria come «prima vittima incolpevole» della Germania rispondeva: «Se gli austriaci chiedono un risarcimento, fategli mandare le ossa di Hitler».

 

Estratto dell’articolo di Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2023.

Ad Adolf Hitler, che secondo uno studio psicologico di Harvard aveva una «forte componente femminile», volevano mettere estrogeni nei pasti, in modo che gli cadessero i baffetti, la voce diventasse stridula e soprattutto gli crescesse il seno. Un Führer con le tette difficilmente avrebbe ancora esercitato il suo carisma sui tedeschi. […]

 Un altro piano prevedeva che il Paese del Tenno fosse invaso da migliaia di pipistrelli kamikaze, lanciati da aerei, sotto le cui ali erano fissati congegni che avrebbero incendiato case ed edifici di legno. Non erano idee per una sceneggiatura cinematografica. Ma alcuni dei progetti pensati e in molti casi sperimentati da una speciale sezione dell’Oss, l’Office of Strategic Services, antesignano della Cia, creato nel 1942 per coordinare l’intelligence contro le potenze dell’Asse.

Nell’estate di quell’anno, Stanley Lowell, un chimico industriale conosciuto per la sua mente vulcanica, venne convocato a Washington da William “Wild Bill” Donovan, il generale che Roosevelt aveva voluto alla guida del nuovo servizio segreto. Dopo averlo fatto aspettare per ore in una cella, Donovan entrò e senza presentarsi gli disse: «Lei conosce Sherlock Holmes, naturalmente. Io per il mio staff ho bisogno del Professor Moriarty. Penso che lei possa esserlo».

Per Lowell fu l’incontro della vita. Da quel momento diventò capo di un gruppo segreto, il Research & Development Branch, incaricato di sviluppare tecniche clandestine e congegni per ingannare, destabilizzare e distruggere il nemico. Nei quasi tre anni in cui fu operativa sotto la guida di Lowell, l’unità produsse di tutto: pistole silenziate, inchiostri invisibili, penne che sparavano, esplosivi camuffati da dolci, sieri della verità, congegni per far deragliare i treni, pillole avvelenate senza odore né sapore, valigette che esplodevano all’apertura. Suona familiare? Sì. Lowell sembra la versione reale di Q, il mago dei trucchi tecnologici dei romanzi e dei film di James Bond. Non tutti i progetti andarono a buon fine. […]

Non fece alcun progresso neppure il piano degli ormoni femminili per Hitler. In compenso, lanciate sul Giappone, alcune decine di pipistrelli kamikaze sopravvissero e riuscirono a mandare in fiamme alcuni edifici e la torre di controllo di una base aerea. Ma la maggioranza morì per il freddo.

 A raccontare la storia dell’unità di Lowell è ora lo storico americano, John Lisle, in un libro appena uscito per St. Martin Press: The Dirty Tricks Department , il dipartimento dei trucchi sporchi, ricostruisce un mondo delle ombre, popolato di doppiogiochisti, eroi, tipi strani e scienziati pazzi. […]

Lo Sport.

Leni Riefenstahl mi svelò che Hitler amava solo la boxe. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023.

La regista tedesca immortalò con «Olympia» le Olimpiadi di Berlino del 1936 e con «Trionfo della volontà» l’adunata nazista di Norimberga

Stretta nel tempo, come aveva scritto nella sua biografia. Ma non negli incredibili cento anni che aveva compiuto tre mesi prima e che non le pesavano affatto mentre saliva con passo fermo e senza alcun aiuto le scale del Palazzo dei Giureconsulti, nel cuore di Milano. Leni Riefenstahl, ex ballerina e attrice, ma soprattutto fotografa e regista cara ad Adolf Hitler, nel novembre 2002 partecipò alla rassegna «Sport Movies & Tv», organizzata dal professor Franco Ascani, per ricevere la ghirlanda alla carriera. Il destino le avrebbe riservato ancora nove mesi di vita, permettendole però di arrivare a quota 101 (era nata nel mese di agosto, si spense nel novembre 2003). Credo di essere stato uno degli ultimi giornalisti a intervistarla, forse l’ultimo in Italia. Quell’incontro mi lasciò una sensazione che ancora oggi è molto viva: era l’idea di un personaggio sbucato dalla storia. Bertha Helene Amalia (detta appunto Leni) Riefenstahl non era un tipo inavvicinabile. Anzi, gli organizzatori dell’evento la contattarono con facilità — viveva a Monaco di Baviera — e trovarono una donna contenta di raccogliere l’invito e disposta a onorarlo senza problemi di data. Il soggiorno milanese durò un paio di giorni, ma quella manciata di ore fu sufficiente per capire la sua personalità. Si sentiva donna moderna («Ma non femminista» volle precisare), senza nostalgia per quelle radici che affondavano in un mondo tanto differente.

L’eleganza

Aveva ancora il piacere dell’eleganza e dell’apparire, declinata però in senso positivo e con orgoglio. Una volta sistemata in hotel, domandò: «Stasera le ragazze come si vestono?». Lei alla cena si presentò con pantaloni color blu elettrico che le donavano tantissimo. Aveva poi una vitalità contagiosa: oltre a fare le scale a piedi, rifiutando con decisione di prendere l’ascensore, non usava gli occhiali. Ed era rimasta la perfezionista che aveva caratterizzato il periodo nel quale aveva fuso con successo il cinema con lo sport, che per lei è «l’espressione positiva della vita»: prima di cominciare la chiacchierata, infatti, si era sincerata che il «sonoro» fosse a posto.

Su Hitler

L’intervista fu un crescendo di temi e di emozioni, ben sapendo che prima o poi si sarebbe arrivati alla cruciale questione del suo rapporto con Hitler e con il Terzo Reich. Le chiedemmo: «Lei ammise di aver subito il fascino ipnotico del dittatore; se non ci fosse stato lui, la creatività di Leni Riefenstahl sarebbe stata differente?» La risposta fu priva di esitazioni: «Sarei stata diversa, molto diversa. Hitler mi ha cambiato la vita, ma in peggio. Diciamo che mi ha rovinato. Non è stata una fortuna incontrarlo e per 48 anni, prima che tornassi alla ribalta con Impressionen unter Wasser, documentario sulle mie quasi 2 mila immersioni subacquee, sono stata boicottata: nessuno ha voluto vedere la mia vita disgiunta da quella parentesi».

Trionfo della volontà

Fu sincera? Secondo me sì. Sia in quell’affermazione sia nelle altre che raccontarono la coesistenza con il nazismo, bollata e criticata soprattutto quando firmò la regia di Trionfo della volontà sul congresso nazista di Norimberga del 1934: «Quel film è stato un documentario, nulla di più. Io dovevo spiegare quello che accadeva e le immagini, spesso, valgono più delle parole. Ma le immagini devono anche essere chiare e inequivocabili». Leni Riefenstahl mi svelò poi che Hitler amava la boxe e basta, salvo aver afferrato che lo sport è un buon mezzo per mandare messaggi alle masse, e che la sua follia non le era sfuggita: «Hanno detto che ero vicina a tutti i gerarchi, ma la verità è che la frequentazione è stata occasionale: è come se non li avessi mai conosciuti. Quando Hitler nel 1937 cominciò a prendersela con quella che definiva “arte degenerata”, ebbi il timore che potesse trasferire certe idee alla politica. Purtroppo andò così, ma mi sono sempre rifiutata di imitare le persone — e ne ho incontrate tante, ve l’assicuro — che hanno negato di aver ammirato il Führer».

L’ideologia

Peraltro la condanna del nazismo — «un’ideologia sbagliata» — era in lei definitiva («Pur essendo apolitica, è un argomento che mi condiziona in negativo; l’Olocausto è stato qualcosa di orribile») e si sposava con il concetto del riscatto della Germania: «Il mio Paese si è riabilitato dagli orrori? Mi pare che abbia offerto delle testimonianze concrete in questo senso e i governanti di oggi si stanno impegnando affinché uno scempio del genere non si ripeta mai più. Anche la Ddr e il Muro di Berlino sono stati un trauma. Provavo una strana sensazione: era come avere un arto amputato e sapere, tuttavia, che era lì vicino. Volendo poteva essere riattaccato».

Berlino 1936

La infastidiva di sicuro l’accusa di aver estetizzato la politica tramite il cinema e in particolare con Olympia, il docu-film sui Giochi estivi del 1936 ospitati a Berlino che ha dato una svolta alla cinematografia sportiva. Di quella pellicola era fiera e lo dimostrò anche autografandomi con piacere le copertine dei due VHS che qualche anno prima avevo acquistato senza immaginare che un giorno sarei riuscito a ottenere la firma dell’autrice di quello storico documentario. «Non ho mai avuto lo scopo di fornire sostegni ideologici. La verità è più semplice: i miei film testimoniano solo il modo in cui ho visto le cose. E la politica era solo un aspetto, secondo me sfumato e nemmeno il più importante: la realtà mi intristiva e io badavo esclusivamente al mio lavoro». La difesa di Olympia, quindi, è puramente tecnica: è stato davvero un film modernissimo, «perché ha tradotto nei fatti ciò che era in potenza e quello che avevo in mente. Non solo: l’ho reputato un modo per proporre un’idea di pace e ho accettato di farlo solo per questa ragione». Girare Olympia è stato faticoso («Temevo di mancare delle immagini ed essendo una presa diretta non ci sarebbe stato modo di rimediare: ritengo la pellicola attualissima anche a causa dello stress che ho dovuto sopportare») e ha messo Leni di fronte al dilemma di filmare Jesse Owens, l’eroe di colore in un’Olimpiade che avrebbe dovuto celebrare la razza ariana. A sorpresa, viste certe precedenti dichiarazioni, se ne uscì con una battuta un po’ così, per quanto anche questa figlia della spontaneità: «Avrei realizzato un film solo su Owens? No, però lo reputo il più grande atleta che sia mai esistito».

Il corpo

La valutazione sul fuoriclasse americano era prima di tutto di ordine estetico, «secondo le caratteristiche dello sport che nel movimento esprime fisicità». Il cinema esalta questi aspetti «con la lentezza delle immagini che emana poesia e con un linguaggio che può spiegare il campione al pubblico sotto varie angolazioni». A proposito: per lei non era meglio un corpo femminile rispetto a uno maschile, o viceversa. «Sono assolutamente uguali», disse congedandosi. Anni dopo capitai allo stadio olimpico di Berlino: in una zona dedicata alla storia dell’impianto c’è anche una foto di Leni Riefenstahl insieme a Hermann Goering, ad altri gerarchi nazisti e a Galeazzo Ciano. Impossibile non avvertire un brivido, collegando l’immagine a quel novembre a Milano e al giorno di un mio straordinario viaggio in un lontano passato.

La Cultura.

Estratto dell'articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” lunedì 11 settembre 2023.

«Qui nelle foreste del Sudamerica fonderemo una razza padrona ariana. Vi condurrò in una nuova patria. Soltanto i più puri, i più forti ci seguiranno». Quando la sorella di Friedrich Nietzsche scrive queste righe apparentemente euforiche, il suo sogno è svanito da un pezzo. La sua avventura in Paraguay per fondare una “Nueva Germania” si è rivelata un colossale fiasco. Cinque anni prima, nel 1886, Elisabeth Foerster-Nietzsche ha lasciato la Germania per fondare una colonia di invasati voelkisch con il pallino del vegetarianesimo, del patriarcato, dell’astinenza e della “razza ariana”. 

L’idea è di suo marito, il fervente antisemita Bernhard Foerster. Persino “Fritz”, come Elisabeth chiama affettuosamente il fratello Friedrich, reagisce con sollievo quando la nave con la sorella e il disprezzato cognato salpa nel 1886 per il Sudamerica. Finalmente “gli antisemiti” hanno lasciato “volontariamente” l’Europa, scrive Nietzsche alla madre. […]

Nietzsche ha persino snobbato il matrimonio della sorella con il “filosofo insano”. […] Foerster, insegnante di ginnasio, sostenitore incallito delle teorie della razza, è stato cacciato da un liceo di Berlino dopo aver fissato i compiti in classe di sabato per umiliare gli studenti ebrei ed essersi lasciato andare ad altri eccessi. Nel 1881 è tra i promotori di una “Petizione antisemita”: il cancelliere Bismarck l’ha ignorata allegramente […]

Foerster, dopo essere stato cacciato dalla scuola e con disonore dall’esercito (si è dato a gambe levate per evitare un duello) […] è convinto di poter trascinare nella sua “Nueva Germania”, ben 140 famiglie tedesche. Sono quelle che promette perlomeno al governo del Paraguay in cambio delle terre in mezzo al nulla. Nonostante la propaganda […] anche il reclutamento si rivela un flop. Soltanto quattordici famiglie sassoni, povere in canna, cadono nella trappola dell’Eldorado ariano. Arriveranno dopo otto giorni di massacrante viaggio dalla capitale Asunción e scopriranno un lembo di terra piuttosto sterile e infestato di zanzare e felini. 

Quattro anni dopo, Bernhard Foerster si suiciderà, inseguito dai creditori e dalla rabbia dei coloni.

Alla tragicomica disavventura della sorella del grande filosofo di Così parlo Zarathustra è dedicata una mostra al Nietzsche-Archiv di Weimar, Die Prinzessin von Neu-Germanien . […]

Anche l’eroicizzazione del fratello, la sistematica manipolazione delle sue opere furono il frutto della megalomania di Elisabeth. Soprattutto, del suo bisogno di riconquistare un posto in società dopo che la disavventura in Paraguay aveva prosciugato le sue ricchezze e annientato la sua reputazione. Negli anni Trenta, Elisabeth accoglierà a Weimar più volte Adolf Hitler: Nietzsche sarà uno dei pensatori di riferimento dei nazisti – anche grazie alle sistematiche manipolazioni della sorella.

Dal 1889, dall’impazzimento a Torino, Nietzsche non si è ripreso più. E quando la sorella torna in Germania, l’anno successivo, capisce che intorno al fratello sta nascendo un vero e proprio culto. Che lei alimenta, persino pubblicando un’opera assemblata da frammenti che lo renderà popolarissimo tra i nazionalisti, La volontà di potenza. Sarà Elisabeth a portare Nietzsche, ormai avvolto dalle tenebre della follia, a Weimar, a fondare il Nietzsche-Archiv. […]

Fino alla morte nel 1900, Friedrich Nietzsche, ormai malatissimo, fu trattato come una reliquia vivente: Elisabeth consentiva a pochissimi eletti di vedere il filosofo della Nascita della tragedia. […] Dopo la Seconda guerra mondiale il Nietzsche-Archiv decadde a causa della damnatio memoriae che i comunisti inflissero al filosofo. 

La sua riscoperta negli anni Sessanta fu opera di due grandissimi studiosi italiani, Giorgio Colli e Mazzino Montinari, cui fu consentito l’accesso al colossale lascito di Nietzsche perché erano stati eroi della Resistenza. La loro meticolosa ricostruzione del pensiero di Nietzsche passò attraverso una colossale entschwesterung – “desorelizzazione”, la liberazione di Nietzsche dalle incursioni dannose di Elisabeth che avevano distorto il suo pensiero per decenni.

Quando il Terzo Reich era una meta turistica. Famiglie, coppie in luna di miele, studenti: tanti viaggiarono in Germania sotto il nazismo. Ignari dell'orrore incombente. Stenio Solinas l'1 Agosto 2023 su Il Giornale.

Si poteva fare del turismo nella nazione dove Hitler era al potere? È la domanda, provocatoria, va da sé, che si è posta Julia Boyd nel suo Viaggiare in Germania all'epoca del nazismo (Luiss editore, pagg. 418, 26 euro; traduzione di Antonella Salzano). La risposta, che l'autrice registra stupefatta, è che sì, c'erano i turisti durante il Terzo Reich, inglesi e americani soprattutto, e tali continuarono a essere in pratica sino alla vigilia della guerra: ancora mezzo milione nel 1937. Si dirà che era un turismo «politico» oppure un turismo «ideologico», fascista in entrambi i casi, o più sottilmente antinazista se ci si recava nella «tana del lupo» per vedere quanto e come stese affilando i denti e dare poi in casa propria l'allarme... Ma Julia Boyd non fa sconti e dice che no, la grande maggioranza della gente era gente normale, famiglie con bambini, coppie in luna di miele, ragazze e ragazzi al loro apprendistato di giramondo e di studenti, giovani Erasmus ante litteram che andavano lì per un programma di studi, un corso di lingue, uno scambio culturale...

Ogni storico che si rispetti sa che non si può fare la storia con il senno di poi, sapendo cioè come è andata a finire. Il rischio infatti non solo è di travisare il passato, ma di renderlo incomprensibile. Le testimonianze d'epoca hanno un valore proprio perché ce ne restituiscono il clima, le speranze e le illusioni, così come i timori, i fraintendimenti e le paure: giudicare a posteriori, per di più dall'alto di una moralità adamantina che sa sempre dove sta il bene e dove sta il male, disegna i contorni di un mondo perfetto, ma irreale, costretto ogni volta a stigmatizzare l'imperfezione di quello reale, il cui principale difetto sta proprio nel suo essere esistito.

Il libro Viaggiare in Germania all'epoca del nazismo aiuta a riportare in superficie verità lasciate sprofondare. La prima, la più banale, se si vuole, è che in Germania ci si poteva recare senza troppi problemi (complicato, caso mai era, ma per i tedeschi, uscirne). Nancy Mitford, la sorella più intellettuale di un clan femminile che si divideva fra supporter fasciste e supporter antifasciste, osservò alla vigilia della guerra: «Ho sempre detto che non c'è nessuna differenza tra bolscevichi e nazisti, se non il fatto che gli ultimi, essendo meglio organizzati, probabilmente sono più pericolosi». Lasciando da parte la fondatezza della comparazione, fatta propria con meno disinvoltura, ma più serietà scientifica, da molti studiosi del totalitarismo, almeno una differenza c'era, visto che la Mitford era andata e tornata dalla Germania senza problemi, mentre in Russia non aveva mai messo piede... Questo non perché Hitler fosse più ospitale e meno sospettoso di Stalin, ma perché la Germania, per il suo ruolo, la sua storia, la sua cultura, era parte integrante del Vecchio continente, mentre la Russia era qualcosa a sé: troppo grande, troppo impenetrabile, troppo asiatico. La musica, la filosofia, la storiografia e la letteratura europea parlavano in tedesco e, più in generale, la grande industria e la grande borghesia, per non parlare dell'aristocrazia tedesca, avevano ramificazioni e intrecci, sia economici, sia familiari, sia di stile di vita, di respiro europeo, facevano insomma parte, come orizzonte ideale dello stesso panorama. La rivoluzione bolscevica, oltre ad aver sanguinosamente tagliato i ponti con il proprio passato monarchico e imperiale, nonché culturale, le sue alleanze, le sue frequentazioni, aveva fatto del proprio credo ideologico una sfida a quella che era l'impalcatura delle società europee: la proprietà privata e le classi sociali, i partiti, l'economia di mercato, la religione, la pluralità della stampa come delle opinioni. Nel nazismo, per come sorse e si affermò, non c'era nulla di tutto questo: c'era l'idea di una grande Germania che voleva riprendere il ruolo che era stato il suo e che lo sciagurato, diplomaticamente parlando, trattato di Versailles aveva cercato di rendere impossibile.

Il periodo che in Germana seguì la fine della guerra e che culminò con la crisi mondiale di Wall Street nel 1929, come osserva la Boyd in un capitolo significativo, fu il decennio della «miscela in ebollizione», prendendo a prestito una definizione dello scrittore inglese Christopher Isherwood: un ribollire «di disoccupazione, malnutrizione, panico in borsa e altri potenti ingredienti». Chi, come il suo amico Stephen Spender, aveva approfittato della debolezza del marco e della promiscuità sessuale a essa strettamente legata, il corpo come strumento di scambio economico, per vivere senza troppi problemi economici e inibizioni morali, si sorprese a osservare: «A causa della sofferenza diffusa in questo Paese, là dove un tempo le orde della prostituzione potevano essere considerate merce, ora non riesco a ritenerle altro che carcasse: e non è piacevole immaginarmi nel ruolo di avvoltoio straniero». Ancora nella primavera del 1931, il giovane diplomatico britannico Rumbold, in una informativa per il Foreign Office, scrisse che in Germania «le persone non sanno come faranno a superare l'inverno. Hanno l'impressione di non avere niente da perdere e niente in cui sperare (...). È la mancanza di speranza che fa apparire la situazione così deprimente ai loro occhi e che rende difficile al cancelliere Bruning riuscire a controllarli». Hitler non nasce dal nulla...

Sull'antisemitismo, un intellettuale raffinato e progressista come John Maynard Keynes, aveva fatto, ancora negli anni Venti, osservazioni tanto sorprendentemente sgradevoli, quanto purtroppo in linea con quella che era una comune tendenza europea, in Francia, come in Inghilterra, per tacere dell'Europa orientale: «Sentivo che se fossi vissuto lì avrei potuto diventare antisemita, perché il povero prussiano è troppo lento e piantato sulle gambe rispetto a quell'altro tipo di ebrei, quelli che non sono folletti, ma servi del diavolo, con piccole corna, forconi e code pelose». Ai suoi occhi, era sgradevole vedere una civiltà «schiacciata dagli orrendi pollici del suo ebreo impuro che ha i soldi, il potere e il cervello».

Più in generale, scrive Julia Boyd, uno dei paradossi degli anni Trenta fu che «genitori liberali con ideali di sinistra inviassero regolarmente i loro figli nella Germania nazista, quando si aspettavano che aprissero le loro menti trascorrendo vacanze all'estero». C'è chi mandava la femmina a studiare arte a Stoccarda, chi il maschio a impratichirsi nel diritto... Fra i motivi non secondari, osserva la Boyd ironicamente, c'era anche che «il tasso di cambio era favorevole».

«Per tutti gli anni Trenta un flusso incessante di ragazze inglesi per bene arrivò a Monaco per completare la propria formazione. C'erano picnic, feste danzanti, gite culturali, incontri con aitanti ufficiali della Wermacht «tremendamente eleganti» e, come le ragazze scrivevano a casa, «le loro uniformi sono immacolate e la loro autostima inossidabile».

Per i giovani americani, l'esperienza fu altrettanto piacevole, soprattutto perché la Germania offriva una bellezza urbana plurisecolare a loro sconosciuta che si univa però al fascino dei paesaggi naturali a loro più familiare: i castelli medievali li colmavano di stupore, ma di boschi e foreste potevano vantare una certa pratica. Tuttavia, le Olimpiadi del 1936 fecero affiorare tensioni impreviste all'interno della squadra sportiva statunitense. Un velocista ebreo-americano, Marty Glickman, si trovò escluso dalla staffetta, ma, come disse ai giornalisti, quello «fu il primo e unico episodio d'antisemitismo che ho sperimentato. E quell'esperienza è dipesa dagli allenatori americani non dai tedeschi». Hitler rifiutò di stringere la mano a Jess Owens, ma il vincitore dell'oro nei quattrocento metri, Archie Williams, anch'egli di colore, intervistato su come lo avessero trattato «quegli sporchi nazisti» rispose che aveva visto «solo tanti tedeschi gentili. E non avevo dovuto viaggiare seduto n fondo all'autobus».

Interessante è anche come Julia Boyd inserisce nel suo Viaggiare in Germania all'epoca del nazismo, alcune visite ufficiali e/o politiche che vanno un po' in controtendenza rispetto alla lettura comune dell'epoca fatta successivamente da molti storici. La cosiddetta politica di appeasement, non aveva tanto a che fare con una paura della potenza tedesca, il suo riarmo, la sua volontà di espansione. L'autrice cita il caso del settantenne David Loyd George, già premier britannico nella Grande guerra. Le sue sperticate lodi di Hitler («il George Washington della Germania», «la più grande fortuna che sia capitata al vostro Paese da Bismark e, oserei dire, da Federico il Grande») furono motivo di sarcasmo per i suoi avversari politici, ma testimoniano come intorno alla Germania e il suo Führer, al concetto di leadership e di democrazia, all'idea dell'«uomo forte» i pareri fossero molteplici e discordi.

Un diplomatico australiano che era stato in Germania durante gli anni di Weimar e della depressione e poi vi era tornato nel 1935, notò che «i tedeschi avevano riacquistato il rispetto di sé stessi». Si sorprese anche a osservare che erano molto più biondi del passato. L'anno prima, stando alle statistiche ufficiali, si erano vendute in Germania 10 milioni di confezioni di tinta per capelli...

"Febbraio 1933", il mese che mandò in esilio la letteratura tedesca. Dopo la salita al potere di Hitler, moltissimi intellettuali decisero di lasciare la Germania. Stenio Solinas l’8 Febbraio 2023 su Il Giornale.

All'inizio degli anni Trenta del Novecento si chiuse in Germania un ciclo apertosi all'indomani della Grande guerra e che aveva avuto nella Repubblica di Weimar la sua ragion d'essere politica. In Febbraio 1933 (Marsilio, pagg. 303, euro 19, traduzione di Isabella Amico di Meane e Giovanni Targia), Uwe Wittstock racconta, attraverso un'abile opera di montaggio che incastra fra loro una trentina di personalità della scena culturale tedesca, come nel giro di appena un mese il neonominato cancelliere Adolf Hitler spazzi via, a colpi di decreti avallati dalla presidenza Hindenburg, i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e trasformi quella repubblica in una dittatura.

«L'inverno della letteratura» recita il sottotitolo del saggio, perché «mai prima di allora così tanti scrittori e artisti hanno lasciato il proprio Paese nel giro di così poco tempo», da Thomas Mann a Bertolt Brecht, da Alfred Döblin a George Grosz, per citare i nomi più conosciuti. Wittstock sottolinea altresì come la presa del potere da parte di Hitler sia dovuta a più fattori: l'estremismo partitico, la propaganda infuocata, il terrore da guerra civile, la debolezza del centro politico, la miseria causata dalla crisi economica mondiale. Ne tralascia uno che però li racchiude tutti e che può essere riassunto nelle parole di un illustre storico dell'epoca, Hans Delbrück: «Servire la repubblica non vuol dire amarla». In sostanza, Weimar non piaceva a nessuno. Che non piacesse a destra, era comprensibile: schematizzando, era l'emblema della sconfitta e insieme della decadenza, il trionfo della Zivilisation sulla Kultur. Più complesso è capire perché non piacesse a sinistra. Ci si scagliava contro la sopravvivenza della vecchia burocrazia e del potere giudiziario, si riteneva un'offesa il peso, per quanto ridotto, dell'esercito, veniva giudicata troppo diversa rispetto a quanto sognato allorché era nata, si sparava a alzo zero contro ogni alleanza, ogni compromesso, ogni accordo parlamentare. Come ha scritto Walter Laqueur in quel classico che è La repubblica di Weimar, gli scrittori di sinistra che animavano quest'ultima, «estranei nel Paese natio, erano per di più incapaci di riconoscersi nell'uno o nell'altro dei due grandi partiti socialisti. Per loro era la stessa cosa prendere a bersaglio Adolf Hitler oppure un qualsiasi malcapitato ministro socialdemocratico». Infine, il parlamentarismo rimaneva, a destra come a sinistra, un corpo estraneo.

A questo proposito, in Febbraio 1933 Wittstock riporta le parole con cui, all'indomani della nomina di Hitler, il commediografo George Kaiser liquida le preoccupazioni del suo editore: «Un club di bowling cambia la sua presidenza», ovvero «il teatrino di quart'ordine della politica fa parte degli aspetti seccanti della realtà che lui finge di non vedere».

Non è il solo a non vedere, meglio a non capire. Thomas Mann cade nello stesso errore, con un'aggravante che è insieme una scusante. Prima della guerra le sue Considerazioni di un impolitico sono state il manifesto della Kultur tedesca contro la Zivilisation cosmopolita, la specificità e per certi versi la superiorità della Germania rispetto alle altre culture e ai loro valori, democrazia inclusa. Ha cambiato idea all'indomani della sconfitta, ma, come scrive Wittstock, «per ragioni politiche più che estetiche». Era rimasto inorridito «dalla violenza nazionalista dei primi anni del dopoguerra, che aveva provocato assassinii e tentati colpi di Stato». Da qui una sua riscoperta del «nucleo dell'idea democratico-repubblicana, ovvero la risoluzione pacifica dei conflitti, tramite compromessi», un germanesimo da lui inteso come «liberale nel senso più umanitario, mite nella sua civiltà, dignitoso nel suo amore per la patria».

In quel febbraio del 1933 ha tenuto a Monaco la sua grande conferenza su «Dolore e grandezza di Richard Wagner», dove lo ha definito «un socialista, un utopista culturale», persino «un bolscevico della cultura, come oggi sarebbe detto»... Due mesi dopo, quando Hitler ha ormai in mano i pieni poteri, tutto questo gli viene rinfacciato in una lettera aperta firmata fra gli altri da Richard Strauss e Hans Pfitzner che in fondo lo rimbeccano con le sue stesse idee dei tempi della Considerazioni di un impolitico... Nel chiuso del suo studio, davanti alle pagine del suo diario, Mann si interroga su come e quanto sia possibile andare d'accordo con quello che è ora il nuovo regime al potere: «La rivolta contro l'elemento ebraico potrei capirla entro certi limiti, se l'elemento tedesco non ritenesse così allarmante l'aver perso il controllo a causa dello spirito ebraico, e se i fanatici del carattere tedesco non fossero così stupidi da gettare uno come me nella stessa risma, cacciandomi insieme agli ebrei».

Quell'«uno come me» è una spia interessante per cercare di capire sia l'iniziale cecità di fronte all'hitlerismo, sia la lenta quanto contorta presa d'atto, fra compromessi, viltà e eroismi, di ciò che esso andava via via rappresentando. Nessuno l'ha detto meglio di Martin Niemöller, che era un teologo e un uomo di punta della Bekennede Kirche luterana, la cui religiosità suonava come una sfida al nazismo, ma che era stato nella Grande guerra un valoroso comandante di sottomarini, poi un membro dei Corpi franchi, infine un iniziale sostenitore del regime. Sino al 1937 tutto ciò lo aveva protetto, poi anche per lui si aprirono le porte del lager. La poesia-preghiera di Niemöller recita: «Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo. /Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».

In Febbraio 1933 emergono con grande chiarezza due cose. La prima è l'altissimo tasso di violenza politica che percorre quel mese. Giorno per giorno Uwe Wittstock stila una sorta di bollettino dei caduti in risse, agguati, regolamenti di conti, manifestazioni politiche. A spanne, mettendo da parte i feriti, gravi e non gravi, gli sfortunati passanti, qualche caso di semplice malavita, restano sul terreno 21 nazisti e 27 fra comunisti e socialisti, in media più di un omicidio politico al giorno. L'altra cosa è l'estrema quanto rapida spietatezza con cui Hitler prende il potere. Lo fa dall'interno, svuotandolo legalmente: ha imparato la lezione, rispetto al suo fallito putsch di un decennio prima, lezione di cui invece i comunisti della precedente e altrettanto fallita insurrezione spartachista non hanno fatto tesoro.

Degli esuli di quell'anno e degli anni seguenti, Wittstock dà conto in rapide biografie finali. Curiosamente, ma non troppo, quelli più a sinistra, Grosz, Brecht, Ernst Toller, Erwin Piscator, preferirono Roosevelt a Stalin, ovvero il capitalismo al comunismo. Sarà così anche per l'intera famiglia Mann, anche se poi il suo capostipite, Thomas, opterà nel dopoguerra per la Svizzera. Wittstock dà anche conto di alcuni di quelli che rimasero, Gottfried Benn, Carl von Ossietzky, Ricarda Huch, per fare solo i nomi di chi da quel non partire non ricevette onori, ma dolori. Quello della cosiddetta «emigrazione interna» è un tema che esula da questo libro, e però è un tema fondamentale per capire gli scrittori e la Germania dell'epoca.

Chi ne voglia sapere di più deve leggere il saggio di Marino Freschi Germania 1933-1945: l'emigrazione interna nel Terzo Reich (Aragno, 2019), esemplare nel dare conto di questo amore «radicato» per la terra tedesca e per la lingua materna e fondamentale per il recupero di grandi scrittori ingiustamente dimenticati: Hans Carossa, Ernst Wiechert, Stefan Andres, tutti rappresentativi, oltre che di una «catastrofe» tedesca, di un destino tedesco.

I Viaggi.

Il Levriero dei mari.

Charles Lindbergh.

La "Gustloff"

La Warrimo.

Il Levriero dei mari.

"C'è la guerra": così il Levriero dei mari si inabissò per sempre. Storia di Francesca Bernasconi su Il Giornale il 4 Marzo 2023.

Era il transatlantico più veloce dell’Oceano. Una leggenda dei mari, lunga 240 metri, con una stazza che superava le 30mila tonnellate e con una capienza di oltre duemila persone. Ma alle acque irlandesi bastarono 18 minuti per inghiottirla, dopo che lo scafo venne colpito da un siluro del sommergibile tedesco U-20. Fu la fine del Lusitania.

Il "Levriero dei mari"

Costruito nei cantieri navali scozzesi, il transatlantico era di proprietà della Cunard Line, la più prestigiosa compagnia di navigazione britannica. I lavori iniziarono nel giugno del 1904, per terminare due anni dopo: il varo della nave infatti risale al 6 giugno 1906.

Multistrato

Il Lusitania era lungo poco meno di 240 metri e largo quasi 27. Un gigante con una stazza di 31.550 tonnellate, pronto a solcare gli oceani, per portare i suoi passeggeri da un estremo all’altro del mondo. La sua grandezza gli permetteva di accogliere a bordo 2.198 persone, che occupavano tre classi, oltre a 850 membri dell’equipaggio. Le sue dimensioni e le sue capacità lo resero il transatlantico più grande mai costruito.

Ma non solo. La sua velocità non aveva pari: l'imbarcazione poteva navigare a una velocità di 27 nodi, corrispondenti a circa 46 chilometri all'ora. Il viaggio inaugurale del Lusitania si tenne nel 1907. Partita il 7 settembre, al suo primo viaggio la nave concluse la traversata in tempi record: solamente sei giorni dopo, il 13 settembre, arrivò a New York. Era la nave più veloce mai costruita.

Sempre nel 1907 il Lusitania ottenne un altro primato, come transatlantico più rapido nella traversata dall’Atlantico verso Ovest: conquistò il premio Nastro Azzurro, un riconoscimento attribuito alla nave passeggeri che deteneva il record di velocità media di attraversamento dell’Oceano Atlantico senza scali. Per altri quattro anni il Lusitania migliorò il suo stesso tempo, restando l’imbarcazione più rapida dei mari. Questa caratteristica le valse l’appellativo di “Levriero del mare”. Solo nel 1909, il transatlantico perse il suo primato, superato dal Mauritania, un’altra imbarcazione della Cunard.

La Prima guerra mondiale

La storia (e la fine) del Lusitania si intreccia con le vicissitudini storiche di quegli anni, durante i quali prima l’Europa e poi l’America precipitarono nella Prima guerra mondiale. Gli inglesi, bisognosi dei continui contributi americani, avevano deciso di armare anche le navi civili.

Per questo, spiegò l’allora Primo Lord dell’ammiragliato Winston Churchill nel libro The World Crisis 1911-1918, citato dal podcast L’affondamento del Lusitania, trappola in mare?, nel febbraio 1913 vennero avviati i preparativi presenti nei documenti con i quali la Cunard aveva accettato di mettere la propria flotta a disposizione della Marina Militare. Così, il Lusitania venne dotato di supporti girevoli su ogni ponte, per permettere l’installazione di diversi cannoni, in modo da scoraggiare gli U-Boot da possibili attacchi di superficie. I tedeschi infatti sospettavano la presenza di materiale bellico sulle navi passeggeri che giungevano in Europa.

A quel punto, i tedeschi partitono con la cosiddetta guerra sottomarina. Ma queste azioni comportavano non pochi rischi, perché la scarsa visibilità dell’obiettivo poteva indurre i tedeschi a confondere mercantili neutrali per navi britanniche, scatenando un’eventuale reazione di nazioni rimaste fuori dalla guerra, in particolare della potenza americana. Per scongiurare un intervento degli Stati Uniti, l’ambasciata tedesca fece pubblicare un comunicato stampa sui giornali statunitensi.

Il 22 aprile 1915 il New York Herald riportò la comunicazione: "Ai viaggiatori che intendono intraprendere la traversata atlantica si ricorda che tra la Germania e la Gran Bretagna esiste uno stato di guerra - recitava il comunicato - Si ricorda che la zona di guerra comprende le acque adiacenti alla Gran Bretagna e che, in conformità di un preavviso formale da parte del Governo Tedesco, le imbarcazioni battenti la bandiera della Gran Bretagna o di uno qualsiasi dei suoi alleati sono passabili di distruzione una volta entrati in quelle stesse acqua". Un avvertimento che non bastò a scoraggiare il Lusitania a compiere, dopo oltre duecento traversate, il suo ultimo viaggio.

Gli ultimi 18 minuti

Il primo maggio 1915 il porto di New York brulicava di persone. L’imbarco sul Lusitania era stato fissato per quella mattina: il transatlantico avrebbe fatto rotta per Liverpool. A bordo salirono circa 1960 persone. Poi la nave prese il mare, sotto la guida del capitano William Turner. Per scongiurare il rischio di eventuali attacchi tedeschi, la nave avrebbe dovuto essere scortata da un incrociatore britannico, Juno. Ma il 5 maggio il Juno ricevette l’ordine di abbandonare la missione di scorta. Nel frattempo un sottomarino tedesco, l’U-20, stava percorrendo la costa occidentale dell’Irlanda.

Dopo sei giorni di navigazione, il 7 maggio 1915, il Lusitania arrivò in vista delle coste irlandesi. Alle 14.10, a dieci miglia dal promontorio del Old Head of Kinsale, il Lusitania incontrò l’U-20. Un siluro, sparato dal sommergibile, colpì il transatlantico a dritta, causando il repentino allagamento di alcune parti della nave e il suo inclinamento a destra. Difficile, nelle condizioni in cui si trovava il transatlantico, calare le scialuppe sul lato sinistro. Intanto la nave si inabissava sempre di più: la prua, completamente sommersa, stava trascinando con sé tutto lo scafo. Poco dopo anche la poppa si immerse completamente. Il tutto avvenne in una manciata di minuti. Intorno alle 14 il Lusitania era stato colpito da un siluro dell’U-20. Solamente 18 minuti dopo, il mare lo aveva trascinato sul fondo.

Sei scialuppe riuscirono a raggiungere la riva, portando in salvo 761 sopravvissuti. Nei giorni successivi, si iniziarono a contare le vittime: 1198 ufficialmente, alle quali vanno aggiunte tre infiltrati tedeschi, che erano stati inviati sul Lusitania allo scopo di individuare la presenza di materiale bellico.

Quello terminato il 7 maggio 1915 fu l’ultimo viaggio del Lusitania, che divenne il primo transatlantico civile andato perso durante la Prima guerra mondiale. Il Levriero dei mari, che aveva battuto tutti i primati di velocità all’inizio del Novecento, giaceva ormai sul fondo del mare.

Charles Lindbergh.

Charles Lindbergh, un'elica sopra l’Atlantico. Paolo Lazzari il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

Nel 1927 l’aviatore di origini svedesi raccolse la sfida lanciata dall’imprenditore Raymond Orteig: da New York a Parigi senza scalo

pensarci bene l’impresa non è così peregrina. Lui l’ha accolto nel suo hotel conficcato nel bel mezzo del Greenwich Village per esporgliela. Si erano già visti altre volte, ma adesso si tratta di stringere. Lì, nella lower Manhattan, luccicano gli abiti dei newyorchesi bene, abbinati a qualche faccia da smargiasso. E, in fondo, una bella dose di sfrontatezza devono averla in vena entrambi, per immaginare una sfida del genere. Che poi sarebbe trasvolare l’Atlantico per la prima volta in solitaria. Dalla grande mela a Parigi, con un monoelica. Venticinquemila verdoni in palio, l’equivalente del munifico premio Orteig, cognome di Raymond, il filantropo che gli siede davanti. Mai nemmeno pensata una roba del genere. Tazze di caffè fumanti. Polpastrelli che trafiggono la condensa. Charles Lindbergh accetta. Il sogno è già decollato.

Un pazzo volante

Del resto il nostro, origini svedesi e certificato di nascita con su impresso “Detroit - 4 febbraio 1902” non è esattamente la persona più misurata del mondo. I compagni di aeronautica, per dirne una, gli hanno appiccicato un soprannome aderente alla sua verve: “Pazzo volante”, lo chiamano. Piroette, passaggi a raso, ribaltamenti. Certo, ma questa è tutta un’altra cosa. Lui però fa spallucce. Non sbadiglia, ma poco ci manca. Supponenza o incoscienza? Magari nessuna delle due.

Lo Spirit of Saint Louis

Se Charles sprizza sicumera da ogni poro un altro motivo c’è. Il suo destriero volante gli trasmette sentimenti confortanti. Faccenda di clangori californiani. L’ha costruito la Ryan Airlines. Giunture metalliche indefettibili e motore da 240 cavalli di potenza ad alimentare l’unica elica. Un monoplano ad ala alta, a tutti gli effetti. Il nome è evocativo: Spirit of Saint Louis. E oggi, che è il 20 maggio 1927, Lindbergh ci si infila dentro senza indugio, per iniziare un lento rullaggio sulla pista dell’aeroporto Roosvelt Field, qualche manciata di chilometri da New York City.

Un’impresa temeraria

Va bene tutto, d’accordo, ma la sfida resta potenzialmente intrisa di uno spiacevole retrogusto kamikaze. Da solo per tutto quelle miglia. Con un solo motore a disposizione. Senza scalo. Senza riposo. Con condizioni meteo che possono sbriciolare ogni convinzione pregressa nel tempo di un amen. Appare oggettivamente più una scommessa col destino che un tentativo lucido. Gesti apotropaici in sequenza nell’abitacolo. Menagrami e allibratori da tutto il mondo si attaccano alla radio. Portatori di iattura e dispensatori di buona sorte. Charles non si lascia distrarre, ma sa che un singolo tentennamento può equivalere alla morte.

Lindbergh riscrive la storia

Sono le 7,52 in punto del 20 maggio 1927 quando il monoplano si stacca dal suolo americano, per iniziare a fendere le nubi. Mezzo mondo trattiene il fiato. I più tesi sono ovviamente gli statunitensi e i francesi, ma ogni casa in grado di sintonizzarsi sulla stazione giusta è pervasa da una curiosità malandrina. La trasvolata è lunghissima: 33 ore e mezza. Charles si fa sentire in radio di quando in quando, mentre solca a debita distanza quei flutti tumultuosi. Il meteo regge. L’apparecchiatura non fa cilecca. La sera del 21 maggio 1927 lo Spirit of Saint Louis appare come un’incisione miracolosa nei cieli parigini. Atterra sulla pista dello Champs Bourget alle 22,54. Il mondo intero esulta. Orteig si fruga volentieri. Lui alza la mano in segno di vittoria. Onorificenze dalla Casa Bianca, Legion d’Onore dalla Francia. Un Pulitzer per la sua biografia e la copertina di uomo dell’anno sul Time. A volte bisogna essere pazzi per volare oltre i recinti del destino.

Storia d'assalto. L'affondamento della "Gustloff", disastri e misteri che portano a Hitler. Quella Gustloff è un disastro navale rimasto celato. Eppure l'Operazione Annibale poteva esser paragonata all'evacuazione di Dunkerque, per non parlare del mistero legato a uno dei più grandi tesori trafugati dai sicari di Hitler. Davide Bartoccini il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

30 gennaio 1945. Sono da poco passate le nove di sera quando la Wilhelm Gustloff, transatlantico di lusso del Terzo Reich convertito a nave ospedale con diecimila passeggeri a bordo - per la maggior parte sfollati in fuga dall’Armata Rossa, feriti di guerra, giovani allievi e ausiliarie - viene messa a fuoco nel periscopio di un sottomarino sovietico che affiora dalle gelide acque del Baltico. La rotta del vecchio transatlantico di lusso - voluto dal Partito Nazionalsocialista come ammiraglia di una flotta di navi che organizzassero pionieristiche crociere alla portata del volk, il popolo - prevede un ultimo disperato viaggio verso la Danimarca ancora occupata dai nazisti, dopo dove aver lasciato la baia di Danzica battuta dall’artiglieria e dai cacciabombardieri sovietici che avanzavamo in Pomerania.

Per il comandante del sottomarino sovietico, il capitano di corvetta Alexander Marinesko che riceverà postumo l’encomio di “Eroe dell’Unione Sovietica”, non è importante se si tratti di un convoglio mercantile o di una nave ospedale. Ci sono troppi conti da regolare e vendette da riscuotere. L’ordine quindi è di lanciare immediatamente una salva di siluri contro la nave illuminata e sicuramente nemica. E così avviene. Dai tubi di lancio dello S-13, sottomarino classe Srednyaya, partono tre tubi d’acciaio carichi di esplosivo che tagliano ghiaccio e onde, centrando la nave che qualcuno aveva descritto come “l'arca di Noè” per tutti i tedeschi che si erano messi in fuga dalla vendetta. Da lì a un’ora si sarebbe consumato uno dei più gravi e meno noti disastri marittimi della storia.

Una tragedia dimenticata

L’affondamento della Wilhelm Gustloff, non meno tragico di quello Titanic o del più simile siluramento delle navi bianche italiane come del famoso Lusitania, è rimasto nascosto o segregato per decenni, sebbene i pochi superstiti abbiano offerto le loro testimonianze, raccontato storie atroci e non dissimili da quelle narrate dopo le tragedie che riguardarono i più celebri transatlantici scomparsi negli abissi.

Quando i siluri lanciati dal sottomarino sovietico che sorpresero il transatlantico - che ormai si sentiva quasi al sicuro fuori dallo stretto di Danzica - colpirono lo scafo nella sezione degli alloggi per l'equipaggio, dell'area della piscina che ospitava i membri dell'Ausiliario navale femminile, e quelli della sala macchine infliggendo “colpi fatali” per il suo galleggiamento, apparve immediatamente chiaro che non c’erano abbastanza scialuppe di salvataggio. Quella nave, infatti, era in origine pensata per trasportare meno di duemila passeggeri. A bordo erano invece 8.956 rifugiati, 918 tra ufficiali e membri della 2°Unterseeboot-Lehrdivision (allievi destinati al servizio sui sommergibili, ndr), 373 donne delle Unità Ausiliarie, 173 uomini delle forze navali, e 162 soldati feriti. Per un totale di quelle che si stimarono essere almeno 10.582 anime.

Tra le parti danneggiate, quelle con i sostegni ghiacciati alla temperatura ampiamente sotto lo zero, molti passeggeri rimasti senza altra scelta si getteranno nel Baltico con una temperatura al di sotto degli 0° centigradi. Morendo per annegamento o per ipotermia. Si narra di uomini che ancora con la fascia con la svastica al braccio, assassinarono moglie e figli prima di rivolgere contro se stessi la propria pistola - per evitare ai loro cari il trauma del gelo e della morte comunque certa.

Quando le navi militari chiamate in soccorso arriveranno sul posto - nonostante corressero l'ovvio rischio di diventare obiettivi da affondare - troveranno la nave inclinata sul lato sinistro, con il lato di dritta ormai sommerso e il 90% dei passeggeri che avevano già perso la vita in appena un'ora. Circa mille anime verranno salvate.

Una nave della speranza sotto il simbolo della svastica

La Wilhelm Gustloff, varata dalla Kraft durch Freude nel 1938 col sua stazza di 25.000 tonnellate, venne intitolata all’omonimo “martire” che secondo il Partito Nazionalsocialista sarebbe rimasto "nei ranghi degli immortali martiri del Reich", rimase nella storia come uno degli sfortunati convogli della speranza che intrapresero il loro ultimo viaggio nel freddo gennaio del '45. Quando era diventata, al parti di altre, mezzo necessario al un massiccio piano d’evacuazione che doveva portare in salvo attraverso il Baltico civili, soldati e tonnellate di carichi del più vario genere: dai militari ai beni governativi e privati.

Tra le più grandi operazione di questo genere mai tentante nella storia, l’operazione che prese il nome in codice “Annibale” rappresentava l’unica possibilità di salvezza per sfuggire all’avanzata delle truppe dell’Armata Rossa comandata dal generale Ivan Chernyakhovsky. Benché fosse “vietato” fuggire dalla Germania fino a poco tempo prima, l’ammiraglio tedesco Karl Dönitz - comandante in capo della Kriegsmarine - fu abilitato a pianificare e mettere in opera un’evacuazione di grandi dimensioni in stile Dunkerque. Per un periodo di 15 settimane, oltre mille navi di tutti i tipi, dalle navi da guerra a semplici pescherecci, trasportarono tra gli 800.000 e i 900.000 civili tedeschi e 350.000 soldati attraverso il Mar Baltico nella speranza di potersi riorganizzare e mettere in salvo i civili.

Lupi sovietici a caccia di convogli superstiti

Quale che fosse il piano, le unità della marina sovietica erano ormai in attesa di ogni tipo di naviglio tedesco sorpreso a incrociare la loro rotta, decise a non lasciare il passo in virtù della feroce guerra che si era combattuta per più di quattro anni sul Fronte orientale. La Gustloff non sarebbe stata infatti l'unica nave affondata nel Baltico nel corso dell’Operazione Annibale. Alcune settimane dopo, anche la Generale von Steuben venne colata a picco, sempre per mano del sottomarino S-13 comandando da Marinesko, portando sul fondo del Baltico oltre tremila passeggeri. In primavera, fu il tragico turno della Goya con altri settemila passeggeri, la Cap Arcona sarebbe stato affondato degli inglesi mentre aveva a bordo 4.500 prigionieri dei campi di concentramento.

Ma ciò che ha interessato maggiormente gli storici negli ultimi tempi è l’affondamento del piroscafo Karlsruhe, salpato nell’aprile del ‘45 da Königsberg con un carico di diverse centinaia di tonnellate di merci e 1.083 passeggeri tedeschi in fuga da Prussia e Pomerania. Il cui relitto è stato individuato a settantacinque anni dalla sua sparizione tra i flutti del Baltico.

Tale interesse è strettamente legato all’ipotesi avanzata da alcuni cacciatori di tesori, convinti che esso possa custodire in alcuni forzieri individuati nelle vicinanze della sua stiva i famosi pannelli della Camera d’Ambra: tesoro russo d’inestimabile valore saccheggiato dai nazisti durante l’assedio di Stalingrado e scomparso misteriosamente dal 1945.

Questa ipotesi nasce dal “particolare” assortimento del carico - che comprese dai mezzi militari, effetti personali di uomini evidentemente facoltosi, come porcellane, insieme a numerosi bauli dal contenuto tutt’ora ignoto. Di qui il sospetto di alcuni fantasioso che i forzieri possano contenere i pannelli d’oro della Stanza d’Ambra, trafugati dal Palazzo di Caterina per mano del Heeresgruppe Nord e dei “cacciatori di tesori” sguinzagliati da Hitler. Inviati a Königsberg, dove già si pensava di ricostruire la Stanza d’ambra e per essere messa in mostra come trofeo di guerra. Fecero perdere le loro tracce dopo una serie di pesanti incursioni lanciate dai bombardieri britannici che martellavano con le loro bombe incendiarie i principali centri della Germania come "rappresaglia" intesa a fiaccare il morale di una popolazione già stremata. E ovviamente, come vendetta per i bombardamenti perpetrati sul Londra.

Perché ciò che si evince da questi tragici eventi, che videro navi convoglio non armate, bombardate e silurate dagli Alleati senza tenere alcun conto del loro carico - come della possibilità che trasportassero al loro interno civili e sfollati - non fa altro che ricordarci come la guerra moderna non conceda quartiere al nemico: sia per ragioni strategiche o di pura vendetta. Fu proprio il terrore della vendetta, per resocontato nei libri di storia di sconfitti e collaborazionisti, a spiegare quanto incise il timore di finire sotto l'oppressione dei sovietici, spingendo al massimo rischio quei tanti che trovarono la morte in mare mentre speravano, fino all'ultimo, di riuscire a mettersi in salvo da ciò che il führer aveva iniziato tra gli applausi scroscianti delle folle, incapaci d'immaginare quale atroce devastazione avrebbe serbato il futuro.

Storia d'assalto. La strana storia della Warrimo, il piroscafo che "viaggiò" nel tempo. Probabilmente affascinato dai racconti di Jules Verne e Mark Twain, un capitano australiano portò sulla linea immaginaria dell'Equatore un piroscafo alla mezzanotte di fine secolo. Davide Bartoccini il 12 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È possibile viaggiare indietro nel tempo o addirittura trovarsi in due secoli diversi? Essenzialmente no. Eppure un particolare accadimento, registrato su un vecchio diario di bordo reso celebre dalle cronache, potrebbe darci lo spunto per ribaltare le certezze delle nostre risposte.

Era la notte del 31 dicembre 1899 quando la SS Warrimo, piroscafo australiano in linea con la New Zealand & Australian Steamship Company, si dirigeva sulle acque calme dell'Oceano Pacifico, a metà della sua rotta che dal Canada lo avrebbe ricondotto a Sydney. Varato nei cantieri navali della vecchia Inghilterra, lungo 105 metri e capace di ospitare passeggeri e carichi che necessitavano la refrigerazione, la Warrimo era al comando del capitano John D. S Phillips, abile ed esperto navigatore che voleva in qualche modo “sfidare il tempo”, forse dopo aver saputo che lo scrittore Mark Twain, autore di Seguendo l'Equatore, aveva scritto qualche battuta a riguardo proprio mentre si trovava a bordo della sua nave.

A pochi giri di orologio dalla mezzanotte infatti, pare che Phillips attendesse sul ponte le informative del primo ufficiale F. J Bayldon, cui era stato comandato di calcolare in punto stellare per portare la nave, impegnata a tenere la sua rotta, su una particolare coordinata. Il risultato, ottenuto attraverso una serie di calcoli che almeno noi uomini di terraferma o acque dolci non possiamo comprendere con semplicità, si basava sulle ore precedenti. Ma considerata la direzione, la velocità sostenuta e ogni variabile del caso, fu sufficiente a contentare il capitano che, intento a fumare un sigaro mentre nel salone interno si era a un passo dal festeggiare l’arrivo nel “nuovo anno”, si apprestava a entrare singolarmente nella storia. Phillips si era reso conto, infatti, che data la posizione raggiunta dalla nave era possibile, manovrando come si conveniva, oltrepassare l’Equatore in corrispondenza della “linea di cambiamento di data” proprio allo scoccare della mezzanotte. Facendo in modo che la sua nave - ufficialmente territorio australiano - si trovasse contemporaneamente e dunque nello stesso tempo “in due giorni, mesi, stagioni e anni diversi, ma soprattutto in due secoli diversi”.

Comunicata la “prodezza” ai suoi ufficiali, diede disposizioni affinché in plancia ci si preparasse a manovrare in modo da mantenere il più a lungo possibile la nave in questa singolare condizione “spazio temporale”. Fu così che a cavallo tra il 1899 e il 1900, il piroscafo Warrimo ,governato dall’eccentrico capitano della marina mercantile australiana, si ritrovò a incrociare il meridiano 180° E/W tra le isole Ellice e Phoenix- ovvero sulla linea “immaginaria” del cambiamento di data istituita nel 1884. E valse, almeno della tradizione romanzesca, la vittoria della scommessa accettata dal Phileas Fogg nel celeberrimo romanzo di Jules Verne Il giro del mondo in 80 giorni. Allo stesso tempo, la prua della Warrimo era di fatto nell’emisfero australe, dunque nella stagione estiva, mentre la sua poppa, appena centocinque metri più distante, la seguiva dall'emisfero boreale, dunque nella stagione invernale. Così, mentre nella sezione di poppa formalmente era il 31 dicembre del 1899, a 105 metri o poco meno si festeggiava il primo giorno di gennaio del 1900 (anche se formalmente l'inizio del XX secolo venne festeggiato il 1° gennaio del 1901, ndr).

La singolare avventura da "Golden Shellback" del capitano Phillips e della Warrimo - gli shellback sono nelle tradizione anglosassone i marinai divenuti per rito "figli di Nettuno" dopo aver attraversato l'Equatore - finì per stabilire un record che ha fatto epoca. Benché non essenzialmente dimostrabile data la rudimentale strumentazione di quel periodo storico. E questo nonostante il segreto di quella notte sia stato custodito gelosamente da Phillips e dai suoi fino agli anni della pensione.

Solo nel 1942, quando la Warrimo - convertita durante la Prima guerra mondiale in nave per il trasporto truppe - riposava già da un pezzo sul fondo del Mediterraneo accanto al cacciatorpediniere francese Catapulte che, urtandola, l'aveva affondata con l'esplosione delle sue cariche di profondità nel 1918, un giornalista canadese dell'Ottawa Journal andò a fare visita al capitano Phillips per riportare alla luce quella strano viaggio di fine secolo. Raccontando al mondo come era stato possibile "viaggiare nel tempo", pur potendo contare su una velocità massima di appena 14 nodi e mezzo.

Gli scontri tra Oriente e Occidente.

L'ultimo "lampo" di Napoleone. Storia di Andrea Muratore il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il 30 marzo 1814 le forze della coalizione avversa a Napoleone Bonaparte, reduci dalla vittoria di Lipsia l'anno precedente, entrarono a Parigi accelerando la fine dell'epopea del Corso. L'impero proclamato solennemente il 2 dicembre 1804 e plasmato col sangue e il sacrificio di centinaia di migliaia di uomini, ma anche con ideali di libertà e emancipazione portati in tutta Europa, collassò in pochi giorni e si avviò, dopo il Trattato di Fontaineblau, verso un precipitoso declino. A cui avrebbe fatto seguito, come ultima coda, la fugace parabola dei Cento Giorni del 1815 conclusasi a Waterloo.

La rapida dissipazione del potere napoleonico seguito a quell'evento e la vittoria di forze soverchianti contro una Francia che aveva subito i contraccolpi della sciagurata invasione della Russia del 1812 cancellarono nella memoria storica quella che fu, paradossalmente, la più vittoriosa delle campagne di Napoleone, almeno sul fronte dei risultati ottenuti fatto salvo il rapporto di forze con i nemici. La campagna del Nord-Est della Francia del 1814 fu paragonabile alle grandi epopee rivoluzionarie di resistenza alle monarchie europee ai tempi di Valmy, valorizzò il fiuto strategico di Napoleone e lo condusse di vittoria in vittoria.

Ma Bonaparte dimenticò i precetti di Sun Tzu sul fatto che il grande stratega è colui che, in fin dei conti, vince senza scendere in battaglia. E così per il novero soverchiante delle forze e l'assedio su più lati, alla fine una serie di vittorie tattiche non evitarono una sconfitta strategica. Napoleone, comprese le furerie e i reparti logistici, poteva contare su 80mila uomini. Al suo fianco alcuni dei più bei nomi dell'epopea militare del decennio precedente: Michel Ney, figura di tragica grandezza; Louis Alexandre Berhier, vincitore di Wagram e capo di Stato Maggiore dal 1812; Nicolas Oudinot, veterano di Austerlitz. Contro, le forze di Russia, Austria, Prussia, Svezia e diversi alleati minori, dalla Sassonia ai Paesi Bassi, per un totale di circa 350-400mila soldati schierati su tre colonne. L'austriaco Karl Philipp Schwarzenberg, con metà delle forze, avanzava da Sud, mentre da Est e da Nord avanzavano prussiani, russi e svedesi guidati da Carlo Giovanni di Svezia, già maresciallo dell'Impero come Jean-Baptiste Bernadotte, e dai marescialli prussiani Gebhard von Blucher e Friedrich Wilhelm von Bülow. Al seguito, anche lo zar Alessandro I di Russia, desideroso della vittoria definitiva dopo la cacciata del Corso dal suo Paese.

Napoleone, contro queste armate convergenti, si mosse come fulmine di guerra per ritardare l'inevitabile. Le truppe della Vecchia Guardia, i coscritti delle leve 1814 e 1815 chiamati in anticipo e le poche truppe straniere fedeli all'Impero combatterono, dopo il passaggio nemico del Reno, nelle terre che un secolo dopo sarebbero state teatro della Grande Guerra. Le valli della Mosella e della Marna, ben conosciute dai veterani francesi, furono teatro della battaglia di retroguardia di Napoleone. Alla testa delle sue truppe, forse cercando un'eroica morte sul campo in patria, Napoleone colpì il 28 gennaio i prussiani a Brienne, fu costretto dal gelo a concedere l'occupazione di Troyes, travolse i russi a Champaubert il 10 febbraio, un contingente russo-prussiano guidato dai generali Osten-Sacken e Yorck a Montmirail il giorno successivo e cercò di anticipare, una settimana dopo, il ricongiungimento con la colossale colonna austriaca guidata da Schwarzenberg.

Quest'ultimo affrontò Napoleone a Mormant, tra la Senna e la Marna, il 17 febbraio 1814. Napoleone schierò l'intera Vecchia Guardia contro i corpi d'armata dell'Impero Austriaco. Il muro di fuoco dei fucilieri francesi infranse le cariche nemiche, i cannoni in fuoco incrociato fecero strage delle truppe di Vienna e 3mila austriaci restarono sul campo. Napoleone aveva nella sua difesa in profondità fermato un altro assalto. Tutte queste battaglie erano però accomunate da un dato di fatto: il Corso doveva gettarsi muovendo a marce forzate le sue truppe sempre più stanche contro singole unità o corpi separati delle forze nemiche, evitando con disperazione che esse unissero le loro forze. Ma la tecnica poteva essere solo dilatatoria.

A Monterau, il giorno dopo Mormant, gli austriaci furono di nuovo respinti e Napoleone colpì, il 21 febbraio a Mery-sur-Seine. Sei vittorie in un mese avrebbero inchiodato qualsiasi invasore, ma non quello preponderante numericamente della Sesta Coalizione, ben rifornito via mare dal Regno Unito e con una solida retrovia. Oltre che - ovviamente - in controllo del fattore più importante: il tempo. Napoleone non poteva essere ovunque, le città francesi cadevano comunque per mano delle colonne rimaste indisturbate dai rapidi movimenti di fronte. Mentre Bonaparte conduceva con sé il grosso delle sue armate, le giovani reclute di guarnigione indietreggiavano non ingaggiando i nemici. Così cadde una delle principali città di Francia, Reims, che Napoleone riconquistò il 13 marzo. A Bonaparte erano però rimasti meno di 40mila uomini. Quattro giorni prima, a Laon, per la prima volta i francesi erano stati colpiti da un'armata unita, prussiana in questo caso, in netta superiorità numerica. 85mila prussiani respinsero ogni tentativo nemico di incunearsi nel loro fronte. Del resto, combattevano contro soli 35mila francesi: Napoleone si ritirò combattendo, riconquistando come detto Reims, ma il tempo giocava a suo sfavore.

Mancato il successo definitivo, ovvero il flop politico della coalizione, la più rapida e vittoriosa delle guerre di Bonaparte ebbe il canto del cigno ad Arcis-sur-Aube, vicina Parigi, tra il 20 e il 21 marzo, quando Oudinot dovette ritirarsi di fronte a Schwarzenberg. Napoleone tentò l'ultima difesa ordinando alla cavalleria di disturbare le linee logistiche degli alleati, che però piuttosto che disperdere le sue truppe, ridotte a 25-30mila, scelsero di conquistare il gioiello più prezioso: Parigi. La capitale dell'Impero era ritenuta strategicamente non decisiva. Ma l'ingresso di russi e prussiani fu uno choc per tutti i residui fedeli di Napoleone.

Il 30 marzo ci fu l'entrata in forze. Il 31 marzo i pochi combattimenti cessarono. Il 6 aprile Napoleone era caduto: firmò il Trattato di Fontaineblau, accettando il temporaneo esilio all'Elba prima del colpo di coda dei Cento Giorni. I principi Metternich e Nesselrode per Austria e Russia confezionarono una pace onorevole, che però non nascondeva la realtà dei fatti: Napoleone era sconfitto dopo una sequela inevitabile di vittorie. A testimonianza del trionfo degli obiettivi politici su quelli militari in un Impero francese ormai al tramonto.

Come sarebbe andata la storia se non ci fosse stato Adolph Hitler? O se gli Usa avessero sganciato un’atomica sulla Germania. Oppure se non fosse caduto il muro di Berlino. Una mostra sulle “sliding doors” che hanno cambiato il mondo. Stefano Vastano su L’Espresso il 28 Febbraio 2023.

Qualcosa dentro di noi ci spinge ad immaginare la storia umana come un congegno ad orologeria. Le componenti sono i cosiddetti “fatti storici”, tutti connessi fra loro e in movimento. «Questa visione della storia come un meccanismo lineare e puntato a una meta è falsa, e soprattutto controproducente», inizia a dire lo storico Dan Diner introducendoci alla mostra che ha curato al Deutsches Historisches Museum di Berlino. La mostra si intitola “Roads not taken”. Sottotitolo: “Ovvero: come tutto sarebbe potuto accadere diversamente”. E in quattordici tappe, dal novembre 1989 in cui crolla il Muro di Berlino, illustra come si sarebbero potuti svolgere altrimenti gli ultimi 150 anni di storia tedesca.

«Il primo effetto della mostra», specifica Diner, «è spiazzare il visitatore, che si aspetta nell’esposizione un filo cronologico». E invece no: dalle prime foto e documenti dei cortei di protesta a Lipsia e Berlino, nell’autunno 1989, andiamo all’indietro agli anni del 1968 e di Willy Brandt; e poi più giù ancora, sino ai moti rivoluzionari del 1848. Ogni passaggio è diviso in due parti, per farci intravedere, accanto a ciò che è stato, come i fatti si sarebbero anche potuti svolgere.

Ad esempio: se nel novembre 1989 il regime della Ddr non avesse aperto il Muro, ma seguito la linea dura cinese, e cioè la repressione della rivolta come sulla piazza di Tienanmen? «La repressione delle proteste a Lipsia e Berlino era già programmata dal regime della Ddr», ricorda Diner, «e a Berlino est avevano già dato l’ordine di distribuire le munizioni ai soldati». Basta grattare un po’ la superficie degli eventi per scoprirne i punti casuali e di svolta in cui «tutta la situazione», spiega Diner, che ha insegnato storia all’università di Gerusalemme e di Lipsia, «sarebbe potuta configurarsi diversamente». In realtà sono solo le nostre paure che ci portano a pensare al futuro come a una catena di fatti. «Ma da questa mostra sulla storia tedesca emerge come al fondo degli eventi ci sia sempre tanta contingenza», precisa Diner. Prendiamo i due passaggi che Diner - di cui Bollati ha di recente pubblicato “Tutta un’altra guerra”, la seconda guerra mondiale vista dalla Palestina ebraica - considera i più densi. L’8 maggio 1945, il giorno in cui i nazisti firmano la capitolazione incondizionata. «Il piano degli americani era di sganciare la prima bomba atomica sul centro industriale di Ludwigshafen», racconta lo storico: «Ancora oggi i tedeschi nutrono una paura della bomba atomica come nessun altro popolo in Europa».

Quel maggio del 1945 è uno dei momenti-limite in cui si percepisce davvero quel che sarebbe potuto accadere - in questo caso, la distruzione atomica della Germania - se non si fosse giunti alla capitolazione. L’altro momento decisivo è l’attentato a Hitler, organizzato ma non riuscito, dal colonnello von Stauffenberg il 20 luglio del 1944. «Nella mostra non si vedono grandi immagini dell’Olocausto», dice Diner. «Mi sono concentrato sull’attentato del 20 luglio per far vedere che a quella data la distruzione degli ebrei in Europa era già avvenuta».

Nei momenti più intensi della storia non cogliere l’opzione, o agire tardi può causare effetti disastrosi per l’umanità. «Volevo scuotere il senso del visitatore per la storia», insiste Diner, «far vedere come la contingenza e quindi la possibilità di alternative siano sempre aperte e siano atti di volontà politica». Nulla meglio, o forse peggio del momento più nero della storia tedesca, il 30 gennaio 1933, l’istante in cui Hitler sale al potere a Berlino, mostra come opera la contingenza nella storia. Con vari grafici e film rivediamo in mostra l’enorme tsunami della crisi mondiale, innestato dal crac alla Borsa di New York nell’ottobre 1929.

«Ma non dimentichiamo che sino al 1929 Hitler era solo un’attrazione bavarese e in Germania non contava nulla», spiega Diner. Cosa ha portato il caporale austriaco nel giro di tre anni a conquistare il potere? I documenti esposti spiegano le disastrose conseguenze della crisi globale negli ultimi anni di Weimar. L’esercito di 6 milioni di disoccupati in Germania. L’inflazione che straccia la valuta tedesca e i risparmi del ceto medio. «Ma ancora nel dicembre del 1932 il partito di Hitler era dilaniato da tensioni e in piena crisi finanziaria, e Hitler minacciò di risolvere i problemi in tre minuti, suicidandosi con un colpo di pistola». Come annotò Goebbels, futuro ministro della propaganda del Terzo Reich, l’avvento al potere del ’33 fu «ein Wunder», un miracolo. Ma una specie di miracolo è anche la metamorfosi nel dopoguerra dei tedeschi - almeno quelli dell’Ovest - a partire dall’era Adenauer. Sino a trasformarsi oggi nella prima potenza economica e nell’ancora della stabilità politica in Europa.

Tutte queste svolte della storia tedesca ci fanno toccare con mano come i cosiddetti fatti storici «non siano legati da nessuna finalità prefissata», conclude Diner.

«Negli eventi è in gioco la libertà e la responsabilità politica che dobbiamo assumerci di fronte alle vie della storia». Ed è questo il “fantasma”, come lo chiama Diner, che aleggia per la sua mostra. «Il fantasma è chiaramente l’Europa dell’est. Cosa stiamo facendo oggi, nel 21° secolo, per evitare che l’Europa dell’est riprecipiti nella barbarie del nazionalismo più gretto e reazionario del ventesimo secolo?». Ecco perché comprendere il senso della storia è importante e aiuta ad assumersi le proprie responsabilità: per evitare la catastrofe che incombe sull’Ucraina.

Ernst Jünger e il "nodo" dell'incontro-scontro tra Oriente e Occidente. La sfida archetipica segna tutta la storia della civiltà: sempre in bilico, mai risolta. Marino Freschi su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Erano passati quattordici anni, non molti, eppure era tutta un'altra storia. Nel 1939 usciva Sulle scogliere di marmo il romanzo simbolico di Ernst Jünger, uno dei racconti più intensi della letteratura del primo Novecento, un puro capolavoro. Nel 1953 lo scrittore pubblica un saggio inquietante e nel medesimo tempo un classico: Il nodo di Gordio, che suscitò una vivace discussione intellettuale. In mezzo c'erano state la guerra, la catastrofe tedesca, la vergogna tedesca, la sconfitta di tutta l'Europa, con i russi a Berlino, pronti ad avanzare ancora: la bandiera rossa sventolava sprezzante sulle rovine del Reichstag «millenario». A pochi metri il bunker sotterraneo con il corpo carbonizzato del Führer. Ernst Jünger era stato coinvolto nell'attentato fallito a Hitler del 20 luglio del 1944. Il suo nome venne depennato dalla lista dei condannati a morte dallo stesso Führer. Lo scrittore dovette immediatamente abbandonare Parigi, sparire in un villaggio tedesco. Con l'arrivo degli alleati fu sottoposto alle aspre pratiche di denazificazione, consistenti per lui nel divieto di pubblicare, che venne ritirato nel 1953. Nello stesso anno usciva un saggio sorprendentemente affine di A. Toynbeee: The world and the West; si era pronti a riaprire una grande discussione sulle rovine dell'Occidente.

La Germania di Jünger era un campo di macerie materiali e ancor più morali e spirituale, il figlio morto in combattimento sulle Alpi Apuane, vittima forse di fuoco amico in quanto dissidente del regime. Malgrado tanto dolore, il saggio Il nodo di Gordio è perfetto come un bassorilievo greco di travolgente bellezza stilistica e densità intellettuale: si avverte già dall'incipit la mano dell'artista e del pensatore. «Oriente e Occidente: negli avvenimenti mondiali questo incontro non è soltanto di primaria importanza, ma rivendica un'importanza tutta particolare. Fornisce il filo conduttore della storia, l'inclinazione dell'asse rispetto all'orbita solare. Balenando sin dagli albori, i suoi motivi si dipanano fino ai nostri giorni. Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull'antico palcoscenico e recitano l'antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena».

La visione è nitida e riconosce gli antichi attori: i Sarmati, i Persiani, i Tartari, le masse enormi dei popoli dell'Asia, e dall'altro parte i valorosi spartani, greci, romani, crociati e templari: Oriente e Occidente. A leggere oggi quelle pagine di settant'anni fa il pensiero riconosce le tracce visibili della storia negli attacchi notturni dei nuovi Sarmati sugli operosi villaggi della Vodolia, della Galizia fino alle «rive del Dnipro, Muro di Berlino che spezza l'Ucraina» (titolo del quotidiano La Repubblica), mentre Massimo Cacciari apre il primo numero dell'anno de La Stampa con un articolo in sorprendente consonanza con l'intuizione storico-mitica di Jünger: «L'Occidente che non riesce a sciogliere i nodi di Gordio», ma con una curvatura irenica che non è certo la prospettiva di Jünger, la cui forte impressione mitica fa riapparire gli archetipi dello scontro epocale tra due civiltà, tra due antropologie, tra due etnologie. Riaffiora, in Jünger, la grande tradizione culturale tedesca, quella che con Nietzsche aveva fondato l'antinomia cultural-spirituale tra apollineo e dionisiaco che con Thomas Mann e Oswald Spengler si era precisata nel contrasto fondante tra Kultur e Zivilisation, tra spirito e democrazia. Le radici intellettuali di Jünger risalivano al monumentale Matriarcato di J. J. Bachhofen del 1861 in cui il regno, oscuro delle madri è contrapposto al dorico, apollineo sorgere degli Dei luminosi dell'Olimpo, già intuito dai Veda. Il sigillo oriente-occidente era stato affrontato, dalla prospettiva tradizionale, da Réne Guénon nel 1924 in un saggio d'immensa risonanza. In realtà il contrasto era apparente: l'Occidente evocato dal pensatore tradizionalista francese era privo del fulgore olimpio scolpito da Jünger nel suo saggio, cui rispose nel 1955 Carl Schmitt, replica che a appare in appendice a Il nodo di Gordio jüngeriano. Oggi il libro è ripubblicato da Adelphi insieme a un utilissimo aggiornamento sull'intera discussione a cura di Giovanni Gurisatti (che ha anche tradotto con Alessandro Stavru i saggi dei due maestri tedeschi).

Con Il nodo di Gordio Jünger torna alla classica grandezza stilistica delle Scogliere di marmo: nel saggio il mondo confuso barbarico, oscuro, «asiatico» del Forestaro - il principe del caos del romanzo - incarna il polo dell'Oriente, quello di una umanità senza la luce della coscienza, a cui la civiltà d'Occidente è pervenuta con immensi sforzi, ché la storia nulla regala: «Per dimostrare che lo spirito libero domina il mondo si paga il prezzo più alto. Questa è la prova che dev'essere superata nel sacrificio. Con essa bisogna mostrare che il libero governo è superiore ai dispotismi, che i liberi combattenti pesano più delle masse e che le loro armi sono meglio congegnate e di più lunga gittata. Si arriva così ai momenti di svolta, nei quali gli spiriti si gettano nella mischia. Eserciti immensi vengono affrontati, incalzati nelle valli, nelle sacche, nelle gole, ricacciati nei mari o negli stretti. I superstiti fuggono, i loro capi si danno la morte in foreste e deserti». Lo scontro diventa epocale, tra i valori della luce e le forze ctonie dell'oscurità, tra la cultura della forma contro l'amorfo. Il sacrificio di Leonida segna non solo un evento bellico, ma un'illuminazione, l'epifania di un nuovo splendore della coscienza: in questo contesto la lotta si sublima in un evento grandioso, epocale: «Adoperata in questo modo la spada è spirituale; è lo strumento di una decisione libera e risolutiva».

A leggere oggi questo saggio insieme con la risposta di Schmitt - si viene travolti dalla lucente bellezza di ogni classica memoria, ma anche dalla sua travolgente attualità. Pare ma è così! - che l'Occidente sia chiamato a difendere, ancora una volta, la sua identità storica, la sua libertà, sulle mugghianti rive del Dnipro nella reiterazione dell'epocale scontro tra civiltà. Tutto è ancora in bilico, nulla è ancora perduto se l'Occidente saprà elevare al sole i propri vessilli di libertà, ritrovare i valori della propria cultura, e tagliare con decisione l'eterno nodo di Gordio: nell'intramontabile mito «compare un principio spirituale in grado di disporre in modo nuovo e più pregnante del tempo e dello spazio».

"Il Nodo di Gordio", Junger e Schmitt raccontano il rapporto tra Occidente e Oriente. Jünger e Schmitt scrivono un saggio attuale sul rapporto tra Occidente e Oriente, fermandosi più volte sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" evocata dal presidente Usa Joe Biden. "Per la storiografia occidentale l'atto di arbitrio è inconciliabile con la dignità del monarca". Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Tabella dei contenuti

 Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio

 Il rapporto tra Occidente e Oriente

Il Nodo di Gordio, proprio come il nodo che stringeva il giogo al timone del carro consacrato da Gordio a Zeus nel suo tempio, e che Alessandro Magno nel 334 a. C. troncò con un colpo netto di spada, ottenendo così il dominio dell’Asia e del mondo, così come predicava un'antica profezia. Ma Il Nodo di Gordio è anche un'opera monumentale di Ernst Jünger, pubblicata per la prima volta nel 1953, dopo la Seconda guerra mondiale e in piena Guerra Fredda, a cui due anni dopo replicava con uno scritto altrettanto intenso l'amico Carl Schmitt. È un'opera che riflette sulla natura del rapporto-scontro fra Oriente e Occidente.

"Questo incontro", scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma "rivendica di per sé un’importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia". Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: "Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull’antico palcoscenico e recitano l’antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena".

Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio

"Il Nodo di Gordio" è stato recentemente ripubblicato dalla Piccola Biblioteca Adelphi con gli scritti originali di Jünger e Schmitt, in un'edizione curata da Giovanni Gurisatti. Saggio fondamentale che è stato raccontato e sviscerato nei suoi punti focali - in occasione di una serata svoltasi lo scorso 28 gennaio al Teatro di Pergine Valsugana (Tn) e organizzata dall'omonimo think-tank - dallo storico Franco Cardini. "La spada è un elemento risolutivo, anche nel suo uso militare. Si usa la spada per stabilire chi vince e chi perde. La spada di Artù dall'incudine, dalla pietra, o dall'albero in cui è infitta, secondo le varianti della leggenda arturiana, è uno strumento che indica il modo in cui l'ordine mondiale sarà ristabilito. Chi estrae la spada è un eletto a ristabilire l'ordine in uno stato di disordine. Il Nodo di Gordio è esattamente la stessa cosa. È un nodo fra due apici di una corda che serve ad aggogiare due bui o due tori ad un aratro, ma il nodo è così intricato che non si può sciogliere".

Alessandro, ha spiegato, "fa una scelta: risolve, non sciogliendo il nodo con pazienza, ma con un taglio netto della spada, ottenendo un risultato, ma a un prezzo. Perché una sezione della corda viene rovinata da questo gesto". Così si ritrova, ha continuato Cardini durante la serata organizzata dal think-tank Il Nodo di Gordio, "sospeso tra l'Oriente e l'Occidente, fra l'Europa e l'Asia". Alessandro, ha sottolineato lo storico incalzato da Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano, "non è considerato un greco dai greci. È considerato un greco dai persiani, e risolve il problema del loro rapporto con un taglio netto e dando avvio a un sistema di governo nuovo".

Il rapporto tra Occidente e Oriente

L'attualità dei due saggi di Jünger e Schmitt sul rapporto fra Occidente e Oriente, sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" più volte evocata - con una buona dose di retorica - dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è impressionante. Per la storiografia occidentale, scrive Jünger, l'atto di arbitrio è "inconciliabile con la dignità del monarca", e getta come un'ombra sul carattere di quei pochi cui viene attribuito il titolo di "grande". E ancora: il filosofo tedesco sottolinea come in Oriente l'atto di arbitrio "non pregiudica la grandezza di un principe", ma ne è piuttosto la conferma.

In Oriente è del "tutto nella norma che durante un banchetto Alessandro uccida Clito", che gli aveva salvato la vita. La sentenza del principe "ha valore sia che derivi da una ponderata riflessione", sia che provenga da una vampata di collera. Nel pensiero occidentale e nella relativa storiografia l'atto di arbitrio, soprattutto quando si manifesta in modo brutale, osserva Jünger, "viene considerato una macchia". Anche quando mira al bene, alla giustizia, "come nella lotta contro il drago, getta un'ombra sull'impresa".

A tal proposito, scrive Carl Schmitt commentando l'opera dell'amico, quando si parla di "Nodo di Gordio" ci si immagina perlopiù un groviglio confuso. Il gesto di Alessandro Magno sarebbe stato quello di sciogliere il groviglio, e in modo semplice - pericolosamente semplice - decisionistico: "con un colpo di spada". Ma il libro di Jünger, come spiega bene Schmitt, non rappresenta una condanna del mondo orientale e un'esaltazione occidentalistica: "In realtà -osserva -il libro di Jünger non fa che parlare di polarità e transizione. La sua conclusione non è un aut-aut, ma un et-et, un incontro reciproco, un bussare alla porta, uno scambio e un equilibrio, un ritorno nell'eterno nel tempo e un accenno alle recondite risposte che spettano all'Oriente". Perché senza aver letto questo libro fondamentale, difficilmente si può comprendere il complesso rapporto tra Oriente e Occidente. Scritto 70 anni fa, questo saggio si presenta oggi come un classico: senza tempo.

Il "miracolo" che salvò Federico il Grande. 1759 e 1762: due volte Federico II di Prussia fu salvato dal fato durante la Guerra dei sette anni. E poté così difendere Berlino e il suo regno. Andrea Muratore il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.

Prussia, anno del Signore 1759: Federico II di Prussia è un sovrano sconfitto e prossimo al tracollo. Russi e austriaci assediano il suo Stato, la capitale Berlino rischia una doppia offensiva convergente, il sovrano ha visto il suo esercito dimezzato. Nel pieno della Guerra dei Sette Anni scoppiata per le dispute austro-prussiane per la Slesia la Prussia era vicina al completo annientamento e l'antico Ducato di Brandeburgo promosso a regno invaso nel pieno del suo territorio.

Sconfitto a Kunersdorf il 12 agosto 1759, forte di un esercito che si era dimezzato a meno di 20mila uomini e poté essere rimpinguato a 30mila solo grazie alla milizia territoriale, Federico II era arrivato a considerare l'ipotesi di cercare la "bella morte" qualora russi e austriaci avessero assediato Berlino. Ma Vienna e San Pietroburgo divergono sull'obiettivo strategico. Temono la battaglia campale diretta, si ritirano e non passano l'Oder. La capitale è salva, Federico può riorganizzare le sue truppe e dare vita a quel sentimento militare prussiano che sarebbe stato per un secolo il motore dell'unificazione tedesca.

Federico II si sentì come "miracolato" e riorganizzò le truppe. Il sovrano l'anno successivo riuscì a colpire gli eserciti austriaci divisi dalle colonne russe battendoli nella battaglia di Torgau in dicembre. Il sostegno inglese via mare garantì rifornimenti di armi, ma l'anno successivo la caduta di Kolberg, unico porto del sovrano, aprì una nuova fase di disperazione per Federico II. A cui favore però intervenne una nuova fatalità. Nelle prime settimane del 1762 un'acerrima nemica di Federico, la zarina Elisabetta, morì. Il trono dei Romanov passò al suo successore Pietro III, in passato principe e diplomatico che aveva conosciuto il re di Prussia e non desiderava il suo annientamento. Con le truppe russe alle porte di Berlino, Pietro III aprì trattative con la Prussia. Il trattato di pace firmato a San Pietroburgo il 5 maggio 1762 dal cancelliere russo Michail Illarionovič Voroncov e dall'inviato prussiano barone Wilhelm Bernhard von der Golt sanciva la restituzione alla Prussia dei territori occupati da San Pietroburgo in cambio di un impegno della casata di Brandeburgo a non attaccare l'impero zarista. In più la corte dei Romanov guidò la mediazione con la Svezia, che firmò due settimane dopo il Trattato di Amburgo.

"Ogni mia balla di fieno, sacco di soldi o lotto di reclute possono giungere solo per gentile concessione del nemico o per sua negligenza", scriveva Federico II nel suo diario poco prima di questo evento da lui considerato un secondo miracolo. L'evento fu un game-changer nella guerra. Pietro III arrivò a paventare un ribaltamento delle alleanze contro l'imperatrice d'Austria Maria Teresa, ma fu assassinato pochi mesi dopo l'ascesa al trono nella congiura indetta dalla futura zarina Caterina II.

A luglio, a Burkesdorf, Federico II sconfisse e fermò gli austriaci. La guerra scivolò dal rischio-disastro a una sostanziale impasse. Risoltasi l'anno dopo, per la debacle francese contro gli inglesi nelle colonie, in un negoziato complessivo che costituiva un vero e proprio spartiacque nel Trattato di Parigi. Federico conservava la Prussia integra, manteneva la Slesia e soprattutto fu riconosciuto come sovrano di valore da Maria Teresa e Caterina II. Con le quali, nove anni dopo, operò la spartizione di un terzo della Polonia, atto d'inizio dell'espansionismo orientale della Prussia. Federico II, memore dell'esperienza bellica, andò riorganizzando la Prussia come Stato-caserma, militarista e assertivo. Per tutti sarebbe stato "Federico il Grande", primo padre della Germania un secolo in anticipo su Bismarck che evitò che potenze esterne finissero per cancellare il regno futuro unificatore del Paese dalle carte geografiche.

La sua memoria sarebbe arrivata ai drammatici giorni del "Crepuscolo degli Dei" nel 1945. Adolf Hitler invocò un nuovo "miracolo del Brandeburgo" quando, con i russi alle porte di Berlino, il 12 aprile 1945 gli giunse la notizia della morte di Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti. Molti gerarchi nazisti, da Joseph Goebbels a Heinrich Himmler, pensavano che la morte di Roosevelt potesse aprire a un rovesciamento di fronte anticomunista e unire occidentali e nazisti contro Stalin. Una prospettiva irrealizzabile a cui solo i tedeschi vicini al redde rationem potevano credere.

La storia andò come sappiamo: Berlino occupata, la Germania nazista debellata, Hitler suicida nel suo bunker, Goebbels Fuhrer per un giorno prima di seguirlo dopo aver ucciso i figli assieme alla moglie Magda, Himmler ultimo a togliersi la vita dei tre dopo l'arresto ad opera degli Alleati e l'estremo tentativo di presentarsi come baluardo anticomunista. Nel nibelungico "Crepuscolo degli Dei" i nazisti si rivolsero a Federico il Grande, padre di un militarismo che moriva col Terzo Reich. Il quale, spingendolo alle estreme conseguenze, aveva distrutto l'eredità del Miracolo del 1759-1762 che aveva salvato la Prussia.

La nascita del Nazismo.

I "cento giorni" che chiusero la Grande Guerra. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 22 settembre 2023.

L'offensiva dei cento giorni, sviluppatasi tra agosto e novembre 1918, fu l'ultimo, rilevante e decisivo fatto che spinse alla conclusione la Prima guerra mondiale sul fronte occidentale. Spesso nel ricordo della Grande Guerra si tende a dimenticare che la lunga guerra di posizione tra la Germania da un lato e l'Intesa dall'altro ebbe, infine, una risoluzione militare con la rottura del fronte. E che dunque l'Impero tedesco fu battuto sul campo prima dell'armistizio firmato all'undicesima ora dell'undicesimo mese dell'undicesimo giorno, il fatidico 11 novembre 1918.

Nelle stesse terre al confine tra Francia, Belgio e attuale Germania ove si consumarono i "cento giorni" napoleonici un secolo prima le truppe dell'Intesa guidate dal comandante supremo francese Ferdinand Foch e aventi come comandanti operativi sul campo il maresciallo Philippe Pétain, il generale britannico Douglas Haig e quello americano John Pershing sfondarono nel settore che tanti lutti aveva portato ai due contendenti: il saliente tra la Somme e Amiens dove era stata riassorbita l'ultima grande offensiva di primavera della Germania.

L'8 agosto 1918 le truppe britanniche, americane, francesi, canadesi ed australiane assaltarono proprio questa zona riuscendo a creare una breccia nella battaglia di Amiens, la cui rapida conclusione ribaltò in poche ore anni di sanguinosi combattimenti corpo a corpo nelle trincee del Nord della Francia e portò il comandante del fronte occidentale tedesco, generale Erich Ludendorf, a parlare del "giorno nero" dell'esercito tedesco. Il morale delle truppe germaniche, unito a quello della popolazione civile fiaccata dal durissimo blocco navale britannico che danneggiava la prospettiva di resistenza della popolazione, era a terra.

Video correlato: La guerra dei mondi (Mediaset)

In Piccardia in pochi giorni l'Intesa conquistò diverse decine di chilometri. E si poté vedere all'opera la capacità di sostegno alla fanteria dei carri armati, che colpirono in profondità le difese tedesche. L'esercito di Berlino, forte di 2 milioni di uomini schierati da Basilea al Mare del Nord, non sembrava dar segno di collasso imminente e provò a trincerarsi dietro le fortificazioni della cosiddetta "linea Hindenburg", un enorme complesso di nidi di mitragliatrice, bunker, postazioni d'artiglieria e rilievi blindati che copriva la quasi totalità del fronte da Aisne ad Arras, in Belgio. Nel frattempo, pochi giorni dopo Amiens i britannici, col ruolo decisivo di canadesi e australiani, sfondarono sulla Somme avanzando di 55 km a Ferragosto e di altri 12 nella settimana successiva. In pochi giorni, insomma, l'Intesa aveva cancellato nel migliore dei casi (per i tedeschi) tutti i guadagni territoriali dell'offensiva di primavera delle truppe del Kaiser. In alcuni punti era andata vicina a riconquistare i territori occupati dalla Germania dal 1914.

Dietro la linea Hindenburg le truppe tedesche rifiatarono alcune settimane ma sul fronte l'offensiva di Foch non si fermò: puntate logoranti di canadesi e australiani fiaccavano il morale delle armate della Germania; sulla Somme le città di Albert e Bapaume furono riconquistate il 22 e 29 agosto dai britannici; gli americani colpivano più a Nord, con Pershing che mise pienamente in campo il potenziale umano della sua armata. Mentre nuove truppe continuavano a fluire verso l'Europa dal Regno Unito, dai dominion britannici, dal fronte mediorientale ormai messo in sicurezza e dall'America, Foch preparava l'azione decisiva che sarebbe partita in quattro giorni nel Nord della Francia e in Belgio.

Quattro dei cento giorni assurgono, col senno di poi, a date decisive per la risoluzione dell'offensiva e dunque della Grande Guerra. Il 26 settembre cominciò l'offensiva condotta dagli americani di Pershing che si muovevano lungo il corso del fiume Mosa nella regione collinosa e ben trincerata delle Argonne; il 27 i britannici si mossero lungo il corso del Canale del Nord collegante i fiumi Oise e Schelda e aprendo un saliente nella regione di Dunkerque, in Alta Francia, e due giorni dopo nella stessa regione assieme alle truppe di Parigi puntarono le città di Cambrai e San Quintino; in mezzo, il 28 settembre i francesi sostenuti dai belgi di Re Alberto operarono una grande offensiva nelle Fiandre.

Fu l'inizio della marea che sommerse le truppe tedesche, i cui comandanti militari avevano colto tutta la criticità del momento, non riuscendo però a trovare una soluzione militare a un conflitto che avevano, duramente, esasperato anno dopo anno esautorando l'autorità politica. Quelli furono i giorni della rotte per la Germania, specie mentre nella zona circostante a Cambrai con la pressione decisiva dei canadesi distintisi come genieri e inauguratori della grande offensiva le truppe di Londra travolgevano le difese delle armate del Kaiser, causando di fatto a cascata rallentamenti su ogni fronte. Tra il 29 settembre e il 9 ottobre nei settori di Cambrai e San Quintino la linea Hindenburg collassò sull'onda della marea umana dell'Intesa e della scelta britannica di arrivare alle estreme conseguenze con il primo, decisivo, uso di bombe all'iprite da parte delle truppe di Sua Maestà. Un controverso bombardamento di 5.200 proiettili all'iprite, il 29 settembre, inaugurò un'offensiva che si rivelò decisiva mentre sulla Mosa e le Argonne i franco-americani tenevano sotto scacco, avanzando, le possibili riserve che la Germania poteva spostare. Con la rottura della linea Hindenburg, i tedeschi provarono a ricostruire le difese sulla Selle, ma furono inseguiti dagli alleati iniziando una seria di rese a cascata che portò in pochi giorni, a inizio ottobre, alla cattura di 200mila prigionieri da parte dell'Intesa.

La Selle fu superata il 20 ottobre, e tra Francia e Belgio fu riconquistato tutto il territorio sull'asse Metz-Bruges che forniva alla Germania la retrovia strategica. Intanto nel Paese il Kaiser Guglielmo II fuggiva in Olanda, mentre divampava la rivoluzione e la rivolta contro la conduzione della guerra. La sconfitta era politica, militare, morale: tanti, a partire dal generale presente in quella campagna, Ludendorff, lo avrebbero poi strumentalmente dimenticato ai tempi dell'ascesa del nazismo, rilanciando il mito della "Pugnalata alle spalle". L'epilogo è noto. La rotta tedesca si concluse con l'armistizio di Compiègne l'11 novembre 1918. I cento giorni che avevano chiuso la Grande Guerra si compirono quel giorno. L'Intesa in tre mesi aveva subito circa 250-300mila morti e oltre un milione di perdite complessive contando feriti e dispersi. Le perdite tedesche erano state inferiori sul piano materiale, come capitava in termini generali durante la Grande Guerra a chi lottava in difesa: 200mila morti circa, 785mila contando feriti e dispersi. Ma poco meno di 400mila uomini si erano arresi alle truppe alleate in avanzata. Come si evince dai numeri, anche gli ultimi cento giorni furono, nonostante la guerra di movimento, un vero e proprio carnaio. Destinato a creare strascichi morali e sentimenti di rivalsa. Tali da rendere l'armistizio di Compiegne e la successiva pace di Versailles non una garanzia di ordine ma una tregua ventennale per l'Europa.  Il Giornale

Perdere la pace. Il giorno in cui finì la grande guerra (e cominciò la successiva). Jay Winter su L'Inkiesta il 24 Luglio 2023.

Un trattato annuncia la fine delle ostilità fra gli Stati, ma non la fine delle violenze o dei risentimenti. A Losanna il 24 luglio 1923 si disinnescarono alcuni conflitti, ma si innescarono nuove ostilità. Di fatto venne introdotta nel diritto internazionale una definizione di cittadinanza basata sulla religione

Il modo migliore per valutare le molteplici conseguenze del trattato di Losanna è rifarsi a uno degli slogan semplificatori di Lenin: Losanna fu un passo in avanti, e molti passi indietro. Un successo controverso, quindi, e dai molti lati oscuri. Il passo in avanti fu evidente, all’epoca: il trattato pose formalmente fine sia alla guerra scoppiata nel 1914 in Medio Oriente sia a quella greco-turca del 1919-1922.

Questo è ciò che la carta del trattato diceva, anche se si potrebbe aggiungere che Losanna segnò anche la conclusione dei conflitti scoppiati nel 1912, se non prima. Dal luglio del 1923 a oggi i confini fra i due Stati sono rimasti invariati. [….] E tuttavia, sotto almeno tre aspetti Losanna lasciò un’eredità negativa che avrebbe segnato da quel momento in avanti il mondo delle relazioni internazionali, imprimendo il sigillo della legalità alla cancellazione dalle carte geografiche dello Stato armeno stabilito dal trattato di Sèvres. […]

In secondo luogo, il trattato di Losanna si rivelò catastrofico per la Società delle Nazioni. Lo scambio forzato di popolazioni deciso il 30 gennaio 1923 – il cardine dell’intero trattato – evidenziò le macroscopiche debolezze della Società quale attore politico per la difesa delle minoranze. Come ha messo in luce Carole Fink, si trattava potenzialmente di una novità rivoluzionaria, ma un ruolo reale di questa nuova istituzione venne vanificato in ultima istanza dalle grandi potenze, che privarono il Consiglio della Società delle Nazioni della facoltà di imporre a uno Stato l’obbedienza alle sue raccomandazioni. […]

Carole Fink ci ha mostrato come, nell’approccio della Società delle Nazioni ai diritti delle minoranze, il pragmatismo si sostituì alla giustizia. È possibile che si sia trattato di un esito inevitabile: gli Stati fecero ciò che vollero coi diritti delle minoranze, e quando ritennero che rispettandoli non avrebbero ricavato nulla si limitarono a ignorarli […]. La Società delle Nazioni offriva dei suggerimenti, ma la decisione finale spettava agli Stati. […]

Losanna mise a nudo l’inconsistenza della Società delle Nazioni in quanto attore politico nell’ordine internazionale postbellico (in campo sociale ed economico, al contrario, l’organizzazione acquistò importanza). Losanna non era Ginevra: la sovranità assoluta degli Stati rimase il fondamento delle relazioni internazionali. L’atteggiamento italiano nel corso della crisi di Corfù fu un clamoroso schiaffo all’autorità della Società e le grandi potenze rimasero a guardare senza muovere un dito. […]

Nel 1914 un assassinio aveva condotto a un ultimatum impossibile da accettare e quindi respinto da una delle parti in causa, la Serbia. Nel 1923 la storia si ripeté, ma questa volta toccò alla Grecia rivestire il ruolo di infelice oggetto di pretese inaccettabili (che, peraltro, anch’essa respinse). Certo, la crisi dell’estate del 1923 fu in qualche modo gestita, o contenuta, ma le grandi potenze ritennero che negoziare direttamente con Mussolini senza ricorrere agli uffici della Società delle Nazioni fosse la via migliore da seguire per stemperare la crisi. […]

La guerra venne scongiurata, ma il danno inflitto fu considerevole, e con ogni probabilità irreparabile. Il 1923 segnò il debutto dell’appeasement sul palcoscenico mondiale, ben prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo. Nei primi anni della sua attività la Società delle Nazioni ebbe modo di intervenire in maniera decisiva in occasione di dispute internazionali, e lo fece con determinazione, ma soltanto quando le grandi potenze lo ritennero utile al proprio tornaconto.

Questo primato dell’interesse sovrano rispetto alla sicurezza collettiva appare oggi piuttosto scontato. Eppure, la presenza della Società delle Nazioni in qualità di potenziale barriera contro aggressioni e conflitti a livello internazionale fu significativa, al pari di quanto accade oggi con le Nazioni Unite o con la Corte penale internazionale dell’Aia. […]

Una terza eredità di Losanna, negativa oltre ogni ragionevole dubbio, fu il modo in cui l’accordo sullo scambio forzato mise in luce e consolidò quel processo che io – assieme ad altri studiosi – ho chiamato il processo di civilianization della guerra. Forse, avvicinandoci alla conclusione, tornerà utile soffermarci ancora una volta su questa espressione, per renderla quanto più precisa possibile.

I conflitti precedenti erano stati caratterizzati da una tradizione onorata da tempo, che prevedeva lo scambio dei prigionieri di guerra come clausola automatica dei trattati di pace siglati al termine delle ostilità. Nel 1923 accadde invece qualcosa di nuovo e terrificante: la condizione per la cessazione delle ostilità fu uno scambio forzato di civili. Coloro che vennero sradicati dalle proprie abitazioni, in Grecia come in Turchia, erano non combattenti, identificati in base all’appartenenza religiosa e non alle idee politiche, all’identità linguistica, o culturale.

Il precedente stabilito a Losanna fu tossico. Certo, c’è una differenza fra il modo in cui a Losanna fu cancellato il diritto alla cittadinanza di comunità umane ritrovatesi in una zona di guerra, e le azioni che avrebbero compiuto in futuro i nazionalsocialisti. A Losanna si usò la religione e non la razza come requisito per determinare la cittadinanza. È una distinzione importante. Eppure, sancire nel diritto internazionale la definizione di nazionalità su base religiosa […] fu un primo passo in direzione di quel futuro oscuro. […]

Gli Stati che vinsero la guerra del 1914-1918 persero la pace. Come ha osservato Jörn Leonhard, essi furono travolti dalla violenza e dal caos scatenati dal conflitto. Losanna è parte della storia di quell’insuccesso nel dar vita a uno stabile ordine internazionale. La conferenza di pace svoltasi sulle sponde del lago di Ginevra indicò con precisione che l’assetto postbellico costruito dalle vittoriose potenze alleate poteva essere stravolto. Per farlo, un Paese scontento aveva bisogno da un lato di un esercito, e dall’altro della volontà di sondare la debolezza dei vincitori. […]

Il collasso della pace nel 1939 – l’equivalente nella vita reale del crollo del ponte di San Luis Rey – era ancora distante nel tempo, ma lo smantellamento dell’ordine internazionale creato per salvaguardarla aveva avuto inizio molto prima. I difensori di Losanna presentano il trattato come un successo, e in parte hanno ragione. Nulla aveva reso la guerra inevitabile nel 1914, e nulla la avrebbe resa inevitabile nel 1939. Eppure, il trattato del 1923 finì per creare almeno tanti problemi quanti furono quelli che risolse.

Da “Il giorno in cui finì la Grande Guerra” di Jay Winter, il Mulino, 334 pagine, 28 euro.

Il tragico attentato di Sarajevo. La rotta dei tedeschi in Russia. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Luglio 2023.      

«L’Arciduca Ereditario d’Austria e la moglie assassinati mentre ieri, a Seraievo, si recavano ad una festa in loro onore». È il 29 giugno 1914: il giorno prima al «Corriere delle Puglie» è arrivata per telegrafo la tragica notizia che cambia per sempre la storia d’Europa e del mondo intero. Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, Duchessa di Hohenberg, erano appena arrivati a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina: nel 1908, nonostante le tensioni etniche e religiose e le rivendicazioni della vicina Serbia, la regione era stata annessa all’Impero austro-ungarico. Si legge sul quotidiano la cronaca dell’accaduto: «Alle 10 giungeva a Sarajevo l’automobile arciducale. Nella vettura era l’Arciduca in uniforme di feldmaresciallo austriaco e l’Arciduchessa in abito bianca. Ad un tratto si udì una forte esplosione. Una bomba era caduta sull’orlo sinistro dell’automobile ma senza esplodere. Si vide allora l’Arciduca tendere le braccia ed allontanare l’involucro, che precipitò a terra, scoppiando. Ma l’automobile, che andava a notevole velocità, non fu colpita; la coppia principesca rimase illesa, ma alcuni tra la folla, rimasero feriti. L’automobile aveva percorso una settantina di metri quando si udirono secchi alcuni colpi di rivoltella. Dalla folla un giovane, con l’arma spianata verso l’automobile, aveva scaricato tutti i colpi. Si vide nell’automobile l’Arciduca abbandonarsi sui cuscini con il volto rigato di sangue». Il nome del secondo attentatore già compare sul «Corriere»: è il nazionalista serbo Gavrilo Princip, di appena vent’anni. L’assassinio è il culmine di una escalation di tensione tra la Serbia e l’Impero asburgico, che riesce a sfruttare l’occasione per una definitiva resa dei conti. Il 28 luglio l’Imperatore Francesco Giuseppe dichiarerà guerra alla Serbia: sarà solo l’inizio del Primo conflitto mondiale. 

«I russi investono Minsk»: così titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 1° luglio 1944 dando notizia dell’avanzata dell’esercito sovietico e della progressiva disfatta dei tedeschi. Mentre l’Italia centro-settentrionale e l’Europa intera sono ancora immerse nell’incubo del secondo conflitto mondiale, Bari e la Puglia vivono, invece, con la ritirata dell’esercito nazista e l’arrivo degli Alleati, una prima fase di dopoguerra. Riprendono, fin da subito, anche le attività culturali, in gran parte grazie al ruolo svolto da Radio Bari, una delle prime emittenti libere d’Italia, e dalla stampa. In quarta pagina, sulla stessa edizione del quotidiano, scopriamo che al cinema Umberto si proietta Eterna illusione di Frank Capra, mentre al Cineteatro dopolavoro si può assistere a Serenata a Vallechiara con Glenn Miller e Lynn Bari. Al Teatro Piccinni, invece, dopo il grande successo dei giorni precedenti, va di nuovo in scena Piccola città di Thornton Wilder: ad allestire la pièce è la Compagnia italiana di prosa, «un’organizzazione teatrale sorta ad iniziativa di attori e registi profughi nell’Italia liberata», si scrive sulla «Gazzetta». Il capoluogo pugliese, infatti, si rivela in quei mesi rifugio per una grande quantità di sceneggiatori, registi, attori italiani e stranieri – ma anche musicisti e direttori d’orchestra che si esibiscono in concerti sinfonici organizzati dall’Eiar – approdati a Bari dopo esser sfuggiti alla guerra, all’occupazione nemica, ai campi di internamento e di prigionia: costoro, nonostante le precarie condizioni di vita, riescono a dare avvio ad una vera e propria stagione teatrale. La Compagnia è diretta da Gae Petro ed è composta dai registi Alberto Perrini ed Edmondo Cancellieri e da Carlo Bressan, Ubaldo Lai e molti altri attori e attrici, in gran parte ebrei. Tra questi c’è Guido Ferri, pseudonimo di Cesare Polacco, che nel decennio successivo raggiungerà la popolarità con gli sceneggiati Rai ed il celebre Carosello della brillantina Linetti, in cui vestirà i panni dell’ispettore Rock. Il Teatro Piccinni è, in quei mesi del ‘44, un laboratorio culturale, ma anche il luogo in cui decine di artisti possono riacquisire la propria dignità, umana e professionale, in un’Italia e in un’Europa che ancora a lungo avrebbero dovuto patire per ritrovare la pace.

Estratto da repubblica.it il 27 aprile 2023.

L'attore di origine austriaca ed ex governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha ricordato il passato nazista della sua famiglia, che spera possa servire da esempio nella lotta all'antisemitismo, un fenomeno che sembra essere in crescita negli Stati Uniti. In un'intervista alla CNN, la star di Terminator ha fatto riferimento a suo padre, Gustav Schwarzenegger, che era un membro del partito nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. 

"Mio padre, e milioni di altri uomini, sono stati risucchiati in un sistema di odio attraverso bugie e inganni. E abbiamo visto dove porta", ha detto l'attore. "Ho visto di persona quanto quest'uomo fosse distrutto", ha continuato, "il tipo di atrocità che sono accadute. Quanti milioni di persone sono dovute morire e poi sono finite perdenti". Questo "non funziona. Voglio dire, andiamo e andiamo d'accordo. E l'amore è più potente dell'odio", ha detto al network. […]

Democrazia incenerita. L’incendio del Reichstag e i due decreti del febbraio 1933 rimasti in vigore per tutto il regime nazista. Uwe Wittstock su L’Inkiesta il 21 Gennaio 2023.

È bastato un mese al potere perché il neocancelliere Hitler trasformasse la Germania in una dittatura. Una ricostruzione corale di una società letteraria e artistica sull’orlo dell’abisso

Il governo si riunisce al mattino. Hitler prepara i suoi ministri soprattutto a due decreti di emergenza, che vorrebbe far firmare a Hindenburg. Ritiene infatti sia arrivato il momento psicologicamente giusto per una resa dei conti definitiva con la Kpd, che non vuole – come dice apertamente – far dipendere da considerazioni giuridiche. Nessuno dei ministri ha nulla da obiettare.

Dopo la fine della seduta Hitler sottopone a Hindenburg il Decreto del Presidente del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato e il Decreto contro il tradimento del popolo tedesco e le attività sovversive. Hindenburg firma senza esitare.

Il secondo decreto serve anzitutto a introdurre la pena di morte per determinati reati politici. Il primo, di portata assai più vasta, abolisce tutti i principali diritti fondamentali. Da oggi non ci sono più limiti alle prevaricazioni dello Stato. La libertà di parola, di stampa, di associazione e di riunione, il segreto postale e telefonico, l’inviolabilità del domicilio e della proprietà vengono soppresse.

E così i diritti alla libertà personale: d’ora in poi la polizia può arrestare chiunque a proprio piacimento, prolungando il periodo di reclusione illimitatamente e impedendo il contatto del detenuto con la sua famiglia o con un avvocato. In altre parole: entro i confini della Germania chiunque è in balia dell’arbitrio del governo e delle autorità. Il terrore ha la strada spianata.

La soppressione dei diritti fondamentali vale nominalmente solo «fino a nuovo ordine». Ma entrambi i decreti firmati nella giornata di oggi rimarranno in vigore per l’intera durata del regime nazista. Lo Stato di diritto è abolito. Il paragrafo 2 del Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato riconosce inoltre al governo centrale il diritto di assumere i poteri di tutte le regioni del Reich, abolendo con ciò anche il federalismo.

Appena un mese dopo il suo giuramento come cancelliere del Reich, Hitler ha creato così le basi giuridiche fondamentali per detenere il potere assoluto. Per rendere definitivamente superfluo il parlamento non mancava che la Legge dei pieni poteri, varata poche settimane dopo.

In un’intervista per il «Daily Express» inglese viene chiesto a Hitler che cosa c’è di vero nelle voci secondo cui SA e SS starebbero pianificando una carneficina tra i loro avversari politici. Lui risponde divertito: «Non ho bisogno di nessuna notte di San Bartolomeo. Grazie al Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato abbiamo attivato i tribunali, che mettono sotto accusa e processano i nemici dello Stato affinché le congiure abbiano fine una volta per tutte». La dittatura ha inizio.

L’Epoca tra due Guerre.

1923, la Germania in bilico fra Mann, Hitler e "Bambi". Cento anni fa l'Europa iniziò a scivolare nel baratro. Furono mesi di contraddizioni, capolavori e orrori. Marino Freschi il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il 1923 si aprì con un segno nefasto: l'incendio doloso del Goetheanum di Dornach dove Rudolf Steiner tentava di organizzare un singolare centro spirituale, quello della Società Antroposofica, con un tempio in legno con un'ardita e intrigante struttura architettonica, sostituito da una monumentale costruzione in cemento, assai meno «spirituale». Negli stessi mesi a Weimar si stava sviluppando la corrente architettonica più interessante del secolo, il Bauhaus, intorno a Walter Gropius, che culminò in quell'anno con una grande mostra che ha lasciato una memorabile traccia con «Haus am Horn», l'edificio-simbolo progettato da Georg Muche.

Siamo agli inizi della Repubblica di Weimar che era nata sotto la cattiva stella della disfatta del 1918, con la capitolazione dell'esercito ancorché non battuto in battaglia-, con l'abdicazione del Kaiser Wilhelm II e con il fardello insostenibile di ingentissime riparazioni di guerra, imposte alla nuova Repubblica parlamentare dalla Francia e dal Belgio, che, a causa di un ritardo nei pagamenti, occuparono nel 1923 la ricca regione industriale della Ruhr, provocando l'innaturale alleanza tra comunisti e nazisti, scatenando il risentimento dell'intera nazione, che stava dissolvendosi a causa di spinte separatistiche sostenute generosamente e irresponsabilmente dalla Francia. La severità dei vincitori provocò una iperinflazione galoppante. Nel novembre un chilo di pane era giunto a costare 233 miliardi di marchi. Ciò spiega come mai si diffondessero movimenti contro la nuova repubblica, culminati nel putsch dell'8 e 9 novembre a Monaco guidato dal Feldmaresciallo Ludendorff e di fatto da un giovane agitatore politico Adolf Hitler, nato nel 1889 in un paesino austriaco, formatosi a Vienna nei circoli dell'antisemitismo razzista, prima di emigrare in Germania e combattere nell'esercito tedesco. Il colpo di stato questa volta fu represso nel sangue e a Hitler fu inflitta una pena abbastanza mite in un carcere dove scrisse (in realtà: dettò a Rudolf Hess) il Mein Kampf, il testo sacro dell'ideologia nazista e razzista. In prigione rivide la sua prospettiva politica lasciando la fallimentare strategia golpista per un'azione interna alle ampie maglie della democrazia repubblicana. Eppure in quel periodo così turbolento vi erano ancora abbastanza energie per una svolta genuinamente parlamentare segnata dalla nomina a cancelliere di Gustav Stresemann che dal quell'anno fino alla morte nel 1929 diresse la politica estera tedesca, con il progetto di traghettare la Repubblica verso un rafforzamento interno con ampi riconoscimenti internazionali, segnati dal conferimento del Premio Nobel per la Pace nel 1926.

Le sorti della Germania e dell'Europa erano ancora aperte, come prova anche la definitiva stesura in quell'anno della Montagna magica di Thomas Mann (ma pubblicata nel 1924), in cui si evocavano tutte le minacce e le redenzioni ancora possibili, che ritroviamo, in una visione apocalittica nell'opera di Franz Kafka, l'altro grande autore della letteratura tedesca del Novecento, che nel 1923 si era rifugiato a Berlino con la sua giovane compagna Dora Diamant, trovando finalmente la forza di emanciparsi dalla famiglia, dal quel padre cui aveva dedicato la struggente e famosa Lettera al padre. Aveva sbagliato anno: l'immane inflazione lo costrinse a mesi d'incertezza economica e di privazioni immense. Per il freddo di quell'inverno gettò nella stufa i suoi manoscritti e a Dora, che tentava di fermare quell'inutile rogo, prometteva che avrebbe composto nuovi testi inspirati dall'intuizione di una «letteratura della libertà». Non ne ebbe più tempo: morì pochi mesi dopo in un sanatorio vicino Vienna per tubercolosi che si era aggravata irreversibilmente a Berlino. Intanto si stava aprendo un altro scenario della letteratura da parte di un giovane scrittore Bertolt Brecht che alla fine dell'anno metteva in scena il suo primo lavoro teatrale, Baal, pervaso da un urlato atteggiamento espressionista che caratterizzò tutta la prima fase della sua produzione drammaturgica. Il dramma incarnava le angosce e le rivolte di una generazione che non si voleva riconoscere più nella compassata etica borghese della Germania anteguerra, quella guglielmina del Secondo Reich, ma che non aveva ancora trovato una via di uscita dai morsi della disperazione. Per Brecht una prospettiva possibile di salvezza dalla crisi nichilistica di quei tempi cominciò a profilarsi negli anni seguenti con l'adesione, alquanto fideistica, al marxismo-leninismo. Teatralmente l'intuizione era già presente, ancorché appena accennata, nel Lied der Mutter Courage, nella Canzone di Madre Coraggio del 1923, che era il nucleo costitutivo del successivo, omonimo dramma storico-ideologico, uno dei capolavori della drammaturgia del '900. In quello stesso anno Felix Salten, esponente dell'impressionismo viennese con Schnitzler e Hofmannsthal, pubblicò una apologia di Karl Marx e Leo Trotzky, nonché il libro che lo rese famoso: Bambi. Una vita nei boschi, che divenne con il film del 1942 di Walt Disney un successo mondiale. Salten era uno tipo assai curioso: ebreo assimilato, amico di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, era però anche vicino agli ambienti del conservatorismo cattolico, apologeta di Marx, ma anche dello Stato autoritario di Dollfuss. Ma il paradosso più sensazionale è che l'autore di delicate storie di animali come Bambi e Perri, lo scoiattolo è anche (molto probabilmente) l'autore di un bestseller, pubblicato anonimo, della letteratura pornografica, Josefine Mutzenbacher ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa raccontata, che divenne persino un caso giudiziario, per altro ancora aperto: nel 1990 una corte tedesca affermò la possibilità di essere pubblicato e diffuso; un paio di anni dopo un'altra corte tedesca ne limitò la diffusione al solo pubblico adulto, intanto era stato tradotto e ripetutamente oggetto di film. Lo scandalo è che il racconto tematizza con spregiudicatezza la prostituzione infantile e persino l'incesto, quale segno del disorientamento dell'epoca... Un'età, tuttavia, che è ancora ricca di insegnamenti, risorse, contraddizioni, da Mann a Kafka, da Gropius a Hitler, da Steiner a Brecht, da Josefine a Bambi.

Sul baratro. Nella malinconia straziante di Bruno Schulz ci sono i dubbi di un’epoca tra due guerre mondiali. Marina Valensise su L’Inkiesta il 23 Dicembre 2022

L’Europa è un continente spaccato, incombe l’occupazione nazista e un conflitto che durerà per anni. Marina Valensise descrive questo senso di angoscia e scoraggiamento attraverso gli autori più caratteristici delle nazioni coinvolte, da Freud a Moravia ad Anna Achmatova

In Ucraina, a settanta chilometri a sud da Leopoli, Drohobyč respira ancora l’antico splendore multietnico di quando la Galizia orientale era uno dei territori dell’Impero austroungarico, e fra le strade di questa cittadina, propulsa verso il progresso industriale dai giacimenti di gas naturale e di petrolio, si commerciava alacremente, ci si arricchiva spropositatamente, e si soffriva, come anche altrove, per il tramonto dell’aristocratica tradizione della bontà, del bene e della carità, parlando in varie lingue.

Perché qui da secoli vivevano insieme popoli diversi, ebrei, polacchi, ruteni, ucraini, tedeschi. Ma nel giro di vent’anni, dalla fine della Grande guerra, Drohobyč, come l’intera regione, cambiò frontiere varie volte. Dall’imperialregia monarchia ritornò alla Polonia che dopo la Grande guerra aveva ritrovato la sua indipendenza. Nel settembre 1939, quando i tedeschi invasero la Repubblica di Polonia, Drohobyč e il voivodato di Leopoli vennero consegnati dalla Wehrmacht all’Armata rossa e caddero sotto l’amministrazione della repubblica sovietica dell’Ucraina, visto che i russi in base al patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov firmato il mese prima erano all’epoca i loro alleati.

Nel giugno 1941, però, quando Hitler lanciò contro Stalin l’operazione Barbarossa e invase l’Urss, Drohobyč vide smobilitare i sovietici e arrivare i nazisti, che crearono il nuovo distretto della Galizia, confinarono gli ebrei in un immenso ghetto a cielo aperto, per deportarli nel campo di sterminio di Bełżec, finché nel 1944 la città non venne liberata dall’Armata rossa, rientrando così nei confini dell’allora Repubblica Socialista Sovietica Ucraina.

Quando Drohobyč era tornata a essere polacca, Bruno Schulz, nato nel 1892, aveva quasi trent’anni. Era il figlio di un ebreo, commerciante di stoffe, intraprendente e assimilato, che aveva casa e bottega sulla piazza del Mercato. Era un tipo timido, originale, ipersensibile. Un giorno da ragazzo la madre lo trovò in camera sua intento a nutrire con granellini di zucchero le ultime mosche sopravvissute al freddo dell’autunno.

«Ma che fai?» gli domandò. «Le sto irrobustendo per l’inverno». Delicato di costituzione, soffriva di disturbi cardiaci e per una polmonite dovette abbandonare gli studi di architettura a Leopoli. Ma era un artista, un patito di grafica, incisioni e disegni che aveva esposto a più riprese, a Leopoli, Vilna, Varsavia, e nel 1920 aveva persino raccolto in un volume (Xięga bałwochwalcza, «Il libro idolatrico»), facendole passare per le illustrazioni della Venere in pelliccia di Leopold Sacher-Masoch, tanto l’imbarazzava il loro contenuto erotico, con tutte quelle donnine nude lussuriose dalle gambe interminabili, che schiacciavano i loro amanti collassati come schiavi ai loro piedi. […]

Esiliato dalla vita, incapace di accedere all’età adulta, di ottenere un posto di ruolo a Varsavia, masochista impenitente, prigioniero del gineceo della famiglia d’origine tanto da esasperare la fidanzata Józefina, sino a rompere dopo quattro anni di frequentazione, Schulz si rifugiava nell’arte, ricreando la sua infanzia nei disegni e nei racconti. Tanto Kafka era ascetico, quanto lui era estatico. «L’errore di Józef K è di aggrapparsi alla ragione umana, invece di arrendersi senza condizione» scrisse di Kafka. Proprio quello che lui evitava. Disinteressato a Dio, pur animato da un profondo senso etico, era immune dalla morale corrente, come imperativo all’agire umano.

Per questo, secondo Gombrowicz, non gli restava altro che l’arte, alla quale si dedicò con la devozione di uno schiavo e lo zelo fanatico di un monaco prigioniero delle regole del suo ordine, pur di attingere alla perfezione. Anche se Schulz la santità non la toccò mai, sebbene mettesse in pratica il paradosso del peccatore, che escogita torture sempre più orribili per raggiungere la salvezza, perché quanto maggiore è il dolore, tanto maggiore è il divertimento e delizioso è il peccato.

Anche per questo, secondo Gombrowicz, si compiaceva di tutto ciò che lo umiliava, che lo faceva cadere, che lo scaraventava per terra: si avvicinava «all’arte come a un lago, con l’intenzione di annegarvi. Cadendo in ginocchio davanti allo spirito, sperimentò il piacere sensuale. Voleva essere un servitore, e nient’altro. Desiderava l’inesistenza». Che cosa poteva sperare dai rivolgimenti in corso un uomo simile, un animo tanto travagliato dall’esistenza? Nella primavera del 1938, quando la storia reale e la politica prendono il sopravvento sulla vita immaginaria, quando il nazismo stringe con l’Anschluss la sua morsa su Vienna e sulla Cecoslovacchia e iniziano a vedersi le prime avvisaglie dell’antisemitismo, Schulz scrive a Thomas Mann per inviargli un racconto, l’unico che abbia scritto in tedesco, intitolato Die Heimkehr, «Il ritorno a casa».

Trenta pagine dattiloscritte, un altro racconto fantasma che si aggiunge alle lettere, ai saggi, alle note e alle corrispondenze andati perduti dopo la sua morte, e da allora oggetto di culto, di supposizioni e fonte di ispirazione per i patiti di Schulz e per gli studiosi come Jerzy Ficowski che hanno dedicato l’intera vita a ricostruire quella del profugo di Drohobyč. Nella primavera 1938, Schulz sta leggendo Eyeless in Gaza di Aldous Huxley e lo trova magnifico per la «saggezza selvaggia». Il 20 marzo al colmo dello sgomento, sempre slittando dalla vita alla letteratura e dalla storia al romanzo, scrive una lunga lettera alla giornalista Romana Halpern, un’amica di Witkiewicz, legata alla cerchia letteraria di Varsavia, conosciuta due anni prima e da allora sua confidente:

«La distanza fisica scoraggia la scrittura, la sottrae alla realtà, facendola apparire un’attività magica di dubbia utilità. Forse sono cose che non vanno dette, è meglio combattere il fallimento dell’immaginazione che non vuole credere alla realtà delle cose lontane». In attesa di rivederla in maggio a Truskawiec, un paesino a lui molto caro, distante quindici minuti da Drohobyč, meravigliosamente triste e solenne, dove gli usignoli cantano in maggio sui ciliegi in fiore, e al quale pensa di dedicare un racconto, le dice della sua apatia, del suo disinteresse, la sua solitudine, confessandole lo scoramento che prova davanti agli eventi:

«Nel frattempo, eventi storici così cupi. La loro direzione è sempre peggiore. Mi deprime moltissimo. Sono stato vicino alla disperazione in alcuni momenti proprio come prima di una catastrofe imminente. La primavera è così bella: si dovrebbe vivere e inghiottire il mondo. E io passo i miei giorni e le mie notti senza una donna e senza una Musa lasciandoli andare via senza frutto. Mi sono appena svegliato all’improvvisa profonda disperazione e la vita mi scivola via senza che io trattenga nulla. Se una tale disperazione durasse a lungo, si potrebbe anche impazzire. Ma forse una volta che la disperazione viene e si sistema in modo permanente, allora sarà troppo tardi per la vita. Guarisci presto e vivi, perché non vivere pienamente la vita è la piú grande infelicità».

Passano pochi mesi, e nell’estate del 1938, in un estremo tentativo di reagire agli eventi, Schulz parte per Parigi, con un centinaio di disegni, passando per l’Italia per evitare di attraversare il Terzo Reich. Vi resterà tre settimane, dal 2 al 26 agosto, anche se nel giro di sette giorni capisce che non sarà in grado di realizzare i suoi piani. «È stata un’ingenuità partire come ho fatto io alla conquista di Parigi, che è la città piú esclusiva, autosufficiente e chiusa del mondo» scriverà sempre alla Halpern il 29 agosto 1938. La scarsa conoscenza della lingua non gli aveva permesso di entrare in contatto con i francesi. L’estate poi non aiutava, visto che la città era vuota, e molti dei suoi contatti erano in vacanza. L’ambasciata polacca l’aveva snobbato grandemente, l’unico rapporto che aveva avuto era con un gallerista del Faubourg Saint-Honoré, André J. Rotgé, che gli propose una mostra, progetto al quale lui stesso aveva rinunciato per i costi esorbitanti.

Ma in fondo era contento di essere stato a Parigi, di aver visto tante cose meravigliose, di aver potuto scoprire da vicino anziché in riproduzione le opere d’arte del passato, e in fondo anche di essersi liberato di alcune illusioni su una sua possibile carriera internazionale. E poi aveva scoperto anche cose inquietanti e bellissime. Le meravigliose parigine gli avevano fatto una grande impressione, sia quelle della vera società sia le cocotte, coi loro modi liberi, col loro ritmo di vita… Eppure a nulla valse quel viaggio a Parigi, e nemmeno il premio dell’Accademia polacca di letteratura ricevuto in novembre.

La depressione continuava a insidiarlo, con un senso profondo di scoramento, disaffezione di sé, estraneità al mondo. Si sentiva solo, privo di amici, senza legami. «Ancora una volta mi sto dirigendo verso zone del destino in cui regna la solitudine» scriverà a Romana nel giugno 1939. «A volte questo mi riempie di tristezza e di paura di fronte al vuoto, altre volte mi attira con una tentazione famigliare e piena di fiducia». Aveva paura di andare a Varsavia, paura della gente e dei rapporti con gli altri.

Voleva ritirarsi dal mondo con un’altra sola persona in santa pace, e intraprendere come Proust la formulazione finale del suo mondo. Era persino pronto a mettersi in pensione col quaranta per cento dello stipendio, ma rinunciò all’idea perché non avrebbe potuto sostenere la sua famiglia. Si sentiva a terra, pieno di dubbi. Cercava un buon neurologo a Varsavia che lo curasse per poco. Doveva chiedere consiglio. Sono sicuramente malato, un po’ di esaurimento, un po’ di malinconia incipiente, disperazione, tristezza, sensazione di sconfitta inevitabile, perdite irrimediabili. Non scrivo dei miei progetti e del mio lavoro, non riesco a scriverne. Mi rende troppo nervoso e non riesco a parlarne con serenità», scriverà alla Halpern sempre nel giugno 1939, l’ultima estate prima della guerra. Non sapeva di incarnare il barometro ipersensibile dello stato del mondo, e di indicare col suo malessere la cappa di bassa pressione che soffocava la coscienza europea.

La Svolta della Guerra.

Nazioni in trappola. La Marna fu una battaglia decisiva della storia perché decise che la guerra sarebbe continuata. Barbara W. Tuchman su L’Inkiesta il 20 Marzo 2023.

Neri Pozza pubblica il libro che John Fitzgerald Kennedy stava leggendo quando scoppiò la crisi dei missili a Cuba. Barbara Tuchman, Premio Pulitzer proprio per questo lavoro, rievoca l’inizio del Primo conflitto mondiale come se stesse sfogliando un album di famiglia

La battaglia della Marna, come tutti sanno, finí con la ritirata dei tedeschi. Tra l’Ourcq e il Grand-Morin, negli ultimi quattro giorni contemplati dal piano si lasciarono sfuggire le «vittoria decisiva» e quindi l’occasione di vincere la guerra. Per la Francia, per i suoi alleati e in ultima analisi per il mondo la battaglia della Marna ebbe questo di tragico: che poteva essere la vittoria e non lo fu. […]

I tedeschi erano giunti cosí vicino alla vittoria e i francesi cosí vicino al disastro, e con tale sgomento negli ultimi giorni il resto del mondo aveva visto i tedeschi avanzare e gli Alleati ripiegare su Parigi, che la battaglia in cui le sorti si invertirono passò alla storia come «il miracolo della Marna». Henri Bergson, che aveva formulato per la Francia la mystique della «volontà», intravide nella battaglia della Marna i segni di un miracolo già avvenuto: «La battaglia della Marna è stata vinta da Giovanna d’Arco».

Lo sentiva anche il nemico, che si era trovato d’improvviso di fronte a un muro di pietra sorto dalla sera alla mattina. […] A dispetto di Bergson, ciò che avvenne sulla Marna non fu il risultato di un miracolo, ma dei «se», degli errori, degli impegni, emersi nel primo mese di guerra. A dispetto di von Kluck, la vitalità del soldato francese non vi contribuí piú che gli errori del comando tedesco.

Se i tedeschi non avessero ritirato dal fronte occidentale due corpi d’armata per mandarli contro i russi, uno dei due sarebbe stato a destra di von Bülow e probabilmente avrebbe colmato la falla tra lui e von Kluck; l’altro sarebbe stato nell’armata di Hausen dove poteva aggiungere quel tanto di forze che bastava a sopraffare Foch.

L’offensiva prematura lealmente sferrata dai russi indusse i tedeschi a trasferire a est quelle truppe. Il loro merito fu riconosciuto dal colonnello Dupont, il capo del servizio informazioni francese: «Rendiamo a quei nostri alleati l’onore che meritano» disse, «perché uno dei fattori della nostra vittoria fu la loro disfatta».

Molti altri «se» si accumularono in quel mese. Se i tedeschi non avessero impegnato troppe forze nel tentare un doppio accerchiamento con la loro ala sinistra, se l’ala destra non si fosse allontanata troppo dalle linee di rifornimento e non avesse sfinito i suoi uomini, se von Kluck avesse mantenuto l’allineamento con von Bülow, se – magari l’ultimo giorno – avesse ripassato la Marna invece di avanzare ancora verso il Grand-Morin, la battaglia della Marna sarebbe finita in tutt’altro modo e i tedeschi avrebbero potuto realizzare il loro programma iniziale vincendo la Francia in sei settimane.

«Avrebbero potuto», cioè, se non fosse stato per un altro «se» che fu determinante: se quel termine di sei settimane non avesse comportato l’invasione del Belgio. Anche non tenendo conto che essa provocò l’intervento inglese, e tralasciando l’effetto che produsse sull’opinione mondiale l’aggiunta del Belgio alla lista dei nemici, obbligò i tedeschi a ridurre le divisioni sulla Marna, e aumentò le altre forze in linea contro i tedeschi di cinque divisioni inglesi.

Sulla Marna gli Alleati raggiunsero quella superiorità numerica che non avevano posseduto, nemmeno in un singolo settore, durante la battaglia delle frontiere. […]

Gli uomini non avrebbero potuto far fronte a una guerra di tale entità e tale costo senza una speranza: la speranza che la sua stessa enormità ne facesse l’ultima guerra; e che quando fosse giunta in qualche modo a una conclusione, si sarebbero gettate le basi per un mondo meglio ordinato.

Come la visione smagliante di Parigi teneva in piedi i soldati di von Kluck, il miraggio di un mondo migliore scintillava al disopra delle distese crivellate di buche e disseminate di monconi, che un tempo erano state campane verdi e file di pioppi ondeggianti al vento. Solo tale speranza poteva dare una dignità e un senso logico alle mostruose offensive in cui migliaia e centinaia di migliaia d’uomini venivano uccisi per guadagnare dieci metri di terreno e passare da una trincea allagata a un’altra trincea allagata.

Ogni autunno, quando la gente pensava che la guerra non sarebbe potuta durare un altro inverno, ogni primavera quando la gente si rendeva conto di nuovo che la fine non era in vista, uomini e nazioni erano in grado di continuare nella lotta solo perché speravano che ne sarebbe uscito qualcosa di buono per l’umanità. […]

Dopo la Marna la guerra si intensificò e si ampliò finché vi attirò le nazioni dei due emisferi, in una trama complicata di conflitti che nessun trattato di pace sarebbe riuscito a rompere. La battaglia della Marna fu una delle battaglie decisive nella storia del mondo non perché essa decise che la Germania avrebbe finito col perdere la guerra e gli Alleati per vincerla, ma perché decise che la guerra sarebbe continuata.

Alla vigilia della battaglia Joffre aveva detto ai soldati che non si poteva più guardare indietro. Dopo la battaglia non c’era più modo di tornare indietro. Le nazioni erano in trappola: una trappola tesa nei primi trenta giorni da una serie di battaglie che non erano riuscite a essere decisive. Una trappola senza uscita, che, infatti, non ebbe uscita.

Da “I cannoni d’agosto” di Barbara W. Tuchman, 640 pagine, 25 euro.

Così il novembre 1942 fu la svolta della Guerra. Peter Englund racconta, con gli occhi di chi c'era, il mese che cambiò la storia del mondo. Matteo Sacchi l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Un punto di svolta, un tornate improvviso e violento dove tutto cambia, lasciando i testimoni quasi annichiliti di fronte all'imprevista modifica di un paradigma che sembrava inciso nell'acciaio, nel solco dei cingoli dei carri armati vincitori. Capita di rado che la Storia, quella con la «S» maiuscola, si presti a questi improvvisi turning point. Eppure accade: i persiani a Salamina nel 480 a.C., la disfatta dei turchi a Vienna nel 1683... E accade in maniera esponenziale, su diversi fronti, nel novembre 1942. La Seconda guerra mondiale assume per l'Asse un andamento totalmente inaspettato per i contemporanei, compie una violenta inversione a «U» verso il disastro.

Non a caso il monumentale libro di Peter Englund si intitola proprio La svolta. Novembre 1942. I giorni che cambiarono il destino del mondo (Marsilio, pagg. 614, euro 24) e raccoglie le stupite testimonianze di molti di coloro che assistettero al grande cambiamento. L'ex segretario dell'Accademia di Svezia è uno storico che ha abituato i suoi lettori ad approcci non convenzionali agli eventi del passato, ma sempre ficcanti. In questo caso, con uno sforzo documentario eccezionale, intreccia le vicende di moltissimi individui, noti e meno noti, per tracciare, dall'interno, la parabola di un mese che improvvisamente vide l'espansione dell'Asse, che a quasi tutti sembrava inarrestabile, volgersi rapidamente verso una sconfitta, magari non immediata ma inevitabile.

Per dare l'idea della varietà delle dramatis personae che compaiono in questo saggio/racconto corale (e quasi romanzo): lo scrittore Albert Camus, il maggiore dei paracadutisti italiani Paolo Caccia Dominioni, la pacifista britannica Vera Brittain, il mitragliere sui bombardieri Lancaster John Bushby, lo scrittore sovietico Vasilij Grossman, il comandante di cacciatorpediniere giapponese Tameichi Hara, lo scrittore e ufficiale tedesco Ernst Jünger e Leonard Thomas, macchinista su una nave in un convoglio artico... E potremmo continuare con altre decine di nomi di persone che, grazie ai loro scritti e ai loro diari, letterari o meno, noti o meno, consentono di vedere tutte le sfaccettature del cambiamento che all'improvviso, come ghiaccio che si sfaldi di colpo sulla superficie di un lago alpino, trasforma la guerra. Per usare le parole di Englund, questo libro molto sperimentale «scaturisce dalla convinzione che la complessità degli eventi emerge al meglio proprio a livello individuale». Ecco che allora tutte queste testimonianze si saldano come le tessere di un mosaico, ovviamente un mosaico dell'Apocalisse o di quanto di più simile all'apocalisse l'essere umano abbia mai sperimentato.

Prendiamo il fronte africano. La battaglia di El Alamein è stata raccontata tante volte... Ma vederla narrata con la prospettiva che risulta guardando fuori dagli iposcopi del carro armato dal tenente Keith Douglas è un'altra cosa. Campi minati ovunque, temibili soprattutto quelli degli italiani, agguati con i cannoni tedeschi da 88. I corpi dei camerati contorti e bruciati che affiorano da rottami di metalli annerito. Poi di colpo il fronte cede. Vista da chi è in prima linea la vittoria è sorprendente, del tutto inattesa. Inizia la grande corsa, l'inseguimento alle forze dell'Asse in fuga... Ma mentre gli inglesi raccattano qualsiasi cosa di valore lasciata indietro da italiani e tedeschi, c'è più stupore che altro.

E sull'altro versante? Englund vi farà vedere la disfatta con gli occhi dell'autista di automezzi militari Vittorio Vallicella. Ci sono sette uomini che nel deserto devono decidere che cosa fare, se arrendersi o tentare la sorte per tornare in patria attraverso il deserto. Non farete in tempo a esservi adattati alla opprimente sensazione di trovarsi in un autocarro rovente nel deserto, però, che Englund vi sposterà a Leningrado, in compagnia di Lidija Ginzburg, docente universitaria che è sopravvissuta al primo inverno di assedio e adesso ne vede arrivare un secondo. Eppure in città, nonostante l'enorme strage qualcosa è cambiato, c'è la sensazione di potercela fare e che le cose andranno d'ora in poi diversamente. Così come sarà possibile passeggiare per le vie di Parigi con il coltissimo Ernst Jünger che medita su quanto sia diversa la Seconda guerra mondiale dalla prima e inizia a presentire il disastro. Quando invece seguirete Vasilij Grossman a Stalingrado vedrete scattare il 19 novembre l'operazione Urano che porta al crollo del fronte e alla grande sacca dove la 6ª Armata della Wehrmacht viene bloccata verso un destino di sconfitta certa.

Ma le notazioni più sottili del grande mutamento potrebbero venirvi dai testimoni più umili, più impensati. Il mitragliere John Bushby, dell'ottantatreesimo squadrone del comando bombardieri della Raf, è sempre pieno di terrore mentre vola sul suo Lancaster. La domanda che di continuo si pone è: perché io sono ancora vivo? Eppure quando guarda le città tedesche sotto di lui si accorge che gli incendi sono sempre più grandi, la difesa sempre più fragile. La massa dei bombardieri alleati sta iniziando ad avere il sopravvento. E la guerra anche per gli alleati diventa di necessità un massacro di civili innocenti. Intanto le truppe americane sono già sbarcate in Marocco e la Francia di Vichy scopre quanto possa essere duro il tallone dell'occupante tedesco.

Davvero un arazzo incredibile, quello intessuto dai molti testimoni di cui Englund sfrutta le voci. Si vede in filigrana come venne costruito un gigantesco mosaico fatto di milioni di tasselli di sangue e ossa. E all'improvviso in quel mosaico iniziò a delinearsi un mondo diverso che riuscì a fermare l'avanzata delle dittature, sebbene a un prezzo altissimo. E chi riuscì in questa impresa che con il senno di poi ci può sembrare come scritta nel destino, lo fece aggrappandosi con le unghie e con i denti a ogni flebile speranza. Senza sapere sino all'ultimo se ce l'avrebbe fatta.

La lunga caduta di Hitler che ebbe inizio nel 1939.

La Germania in fiamme vista con gli occhi (liberi e spregiudicati) di una "russa bianca". Dal 1940 al 1945 l'esule aristocratica Marie Vassiltchikov raccontò la vita nella capitale. Stenio Solinas il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

Nel settembre del 1939, quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, la ventiduenne Marie Vassiltchikov, Missie per gli amici, era in vacanza in Germania, nella Slesia precisamente, ospite di una amica della madre, la contessa Olga Pückler. I Vassiltchikov facevano parte di quell'aristocrazia russa, i cosiddetti «russi bianchi», scappata dalla Rivoluzione d'Ottobre e sparpagliatasi, con alterna fortuna, fra Europa e Medio Oriente. Educata in Francia, Missie era poi cresciuta in Lituania, repubblica indipendente all'indomani della Grande guerra, dove la sua famiglia aveva conservato delle proprietà terriere. In virtù del patto Molotov-Ribbentrop, l'invasione nazista della Polonia mise anche fine all'indipendenza della Lituania, considerata da Mosca nient'altro che un territorio russo da riannettere, e per il principe Vassiltchikov, sua moglie e il loro figlio più piccolo, l'inizio di nuove difficoltà. Restare in Lituania significava, nel migliore dei casi, l'arresto, raggiungere Missie in Germania una scelta obbligata, ma rischiosa: erano esuli e si ritrovavano apolidi, erano anticomunisti, ma cercavano rifugio in una nazione che con la Russia comunista aveva appena firmato un'alleanza...

Fu proprio la giovane Missie a trovare la soluzione. Conosceva le lingue, aveva amicizie nel mondo diplomatico (ancora in Lituania aveva lavorato per la legazione inglese), il suo status aristocratico le consentiva la frequentazione di quella nobiltà tedesca terriera e militare convivente, ma non sempre connivente con il nazismo, ancora utilissima per le relazioni sociali. In breve, Missie riuscì a farsi assumere prima alla radio di Stato, poi al ministero degli Esteri, nella Sezione Informazioni.

I miei giorni a Berlino (Rizzoli, pagg. 486, euro 20, traduzione di Annita Biasi Conte) è il diario (The Berlin Diaries è il titolo dell'edizione originale inglese uscita nel 1985), che Marie, «Missie», Vassiltchikov tenne pressoché ininterrottamente dal 1940 al 1945, testimonianza di prima mano di che cosa fosse la quotidianità tedesca in una grande città, meglio, in quella che era la grande città tedesca per eccellenza, per tutto l'arco di un conflitto sempre più distruttivo e al termine del quale la Germania si ritroverà a essere un cumulo di macerie. Una testimonianza privilegiata, se si vuole, visti i rapporti di chi la scriveva, ma non per questo meno significativa rispetto ai dolori e alle sofferenze delle classi medie e popolari tedesche. La giovinezza di Missie, ovvero la sua voglia di vivere, e il suo essere comunque estranea rispetto a quel popolo e a quel regime, esule e straniera in terra altrui, le consentono uno sguardo più libero, al di sopra di tutto e di tutti, spregiudicato, per molti versi, e che fa il fascino di questo libro.

Si prenda, a puro titolo di esempio, questo brano del novembre 1943, quando Berlino subisce il primo massiccio attacco aereo: «Il mattino dopo la prima incursione avevo un appuntamento per scegliere un cappello in un negozietto dei dintorni. Le case tutt'intorno erano bruciate, ma io volevo assolutamente quel cappello e così sono andata fin là e ho suonato il campanello e, meraviglia delle meraviglie, mi sono trovata davanti una modista sorridente: Durchlaucht kommen anprobieren! (Sua Altezza può venire dentro a provarlo!'). E così ho fatto, ma poiché indossavo dei pantaloni tutti infangati, era difficile giudicarne l'effetto»...

Il curatore del libro, George Vassiltchikov, ovvero il fratello minore di Missie, sottolinea, per quello che riguarda il fallito attentato a Hitler del luglio del '44, come questo sia «l'unico diario di una testimone oculare di cui si conosca l'esistenza». Missie conosceva infatti, direttamente o per interposta persona, molti membri antinazisti di quella congiura, nonché le loro intenzioni, e fu testimone del regime di terrore che si scatenò in seguito. In proposito, vale la pena riflettere su quanto da lei scritto allora: «Non riusciamo a capire l'atteggiamento della radio alleata. Continuano a elencare i nomi di coloro che, essi dichiarano, hanno preso parte al complotto. E anche di quelli che non sono ancora stati ufficialmente implicati! Ricordo di aver avvertito Adam Trott, a suo tempo, che sarebbe successo proprio questo. Ma Adam continuava a sperare che gli Alleati avrebbero sostenuto la Germania decente e io continuavo a dire che al punto in cui erano arrivati non volevano che distruggere la Germania, qualunque Germania, e che non avrebbero esitato a eliminare i buoni tedeschi insieme a quelli cattivi». In sostanza, come spiega bene George Vassiltchikov, «la guerra psicologica degli inglesi aiutò de facto la Gestapo a decimare la Resistenza antinazista quindi, in una certa misura, a prolungare la guerra». Era una politica di annientamento riassumibile nel cinismo di Churchill all'indomani dell'attentato di von Stauffenberg: «Più tedeschi si ammazzano fra loro, meglio è»... È lo stesso cinismo con cui gli alleati, nonostante le promesse fatte, consegneranno a Stalin, ovvero alla morte, l'esercito russo di Liberazione del generale Vlasov e i cosacchi del generale von Pannwitz.

In I miei giorni a Berlino, spiccano anche alcune figure italiane. Una è Giorgio Cini. «È venuto fino a Berlino per cercare di indurre le SS a liberare il padre, il vecchio conte Vittorio Cini (...). È molto cambiato da quando l'ho visto l'ultima volta, poco prima della guerra. Ha l'aria di un uomo disperatamente preoccupato. Adora suo padre e per molti mesi non ha saputo dove fosse, neppure se fosse vivo. Adesso stava aspettando un pezzo grosso della Gestapo. Chissà? Con quella determinazione e quella forza di volontà - e il denaro -potrebbe farcela». Un'altra è Filippo Anfuso. «È uno dei pochi diplomatici di grado elevato che sono rimasti fedeli a Mussolini. Molti topi hanno abbandonato la nave che affondava. Ciò che Anfuso sta facendo forse non è saggio, ma lo rispetto per questo. È un uomo intelligente, ma il suo lavoro è molto difficile, soprattutto perché non ha un'autentica simpatia per i tedeschi».

Rispetto al tartufismo censorio di chi pontifica ex post su come ci si sarebbe dovuti eticamente comportare in un regime totalitario, I miei giorni a Berlino ha la concretezza della realtà. Missie capisce come si possa combattere per la Germania senza per questo essere nazisti, si rende conto che i bombardamenti a tappeto sulle popolazioni civili rinsaldano i legami anziché affievolirli, è ammirata dalla capacità di resistere e di reagire, non si sente in colpa se riesce a ritagliarsi piccole oasi di serenità in mezzo alle tragedie che la circondano, perché è poi da lì che si deve attingere per continuare ad andare avanti.

Da una Berlino distrutta a una Vienna dalla quale dovrà poi fuggire quando l'Armata rossa è oramai alle porte della città, fra malattie, lutti, pericoli, fame, crocerossina in un ospedale della Luftwaffe, nella capitale austriaca Missie celebrerà il suo ventottesimo compleanno in compagnia di due amici e di una bottiglia di champagne... Nel maggio successivo, la fine della guerra la troverà ricoverata in un altro ospedale, a Gründen, nella Baviera appena arresasi alla III Armata del generale Patton. Un anno dopo sposerà, sempre nel mese del suo compleanno, gennaio, un ufficiale americano nella chiesa ortodossa di Kitzbühel. Avrà per testimoni, e in uniforme, i nobili tedeschi von Herwath e Metternich e il francese conte de la Brosse. «Era una cerimonia che univa persone di quattro nazioni che, fino a poco tempo prima, avevano combattuto una feroce guerra l'una contro l'altra».

Estratto dell’articolo di Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2023.

Tra il suicidio di Adolf Hitler e il conferimento dei poteri all’ammiraglio Karl Dönitz, l’uomo che l’8 maggio del 1945 avrebbe firmato la resa nazista, la Germania ebbe un governo guidato da Joseph Goebbels. Un governo che ebbe brevissima durata, poco più di un giorno: dal pomeriggio del 30 aprile quando Hitler si uccise (tra le 15.15 e le 15.30), alla sera del 1° maggio quando Goebbels si suicidò assieme alla moglie, Magda, dopo aver avvelenato con una capsula di cianuro i suoi sei figli.

Quasi sempre i libri di storia trascurano quella giornata. La trascurano nonostante nel corso di quella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1945 i successori di Hitler abbiano tentato una mediazione in extremis con i sovietici meritevole di una qualche attenzione. Ed è a questo tentativo di patteggiamento che Giovanni Mari dedica un’accurata ricostruzione, Il governo Goebbels. Trenta ore di morte e menzogne, in uscita il 27 aprile per Lindau.

Nelle intenzioni del Führer, il suo successore avrebbe dovuto essere Hermann Göring. Ma una settimana prima di darsi la morte, Hitler, in un accesso d’ira, accusò Göring e Heinrich Himmler di «alto tradimento» per aver trattato sottobanco la resa con gli angloamericani. E li espulse dal partito. Poi, con un’ordinanza specifica, predispose la propria successione con un atto che prevedeva Karl Dönitz alla presidenza del Reich mantenendo il comando supremo delle forze armate, l’ex ministro della propaganda Goebbels a capo del governo e Martin Bormann «ministro del partito» (un incarico equivalente a quello di segretario, ma con un ruolo subalterno a quello del cancelliere). 

Hitler stilò anche una dettagliata lista di ministri. Così facendo il dittatore nazista sdoppiò le cariche di capo dello Stato e cancelliere che lui stesso aveva unificato, con una forzatura, nel 1934. Nella letteratura «anche di alto livello» scrive Mari, «e talvolta persino in quella accademica», si indica il «governo Dönitz» come l’entità succeduta alla dittatura hitleriana. Errore.

Grave errore. Si dovrebbe invece parlare di «governo Goebbels», anche se durò soltanto una trentina di ore. E non è una questione di dettaglio. […] Goebbels […] appena si insediò al posto di Hitler, avviò, tramite il capo di stato maggiore Hans Krebs, trattative per concedere a Stalin — alle cui truppe mancava solo un giorno o due per espugnare completamente Berlino — qualche ora di ulteriore vantaggio sugli angloamericani. In cambio sperava di ottenere un riconoscimento, un attestato di legittimità, nonché — ma questo è più controverso — l’attenuazione del dispositivo di una resa che lui stesso forse considerava ormai quasi inevitabile.

In quel momento Dönitz, trovandosi altrove, non sapeva né della morte del Führer né di essere stato designato da Hitler suo successore. Goebbels era padrone assoluto […] Giunsero, la sera del 30 aprile, il capo della Gestapo Heinrich Müller e il pilota Hans Baur al quale […] Goebbels si rivolse con queste parole: «Hitler è di là che brucia; si è sparato alla tempia ed è caduto sul pavimento». Era evidente in ognuno dei presenti, a cominciare dallo stesso Goebbels, uno stato di alterazione. 

Bormann cercava ancora una via di fuga per sé stesso. Goebbels no. Si capì immediatamente che, ove mai non fosse riuscito a trattare con i russi (causa che perorava già dal 1943), Goebbels si sarebbe suicidato all’istante. E forse anche se fosse riuscito a intavolare quella trattativa. Il generale Krebs era l’uomo adatto per la disperata missione dell’ultima ora: aveva vissuto a Mosca, come primo assistente dell’addetto militare del Reich in Unione Sovietica, e parlava bene il russo. Aveva anche incontrato Stalin.

All’incontro fu convocato il generale Helmuth Weidling il quale […] sostenne che difficilmente i russi avrebbero accettato di negoziare con un governo in cui il maggiore esponente del nazionalsocialismo (Goebbels) ricopriva la carica di cancelliere. Goebbels, racconta Mari, si offese «enormemente» e «servì l’intervento di Krebs per placarlo». 

Fu accolta da tutti la proposta di trasmettere un messaggio radio in chiaro così che il quartier generale russo potesse intercettarlo con estrema facilità. Questo messaggio […] conteneva la richiesta di un incontro con il capo supremo dell’Armata rossa il maresciallo Georgij Zukov. Il quale Zukov, per certi versi inaspettatamente, disse di sì. E delegò il generale Vasilij Ivanovic Ciuikov ad occuparsi della trattativa. 

[…] Dönitz, che non aveva più visto il Führer dal 21 aprile, come si è detto in quel momento non era neanche a conoscenza del fatto che Hitler era morto e quando saprà di essere stato designato da Hitler presidente del Reich sarà alquanto sorpreso delle contemporanee nomine di Goebbels e di Bormann. Le respingerà e addirittura ordinerà l’arresto dei due. 

E siamo al faccia a faccia Krebs-Ciuikov. […] Quest’ultimo stava cenando con lo scrittore Vsevolod Višnevskij (che avrebbe trascritto l’intero dialogo tra il generale russo e quello tedesco), un giornalista della «Pravda», Evgenij Dolmatovskij, e il compositore Matvej Blanter che […] provò ad ascoltare la conversazione di nascosto sistemandosi all’interno di un armadio.

[…] Krebs diede al generale russo la notizia che Hitler si era suicidato e che i poteri erano passati a Dönitz e a Goebbels. Ciuikov finse di esserne già a conoscenza. A quel punto il tedesco chiese una tregua per consentire una riunione del nuovo governo. Il russo rispose che prima gli eredi di Hitler avrebbero dovuto arrendersi. 

La stessa risposta che Eisenhower aveva dato a Himmler. Ciuikov racconta nelle sue memorie — La fine del Terzo Reich (Baldini e Castoldi) — che Krebs provò a insistere: dateci «la possibilità di iniziare relazioni con il governo sovietico», così l’Urss risulterà «lo Stato che ha vinto la guerra». Aggiungendo: «Non mi trovo nelle condizioni di iniziare altre trattative».

I termini della questione vengono sottoposti a Zukov che a sua volta, alle cinque del mattino del 1° maggio, con un fonogramma li riporta a Stalin. Il quale però si interessa solo alla parte della comunicazione che riferisce dell’avvenuto suicidio di Hitler. «Ha avuto quel che si meritava, il mascalzone», è il commento del dittatore georgiano, «peccato che non siamo riusciti a prenderlo vivo». 

A questo punto l’incontro potrebbe dirsi del tutto infruttuoso se i russi a sorpresa non proponessero di stabilire una linea telefonica diretta tra loro e il quartier generale di Goebbels. Krebs accetta dal momento che anche Goebbels gli aveva detto che avrebbe apprezzato la possibilità di comunicare di persona con i russi.

Allestire quella linea telefonica fu complicato ma la conversazione ci fu, a mezzogiorno del 1°maggio. Da un capo del filo c’era Krebs che era restato con i russi, dall’altra Goebbels. Questi, quando capì che la trattativa non aveva fatto nessun passo avanti, chiese di poter parlare direttamente con Ciuikov che prese in mano la cornetta e maltrattò platealmente l’interlocutore. Goebbels scoraggiato chiese a Krebs di rientrare per poter esaminare con lui, istante per istante, parola per parola, come erano andati i colloqui.

Ma qui ci fu una sorpresa. I sovietici decisero di offrire ai tedeschi quella che giustamente Mari definisce «un’ultima inattesa e clamorosa possibilità». In cambio della capitolazione di Berlino, i russi sarebbero stati disposti ad agevolare l’annuncio pubblico del nuovo governo, mettendo anche a disposizione una stazione radio ed eventualmente un’auto o un aereo per stabilire il contatto con Dönitz. 

L’obiettivo dei sovietici […] era […] «ottenere nelle loro mani una resa pesante dei nazisti, la prima ufficiale da parte dell’alto comando, per di più nella capitale del Reich». Un segno di vittoria «immenso, in anticipo rispetto ai tempi previsti […] I tedeschi avrebbero ottenuto quello a cui Goebbels più teneva, un pieno riconoscimento del suo governo. Ma ancor prima che Krebs potesse tornare al comando tedesco […] Goebbels iniziò a preparare il suicidio suo e dei suoi familiari. Evidentemente[…] «non si rese conto dell’alto valore politico delle contropartite». […] Goebbels […] diede la morte a sé e ai suoi familiari, […] «senza che nessuno avesse saputo del suo cancellierato». 

Un governo che […] «la storia dimenticherà». Nella notte tra il 1°e il 2 maggio l’intero apparato nazista crollò. E con esso la città di Berlino. Quella stessa notte Krebs si uccise (ma sulla sua morte c’era qualcosa che non tornava quantomeno nei resoconti dei soldati sovietici). Le numerose carte che avrebbero potuto costituire gli atti del pur brevissimo «governo Goebbels» furono bruciate. 

Bormann provò a fuggire e fu ucciso. Il suo cadavere fu ritrovato solo nel 1973. Era stato colpito in maniera «compromettente e non medicabile». Poi, per non cadere in mano ai nemici, aveva ingerito una capsula di cianuro. Al generale Weidling spetterà la firma della capitolazione di Berlino. Preso in consegna dai sovietici, Weidling verrà condannato nel 1952 a venticinque anni di reclusione. Morirà in prigione nel 1955. Toccò invece a Dönitz — nei panni di capo dello Stato di Flensburg (un piccolo territorio tedesco al confine danese) — firmare la resa finale.

Da quell’istante l’impegno di Dönitz fu quello di far arrendere i suoi connazionali nelle mani degli statunitensi e non dei sovietici. Fu arrestato il 23 maggio e successivamente processato a Norimberga. Nonostante si fosse macchiato di gravissimi crimini di guerra, fu condannato a soli dieci anni che trascorse nel carcere di Spandau a Berlino Ovest. Uscito di prigione sopravvisse, libero, fino al 1980. Morì di morte naturale trentacinque anni dopo il suicidio di Goebbels.

Così l'esercito di Hitler lasciò l'Ucraina senza ebrei. Fiamma Nirenstein il 25 Aprile 2023 su Il Giornale.

Ecco il breve testo del 1943 in cui Vasilij Grossman narra lo sterminio del suo popolo da parte dei nazisti 

Vasilij Grossman (1905-64) entra nel 1941 con l'Armata Rossa nei villaggi della riva sinistra Ucraina; e persino le oche che «nelle aie si staccano da terra sbattendo le loro enormi ali bianche» hanno qualcosa di «strano», che «turba», e «urlano», e «esortano» i soldati dell'Armata Rossa a «non perdersi le scene tristi e tremende della vita», «e sembrano felici che i soldati siano lì... ma intanto «piangono e gemono e gridano per le disgrazie tremende...».

Rotto il patto fra URSS e Germania di Hitler, la guerra nazista contro il bolscevismo diventa subito sterminio degli ebrei. Cominciano quelle che Leon Poliakov in Il nazismo e lo sterminio degli ebrei (1954) chiama «le eliminazioni caotiche». Adolf Eichmann valuta a due milioni gli ebrei fatti a pezzi nel 1942 durante l'avanzata tedesca verso Stalingrado e il Caucauso. Nel 1941 mancano dati complessivi, proprio per la confusione in cui gli ebrei si rastrellavano, si ammassavano, si fucilavano a strati in fosse scavate sotto la minaccia delle armi da loro stessi, si bruciavano, si sterminavano a botte, si gasavano nei camion: però dati locali ce ne sono a bizzeffe, e tutti terribili. Per esempio, restando in Ucraina, si sa di 33771 ammazzati solo a Babij Yar vicino a Kiev tra il 29 e il 30 settembre, 34mila a Ponary, 175mila ebrei lituani, per non parlare della Polonia. Sono gocce nel mare di come gli ebrei uno a uno venivano cacciati, inquadrati, macellati in tutta l'Unione sovietica non solo dalle SS, ma da tutti i corpi dell'esercito tedesco più i volenterosi carnefici antisemiti dei Paesi occupati. L'ispettore degli armamenti tedeschi in Ucraina in un rapporto confidenziale racconta che «la milizia ucraina partecipava alle fucilazioni sistematiche in modo ufficiale... si raggiunse facilmente il numero di 150mila, 200mila arresti di ebrei nella zona occupata dell'Ucraina...» cui seguiva la «soppressione». Dove arrivavano i tedeschi, con l'aiuto qui degli Ucraini, là dei Polacchi, gli ebrei furono eliminati, uccisi uno a uno e tutti insieme. Si fa fatica a staccarsi dalle prime pagine del libro Ucraina senza ebrei di Vasilij Grossman - un lungo articolo pubblicato nel 1943 - in uscita da Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi. È una lettura ipnotica. La scrittura di Grossman è un dono metafisico. Parola dopo parola i suoi scritti, quando era comunista per amore e per forza e quando finalmente approda al sé stesso più onesto con Vita e destino e con Tutto scorre, ci spalancano davanti l'abisso in cui l'uomo può sprofondare. Lui, il Vassilij trentaseienne che entra nella sua natale Ucraina devastata, cerca insieme alla verità anche la madre Ekaterina Savel'evna, lasciata nel paese natale di Berdicev, dove venticinque SS e una torma di ucraini uccisero 30mila ebrei. La cerca, e non la ritroverà mai più. Saprà con certezza che è morta solo nel 1944.

Un grande scrittore parla sempre di sé, e in Ucraina senza ebrei Vasilij Grossman descrive l'annichilimento della popolazione ebraica dell'Ucraina: rompe così la legge del silenzio imposto dallo stalinismo. Ma è ancora comunista. Questo crea una specie di esplosione atomica di espressione nel descrivere insieme, poi, a un contraddittorio sforzo teorico di conciliazione con l'Ucraina, il mondo sovietico, e con una spiegazione dell'antisemitismo che funzioni coll'universalismo comunista: Grossman paga il conto del suo inquieto essere comunista mentre tuttavia descrive, da ebreo, l'indescrivibile, come non l'abbiamo letto nei pur tanti testi sulla Shoah. Dopo il grande gesto di audacia di porgere la verità nuda e cruda ai lettori del giornale Krasnaja Zvezda (Stella Rossa), per cui scrive da corrispondente di guerra, cerca di porgere una più sovietica elaborazione teorica della realtà: ma il testo parla soprattutto del suo dolore, della sua incredulità, del suo essere ebreo. Krasnaja Zvezda infatti lo censurerà: la stampa sovietica maggiore rifiuterà l'articolo. Esso troverà spazio marginale solo su pagine minori.

Vasilij è già qui lo scrittore epico che nasce comunista e entusiasta poeta della lotta sovietica e dell'anima russa contro il nemico nazifascista e che negli anni cambia. Arriverà gradualmente dopo un terribile corpo a corpo con la sua coscienza a descrivere per intero la perversione totalitaria, a descrivere la sofferenza desolante che nasce dall'identità del nazismo e del fascismo con l'ideologia e la politica comunista. Nel breve prezioso testo Ucraina senza ebrei, ovviamente suscitando nel lettore pensieri sulla situazione attuale, paragona allo sterminio degli ebrei la distruzione e la morte dell'Ucraina cristiana che ha trovato nelle città e i villaggi, e li chiama tutti per nome: «Starobel'sk, Svatovo, Kupjansk, Valujki, Vporosilovgrad...» e molti altri. In tutti trova le efferatezze tedesche, le ferite del popolo che piange: «... centinaia di paesini sulle rive della Desna e del Dnepr nella steppa circondata da pascoli, nelle casette sperdute dei cavatori di resina...», tutti hanno sofferto e sanguinano ancora per il «lavoro coatto, balzelli inauditi, bambini presi e portati in Germania. Case incendiate, granai saccheggiati, forche nelle piazze...». Orfani, vedove, vecchi: le loro «lacrime fluiscono come ruscelli nel fiume immenso del dolore e dell'ira di tutto un popolo». E tuttavia ecco, c'è qualcosa di molto di più di questo: «In Ucraina ... ci sono villaggi in cui regnano il silanzio e la quiete». In uno di essi, a Kozary sulla strada per Kyev, Vasilij vede le rovine in cui sono arse le famiglie che vivevano nelle 750 case cui i nazisti hanno dato fuoco: «Le fiamme non avevano risparmiato nessuno, né i vecchi, né le donne, né' i bambini». E qui Grosmann dice la cosa proibita dal regime comunista: «Mi sono scoperto a pensare che il silenzio di Kozary è il silenzio degli ebrei. Non ci sono più ebrei in Ucraina. Da nessuna parte: a Poltava, Char'kov, Kremencug, Borispol...».

In poche righe lo scrittore assomma tutto l'orrore di quella parte della Shoah in cui gli ebrei furono uccisi a casa loro uno a uno a milioni, ignari della sorte che li aspettava. La stessa censura che vieta a Grossman di scrivere aveva bloccato ogni notizia sulle stragi di ebrei già in corso. Il regime sovietico nascose lo sterminio, in parte a causa della confusa politica del patto Ribbentrop-Molotov poi abbandonato; in parte perché il vittimismo sovietico a fronte dell'invasione nazista non deve essere spezzato dalla specificità della Shoah, il «bene sovietico» si erge contro il «male nazista», non vuole ebrei fra i piedi; in parte perché Stalin praticherà in massa l'antisemitismo comunista.

Scrive Grossman, in poche righe, il compendio della Shoah: «... un popolo ucciso. Uccisi vecchi artigiani: maestri d'eccezione, sarti, cappellai, ciabattini, stagnai, orafi, imbianchini, pellicciai, rilegatori. Uccisi gli operai: scaricatori, meccanici, elettricisti, muratori, fumisti fabbri; uccisi i balagula, i trattoristi, gli autisti, gli ebanisti... i dottori: i medici generici, dentisti, chirurghi... uccisi gli esperti di biochimica e di batteriologia... Gli insegnati di storia algebra e trigonometria, gli assistenti di facoltà, dottorandi e dottorati, le maestre, le sartine, le nonne che facevano le calze... le belle ragazzi e le studentesse, le cantanti... i ciechi e sordi, uccisi i bambini di due anni e quelli di tre, uccisi gli ottantenni, i neonati che urlavano bramosamente attaccati ai seni delle madri fino all'ultimo... Hanno ucciso un popolo i suoi usi, i ricordi, le canzoni tristi, la poesia di una vita allegra e amara insieme...». Grossman è implacabile: «Se in una cittadina c'erano cento ebrei, furono giustiziati tutti e cento: non uno di meno mai... se erano cinquantacinquemila, tutti e cinquantacinquemila, non uno di meno». E spiega la differenza: «Nei territori occupati, i tedeschi uccidono per qualunque supposto misfatto, per un sorso d'acqua a un partigiano, per un saluto mancato... Gli ebrei invece solo perché sono ebrei».

La descrizione si avventura e svilupperà più avanti in altre implacabili pagine. Poi, quando Grossman si avventura nell'atteggiamento russo e ucraino, la sua fede comunista lo porta a un'analisi contraddittoria: da Gogol a Cechov, al popolo ucraino, alla Russia sovietica... gli ebrei sono cari a tutti fuorché al nemico nazi-capitalista: «Gli ebrei ci sono sempre... chi nato e cresciuto in Ucraina non si è nutrito delle scene di vita del popolo ebraico?». La descrizione della propria parte è nostalgica e a tratti dolce come lo può essere quella di un figlio, che, infatti, cerca la madre. Il suo avventurarsi sulla strada della definizione di antisemitismo come di un portato del fascismo capitalista, il suo avvicinamento ideale fra Ucraina e Russia, dimentico dell'Holodomor e della storia vera dell'antisemitismo come dell'odio più antico e diffuso, nulla toglie al suo coraggio di esporsi per raccontare la Shoah. È Grossman, sempre troppo grande per essere parte di una storia sola. 

Volker Ullrich racconta la tragica parabola che portò la Germania verso il disastro finale. Matteo Sacchi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il 20 marzo del 1945 Hitler, accompagnato dal capo della gioventù hitleriana Artur Axmann, riceve nel giardino della Cancelleria venti militanti - alcuni sono soltanto dei bambini, nemmeno dei ragazzi - da poco decorati per essersi distinti nella resistenza sul fronte orientale. Di quell'episodio esiste una famosa fotografia. Si vede il dittatore, ingobbito e invecchiato, che accarezza un ragazzino impettito. Sembra la carezza della morte, quella che falcerà sotto un inferno di fuoco molti degli ultimi disperati difensori di Berlino.

Quest'immagine, che è diventata quasi iconica della caduta finale del Reich millenario, potrebbe però essere per molti versi ingannevole. Proietta l'idea di una parabola che diventa una feroce picchiata verso il nulla a partire dal 1943 se non dal 1944. Lo storico e giornalista tedesco Volker Ullrich nel suo ponderoso saggio, intitolato appunto La Caduta (1939-1945), uscito in Italia per i tipi di Mondadori (pagg. 758, euro 100), racconta però una storia diversa. Si intuisce già dalla partizione temporale, chiarita a partire dal sottotitolo. Ullrich, che è autore di un altrettanto corposo e denso studio: Hitler, l'ascesa (1889-1939) sull'ascesa del dittatore, individua con chiarezza già un punto di svolta nel 1939. Nella velocissima campagna militare voluta dal Führer che in diciotto giorni aveva piegato la Polonia, lo storico identifica già tutti i germi dell'autodistruzione, di una strategia che non aveva alcuna possibilità di essere vincente. Le scelte di Hitler si caratterizzano da subito per alcune caratteristiche. La prima: ignorare le tempistiche di sviluppo delle forze armate tedesche che erano state delineate dalle gerarchie militari. La Germania nazista scende in campo molto prima di aver ultimato la modernizzazione delle sue forze. La seconda: la scelta di non condividere mai sino in fondo le proprie scelte e anche le informazioni con gli alleati, in primis gli italiani. Per usare le parole di Ullrich: «L'inchiostro con cui era stato firmato poche ore prima il Patto d'acciaio non si era ancora asciugato, e gia Hitler metteva in chiaro che non si sentiva vincolato dall'obbligo concordato di informare e consultare i suoi alleati». Anzi la volontà di Mussolini di trovare soluzioni pacifiche per la questione polacca fu vissuta come una pericolosa ingerenza. Gli italiani se ne resero drasticamente conto solo con il patto Ribbentrop-Molotov di cui gli italiani non erano stati in alcun modo informati. Per citare il diario di Galeazzo Ciano: «Torno a Roma disgustato dei suoi capi, dei loro modi di agire. Ci hanno ingannato e mentito».

Una grande menzogna era stata raccontata anche al popolo tedesco: e questo è il terzo nodo fondamentale dell'inizio delle ostilità. Per sostenere lo sforzo di riarmo e le faraoniche politiche del partito, Hitler già nel 1938 aveva portato la Germania sul limite del collasso economico. Un rischio che era stato per altro ampiamente previsto dal presidente della Reichsbank, Hjalmar Schacht, che anche per questo venne licenziato nel gennaio del 1939. Ecco perché Hitler parlando ai suoi vertici militari, perplessi nei confronti dell'entrata in guerra con la Polonia così presto, finì con l'ammettere: «Non abbiamo niente da perdere, solo da guadagnare. Per via delle nostre limitazioni, la situazione economica è tale che potremmo resistere ancora solo qualche anno... Non abbiamo altra scelta, dobbiamo agire».

Già nel momento del massimo consenso interno e prima ancora di aver fatto muovere i cingoli dei panzer verso la Polonia o di aver fatto decollare il primo Stuka, Hitler aveva già incatenato mani e piedi il suo Paese alla necessità di giocarsi il tutto e per tutto in guerra.

E se il libro di Ullrich è molto attento a delineare questa parabola inevitabile e intrinseca alla politica di Hitler e del suo entourage più stretto, che sin dall'inizio aveva le idee chiarissime sull'entità ferale del conflitto, lo è altrettanto a scardinare il mito della Wehrmacht sostanzialmente innocente rispetto a i crimini nazisti.

Se l'inizio delle ostilità l'attacco alla Polonia fu caratterizzato inizialmente da una grande freddezza della popolazione e uno scetticismo dei militari che pure non rallentava la loro esecuzione degli ordini, ben presto il tutto si mutò in una cieca adesione alla guerra e anche alla soluzione finale. Le linee guida fornite da Hitler, ben attento almeno all'inizio a fingere che la Germania fosse l'aggredita, vennero trasmesse con chiarezza ai militari e subito recepite. «Annientamento della Polonia in primo piano. L'obiettivo è l'eliminazione delle forze attive, non il raggiungimento di una linea specifica». Questa direttiva tattica, pienamente nella logica della guerra moderna, venne però accompagnata nella pianificazione al Berghof del 22 agosto 1939 con spiegazioni precise della natura etnica e feroce del conflitto che intendeva portare avanti: «Chiudere il cuore alla compassione. Agire con ferocia... La ragione è del più forte. Massima durezza». Era quella implacabile germanizzazione di cui i suoi generali sentivano parlare sin dal 1933. Questa volontà di sterminio etnico di cui nessuno in Germania poteva non essersi accorto diventa il cuore del capitolo intitolato «Verso l'olocausto» che non lascia spazio a dubbi sul peso delle responsabilità collettive. Collettiva anche l'altra atroce barbarie praticata dal regime: l'eugenetica, che ebbe con l'inizio della guerra una brusca accelerazione. Nacque così sotto l'anodino nome di «Comitato del Reich per la registrazione scientifica delle gravi patologie ereditarie e congenite» una vera e propria commissione della morte. Solo un esempio della velocità con cui si estese l'orrore: tra il settembre 1939 e la primavera del 1940, nei soli territori della Prussia occidentale e bel Wartheland, oltre 10mila pazienti psichiatrici vennero assassinati.

In questo crescendo di orrore e di autodistruzione dell'umanità all'interno della Germania la guerra si mutò rapidamente da gloriosa vittoria lampo in guerra di logoramento prima e in disperata resistenza verso un nemico sempre più preponderante poi. Sono quei capitoli che più si avvicinano alla vulgata sulla wagneriana e delirante strada di distruzione e di morte che porta sino al bunker della cancelleria dove Hitler si tolse la vita il 30 aprile 1945. Una strada che il dittatore percorse senza alcun segno - almeno esteriore - di dubbio o di crisi di coscienza. Ancora il 27 aprile del 1945 recriminando sulla situazione militare attribuiva la sconfitta al non essere stati capaci di far tabula rasa dei nemici interni ed esterni abbastanza in fretta: «Ci si pente dopo di essere stati così buoni». Ed è solo dopo la sua morte che molti tedeschi hanno aperto gli occhi oppure hanno scelto di lavarsi la coscienza disponendo di un colpevole. Come constatò lo scrittore tedesco Victor Klemperer: «Ora tutti, qui, sono stati sempre nemici de partito. Ma se lo fossero stati davvero sempre...». E quella bugia ormai può essere decostruita con onestà. E Ullrich lo fa.

I Combattenti.

Duello nella stratosfera: quando un principe fuggitivo entrò nella storia. Nella fase più incerta del Secondo conflitto mondiale, un principe russo scampato al comunismo e inteso a combattere il nazismo sarà protagonista di un duello nei cieli a un’altitudine mai raggiunta prima. Davide Bartoccini il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Piloti da guerra nella stratosfera

 Una vittoria senza vittime

Mai titolo di altezza reale fu tanto adeguato a un principe come nel caso di Emmanuel Galitzine, l’araldo volante che dopo essere scampato alla Rivoluzione d’Ottobre, si arruolò nella Royal Air Force britannica per dare filo da torcere ai nazisti che volevano imporre la svastica in tutta Europa.

Pronipote dello zar di tutte le Russie Paolo I, il principe era nato in Russia all'alba della rivoluzione bolscevica e la sua famiglia fu costretta a darsi alla fuga come tutti quanti facevano parte dell’aristocrazia russa per non rimanere vittime delle esecuzioni sommarie che stermineranno, tra gli altri, anche tutta la famiglia Romanov. Stabilitosi a Londra, il futuro asso dell’aria aveva ricevuto una buona educazione nonostante la precaria condizione di esule, e benché non fosse stato richiamato alle armi, allo scoppio del conflitto decise di arruolarsi nell’aviazione britannica che presto avrebbe avuto un disperato bisogno di piloti. La perdita di sua madre, rimasta uccisa proprio a causa di una bomba sganciata durante un blitz della Luftwaffe tedesca in quella che fu la Battaglia d'Inghilterra, non poté far altro che aumentare la sua ostinazione nel combattere quegli uomini che notte e giorno bombardavano la terra che lo aveva accolto.

Piloti da guerra nella stratosfera

Brevettato al volo dall'aeronautica finlandese, dopo essere stato a lungo sospettato d'essere una spia nemica per via del suo passato singolare, venne assegnato alla medesima squadriglia Raf che aveva visto volare tra le sue fila il famoso giocatore di rugby e principe russo, come lui esule, Alexander Obolensky, entrerà nella storia il 12 di settembre del 1942; quando a bordo del suo caccia monoposto Supermarine Spitfire Mk. IX per appositamente modificato per operazioni "ad altitudini elevate" intercetterà un bombardiere/ricognitore d'alta quota tedesco, il Junker 86 R-2 pilotato dal sottufficiale Horst Götz e comandato dal tenente Erich Sommer.

Solitario e indisturbato il bombardiere sperimentale tedesco fluttuava nell'aria rarefatta e gelida a oltre 12mila metri d'altezza sopra Southampton, quando il caccia dalla particolare livrea celeste di Galitzine lo intercetta nel tentativo di trovare battaglia.

Convinto che un caccia monoposto non avrebbe avuto l'ardore e la capacità di seguirlo ad una quota ancora più elevata, il comandante del bombardiere tedesco aveva ordinato di portare lo Junkers alla proibitiva altitudine di 13mila metri, certo di seminare l'inglese per proseguire senza spiacevoli contrattempi; ma scoprirà ben presto che quello Spitfire appositamente modificato non ha nessuna intenzione di mollare la preda. Galitzine infatti sgancia il serbatoio ausiliario e spinge al massimo i motori Rolls-Royce Merlin del suo caccia per portarsi alla stessa altitudine, nella stratosfera, e punta lo Junkers dritto sulla coda. È lì, sopra ogni nuvola, che il duello ha iniziò. Sarà il combattimento aereo alla maggiore altitudine mai registrato prima nella storia.

Una vittoria senza vittime

Per analizzare la straordinarietà dell'evento, è innanzitutto corretto ricordare che un aereo di linea attuale come un moderno Airbus A380 dichiara una tangenza massima di 13.100 metri. Metro più metro meno, dunque, il giovane e ostinato Galitzine, allora 24enne, era impegnato ad ingaggiare a oltre mille metri di altezza oltre l'inizio della stratosfera un bombardiere tedesco con un solo cannoncino, quello dell'ala destra - dal momento che l'altro, a causa della rigida temperatura imposta dall'altitudine, si era già congelato rivelandosi inservibile.

Furono appena poche raffiche - assai complicate dal rinculo del cannoncino da 20 mm che provocava pericolose imbardate e dalla scia di condensa lasciata dallo Junkers tedesco - a essere scaricate da Galitzine. Almeno uno o due colpi, tuttavia, centrarono le ali del bombardiere convincendo i tedeschi a ritirarsi per riportare l'accaduto: un rapporto che spingerà la Luftwaffe a considerarsi "vulnerabile" anche ad alta quota, cancellando dai suoi programmi l'idea di lanciare ulteriori raid di quel tipo contro l'Inghilterra.

Il principe aveva in qualche modo ottenuto la sua piccola vittoria: le bombe tedesche non sarebbero più cadute da altissime altitudini per colpire bersagli completamente ignari dell'agguato nemico. Avrebbe continuato a volare, fino alla fine del conflitto, prendendo tra le altre parte dall'Operazione Anvil-Dragoon: lo sbarco nella Francia meridionale che lo vedrà decollare più di una volta dal campo di volo di Ramatuelle, proprio alle spalle di Saint Tropez.

Quando non avrebbe mai immaginato, 33 anni più tardi, di incontrare a Londra quel pilota tedesco che aveva duellato con lui nella stratosfera in una mattina di fine settembre. Davanti a un bicchiere di sherry si raccontarono i problemi che avevano incontrato quel giorno a quell'altitudine proibitiva tanto per l'uomo quanto per loro straordinarie macchine volanti, felici di ritrovarsi vivi, entrambi.

Kommando, un testo inedito sulle forze speciali del Terzo Reich. Pioniere sul campo ma assai poco note, le forze speciali del Terzo Reich hanno portato a termine missioni temerarie in terra, mare e aria. Incentrato su di esse "Kommando", a cura di Italia Storica, è un prezioso compendio per appassionati di "unità d'élite" e storia militare. Davide Bartoccini il 30 Agosto 2023 su Il Giornale.

Si crede spesso di conoscere tutto quanto c'è da conoscere sul Terzo Reich e sulla guerra scatenata in Europa dalle armate di Hitler, eppure ci si inganna. Lo dimostra l'ultima pubblicazione di Italia Storica a cura di Andrea Lombardi Kommando, le forze speciali tedesche nella Seconda guerra mondiale di James Lucas.

Il testo inedito nella nostra lingua e rimaneggiato da Lombardi ripercorre infatti il pionieristico, strategico e temerario impiego delle unità speciali basate su commando e raggruppamenti d'élite che, agli ordini del'Abwher (il servizio segreto tedesco, ndr), della Kriegsmarine e della Luftwaffe, rispettivamente aeronautica e marina, hanno dato battaglia agli Alleati usando tattiche inedite quanto peculiari, insieme a una vasta gamma di mezzi anfibi e aerei speciali che potrebbero essere annoverati in una sotto categoria delle Wunderwaffen, le armi meravigliose. Tanto per citarne qualcuna: i siluri pilotati o "torpedini umane" Neger, i sommergibili tascabili Hecht e Moloch, o la combinazione di aereo-pilota e aereo-bomba nota come Mistel: sistema pionieristico e di grande valore strategico che andrebbe quasi associato al moderno concetto di munizionamento aereo "fire and forget".

Incentrato sulle Forze Speciali terrestri, navali e aeree, il libro (586 pagine sormontate dalla mitica insegna dei brandeburghesi con maschera e pugnale) dedica particolare attenzione, per stessa ammissione dell’autore, a quelle formazioni di “commando” e “unità di una specialità d’Arma convenzionale che vengono raggruppate per formare un distaccamento di combattimento di tipo speciale” che hanno preso parte ai cinque lunghi anni di conflitto combattuto dal 1 settembre del 1939 alla resa incondizionata della Germania nazista, che pure nelle ultime tragiche battute del conflitto ha visto il sacrifico dei piloti dei reparti di speronamento aereo noti come Rammjäger, quanto dei giovani e giovanissimi guerriglieri/sabotatori delle forze speciali definite come "politiche", inquadrate nelle bande Werwolf.

Non solo "Commando"

Nel libro J.Lucas non ripercorre soltanto le temerarie azione dei commando della Divisione "fantasma" Brandenburg o dei raggruppamenti speciali aviotrasportati di fallschirmjäger che si distinsero in operazioni leggendarie come "Quercia" - la liberazione di Benito Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso avvenuta nel 1943 sotto il controllo di Otto Skorzeny ma grazie al comando dello stimato maggiore Harald Otto Mors; ma analizza anche le azioni di destabilizzazione attutate dagli agenti del Servizio di Sicurezza delle Ss (Sicherheitsdienst, o Sd) in Boemia: impiegati come agent provocateur per fomentare una crisi politica facilitare l’invasione della Cecoslovacchia; sullo stormo per missioni aeree speciali o "segrete" Kg 200 (che all'occorrenza operava su velivoli nemici catturati, ndr); fino alle azioni subacquee dei Kampfschwimmer, specialità analoga agli uomini-rana italiani della Xª Mas.

Il tutto è puntualmente accompagnato da documenti, mappe, schede tecniche e materiale fotografico inedito quale utile contributo per riconoscere gli uomini che hanno comandato le operazioni e comprendere meglio il tipo di mezzi e unità schierate sul campo.

Come di consueto Italia Storica scova nello sterminato panorama editoriale dedicato alla storia militare, in particolar modo concentrato sui conflitti del XX° secolo e su quanto legato al Terzo Reich, un argomento tanto di nicchia quanto interessante ed essenziale per avere contezza delle invidiabili capacità raggiunte dalle forze speciali tedesche che, a differenza dei commandos britannici e degli uomini rana della nostra Regia Marina, rimangono sconosciute ai più. Fino ad oggi almeno.

I Raid.

Storia d'assalto. Atlantis, la nave corsara nazista che dettò la caduta di Singapore. L'ultima nave corsare tedesca entrò in possesso di documenti classificati di altissimo livello, così Singapore cadde in mano ai giapponesi, alleati di Hitler e Mussolini nelle fila dell'Asse. Davide Bartoccini il 12 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Novembre 1940, Oceano Indiano. Una nave corsara nazista avvista a proravia una sagoma in navigazione, circa duecento miglia a nord-ovest dell’isola di Sumatra. Potrebbe trattarsi di un preda bellica come tante altre, come una delle tante catturare e affondate dall’esperto comandate della Kriegsmarine Bernhard Rogge, predatore camaleontico che si aggira per i sette mari al comando di un mercantile di 155 metri armato come nave corsara, classificato come Schiff 16, e ribattezzato Atlantis, come il leggendario continente perduto.

Identificata come nave britannica, la preda viene ingaggiata secondo le consuete procedure della guerra di corsa: avvicinata con l’inganno per intimare la resa con la minaccia di adoperare i cannoni ben camuffati sul ponte. La prima bordata di avvertimento viene sparata dall’Atlantis che può contare su ben 6 cannoni da 150mm, oltre all’artiglieria contraerea e un singolo pezzo da 75.

A bordo nella nave britannica è il caos, cercando di forzare il blocco opposto dall’Atlantis un inteso cannoneggiamento proveniente dalla nave corsara martella il ponte di comando, e tra morti e feriti, quindici plichi di posta destinati al British Far East Command e classificati come top secret rimangono incustoditi fino all’arrembaggio dei marinai tedeschi armati di pistole mitragliatrici Mp-40; contengono informazioni della massima importanza strategica. Ma facciamo un passo indietro, all’inizio dell’epopea corsara dell’Atlantis.

Nave corsara agli ordini di Dönitz, per volere di Hitler

Mercantile della compagnia Hansa Goldenfels varato nel ’37 , con una stazza poco inferiore alle ottomila tonnellate, l’Atlantis non era molto diversa da tante altre navi che percorrevano avanti e indietro le principali rotte marittime che collegavano commerci e interessi nel mondo.

Adeguata per aumentare le capacità delle sue riserve di carburante, per accogliere, lanciare e recuperare due idrovolanti Arado Ar-196 (in origine Heinkel He-114), quattro tubi lanciasiluri, trasmettitori radio, un telemetro nascosto nel serbatoio dell’acqua, cannoni navali e mine navali elettriche del tipo C, che avrebbe inizialmente posato a largo di Capo Agulhas, dove l’Oceano Atlantico Meridionale e quello Indiano s’incontrano, prese il mare nel secondo anno della guerra scatenato dalla Germania Nazista. Cinque minuti prima della mezzanotte di un venerdì 13, per ragioni dovute alla nota scaramanzia degli uomini di mare.

Atlantis “camaleonte” dell’Oceano Indiano

Agli ordini dell’astuto capitano Rogge, l'Atlantis venne puntualmente dipinta e ridipinta per camuffarsi da nave mercantile di potenze neutrali o alleate dopo aver attentamente studiato il registro delle spedizioni internazionali della compagnia di assicurazioni Lloyd, individuando profili, stazza, peculiarità come fumaioli e poppa per essere “più che confondibile” ad ogni avvistamento, e fino a poco prima dell’abbordaggio di una qualsiasi preda che avrebbe cercato di lanciare immediatamente il segnale radio in codice "Qqq" - ossia l'assalto di una nave corsara - mentre l'Atlantis abbandonava le bandiere di comodo per issare le insegne da battaglia tedesche.

Era infatti abitudine dell’equipaggio armarsi di pennelli e tavole sospese per ridipingere da cima a fondo lo scafo e ogni parte lo richiedesse, prima di issare bandiere di Norvegia, Olanda, Russia e perfino Giappone. Per spaventare navi sospettose nei momenti più “delicati”, sventolava la bandiera gialla di quarantena, che significata lo stato di quarantena a bordo. Dopo aver razziato e preso il controllo di unità minori, arriverà per fino a fingere d’essere ella stessa una nave “catturata” e scortata verso il porto per superare i controlli della marina britannica e procedere con l’arrembaggio.

La sua lunga missione iniziò fingendosi la giapponese Kasii Maru della Kokusai Company: una nave da carico passeggeri gialla e nera con un grande K bianco sul fumaiolo rosso. Fa sorridere il pensiero che l’equipaggio della Kriegsmarine indossò addirittura dei kimono per ingannare le vedette della britannica Hms Exter.

Spie da Singapore

Quando l’Atlantis incontrò la sfortunata rotta di una solitaria nave inglese a largo di Sumatra, l’11 di novembre 1940, nessuno poteva immaginare che a bordo avrebbero trovato documenti segreti come tabelle di decodificazione dei messaggi in cifra usati dai mercantili inglesi, report dell'intelligence della Royal Navy, ordini da impartire alla flotta dell’Estremo Oriente e vari informazioni sull’artiglieria; ma sopratutto una piccola borsa marcata con la dicitura “Altamente confidenziale” che conteneva un report dettagliato del Comandante in Capo dell'Estremo Oriente, il maresciallo dell’aria e Sir Robert Brooke-Popham: esso riportava, oltre ai dettagli delle difese navali e aeree britanniche che doveva proteggere la “fortezza” di Singapore, lo stato delle capacità militari marine e terrestri inglesi nell'Estremo oriente, delineando la debolezza del Regno Unito in quel teatro della Malesia, e concludendo che l’entrata in guerra contro l’Impero Giapponese avrebbe rappresentato un enorme rischio.

Di norma tali documenti sarebbe stati distrutti o gettati fuori bordo se solo la nave fosse stata prossima al rischio di cattura, ma appare ovvio come i messaggeri, rimasti uccisi o gravemente feriti, non siano stati capaci di adempiere il loro dovere. Il lauto bottino fu impiegato sia dagli alti papaveri di Berlino, che dagli agenti d’intelligence giapponese, i quali ricevettero attraverso attraverso l'attaché navale presso l’ambasciata tedesca di Tokyo per informazioni più rilevanti. Per tale ragione, dopo la conclusione della battaglia della Malesia e la caduta di Singapore, i giapponesi regalarono al capitano Rogge una spada da samurai ornata di diamanti, rendendolo uno dei tre tedeschi - gli altri due erano niente di meno che Hermann Göring ed Erwin Rommel.

Si crede infatti che le informazioni top-secret trafugate sull’Automedon abbiano condizionato l’ammiraglio Yamamoto nella pianificazione dell'attacco a sorpresa di Pearl Harbor, e nelle manovre che portarono alla caduta di Singapore.

L’epilogo e la salvezza firmata Fecia di Cossato

“Dopo aver portato a termine con successo la sua missione e aver percorso 102.000 miglia in 622 giorni in mare, Atlantis fu localizzata e distrutta mentre era sul punto di tornare a casa e mentre era impegnata in un'operazione di rifornimento che non era inclusa nei suoi ordini operativi…. La nostra amarezza per la perdita della nostra nave è stata intensificata dal pensiero che avremmo dovuto abbandonarla senza combattere”. Scrive di suo pugno in data 22 novembre del 1942 il comandante dell’Atlantis nel diario di bordo.

Sorpreso mentre era intento a rifornire di carburante un u-boot nel settore “battuto” dalle navi da guerre britanniche che iniziavano a "riconoscere" e pattugliare i punti di rendez-vous dove potevano incontrarsi le navi d'altomare naziste, l’Atlantis venne ingaggiato dall’Hms Devonshire, incrociatore pesante britannico. Questo nonostante continuasse a spacciarsi alla radio per l’Ss Polyphemus, mercantile olandese. Il comandante della Devonshiere aveva mangiato foglia e ordinato di fare fuoco sulla nave corsara mentre l’equipaggio dell’Atlantis minava la nave e si apprestava ad abbandonarla con una certa premura.

Mentre la nave colava sul fondo dell'Oceano, come l'Atlantide sommersa, trecentocinquanta tra ufficiali e marinai si trovarono abbandonati a se stessi, in balia delle onde su poche scialuppe di salvataggio e senza possibilità d'essere tratti in salvo: dal momento che la presenza di un sottomarino nemico nell’area non garantiva incolumità all’attaccante britannico, che doveva fare rotta a zig-zag verso acque sicure. Va annotato che l’incrociatore Hms Dorsetshire, compagno di battaglia e pattugliamento del Devonshire, aveva già affondato la nave corsara gemella dell'Atlantis, il Pinguin.

I naufraghi alla deriva verranno recuperati al largo delle isole di Capo Verde da una spedizione congiunta di u-boot tedeschi e sommergibili della Regia Marina italiana che comprendeva l’Enrico Tozzoli comandato da Carlo Fecia di Cossato, il Luigi Torelli comandato da De Giacomo, il Pietro Calvi agli ordini del comandante Olivieri, e il Giuseppe Finzi, del comandante Giudice. Dopo aver circumnavigato il globo in un viaggio di 110.000 miglia nautiche - di cui 1.000 su scialuppe di salvataggio 5.000 miglia nelle profondità marine a bordo del sommergibile che lo aveva tratto in salvo - il capitano Bernhard Rogge faceva ritorno a casa. Sopravvissuto alla guerra con il grado di ammiraglio, nel 1957 verrà richiamato a formare la nuova Marina tedesca inquadrata nella nuova Alleanza Atlantica. Al pari di Atlantide, rimane una leggenda che ognuno dovrebbe conoscere.

La guerra corsara dello "Emden": terrore dei mari d'Oriente. Storia di Davide Bartoccini su Il Giornale giovedì 27 luglio 2023.

C’era una volta la guerra di corsa, quando le navi di potenze belligeranti armate e spesso camuffate, in diritto d’una lettera di corsa - necessaria garanzia emessa dal governo- catturavano o distruggevano mercantili di una potenza avversaria per ostacolarne il commercio, minarne le finanze e trarne soprattutto ogni profitto. Antica tradizione d’invenzione squisitamente britannica – tra i corsari più noti della storia ricordiamo infatti Sir Francis Drake e Sir Henry Morgan, entrambi al servizio di Sua maestà – sarà la Germania l'ultima grande potenza ad impegnarsi e farsi valere in questa pratica.

Lo ha fatto, iscrivendo nella leggenda il suo Sms Emden, incrociatore leggero della Kaiserliche Marine che una volta salpato da Tsing Tao in Cina, mieterà nei mari dell’estremo oriente ben 30 navi nemiche nell'autunno del 1914. Primo anno di quella che verrà da tutti ricordata come la Grande Guerra.

Soprannominata il “Cigno d’Oriente” data l’estrema eleganza della sua linea, l'Emden era affidato ai comandi del capitano di fregata Karl von Müller – l’archetipo marinaresco di quella stirpe prussiana di combattenti naturali da cui egli stesso discendeva - e del suo secondo, il tenente di vascello Helmuth von Mucke. Classificato come incrociatore mercantile leggero “armato” di classe Dresden, l'Emnden era stato costruito a Danzica per una stazza di 3.593 tonnellate e una lunghezza di 118 metri dalla bianca e immacolata livrea. Come incrociatore armato era provvisto di dieci cannoni da 10,5 cm di calibro, quattro mitragliatrici e due tubi lanciasiluri che, assieme alla sua manovrabilità e velocità massima di 24 nodi, lo rendevano un avversario temibile e difficilmente “identificabile”.

30mila miglia nautiche a cacci di un ricco bottino

Abbandonato lo Ostasiengeschwader, forza navale incaricata di proteggere i possedimenti coloniali tedeschi e i mercantili che transitavano nell’area dell’Oceano Indiano, l’ordine dello Emden divenne presto quello di "assaltare i mercantili" delle potenze che nel frattempo si erano alleate contro gli Imperi centrali. Compiva “incursioni" nel Golfo del Bengala e incrociando le rotte marittime più trafficate per ostacolare in ogni modo il transito di navi nemiche, fossero queste militari o commerciali, che dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, dai possedimenti d'oltremare francesi o britannici, e dal Giappone, puntavano con il loro prezioso carico verso la vecchia Europa divisa dalle trincee.

Saranno 23 le navi mercantili alleate catturate dal Cigno d’Oriente, che incuteva tanto terrore da rallentare di molto la partenza di un convoglio di rifornimenti militari provenienti dell’Australia. Ma non si limitò a questo. Il Cigno distrusse anche un deposito della Burma Oil a Madras in una sortita eccezionale: dopo essere entrato fin dentro il porto per evitare di colpire edifici civili con il tiro dei cannoni da lunga distanza, centrò con poche bordate ben mirate serbatoi, una batteria costiera e addirittura un carro armato. Due furono le navi da guerra affondate - l’incrociatore russo Zhemchug e la torpediniera francese Mousquet - nell’attacco di Penang, al largo di quella che al tempo era la Malesia britannica.

Un inganno da gentiluomini

Una delle tattiche preferite del comandante dell'Emden era quella di camuffare la sua nave corsara come fosse un incrociatore britannico, o come una nave di linea, per “avvicinare” e catturare mercantili quando era troppo tardi per qual si volesse fuga o manovra evasiva. L’idea di camuffare la nave aggiungendo un quarto finto fumaiolo ai tre già presenti, era inoltre una garanzia di sopravvivenza nelle acque infestate da navi da guerra nemiche che presto avrebbero iniziato a darle la caccia.

A eccezione di questo escamotage assai poco corretto in tempo di guerra, rimase ben nota la condotta da gentiluomo del capitano von Muller, che si dimostrerà sempre integerrimo nei confronti degli equipaggi avversari presi prigionieri, tanto quanto dei passeggeri imbarcati sulle navi catture. Garantendo sempre un passaggio verso porti neutrali dove potevano essere sbarcati per essere liberati o scambiati.

La gesta cavalleresche mostrate dal comandante von Müller saranno tanto roboanti da trovare addirittura spazio sui quotidiani britannici, che rimarranno, come di rado è capitato nella storia, estremamente colpiti dal senso di umanità del nemico rendendo Müller e i suoi degli “eroi” suppur temuti in tutti i mari d’Oriente.

Affondate la Emden, imperativo per la flotta alleata

Dopo mesi di scottanti sconfitte e audaci incursioni patite ai danni di porti e installazioni, con ben cento tonnellate di naviglio “catturate” dal comandante Von Müller, distruggere l'Emden divenne in quei mesi imperativo categorico per le flotte alleate a cavallo tra il Pacifico e l’Oceano Indiano.

Pare che all’apice della caccia, furono ben 78 le navi da guerra britanniche, francesi, russe e giapponesi impegnate a perlustrare i mari e le remote isole alla ricerca dell'incrociatore corsaro al servizio del Kaiser Guglielmo. L’ordine per ogni stazione telegrafica presente su isole, atolli o continente era quello di scandagliare continuamente l’orizzonte e segnalare immediatamente il passaggio di navi che potessero somigliare alla nave corsara per fornire le coordinate e ipotizzare possibili rotte per raggiungerla al fine di trovare battaglia. Anche perché, nel frattempo, i tassi di assicurazione delle navi mercantili che doveva affrontare le rotte depredate dall'Emden erano saliti alle stelle. E tutti chiedevano una scorta di navi da guerra che sovente era impossibile garantire.

L'epiologo di un'impresa da romanzo

Quando il 9 novembre del 1914, l'Emden arrivò a vista dell’arcipelago delle Cocos dove intendeva distruggere la stazione di comunicazione britannica situata su Direction Island, nessuna nave nemica doveva trovarsi alla sua portata. Le comunicazioni intercettate nei giorni precedenti e la mancanza di contatti visivi, avevano convinto Von Müller a passare all’azione. Ma un convoglio pesantemente scortato, che aveva mantenuto il silenzio radio, stava facendo rotta a poca distanza dalle Cocos.

Quando la piccola squadra d’assalto condotta a terra da Von Mücke sbarcò sull’isola per sabotare la stazione, l'incrociatore australiano Hmas Sydney ingaggiò l'Emden, che nel frattempo era stato segnalato. Con cannoni più potenti e una maggiore corazzatura, inatteso e più veloce nella manovra, l’incrociatore australiano ebbe la meglio sul vecchio Cigno d’Oriente, caduto nella stesso errore di valutazione che molte sue prede avevano fatto: a bordo aveva scambiato la nave nemica per la carboniera Buresk, che aveva fino al giorno prima affiancato l'Emden. I più fidati cannonieri tedeschi, inoltre, erano tutti a terra con la squadra d’assalto.

Al contrario i cannonieri australiani centreranno immediatamente l’apparato radio della nave nemica, riducendola al silenzio e a brandelli, bordata dopo bordata. Faccia a faccia con l’epilogo, il comodante Von Müller, ormai sconfitto, si rifiutò di abbandonare la nave, facendola arenare sulla barriera corallina di North Keeling Island. Lì dove il suo inquietante relitto rimase fino per oltre 30 anni.

Nel fervore della battaglia, 134 marinai e ufficiali della Marina imperiale tedesca persero la vita. Il comandante Von Müller e una ventina di superstiti vennero fatti prigionieri. Von Mücke e i 50 uomini posti ai suoi ordini per l’azione di sabotaggio, trovarono e fuggirono quindi su una goletta a vela, l’Ayesha. Riusciranno a tornare in Germania portando con loro il racconto incredibile di una sontuosa avventura. La leggendaria storia dello Sms Emden e dell’ultimo capitolo della guerra di Corsa. Entrambi gli ufficiali sopravviveranno alla Grande Guerra, passando alla storia come eroi degni d’imprese che andranno ben oltre le avventure di Conrad e di quelle immaginate per il capitano Aubrey raccontato da O'Brian, oltre ogni ogni linea d’ombra, oltre la vastità dei confini del mare che avevano dominato come astuti marinai e gentiluomini in battaglia.

Colossus, Little Fortune e italiani brava gente nel primo “raid” dei diavoli rossi Davide Bartoccini il 29 Giugno 2023 su Il Giornale.

Nel 1941 paracadutisti alleati si lanciarono sull'Italia nell'operazione Colossus: il sabotaggio di un acquedotto vitale per i porti strategici delle Puglie

Febbraio 1941, nella notte aerei nemici sorvolarono i cieli dell’Italia meridionale, alcuni colpiscono con le loro bombe obiettivi secondari, di poco conto, nelle Puglie e nei pressi di Avellino. Sembra una missione priva di senso; un errore di valutazione, si penserà all'alto comando; ma non è niente di tutto ciò. Quella di una coppia di bombardieri sganciatisi dal gruppo principale era solo un’operazione diversiva per confondere le acque mentre nei cieli della Lucania un raggruppamento di commandos si lanciava con un solo e unico obiettivo: distruggere l’Acquedotto Pugliese e minare le risorse idriche di un’intera regione strategica in quello che diverrà noto come “il ventre molle dell’Europa”, secondo Churchill e i suoi delfini del Soe. Colpire ovunque si possa per minare il morale dell’avversario, senza risparmiare i colpi più bassi nella ricerca della vittoria a tutti i costi; sarà quella d'ora in avanti la missione dei commandos.

È per dare inizio a questo progetto che una squadra di sabotatori composta da membri dello Special Air Service e dei Royal Engineers, si è lanciata da bombardieri Whitley nei pressi di un viadotto eretto sul torrente Tragino, al confine tra Campania e Basilicata. Devono minare la struttura, farla saltare in aria, e così privare dei rifornimenti d'acqua dolce i porti strategici di Taranto, Brindisi e Bari. L'Operazione prende il nome in codice di "Colossus" e l'unità mista che si è unità nella cosiddetta "X Troop": prima formazione militare britannica a prendere parte in un'azione militare lanciandosi con il paracadute.

Una volta portata a termine la missione - basata su informazioni acquisite tramite una ditta privata che aveva collaborato alla costruzione di questa opera idrica straordinaria per la sua epoca, la George Kent & Sons - i commandos si sarebbero ritirati verso la costa, puntando la foce del fiume Sele dove cinque giorni dopo un sottomarino, l'Hms Triumph, li avrebbe prelevati per portarli a Malta.

Isola fortezza dalla quale erano partiti con particolari dotazioni che faranno scuola. È infatti questo uno dei primi raid di commando operati dietro le linee che indusse Londra a prendere necessarie accortezze per i suoi soldati, come la dotarli di valuta locale, 50mila lire cucite nei colletti della camicia, e mappe dell'Italia stampate su foulard di seta cucite nelle fodere delle maniche delle loro battle dress. Le stesse accortezze verranno prese per i piloti inviati in missione sui territori occupati. Piloti di bombardieri, da caccia, o degli aerei che trasportavano le spie proprio per il Soe.

Una mera missione di disturbo

Tanto vale chiarire subito che la missione, di indubbia audacia, a maggior ragione perché i parà si lanciarono dalla temeraria altitudine di soli 120 metri, si concluderà in un fallimento abbastanza eclatante: con un gruppo di paracadutisti lanciati fuori la zona designata; la perdita di buona parte dell'esplosivo e dell'equipaggiamento lanciato negli appositi contenitori; l'amara scoperta che il viadotto del Tragino, "fiume “nascosto” della Puglia, lungo ben 244 chilometri "era stato eretto dove serviva in solido cemento armato; e con la cattura di tutti commandos inglesi, che nel corso dell'azione senza esito - i danni all'acquedotto furono limitati - uccisero due civili italiani armati. Si annoti inoltre che, a causa di avaria/danno ai motori, uno dei bombardieri inglesi comunicò via radio di tentare un ammaraggio proprio nei pressi del punto scelto per il rendez-vous che avrebbe portato a termine l'esfiltrazione del commando. Per tale ragione, la missione di recupero del sottomarino venne annullata dato il rischio che la segretezza della missione fosse stata compromesso. O altre ai commandos venisse catturato anche il sottomarino.

Questa storia di guerra, nonostante illustri il preludio di tutte le operazioni aviotrasportate condotte dagli Alleati nel corso dell'intero conflitto, è comunque un pretesto per raccontare la vicenda dell'idealista Fortunato Picchi, Little Fortune, come lo chiamavano gli inglesi, e la condotta onorevole del generale Nicola Bellomo; che dopo essersi fatto consegnare come segno di resa la pistola dell'ufficiale inglese più alto in grado, una Colt M1903 "pocket", mise sotto la sua protezione i 35 prigionieri che rischiavano d'essere linciati da una folla dei civili inferociti che invocavano un'esecuzione sommaria, da consumare all'istante, per vendetta. Il possesso di quella pistola, tenuta come particolare arma d'ordinanza, tornerà bruscamente nella storia del generale del Regio Esercito, che sarà fucilato dagli stessi inglesi nel 1945.

Lo chiamavano Little Fortune

Quando il controspionaggio italiano interrogherà gli inglesi catturati, un uomo meno giovane degli altri balzerà subito all'occhio. Si era spacciato per francese, ma rispondeva in vero al nome di Fortunato Picchi. Gli inglesi però lo chiamavano "Little Fortune", era veterano della Grande Guerra, ed un esule antifascista che si era trasferito a Londra, dove lo si poteva incontrare nello splendido Hotel Savoy, impegnato a ricoprire il ruolo di responsabile di sala durante i banchetti. Internato in Canada come tutti gli italiani allo scoppio della guerra, Picchi era stato "rivalutato" dallo Special Operation Executive impegnato a formare delle cellule di "inglesi d'importazione" che potessero operare dietro le linee grazie alla loro padronanza della lingua parlata dal nemico.

Little Fortune, narrato come un "mite cameriere quarantenne" non ci pensò due volte ad arruolarsi nelle nuove forze speciali inglesi, sentendosi "più inglese degli inglesi", come scriveranno nel suo dossier di valutazione i cacciatori di teste del Soe. Tuttavia, per quanto lui potesse sentirsi inglese, restava pur sempre un italiano con un uniforme nemica indosso. Per il controspionaggio è semplicemente un traditore, e come tale deve finire davanti a un plotone d'esecuzione.

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato lo vedrà infatti colpevole di "tradimento e connivenza con il nemico", condannandolo a morte. La pena verrà eseguita il 6 aprile dello stesso anno presso il Forte Bravetta di Roma. Nella lettera indirizzata alla madre, Picchi scriverà: “Mi dispiace cara mamma per voi e per tutti .. di morire non mi importa gran cosa, della mia azione mi pento perché proprio io che ho voluto sempre bene al mio Paese debbo oggi essere riconosciuto come un traditore. Eppure io in coscienza non penso così". A margine della lettera, un semplice "Viva l'Italia" anticiperà di molto l'epilogo degli ultimi pensieri strazianti di tanti uomini destinati all'esecuzione per aver cospirato contro il potere vigente. Little Fortune, come altri, non troverà sepoltura. Le spoglie perdute, il ricordo svanito per anni. Saranno il tempo e il cambiare del vento a dare ragione all'atto di coraggio di un cameriere tranquillo, che poteva restarsene in disparte. Rendendolo un patriota della Repubblica e della Corona.

Storia d'assalto. La flotta che salvò l'onore britannico in Norvegia. Nel 1940 la corazzata Warspite annichilì la flotta tedesca nelle acque di Narvik, facendo sì che la Royal Navy uscisse vittoriosa dalla campagna di Norvegia. Andrea Muratore l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.

Prima del "We shall never surrender" di Winston Churchill, pronunciato nel maggio 1940 alla Camera dei Comuni poco dopo la nomina a Primo ministro britannico, la volontà di resistenza del Regno Unito nella Seconda guerra mondiale fu dimostrata dalla tenace volontà di sostenere la Norvegia invasa dalla Germania nazista: la "crociera" bellica della flotta della corazzata Warspite, che si risolse in una vittoria pressoché totale sulla Kriegsmarine germanica, fu un esempio della capacità di risposta della Royal Navy che aveva come referente politico, cioè Primo Lord dell'Ammiragliato, proprio sir Winston tra il 1939 e il 1940. E motivò la volontà britannica di continuare a combattere.

A partire dal giorno dopo l'invasione tedesca della Norvegia, avvenuta il 9 aprile 1940, le forze navali britanniche colsero l'occasione per ingaggiare nelle acque del Paese nordico la cui neutralità era stata violata dai tedeschi una flotta nemica in larga inferiorità in termini di preparazione militare. L'obiettivo era colpire la flotta tedesca attorno Narvik, punto più lontano dalle basi della Kriegsmarine nel Mare del Nord. A guidare la flotta fu messa in campo la corazzata Hms Warspite, una componente della classe Queen Elizabeth entrata in linea nel 1915 e schierata già nella dura ma non risolutiva Battaglia della Jutland del 1916.

La 2nd Destroyer Flotilla, comandata dal commodoro Bernard Warburton-Lee, il 10 aprile 1940 si confrontò senza coinvolgimento diretto della Warspite ingaggiando una flottiglia tedesca: la battaglia, non risolutiva, portò all'affondamento di due cacciatorpediniere per parte, alla perdita di una petroliera tedesca e alla messa fuori combattimento di sei navi da carico della Kriegsmarine. Questa mossa costrinse la Kriegsmarine a ritirarsi nelle acque di Narvik e a lasciare mano libera alla Warspite, che incrociava alle spalle della flotta che aveva combattuto il 10.

La nave da 196 metri di lunghezza e 33mila tonnellate da dispiegamento, armata di quattro cannoni da 381 millimetri e quattordici da 152 mm fu affiancata da ben nove cacciatorpediniere. Tra questi quattro moderni della classe Tribal (Bedouin, Cossack, Punjabi ed Eskimo) assieme ad altri cinque di scorta appartenenti a classi precedenti (Kimberley, Hero, Icarus, Forester e Foxhound). Già solo la flotta di scorta avrebbe creato la superiorità numerica contro quella tedesca, che constava di otto navi residue.

Il 13 aprile la Warspite giunse vicino alla flotta nemica e iniziò una campagna che avrebbe portato a una delle più nette vittorie navali della Seconda guerra mondiale. I suoi cannoni da lunga gittata schiacciarono i caccia tedeschi a ritirarsi nell'Oftofjord vicino Narvik e qua venne fuori la supremazia navale nel manovrare in acque strette e in condizioni di grave pressione operativa. I lanciasiluri dei cacciatorpediniere di scorta colpivano da lontano i vascelli rivali, rallentandoli di fronte alle poderose bordate della Warspite. Nel primo pomeriggio del 13 aprile colarono a picco tre navi tedesche: i cacciatorpediniere Erich Koellner, Diether von Roeder e Erich Giese.

Il comandante della Warspite, l'ammiraglio William Whitworth, avrebbe potuto accontentarsi di un risultato già di per sé soddisfacente. Ma l'ufficiale nato nel Kent nel 1884 e che aveva avuto, diciassettenne, il suo battesimo del fuoco come fante di marina inviato in Cina nella spedizione contro la Rivolta dei Boxer, veterano della Grande Guerra e comandante di una piccola flotta nella campagna di Norvegia, non volle fermarsi. Un suo aerosilurante Swordfish riuscì con bombe da 250 libbre a colpire e affondare l'U-64, sommergibile tedesco ancorato nell'Herjangsfjord vicino a Bjerkvik, in un episodio che testimoniò il primo affondamento di un battello di questo tipo dal cielo. E presto nel pomeriggio del 13 aprile ben cinque cacciatorpediniere tedeschi, ritrovatisi senza carburante e munizioni, furono costretti ad autoaffondarsi.

La Kriegsmarine aveva perso in tre giorni metà dei suoi cacciatorpediniere, per la Royal Navy si ottenne invece un successo strategico dopo la caccia che aveva portato all'autoaffondamento a fine 1939 della nave corsara Graf Spee nel Mar della Plata. Nel mare di Narvik la disfatta navale isolò il corpo di spedizione tedesco composto da truppe alpine, più volte incalzate da truppe norvegesi, francesi, britanniche e polacche ivi sbarcate e cacciate dalla città fino al 9 giugno successivo, quando furono evacuate dopo che altrove, proprio nelle pianure delle Ardenne e del Nord della Francia, la Wehrmacht era dilagata in tutta la sua forza. La Royal Navy uscì vittoriosa da una campagna che si concluse con l'occupazione tedesca della Norvegia, ma a un duro prezzo. Che sarebbe rimasto una costante per tutto il resto della Battaglia dell'Atlantico, che i tedeschi dovettero condurre quasi esclusivamente con i sottomarini avendo perso, nelle gelide acque del Nord, buona parte del loro potenziale di superficie.

Nome in codice Kikusui: quando i kamikaze si immolarono a Okinawa. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 4 maggio 2023.

Kikusui ("Acqua dei Crisantemi") era il nome dello stendardo da guerra del leggendario samurai giapponese Kusunoki Masashige, guerriero nipponico simbolo di nobiltà e fedeltà morto nel 1336. La sua nobiltà e fedeltà furono richiamati dalle forze armate dell'Impero giapponese nell'ora più buia, precedente la disfatta finale, della Seconda guerra mondiale, quando proprio allo stendardo Kikuskui fu intitolata l'operazione con cui i kamikaze nipponici furono spinti a immolarsi in massa per contrastare le operazioni americane e britanniche al largo di Okinawa, isola in cui infuriava una ferocissima battaglia tra le armate del Sol Levante e gli Alleati.

Kikusui, kamikaze a Okinawa

Forza della disperazione e forza di un irrefrenabile senso dell'onore. Spesso risoltosi in drammatiche scelte. Questo spinse i generali e gli ammiragli dell'Impero giapponese a riscoprire la leggenda del "Vento Divino", il "kami-kaze" che nel XIII secolo, poco prima dell'epopea di Kusunoki aveva distrutto la flotta mongola di Kubilai Khan salvando il Giappone. Interpretandone la riedizione moderna sotto forma del varo dell'armata di aerei suicidi chiamati a immolarsi contro le portaerei e le altre navi della flotta alleata.

Perse con la battaglia del Golfo di Leyte, a inizio 1945, le ultime portaerei e sbandate le ultime corazzate di peso, perse molte isole strategiche nell'Indo-Pacifico le forze del Giappone trovarono nella riconversione in aerei da attacco suicidi dei caccia Zero e dei bombardieri della flotta imperiale e dell'Esercito un estremo tentativo di fermare l'avanzata anglo-americana. La questione chiave della storia dell'ultimo, folle per la mentalità occidentale ma chiaro per quella nipponica, tentativo di resistenza, sta nell'adesione massiccia dei piloti dell'imperatore Hirohito alla missione suicida di massa.

Inizialmente gli attacchi suicidi dei kamikaze erano apparsi gesti estemporanei, che avevano portato le forze armate del Giappone a incassare risultati come l'affondamento di due portaerei leggere, di diverse navi di scorta e di decine di mercantili al largo delle Filippine durante la battaglia di Leyte. A aprile 1945, con gli americani in movimento su Okinawa, l'ammiraglio Matome Ugaki, nominato due mesi prima comandante della Quinta Flotta Aerea dell'Aviazione del Giappone, si mosse per organizzare la campagna suicida di massa. Mentre in Europa la Germania nazista veniva travolta dall'avanzata congiunta di Alleati da Ovest e sovietici da Est, nell'ottica di Tokyo la resa era ritenuta un'operazione totalmente da escludere.

Le dieci ondate dei kamikaze su Okinawa

Ugaki ordinò "la conversione in aerei d'attacco speciali di tutti gli aerei da guerra dell'esercito e della marina" applicando le direttive del Quartier Generale delle Forze Armate di Tokyo. I mitici caccia Zero, gli aerosiluranti Tenzan, i bombardieri pesanti Hiryuus furono convertiti in larga misura in "bombe" volanti. I migliori piloti dell'aviazione furono risparmiati dalle missioni suicide per organizzare la copertura da caccia necessaria alla strategia dell'Operazione Kikusui.

A partire dal 6 aprile 1945, in dieci diverse ondate, stormi di centinaia di aerei si alzarono in volo da Formosa e da Kyushu per dirigersi nel Mar di Okinawa. Squadroni componenti almeno 300 aerei per volta, per due terzi kamikaze e per un terzo di scorta, prendevano intenzionalmente di mira le navi alleate. Mentre nel frattempo anche la super-corazzata giapponese Yamato partiva per la sua missione suicida nelle stesse acque, che si sarebbe conclusa con l'affondamento della più grande nave del Sol Levante, i cacciatorpediniere Haynsworth, Bush e Colhoun della United States Navy divennero le prime vittime degli stormi di kamikaze caduti in picchiata sulle navi alleate. Con lealtà e dedizione, il fior fior dell'aeronautica giapponese scelse consapevolmente la strada della morte: l'obiettivo era portare con sé il maggior numero possibile di militari nemici, far pagare loro duramente l'appoggio a una campagna di conquista che si riteneva violante il territorio metropolitano dell'Impero.

"Morire era l'adempimento supremo del nostro dovere"

Assieme ai veterani, si unirono in massa una serie di giovani reclute, spesso addestrate a volare esplicitamente per conseguire l'obiettivo ideologico di morire per l'Imperatore nell'inferno di Okinawa. "Siamo stati addestrati a sopprimere le nostre emozioni. Anche se dovessimo morire, sapevamo che era per una causa degna. Morire era l'adempimento supremo del nostro dovere e ci fu comandato di non tornare. Sapevamo che se fossimo tornati vivi i nostri superiori si sarebbero arrabbiati"", dichiarò nel 2015 al Guardian il 92enne Hisao Horiyama, tra i pochissimi a sopravvivere a questa fase cruenta.

Salvato dall'armistizio e dalla resa del 15 agosto 1945 seguita al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Horiyama è tra i pochi kamikaze arruolati ad aver raccontato la sua storia personale. Come lui, migliaia di giovani si immolarono nei due mesi dell'Operazione Kikusui. Oltre 2mila aerei tra caccia di scorta e kamikaze si schiantarono nei mari o sulle navi e ben 3mila piloti persero la vita. Gli Alleati subirono l'affondamento di 26 navi e il ferimento di portaerei come la britannica Formidable e l'americana Enterprise, ma soprattutto una conta dei morti spaventosa: 4.500 caduti e quasi 5mila feriti. L'Operazione Kikusui fu una delle poche battaglie della fase finale della guerra in cui le perdite alleate sopravanzarono in numero quelle nipponiche.

La resistenza dei kamikaze spinge l'opzione atomica

L'Operazione Iceberg, la campagna terrestre di Okinawa, per fare un paragone vide oltre 7mila morti da parte alleata nei feroci combattimenti e una vera e propria ecatombe tra i giapponesi, che ebbero oltre 100mila morti e videro inoltre l'uccisione di 42mila civili nei combattimenti o sotto i bombardamenti. Nel frattempo, tra aprile e giugno, i nipponici mettevano in linea anche aerei pensati esclusivamente per l'uso da kamikaze, come la bomba volante Ohka vista in azione terrorizzando gli equipaggi delle navi, costretti a un perenne contesto di stress e veglia.

Kikusui giocò un ruolo fondamentale nel mostrare la strenua volontà di resistenza delle forze armate imperiali. E mobilitò il comando strategico americano del generale Douglas MacArthur a considerare potenzialmente gigantesche le perdite da tenere in conto per un'invasione dell'arcipelago giapponese. L'Operazione Downfall, divisa nei due tronconi di Olympic — l'invasione dell'isola meridionale Kyūshū - e Coronet — l'invasione dell'isola principale, Honshū, pensata per l'1 novembre 1945 veniva preparata mentre, dopo l'esaurimento dei combattimenti attorno Okinawa, in patria Ugaki preparava l'armata finale di kamikaze puntando ad arruolarne fino a 10mila per le missioni suicide volte a contrastare uno sbarco nemico considerato inevitabile.

Da parte americana, una stima di mezzo milione di morti per la conquista del Giappone era ritenuta, in tal senso, ottimistica. Lo staff del Segretario di Guerra Henry Stimson calcolò che solo gli Alleati avrebbero subito come minimo 1,7 milioni e potenzialmente fino a 4 milioni tra morti o feriti e i giapponesi tra i 6 e i 10 milioni di morti, in buona parte civili, se le isole fossero diventate campo di battaglia. Ogni stima citava la tenacia dei kamikaze e la possibilità che Tokyo decidesse di replicare sotto altre forme la mobilitazione totale contro gli invasori. Da qui nacque lo stimolo che portò il presidente Harry S. Truman ad autorizzare l'utilizzo dell'arma atomica per forzare la resa del Giappone.

La morte di Ugaki

Dopo il doppio shock di Hiroshima e Nagasaki, il 15 agosto 1945 Tokyo ordinò di cessare i combattimenti. Tra coloro che non si arresero all'ordine dato dall'imperatore fu l'architetto della strategia di guerra kamikaze, Ugaki. Desideroso di finire con una percepita nobiltà o dignità la sua guerra. L'ammiraglio 55enne, veterano della Grande Guerra e stratega della grande corsa al suicido di migliaia di piloti che allungò un conflitto già perso, non fu da meno di coloro che aveva indottrinato per andare a morire né cercò un estremo rifugio.

Sentita la notizia della resa agli Alleati, Ugaki posò per un'estrema foto di rito, si spogliò delle sue medaglie e salì su un bombardiere Yokosuka D4Y pilotato dal capitano Tatsuo Nakatsuru. Da un aeroporto di Kyushu decollarono altri dieci aerei della stessa squadriglia, puntarono sulla rotta delle Ryukyu e si diressero nel Mar di Okinawa, in un'ultima estrema missione kamikaze. Disperata, ma onorevole, fu la battaglia in cui, a Paese già arreso si immolarono gli ultimi kamikaze nella coda dell'operazione Kikusui. Estrema - ed emblematica - manifestazione di un onore guerriero che aveva partorito i disegni espansionistici del Giappone imperiale ma anche storie di drammatico pathos guerresco come quelle andate in scena nell'inferno di Okinawa.

Risolto il mistero della Montevideo Maru, affondata dagli Usa nel 1942 con 1.000 soldati alleati a bordo. Storia di Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2023.  

La Montevideo Maru giace a 4 mila metri di profondità, a nord ovest di Luzon, nelle Filippine. L’ha trovata una spedizione determinata a indagare su una tragedia del Secondo conflitto mondiale. Il cargo giapponese è sul fondo del Mar Cinese meridionale dall’estate del 1942 quando è colato a picco con a bordo oltre mille prigionieri alleati, in gran parte australiani, e dei civili. Tutti morti nel disastro. Ad affondare il mercantile un sottomarino americano il cui comandante ignorava la presenza dei soldati.

La storia riparte da Rabaul, Nuova Guinea, da dove la nave salpa, dopo aver imbarcato il suo carico umano, in direzione di Hainan, località cinese occupata dall’esercito del Sol Levante. Avanza a 17 nodi, deve raggiungere un punto per incontrare la sua scorta, un cacciatorpediniere. Nella notte del primo luglio rallenta, scala a 12 nodi, forse è in attesa e questo apre una finestra d’attacco per lo Sturgeon, uno «squalo» della US Navy, impegnato nella caccia al naviglio nemico. Il capitano Wright annota nel «diario» i movimenti a zig-zag dell’obiettivo, si avvicina sfruttando la riduzione della velocità, quindi alle 2.25 ordina il lancio di quattro siluri, necessari — secondo la sua stima — per neutralizzare un target importante. La missione ha successo, la Montevideo Maru è centrata dagli ordigni, si piega e in appena undici minuti si inabissa. Chi è a bordo ha poco tempo, i prigionieri devono risalire sul ponte. Ammesso che riescano. Quanti sono in mare si aggrappano ai rottami, a qualsiasi cosa possa aiutarli a rimanere a galla. Una lotta disperata. Un marinaio giapponese, Yohiaki Yamachi, rintracciato dopo molti anni, aggiungerà un particolare inverificabile spesso rilanciato: alcuni dei naufraghi avrebbero iniziato a cantare la celebre Auld lang syne (in italiano è Il Valzer delle candele), l’ultimo saluto rivolto a loro stessi e ai compagni. Note che somigliano ad una preghiera. Poi il silenzio. Se è andata davvero così non lo sapremo mai.

Video correlato: Relitto della Montevideo Maru, il team di ricerca individua la nave sul fondo del mare (RaiNews)

Sugli schermi, due immagini di quel che resta della nave (foto Afp)

Lo Sturgeon si allontana, i membri dell’equipaggio sopravvissuti raggiungono la costa a bordo di un paio di scialuppe. E, secondo una prima versione, sarebbero stati tutti uccisi in seguito all’attacco di guerriglieri filippini. Ma non è così. Il cargo scompare, in Australia pochi conoscono la verità, la scopriranno solo alla fine del conflitto una volta fatta la conta con chi era rimasto a Rabaul. Parte una lunga indagine con l’analisi di brogliacci, documenti, verifiche, rapporti ufficiali. Indagine difficile tra sospetti di coperture, racconti traballanti, mancanza di elementi precisi. Sempre Yamachi afferma che un nucleo di prigionieri sarebbe stato recuperato da un’unità nipponica, particolare però smentito da ulteriori controlli. C’è anche incertezza sull’identità delle vittime, dubbio alimentato da alcune osservazioni del giapponese. È possibile che alcuni siano deceduti a bordo di un altro mercantile. Sono i misteri che spesso accompagnano le sciagure in mare. Materia per storici ma anche dettagli per coloro che hanno perso un congiunto. Ricerche negli archivi sulla terraferma mentre la Montevideo Maru è destinata a diventare un sacrario e nulla sarà toccato.

"Uccidete Rommel", sicari inglesi a caccia nel deserto. Storia di Davide Bartoccini su Il Giornale

il 25 marzo 2023.

Novembre 1941. Un gruppo di commando e membri dello Special Boat Service britannici agli ordini del colonnello Robert Laycock e del tenente colonnello Geoffrey Keyes lascia il porto di Alessandria d'Egitto su due sottomarini che devono raggiungere in gran segreto e coste della Libia. A bordo dell'Hms Torbay e dell'Hms Talisman, i due gruppi di 25 uomini ciascuno ripassano il piano: affiorare nell'oscurità, imbarcarsi delle canoe pieghevoli folbot e raggiugnere la spiaggia di Khashm al-Kalb, rinominata in codice "The Dog's Nose", nei pressi di Al Hamamah.

Una volta raggiunta la spiaggia, a circa 400 chilometri dietro le linee nemiche, si sarebbero ricongiunti con un secondo gruppo di incursori aviotrasportati nelle vicinanze per poi essere "accompagnati" da una colonna del Long Range Desert Group - i taxi del deserto - a Baida Littoria. Lì dove le informazioni dell'intelligence inglese avevano individuato il quartier generale del temuto stratega Erwin Rommel, la "volpe del deserto" che comandava le armate dell'Afrika Korps.

Il nome in codice dell’operazione era “Flipper”, ma diverrà anche nota come “Rommel Raid”, sebbene non sia stata trovata menzione ufficiale del "disdicevole" intento di eliminare o catturare il comandante avversario per gettare nella confusione l'armata dell’Asse. Il fine ultimo era quello di favorire l’offensiva britannica che sarebbe iniziata appena una settimana dopo. Stiamo parlando Operazione Crusader, pianificata e condotta dal generale Claude Auchinlek per rompere l’assedio di Tobruk con l'Ottava Armata.

Posta sotto il comando del giovanissimo Keyes, all'epoca il più giovane tenente colonnello di tutto l'Esercito, inquadrato nel Commando n. 11, la missione prevedeva il conseguimento di diversi obiettivi oltre a quello di sorprendere e uccidere Rommel nel suo quartier generale a Sidi Rafa, posto, secondo le spie inglesi, in un palazzotto a due piani in una zona isolata. Tali obiettivi erano distruggere il vicino quartier generale italiano e la sua rete di comunicazioni, sabotare il centro dell’intelligence italiana (Servizio Informazioni Militare, ndr) situato ad Apollonia e la sua rete di comunicazione tra Faidia e Lamdula, condurre qualsiasi tipo di azione di sabotaggio generalizzata di concerto con gli uomini dello LRGD per gettare scompiglio nelle retrovie dell’Asse. L’operazione venne approvata da Winston Churchill che, come sappiamo, era appassionato sostenitore di questo genere di operazioni, ragion per cui aveva dato mandato di costituire il SOE, lo Special Operations Executive, che si attiverà anche in Nord Africa e Medio Oriente.

Il presunto quartier generale di Rommel, un antesignano target di “high-value” messo nel mirino dai britannici, era stato individuato dal capitano John Haselden. Il capo della squadra di incursori aviotrasportati aveva perlustrato l'area travestito da arabo, riferendo un transito continuo e ripetuto dell'auto del personale di Rommel verso quello che dovevo essere l’ex edificio della prefettura locale.

Un fallimento da ricordare

Giunti in prossimità nella costa la notte tra il 14 e il 15 novembre, gli incursori - che potevano contare su una forza complessiva di 59 uomini - si trovarono in serie difficoltà fin dal momento dello sbarco, dovendo rinunciare a 25 operatori rimasti bloccati sui sottomarini. L’inaffidabilità della guida araba che doveva accompagnare i commando sull’obiettivo, il maltempo che li accolse a terra e l’inattendibilità delle informazioni raccolte dall’intelligence fecero il resto, rendendo l’operazione "Flipper" uno terribile fallimento.

Il generale Rommel, noto oltre che per le indiscusse capacità strategiche anche per essere benvoluto tra i suoi soldati, aveva spostato il suo quartier generale nelle vicinanze di Tobruk da tempo. Era convinto, come ogni bravo comandante, che il comando operazioni dovesse essere stabilito vicino all’azione, e mai al sicuro nelle distanti retrovie. Inoltre, la notte prescelta per il raid, tra il 17 e il 18 novembre, non era nemmeno in Africa, ma a Roma per festeggiare il suo compleanno con la moglie e chiedere rinforzi agli alti comandi.

Tutti i commando sbarcati - ad eccezione di due, tra cui il comandante delle operazione, Laycock - vennero catturati o rimasero uccisi in azione. Compreso il giovane Keyes, che insistette per guidare l’assalto al presunto quartier generale venendo ferito a morte. Sarà Rommel, offeso dall’idea dei britannici che lo pensavano così distante dall’azione ma conscio del coraggio dimostrato dagli incursori inglesi che si erano spinti così dietro le linee per “prelevarlo”, a ordinare una solenne cerimonia funebre con tutti gli onori militari per il giovane avversario, che verrà seppellito nel cimitero cattolico locale.

La cerimonia verrà documentata e le foto spedite alla famiglia come atto di vicinanza e cavalleria tra nemici nonostante la guerra e l'obiettivo della missione. Il tenete colonnello Goffrey Keyes verrà insignito della Victoria Cross postuma. Aveva solo 24 anni.

Rommel, che gli inglesi pensarono di rapire ancora una volta nel ’44 per mano dello Special Operation Service con la mai lanciata Operazione Gaff, morirà il 14 ottobre dello stesso anno - dopo essere quasi stato ucciso dal mitragliamento di un caccia britannico in prossimità del fronte in Normandia - ingerendo una pasticca di cianuro di potassio poiché sospettato da Bormann di essere tra congiurati che avevano attentato alla vita di Adolf Hitler. Aveva 52 anni. Era stato insignito dell’onorificenza Pour le Mérite già nel primo conflitto mondiale, e verrà ricordato senza alcuna obiezioni da entrambe le parti belligeranti o da alcuno in seguito, come uno dei migliori condottieri della storia bellica mondiale. Le sue spoglie riposano prive di disonore nel cimitero di Herrlingen sotto una croce patente. Sul dubbio che l'intelligence militare britannica fosse a conoscenza della reale posizione di Rommel durante il raid, attribuito alla volontà di mantenere segreta la capacità di intercettare e tradurre i messaggi cifrati con la macchina Enigma, gettiamo un velo.

Pippo. Storia d'assalto. Pippo, l'aereo fantasma degli Alleati che terrorizzò l'Italia. Davide Bartoccini il 23 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Quando calava la notte nel nord dell'Italia incombeva il "Pippo", l'aereo della guerra psicologica portata avanti dagli Alleati tra terrore e folklore

Un rombo di motore solitario e solitarie eliche, poi la picchiata, e distante un grande botto, o una mitragliata. Faceva lo stesso. Laggiù, distante da chi l’aveva scampata, qualcun altro doveva essersela vista brutta forse, o forse non l’avrebbe vista più, l’alba. Una luce lasciata accesa per dimenticanza, qualcuno che era uscito con il coprifuoco, che aveva messo il muso fuori dall'uscio, ed ecco che il Pippo, il Pippetto, il Notturno - come lo chiamavano in Toscana - se n’era accorto: l’aveva visto al volo, e le bombe, quella notte, erano per lui.

Dalla seconda metà del 1943 fino al terminare della guerra, a nord della Linea Gustav e della successiva Linea Gotica, in Toscana e soprattutto in quella che gli americani rinominarono la “Po valley”, la Pianura Padana, formazioni di appena cinque aeroplani, caccia pesanti adibiti al volo notturno e talvolta dotati delle prime delicate apparecchiature radar, compirono pressoché indisturbati centinaia di sortite nell’ambito delle Night Intruder: una sofisticata e subdola attività d’intelligence e guerra psicologica.

Perché il Pippo, che secondo il folklore popolare era un unico solitario aeroplano, sempre lo stesso, che ogni notte “..se la spadroneggiava per le vie dell’aria" scaricando “le bombe ed i colpi della mitraglia di bordo, ovunque trapeli una luce” (la frase originale era al presente, ndr) erano in realtà molti aerei. Si trattava essenzialmente di caccia bimotore Bristol Beaufighter e De Havilland Mosquisto della forza aerea britannica, meno frequentemente P-61 Black Widow o A-20 Havoc della forza aerea statunitense, impegnati in missioni di interdizione e disturbo, che decollavano dalle basi nel sud Italia per suddividersi sui settori che avrebbero sorvolato individualmente per sganciare ordigni esplosivi di ridotte dimensioni ("spezzoni", ndr) su obiettivi prefissati di varia natura - piccoli ponti, strade, snodi ferroviari - o per condurre raid su obiettivi improvvisati.

A queste direttive si sarebbe aggiunto il compito di “volare in tondo” per fare da ponte radio e trasmettere le comunicazioni in cifra ricevute dalle radio a onde corte usate da gruppi di incursori paracadutisti britannici inviati a raccogliere informazioni a ridosso e oltre la linea del fronte. Proprio al fine di nascondere la vera natura di queste missioni d'intelligence della prima ora, gli aerei avrebbero mitragliato o colpito bersagli improvvisati per fingersi "impegnati" a dare la caccia a qualcosa.

La componente psicologica giocò sulla popolazione civile italiana - che aveva appena subito lo shock di vivere in una nazione spaccata in due, tra occupanti nazisti e Alleati, fiancheggiati da repubblichini fedeli al Duce e da cobelligeranti fedeli al Re - un ruolo ben più fondamentale nelle piccole missioni di disturbo di cui rimangono centinaia di testimonianze, raccolte su diari, citate in libri e articoli di giornale, ma delle quali non si trova un completo riscontro oggettivo da parte degli Alleati.

Il mito e mistero del Pippo, l'aereo fantasma che svolazzava "..qua e là in cerca di chissà cosa!" (scriveva E.Dall’Osso nel suo “Il giorno del cannone a cartuccia”), venne così relegato nell'ambito del folklore. Non a caso un prezioso documento del 2003 dedicato all'argomento dal professor Allan R. Perry, docente di letteratura italiana del Gettysburg College, venne intitolato proprio "Pippo: An Italian Folklore Mystery of World War II". Perry, che viene citato assieme alla firma del nostro Fausto Biloslavo in un articolo dello Smithsonian magazine, rimase estremamente colpito durante una ricerca condotta sulla Resistenza e la guerra in Italia, dai frequenti riferimenti concordanti sul misterioso aereo notturno che secondo alcuni era addirittura un velivolo tedesco che aveva il compito di esasperare la popolazione civile e tenere alto il livello di ostilità contro gli Alleati che stavano bombardando la loro terra.

Sul conto del Pippo - "la voce più inquietante prodotta dall'Italia in guerra" secondo lo storico Giovanni De Luna - sappiamo ancora troppo poco sebbene siano ormai passati ben 80 anni dalla sua prima comparsa nei cieli italiani. Ciò che è certo, è che migliaia d'italiani, giovani e vecchi, brava gente di campagna che si credeva al sicuro dai bombardamenti a tappeto che devastavano le grandi città, i porti sulla costa e le province industriali, dovettero convivere una ventina di mesi con i nervi a fior di pelle, ogni notte. Convinti che se solo avessero violato l'oscuramento, dimenticando accesa una luce, una candela o accendendo anche solo un fiammifero per fumare, un aereo nero come la pece sarebbe piombato su di loro e avrebbe mitragliato, senza pietà. Fosse amico o nemico, alla fine, poco importava: bombe e proiettili non conoscevano più la differenza una volta presa la via.

Storia d'assalto. Pierre Clostermann: fiamme nel cielo sotto la croce di Lorena. Clostermann, asso da caccia arruolato tra i "francesi liberi", fu uno dei testimoni più audaci e affascinanti della guerra aerea che incendiò i cieli europei nel Secondo conflitto mondiale. Le sue memorie, per importanza e stile, rimangono ineguagliate. Davide Bartoccini il 9 Marzo 2023 su Il Giornale.

Teso d’emozione, un giovanotto bruno e di bell’aspetto, indossa per la prima volta, dopo tanto, tanto tempo, la divisa del suo paese in guerra. È un perfetto damerino, in quel blazer blu notte, con i pantaloni anch’essi blu, e le ali da pilota appuntante sul petto.. i bottoni scintillanti e tutto il resto. È appena l’alba in Inghilterra – quel Paese che ha morso e sorpreso la sconfitta proprio per aria; che ha combattuto fino a stravolgere le sorti di una guerra che pareva già parduta. Diceva Churchill al preludio di quel tentato salvataggio: “Remember gentlemen, it’s not just France we are fighting for, it’s Champagne!”. Tutti ridevano; tutti sapevano che in fondo, non era affatto così. Molti del BEF non tornarono quella volta come la prima, ma senza salvare la Francia. La guerra sarebbe durata oltre, eccome.

Pierre Clostermann usciva così dalla sua baracca umida e vuota mentre la luce timida dell’alba si affacciava sulla terra. I fili d’erba della pista di volo erano zuppi di brina. I brividi corrono lungo la sua schiena, e non sono quelli portati dal freddo delle ore più silenziose, né quelli della paura che precede l’ennesima missione: sono quelli dell’emozione. Tra qualche ora, sorvolate in cielo le onde grigie della Manica, se la caccia nemica non sarà abbastanza brava, e se il fuoco di sbarramento della contraerea sarà gentile; se l’atterraggio andrà come deve andare e tutto il resto pure, Pierre rimetterà piede sulla sua terra, sulla sua patria.

Il giovane Pierre non calpesta il suolo di Francia da tre anni. Ha risposto all’appello del generale De Gaulle, e ormai vola nella Royal Air Force, per conto di quella che venne nominata la ‘"France libre" dal '42. È diventato uno degli assi da caccia alleati più famosi di tutto il conflitto, il leggendario Pierre, sul suo ‘Grand Cherles’, che porterà più di venti piccole croci patenti bianche e nere sulla fusoliera: ognuna sta a indicare una vittoria sui caccia nemici. Venti abbattimenti, venti palle di fuoco spedite dalle nuvole alla terra in una manovra da togliere il fiato, mentre il sangue sfugge al cervello e le mitragliatrici sputano fuoco dalle ali: è quello il grande circo che si consuma in aria. Formalmente è un pilota delle Forces Aériennes Françaises libres, ma il suo caccia è un Supermarine Spitfire inglese. Sulle ali porterà le strisce bianche e nere come tutti gli aerei che presero parte all’Invasione della Normandia. In più, una croce di Lorena sotto l’abitacolo: la risposta della forza e della perseveranza che la Francia "Libera" adottò contro la Svastica che aveva piegato Vichy.

Così lo Spitfire con il simbolo del leone del City of Glasgow era pronto. Clostermann aveva con se una valigia minuscola, con i suoi pochi effetti personali, e sotto al culo, infilato nel paracadute che poteva salvargli la vita, un quaderno dove ogni notte annotava le sue impressioni sul "Grande circo" che ogni volta che andava in scena quando si incontrano aerei nemici. Una giostra che prende vita e accende "Fiamme nel cielo". Alcuni dei suoi compagni di squadriglia vestono divise color kaki, le stesse adottate dalla 2° Tactical Air Force che sono in uso nell’esercito - nel caso vengano abbattuti - per farsi riconoscere immediatamente. Ma Pierre non ha a cuore quel genere di rischio. Anzi, ha un solo desiderio: che i francesi che lo vedessero, sia mai ne incontrasse qualcuno, possano gridargli a un primo sguardo, nella sua lingua madre, "Vive la France!". Non vedeva l’ora. Era il 2 di luglio del 1944.

Addestrato del 1942, dopo essere scappato dalla Francia, prima in America, poi alla volta dell’Inghilterra, come tutti i piloti francesi viene assegnato al 341º Gruppo Caccia “Alsazia“, di stanza a Turhouse, a sud di Londra. Poi al 602º gruppo “City of Glasgow“, il gruppo misto, dove confluivano piloti da caccia di tutte le nazionalità che sugli Spitfire V – il suo è siglato LO D- davano filo da torcere ai caccia tedeschi che attaccavano gli stormi da bombardamento alleati. Nel gennaio del ’44, Clostermann e Remlinger, il suo gregario e sodale, vengono inviati alle Orcadi per proteggere la flotta britannica ormeggiata al largo di Scapa Flow. Qualcosa bolliva in pentola.

"È difficile poter dare una impressione d’insieme dello sbarco così come lo abbiamo visto noi, a volo d’uccello. La Manica è ingombra d’un guazzabuglio di navi da guerra, di mercantili d’ogni tonnellaggio, petroliere, trasporti carri armati, dragamine, tutti col loro pallone d’argento di sbarramento assicurato a un cavo. Incrociamo una mezza dozzina di rimorchiatori che s’affannano (…) Il tempo non è molto bello. La Manica è solcata da onde corte e nervose che mettono a dura prova le imbarcazioni. (…) Costeggiamo la penisola di Cotentin. Incendi lungo tutta la costa; una torpediniera, attorniata da piccole imbarcazione, affonda nei pressi di un’isoletta. La nostra zona di pattugliamento è compresa tra Montebourg e Carentan e si chiama con nome di codice: Utah Beach. Siamo di copertura delle divisione aerotrasportate americane 101 e 82, mentre la quarta divisione, appena sbarcata marcia su Sainte-Mère-l’Eglise. Non si vede granché. Il cielo è pieno di caccia americani a coppie. Vanno su e giù un po’ a caso, s’abbassano a fiutarci da vicino, sospettosi (…) L’assenza di reazione da parte della Luftwaffe ci sorprende". Tratto dal suo libro "Le grand cirque" e datato 6 giugno 1944.

Clostermann prende parte al D-Day, e nei giorni seguenti, in missioni di scorta, senza incontrare mai il nemico: al massimo prende qualche mitragliata di un P 51 americano che sembra non aver riconosciuto la formazione alleata – forse qualche yankee annoiato con il grilletto facile. Stabilita la testa di ponte, il secondo giorno di luglio viene definitivamente assegnato a Longues-sur-mer, in territorio francese. Quel giorno, incontra gli Fw 190 – quei caccia ‘dal ventre giallo acceso e verde smeraldo’ e ne abbatte 3. Si guadagna la DFC. Closterman però è giunto sull’orlo del collasso psicofisico. I nervi sono sempre a fior di pelle, da 2 anni. Le missioni e le ora di volo sono centinaia. Gli venne imposto di ritirarsi dalle operazioni di combattimento, e di tornare allo Stato Maggiore ad insegnare come si abbattono i caccia nemici, a migliorare le formazioni, a terra.. distante dal cielo, dove lui non sa più stare – goffo come l’albatro di Baudelarie. Alla fine del 1944 Clostermann chiese ed ottenne il permesso di ritornare in combattimento presso il 122º stormo, unità dotata dei nuovi caccia Hawaker Tempest: così veloci, da staccarti le braccia al decollo, se vuoi tenere la cloche. Vengono impiegati, poco maneggevoli e estremamente difficili da pilotare, per contrastare i nuovi e famigerati caccia a reazione di Hitler, i Messerschmitt Me 262. Sul suo, Les Grand Charles – siglato JF E – li incontrerà in più di una sortita, li inseguirà senza successo, e per abbatterli, volerà in solitaria fino oltre le linee, dovrà aspettare che tolgano manetta per atterrare e piombargli alle spalle per privare il nemico di quel velivolo straordinario. Nel frattempo continuerà a scontrarsi ancora con gli Fw 190 e i Bf 109; pilotati da quei piloti della Luftwaffe che a volte riesce a guardare quasi negli occhi -per quanto gli volta vicino nei duelli aerei – li descrive come dei "piccoli insetti" per via dei respiratori neri e gli occhialini da volo piccoli e tondi, dello stesso colore.

Nell’aprile del 1945, Clostermann ottiene il comando di un intero stormo caccia, il 122°. Al termine del conflitto, quel giovanotto che è divenuto uomo tra le nuvole di mezza Europa, è il pilota francese più decorato di tutta la guerra. Al suo attivo ha circa duemila ore di volo, seicento missioni di guerra e 33 vittorie confermate (23 secondo altre fonti, ndr). Scriverà sul suo quaderno fino alla fine della guerra, fino all’ultimo giorno da pilota da caccia, portandolo sempre con se, sotto il paracadute. E l’ultima volta, la descriverà così: ".. E nel ritorno sono salito con lui molto alto nel cielo d’estate senza nubi, perché solo là potevo dirgli addio. Per l’ultima volta, insieme io e lui, abbiamo puntato dritto incontro al sole. Abbiamo fatto un looping, forse due, alcuni tonneaux molto lenti, accurati, amorevoli, per poter portare via nelle mie dita la vibrazione delle sue ali obbedienti e agili. Ed ho pianto, nella stretta cabina, come non piangerò più in vita mia, quando ho sentito il cemento della pista sfiorare le sue ruote e con una pressione della mano l’ho costretto al suolo come un fiore reciso …".

Commando in kayak, il leggendario raid dei Marines. A ottanta anni dalla sua tragica conclusione, l'operazione Frankton, condotta da un commando di Royal Marines che tornano noti alle cronache, rimane una delle incursioni più coraggiose e leggendarie della storia. Davide Bartoccini il 22 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Uno sbuffo di schiuma compare all’improvviso sulla superficie d’un mare scuro come pece e privo d’una sola onda. Una sagoma scura e affilata la segue , affiorando dalle profondità degli abissi. È un fatto di solito metallo, ma compare silenzioso come un grosso pesce preistorico che pare esserci spinto fino all’estuario della Gironda per saggiare l’acqua dolce. Ma sono i bastimenti nemici ed una missione impossibile ad aver attratto l’HMS Tuna, sommergibile britannico classe T, oltre il possibile. Spingendolo proprio fin sotto la costa occidentale della Francia ormai occupata dai nazisti. È il 7 dicembre del 1942.

Dal ponte del Tuna, sei piccoli kayak a due posti - tipo "Cockle" Mk II - vengono calati in mare. E con loro i rispettivi equipaggi per un totale di dodici commandos dei Royal Marines. Inquadrati nello Special Boat Service, e più precisamente Royal Marines Boom Patrol Detachment. Rispondono tutti agli ordini di un egocentrico e determinato maggiore, che porta un paio di lungi e folti baffi biondi. Tra gli ufficiali è noto con il soprannome di Blondie, nonostante l’incipiente calvizie lo abbia già reso calvo. Ma il suo nome completo è Herbert George Hasler. Ha il volto pinto di tintura nera per mimetizzarsi meglio nella notte, e il cranio calvo coperto dal tipico berretto di di lana scura che adoperano i commandos. Così bardato, i suoi baffi imperiali biondo cenere risaltano ancora di più.

Il SOE, divisione per il sabotaggio e le operazioni "particolari” nata sotto l’auspicio di “infiammare l’Europa” occupata, gli ha affidato un compito a dir poco audace: pagaiare per 145 chilometri e infiltrarsi furtivamente nel porto di Bordeaux per piazzare delle cariche esplosive (essenzialmente mine Limpet, ndr) sulle navi mercantili tedesche ancora alla fonda, svanendo poi nell’oscurità, come spettri inviati per togliere il sonno ad Adolf Hitler, all’Ammiraglio Canaris e a tutto l’alto comando della Kriegsmarine. L’operazione prenderà il nome in codice “Frankton”, mentre i dieci commandos passeranno alla storia come gli eroi delle Cockleshell.

L'incursione più coraggiosa e mai tentata

Dopo il disastro di Dieppe, le operazione di commandos su “vasta scala” erano state escluse fino a nuove ordina dal Comando per operazione combinate. Tuttavia, era necessario e impellente sabotare la rotta che trasportava "attrezzature speciali” in Giappone, alleato della Germania quale potenze dell’Asse. Si optò dunque per inviare una piccola squadra di incursori ben addestrati che avrebbero risalito la Gironda, sebbene fortemente difeso, approfittando del favore delle tenebre. Dei sei kayak appositamente studiati per operazioni di questo genere, uno rimase danneggiato al preludio dell’operazione. Proseguirono quindi solo 5 equipaggi, divisi in due formazione: la A, che comprendeva i kayak con i nomi in codice di Catfish, Crayfish e Conger, e la B che ridotta di una unità contava solo Seppie e Coalfish.

Lasciate nove chilometri al largo di Montalivet-Soulac, le cinque Cockleshell entrano nell’estuario della Gironda - fortificato e ben difese - per seguire il piano che prevede una serie di tappe, ma già la prima sera una canoa affonda, riducendo a il gruppo d’attacco a quattro unità, poi a tre e in fino a solo due unità superstiti che proseguono verso l’obiettivo. Sono Catfish e Crayfish, che arriveranno nel porto di Bordeaux nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, piazzando oltre una dozzina di mine magnetiche su cinque mercantili e una nave da guerra, portando a termine con successo la missione. Non potevano sapere come i loro compagni dispersi fossero già caduti in mano dei tedeschi, che hanno l’ordine di giustiziare i commandos per esplicito volere di Hitler.

L'epilogo di una missione rischiosa

Separatisi, i due equipaggi risalgono la Gironda dove si sta già dando la caccia a ulteriori “incursori”. Sbarcati a Saint-Genès-de-Blaye, i quattro commandos affondarono i loro kayak per proseguire a piedi, ma solo l’equipaggio della Catfish - composto proprio dal comandante Hasler e dal caporale Sparks - riuscirà ad arrivare a Ruffec nella Charente per seguire la via di fuga "Marie Claire", e raggiungere di lì la Spagna neutrale e finalmente Gibilterra. Dove arriveranno solo il 23 febbraio del 1943.

Il secondo equipaggio superstite, verrà catturato e giustiziato come gli altri temerari Royal Marine che oggi vengono ancora ricordati - ogni anno - per la celebre impresa. Sebbene non sia stata decisiva sul piano strategico e nemmeno sul piano del morale - i danni inflitti al nemico furono marginali a confronto delle perdite - Lord Mountbatten, capo delle Operazioni Combinate, non stentò a considerare l’Operazione Frankton come "la più coraggiosa e fantasiosa di tutte le incursioni mai effettuate dagli uomini delle operazioni combinate”.

Il celebre corpo dei Royal Marines, che ancora oggi può contare sullo Special Boat Service, non ha mai smesso di rendere omaggio all'incursione di Blondie Hasler e del suo manipolo di coraggiosi. Celebrando la storia di queste due formazioni d'élite tra le più letali, efficaci e preparate nel pianeta. Vantando un'esperienza sul campo di battaglia unica nel suo genere. Non è un caso, infatti, se queste truppe d'élite siano state recentemente menzionate da quelle voci indiscrete che le vedrebbero al centro di operazioni "ad alto rischio", condotte sotto copertura nel teatro di scontro ucraino. Le missioni più complesse e delicate, ieri come oggi, vanno affidate agli uomini migliori.

La Shoah.

La Shoah degli Ebrei.

La Shoah degli Zingari.

La Shoah degli Ebrei.

«Il 16 ottobre 1943 e quello zelo dei poliziotti fascisti nel rastrellare gli ebrei di Roma». Ottant'anni fa l'operazione che costò la vita a più di mille persone spedite nei campi di sterminio. Parla la storica Anna Foa, tra i massimi esperti dell'occupazione nazista in Italia. E racconta il ruolo delle SS ma anche la solidarietà diffusa da parte dei non ebrei. Emanuele Coen su L'Espresso il 16 Ottobre 2023 

La verità di quel giorno, il 16 ottobre 1943, è inchiodata a pochi numeri. Freddi e impietosi. A poco più di un mese dall’inizio dell’occupazione nazista, alle prime luci del mattino, gli ebrei di Roma vengono rastrellati casa per casa, portati in strada e poi deportati: 1259 persone - 689 donne, 363 uomini e 207 bambini - vengono strappate dalle loro abitazioni, dal loro lavoro, dalla loro vita. Per quasi tutti si apriranno le porte dei campi di concentramento, solo in 16 faranno ritorno nella capitale. È la razzia degli ebrei di Roma. Anna Foa, storica, già docente di Storia moderna a La Sapienza di Roma, autrice di opere sulla storia degli ebrei in Europa e in Italia, è tra i massimi esperti sull’argomento. Oltre ai tanti saggi, qualche anno fa raccontò in un libro struggente la vicenda di una casa e dei suoi abitanti nel quartiere ebraico, “Portico d’Ottavia 13” (Laterza). A ottant’anni da quel giorno, torniamo a riflettere su quei fatti. 

Professoressa Foa, sappiamo tutto del 16 ottobre 1943?

«Come storica, non affermo mai di sapere tutto sui fatti storici. Possono emergere dai cassetti nuovi documenti, nuovi fatti sconosciuti, rimasti nascosti per decenni. Dettagli conservati dalle famiglie, storie di salvezza o di denuncia. In altri casi è già accaduto, anche a distanza di secoli. Qualche anno fa, ad esempio, con Lucetta Scaraffia abbiamo raccontato nel libro “Anime nere” (Marsilio editore, ndr) la storia di Celeste Di Porto, giovane ebrea amante di un fascista, che aiuta a scovare nel quartiere ebraico i suoi stessi vicini di casa, che con disprezzo la chiamano “Pantera Nera”. E la storia di Elena Hoehn, una ricca donna tedesca nella città liberata viene accusata di spionaggio, colpevole di aver dato rifugio a un carabiniere ricercato per aver arrestato Mussolini dopo la sua destituzione». 

Dagli studi recenti è emerso qualche fatto rilevante sulla razzia degli ebrei di Roma?

«Negli ultimi anni Sara Berger, la storica tedesca specializzata nella storia dei campi di sterminio e della persecuzione nazista in Italia, ha messo in luce chi fossero i nazisti ad aver effettuato la razzia del 16 ottobre 1943. E chiarisce alcuni punti: ad esempio Theodor Dannecker, specialista dei rastrellamenti di ebrei, per realizzare l’operazione a Roma si è dovuto appoggiare a un gruppo di soldati SS non abituati ai rastrellamenti».

Cosa ci insegna questa vicenda?

«Quel giorno a Roma ci fu una grande unità. Un sentimento di solidarietà diffusa da parte dei non ebrei, a differenza dal periodo successivo alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938. La gente si mobilitò per salvare i vicini di casa affacciandosi dai balconi, alle finestre. È un pezzo significativo di storia romana, non solo ebraica. Quella di Roma è la prima razzia a essere coordinata direttamente dai nazisti. I fascisti organizzarono gli elenchi, quartiere per quartiere, furono particolarmente zelanti i poliziotti fascisti e Raffaele Alianello, il commissario di pubblica sicurezza che in seguitò compilò le liste dei condannati per le Fosse Ardeatine. Dopo il 16 ottobre, la maggior parte degli arresti viene effettuata da bande di fascisti agli ordini diretti di Herbert Kappler, non dei nazisti. E poi nella caccia all’ebreo è fondamentale il ruolo dei fascisti della Repubblica di Salò, quando gli ebrei vengono considerati stranieri e gli arresti si intensificano». 

C’è chi ha rilevato analogie con il passato, di fronte alla recente strage del kibbutz di Kfar Aza, in Israele, oltre duecento persone uccise dalle milizie di Hamas, tra cui 40 bambini. Cosa ne pensa?

«Non c’è nessun rapporto tra i due fatti, dal punto di vista delle modalità. A Roma il 16 ottobre gli ebrei vengono rastrellati, non vengono aggrediti. Certo, poi verranno deportati nelle camere a gas, l’80 per cento di loro non farà mai ritorno. La strage di Hamas ricorda piuttosto i pogrom o il massacro di Babij Jar, in Ucraina durante la seconda guerra mondiale, dove decine di migliaia di ebrei furono trucidati e gettati nelle fosse comuni».

Il ricordo degli oltre duemila carabinieri deportati dai nazisti. David di Segni su shalom.it il 5 ottobre 2018. Nel cortile della Legione Allievi Carabinieri, sede della Caserma “De Tommaso”, le sinfonie degli Orchestrali scandiscono il tempo della storia. Risuonano nel piazzale, mentre il Generale di corpo d'armata dell’Arma Teo Luzi e l’Assessore alle Politiche Educative dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Livia Ottolenghi accompagnano la deposizione della corona d’alloro in memoria degli oltre duemila carabinieri deportati dai Nazisti nell’ottobre 1943.

Presenti all’evento anche il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun e il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, che ha recitato una preghiera tratta dal libro dei Salmi.

“La memoria corre ai carabinieri che furono disarmati e deportati senza fare ritorno. Ricordare è un dovere, è il faro della società che illumina il tempo e lo spazio e che ci rammenta da dove veniamo” ha sottolineato il Generale Teo Luzi. Per l’Assessore Ottolenghi “è una storia da trasmettere come valore fondante alle future generazioni”. Davanti a due scolaresche, fra cui il liceo ebraico Renzo Levi, sono state ricostruire le vicende di questa buia pagina della storia. 

Considerato una garanzia per la difesa della popolazione e al contempo un intralcio per il progetto di razzia degli ebrei di Roma, il 7 ottobre 1943 il Corpo dei Carabinieri fu ingannato e neutralizzato dai soldati tedeschi. Su ordine del Capo della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, e con l’autorizzazione di disarmo da parte del Maresciallo Rodolfo Graziani, paracadutisti tedeschi e SS circondarono le principali caserme dell’Arma della Capitale: oltre duemila Carabinieri furono deportati in Austria e Germania, molti non fecero più ritorno. “Se viviamo in un paese libero e democratico - aggiunge il Generale Teo Luzi - lo dobbiamo al sacrificio di italiani come loro. Libertà e democrazia sono conquista di ogni giorno”.

Una storia di coraggio. Racconta l’Assessore UCEI Livia Ottolenghi: “Dopo l’inganno agli ebrei di Roma, cui fu richiesto un riscatto di cinquanta chili d’oro, duemila giovani carabinieri furono disarmati perché ritenuti dalle SS e dal Maresciallo Graziani un intralcio per la deportazione degli ebrei. Avrebbero potuto salvarsi, ma decisero di opporsi”.

Simbolo di fedeltà e dedizione alla causa sociale, di protezione dell’ordine e della sicurezza, i carabinieri hanno rappresentato questo e molto altro, e perciò sono stati onorati anche quest’anno delle celebrazioni alla loro memoria.

La deportazione dei Carabinieri di Roma nei campi nazisti. Prima di inviare nei lager gli ebrei della capitale, Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, decise di fare piazza pulita dei militari dell'Arma che, schierati al fianco della popolazione, si sarebbero opposti al rastrellamento.

Marco Patricelli su AGI - 4 ottobre 2023. La razzia e la deportazione dei Carabinieri erano necessarie per poter procedere al rastrellamento e all’invio nei campi di sterminio degli ebrei romani. E infatti, con la radicata presenza dei militari dell’Arma nella capitale, l’operazione originariamente prevista per il 26 settembre 1943 era stata rinviata a ottobre dall’Obersturmbannführer Herbert Kappler, comandante del Sicherheitsdienst, della polizia tedesca e della Gestapo a Roma, l’SS che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’intelligence che aveva portato alla liberazione di Mussolini il 12 settembre dall’albergo-prigione di Campo Imperatore.

Kappler aveva altresì realizzato il sequestro e l’invio in Germania della riserva aurea della Banca d’Italia e aveva ideato e portato a compimento l’ignobile ricatto alla comunità ebraica per farsi consegnare 50 chili d’oro entro 36 ore e non procedere così alla deportazione, che invece avverrà il 16 ottobre. Era, questo, il suo piano B, fatto scattare proprio il 26 settembre, con un inganno criminale, non potendo mettere subito le mani sui circa 12.000 ebrei romani del ghetto di Portico d’Ottavia fino a quando i Carabinieri non fossero stati tolti di mezzo.

Le forze tedesche erano infatti numericamente scarse, i fiancheggiatori fascisti anche, mentre i militari dell’Arma erano apertamente dalla parte della popolazione, oltre che ligi al giuramento di fedeltà al Re: si erano infatti rifiutati di partecipare a retate e rappresaglie, e sugli ebrei avevano un atteggiamento che non era quello delle autorità naziste. Temendo, a ragione, che si sarebbero opposti al rastrellamento, Kappler aveva guadagnato tempo per consentire che le autorità della Repubblica Sociale Italiana appena fondata da Mussolini a Salò effettuassero le loro mosse d’intesa col Reich.

La vendetta sui "traditori"

Il 6 ottobre un foglio d’ordine con protocollo riservato 296 del Maresciallo d’Italia e ministro per la difesa nazionale della RSI Rodolfo Graziani, nel sottolineare con fastidio l'«inefficienza numerica, morale e combattiva» dei Carabinieri, si rivolgeva al generale Casimiro Delfini, facente funzioni di comandante generale, e al generale Umberto Presti comandante della Polizia dell’Africa italiana (PAI), disponendone il disarmo, la consegna in caserma e il divieto di allontanamento dai reparti dei Carabinieri di Roma.

Gli ufficiali che non avessero adempiuto erano passibili di fucilazione e i loro familiari sottoponibili all’arresto, secondo il barbaro Sippenhaft adottato dal Terzo Reich, la responsabilità oggettiva familiare che è ripudiata da qualsiasi ordinamento penale che riconosce la sola responsabilità personale. Il controllo delle caserme di Roma passava quindi ai militi della PAI alla quale veniva assegnato anche il servizio d’ordine nella Città aperta, ed era evidente che fosse per conto dei tedeschi, in attesa che potessero farlo loro. Alla raccolta delle armi, l’indomani, 7 ottobre, provvedono i paracadutisti tedeschi che hanno l’ordine di sparare a vista contro chiunque tenti la fuga.

I Carabinieri vengono quindi portati alla stazione ferroviaria e fatti salire sui treni sostenendo che dovranno prendere servizio nelle caserme del nord Italia, quando invece è già stabilito che oltrepasseranno il Brennero e avranno come destinazione finale i lager nazisti, dove andranno a ingrossare le fila già mostruose degli Internati militari italiani, i soldati disarmati e rinchiusi dopo l’armistizio dell’8 settembre: gli IMI sono un’invenzione lessicale di Hitler, che così può vendicarsi dei “traditori” e non applicare le convenzioni internazionali a tutela dei prigionieri che possono altresì essere utilizzati come mano d’opera forzata nelle fabbriche del Reich.

La resistenza dell'Arma

Non conosciamo il numero esatto dei Carabinieri deportati, una cifra che oscilla tra i 1.500 e i 2.500, poiché la documentazione di fonte tedesca è andata perduta, ma è evidente che qualche notizia su quello che sarebbe accaduto fosse filtrata alla vigilia per consentire di sfuggire alle maglie tedesche. Non a caso buona parte dei Carabinieri la loro scelta di campo, etica prima ancora che militare, l’avevano già fatta.

Il 25 settembre a Bosco Martese, nel Teramano, la prima battaglia campale della Resistenza antitedesca era stata guidata dal capitano Ettore Bianco. Il giovane ufficiale di complemento Carlo Alberto Dalla Chiesa, in servizio nelle Marche, condannato a morte dai tedeschi per la sua attività entrò subito in clandestinità mettendosi alla testa di «bande di patrioti» e responsabile «di intere popolazioni civili»; e, con loro, poco meno di 200 ufficiali che si distinsero nella Guerra di liberazione.

Lo scollamento tra l’Arma e il rinato regime fascista repubblicano è comprovato dalla decisione di neutralizzare i Carabinieri nell’Italia del nord sciogliendoli l’8 dicembre 1943 nella Guarda nazionale repubblicana, esercito di partito sul modello delle SS. Nei lager nazisti, come ricorda l’oggi centenario Abramo Rossi che il 7 ottobre 1943 venne deportato da Roma assieme ai commilitoni, «quando ci chiesero se volevamo essere liberati in cambio del giuramento a Mussolini noi Carabinieri rispondemmo tutti di no».

80 anni dalla razzia. Rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, 80 anni fa la razzia delle SS. Pubblichiamo brani dello sconvolgente libro di Giacomo Debenedetti che racconta minuto per minuto quella terribile giornata del 16 settembre 1943. Forse è l’unica lettura da rendere obbligatoria nelle scuole. Giacomo Debenedetti su L'Unità il 16 Ottobre 2023 

…Entriamo ora in una casa di via Sant’Ambrogio, nel Ghetto. Potremo seguire la razzia in tutte le sue fasi. Verso le cinque la signora Laurina S. viene chiamata dalla strada. È una nipote che le grida: “Zia, zia, scendi! I tedeschi portano via tutti!”.

Questa ragazza, qualche momento prima, uscendo di casa in via della Reginella, aveva veduto portar via una intera famiglia con sei bambini, il maggiore dei quali di dieci anni. La signora S. si affaccia alla finestra. Vede ai lati del portoncino due tedeschi, armati di moschetto (o di mitra, non sa specificare). Ci si domanderà come abbia potuto la nipote gridare così dalla via, e parole tanto esplicite, alla presenza di due tedeschi (la via è angosciosamente stretta, un budello).

Ripetiamo che i tedeschi, in massima, non rastrellarono la gente per via: fuor di casa furono presi soltanto quelli che, infelici, vollero farsi prendere. Né bisogna credere che la tragedia si sia svolta in un’atmosfera di muta e trasecolata solennità: le persone seguitavano a parlare tra di loro, a gridarsi degli avvisi, delle raccomandazioni, come nella vita di tutti i giorni. La fatalità svolgeva il suo lavoro sostanzioso, senza preoccuparsi del cerimoniale, senza badare alle inezie di forma. Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore.

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Dapprima la signora S. suppose, come tutti, che i tedeschi fossero venuti a portar via gli uomini per il “servizio del lavoro”. Questa idea, sparsa probabilmente ad arte, fu la rovina di molte famiglie, che non pensarono a mettere in salvo vecchi, donne e bambini. Comunque, fidando nella presunta immunità delle donne, la S. si veste alla meglio, prende carte annonarie e borsa della spesa, poi scende per cercare di capire di che si tratti. Qualche giorno prima è caduta, trascina una gamba ingessata.

Giunta per via, si avvicina ai tedeschi di sentinella, offre loro da fumare, quelli accettano. Dei due, l’uno poteva avere venticinque anni, l’altro ne dimostrava una quarantina. Come in tutte le mie prigioni c’è sempre un carceriere buono, così in questa razzia ci saranno le SS di gran cuore: questi due, per esempio. La leggenda formatasi poi nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci. “Portare via tutti ebrei…” risponde il più anziano alla donna. Costei si batte la palma sull’ingessatura: “Ma io gamba rotta… andare via con la mia famiglia… ospedale…”. “Ja, ja,” annuisce l’“austriaco”, e con la mano le fa cenno di svignarsela. Mentre aspetta la famiglia, la S. pensa di mettere a frutto la sua amicizia con i due soldati per veder di salvare qualche vicino. Chiama anche lei dalla strada: “Sterina! Sterina!” “Che c’è?” fa quella dalla finestra. “Scappa, che prendono tutti!”. “Un momento, vesto Pupetto, e vengo.”

Purtroppo vestire Pupetto le fu fatale: la signora Sterina fu presa con pupetto e con tutti i suoi. Dalla via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via Sant’Ambrogio col Portico. Com’è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni.

Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione. Pare che quell’atroce, repentina sorpresa già non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti, che erano andati con lo stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi, i roghi. Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare: ed è anche più tremendo che dover dire: “Non ce n’è” ai figli che chiedono pane.

D’altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo. Taluno bacia le proprie creature: un bacio che cerca di nascondersi ai tedeschi, un ultimo bacio tra quelle vie, quelle case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla vita. Chi scrive questo resoconto passò la mattinata del 16 ottobre in casa di una vicina. Costei si lasciò sfuggire, all’inizio dell’estate, che la razzia era preveduta: infatti un suo conoscente, impiegato all’anagrafe, le aveva confidato giorni prima che si erano dovuti ammazzare di lavoro per certi elenchi di ebrei, che bisognava approntare per i tedeschi. Di ritorno a Roma nel luglio successivo, cercammo di ripigliare il discorso, ma non ci fu verso: la vicina cadeva dalle nuvole, non si ricordava di aver mai saputa una simile notizia.

Il tempo che si era mantenuto per tutta la mattina fradicio e basso, verso le undici ebbe una breve remissione. Un poco di sole brillò sulle selci del Portico di Ottavia, dove da ore si trascinavano quei poveri piedi, quei piedi già stanchi, già dolenti prima di iniziare il viaggio. Nei Sabbati ormai lontani, quel raggio di sole attraversava le vetrate della sinagoga, andava ad accendere le canne dell’organo, che gli rispondeva nel registro più d’oro. E lo riversava, quel raggio, sui fedeli in concenti di giubilazione, in uno sfolgorare di santa allegrezza. I fanciulli cantavano: “Santo, Santo Santo, il Dio degli eserciti, della Sua gloria tutta la terra è colma.”

Ora, dal fondo della fossa in cui stanno aspettando di essere deportati, quei fanciulli non levano altro che pianto, un pianto che non fa coro, che non si innalza al cielo come il fumo dei sacrifizi; che il cielo tornato basso sembra respingere, far ricadere sulle loro spalle.

Quanti anni ancora dovranno passare, prima che quel pianto diventi il cantico dei fanciulli nella fornace? Prima che il Dio degli eserciti li ascolti, nuovamente rapiti nel celebrare la Sua gloria? La razzia si protrasse fino verso le 13. Quando fu la fine, per le vie del Ghetto non si vedeva più anima, vi regnava la desolazione della Gerusalemme di Geremia: “quomodo sedet sola civitas…”. Tutta Roma era rimasta allibita.

….Nella fila la signora S. vide anche zia Chele, una vecchia di ottant’anni mezza andata di mente: si trascinava tra gli altri, come un po’ saltellando, senza capire che cosa le facessero fare, e rispondeva con saluti e sorrisi ebeti e perfino un po’ fatui agli sguardi della gente; ma poi trasaliva d’improvviso e si spaventava, biascicando frammenti di preghiere, quando i tedeschi si rimettevano a urlare. Urlavano senza un motivo, probabilmente solo per tenere desto il terrore e vivo il senso della loro autorità, affnché non nascessero intoppi e le cose fossero sbrigate alla svelta. Passa un’altra vecchia di ottantacinque anni, sorda e malata. Passa un paralitico, portato a braccia sulla sua sedia. Una donna con un lattante in collo si slaccia la camicetta, estrae la mammella e la spreme per mostrare al soldato che non ha più latte per la creatura: ma quello le punta il mitragliatore contro il fianco perché cammini.

Un giovanotto si stacca dalla fila: ha ottenuto di andare a prendere un caffè, sotto la sorveglianza di una SS, che però non accetterà di “tenergli compagnia”. Deglutisce rumorosamente, la tazzina gli trema nelle mani, e anche le gambe gli ballano sotto. Gira gli occhi smarriti verso i tavolini, dove si è seduto a giocare a carte nelle sere che avevano ancora un indomani. Con una specie di sorriso timido e stanco, domanda al caffettiere: “Che faranno di noi?”. Queste povere parole sono tra le poche lasciateci da coloro nell’andarsene. Ci fanno sentire la voce di un essere tornato per un momento nella nostra vita, tra noi, quando a lui vivo la nostra vita ormai non apparteneva più, e già era entrato in quella nuova esistenza oscura e terribile. E ci dicono pure che cosa sia passato per la testa di quegli sciagurati nei primi momenti: una sfiduciata speranza di non aver capito bene.

Le file vengono spinte verso la goffa palazzina delle Antichità e belle arti, che sorge al gomito del Portico di Ottavia di fronte alla via Catalana, tra la chiesa di Sant’Angelo e il Teatro di Marcello. Ai piedi della palazzina si stende una breve area di scavi, ingombra di ruderi, qualche metro più bassa che la strada. Entro questa fossa venivano raccolti gli ebrei, e messi in riga ad aspettare il ritorno dei tre o quattro camion, che facevano la spola tra il Ghetto e il luogo dove era stabilita la prima tappa. Giunta con la famiglia a largo Argentina – varcato ormai il mar Rosso – la signora S. viene a sapere di un parente che per paura di quelle sentinelle alla porta, è rimasto per le scale. (Un caso purtroppo frequente; per quella paura, molti non si vollero muovere di casa e vi si fecero prendere.).

Malgrado le proteste dei suoi, la S. decide di tornare indietro a soccorrere il parente, se ancora farà in tempo. Che può parere una bravata in sovrappiù, il troppo che stroppia; ma c’è della gente, a cui le congiunture estreme danno una sovrabbondanza vitale, che li fa credere in una specie di invulnerabilità. È il caso di quegli infermieri che circolano tra le epidemie con uno scanzonato e quasi irritante disprezzo per la profilassi, e sono poi proprio quelli che se la scapolano, come se davvero il contagio su di loro non avesse presa. I due “austriaci” sono sempre alla porta. Un’occhiata basta alla S. per sincerarsi che il tacito patto di protezione vige sempre ancora.

Dal vano delle scale chiama il parente. “ Enrico!”. Ma in questo momento sette tedeschi sopraggiungono: hanno sentito quel richiamo e, per quanto non lo capiscano, a buon conto il loro capo appioppa alla S. uno schiaffone, che la manda lunga e distesa attraverso l’andito. Poi con incomprensibili parole tedesche e fin troppo chiare minacce col calcio del mitragliatore, la costringe a rialzarsi da sola. Due uomini si mettono davanti a lei, tre alle sue spalle, e le tocca di salire. Sul pianerottolo, le porte dei tre appartamenti sono chiuse, sbarrate (una è quella dell’appartamento di S., ormai deserto).

I tedeschi consultarono un elenco dattilografato. Disgraziatamente, due delle porte si erano concessa l’assurda civetteria di una targa sul battente. E i nomi rispondevano a quelli dell’elenco. I tedeschi bussarono; poi non avendo ricevuto risposta, sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola. L’allarme era stato dato da forse un’ora: ma nella concitazione di consultarsi, di fuggire, di salvare un po’ di roba, nella ridda delle decisioni impotenti e contraddittorie, quasi nessuno aveva trovato il tempo di vestirsi. I più erano ancora in camicia, con un vecchio pastrano o una frusta gabardine infilati alla meglio.

Il caposquadra si avanza verso di loro. Ha in mano una specie di cartolina scritta a macchina, di cui legge il testo in tedesco. Quelli non capiscono altro che il tono perentorio di minaccia. Si sciolgono i pianti delle donne e dei bambini. La S. ha avuto il tempo di sbirciare che, sull’elenco dei nomi, il suo non c’è. Questo le dà coraggio: come a vendicarsi dello schiaffo, strappa di mano al tedesco la cartolina. Il testo è bilingue. È lei che lo legge ad alta voce ai vicini:

1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.

2. Bisogna portare con sé:

a) viveri per almeno otto giorni;

b) tessere annonarie;

c) carta d’identità;

d) bicchieri.

3. Si può portare via:

a) valigetta con effetti e biancheria personali, coperte ecc.;

b) denari e gioielli.

4. Chiudere a chiave l’appartamento. Prendere con sé la chiave.

5. Ammalati – anche casi gravissimi – non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.

6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.

Venti minuti: neppure il tempo per lamentarsi. Meno di quanto occorra per fare fagotto. I bicchieri belli è meglio lasciarli a casa. E le valigette, dove trovarne una per ciascuno? I bambini ne vogliono una tutta per loro. Non seccate! Bisogna che i tedeschi non vedano dove stavano nascosti i manhood. Gioielli non ce n’è più, tutti da un nharèl. Le parole necessarie bisogna dirsele in ebraico, come si sa e si può – in quel gergo che pare un furbesco e ha sempre fatto sospettare che gli ebrei complottino – come si fa a parlare con quei due soldati entrati in casa a sorvegliare i preparativi? I bambini si aggrappano alle gonne, non lasciano bene avere. Alcuno si busca un ceffone. Gli ebrei, nei rapporti coi figli sono pronti di mano….

I soldati rimasti sul pianerottolo si avvicinano alla S. e le domandano se sia parente con quelle famiglie. No, non è parente. Se sia Juda. Non è Juda. Ne dia le prove: la signora estrae la chiave, apre il proprio appartamento per dimostrare che quella è casa sua, che lei non abita con gli altri, che non ha niente di comune con loro. La cacciano dentro casa, intimandole di chiudere la porta. I venti minuti concessi ai vicini stanno quasi per spirare. Alle sollecitazioni dei tedeschi, ricominciano le grida, le invocazioni: nella confusione dei preparativi, si era quasi dimenticato che erano i preparativi per essere portati via. La S. non regge più, esce sul pianerottolo. I tedeschi fanno per ributtarla dentro; ma lei torna a mostrare la gamba ingessata, deve andare all’ospedale. Alcuno le accenna che è libera, che fili alla lesta.

In questo momento, vedendola avviarsi per le scale, quattro bambini scappano dagli altri due appartamenti, le si attaccano alle braccia, alle vesti: “Aiutaci, Laurina! Laurina, salvaci!” Una di quei quattro è la bambina Ester P., che aveva allora dodici anni. Racconta che quella notte era venuta a dormire da zia, perché all’indomani mattina presto doveva andare “a fare la fila dell’erba”, e di uscire sola al buio lei aveva paura. Appena con zia furono fuori di casa, videro tutti gli angoli di strada piantonati dai tedeschi. Rientrarono subito: zia pensava (anche lei) che i tedeschi fossero venuti per prendere gli uomini, perciò voleva dare i soldi al marito, che scappasse.

Avessero tirato di lungo per la loro strada, almeno loro due si sarebbero salvate: invece rimasero incastrate, perché di lì a poco, erano sopraggiunti i sette tedeschi. Quando capì di essere presa, la bambina ebbe soprattutto paura che suo padre, non vedendola tornare, si arrabbiasse. Anche zia, correndo tra armadio e cassone per far fagotto, le diceva: “Scappa, torna a casa, se no poi papà mi strilla.” Questa idea della strillata e soprattutto quel “poi” dicono molte cose. Loro continuavano a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima. (Eppure il biglietto parlava chiaro.)

Senza dubbio ci fu gente più consapevole, che subito si rese conto di quello che stava capitando. Ma a quelli di “piazza Giudìa”, a una gran parte almeno, successe come quando portano un parente dal medico, che fa loro una diagnosi senza speranza. Per parecchio tempo ripetono il nome di quella malattia, ci fanno i commenti, quasi ci prendono confidenza, come fosse il nome di una delle tante malattie che già conoscono, che sono già state in casa. Solo più tardi capiscono che cosa ci sia dentro quel nome. La S. strinse a sé i bambini, disse che erano suoi. I tedeschi lasciarono correre. Appena in istrada, i piccoli se la squagliano. La signora S. fa pochi passi, e poi sviene. La soccorrono alcuni “ariani”, che la portano al caffè di ponte Garibaldi.

CHI È GIACOMO DEBENEDETTI – Giacomo Debenedetti è uno dei maggiori critici letterari del novecento. E’ stato anche uno scrittore e un professore universitario. Piemontese, nato nel 1901 morì nel 1967. Ha scritto molto in vita sua ma quel piccolo libbriccino intitolato 16 ottobre 1943 è un capolavoro assoluto. Una cronaca secca e travolgente della giornata nella quale fu rastrellato il ghetto di Roma e furono deportati più di 1000 ebrei, destinati ai lager e alla morte. Pubblichiamo qui alcuni brevi brani di quel suo lavoro, edito dalla Nave di Teseo con le prefazioni di Natalia Ginzburg e Alberto Moravia.

Giacomo Debenedetti 16 Ottobre 2023

Un secolo dopo gli ebrei in fuga non è cambiato nulla. Iuri Maria Prado su L'Unità il 18 Luglio 2023

Un giorno di fine settembre del 1943, in un posto di polizia dalle parti di Bruzella, nel Canton Ticino, un vecchio fa domanda per poter restare nella Confederazione. Comunica le proprie generalità: Carlo Strauss, nato a Francoforte sul Meno il 27 Aprile 1864. Il motivo della richiesta è scritto in calce al modulo, verosimilmente dall’ufficiale di polizia, in un tedesco non ben padroneggiato: “Weil in Italien die Judenverfolgung eingesetzt hat” (pressappoco: “Perché in Italia è attuata la persecuzione degli ebrei”).

Carlo Strauss (nato Karl, in realtà) era il mio bisnonno. La notte precedente, per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, aveva passato la frontiera, per i boschi, venendo da Cernobbio. La figlia, mia nonna, in quello stesso periodo faceva un percorso simile, più a Ovest, verso Astano, con mia madre nel ventre e un bambino di sette anni, mio zio, per mano. Almeno tre elementi di interesse emergono dall’esame di quel modulo. Il primo, nella parte alta: la dicitura “Permesso di dimora – soggiorno – domicilio...”, e nessun numero o sigla identificativa a compilare la parte mancante, ma solo una parola: “Ebreo”. Ciò che in Italia ormai bastava (i documenti recavano più precisamente “razza ebraica”) per essere caricati sui carri bestiame, ma ciò che ancora non bastava (ci arrivo subito) per trovare rifugio in Svizzera.

La seconda curiosità del documento cade appunto in proposito: è l’annotazione secondo cui il profugo “Ha una sorella in Ginevra”. Perché questa nota ulteriore? Non bastava, per accogliere la richiesta di rifugio di un vecchio ebreo, il fatto non propriamente sconosciuto che gli ebrei fossero perseguitati e fossero altrimenti destinati al sicuro viaggio nei vagoni piombati? No, non bastava. Gli svizzeri, infatti, avevano in realtà politiche abbastanza restrittive e discriminatorie sull’ingresso degli ebrei in fuga: facevano entrare donne e bambini, ma non i maschi adulti, salvo appunto che dimostrassero di avere parenti in Svizzera. Ed ecco allora il motivo di quell’aggiunta apparentemente incongrua: non una gratuita precisazione sulle diramazioni familiari, ma la soddisfazione di un requisito la cui mancanza avrebbe comportato il diniego di ingresso.

Il terzo elemento di apparente stranezza è affogato nella parte bassa dello scritto, questa volta in un italiano a sua volta poco digesto: “Ha un po’ mezzi”. Cioè quel vecchio aveva un po’ di soldi, o qualche oggetto di valore: e chissà se l’annotazione veniva dall’autonoma iniziativa dell’anziano, per rendere più suadente la domanda di asilo, o se invece rispondeva alle investigazioni del funzionario preoccupato di far entrare un nullatenente.

Avevo letto cronache ticinesi sul respingimento degli ebrei proprio nei pressi del posto di polizia in cui il bisnonno sottoscriveva quel “Formulario n. 110”: ma erano notizie, per così dire, senza pezza d’appoggio, ritratte dai ricordi di qualche paesano. Quel documento, che diventava lasciapassare grazie all’ostentazione di una parentela ginevrina, racconta invece silenziosamente la sorte diversa e innominata degli ebrei che di notte attraversavano le foreste e salivano le montagne per arrivare bensì in Svizzera, ma per esserne respinti quando non potevano dimostrare un motivo valido per rimanere: un motivo che non si riducesse all’insufficiente notizia che gli ebrei (questa volta senza distinzione di età, di sesso e di censo) erano rastrellati per la deportazione verso i campi di sterminio.

Non erano tutti salvi gli ebrei che arrivavano nei villaggi oltre la frontiera. E nella storia di questa immane tragedia c’è dunque posto anche per questo piccolo capitolo, scritto in tre lingue dietro la schiena dei monti di Lombardia: la vicenda dei bambini e delle mogli che in quei villaggi salutavano per l’ultima volta i padri e i mariti soltanto ebrei, soltanto perseguitati, soltanto destinati alla morte, e perciò senza il diritto di essere salvati.

Iuri Maria Prado 18 Luglio 2023

Auschwitz, il male e quel silenzio intollerabile di Dio. Il dilemma di Ciglia e Voltaggio nel nuovo libro "Nella tempesta Dio. Sul dolore, tra Bibbia e Filosofia". Danilo Di Matteo su L'Unità il 10 Giugno 2023

La domanda che l’ebreo rivolge più spesso a Dio è: “dove sei?”. E tale, più in generale, è la domanda del credente (e non solo). Nella Bibbia, certo, è spesso Dio a interrogare l’essere umano: celeberrimo è il “dov’è tuo fratello?”, rivolto a Caino. Né mancano, da parte di Dio, le “domande di rimando”, analoghe a quelle a cui è avvezzo chi ha esperienza di sedute psicoanalitiche: “dottore, perché sogno tutte le notti un albero dalle foglie nere?”. E l’analista, di rimando: “vediamo un po’, perché secondo lei?”.

È (anche) così che si tesse la trama del silenzio e del dialogo, tra paziente e terapeuta come fra Dio e gli umani. Sulla trama del silenzio, quasi fosse il volto ombroso della parola, si è soffermato, alla fine degli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta, un autore ebreo alsaziano come André Neher, muovendo dalla tragedia dei campi di sterminio. Sul suo pensiero e su tanto altro si soffermano Francesco Giosuè Voltaggio, presbitero della Diocesi di Roma, biblista e profondo conoscitore della letteratura ebraica antica, e Francesco Paolo Ciglia, filosofo, specialista, tra l’altro, del pensiero ebraico del Novecento, con il volume Nella tempesta Dio. Sul dolore, tra Bibbia e Filosofia, con la Prefazione di Fabrice Hadjadj (Edizioni San Paolo, pp. 270, euro 22).

Eloquente, e drammatico più che mai, è il silenzio (e, dunque, l’assenza, almeno apparente) di Dio nel libro biblico di Giobbe (e che dire del silenzio di Auschwitz?). “Perché egli rimane muto spettatore delle tragedie? È la domanda rivolta spesso a Dio da Israele e perfino dai suoi profeti più pii come, per esempio, Abacuc: ‘Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese […]. Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’oppressione, perché, vedendo i perfidi, taci, mentre il malvagio ingoia chi è più giusto di lui?’”.

Vi sono, dunque, la questione del male, quella del dolore e della sofferenza e, accanto a esse, quella della giustizia. E Dio può divenire persino l’imputato. “Dove sei?”. Oppure: “dov’eri?”. Se l’intera Bibbia “non è altro che un corpo a corpo con Dio”, fatto di parole e di silenzi, in talune situazioni la parola sembra perdersi e, in apparenza almeno, resta solo un abissale, vertiginoso, spaventoso silenzio. Un urlo inquietante e quasi senza fine fatto di silenzio. Un urlo, talora, ma, forse più spesso, una voce silenziosa. Nel primo libro biblico dei Re, infatti, “il narratore nota che ‘il Signore passò. Si verificano vari possenti fenomeni della natura”.

Il primo di essi “è il fuoco: ciò richiama la scena del capitolo precedente, in cui il Signore, grazie all’invocazione di Elia, si era manifestato nel fuoco.  Eppure, il Signore non è nel fuoco. In seguito vi è un terremoto, ma Dio non è presente neanche in esso. Dopo ancora viene un vento impetuoso; Dio non è nemmeno lì. Infine, sopraggiunge” una “voce di silenzio sottile”. “Quando Elia sente questa voce o, meglio, questo silenzio – si tratta, infatti, di un ossimoro: ‘la voce del silenzio’, cioè il silenzio della voce di Dio –, si copre il volto con il mantello, e non vuole vedere, perché capisce che lì è presente Dio”. Un volume, insomma, che, in maniera circolare, raccoglie dubbi e domande e ne pone. Un volume, lo dico non senza un pizzico d’orgoglio, che vede in bibliografia anche un mio libretto, frutto di una rapida incursione nell’argomento.

Danilo Di Matteo 10 Giugno 2023

 La ribellione il 16 maggio '44. La rivolta degli zingari di Auschwitz, l’unica in un campo di sterminio: l’urlo della ragazza che ruppe l’equilibrio. Marco Revelli su L'Unità il 16 Maggio 2023

Il 16 maggio del 1944, nello Zigeunerlager di Birkenau, il “campo degli zingari” allestito nel cuore della parte più atroce di Auschwitz, specificamente destinata alla Vernichtung, letteralmente all’“annientamento”, scoppia la rivolta. L’unica rivolta in un campo di sterminio. Secondo programma le SS comandate dall’Obersturmführer Johann Schwarzhuber avrebbero dovuto procedere alla liquidazione di tutti i 6mila reclusi nel “Block IIe”, una sezione speciale del campo, dove le famiglie, contrariamente alla regola, non venivano separate, le donne potevano partorire, ma le condizioni di vita erano proibitive e le infezioni e le malattie facevano strage più che altrove. Lì erano stati concentrati i “nomadi” rastrellati prima in Germania e poi in tutta l’Europa occupata dalle forze naziste, lì il dottor Mengele faceva esperimenti mirati su quella razza “degenerata” seppur d’origine indo-europea, lì – complice l’odio delle popolazioni “autoctone”, soprattutto polacchi, ucraini, baltici, rumeni e ungheresi per quelli che venivano considerati criminali “per natura” – erano stati ammucchiati gli ultimi tra i dannati della terra. Ma quel giorno, quel popolo di straccioni senza patria, ebbe la forza di resistere alle SS armate fino ai denti, le donne in prima fila – le donne strette a difesa intorno al propri bambini – con ogni mezzo grazie alla straordinaria creatività degli “zingari” e alla loro capacità di riciclare ogni cosa che potesse trasformarsi in arma: “sassi, ferri da calza, pezzi di legno acuminati, spilloni, cucchiai affilati, tubi di ferro, vanghe”.

Quando verso le sette di sera fu ordinata la Lagerspelle, la “serrata”, i soldati si trovarono di fronte a un’imprevista insubordinazione di massa, da parte di una folla cenciosa ma compatta nel rifiuto di obbedire, silenziosa all’inizio, poi, dopo che il comandante aveva messo mano al frustino come pensasse di trattare con animali, sempre più robusta e minacciosa. Probabilmente fu l’urlo di una ragazza, presa per i capelli da uno scherano dell’Obersturmführer, a rompere l’equilibrio e a scatenare una vera a propria carica che respinse le frastornate SS, evidentemente impreparate a una tale imprevista reazione, e le costrinse a ripiegare fuori dal Block. Qualcuno provò anche a sparare qualche colpo, ma la marea era tale da non poter essere fermata nemmeno da qualche proiettile a bruciapelo, e il timore che qualche arma cadesse nelle mani degli insorti generando una reazione a catena nel Campo suggerì di soprassedere all’operazione di liquidazione.

Ritorneranno, gli aguzzini, due mesi e mezzo più tardi, dopo aver trasferito in altri lager buona parte degli uomini, il 2 di agosto, a finire il lavoro: quel giorno i 2.897 rimasti, soprattutto bambini, donne e vecchi, ridotti ormai a scheletri, febbricitanti, denutriti, moribondi, sarebbero passati per le camere a gas e i loro corpi per il crematorio che per tutto il giorno e tutta la notte avrebbe fumato, ininterrottamente. Nel gennaio del 1945, all’ultimo appello prima della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, solo quattro “zingari” risposero. Pagavano la colpa di appartenere a un “razza pericolosa per natura” o, come l’aveva definita il famigerato direttore del Centro Ricerche per l’Igiene e la Razza di Berlino Robert Ritter, a “un miscuglio pericoloso di razze deteriorate”. Fin dal 1929 – quattro anni prima dell’avvento al potere di Hitler – erano stati oggetto delle feroci attenzioni dell’ “Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara” che dopo averli definiti “razza impura” si prodigò affinché fosse loro impedito con misure di polizia di passare da un accampamento all’altro senza uno speciale permesso. Poi, col 1938, sarebbe venuta la schedatura di massa di quella “minoranza degenerata, asociale e criminale”, l’internamento nei campi di Buchenwald, Flossemburg e Mauthausen-Gusen, e con il 1940 la vera e propria deportazione sistematica e di massa, in vista della “soluzione finale”.

Loro lo chiamano il Porrajmos, che nella lingua romanÍ significa “grande divoramento” o “devastazione”. Oppure, anche, Samudaripen (da “sa” che vuol dire “tutti” e “mudaripen” ovvero “uccisione” cioè “uccisione di tutti”, genocidio). È l’equivalente dell’ebraica Shoah, solo che in questo caso, per questa popolazione del margine, con una cultura esclusivamente orale, quasi nessuno ne ha sentito parlare, e nel Giorno della memoria quel genocidio è poco ricordato, come se si trattasse di un sacrificio minore, e per le vittime di “figli di un dio minore”. Eppure le statistiche della morte ci dicono che lo sterminio, nel loro caso, fu radicale e sistematico: si calcola che su una popolazione di circa un milione di Rom e Sinti in Europa ne siano stati eliminati circa la metà. In alcune aree del nord e nord-est o dei Balcani, l’ “eradicazione” dei Rom, Sinti e delle altre etnie nomadi è stata tanto profonda che in Paesi come la Lituania, il Lussemburgo, l’Olanda e il Belgio fu cancellato il 100 per cento delle rispettive comunità. In Germania, su una popolazione di circa 20mila censiti come “Zigeuner” ne scomparvero 15mila. In Estonia si giunge al 90%. La stessa percentuale in Croazia ad opera dei fascisti Ustascia…

Né si salva, da questa vergogna, l’Italia dove il regime fascista perseguitò costantemente le comunità cosiddette “nomadi” a cominciare dal 1926, quando fu ordinata l’espulsione dal regno di tutti gli “zingari stranieri” per pulire “il paese dalle carovane degli zingari” considerati pericolosi per la sicurezza e la salute pubblica “in virtù del caratteristico stile di vita gitano”. E poi col settembre 1940, quando con circolare del Ministero degli Interni per tutte le Prefetture, ne veniva avviato l’internamento nel celebre campo di Ferramenti, in Calabria, e in luoghi di reclusione come Agnona (in Molise), Tossicia (in Abruzzo), o le Isole Tremiti e la Sardegna, con l’obbiettivo roboante e grottesco di colpire “il vero cuore dell’organismo gitano”.

Di quelle loro sofferenze e di queste nostre vergogne sarebbe bene ricordarsi, quando si sente soffiare dall’alto del palazzi di governo il vento maligno della discriminazione e del suprematismo razziale o “etnico”, come si dice adesso. O qualche sindaco zelante, sotto il pretesto del decoro urbano, predica più o meno velate forme di apartheid. Personalmente, quando sento l’odore di questo cattivo vento, preferisco evocare nella mente le strofe luminose del poema che recita: “Noi Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra/Ci possono calpestare,/ci possono eradicare, gassare,/ ci possono bruciare,/ ci possono ammazzare/ ma come i fiori noi torniamo comunque sempre…”.

Marco Revelli 16 Maggio 2023

L'episodio in un liceo di Ponticelli. Nel giorno della Memoria tema da brividi a Napoli: “Sono tutti morti bruciati”. Fine. Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Sono tutti morti bruciati”. È il “tema” di un ragazzino di quasi diciotto anni. Ha scritto solo quattro parole sul foglio bianco quando la professoressa, nel giorno della Memoria, ha assegnato la traccia alla sua classe. Scrivere per ricordare l’olocausto, l’ignobile follia che portò alla morte di milioni di ebrei. Scrivere per non dimenticare mai quanto può essere malvagio l’animo umano. Scrivere perchè mai più la banalità del male possa offuscare la mente di milioni di persone. Scrivere perché non accada mai più un tale e atroce sterminio. Non la pensava così lo studente di una scuola di Ponticelli a Napoli, l’Isis Archimede, sul Giorno della Memoria.

L’argomento, infatti come ha raccontato Repubblica, è stato liquidato dal giovane con un rigo solo: “so’ tutt muort abbruciat” (sono tutti morti bruciati, ndr). Quando la professoressa di Italiano ha letto il compito dell’alunno, lo ha portato subito all’attenzione della preside che si è rivolta con una lettera ai docenti della scuola. “Dobbiamo trovare – ha spiegato la dirigente, Mariarosaria Stanziano – le parole per evitare che quella ignobile frase, graffiata su un foglio bianco, passi inosservata. Abbiamo da educatori il dovere di accogliere e rilanciare”. Purtroppo, rileva la dirigente, le giovani generazioni “sempre più spesso si mostrano incapaci di raccogliere emozioni, di entrare in sintonia con i drammi dell’altro, di mostrare empatia. È una vera patologia – dice – l’alexitimia, ma se ne parla poco”. Nella lettera ci si chiede: “quel ragazzo ha voluto fare lo splendido? O l’irriverente? O ancora l’ironico barzellettiere? ha voluto lanciare una aperta sfida alla scuola, all’autorità dei docenti, mostrandosi disincantato e irrispettoso?”.

L’interrogativo è se “ha inteso interpretare per iscritto le mille battute caustiche e imperdonabili che rimandano ai forni crematori, alle saponette, al gas letale…; oppure ha usato formule verbali aggressive pari a quei violenti cori da stadio che inneggiano al Vesuvio?”. Domande, per ora, senza risposte. L’unica difronte a un gesto del genere è l’indignazione. La seconda risposta, invece, deve essere domandare per trovare le motivazioni. Perché scrivere una cosa così cruda? E sull’argomento è intervenuto anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello, coordinatore regionale di Forza Italia in Campania: “Possibile – si chiede Martusciello – che nessuno provi indignazione di fronte al tema dell’alunno del liceo Archimede di Ponticelli sul giorno della memoria? Il ragazzo andrebbe bocciato senza indugi”. “È incredibile – aggiunge Martusciello – che nessun consigliere comunale proferisca parola su quanto accaduto. Il sindaco ha forse perso la voce? Chiediamo provvedimenti esemplari. Quel tema – conclude l’esponente forzista – è una vergogna nazionale che ci fa rabbrividire”.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

I dati Eurispes aggiornati al 2020. Per un italiano su 6 la Shoah non è mai esistita: “Negazionismo forma più subdola e insidiosa del razzismo”. Redazione su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Pochi giorni sono passati da quelle parole di Liliana Segre: “So cosa dice la gente del Giorno della Memoria. La gente già da anni dice, ‘basta con questi ebrei, che cosa noiosa’”. Dichiarazioni che erano arrivate pochi giorni prima della Giornata della Memoria, una tragedia da tenere sempre ben presente, e anche a costo di sottovalutare l’impegno di chi attivamente si spende per il ricordo, la Memoria, e non solo il 27 gennaio. Parole che erano un monito perché in Italia il negazionismo della Shoah è vivo e vegeto. Anzi sempre più vivo e vegeto che in passato.

I dati Eurispes contenuti nel Rapporto Italia 2020 comunicavano infatti come secondo il 15,6% degli italiani intervistati “l’Olocausto degli ebrei non è mai avvenuto”, “(con un 4,5% addirittura molto d’accordo ed un 11,1% abbastanza), a fronte dell’84,4% non concorde (il 67,3% per niente, il 17,1% poco)”. Saliva invece al 16,1% la percentuale di quelli che ritengono che “l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto”, “(il 5,5% è molto d’accordo), mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% (con il 64,9% per niente d’accordo ed il 18,9% poco d’accordo)”.

A preoccupare il dato che a distanza di 15 anni, dal 2004, misurava un aumento del 2,7% dei negazionisti. “Risultano in aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche coloro che ne ridimensionano la portata (dall’11,1% al 16,1%)”, si leggeva ancora. La percentuale degli italiani “secondo i quali gli ebrei determinano le scelte politiche americane” era invece passata dal 30,4% al 26,4%. Lo stesso rapporto descriveva come “casi isolati” gli episodi di antisemitismo, ma al tempo stesso “il 60,6% ritiene che questi episodi siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo”.

Dati con qualche anno sulle spalle, che sarebbe forse il caso di aggiornare, ma comunque utili e da tenere in conto. “I principi che informano la nostra Costituzione repubblicana e la Carta dei Diritti Universali dell’Uomo sono la radicale negazione dell’universo che ha portato ad Auschwitz. Principi che oggi, purtroppo, vediamo minacciati nel mondo da sanguinose guerre di aggressione, da repressioni ottuse ed esecuzioni sommarie, dal riemergere in modo preoccupante – alimentato dall’uso distorto dei social – dell’antisemitismo, dell’intolleranza, del razzismo e del negazionismo, che del razzismo è la forma più subdola e insidiosa”, ha detto oggi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della cerimonia di commemorazione al Quirinale del giorno della Memoria.

«Eredi della Shoah», il valore della memoria e il rischio dell’oblio. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Il problema della trasmissione della memoria è visto con uno sguardo di rapinosa lucidità e di affettuosa partecipazione nel documentario ideato e scritto da Roly Kornblit e Gianfranco Scancarello e diretto da Francesco Fei

Alla vigilia del «Giorno della memoria», la senatrice Liliana Segre ha lanciato un monito: «Il pericolo dell’oblio c’è sempre e sono convinta di quello che dico. E cioè che tra un po’ ci sarà una riga su un libro di storia e poi non ci sarà più neanche quella… La gente già da anni dice, “basta con questi ebrei, che cosa noiosa”». Dimenticare non è solo una strategia politica, è anche un problema antropologico, come scrive Milan Kundera: «La maggior parte della gente si inganna con una duplice fede errata: crede nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori, peccati, ingiustizie). Sono entrambi fedi false». Il problema dell’oblio, o meglio, della trasmissione della memoria è visto con uno sguardo di rapinosa lucidità e di affettuosa partecipazione da «Eredi della Shoah», un documentario ideato e scritto da Roly Kornblit e Gianfranco Scancarello e diretto da Francesco Fei (Sky Documentaries).

A guidare la narrazione è Kornblit, che con la sua storia personale e familiare parte da Tel Aviv, città in cui è nato e cresciuto, alla ricerca di sei «nipoti della Shoah» che vivono in Italia, suo paese di adozione. Eredi di un passato che li accomuna. Quando i sopravvissuti sono tornati a casa, per anni non hanno voluto parlare della loro terribile esperienza, come se l’orrore fosse troppo grande per essere raccontato. Poi, poco per volta, sono diventati testimoni dell’atrocità e dell’abisso in cui l’uomo a volte è capace di precipitare; adesso se ne stanno andando. Chi manterrà viva la memoria? C’è una cerimonia molto toccante: ogni superstite dei campi di sterminio sceglie un nipote cui affidare il compito di raccontare ancora quei terribili eventi e gli consegna una «candela della memoria» da tenere idealmente sempre accesa. Sei nipoti raccontano sei storie perché il ruolo della riparazione non venga assunto dall’oblio.

Shoah e Binario 21: trent’anni di ricerca per «costruire» la memoria. Paola D’Amico su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

La scoperta dei sotterranei della Stazione Centrale dove prigionieri ebrei e detenuti politici furono caricati sui vagoni dei treni per essere deportati ai lager nazisti nel ‘43-’44. Lunedì 30 alle 18 l’evento al Memoriale della Shoah

Un totem in Stazione Centrale oggi indica come raggiungere il Memoriale della Shoah. Lunedì 30 gennaio alle 18 sarà punto di incontro per i milanesi per una preghiera insieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla Comunità ebraica. Ma per ricostruire la storia di come questo luogo, che oggi è un monumento vivo e visibile a tutti, da cui tra il ’43 e il ’44 partirono i convogli ferroviari che trasportarono nei campi di sterminio nazisti migliaia di cittadini ebrei – uomini, donne, bambini - e deportati politici, bisogna fare un salto indietro di 30 anni esatti. A quando cioè un gruppo di studenti e studentesse universitari della Comunità di Sant’Egidio ascoltarono una delle prime testimonianze di Liliana Segre e poi insieme a lei, guidati da Milena Santerini, decisero di riscoprire le tappe e i luoghi della sua deportazione. Ulderico Maggi era uno di loro. «Ascoltando la storia di Liliana Segre che da poco aveva iniziato a testimoniare capimmo che potevano esserci dei luoghi a Milano che dovevano diventare elementi cruciali della memoria della città – racconta – e con lei decidemmo di percorrere il tragitto che dal carcere l’aveva portata al treno, passando per via Carducci dove c’era la sua casa. Ci parlava di un sotterraneo scuro, di un montacarichi, dei rumori dei treni sui binari che rimbombavano là sotto. Iniziò così la ricerca, dai sotterranei lungo la via Tonale, dove a lungo c’erano state le Poste, poi trasferite. Non fu semplice la ricostruzione, ci impiegammo qualche anno per capire, elaborare, trovare quell’enorme spazio ormai dismesso dove entravano i camion e scaricavano le merci che fu usato per trasportare i prigionieri. Intanto, però, le proponemmo di ritrovarci il 30 gennaio, la data in cui lei era stata deportata da lì con oltre 600 persone. E nel 1997 ci fu il primo incontro al quale inaspettatamente si presentò anche il rabbino Laras. L’anno seguente venne il cardinale Martini e fu posta una lapide con una frase di Primo Levi».

In un volume dato alle stampe nel 2017, sono riportate le parole pronunciate da Liliana Segre proprio quel giorno, il 30 gennaio 1997, durante l’incontro con i ragazzi e le ragazze della Comunità: «La nostra impossibilità di capire quello che ci stava succedendo è provata dal fatto che nessuno di noi si era reso conto che non erano dei treni quelli preparati nei sotterranei ma solo dei tronchi, uno, due, tre vagoni, che man mano che venivano riempiti – questo l’abbiamo saputo da poco – e poi, con un meccanismo incredibile che c’è ancora in uso, portati, spinti su una specie di piattaforma che, come un enorme ascensore, portava vagone per vagone al livello superiore». Conclude Ulderico Maggi: «Quando nel 1977 uscimmo da quel sotterraneo buio e umido ho in mente chiaramente due cose, la ricerca e la responsabilità: il nostro ingresso in quel luogo era stato preceduto da una lunga ricerca, dovevamo capire quale fosse il punto giusto, e ci eravamo assunti la responsabilità di costruire un pezzetto di questa storia di cui solo un passo alla volta abbiamo compreso l’enormità. E sono, siamo grati a questa amicizia, l’amicizia dei grandi maestri che segnano la vita, ed è quel sentimento che coglie tantissimi oggi quando incontrano Liliana».

Come si ricorda la Shoah senza più testimoni. Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 26 Gennaio 2023.

La figura del sopravvissuto ha acquisito una grande importanza solo dagli Ottanta in poi: prima l’Europa preferiva non guardare troppo a quanto successo agli ebrei. E ora le ragioni anagrafiche costringono a interrogarsi

«Anche se volessimo raccontare non saremmo creduti», scriveva Primo Levi. E invece i sopravvissuti, “i salvati”, sono stati creduti. Però, appena finita la guerra e per oltre tre decenni, non c’è stata molta voglia di ascoltarli. Le ragioni di quel rifiuto? La prima: prevaleva comprensibilmente l’urgenza di ricostruire, di vedere il futuro e non guardare il passato. Era un fenomeno comune a tutta l’Europa e al nascente Stato d’Israele. Si volevano rimettere in moto le economie o, nel secondo caso, porre le fondamenta di una nuova patria. Risale a quel periodo il boom delle nascite. Si voleva, lo desideravano pure i reduci dei lager, mettere su famiglie, fare figli, ricominciare a sognare.

La seconda ragione dello scarso ascolto è più drammatica. È il senso di colpa di chi non è rimasto fra “i sommersi”, di chi avvertiva nel fondo dell’animo di essere in vita perché gli altri sono morti; e anche di questo ha parlato Levi. La terza ragione, infine, era l’inadeguatezza del racconto. Era difficile testimoniare, perché nessuna parola né immagine erano in grado di rispecchiare la realtà. La Shoah (e qui sta la sua unicità) significava la totale negazione di tutti i valori alla base della civiltà. Il Male diventò Bene e il Bene Male in un rovesciamento del mondo radicalmente nichilista.

E tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, la figura del testimone diventò centrale perché restituiva l’aura dell’autenticità a un’esperienza altrimenti difficile da assimilare. Vennero fuori migliaia di testi, libri, memoir. Divennero prassi diffusa i viaggi nei luoghi dello sterminio, sono nati musei della Shoah e una serie di rituali civili. Soprattutto grazie alla Fondazione Spielberg, abbiamo circa 50 mila testimonianze registrate dei reduci della Shoah. Materiale prezioso per gli storici.

Oggi i testimoni vengono a mancare. E allora come faremo a conservare la memoria? Ovviamente con i riti civili. Ma c’è pure un passaggio generazionale interessante: artisti (di ogni genere) della “terza generazione” — nipoti veri o ideali dei reduci o dei sommersi — che producono opere, dove il passato serve a immaginare l’avvenire. E poi c’è la lezione di Ágnes Heller: la filosofa ammoniva che non basta sentire i testimoni o visitare i luoghi per stare dalla parte giusta. Occorre imparare il sentimento dell’empatia. In apparenza indicava i limiti della testimonianza, in realtà tracciava un sentiero per trasportarla nel futuro.

«Alla Memoria della Shoah si deve accompagnare la coscienza della Storia». Massimo Castoldi su L’Espresso il 26 Gennaio 2023.

Il giorno della liberazione di Auschwitz è la data simbolo per non dimenticare lo sterminio degli ebrei per mano di nazismo e fascismo. Ma occorre evitare la vuota ritualità e restituire complessità ai fatti. Ridestando interesse e sgomento

Il giorno della Memoria — 27 gennaio, in ricordo del 27 gennaio 1945, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz — non è una festa nazionale come sono il 25 aprile, festa della Liberazione, e il 2 giugno, festa della Repubblica, ma un giorno di lavoro, di studio, che dovrebbe essere pretesto per cercare di comprendere le ragioni storiche di quanto è avvenuto nel nostro Paese e in Europa tra anni Venti e anni Quaranta del secolo scorso.

La legge del 2000 che lo ha istituito invita a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti [...] affinché simili eventi non possano mai più accadere». Ho sempre trovato molto velleitaria questa proposizione finale, la quale presuppone che possa crearsi una consapevolezza così diffusa di quanto avvenuto, che le aberrazioni del passato non possano ripetersi.

La storia conferma che non è così e la cronaca lo rende tragicamente tangibile. Ciò non toglie opportunità e necessità all’operazione della ricostruzione storica delle dinamiche che hanno consentito l’affermazione di quelle dittature, fascista e nazista, delle quali lo sterminio di massa organizzato è stato la più macroscopica conseguenza.

Mi chiedo, tuttavia, se e fino a qual punto questa riflessione sia stata fatta fuori dall’ambiente degli specialisti, o se invece ci siamo il più delle volte limitati a una narrazione rituale, nell’inesorabile affermarsi di “Un tempo senza storia”, come Adriano Prosperi ha intitolato un suo libro recente (Einaudi, 2021).

I dati che l’Eurispes ci fornisce sono eloquenti. Se nel 2004 il 2,7 per cento della popolazione italiana credeva che la Shoah non fosse mai esistita, nel 2020 questa percentuale è salita al 15,6. Se dovessimo estendere l’inchiesta dalla Shoah alla deportazione politica, che peraltro in Italia è fenomeno più rappresentativo (circa 24.000 deportati politici, circa 8.000 ebrei), queste percentuali di ignoranza salirebbero in modo esponenziale. L’istituzione del giorno della Memoria non ha evidentemente ottenuto gli effetti sperati. Anzi si potrebbe dedurre che alla ritualità delle commemorazioni corrisponda un incremento di atteggiamenti razzisti e neofascisti.

Occorre restituire complessità storica al fenomeno, per ridonargli interesse. Invito a vedere il film documentario del 2016 “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, che il regista girò con una telecamera fissa posta in alcuni luoghi del campo di Sachsenhausen. In una serie di lunghe sequenze passano turisti intenti compulsivamente a fotografarsi nei luoghi di tortura e di morte nella generale incoscienza della storia, che le guide meccanicamente raccontano.

È il percorso inverso rispetto a quello fatto da Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Winfried Georg Sebald (Adelphi, 2002), che attraverso una faticosa ricerca storica e memoriale prende coscienza da adulto di essere uno di quei bambini ebrei giunti a Londra in treno durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano deportati in un campo di sterminio.

Osservando il film, ho notato nella sconcertante babele turistica, in due momenti diversi, nello sguardo di due ragazze un lampo di sgomento e un istante di confusione. Due bagliori improvvisi che indicano, con Prosperi e Sebald, una strada.

*Quello di Massimo Castoldi (professore di Filologia italiana presso l’Università di Pavia) è il secondo degli interventi sul calendario civile italiano (cioè le ricorrenze fondamentali della Repubblica) affidati agli esperti dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Il primo, dedicato al 12 dicembre, strage di Piazza Fontana, è pubblicato qui sul sito de L’Espresso. I prossimi saranno su: 10 febbraio, 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.

«Elena Colombo, morta da sola ad Auschwitz a dieci anni: raccontare la sua storia è un dovere». Chiara Sgreccia su L’Espresso il 26 Gennaio 2023.

La storia dell’unica bambina italiana ad aver affrontato da sola l’orrore della deportazione e dello sterminio diventa un cortometraggio. La scrittrice Laura Doglione: «Oggi il fascismo è un atteggiamento strisciante, la mentalità di chi vive secondo la legge del più forte. Avremmo dovuto imparare a vivere secondo coscienza»

«Cara Bianca, devo darti una notizia meravigliosa. Oggi mi hanno annunciato che finalmente potrò raggiungere i miei genitori! Andrò anch’io nel campo tedesco dove lavorano e così li potrò rivedere e stare con loro. Non c’è bisogno che tu mandi pacchi, non preoccuparti più per me. Sono tanto felice! Parto domani per la Germania». Così Elena Colombo, bambina di poco più di 10 anni, ha scritto in una lettera a Bianca Ballesio, staffetta partigiana, prima di partire per il campo di sterminio di Auschwitz.

Da sola perché non conosceva nessuno. Ma schiacciata in un carro bestiame insieme ad altri seicento ebrei. Tra questi c’erano 32 bambini, come aveva già raccontato a L’Espresso Fabrizio Rondolino, parente di Elena, che insieme alla scrittrice Laura Doglione, figlia della staffetta partigiana Bianca, ha contribuito a ricostruire il vissuto dell’unica bambina italiana ad aver affrontato da sola l’orrore della deportazione e dello sterminio.

Una storia che, in occasione del Giorno della Memoria, celebrazione internazionale che commemora le vittime dell’Olocausto, è diventata un cortometraggio, “La Cartolina di Elena Colombo”, prodotto da Stand by me in collaborazione con Rai Kids. In onda il 27 gennaio su Rai3 alle 16.00 e su RaiGulp alle 16.50.

Era il 5 aprile 1944 quando Elena è salita sul treno per Auschwitz. Arriva il 10 aprile e viene subito portata nella camera a gas. Aveva 10 anni e 10 mesi. Il padre, Sandro Colombo, era ancora vivo all’interno del campo, ma nessuno dei due ha potuto sapere che per un attimo sono stati di nuovo vicini. La madre, Wanda Debora Foa, era già stata uccisa, sempre nella camera a gas, poco dopo il suo arrivo a Auschwitz, avvenuto il 30 gennaio 1944, con lo stesso treno su cui c’era anche la senatrice Liliana Segre.

Come racconta Doglione, testimone e custode della storia di Elena, grazie ai racconti vividi della madre Bianca che hanno riempito la sua infanzia, la vita della bambina, spensierata e protetta dall’affetto dei familiari, viene sconvolta dalla promulgazione delle leggi razziali. Improvvisamente, per il solo fatto di essere ebrea, tutto il suo mondo è stravolto.

Nel 1942, Torino viene bombardata. Così i Colombo sono costretti a trasferirsi a Rivarolo Canavese, in Piemonte. Lì Elena stringe amicizia con una ragazza più grande, Bianca: «Dai racconti di mia madre ho avuto l’impressione che sentisse Elena quasi come una figlia. Passavano tantissimo tempo insieme. Mia madre l’adorava. E ha provato a salvarla: quando ha incontrato i Colombo con le valige, pronti per fuggire a Forno Canavese, ha detto loro di lasciargli Elena. “Se qualcuno chiede dirò che è mia sorella”. Ma Sandro e Wanda hanno preferito tenere la famiglia unita. A mia madre è sempre rimasta questa spina nel cuore, chissà come sarebbero andate le cose se Elena fosse rimasta a Rivarolo. Io, vedendo la sofferenza e la tenerezza di mia madre nel parlane ho sempre considerato Elena come una di famiglia. E ho sentito il dovere di raccontare la sua storia».

L’8 settembre del 1943, quando entra in vigore l’armistizio firmato dall’Italia, i tedeschi occupano il Paese e cominciano la caccia agli ebrei. I Colombo fuggono sulle montagne, a Forno Canavese, dove si nascondono in una baita. Ma l’8 dicembre vengono arrestati durante un rastrellamento in cui sono stati catturati e fucilati diciotto partigiani. I genitori di Elena, Sandro e Wanda, vengono deportati ad Auschwitz. Lei, invece, viene prima affidata a amici di famiglia, poi trasferita all’istituto Charitas, un centro per l’infanzia abbandonata. Infine, portata nel campo di prigionia di Fossoli, in provincia di Modena, da dove le SS, ottenuta la sua collaborazione promettendole che rivedrà i genitori, la mandano a Auschwitz.

«Scrive a mia madre l’ultima lettera. In cui si dice felice, perché rivedrà la famiglia. Era un inganno. Le parole di Elena l’ho imparate a memoria», dice Doglione subito dopo averle ripetute. «Sono diventata testimone di questa storia. Per me raccontarla è un dovere, una missione. Affinché non venga dimenticata. Perché oggi il fascismo è un atteggiamento strisciante, che si nasconde nei comportamenti di tutti i giorni. È sopraffazione, è la mentalità di chi vive secondo la legge del più forte quando, invece, avremmo dovuto imparare a vivere secondo coscienza». E anche perché, come è scritto alla fine del cortometraggio “La cartolina di Elena Colombo”, «l’ultimo diritto delle vittime è di essere ricordate».

«Ecco come tanti uomini comuni sono diventati carnefici della Shoah». Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 26 Gennaio 2023.

L’Olocausto non è stato solo il risultato di un’ideologia criminale messa in atto da gerarchi nazisti. Ha avuto anche la responsabilità di moltissime persone qualunque. Lo storico americano Christopher Browning, che da anni ragiona sul genocidio, spiega perché

A metà luglio 1942, un battaglione di riserva della polizia tedesca: uomini di mezz’età, fra i trentatré e quarantotto anni, in stragrande maggioranza operai, gente normalissima, cuore pulsante della società industriale, reclutati ad Amburgo, città portuale di scarse simpatie naziste, insomma a metà luglio 1942, in Polonia, a Jozefòw un paesone di poche migliaia di abitanti, sbarca il Battaglione 101 (questa era il nome) e compie una strage degli ebrei. Questo episodio, marginale nella spaventosa economia della Shoah, è stato posto, una trentina di anni fa, al centro di un libro che in larga parte ha cambiato la storiografia dell’Olocausto e la nostra percezione della catastrofe europea. Il testo, scritto da Christopher Browning, intitolato “Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia”, tradotto dall’inglese da Laura Salvai, esce ora di nuovo con Einaudi, in un’edizione ampliata. Occasione questa per parlare con l’autore, non solo del libro, quanto della questione, cruciale per chi studia la Shoah non come fatto isolato ma per capire la contemporaneità. La questione è: come uomini (sono tutti uomini non ci sono donne in quel battaglione), normalissimi diventino carnefici, privi di elementare empatia.

Sullo schermo del computer appare la faccia del settantottenne professore, sullo sfondo di un’ampia finestra e dietro il cielo azzurro, sereno. «Da quando sono in pensione vivo a Tacoma, nello Stato di Washington. In un’ora posso essere a Seattle e intanto mi godo la montagna e l’Oceano».

E poi comincia: «Lasciamo da parte, per un attimo, l’Olocausto. Parliamo di Ruanda, Bosnia, Cambogia. Quando un governo vuole assassinare masse di persone, il problema non è come trovare chi mette in atto il massacro, ma come impedire a quei governi di farlo. Gli uomini comuni possono compiere ogni delitto quando sono convinti di eseguire compiti conferiti da autorità legittime». Riflette: «Né io né lei abbiamo mai dovuto affrontare situazioni simili. Quindi né io né lei sappiamo come ci saremmo comportati. Il meglio che possiamo fare è cercare di comprendere perché cose simili siano successe».

All’obiezione che già Hannah Arendt ha ampiamente spiegato quanto l’ubbidienza possa essere crimine, e che questa constatazione non è più sufficiente, anche perché lei da filosofa aveva giuste intuizioni ma non conosceva i fatti più tardi scoperti dagli storici, per esempio che Eichmann non era un anonimo burocrate ma un nazista di primissimo rango, Browning risponde: «Ci vogliono sia persone con forti motivazioni ideologiche, che uomini comuni per mettere in atto il genocidio. Un Eichmann o un Himmler non potevano uccidere da soli tutti gli ebrei. Occorrevano uomini comuni che lo facessero. Nel mio libro ho cercato di mettere a fuoco una vicenda di uomini così e che non era stata sufficientemente indagata». La domanda è: perché non era indagata? Risposta: «A causa della convinzione che fossero uomini comuni e quindi non valesse la pena occuparsene». E cosa ha imparato? Browning solleva le mani: «Tempo fa, eravamo convinti che per fare certe cose occorressero uomini selezionati con attenzione, sottoposti a un forte indottrinamento e motivati ideologicamente. Eppure, gli uomini del Battaglione 101, fra i più efficienti nell’eseguire le uccisioni di massa nei territori della Polonia occupata, erano persone senza una preparazione specifica, senza indottrinamento, né selezionati all’uopo. All’inizio qualcuno aveva difficoltà a uccidere, ma hanno recuperato velocemente e sono diventati assassini abituali».

E allora, torniamo sulla scena di Jòzefow che Browning ha ricostruito dagli atti giudiziari tedeschi degli anni Sessanta. Il comandante, maggiore Wilhelm Trapp, raduna i suoi uomini. Spiega il compito (fucilare gli ebrei) e dice: «Chi non se la sente, faccia un passo in avanti». Quel passo lo fa un solo uomo, poi lo segue una dozzina di commilitoni. Nessuno viene punito, nessuno costretto a sparare. Ma allora gli altri diventano assassini, per lo spirito di corpo? Per complicità maschile? Opportunismo? Il professore interrompe, ha fretta di rispondere: «È ovvio che la paura di subire una punizione non è sufficiente per spiegare come si diventa un boia. Molto più interessante è il concetto di “Kameradschaft” (cameratismo) e di “Volksgemeinschaft” (la comunità del popolo nell’accezione nazista). Ne ha parlato un mio collega, Thomas Kuhne (NdR: nel libro, in italiano, “Il male dentro. La comunità di Hitler: psicologia del genocidio e orgoglio nazionale”. Edizioni dell’Altana). Sì, c’entra senso di appartenenza, una certa idea della mascolinità: essere duri, implacabili». Si ferma, poi guarda dritto lo schermo, si solleva leggermente dalla sedia: «I circa cinquecento uomini, del battaglione 101, in una Polonia occupata, in territorio ostile, avevano un solo punto di riferimento: la loro unità. Niente famiglie, niente amici. Niente i soliti riferimenti della loro città Amburgo. Come gruppo in Polonia hanno fatto cose che non avrebbero mai fatto come individui ad Amburgo». Riflette: «Penso agli americani in Vietnam. In mezzo a un Paese straniero, dove non ti puoi fidare di nessuno, sei condannato a stare solo fra i tuoi commilitoni, maschi. Vuoi essere stimato, far parte del gruppo, perché è l’unico che hai. Il conformismo è molto forte in queste situazioni».

Obiezione obbligatoria: la guerra del Vietnam non è paragonabile alla Shoah. Obiezione accolta in quanto ovvia, ma con una annotazione: «Stiamo parlando di situazioni concrete e di uomini comuni, non della filosofia della Storia. Cerchiamo di capire come si diventa assassini, non (per ora) come si compie il genocidio. E allora, la tattica di contro-guerriglia comportava, anche in Vietnam uccisioni fra popolazione civile. Nessuno ha ordinato il massacro di My Lai (NdR: una strage nel marzo 1968 di oltre cinquecento civili) ma era prevedibile che un episodio simile sarebbe prima o poi successo».

Proponiamo di allargare il discorso. La Shoah è l’espressione di un nichilismo radicale, di rovesciamento di tutti i valori. Browning interrompe di nuovo, per dire: «Ciò che era giusto è diventato sbagliato. Il torto dritto. Non uccidere il nemico è diventato peccato. L’etica era ristretta al tuo gruppo di appartenenza, la vita di chi era fuori da quel collettivo valeva zero. E questo ci porta all’Olocausto».

E quindi siamo nel cuore della Shoah. E delle immagini. Non molti lo sanno, ma circa il 90 per cento delle foto che abbiamo sono state scattate dai nazisti. Dimostrano masse dove è difficile distinguere le singole persone, le facce. Oppure ci sono fotografie di donne, spesso nude, poco prima di essere uccise. Insomma, noi vediamo le vittime e la storia con gli occhi dei nazisti. Browning resta in silenzio. Sospira: «Da storico devo usare le prove. E le foto sono prove, per quanto la situazione possa essere dolorosa». Di nuovo silenzio. Un sorriso: «Nella nuova edizione di “Uomini comuni” c’è un intero capitolo fatto di immagini ma ogni immagine è spiegata. La prima edizione aveva didascalie, ma spesso senza la contestualizzazione». Ancora una lunga pausa e poi: «Ho capito che le foto vanno raccontate, non solo citate. Devi dire chi le ha fatte, qual è il loro significato. Non sono e non devono essere illustrazioni. È quello che ho imparato negli ultimi trent’anni. Sa, anche noi storici continuiamo a imparare, sempre».

Ma le interpretazioni possono variare, obiettiamo. Nel libro c’è la foto di una donna, ebrea, in sottoveste con tre ufficiali nazisti intorno. Il professore la commenta come una situazione di violenza: una donna svestita con tre maschi brutali intorno. Noi vediamo però anche un altro aspetto: la donna guarda dritto negli occhi un ufficiale. Verosimilmente gli dice delle cose. I nazisti restano sorpresi per tanto coraggio. La foto dunque racconta l’eroismo di una donna comune di fronte a tre uomini spregevoli. «Ho avuto poche foto, le ho usate come ho ritenuto giusto», dice Browning. Certo, ma perché, in genere, anche là dove ci sono immagini di coraggio (alcune foto dei rivoltosi nel ghetto di Varsavia, seppur fatte dai nazisti: per esempio una dove tre insorti catturati, due donne e un uomo, guardano diritto nell’obbiettivo mentre l’uomo chiude la mano in un pugno) noi prediligiamo invece vedere le foto delle vittime inermi come quella iconica del bambino, con le mani alzate?

Il professore tace di nuovo. Poi: «Gli ebrei non avevano le macchine fotografiche. Le avevano invece i nazisti e producevano le immagini. Però...». Però? «Lo stesso principio vale per i documenti scritti. La maggior parte delle fonti sono fonti tedesche. I diari degli ebrei o verbali delle sedute degli Judenrat (i consigli ebraici nei ghetti) sono rari. Sono andati distrutti o dispersi». Poi ride di cuore: «L’unico ambito dove quella situazione è rovesciata, sono le testimonianze del dopo la guerra. I nazisti non amavano raccontare. I sopravvissuti invece hanno scritto e parlato, specie a partire dai primi anni Novanta». All’annotazione che in Italia molti reduci hanno parlato solo dopo la morte di Primo Levi, un po’ come se fossero intimiditi prima dalla potenza delle sue parole e dei suoi giudizi, Browning risponde: «Cosa puoi dire che non abbia già detto Levi?». Poi si corregge: «È una questione generazionale. La gente voleva ricostruire la vita, lavorare, avere famiglia. Una volta pensionati, arrivati a una certa età, potevano mettere insieme tutte le parti della loro vita. E così, oggi, abbiamo tantissime testimonianze, specie in video». Non lo dice ma si riferisce alle testimonianze registrate in tutto il mondo dalla Fondazione Spielberg.

Ci avviamo verso la conclusione. Abbiamo cominciato con la domanda su come si diventa boia. Abbiamo parlato delle situazioni concrete. Ma l’antisemitismo e l’ideologia quanto erano importanti? Risposta: «Per Hitler l’ideologia era la chiave. Per lui i destini del mondo dipendevano dalla lotta fra le razze e dallo spazio vitale (Lebensraum). Più Lebensraum, più cibo e benessere. In quel quadro gli ebrei erano considerati la minaccia universale e principale. Non potevi vincere la guerra fra le razze senza annientarli. Hitler pensava a se stesso come a una specie di salvatore messianico che sapeva quale era la fine della storia. Molti tedeschi ci hanno creduto. Ma resta la questione su come trasformi l’ideologia di una minoranza, in una convinzione condivisa dalla maggioranza della popolazione di un grande Paese. È una questione molto difficile». Ci provi, professore, provi a riassumere in una frase come si trasforma un’ideologia folle nella sua apparente logica, in un consenso di massa. La risposta arriva qualche ora più tardi via mail: «Ci vogliono i seguenti ingredienti: nazionalismo, razzismo, cameratismo, l’abilità di accarezzare un senso di risentimento, vittimismo e lo spettro di minaccia esterna che giustifichi qualunque mezzo adottato come legittima autodifesa».

Per ricordare davvero occorre guardare ciò che è inguardabile. Fiamma Nirenstein il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

È difficile ricordare la Shoah, e infatti nella mia famiglia sono serviti anni per farlo, anche se ne era stata colpita sia dalla parte materna, con espulsioni, fughe, due morti a Mauthausen, sia da quella paterna, con lo sterminio quasi completo della famiglia del mio babbo Alberto (Aaron) Nirenstein. Lui si salvò con un'avventurosa fuga da Baranov in Israele, Palestina mandataria, nel '36, e con lui due sorelle, Miriam e Ada. Del nucleo stretto, quattro sorelline e il suo adorato fratello Moshe furono sterminati a Sobibor con il padre Joseph e sua moglie, e tutti gli zii e i cugini.

Ma quando mio padre decise con i suoi libri di condividere il fardello che rese per sempre il suo linguaggio diretto, nemico delle sciocchezze, quando espose i punti esclamativi e interrogativi che ne avevano fatto una persona brusca, allora la sua storia della Shoah, più che memoria divenne imperativo a combattere sempre, perché il rischio non è svanito. Dice Elie Wiesel: «Ci avesse detto qualcuno, quando fummo liberati, che saremmo di nuovo stati obbligati a combattere l'antisemitismo, non avremmo avuto la forza di alzare gli occhi dalle rovine. Pensammo che se solo avessimo raccontato, il mondo sarebbe cambiato. Bene, l'abbiamo fatto, e il mondo è rimasto lo stesso».

Gli appelli alla memoria di questi giorni, mentre il mio computer seguita a essere bombardato da episodi di antisemitismo, ormai legalizzato e anche bene accetto quando si presenta come critica allo Stato d'Israele, travestito da battaglia per i diritti umani, sono in gran parte acqua su una ferita suppurata. Ci sono due elementi che rendono la Memoria della Shoah mal praticata. Anzitutto, sapere che un popolo intero, dagli ufficiali che dicevano di limitarsi a obbedire agli ordini, fino alla maggioranza dei cittadini che hanno con piacere perverso collaborato a uccidere fra i sei milioni di ebrei anche un milione e mezzo di bambini, o assistito in silenzio all'eccidio; inghiottire il concetto che quasi tutta Europa vi ha collaborato finché gli americani hanno imposto con le armi la fine di quel rogo collettivo... è molto difficile. È quello che mio padre fa nel suo libro È successo solo 50 anni fa. Se si vuole ricordare, per esempio si deve leggere come a Varsavia, Lodz, Byalistock, Cracovia... nei ghetti «si nota un numero sempre maggiore di bambini dalle facce gonfie, con gambe e braccia anch'esse gonfie; dai corpicini coperti di bolle e croste; dalle facce scheletriche da cui spiccano con violenza degli occhi grandi spaventati, affamati con ossa del cranio sporgenti; di bambini con le gambette inverosimilmente magre e dalle facce invecchiate, appassite; bambini per le strade, rannicchiati, miseri, sofferenti - bambini affamati».

Per ricordare occorre guardare l'inguardabile: Emanuel Ringelblum scrive che «nei ghetti le strade erano piene di corpicini che una mano pietosa copriva coi giornali, e rimanevano così». Guardare le stragi dei bambini nelle fasi dell'eliminazione dei disabili fisici e mentali, del gas nei camion, delle fucilazioni in braccio alle madri, della deportazione in massa di bambini separati dai genitori verso le camere a gas, delle processioni di creature con i loro maestri che decidevano di morire con loro, silenziosi e disciplinati. Durante i rastrellamenti i tedeschi davano la caccia ai bambini ebrei con cani lupo ammaestrati, buttavano i bimbi in aria e li infilzavano con le baionette, tagliavano le loro teste con le asce, spaccavano i neonati in due, li gettavano nei roghi, nei pozzi e nei fiumi, li seppellivano vivi. Una bimba di 7 anni ricevette da un SS la promessa che se avesse baciato il cadavere della sua mamma lui non l'avrebbe uccisa: lei la bacia e lui le spara. Un bimbo di 5 anni offrì a un SS una matita morsicata e uno specchietto rotto, i suoi tesori più cari, e l'SS gli sparò; una bimba tredicenne prima di essere uccisa si rivolse al capo SS dicendo «ma io sono grande, posso lavorare, perché vuole fucilarmi?». Nel '46 a Lublino i bambini deportati furono ricondotti al loro orfanotrofio perché il numero non soddisfaceva gli SS. I genitori, credendo il posto sicuro, lo riempirono di bambini che subito furono portati via mezzi nudi e affamati, falciati con mitragliatrici e buttati vivi nelle fosse preparate nelle cave vicine. Per chi vuole ricordare la Shoah, qualsiasi versione edulcorata non è memoria, è un film scolorito che riguarda responsabilità collettive vaste, riguarda l'antisemitismo genocida.

E questo è il secondo ostacolo veso la vera Memoria. Il messaggio che generalmente è stato tramandato è che un mondo emendato e consapevole mai più avrebbe potuto avventarsi sugli ebrei in quanto tali per ucciderli. Ma gli eventi di questi anni ci mostrano una versione completamente diversa della realtà. Nonostante le prove siano migliaia, non c'è un sostenitore dell'importanza del Giorno della Memoria che accenni alla necessità di farla finita con l'intenzione da parte di Stati e di gruppi ricchi, famosi, potenti, di eliminare il Popolo Ebraico e la sua maggiore istituzione, Israele. Mi riferisco soprattutto all'Iran, che ne ha fatto la sua pietra di fondazione, e a buona parte della propaganda palestinese, sia di Hamas, sia di Fatah, che solo ogni tanto traveste il suo terrorismo da irredentismo, ma in genere punta a uccidere gli ebrei. L'Iran è un'enciclopedia di dichiarazioni e di operazioni genocide.

Il caso più citato è quello del presidente Mahmud Ahmadinejad che nel 2005, evocando il padre fondatore Ayatollah Ruhollah Khomeini, disse che il regime di Gerusalemme «deve essere cancellato dalla mappa». Il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki nel 2008 affermò che «deve essere eliminato dalla faccia della terra»; Ahmad Khatami chiese nel 2012 di «annichilire il regime sionista»; Hassan Rouhani ha promesso di «mondare il mondo dalla ferita imposta al mondo» e via via verso i nostri giorni le Guardie della Rivoluzione, i basiji, i politici, Ali Khamenei stesso... È stato lui a usare l'espressione «soluzione finale». Esmail Ghaani, capo delle guardie rivoluzionarie, ha precisato il piano: «gli hezbollah stanno per portare il colpo fatale». E con loro le altre milizie che ormai circondano gli ebrei. L'Iran ne è il maggior finanziatore, ma è l'Ue che senza battere ciglio seguita ad aiutare Abu Mazen che paga fra i 400 e i 3500 dollari al mese chi uccide o tenta di uccidere un ebreo. Hamas resta il leader del terrorismo genocida; quanto a Fatah, ci si illude che si tratti di un sogno irredentista, anche se la suddivisione è stata respinta almeno cinque volte dal 1948, quando in cambio di due Stati per due popoli i palestinesi scelsero la guerra di distruzione per la prima volta, seguiti poi, disastrosamente, da tutto il mondo islamico.

È mai possibile che l'Onu, l'Unione Europea, le istituzioni più svariate che sostengono l'Autorità Palestinese, non le chieda mai conto della sua intenzione genocida, del perché i bambini imparano a odiare gli ebrei disegnandoli con tutte le caratteristiche di ferocia, perversione, egoismo, razzismo, facendone i diffusori del Covid e la causa della guerra in Ucraina? L'Ue del «mai più» non è compatibile con quella che non vede come Israele abbia tentato invano ogni strada di pace da contrapporre a un odio ideologico inestinguibile. Che cosa pensa chi ripete «mai più» quando Fatah vanta 7200 attacchi nel solo 2022 e si eccita annunciando di aver compiuto 76 attacchi a fuoco in un mese? Quando il paragone fra Israele e il nazismo diventa luogo comune insieme alla follia degli ebrei come «suprematisti bianchi»? Tornando a Eli Wiesel e al «mai più». È una pratica di revisione intellettuale, di abbandono ai paradossi politici per cui Israele è uno Stato coloniale, imperialista, di apartheid, gli ebrei sono suprematisti bianchi, criminali di guerra. Slogan sempre più frequenti durante le manifestazioni contro Israele.

Gli europei devono saper riconoscere la tradizione antisemita, conoscere la loro stessa storia ricordandola con vergogna, e rinnegare gli stereotipi.

Ella Blumenthal, la 'joie de vivre' dopo l’orrore nazista. Il documentario “I am here” di Jordy Sank è disponibile in streaming da oggi, in occasione del Giorno della Memoria, in esclusiva su Nexo+: una grande storia, uno straordinario insegnamento. Massimo Balsamo il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

Di lei è impossibile non innamorarsi. Una personalità magnetica e illuminante, un carattere esuberante, una joie de vivre travolgente. Ella Blumenthal è molto più di una vivace nonnina sudafricana sopravvissuta all’Olocausto: vive a Città del Capo, ha quattro figli, undici nipoti e nove pronipoti. Tutti al suo fianco mentre racconta quanto attraversato negli anni del nazismo, tra campi di concentramento e violenze, tra deportazioni e morte. A partire da oggi, in occasione del Giorno della Memoria, grazie alla collaborazione con DNC Entertainment Factory, arriva in esclusiva su Nexo+ "I am here", il documentario di Jordy Sank che ci permette di ripercorrere l'incredibile storia della sopravvissuta all’eccidio nazista.

È durante le celebrazioni del suo novantottesimo compleanno che Ella Blumenthal si apre ad amici e familiari e narra, come non ha mai fatto prima, la sua storia di sopravvissuta all'Olocausto. I suoi ricordi drammatici, ripercorsi nel film e illustrati attraverso animazioni essenziali e comprensibili a tutti, attraversano tre campi di concentramento e si alternano alle immagini di Ella, che le videocamere seguono nel presente mentre recita le sue preghiere, nuota in piscina, impasta il pane per lo Shabbat e cammina sulla promenade a Cape Town.

Ella Blumenthal nasce a Varsavia nel 1921, la più piccola in una famiglia di sette fratelli. Una bambina monella, amata dai suoi cari, piena di ricordi felici. Un’adolescenza felice, finchè non inizia la guerra: quando la Germania nazista invade la Polonia tutto cambia. I conti bancari congelati, le terre requisite e le varie misure discriminatorie: dalle radio confiscate al cibo razionato, passando per il coprifuoco e la chiusura di scuole e sinagoghe.

Ella e la sua famiglia devono trasferirsi nel ghetto di Varsavia, dove si patisce la fame, ci si ammala e ci si infetta. Una situazione terribile, ma è solo l’inizio dell'incubo. Presto le persone vengono catturate con metodi brutali e spedite nei “campi di lavoro”, rmentre onde e irruzioni aumentano esponenzialmente. Lei perde quasi tutta la sua famiglia: 23 persone tra madre, fratelli, sorelle e nipoti, tutti mandati a Treblinka. Per un semplice colpo di fortuna, lei, il padre e la nipote Roma riescono a salvarsi. Ma la libertà dura poco: i tedeschi danno fuoco al ghetto, edificio dopo edificio, e loro sono costretti ad abbandonare il nascondiglio.

Prima Majdanek, poi Auschwitz e infine Bergen-Belsen. Nel primo campo di concentramento perde il padre, destinato alle camere a gas. Ogni giorno un dramma: impiccagioni, violenze, soprusi, angherie. Ella Blumenthal e la nipote non perdono mai la speranza, nemmeno nei momenti più bui. "Affronterei tutto dall'inizio, anche se dovessimo venire uccisi e perseguitati: sceglierei ancora di essere chi sono", la forza d’animo della donna. "Fate amicizia e offrite alla gente sorrisi e gentilezza, tornano sempre indietro", il suo credo dopo gli anni trascorsi nei lager. Una volontà di vivere e/o sopravvivere fortissima, pronta a tutto per andare avanti con l’aiuto di Dio. Fino alla liberazione, al momento più bello, alla fine della sofferenza: Ella viene liberata il 15 aprile 1945, dopo più di cinque anni di persecuzione.

Dalle eroine dei ghetti al pugile morto nel lager: il dramma della Shoah riscoperto leggendo. Sono molti i nuovi titoli che aiutano a capire l'enormità della violenza. Eccone alcuni. Matteo Sacchi il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

Come ogni anno sono molti i libri usciti poco prima del Giorno della memoria e che possono essere utili per dare spessore e umanità nel perpetrare il ricordo di quella che è stata una delle più aberranti violenze della storia umana: la Shoah.

Tra i nuovi titoli vale la pena citare Figlie della resistenza. La storia dimenticata delle combattenti nei ghetti nazisti (Mondadori, pagg. 562, euro 25) a firma di Judy Batalion. Il libro racconta i moltissimi episodi, spesso inspiegabilmente trascurati dalla storiografia, che videro le ebree polacche resistere attivamente, e anche con una incredibile inventiva, alla furia dei nazisti. Percorrendo il testo si scoprono gli atti temerari e di forza disperata compiuti da donne come Bela Azan, la quale sfruttava il suo aspetto quasi ariano per infiltrarsi nella Gestapo. O Sarah Kukielka, tra le eroine del Ghetto di Varsavia.

Un interessante e doloroso incrocio tra la storia dello sport e quella dei campi di concentramento lo si può trovare nel saggio di Antonello Capurso La piuma del Ghetto. Leone Èfrati, dalla gloria al campo di sterminio (Gallucci, pagg. 334, euro 16,50). Il romano Leone Èfrati (classe 1915) era una promessa del pugilato italiano. Veloce e di grande temperamento, il 28 dicembre 1938 sfiorò il titolo mondiale dei pesi piuma sfidando, negli Usa, Leo Rodak. Poi le ignominiose leggi razziali lo cancellarono dagli annuari sportivi fascisti e dai giornali. Rimosso perché ebreo. Avrebbe potuto scegliere gli Stati Uniti ma tornò a Roma per restare vicino alla moglie e alla figlia. Venne tradito consegnato ai nazisti che lo deportarono prima ad Auschwitz e poi a Ebensee/Mauthausen. Lo uccisero massacrandolo di botte dopo che intervenne per difendere suo fratello preso di mira dai kapò. Capurso alla sua straziante storia aveva precedentemente dedicato anche uno spettacolo teatrale.

Sempre alla persecuzione degli ebrei romani è dedicato il nuovo romanzo della giornalista Ritanna Armeni Il secondo piano (Ponte alle Grazie, pagg. 278, euro 16,90). Narra la vicenda di un gruppo di coraggiose suore che nel 1944 rischiano la vita per salvare alcune famiglie sfuggite al rastrellamento nel ghetto. In un convento di periferia la madre superiora e le sue sorelle gestiscono l'assurda situazione di avere un'infermeria tedesca al pian terreno e degli ebrei in fuga al secondo piano che dà il titolo al romanzo.

Di notevole interessa anche il volume KZ2 di Davide Romanin Jacur (Ronzani Editore, pagg. 312, euro 20). Come il precedente KZ lager (sempre Ronzani Editore) ricostruisce nel dettaglio l'evoluzione del delirio concentrazionario nazista. Davide Romanin Jacur, membro attivissimo della Comunità ebraica di Padova, ha accompagnato decine e decine di viaggi didattici nei lager e in questi libri mette tutta la sua esperienza nello spiegare una violenza che la mente umana fatica ad accettare.

Il dramma dei campi rivive anche in Auschwitz non finisce mai (Rizzoli, pagg. 272, euro 19) di Gabriele Nissim. In questo libro Nissim fondatore e presidente della fondazione Gariwo, nata per riconoscere i Giusti che si sono opposti a ogni genocidio si batte perché la memoria della Shoah si trasformi in una lente di ingrandimento, attraverso la quale riconoscere l'orrore ovunque esso si manifesti. Considerando le riflessioni e gli interrogativi di figure fondamentali quali Primo Levi, Simone Weil, Hannah Arendt, Yehuda Bauer e Raphael Lemkin, questo libro ci guida a indagare il meccanismo che porta alle atrocità di massa.

Breaking bad. Primo Levi ha reso il sadismo indecifrabile di Auschwitz una esperienza biologica e sociale. Massimo Bucciantini su L’Inkiesta il 27 gennaio 2023.

In un altro mondo” (Il Saggiatore) racconta tre figure rivoluzionarie e il momento in cui, grazie a un’inattesa scoperta, la loro vita, il loro tempo e la nostra storia sono cambiati per sempre. Galileo Galilei, Vincent van Gogh e Primo Levi

Primo Levi ha dichiarato più volte che Auschwitz è stata la sua università. Si sa che questa analogia non è sua ma di Lidia Beccaria Rolfi, anche se per lei non si trattò di Auschwitz ma di Ravensbrück, il principale lager femminile della Germania nazista, circa 90 chilometri a nord di Berlino.

Anche per Levi Auschwitz si trasformò in un luogo di apprendimento. Anzi, nel luogo di apprendimento che prima e più di ogni altro lo ha costretto a scrivere. Non una scuola qualunque, dunque, ma una universitas, deputata alla conoscenza della condizione umana nel senso più generale del termine. «Io credo di poter dire altrettanto» dichiara nell’«Appendice» a Se questo è un uomo, richiamandosi a Lidia Rolfi, «e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo».

Pochi però appresero quello che era necessario apprendere. L’Häftling, il prigioniero 174517, vi riuscì in tempi brevissimi, grazie anche al fatto che per lui, diversamente da Lidia Rolfi e dalla stragrande maggioranza dei deportati, Auschwitz fu la sua «seconda università»: perché Levi entrò nell’altro mondo non come scrittore o come intellettuale, ma come chimico. Se non avesse avuto quel tipo di mentalità tecnico‐scientifica, la forza della sua scrittura e la sua maniera di vedere e di capire non sarebbero state le stesse.

Non sarebbe stato lo stesso il modo in cui riesce a farci vedere quanto accadde quella notte di gennaio del 1945, quando i tedeschi, pressati dall’avvicinarsi delle truppe russe, abbandonarono il Campo senza uccidere i prigionieri rimasti in infermeria. Oppure quando ci fa immaginare quel giorno di primavera del 1944, portandoci con lui nel Polimerisations‐Büro, nel Kommando 98, dove si tenne l’esame più folle del mondo. Oppure, ancora, quando ci fa udire il grido di morte dell’«ultimo» – «un duro», un solitario che «doveva essere di un altro metallo del nostro» –, la sua voce e le sue parole, insieme al rumore secco della botola che si apre e dove «il corpo ha guizzato atroce [e] la banda ha ripreso a suonare».

Vale ripeterlo: la chimica – come approccio metodico, come forma mentis – gli servì a scrivere, ma anche a conoscere il complicato intreccio di relazioni umane di un mondo apparentemente assurdo, a capire che quella città‐prigione circondata da due altissimi reticolati di filo spinato non era altro che una «gran macchina» costruita dagli uomini per distruggere altri uomini.

A Levi sembra di essere stato cacciato dentro un meccanismo indecifrabile, costruito per divertimento e sadismo, dove anche un medico, un ungherese che ha studiato in Italia e che si presenta come un criminale‐dentista, dice cose folli.

Ma con il passare dei giorni la capacità di Levi di cogliere i minimi dettagli, di individuare gli apparentemente incomprensibili dispositivi di funzionamento della «macchina» si affinò sempre di più. «Il Lager è stato per molti di noi e per me in specie, un osservatorio; cioè un altro modo parallelo a quello che dicevo prima del mestiere chimico, di immagazzinare esperienze positive».

Ciò dipese in larga misura proprio dal tipo di attenzione e di sensibilità allo studio dei fenomeni naturali, e in particolare a quelli legati alla trasmutazione della materia che aveva acquisito negli anni universitari. A mano a mano che oltrepassa la soglia di quel congegno infernale, l’impressione che ne ricava è di essere finito in una macchina‐mondo fatta a rovescio, dove regna la confusione delle lingue e la prima regola è non pensare e non capire.29 «Qui siamo su un altro pianeta. Non dimenticartelo» sentenziò Rudolf Höss, rivolgendosi al cognato Fritz Hensel.

Levi descrive con grande accuratezza questo stato di vita umano‐animalesca. Com’è evidente all’inizio del capitolo «Le nostre notti», dove i verbi «scavare» e «secernere», e i sostantivi «nicchia» e «guscio», ci fanno percepire quanto questo legame sia in gran parte originario e non acquisito.

È il Levi curioso osservatore della natura animale e umana a prendere la parola. E non importa sapere se nel 1947 avesse letto di etologia, se già conoscesse Konrad Lorenz o fosse al corrente di altri studi sul comportamento animale. Certamente aveva letto Darwin, ed era più che sufficiente: è lui stesso a dirlo, per di più a quindici‐sedici anni, a un’età precocissima.

Levi si sentiva chimico dentro, e quanto questa sua condizione era così pervasiva e compenetrata con qualunque altro aspetto del suo animo. Qualsiasi linea di confine interiore è saltata. Il suo modo di lavorare e di pensare la materia, di percepirla e osservarla, di competere e lottare con essa, si riflette nel suo modo di vedere e di stare al mondo.

Leggendo brani come questo, sembra quasi che la sua abitudine all’osservazione dettata dal suo essere chimico influenzi ogni altro suo aspetto dell’agire e del pensare. A tal punto che tra cose e persone non c’è soluzione di continuità. Vita e materia non sono campi separati: il termine «cose» si riferisce anche alla materia umana, «comprende anche le persone». «Per lui non esistono confini di genere tra materia inanimata, vegetali e animali».

Prima di giungere ad Auschwitz, la mente e l’occhio di Levi sono dunque già allenati al distanziamento necessario per «cacciare» la materia in qualunque forma essa si presenti, sia come reazione chimica nel regno minerale sia come trasformazione della vita nel regno vegetale e animale. L’attestazione più evidente di questo legame è «Carbonio», l’ultimo racconto del Sistema periodico, ma che venne concepito per primo.

La storia di un atomo di carbonio prendeva corpo nel carcere di Aosta, prima del trasferimento di Levi a Fòssoli e poi ad Auschwitz. Qui il nesso strettissimo tra materia e vita è già presente: «La mia idea era quella di insegnare alla gente questo miracolo del carbonio quale elemento vitale, di spiegarle il perché di questa storia sbalorditiva, di come il carbonio può diventare un elemento vivo».

Fin da subito, quindi, fare il chimico e riflettere sul mestiere del chimico sono due aspetti inseparabili da un discorso più generale che coinvolge anche la vita umana nella sua costitutiva ambiguità e mutevolezza. Per Levi, per il chimico sui generis Levi, non c’è nessuno iato tra lo studio della trasmutazione della materia e lo studio delle infinite variazioni che si manifestano nell’animale‐uomo, nella complessa macchina umana. L’attitudine mentale è la medesima. E l’osservazione del comportamento umano all’interno del Lager lo dimostrava pienamente.

Liliana Segre: «Iniziai a testimoniare quando divenni nonna». CorriereTv su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

La senatrice a vita, superstite della Shoah, spiega la scelta di raccontare l’orrore dopo quarantacinque anni di silenzio.

«Quando un silenzio, per l’impossibilità di parlare di un argomento, dura quarantacinque anni, la testimone si domanda se le uscirà la voce, a chi interesseranno le sue parole...». Inizia così la videointervista di Liliana Segre che pubblichiamo qui sopra, nella quale la senatrice a vita, superstite della Shoah, racconta la sua scelta di testimoniare. Una decisione presa «quando divenni nonna, esperienza straordinaria per una che sarebbe dovuta morire». Ha parlato per trent’anni, Liliana Segre, in centinaia di scuole, davanti a migliaia di studenti, fino a quando a novant’anni il dolore di rivivere ogni volta la tragica esperienza di Auschwitz e la fatica fisica non l’hanno portata a smettere. L’ultima indimenticabile testimonianza l’ha resa il 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace di Rondine, un luogo quanto mai simbolico dove, in uno Studentato internazionale, giovani provenienti da Paesi in conflitto convivono e costruiscono il dialogo.

Il filmato che pubblichiamo, online nel Giorno della Memoria, nasce da un dialogo con il regista Ruggero Gabbai ed è prodotto dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), cui la senatrice ha deciso di donare l’archivio della sua testimonianza nelle scuole. Appunti su carte sparse e block notes d’epoca, ma anche tantissime lettere ricevute da alunni e insegnanti, articoli di giornale, contenuti didattici. Dal 1992 a oggi. «Intorno agli ottant’anni — ha raccontato lo scorso giugno Liliana Segre al «Corriere» — pensai di buttare tutti quei materiali. Non volevo restassero ai miei figli, già coinvolti nei traumi di una mamma sopravvissuta. Però non l’ho fatto. E quando il Cdec mi ha chiesto se poteva occuparsene, ho detto di sì». Sono documenti «che fin dall’inizio custodii religiosamente perché erano lo specchio di una profonda scelta di vita fatta a sessant’anni, un mare che mi ha travolto, una spinta inarrestabile a rompere il silenzio».

«Nel corso del nostro lavoro — spiegano ora gli archivisti Francesco Lisanti e Rori Mancino — ci siamo trovati di fronte alla costruzione e alla continua rielaborazione del racconto dell’esperienza individuale di una testimone diretta e di quanti, accanto a lei, non sopravvissero. Un’esperienza condivisa con studenti di diverse fasce d’età e di diversi indirizzi scolastici che, spesso, hanno ripreso ciò che avevano ascoltato, rielaborando le parole di Liliana Segre in modo personale e inviando a lei il risultato».

Nel video la senatrice, che non è mai più tornata ad Auschwitz, dove fu deportata a tredici anni, racconta anche un episodio del 1995. «Nel cinquantenario della liberazione, ero in macchina con mio marito e abbiamo sentito una cronaca in diretta in cui venivano descritti la regina d’Olanda e altri che erano lì. Tutti in pelliccia. Siccome io lo so cos’è il freddo, ho detto: come ho fatto bene a non andare. Li avrei obbligati a spogliarsi e avere freddo, perché non si può andare in pelliccia ad Auschwitz. Se uno vuole visitare quel posto, deve avere freddo e anche un po’ fame».

La sera del 27 gennaio Liliana Segre, accompagnata da Fabio Fazio, condurrà gli spettatori al Memoriale della Shoah di Milano nel corso dell’evento televisivo «Binario 21», in diretta su Rai 1 alle ore 20.35. Oltre ai sotterranei della Stazione Centrale da cui fu deportata, mostrerà altri luoghi di Milano, come la scuola da cui fu cacciata e il carcere di San Vittore in cui fu rinchiusa. (di Ruggero Gabbai, con il testo di Alessia Rastelli )

Segre, la testimonianza al Binario 21: «Calci, pugni, sputi e ci spinsero sui treni per Auschwitz». Cesare Giuzzi e Alessia Rastelli su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

La senatrice a vita, nel giorno della Memoria, ricorda i giorni della deportazione. Per le ingiurie contro Segre ci sono 20 indagati, compreso un dirigente della Lega

La senatrice a vita Liliana Segre, 92 anni, con Fabio Fazio, 58, ieri sera durante , lo speciale Rai sul Giorno della Memoria

«Arrivammo in questo posto buio, non capivamo niente. Ci spinsero dentro il treno a calci e pugni, ci sputarono, era qualcosa che andava al di là dell’immaginazione più spaventosa. La gente piangeva, si disperava». Da quell’antro oscuro, sottostante i binari ordinari della Stazione Centrale di Milano, Liliana Segre fu deportata a 13 anni «per la sola colpa d’essere nata». Chiusa in un carro bestiame diretto ad Auschwitz. Ieri sera, nel Giorno della Memoria, ha rivissuto quei momenti con Fabio Fazio, nel corso della diretta televisiva Binario 21, trasmessa da Rai 1. E ha ribadito di non poter perdonare, ma di non odiare. «Sono diventata mamma. Non avrei mai potuto odiare».

È stata la stessa senatrice a vita a guidare gli spettatori in un luogo di dolore estremo, ma attorno al quale si è spesa perché venisse realizzato il Memoriale della Shoah di Milano: un polo per non dimenticare e insieme un centro di cultura che, lo scorso giugno, ha accolto anche la biblioteca e l’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). Il dialogo tra Segre e Fazio è iniziato sotto la scritta «Indifferenza», impressa a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale. E ha attraversato anche altri luoghi di Milano, come la casa dove la futura senatrice abitò bambina; le elementari Ruffini, da cui fu cacciata a otto anni. E, ancora, il carcere di San Vittore, dove fu rinchiusa prima della deportazione.

Ieri, proprio nel Giorno della Memoria, venti persone — 17 uomini e tre donne di diverse regioni d’Italia — sono state segnalate dai carabinieri di Milano alla Procura per le ingiurie postate sul web contro la senatrice. Tra gli indagati, anche il 71enne Nicola Barreca, eletto da un mese segretario cittadino della Lega di Salvini a Reggio Calabria. E poi, Chef Rubio, medici, professionisti e anche disoccupati. L’accusa, per tutti, è diffamazione a mezzo telematico con l’aggravante delle motivazioni religiose, etniche o razziali. Era stata la stessa Segre a rivolgersi ai carabinieri lo scorso 6 dicembre e ora, a una serie di profili anonimi, è stato dato un nome.

Ma alla storia della senatrice, sempre ieri, si sono aggiunti tasselli preziosi. Esposta nella Sinagoga di Siena c’è una lettera, datata 26 gennaio 1946 ed emersa da poco, del nonno di Liliana Segre, Alfredo Foligno, scampato alla Shoah. Dopo la guerra quest’ultimo, quando aveva già riabbracciato la nipote, scrisse al rabbino della città toscana: «Voglio sperare che Dio, che mi ha dato la grazia di riavere la mia nipotina Liliana, mi conceda la gioia di riabbracciare mio genero». Quel genero, Alberto Segre, padre di Liliana, non tornò. Ieri dal Memoriale, il sindaco Beppe Sala, ha detto che gli sarà conferito l’Ambrogino d’oro.

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 27 gennaio 2023.

Per 60 anni si è sentito in colpa di essere sopravvissuto al padre, alla sorella, all'intera famiglia sterminata dai nazisti. Nel 2005 è tornato a Birkenau, dove tutto era finito e dove era il tempo che qualcosa ricominciasse. Da quel momento Sami Modiano, 93 anni, ha capito perché è ancora vivo e svolge il suo compito di testimone di quello che è accaduto.

 Che cosa ricorda?

«Mi ricordo qualche giorno prima del 27 gennaio che io ho dovuto fare la marcia della morte come avevano fatto in molti. Ero un ragazzo di 14 anni, ero distrutto, agonizzavo.

L'ordine preciso era dare il colpo di grazia perché nessuno doveva testimoniare ai russi quello che i nazisti avevano creato. Qualcuno ha voluto che io rimanessi in vita».

 […]

 Provava un senso di colpa?

«Sicuramente. Mi sono sentito privilegiato. Mi dicevo: ma come, hai lasciato tutti dall'altra parte e sei rimasto qui? Purtroppo, sono stato scelto per rimanere. Non capisco il motivo della mia vita, diverse volte ho avuto episodi evidenti in cui sarei dovuto entrare nelle camere a gas e per un motivo o l'altro non sono entrato, in cui mi avrebbero dovuto dare il colpo di grazia e non me l'hanno dato. Sono questi i pensieri che mi tormentavano e a cui non trovavo risposta».

Quando ha trovato una risposta?

«Nel 2005 quando avevo deciso di andare a Birkenau. Volevo capire se aveva senso tornare e raccontare. Mi sembrava inutile perché ero convinto che non mi avrebbero creduto. Era la mia paura più grande, raccontare la verità e non essere creduto. Sarebbe stato tremendo.

 Poi sono andato e ho scoperto che non avevo dimenticato nemmeno una virgola. Dopo 60 anni ho rivisto mio papà, mia sorella e tutte le scene orrende che avevo visto da ragazzo. Ero anche io un ragazzo di 14 anni quando mi hanno mandato lì e questo mi ha fatto scoppiare in una crisi di pianto rivedendo tutto da capo.

Avevo dietro di me 300 studenti che mi seguivano e che vedevano che parlavo e raccontavo. Poi quando mi sono girato per vedere, i ragazzi avevano le lacrime agli occhi anche loro. Lì ho capito, ho trovato la risposta alle domande che mi ero portato dietro per sessant'anni». […]

La storia segreta dei reduci della guerra di Spagna deportati a Mauthausen con gli ebrei. Alessandra Zavatta su Il Tempo il 28 gennaio 2023

Quando, il 5 maggio 1945, due carri armati dell'undicesima divisione corazzata dell'esercito americano entrarono a Mauthausen, scoprirono che tra i prigionieri c’erano i Repubblicani che avevano combattuto nella guerra di Spagna. Fuggiti in Francia quando il dittatore Francisco Franco salì al potere a Madrid, vennero traditi dal governo filonazista di Vichy. E consegnati al Terzo Reich. Finirono così rinchiusi nel campo di concentramento costruito vicino a Linz, in Austria. L’ultimo campo ad essere liberato.

Delle 190mila persone che hanno varcato quei cancelli, più di 90mila sono state assassinate o sono morte per fame. Tra loro ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, e oppositori politici del nazismo, come in tutti i campi di concentramento. Meno noto è il fatto che quasi cinquemila prigionieri che morirono a Mauthausen erano Repubblicani spagnoli privati ​​della nazionalità e deportati dalla Francia collaborazionista del Maresciallo Pétain.

Ottant’anni dopo una mostra al Sefarad-Israel Center, a Madrid, ne ricostruisce la storia, intrecciata con ricordi, documenti ufficiali ed effetti personali. Accanto a questi ci sono resoconti di prima mano della morte e della vita all'interno di Mauthausen e dei sottocampi circostanti. E dell'amicizia nata con molti ebrei, per sopravvivere nelle tremende condizioni in cui venivano tenuti i prigionieri.

Due dei luoghi più famosi di Mauthausen erano la cava di granito e la "scala della morte" di 186 gradini su cui uomini e donne esausti e affamati erano costretti a marciare trasportando pietre da cinquanta chili.

Alcuni prigionieri, soprattutto giudei olandesi, furono semplicemente spinti oltre il bordo della cava. Tali omicidi vennero ufficialmente registrati come "suicidio saltando", ma le guardie davano un altro nome alle vittime: "paracadutisti". Altri detenuti, sfiancati oltre il limite della sopportazione umana, si sono gettati contro le recinzioni elettrificate. Poi c'erano gli "esperimenti" medici per determinare quale tipo di dolore e paralisi derivassero dalle iniezioni al cuore e per vedere quanto tempo le persone potevano vivere mangiando soltanto pappa.

Cinquecentomila Repubblicani spagnoli fuggirono in Francia all'inizio del 1939 dopo che divenne chiaro che i Nazionalisti di Franco avrebbero vinto la guerra civile, iniziata quasi tre anni prima con un tentativo di colpo di Stato militare contro il governo eletto. Sessantamila tra loro si unirono all'esercito francese, per poi ritrovarsi alla mercé dei nazisti e del regime di Vichy dopo l’invsione della Francia da parte dei soldati di Adolf Hitler, nel 1940. Diecimila Repubblicani furono radunati e deportati, tre quarti di loro venne spedito a Mauthausen. Dichiarati “apolidi” e costretti a indossare triangoli blu capovolti sulle uniformi per sottolineare la mancanza di patria, si trovarono accanto a decine di migliaia di ebrei i cui abiti a strisce portavano cucita una stella di Davide gialla. Mentre i prigionieri spagnoli di Mauthausen erano schiavi apolidi costretti a lavorare, quelli ebrei, Sinti e Rom furono vittime del genocidio.

A Mauthausen c’era pure Simon Wiesenthal, che avrebbe continuato a dare la caccia ai nazisti dopo la guerra e avrebbe combattuto per garantire che l'Olocausto non fosse mai dimenticato. Francesc Boix, un soldato e fotografo repubblicano spagnolo, ha documentato la vita del campo. Le sue immagini e testimonianze sono state utilizzate nei processi per crimini di guerra a Norimberga e Dachau. Scatti ora inclusi nella mostra al Sefarad-Israel Center che resterà aperta fino al 17 giugno prossimo.

Liberati dagli americani, molti repubblicani si stabilirono in Francia, perché in Spagna Francisco Franco resterà al potere fino al 1975, e morirono prima di vedere tornare la democrazia a Madrid.

Quando l’ignoranza e la malafede fa informazione.

Stasera Italia, niente russi ad Auschwitz? Senaldi: è cancel culture. Il Tempo il 27 gennaio 2023

C’è la possibilità che la guerra tra Russia ed Ucraina porti ad uno scontro mondiale o ad un allargamento del fronte di battaglia? È questo il quesito rivolto a Pietro Senaldi, codirettore di Libero, nel corso del collegamento effettuato durante la puntata del 27 gennaio di Stasera Italia, il programma televisivo condotto da Barbara Palombelli: “Non credo che si rischi un’escalation, ovverosia che la guerra arrivi ad uno stato superiore di quello che abbiamo visto in questi undici mesi. Penso che il conflitto si estenderà in durata e sarà molto difficile venirne fuori, ma non vedo un’escalation, il mondo si è fermato prima. Qualche mese fa ero più preoccupato. Poi voglio fare una battuta, cioè non invitare i russi ad Auschwitz è cancel culture, come abbattere la statua di Cristoforo Colombo, è paradossale che avvenga nella Giornata della Memoria. Quando in questo giorno non ricordi chi ha liberato Auschwitz mi sembra - la battuta finale di Senaldi - che si crei una situazione abbastanza paradossale”.

Prima di tutto l’armata rossa era formata da soldati sovietici e non russi. Unione sovietica nata 30 dicembre 1922 e sciolta il 26 dicembre 1991.

L’imbarazzante tentativo mediatico di riscrivere la liberazione di Auschwitz. di Giorgia Audiello su L'Indipendente il 29 Gennaio 2023

Il tentativo di riscrivere la storia è uno dei principali “ingredienti” della propaganda, uno strumento imprescindibile soprattutto in tempo di guerra per irregimentare e ottenere il favore delle masse. Non a caso, si dice che “la storia la scrive chi vince”, a conferma del fatto che non di rado essa finisce per essere il frutto delle convenienze politiche e geopolitiche del momento, piuttosto che una materia oggettiva basata su fatti e documenti. Lo dimostra proprio in questi giorni il tentativo di stravolgere la storia della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz ad opera di diversi media nazionali, spinti dal risentimento che vede l’Europa e il mondo occidentale in genere contrapposto alla Russia. Una opposizione politica e culturale sempre più profonda e incolmabile che ha portato strumentalmente a sostenere che Auschwitz non fu liberato dai russi, ma dagli ucraini: in particolare, il quotidiano online Linkiesta scrive che a liberare il lager «fu un reparto dell’Armata Rossa che era composto al novanta per cento da ucraini e per il restante dieci per cento da bielorussi», anche per giustificare il mancato invito della Russia alla cerimonia per la liberazione del campo di sterminio. A causa dell’invasione dell’Ucraina, infatti, i rappresentanti russi non sono stati invitati alle commemorazioni del settantottesimo Anniversario della Liberazione da parte dell’Armata Rossa: lo ha reso noto direttamente il sito del museo di Auschwitz.

Il «reparto» dell’Armata Rossa cui fa riferimento Linkiesta è, per essere precisi, la Centesima Divisione Fucilieri dell’esercito sovietico: formata il 5 febbraio del 1942, questa divisione era composta dai coscritti di diverse repubbliche sovietiche, tra i quali comparivano anche reclute ucraine. Tuttavia, la formazione era prevalentemente “russa”, essendo costituita principalmente da soldati dell’oblast di Vologda e dell’Oblast di Arcangelo. La divisione è stata successivamente insignita del titolo onorifico di “Lviv” (o “Lvov” in russo, l’attuale Leopoli) per il suo ruolo determinante nella liberazione della città, invasa dai tedeschi e facente parte della Polonia fino al 1939. Il 27 gennaio del 1945, la divisione ha liberato il campo di Auschwitz-Birkenau guidata dal maggiore ebreo ucraino Anatoly Shapiro nato a Krasnograd. Shapiro si arruolò volontario nell’Armata Rossa nel 1938 e poi di nuovo nell’ottobre del 1941. Da sottolineare anche come, al tempo, esistesse un unico esercito sovietico e chiunque ne facesse parte era considerato sovietico, così come anche le varie etnie ricadevano sempre sotto la “sfera” russa, in quanto territori come l’Ucraina sono storicamente e culturalmente legati alla Russia. Ad esempio, lo scrittore Gogol è annoverato tra le grandi personalità della letteratura russa nonostante fosse di origine ucraina. Solo a seguito del crollo dell’Urss e con l’indipendenza delle ex repubbliche sovietiche si cominciano a fare delle distinzioni nette in questo senso. Allo stesso modo, anche Stalin e Beria erano georgiani, ma i loro operati politici sono legati all’Unione Sovietica e a Mosca e non alla Georgia che ne era, comunque, una parte integrante come l’Ucraina.

Si tratta, dunque, del tentativo di distorcere gli avvenimenti storici con un chiaro intento propagandistico che si traduce nell’ergere a eroi gli ucraini, continuando – di contro – il processo di demonizzazione degli avversari russi, di modo che l’opinione pubblica sia maggiormente propensa a solidarizzare e simpatizzare per Kiev e a identificare Mosca come barbaro nemico che si appropria indebitamente di azioni encomiabili compiute da altri. Nel feroce scontro in corso tra l’Occidente liberal e la Russia, infatti, l’obiettivo non può essere che mettere in luce Kiev per promuovere e legittimare – soprattutto agli occhi dei popoli europei che ne pagano maggiormente le conseguenze – le azioni politiche del fronte occidentale in suo favore, tra cui anche l’invio di carrarmati. Se difficilmente i tank potranno cambiare il corso della guerra, infatti, sicuramente aumenteranno le tensioni tra Russia ed Europa a danno soprattutto di quest’ultima.

Con ciò non si vuole negare che anche gli ucraini hanno avuto un ruolo importante nella liberazione dei lager nazisti. Tuttavia, negare che l’Armata Rossa fosse innanzitutto l’armata sovietica composta dalle varie etnie dei vastissimi territori dell’Urss non è solo un errore giornalistico, ma anche uno scempio storico e culturale che dimostra l’altissimo livello di indottrinamento – e dunque di distorsione e alterazione dei fatti – che anima a livello comunicativo uno dei conflitti più importanti del decennio. Controllare l’informazione, infatti, è un efficace elemento per “imbrigliare” le menti e creare il consenso. Tuttavia, la manipolazione dei fatti sta precipitando a livelli sempre più bassi, tali per cui anche la sua funzione di livellamento e omologazione del pensiero rischia di diventare inefficace. [di Giorgia Audiello]

Mistificazione sovietica. Sono stati gli ucraini a liberare Auschwitz, non i russi. Maurizio Stefanini su L’Inkiesta il 27 Gennaio 2023.

Il cancello del campo di sterminio è stato aperto dai soldati del 100° battaglione della divisione di Lviv, comandata da Anatolyj Shapiro, un ebreo nato a Poltava. Poi la propaganda di Mosca ha rimodellato la storia secondo convenienza

per il fatto che la Russia non è stata invitata alla commemorazione di Auschwitz, e la macchina della propaganda si metterà a protestare che erano stati i soldati russi a liberare il lager. Allora, cominciamo subito a ricordare che fu un reparto dell’Armata Rossa che era composto al novanta per cento da ucraini e per il restante dieci per cento da bielorussi». Su questo appello si è chiuso giovedì il convegno “Dezinformacija e misure attive: Le narrazioni strategiche filo-Cremlino in Italia sulla guerra in Ucraina”, a cura dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici. Proprio perché il giorno dopo sarebbe seguita la Giornata della Memoria, che ricorda il giorno in cui l’Armata Rossa arrivò ad Auschwitz. È un elemento forte della narrazione sovietica sulla «Grande guerra patriottica» che è stato rilanciato da Putin, ed è un elemento chiave nella propaganda su questa «operazione speciale» come strumento per «denazificare l’Ucraina».

Per capire una certa suscettibilità che c’è sul tema, basta ricordare il modo in cui su Roberto Benigni rimbalzò l’accusa di “falso storico” lanciata da Mario Monicelli e dall’allora leader dei Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, per aver rappresentato il padre e il figlio di “La vita è bella” liberati dagli americani, invece che dai sovietici.

Un’accusa di manipolazione filo-americana e anticomunista invero curiosa, nei confronti di un regista e attore il cui primo film si era intitolato “Berlinguer ti voglio bene”, e che il leader del Pci Enrico Berlinguer aveva addirittura “preso in collo” durante una famosa Festa dell’Unità.

Indubbia ruffianeria da Oscar a parte, Benigni ebbe buon gioco a puntualizzare che «il film non parla di Auschwitz, e infatti intorno al campo ci sono i monti, che ad Auschwitz invece non ci sono». I monti della Valnerina, perché il campo di concentramento nel film è in realtà una vecchia fabbrica dismessa che fu riadattata come lager per le riprese e che si trova a Papigno, vicino a Terni. «Quello è il campo di concentramento, perché qualsiasi campo contiene l’orrore di Auschwitz, non uno o un altro», disse pure Benigni.

E si può anche ricordare che il film è ispirato a uno zio della moglie di Benigni che era morto davvero a Mauthausen: un lager dove invece i liberatori erano stati gli americani. Ovviamente, la bufala che «Benigni fa entrare gli americani a Auschwitz» è stata ritirata fuori anche per questa polemica.

Ma Auschwitz si trova in Polonia, che è in primissima linea nell’aiuto all’Ucraina. E il museo di Auschwitz ha dunque deciso di escludere la Russia dalla cerimonia per il 78esimo anniversario della liberazione da parte dell’Armata Rossa, il 27 gennaio del 1945, del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau.

Lo ha annunciato il portavoce del sito museale Piotr Sawicki: «Data l’aggressione contro l’Ucraina libera e indipendente, i rappresentanti della Federazione Russa non sono stati invitati a partecipare alla commemorazione. Era ovvio che non potessi firmare alcuna lettera all’ambasciatore russo con un tono invitante, dato il contesto attuale. Spero che cambierà in futuro, ma abbiamo ancora molta strada da fare», ha detto ipotizzando che ci vorrà del tempo affinché Mosca «faccia un autoesame molto profondo dopo questo conflitto per tornare ai raduni del mondo civilizzato».

Per il museo, infatti, l’invasione in Ucraina è un «atto barbarico». Auschwitz-Birkenau è diventato un simbolo del genocidio della Germania nazista ma, dai massacri di Bucha alle leggi sull’adozione di bambini ucraini per russificarli, la Russia putiniana in questo momento non solo sta emulando alcuni dei comportamenti peggiori delle truppe naziste, ma sta addirittura violando apertamente la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948.

In effetti, il non invito rappresenta il punto di arrivo di una tensione che iniziò a scalare dopo l’attacco a Crimea e Donbas, quando per i settant’anni dalla liberazione di Auschwitz, nel 2015, Putin non venne per lo sgarbo di non essere stato ufficialmente invitato. Cioè, in realtà l’invito gli era stato mandato. Ma tramite l’ambasciata russa a Varsavia, invece che al Cremlino: cosa che era stata percepita come uno sgarbo, e in effetti lo era. Appunto, come reazione a quel primo attacco all’Ucraina. «Si è cercato di non invitarlo, benché lo si sia invitato», spiegò alla Bbc Konstanty Gebert, editorialista della Gazeta Wyborcza, il principale giornale polacco. La Russia, comunque, fu presente. Al posto di Putin, andò il capo dell’amministrazione presidenziale, Sergej Ivanov.

Proprio in quell’occasione, però, il ministro degli Esteri polacco Grzegorz Schetyna ricordò che a liberare Auschwitz erano stati in realtà soldati ucraini. Il governo ucraino subito confermò. Mosca protestò: non ancora screditato dall’aver spiegato che «Hitler era ebreo», il ministro degli Esteri russo Lavrov, disse che «sfruttare la storia del lager a fini nazionalistici sia molto cinico», e che «tutti sanno che a liberare Auschwitz fu l’Armata Rossa, composta da soldati di più etnie».

Schetyna ammise che il reparto dell’Armata Rossa che varcò i cancelli dell’inferno di Auschwitz era ovviamente multietnico, ma insistette sul fatto che il suo comandante era di nazionalità ucraina, ed era ucraina la maggior parte dei soldati.

In effetti, il cancello del campo di sterminio di Auschwitz fu aperto dai soldati del 100° battaglione della divisione di Lviv, comandata dal futuro Eroe dell’Ucraina, Anatolyj Shapiro, un ebreo ucraino nato a Poltava. Questo momento storico fu immortalato da un altro ebreo nato in Ucraina, a Kyjiv: Volodymyr Judin, il fotografo del giornale “Per l’onore della patria del Primo Fronte Ucraino dell’Armata Rossa”, cui apparteneva il reparto.

La Shoah degli Zingari.

La memoria dimenticata del Porrajmos, lo sterminio degli zingari. GIOVANNI GIOVANNETTI su Il Domani il 28 gennaio 2023

Anche gli zingari erano usati come cavie negli esperimenti “scientifici”; e molti zingari (uomini, donne, bambini) nemmeno videro i campi di sterminio perché, fuori da ogni contabilità, vennero uccisi davanti a casa loro. 

Tutto questo è potuto accadere nello stesso clima di colpevole silenzio, nella stessa apatia morale e con la stessa ammorbante indifferenza di chi, in Italia come nel resto d’Europa, ha lasciato che si discriminassero e poi si deportassero e si uccidessero milioni di ebrei. 

Si ritiene che almeno 700mila zingari siano stati massacrati dentro e fuori i campi di sterminio, il 70 per cento dell’intera popolazione. 

La grande poetessa svizzera Mariella Mehr, zingara di etnia Jenisch, riteneva che bisognasse favorire l’ascesa in Europa di una élite culturale propria, così da ridare voce e credito al popolo Romanì.

Per esempio, quando nei media e nel senso comune si parla dell’Olocausto, istintivamente si pensa agli ebrei e solo agli ebrei, dimenticando che anche gli zingari, fra gli altri, furono dai nazifascisti derubricati a non-umani. Ad ogni 27 gennaio, ricorrenza del Giorno della memoria, prevale quindi il ricordo della Shoah, termine che vuole indicare lo sterminio di sei milioni di esseri umani di religione ebraica. Una enormità, che va ad eclissare la memoria di altri genocidi, come appunto quello del popolo zingaro (Rom, Sinti, Jenisch). 

GLI INDIFFERENTI

L’élite culturale zingara invocata da Mehr tuttora fatica a manifestarsi e di conseguenza la memoria dell’Olocausto – la più grande tragedia del Novecento, una delle più cupe pagine della storia dell’umanità – parrebbe affare che riguarda i soli ebrei.

Lo dico con tutto il garbo e il rispetto che un argomento così delicato richiede: chi è in condizione di farlo – e cioè tutti coloro che, a differenza del mondo zingaro, hanno accesso ai media – dovrebbe anche ricordare quanto meno la “Shoah zingara”, ovvero l’altrettanto efferato massacro di centinaia di migliaia di “zigeuner” nei lager nazisti di Auschwitz e Treblinka e in quelli balcanici di Jasenovac in Croazia, con il pieno appoggio dell’Italia fascista, e di Semlin presso Belgrado.

Erano anche loro usati come cavie negli esperimenti “scientifici”; e molti zingari (uomini, donne, bambini) nemmeno videro i campi di sterminio perché, fuori da ogni contabilità, vennero uccisi davanti a casa loro. 

Tutto questo è potuto accadere nello stesso clima di colpevole silenzio, nella stessa apatia morale e con la stessa ammorbante indifferenza di chi, in Italia come nel resto d’Europa, ha lasciato che si discriminassero e poi si deportassero e si uccidessero milioni di ebrei. 

UN FALSO CONFLITTO

In Romania nel biennio 1941-1942 il governo filo-nazista di Ion Antonescu deportò 25mila zingari in Transdniestria, una zona compresa tra la Moldavia e l’Ucraina sovietica occupata dai tedeschi. In pochi hanno fatto ritorno e quasi tutti i Rom rumeni oggi in Italia hanno in famiglia uno di questi lutti. 

Si ritiene che almeno 700mila zingari siano stati massacrati dentro e fuori i campi di sterminio, il 70 per cento dell’intera popolazione. Questo genocidio i Rom serbi lo chiamano Porrajmos, un percorso di morte condiviso, assieme agli Ebrei, con circa 9mila omosessuali e transessuali, 1.500 testimoni di Geova e un numero imprecisato di disabili, malati di mente, comunisti e pentecostali. Di questi ultimi (una declinazione del protestantesimo) il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi sosterrà che credevano in pratiche religiose «contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza». A loro aggiungeremo altri “indesiderati”, come i circa 45mila militari italiani che, deportati nei campi di lavoro coatto in Germania, da questi luoghi infami non usciranno vivi. 

Come è potuto accadere? Per derubricare l’altro a nemico servono uno sguardo deumanizzante (così da negare i tratti costitutivi dell’umano, direbbe Chiara Volpato) e la creazione del “falso conflitto”: noi-loro (o noi o loro), ovvero la menzogna della conflittualità che vede l’altro relegato a non-umano alieno e inanimato, tanto da legittimare il peggiore arbitrio: ieri con zingari, omosessuali e soprattutto ebrei. Oggi con ebrei, omosessuali e soprattutto zingari.

UN POPOLO DI TROPPO

Se nella Germania nazista e nell’Italia fascista gli zingari erano considerati l’emblema dell’asocialità, non di meno le discriminazioni ai loro danni si prolungheranno nel dopoguerra. 

Mariella Mehr è morta lo scorso 5 settembre, dopo essere stata una delle voci più alte della poesia europea del nostro tempo nonché luminoso punto di riferimento per chiunque tra noi ha mosso anche solo un dito in favore dei diritti delle minoranze etniche e degli oppressi: apparteneva alla minoranza più discriminata e vessata del suo paese.

Dal 1926 al 1974 (avete letto bene: 1974!) nella socialisteggiante Svizzera 600 bambini Rom sono stati sottratti alle famiglie e le loro madri sterilizzate nell’ambito dell’operazione “Kinder der Landstrasse”, che si proponeva l’estirpazione del «fenomeno zingaro». Questa attività ha avuto fra le ultime vittime proprio Mariella: nata nel 1947, sottratta bambina alla madre, come la madre e la nonna ha subìto l’allontanamento del figlio ed è stata resa sterile. Ha affrontato un tormentato percorso tra orfanotrofio, istituti psichiatrici, violenze, stupri, elettroshock di cui troviamo traccia nei romanzi della “trilogia della violenza” (Il marchio, Labambina, Accusata). Tutto questo ha avuto fine solo dopo la denuncia pubblica da parte di Mariella, sostenuta da alcune femministe.

Non più forni crematori, ma «fosse stato per il sindaco, i Rom li avrebbe messi sopra un treno e mandati via». Sono parole di un primo cittadino italiano già membro della Commissione etica di un partito “progressista” che, nel 2008, nuovo secolo, parlava di sé in terza persona. L’anno prima, lo stesso sindaco – un dirigente scolastico – aveva sentenziato che «nessuno di questi bambini verrà prossimamente inserito nelle scuole perché farlo costituirebbe un incentivo per le famiglie a radicarsi sul territorio», disdegnando così la Costituzione, i diritti universali dei minori e il buonsenso.

Un popolo “di troppo” si aggira per l’Europa e anche a sinistra vi fu chi sconsideratamente minacciò deportazioni “sopra un treno”.

VECCHI E NUOVI PREGIUDIZI

Nel maggio 1945, lacera, sporca, incattivita, Liliana Segre può a fare ritorno a Milano reduce dall’inferno di Auschwitz-Birkenau (è tra i pochi sopravvissuti). Ma il portiere della sua abitazione al numero 55 di corso Magenta non la riconosce, e la allontana: «Via, via le zingare...», dirà. 

Incredibile, ma l’anti-ziganismo e la romofobia – il pregiudizio razziale oppure quello dettato da istintiva paura – abitano in noi, nel “falso conflitto” con stranieri, diversi e poveracci, o con chi semplicemente la vede in modo diverso, trasformati in valvola di sfogo, per dirla con Bauman, «delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici».

E non da ora. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono infatti decenni in cui in Italia (limitiamoci al nostro paese) assistiamo al lento processo di sedentarizzazione e di perdita delle identità culturali zigane, percorso che ha portato al progressivo avvicinamento alle città degli zingari italiani e balcanici (fuggiti in Italia dopo la presa del potere da parte di Tito in Jugoslavia e di nuovo negli anni Novanta, per salvarsi dal conflitto), con la loro ghettizzazione in enormi, periferici «campi per i nomadi», ovvero aberranti luoghi di convivenza forzata che hanno limitato i processi di inclusione e il pieno accesso al sistema dei diritti.

Una grande occasione sprecata. Finita l’epoca romantica del nomade giostraio o dedito al riciclo dei materiali di recupero, si sarebbe dovuto investire su scuola e lavoro, e su patti di reciprocità. Invece hanno avuto spazio i pregiudizi e i processi di marginalizzazione più autodistruttivi (nei campi si registrano forme elevate di tossicodipendenza). La strategia del rifiuto e dell’abbandono, insieme allo sgombero dei campi-ghetto senza disegnare un’alternativa, ha potuto solo spostare il problema, poiché sospinge Sinti e Rom tra i «perdenti radicali» di cui ci ha parlato Enzensberger, con il pericolo di vederli reclutati dalla criminalità.

Ecco, a superare i vecchi e i nuovi steccati potrebbe concorrere un maggiore coinvolgimento dei Sinti e dei Rom nei riti della sfera pubblica, specie quelli, come il Giorno della memoria, che li riguardano più direttamente e in profondità. Un degno passo lo ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso del 27 gennaio. Si spera che a lui possano accodarsi altri, anche dalle sinagoghe, nel comune vincolo a ricordare che lega tutti, proprio tutti i popoli e le minoranze perseguitate e discriminate di questa nostra Terra. 

GIOVANNI GIOVANNETTI. Giornalista, editore e fotografo, nel 1988 ha fondato l'agenzia fotografica Effigie, divenuta poi anche casa editrice.

Le Fughe.

80 anni dalla Rivolta del Ghetto di Varsavia:1943-2023. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023.

Il 19 aprile 1943 alcuni giovani ebrei rimasti

nel ghetto dopo le deportazioni di massa decisero di imbracciare le armi contro il nemico nazista. 

Fu la prima rivolta urbana nell’Europa occupata 

Il ghetto di Varsavia fu creato dai nazisti il 12 ottobre 1940 in una zona della città che fu tenuta separata con lo scopo di segregare la componente ebraica della popolazione. In un’area di circa 400 ettari vennero rinchiuse fino a circa 450mila persone

Le mura che circondarono il ghetto erano alte 3 metri e lunghe 18 km.

L’area venne costantemente ridimensionata e ridotta.

Nell’ottobre del 1941 venne creata la suddivisione in ghetto Piccolo e ghetto Grande.

Un ponte univa le due parti del ghetto passando sopra a una strada che apparteneva al settore cosiddetto ariano.

La densità di popolazione giunse fino a 146mila persone per km quadro: dalle 7 alle 11 persone costrette a convivere per ogni appartamento

Dal 22 luglio 1942 al 12 settembre i nazisti procedettero alla cosiddetta Grossaktion («La grande azione»): la deportazione di più di 250.000 persone, la maggior parte delle quali venne inviata direttamente a Treblinka per essere gasata.

Nel ghetto rimasero circa 60mila persone

Davanti allo sterminio del 1942 i movimenti giovanili ebraici dell’Hashomer Hatzair, dello Dror e dell’Akiva decisero di resistere con le armi e crearono la Zydowska Organizacya Bojowa o ZOB (Organizzazione Ebraica di Combattimento) che darà vita alla Rivolta del 1943 DI SILVIA TURIN

L’inizio

19 aprile 1943

Le truppe tedesche, sostenute da carri armati e autoblindo, entrarono nel ghetto per liquidarlo definitivamente e trasportare la popolazione verso il campo di sterminio di Treblinka. Parteciparono all’azione più di mille soldati e poliziotti delle Waffen-SS. 

Per la prima volta i nazisti si trovarono di fronte a un’opposizione armata che era stata pianificata dopo le deportazioni di massa avvenute nel 1942: la resistenza era guidata da circa 300-500 membri della ZOB (Organizzazione Combattente Ebraica) divisi in 22 gruppi di battaglia sotto il comando di Mordechaj Anielewicz e circa 250 combattenti della ZZW (Unione Militare Ebraica), oltre a gruppi armati che non appartenevano alle principali organizzazioni clandestine. 

Iniziò così la prima rivolta popolare in una città dell’Europa occupata dai nazisti. 

I promotori dell’insurrezione, molti dei quali giovanissimi ragazzi e ragazze provenienti dalle fila delle organizzazioni scoutistiche, sapevano di andare verso una sconfitta sicura, ma decisero di non andare incontro alla morte «come agnelli al macello», ma imbracciando le armi come ultimo atto davanti alla volontà degli occupanti di «liquidare» il ghetto e deportare gli ebrei rimasti verso lo sterminio. 

La rivolta, con grande sgomento dei tedeschi, durò 4 settimane: l’8 maggio i nazisti scoprirono il bunker del quartier generale della ZOB in via Mila 18 e un centinaio di combattenti soffocarono nel fumo o si suicidarono (tra questi, il comandante Anielewicz) per coprire l’evacuazione dei pochi che sopravvissero. 

Il 16 maggio Jurgen Stroop, comandante delle SS e della Polizia tedesca nella Varsavia occupata dai nazisti, in segno di vittoria diede l’ordine di far saltare in aria la Grande Sinagoga e scrisse nel suo rapporto: «Il quartiere residenziale ebraico di Varsavia non esiste più».«La battaglia è divampata per la libertà nostra e vostra.

Per l’onore e dignità umana sociale e nazionale nostra e vostra! Dobbiamo vendicare i crimini di Oswiecim, Treblinka, Belzec e Majdanek! Lunga vita alla fratellanza d’armi e al sangue della Polonia combattente! Lunga vita alla libertà! Morte ai carnefici e torturatori!»  (il proclama della ZOB, Organizzazione combattente ebraica)

I tedeschi «sotto scacco»

Il 19 aprile il primo atto di resistenza fu opposto dai combattenti ZOB agli incroci di Gesia, Nalewki, via Mila e Zamenhofa, dove spararono e lanciarono granate e molotov contro le colonne tedesche. 

I combattimenti durarono tre giorni. Poi, la continuazione della resistenza fu ostacolata dalla mancanza di munizioni e dagli incendi appiccati dai tedeschi, che spinsero gli insorti in bunker e cantine. I combattenti vi si nascosero insieme alla popolazione civile rimasta (45mila-50mila persone circa), modificando le tecniche di combattimento in incursioni e agguati. 

«Dopo qualche giorno divenne evidente che gli ebrei non avevano più nessuna intenzione di lasciarsi trasferire volontariamente, ed erano decisi a opporsi alla loro evacuazione… Più e più volte si sono accesi nuovi nuclei di resistenza, ad opera di gruppi di combattenti costituiti da una ventina o trentina di ebrei, a cui si sono unite altrettante donne», si legge nel Rapporto Stroop, preparato dal comandante delle SS Jurgen Stroop per documentare la liquidazione del ghetto (si veda didascalia a sinistra, ndr). 

«Ciò che abbiamo passato è impossibile da esprimere a parole, ciò che è successo supera tutti i nostri sogni più audaci: i tedeschi sono stati costretti a fuggire per ben due volte dal ghetto. Uno dei nostri reparti è riuscito a rimanere nella propria posizione per 40 minuti, un altro per ben 6 ore», scriveva il comandante della ZOB, Mordechai Anielewitz, in una lettera datata 23 aprile. 

Quando l’8 maggio venne scoperto il nascondiglio principale del comando della ZOB in via Mila 18, chi non era morto soffocato dal fumo si suicidò per non cadere nelle mani dei nazisti, ma alcuni riuscirono a scappare grazie all’aiuto che veniva fornito dalla rete di assistenza e soccorso creata dai membri delle organizzazioni insorte rimasti come collegamento operativo nella parte cosiddetta ariana della città, all’esterno delle mura del ghetto. La rete comprendeva membri dell’Esercito nazionale polacco (Armia Krajowa), della Guardia del Popolo creata dal Partito Operaio Polacco (Gwardia Ludowa), degli scout e del Comitato di supporto agli ebrei chiamato Zegota. 

Stroop riferì nel suo rapporto che le sue truppe catturarono o uccisero oltre 56.000 ebrei e scoprirono 631 bunker. Secondo il rapporto, i tedeschi deportarono 36.000 persone nei campi di lavoro nella regione di Lublino. I restanti vennero uccisi nella rivolta o morirono nelle camere a gas di Treblinka. Sono cifre amplificate dal comandante nazista per giustificare un’operazione durata troppo rispetto a quanto previsto, ma sono le uniche «ufficiali».«L’operazione era appena iniziata quando fummo fatti segno a un fuoco concentrato

da parte degli ebrei e dei banditi. Un tank e due carri blindati sono stati tempestati da bottiglie molotov. A causa di questo contrattacco nemico ci siamo dovuti ritirare» (dal Rapporto Stroop)

Nella foto, gli uomini del generale Stroop accanto a edifici in fiamme nel ghetto. Lo scatto appartiene al «Rapporto Stroop», un album preparato dal comandante delle SS Jurgen Stroop, incariato di «liquidare» il ghetto di Varsavia. Era stato concepito come un album «ricordo» per Heinrich Himmler per celebrare la vittoria duramente conquistata in 4 settimane

Queste sono le uniche foto conosciute scattate all’interno del ghetto durante la Rivolta che non furono fatte dai tedeschi. Sono state scattate da un vigile del fuoco di 23 anni di Varsavia, Zbigniew Leszek Grzywaczewski.

Nella foto, ebrei condotti alla Umschlagplatz (centro di raduno prima della deportazione).

Foto scattata il 20 aprile 1943 attraverso la finestra dell’ospedale di Santa Sofia, all’incrocio tra le vie Zelazna e Nowolipa

In totale sono 48 scatti, 33 dei quali mostrano il ghetto.

Tra questi, ci sono 12 foto precedentemente pubblicate, conservate come stampe al Museo dell’Olocausto di Washington e al Jewish Historical Institute «Emanuel Ringelblum» di Varsavia, ma ce ne sono alcune che non sono mai state mostrate prima, ora esposte al Museo POLIN di Varsavia per le celebrazioni degli 80 anni della Rivolta del ghetto. 

Commento dell’autore della fotografia scritto nel dopoguerra sul retro della stampa: «Incendio doloso di case abbandonate dalla popolazione ebraica durante l’evacuazione. Dalla finestra contrassegnata X (balcone) l’intera famiglia ebrea saltò fuori sul marciapiede, circa 5-6 persone, morendo sul colpo. Poiché si sono nascosti e non sono usciti per evacuare, non abbiamo potuto aiutarli» 

Maciej Grzywaczewski, figlio dell’autore delle fotografie, ha consultato nuovamente l’archivio fotografico del padre all’inizio del dicembre 2022 su invito del Museo POLIN e ha ritrovato il film con i negativi da cui sono state realizzate le stampe e le copie note negli anni successivi alla guerra.  

L’autore delle fotografie, un polacco non ebreo, ha trascorso quasi quattro settimane nel ghetto. Nel suo diario di guerra scrisse: «La vista di quelle persone portate fuori dai bunker rimarrà probabilmente nei miei occhi per il resto della mia vita. Occhi folli, sagome barcollanti dalla fame e dal terrore, straziati, fucilati, alcuni vivi cadono sui cadaveri di altri già liquidati».

La resistenza civile

Quando i gruppi combattenti diedero inizio alla rivolta, il 19 aprile, la popolazione del ghetto contava circa 45mila-50mila persone. La resistenza dei civili che, anziché consegnarsi ai nazisti, si barricarono in bunker e nascondigli, colse di sorpresa i tedeschi e fu importantissima per la tenuta dell’insurrezione. 

In risposta, i tedeschi decisero di mettere a ferro e fuoco il ghetto: iniziarono a bruciare sistematicamente gli edifici, trasformandoli in una trappola di fuoco. Furono costretti a setacciare i quartieri e le strade. Per forzare gli ebrei a uscire dai loro nascondigli, appiccarono il fuoco a una casa dopo l’altra. 

Proprio al valore della resistenza civile sono dedicate le celebrazioni in Polonia per gli 80 anni dalla Rivolta. Il Museo POLIN, che a Varsavia conserva e tramanda la memoria e la storia dei polacchi ebrei, tra le iniziative ha organizzato una mostra intitolata «Un mare di fuoco intorno a noi. Il destino dei civili ebrei durante la rivolta del ghetto di Varsavia», che racconta l’eroismo delle persone comuni tramite documenti, fotografie (tra cui alcuni scatti inediti) e le parole dei discendenti dei sopravvissuti.

«L’unica cosa che potevamo fare in quella situazione era opporci ai tedeschi, sapendo che la morte ci attendeva. Era l’unica cosa certa. Non c’era alcuna illusione, non pensavamo nemmeno di poter sopravvivere. Né all’inizio della rivolta, né dopo»

La Campagna dei Narcisi

La parola d’ordine è «non essere indifferenti»: un’altra iniziativa che ogni anno a Varsavia viene organizzata dal Museo POLIN in memoria della Rivolta del ghetto è la Campagna dei Narcisi. Oltre 3.000 volontari distribuiscono narcisi di carta per le strade raccontando ai passanti la storia di quei giorni per non dimenticare.

Il Museo POLIN di Varsavia per gli 80 anni dalla Rivolta del ghetto ha organizzato una mostra dal titolo: «Un mare di fuoco intorno a noi», per ricordare i civili che erano nascosti nei bunker e dare una testimonianza del loro esempio di resistenza eroica. Li si chiama «civili» per semplificazione nonostante anche i combattenti rivoltosi che imbracciarono le armi fossero «civili», non essendo soldati. Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, ebrei fatti uscire da un bunker dai tedeschi durante la soppressione della Rivolta (credit, Yad Vashem) 

È stato anche per l’atteggiamento della popolazione civile, che non voleva sottostare agli ordini di espulsione tedeschi e si ostinava nei bunker e nei nascondigli, che l’operazione di liquidazione tedesca durò quattro settimane. Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, ebrei vittime dei ratrellamenti nazisti in attesa di deportazione all’Umschlagplatz, 1943

Nascondersi nei bunker sotterranei fu un’esperienza estrema: affollamento, mancanza di aria, acqua fresca e cibo, caldo e fumo degli incendi che divampavano intorno, tensione costante, necessità di rimanere fermi e silenziosi per non rivelare l’ubicazione del bunker alle pattuglie tedesche. Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, ebrei prelevati dai bunker, controllo dei documenti e perquisizione alla ricerca di armi  

Ancora più terribile fu il destino delle persone che rimasero nascoste sotto ai pavimenti delle case popolari bruciate. Molti, messi alle strette in questo modo, decisero di buttarsi in strada. Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, un ebreo si getta dalla finestra del 4° piano di un edificio in fiamme durante la repressione della Rivolta del ghetto di Varsavia  

Migliaia di persone morirono negli incendi, sotto le macerie delle case crollate, nei bunker fatti saltare in aria o sepolti vivi. Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, gli ebrei catturati durante la soppressione della Rivolta vengono condotti dalle SS all’Umschlagplatz per la deportazione, 1943  

La rivolta finì con la distruzione della Grande Sinagoga il 16 maggio, ma nelle case bruciate e nei bunker c’erano ancora persone, sia civili che ribelli. Rapporti della polizia tedesca e della stampa clandestina polacca riferirono che a giugno si sentivano «ancora degli spari nel ghetto». Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, soldati delle SS a guardia degli ebrei costretti a uscire dai bunker sotterranei durante la Rivolta del ghetto, 1943  

Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, Juergen Stroop passa in rassegna i soldati delle Waffen SS durante la soppressione della Rivolta  

Nella foto, proveniente dal Rapporto Stroop, il ghetto in fiamme

Come nacque la Rivolta

Il 22 luglio 1942, i tedeschi iniziarono le deportazioni di massa dal ghetto di Varsavia per il progetto chiamato Grossaktion («La grande azione»). Quando terminarono, il 12 settembre, circa 250.000 ebrei erano stati deportati nel campo di sterminio di Treblinka. Le deportazioni erano state effettuate a partire dalla Umschlagplatz, la piazza dove gli ebrei erano costretti ad attendere di salire sui treni sotto il controllo armato dei nazisti.«Lo storico del futuro dovrà dedicare un capitolo degno dell’importanza avuta in questa guerra dalla donna ebrea. Dobbiamo al coraggio e all’abnegazione delle nostre donne che migliaia di famiglie sono riuscite a sopportare questi tempi duri. In alcuni Comitati di Caseggiato si fanno avanti le donne per sostituire gli uomini, che crollano esausti...in alcuni la direzione è completamente in mani femminili» 

(10 giugno 1942, dal diario dello storico Emanuel Ringelblum)Nella foto, soldati tedeschi puntano le armi contro donne e bambini durante

la soppressione della Rivolta. Dal Rapporto Stroop

Dopo le deportazioni a Treblinka, nel ghetto di Varsavia rimasero circa 60mila ebrei, la maggior parte dei quali ancora in vita poiché giudicati utili come manovalanza schiava per le fabbriche. Erano perlopiù adolescenti e ragazzi.

Dopo la Grossaktion capirono che avrebbero condiviso la stessa sorte di chi non c’era più. Ogni illusione era caduta. Così decisero di reagire e andare incontro alla morte. Imbracciare le armi fu l’ultima forma di resistenza quando tutto era perduto.

Mordechai Anielewicz (1919-1943) - Fu leader del movimento scoutista sionista socialista dell’Hashomer Hatzair. Membro importante della resistenza, fu inizialmente un educatore, poi al comando della ZOB (Organizzazione ebraica di combattimento). L’8 maggio, dinanzi alla sconfitta imminente, si suicidò con un gruppo di resistenti barricati nel quartiere generale di via Mila 18, per coprire le ultime fughe dei compagni dal bunker  

Marek Edelman (1919-2009) - Uno dei leader della rivolta del ghetto di Varsavia, cardiologo, attivista sociale e politico. Vicecomandante della Rivolta del ghetto di Varsavia. Apparteneva al Bund, il Partito Socialista dei Lavoratori ebrei. Il 9 maggio 1943, dopo la morte di Mordechaj Anielewicz, riuscì ad uscire dal ghetto con un gruppo di insorti attraverso le reti fognarie. Ha preso parte alla rivolta della città di Varsavia contro i nazisti. Dopo la guerra rimase in Polonia e divenne membro del movimento Solidarnosc. Si stabilì a Lodz, dove lavorò come cardiochirurgo  

Icchak Cukierman (1915-1981) - Membro del movimento giovanile Dror, fu uno dei leader della ZOB. Da gennaio ad aprile 1943 fu comandante di uno dei tre settori in cui era suddiviso il ghetto tra i membri della ZOB. Dal 13 aprile 1943 Cukierman fu nella parte ariana della città. Organizzò l’uscita di un gruppo di combattenti dal ghetto attraverso le reti fognarie. Dopo la fine della Rivolta rimase a Varsavia e contribuì a salvare gli ebrei sopravvissuti  

Frumka Plotnizka (1914-1943) - Membro dei movimenti giovanili HeHalutz e Dror, fu la prima persona a riferire sull’istituzione del campo di sterminio a Sobibor all’inizio di maggio 1942. Nel ghetto di Varsavia, Frumka organizzò l’autodifesa e la resistenza. Stabilì i contatti con le organizzazioni clandestine nella parte ariana e contrabbandò armi. Sopravvissuta alla rivolta del ghetto di Varsavia, prese parte alla rivolta di un altro ghetto, quello di Bedzin. Morì insieme ai suoi compagni il 3 agosto 1943, uccisa in un bunker durante la liquidazione del ghetto

Cywia Lubetkin (1914-1978) - Attivista del Dror, membro e co-fondatore della ZOB. Nel 1943 partecipò alla Rivolta del ghetto. Trascorse gli ultimi giorni della Rivolta nel bunker di via Mila 18. Il 10 maggio 1943 riuscì a passare attraverso la rete fognaria sul cosiddetto lato ariano. Ha combattuto anche nella rivolta della città di Varsavia contro i nazisti. Sposò Icchak Cukierman e con lui fondò nel 1946 il kibbutz dei Combattenti del Ghetto.  

Tosia Altman (1919-1943) - Una delle leader del movimento scoutistico socialista dell’Hashomer Hatzair. Grazie al suo aspetto e alla padronanza della lingua tedesca riuscì a viaggiare più volte all’esterno del ghetto per raccogliere informazioni sui crimini nazisti contro gli ebrei. Inviava così dei report cifrati in Svizzera, in Austria e nel Mandato Britannico di Palestina, diventando un simbolo. Dopo le prime deportazioni da Varsavia, organizzò un gruppo di ragazze deputate all’approvvigionamento delle armi nella parte ariana della città. Partecipò attivamente alla Rivolta della primavera del 1943 e, scampata alla distruzione del bunker di via Mila 18, rimase nascosta nella parte ariana. A seguito di un incendio accidentale, si ferì gravemente e venne catturata dai nazisti. Morì il 26 maggio per le ustioni e le torture subite  

Symcha Rotem (1924-2018) - Nella seconda metà del 1942 entrò a far parte della ZOB. Prese parte alla Rivolta del ghetto di Varsavia, guidando l’evacuazione dei ribelli scampati attraverso la rete fognaria. Dopo la guerra emigrò in Palestina e lavorò presso lo Yad Vashem

Il significato della Rivolta del ghetto di Varsavia

«Dobbiamo conquistare almeno due righe di storia sui testi futuri». 

Questo l’auspicio dei ragazzi e delle ragazze che decisero di dare inizio alla Rivolta: «Per capire il significato di quell’atto di resistenza — spiega Andrea Bienati, Docente di Storia e Didattica della Shoah e delle Deportazioni — dobbiamo rifarci alle parole di Marek Edelmann, uno dei comandanti, che disse: “La nostra disperata battaglia era un esempio per gli altri”. Dopo la Grossaktion dell’estate del 1942, davanti all’ineluttabilità del progetto di sterminio, vi fu la scelta dolorosa di impugnare le armi e di ribellarsi, anche per creare una memoria eroica di resistenza. I capi dello ZOB, giovani che avevano già sperimentato altre forme di resistenza (educativa, intellettuale, di conservazione e divulgazione delle memorie quotidiane al di fuori del ghetto), sapevano a cosa sarebbero andati incontro. Il loro esempio nei decenni seguenti fu ricordato come: “Una lotta per la liberazione”. È stato detto da intellettuali polacchi che “si sacrificarono in difesa dei valori e della dignità umana” e che “combatterono per un mondo migliore”».«Quando i tedeschi sono arrivati, abbiamo innescato il detonatore... dopo l’esplosione, sono ripartiti all’assalto in ordine sparso. Questo ci colpiva.

Noi una quarantina, loro un centinaio... si vedeva che ci prendevano sul serio» 

(da un resoconto di Marek Edelman sul 19 aprile, si veda gallery dei protagonisti, ndr)

«Nell’ottobre del ‘43 già negli Stati Uniti, in un testo che parla dei crimini compiuti dai nazisti ai danni degli ebrei (The black book of the Polish Jewry) trovò spazio la Rivolta del ghetto di Varsavia, che era già diventata una storia da tramandare, un mito eroico», aggiunge Bienati.

Il monumento alla Rivolta del ghetto di Varsavia progettato nel 1948 da Natan Rapaport (credit: arch. Bienati)

«Non dobbiamo dimenticare che dopo la Rivolta del ghetto di Varsavia vi furono altre rivolte: nel 1943 — ricorda l’esperto — nei ghetti di Sosnowiecz, Bedzin e Bialystok ad agosto; nei campi di sterminio ad agosto a Treblinka, a ottobre a Sobibor e nel 1944 in ottobre ad Auschwitz-Birkenau. Alcuni dei combattenti sopravvissuti a Varsavia si unirono alle formazioni partigiane esterne al ghetto o mantennero una propria identità e parteciparono, nell’estate del 1944, all’insurrezione della città di Varsavia contro i nazisti».

L’impatto della Rivolta sugli occupanti nazisti

«Quando il 18 gennaio del 1943 i nazisti iniziarono l’operazione di deportazione che avrebbe dovuto portare a un’ulteriore riduzione del ghetto, si trovarono dinanzi a un’iniziale ribellione posta in essere da parte dello ZOB, una “prova generale” per la successiva resistenza. Quest’atto sorprese certo i nazisti, che fino a quel momento si erano abituati operazioni di liquidazione della popolazione del ghetto “gestibili” — osserva il Professore Andrea Bienati —, ma la Rivolta (iniziata poi il 19 aprile per contrastare l’atto finale della deportazione) cambiò tutto. L’impatto nell’opinione dei persecutori fu tale da far nascere l’esigenza della realizzazione del “Rapporto Stroop”: questo fotografare in maniera metodica e commentare ogni fase del combattimento per documentare che non restasse più una persona o un mattone in piedi. Fu chiaramente qualcosa che non si aspettavano.

I nazisti pensavano di avere a che fare con “agnelli” da condurre al massacro poiché le persone erano ingannate dalle parole dei persecutori, provate dalla vita di stenti nel ghetto e dalla paura utilizzata come strumento di controllo. Per questo era stata molto “semplice” la deportazione di massa del ‘42 e le tante deportazioni che c’erano state in tanti altri ghetti. Durante la Rivolta, invece, si trovarono a fronteggiare un piccolo gruppo di combattenti, composto per lo più da giovani, tra i quali anche ragazze, che, pur scarsamente armato, permise a chi restava della popolazione civile di trovare il coraggio di nascondersi o cercare di fuggire».«È impossibile descrivere in che condizioni viviamo nel ghetto. Soltanto pochi potranno sopportare tutto questo. Gli altri prima o poi si troveranno a soccombere.

Il loro destino è segnato.

In quasi tutti i “bunker” nei quali si nascondono i nostri compagni è impossibile accendere una candela per mancanza d’aria» (dall’ultima lettera di Mordechai Anielewitz, si veda gallery dei protagonisti, ndr)Nella foto, il primo monumento eretto il 19 aprile del 1946 in memoria della Rivolta. Ricorda un tombino di accesso ai condotti sotterranei nei quali morirono molti dei combattenti nel tentativo di rifugiarsi nella parte ariana

Cosa significò per la città di Varsavia

«Dobbiamo pensare a che cosa fosse Varsavia in quel periodo — chiarisce lo studioso —: una città occupata, dove la resistenza era forte e i rastrellamenti erano all’ordine del giorno. Vedere i nazisti lottare così strenuamente contro un gruppo di resistenti che partiva di gran lunga svantaggiato all’interno del ghetto ha avuto un impatto notevolissimo. Occorre dire che tutte le componenti della resistenza che operarono in città cercarono di supportare i combattenti, con azioni armate di disturbo nella parte ariana, fornendo supporto logistico, cercando di far entrare armi e provando a creare brecce nel muro del ghetto.

Si potrebbe pensare che la Rivolta fu anche una scintilla che mostrò a tutta la città che ci si sarebbe potuti ribellare ai nazisti, rappresentò quasi un banco di prova dal quale apprendere insegnamenti che sarebbero stati utilizzati nella rivolta di tutta Varsavia contro i tedeschi occupanti che iniziò nell’agosto del 1944».

Il monumento in pietra sul quale viene raccontata la storia dei momenti finali delle vite dei combattenti presso il bunker di via Mila 18. Sovrasta la collinetta fatta con i resti delle case sotto le quali c’era il rifugio segreto (credit: arch. Bienati)

Quale significato ha oggi, 80 anni dopo

«È una pagina di storia dell’umanità, che va ricordata anche per dimostrare che avevano ragione quei ragazzi che scelsero di combattere per conquistare “due righe nei futuri testi di storia” — commenta Andrea Bienati —. La Rivolta ci mostra come l’essere umano, anche all’interno del ghetto, fosse tornato a esistere in spregio alla reificazione posta in essere dai nazisti e come l’uso delle armi sia stato considerato l’ultima scelta di resistenza possibile davanti a ciò che oramai era inevitabile. È stato l’ultimo atto per cercare di tornare a esistere di fronte al male. Una rivolta fatta soprattutto da giovani ragazzi e ragazze di ogni ceto sociale, che scelsero di diventare un esempio per le future generazioni, insegnando a lottare per gli ideali di giustizia, dignità e vita.

La Rivolta è ora parte della memoria della città e il monumento ad essa dedicato, progettato da Rapoport, è uno dei cuori della città di Varsavia».

Storia d'assalto. I fuggitivi di Colditz, la prigione fortezza dei nazisti. Un aliante fatto con letti e lenzuola, la fuga in bicicletta fino alla libertà in terre neutrali, i travestimenti degni di un film di Hollywood. Quando in guerra la realtà supera ogni finzione. Davide Bartoccini il 26 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nella bassa Sassonia, cuore della Germania orientale, c'è ancora oggi il castello di Colditz, fortezza in stile rinascimentale eretta sulla pianta di un antico presidio risalente al 1046, al tempo dell'imperatore Enrico III. Antica residenza di caccia degli araldi teutonici, Coldizt troneggia sulla vicina e omonima cittadina. E poiché si era già ben prestata alla funzione di carcere durante la Prima guerra mondiale, venne riportata in auge carcere di massima sicurezza per i prigionieri di guerra Alleati su espresso volere del Reichsmarschall Hermann Göring nella Seconda. La ragione? Una delicata condizione che era venuta a presentarsi richiedeva una struttura all’altezza della situazione.

Sorvegliati "speciali"

C’è un’espressione che troverete familiare: "Mettere tutte le mele marce in un paniere" (da La Grande Fuga, ndr). Si addice particolarmente alla storia di Colditz, che nei rapporti ufficiali verrà segnalato come Oflag IV C. A questo “lager per soli ufficiali” venivano infatti destinati i prigionieri ritenuti più talentuosi e "disinvolti" in tema di evasioni.

In parte ufficiali britannici, in parte ufficiali dell’esercito per la Francia libera, la compagine dei detenuti a Colditz vedeva un contingente di canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, irlandesi e un indiano, per una media di 300 prigionieri, tra chi veniva trasferito, chi andava e chi a malincuore "tornava". Tra gli ospiti del castello che vennero trasferiti dal 1943 in poi - prima erano detenuti solo ufficiali polacchi e francesi - spiccavano nomi come l’asso “senza gambe” Douglas Bader (abbattuto sulla Francia nel 1941), il fondatore dello Special Air Service David Stirling (catturato in Nord Africa nel 1943), quello che ricorderete come il mitico Mister Q della film di 007, Desmond Llewelyn (catturato in Francia nel 1940), il capitano neozelandese insignito di ben due Victoria Cross Charles Upham, il generale polacco Tadeusz Bór-Komorowski, comandante dell'Armia Krajowa e responsabile della rivolta di Varsavia. Assieme a loro era anche i meno noti “Laufen six”, esperti fuggitivi - sempre riacciuffati - originari dello Stalag di Laufen: i capitani Barry, Elliot, Howe, Locwood e Reid, con il solo tenente Allan.

Proprio questi ultimi, insieme a degli inquieti e caparbi francesi, sarebbero stati tra i principali pianificatori di innumerevoli tentativi di fuga dalla fortezza "inespugnabile". Roccaforte circondata da un fossato asciutto, cinta da altissime mura e perennemente tenuta sotto controllo da una guarnigione che, sebbene fosse un misto di reclute e veterani, montava di sentinella su più di una dozzina di torri equipaggiate con delle micidiali mitragliatrici Mg-42 e sorvegliava notte e giorno una perimetro sormontato da rotoli e rotoli di filo spianto.

Tra questi, una particolare "squadra di agenti" era impegnata in attività di spionaggio per sventare tentativi di evasione: questi erano soprannominati i “furetti”, ed eraro perennemente attenti a fiutare ogni avvisaglia di qualsiasi irregolarità che potesse essere collegata a un piano di fuga.

Tuttavia, tutto questo non fu sufficiente a fermare gli ospiti del Reich che, in rispetto dell’ordine di tenere impegnato il nemico con continui tentativi d’invasione, non si risparmiarono né in tentativi, né in fantasia.

Piani di fuga assurdi per geni dell'improvvisazione

Ben coscienti di con chi avessero a che fare, i comandanti la guarnigione tedesca assegnata alla sorveglianza di Colditz imponevano dai tre ai quatto appelli giornalieri per ostacolare ogni pianificazione e verificare per tempo assenze ingiustificate. Sebbene la quantità dei pacchi della Croce Rossa garantisse a questi "geni" dell’evasione una quieta esistenza, lontana dalla guerra che si combatteva sue tre fronti - gli aggiornamenti sul corso del conflitto avvenivano attraverso due radio amatoriali realizzate dal prigioniero francese Frédérick Guiguesy, soprannominate "Arthur 1" e "Arthur 2” - nessuno rinunciò al suo tentativo. E il comitato di fuga del campo avvallò nel corso degli anni numerosi piani che in qualche modo superano anche la finzione cinematografica.

Tra i più ambiziosi spicca infatti l’idea di due piloti della RAF, Bill Goldfinch e Jack Best (catturati entrambi in Grecia nel ’41), che insieme al tenente della Rifle Brigade Tony Rolt (catturato durante la Battaglia di Calais nel '40) e con la supervisione del pilota D. Stephenson (abbattuto su Dunkerque nel '40), costruirono un aliante con assi di legno e lenzuola trafugate dai letti. Lo scopo era quello di tuffarsi dal tetto e tentare di planare al di là del fiume Mulde, dove secondo i calcoli avrebbero toccato terra abbastanza distanti dal castello per procedere nella fuga. Mentre i consueti tunnel - puntualmente scoperti - venivano interdetti dalle guardie, una coppia di ufficiali polacchi, Surmanowicz e Chmiel, tentò di calarsi con una corda fatta di lenzuola da ben 36 metri di altezza per scendere direttamente in testa a una sentinella che forse gli sorrise, forse no, ma senza dubbiò lanciò l’allarme rimandandoli direttamente in cella d’isolamento.

Se ne La Grande Fuga nessuno riuscì ad abbandonare il campo di concentramento nascondendosi in un camion in uscita, il tenente Allan ne fu davvero capace, saltando in mezzo alla paglia e partendo per un incredibile viaggio che gli permise di raggiungere addirittura Vienna, dove cercando di raggiugnere l'ambasciata americana fu ripreso e rispedito direttamente a Colditz, dopo ben 21 giorni di latitanza.

In fondo è vero che “i piani più semplici sono alla fin fine i migliori”. Lo dimostra il tentativo di fuga del tenente francese Alain Le Ray che, studiando la routine delle guardie dopo l’ultimo appello, si nascose in una posizione ben studiata e, scalando un muro, riuscì a raggiungere la Francia non occupata guadagnandosi il primo fuoricampo. Ma sono certamente i piani falliti più assurdi ad attirare maggiormente la stima di chi si imbatterà in questa storia. Come ad esempio il piano di fine giugno del 1944, quando un gruppo di prigionieri inglesi che veniva riportato dentro il perimetro, iniziò a fischiare al passaggio di una signorina tedesca che incedeva frettolosamente con passo incerto in prossimità della fortezza. Attirata l’attenzione delle guardie, uno degli ufficiali inglesi notò come fräulein avesse perduto l'orologio che le doveva essere scivolato. Da vero gentleman lo consegnò ad una delle sentinelle che, raggiungendola in corsa, scoprì come si trattasse del tenente Boulé truccato e vestito da donna.

Altri travestimenti celebri con annessi tentativi di fuga furono quelli del tenente francese Pérodeau, che approfittò di un intervento dell'elettricista del paese per rubargli giacca e capello e dire alla sentinella che aveva dimenticato uno strumento in negozio. Privo di lasciapassare, finì in isolamento come due ufficiali britannici, Airey Neave e Hyde-Thompson, che travestiti da ufficiali tedeschi vennero catturati in breve tempo. Mentre due ufficiali olandesi che avevano tentato lo stesso colpo e parlavano perfettamente il tedesco, Luteijn e Doners, raggiunsero la Svizzera. Pierre Mairesse Lebrun, approfittando del suo fisico d'atleta, saltò il perimetro grazie al muro fatto da un commilitone, scavalcò le recinzioni senza badare al filo spinato e, correndo come una lepre, finì fuori dal tiro delle sentinelle chi gli spararono appresso senza colpirlo. Rubata una bicicletta raggiunse il confine svizzero in otto giorni a tappe forzate.

Indubbiamente comici ma d'infelice epilogo furono invece i tentativi del tenente Mike Sinclair: intrepido imitatore che ebbe la faccia tosta di spacciarsi per il sergente maggiore Fritz Rothenberger, una delle più note sentinelle del campo per via de suoi vistosi baffi. Con altri detenuti al seguito, che dovevano apparire come la squadra che avrebbe montato la guardia, ordinò alle sentinelle di aprire uno dei passaggi e venne addirittura ascoltato. Fu tradito da un lasciapassare scaduto però. Pochi istanti dopo, nell'incredulità di sentinelle e fuggitivi, comparve il vero sergente maggiore Rothenberger che si trovò faccia a faccia con il suo sfortunato sosia. Purtroppo Sinclair perderà la vita in un secondo tentativo di fuga dopo esser stato raggiunto da un colpo di pistola. Divenendo l'unico "caduto di Colditz".

Al termine della guerra..

In tre di anni di detenzione a Colditz, furono 80 i tentativi d'evasione approvati dal comitato di fuga dell'Oflag IV C. Riusciranno nell'intento sette ufficiali britannici, cinque ufficiali francesi, tre olandesi e un belga. Infine, le truppe statunitensi entrarono nella città di Colditz liberando la prigione e i suoi inquieti ospiti che sarebbero passati alla storia come "i fuggitivi di Colditz". Se vi state domandando cosa ne sia stato dell'aliante, soprannominato il Coldtz Cock, è presto detto: non fece in tempo a spiccare il volo dalla soffitta dove era stato assemblato e nascosto, perché la fortezza venne liberata prima di tentare. Ma possiamo dirvi, tuttavia, che 67 anni dopo una copia esatta dell'aliante venne riprodotta e lanciata dal tetto come da programma, con due uomini a bordo. L'aliante atterrò in un prato dall'altra parte del fiume con l'equipaggio felice ed illeso. Dimostrando che quei due "matti" di Goldfinch e Best forse ce l'avrebbero anche fatta. E ricordando quello che ripetiamo spesso su queste colonne: a volte la realtà supera di gran lunga ogni finzione.

Le Resistenti.

Estratto dell’articolo di Gianluca Modolo per “la Repubblica” il 9 maggio 2023.

«Ti vengo a prendere alla stazione, così mangiamo assieme». Puntualissima, a mezzogiorno, Lee Yong-soo si presenta con uno splendido hanbok grigio perla con fiorellini ricamati, appoggiata al suo bastone. «Dammi la mano, cerchiamo un posto che faccia buona cucina coreana». 

Davanti ad un piatto di bulgogi la 94enne “Nonna Lee”, come tutti qui a Daegu la chiamano, inizia a trovare le parole per raccontare la sua storia, terribile e straordinaria. È una delle nove sopravvissute (l’unica ancora in grado di parlare) delle “donne di conforto” coreane. Termine orribile. Sarebbe più giusto chiamarle schiave.

Quelle decine di migliaia di ragazze rapite e costrette a prostituirsi nei bordelli per soddisfare le truppe imperiali nipponiche durante gli anni dell’occupazione della Corea, dal 1910 al 1945. «Da più di trent’anni, da quando per la prima volta decisi di parlare dopo la paura e la vergogna che mi avevano bloccata, chiedo solo una cosa al Giappone: scuse, sincere. Le sto ancora aspettando. Ma non mi arrendo». 

Gesticola continuamente Lee, la voce ogni tanto trema e prova a trattenere le lacrime. «Quando mi rapirono ero soltanto una bambina, avevo 14 anni». È una donna con una forza incredibile. «Ho incontrato Papa Francesco qualche anno fa: mi regalò un rosario che custodisco gelosamente», racconta mentre ci spostiamo nella sala da tè di un amico vicino casa sua. Ha testimoniato davanti al Congresso Usa.

Ha viaggiato per l’Asia per raccogliere le testimonianze di altre donne come lei - filippine, cinesi, indonesiane - schiave in quelle “stazioni di conforto” militari in tutto il Pacifico: gli storici stimano che siano state tra le 30mila e le 200mila. […] 

«La mia famiglia aveva un piccolo terreno, coltivavamo riso, ma gli occupanti giapponesi si portavano via tutto. Una sera di ottobre del 1943 portarono via anche me. Dormivo sempre con mia madre, ma quel giorno lei non c’era. Sentii un rumore, fuori dalla finestra vidi una ragazza che mi faceva il gesto di uscire e raggiungerla. 

Pensavo volesse giocare. Mi mise una mano sulla spalla e l’altra sulla bocca, a quel punto arrivò un militare che mi puntò un’arma dietro la schiena e mi disse di iniziare a camminare.  […] un soldato iniziò a picchiarmi, in testa: quei colpi li sento ancora oggi. Mi prese a calci, mi chiamava ‘feccia coreana’. Non era un gioco, ma ancora non capivo». […]

«Non avevo idea di dove fossi o di cosa ci fosse fuori». Dentro, 5 stanze: la prima volta che le dissero di entrare in una di queste dove la aspettava un ufficiale lei rifiutò. «Mi portarono allora in un magazzino, mi fecero sedere su una sedia e mi legarono i polsi: torturata con delle scosse elettriche. Per diversi giorni rimasi incosciente, mi risvegliai con delle cicatrici. Ho ancora gli incubi». 

Ricorda di come le altre ragazze all’inizio cercarono di proteggerla: «Ero la più giovane e quando i soldati mi picchiavano le altre mi suggerivano di fingermi morta. Un giorno persi tanto sangue, avevo avuto un aborto». […]

Ci resta tre anni Lee in quella base. A guerra ormai finita, nel 1946 riesce ad imbarcarsi di nuovo per la Corea. «Arrivai al porto di Busan con altre ragazze: appena scese ci spruzzarono addosso il Ddt». A casa, in famiglia, non riesce a raccontare quello che le era successo: pudore, vergogna. Non si è mai sposata. «Se mi chiedi i dettagli di quello che eravamo costrette a fare, scordatelo. Neanche ora, dopo 80 anni, certe parole riescono a dirle».  […] 

Chiede scuse sincere. Scuse arrivate da Tokyo nel 2015, con un accordo da 1 miliardo di yen (6,5 milioni di euro) per le vittime. Fondo poi abolito dalla Corea perché ritenuto insufficiente. Quell’intesa, raggiunta dai ministri degli Esteri dei due Paesi tra cui Fumio Kishida, attuale premier giapponese, in visita domenica e lunedì proprio in Corea - non ha risolto la questione in modo «definitivo e irreversibile».  […]

 Sopravvissute. Le storie volutamente dimenticate delle donne ebree nella resistenza. Judy Batalion su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

Lo scenario politico del Dopoguerra e i traumi di chi era scampata all’orrore hanno limitato la diffusione di alcuni racconti sull’Olocausto. In “Figlie della resistenza” (Mondadori) Judy Batalion analizza le cause di questo oblio

Sono molti i motivi per i quali le vicende delle donne ebree nella resistenza sono passate sotto silenzio. La maggioranza delle combattenti e delle staffette sono state uccise – Tosia, Frumka, Hantze, Rivka, Leah, Lonka – e non hanno potuto raccontare la propria storia. Ma anche quando sono sopravvissute, i racconti delle donne sono stati messi a tacere per ragioni sia politiche sia personali che differiscono da un paese all’altro e da una comunità all’altra. La politica dei primi anni in cui Israele diventava una nazione influì sulla diffusione delle storie relative all’Olocausto.

Quando i sopravvissuti giunsero nell’Yishuv (l’insediamento ebraico in Palestina) a metà e sul finire degli anni Quaranta del Novecento, i racconti dei combattenti del ghetto facevano presa sui partiti politici di sinistra non soltanto perché le attività antinaziste erano più gradevoli della rievocazione delle orrende torture subite dagli ebrei, ma perché quelle storie di battaglie favorivano l’immagine del partito e l’appello a combattere per un nuovo paese. Come a Renia, a diverse combattenti del ghetto furono offerte tribune da dove parlare – e lo fecero prolificamente – ma, a volte, le loro parole venivano conformate alle direttive del partito.

Alcuni sopravvissuti accusavano l’Yishuv di passività e di scarso sostegno agli ebrei in Polonia. Fu allora che Hannah Senesh divenne un’icona. Benché non avesse mai portato a termine la sua missione, se non per aver risollevato il morale, il fatto che avesse lasciato la Palestina per andare a combattere in Ungheria dimostrava che l’Yishuv aveva avuto un ruolo attivo nell’aiutare gli ebrei europei. Subito dopo, spiegano gli studiosi, i primi politici israeliani cercarono di creare una dicotomia tra ebrei europei ed ebrei israeliani. Gli europei, dicevano gli israeliani, erano fisicamente deboli, ingenui e passivi. Alcuni sabra, o nativi d’Israele, chiamavano i nuovi arrivati «saponette», dalla voce che i nazisti facessero il sapone con i corpi degli ebrei assassinati. Gli ebrei israeliani, viceversa, si consideravano la forte ondata successiva.

Israele era il futuro; l’Europa, che per più di un millennio era stata una culla della civiltà ebraica, era il passato. Il ricordo dei combattenti della resistenza – gli ebrei d’Europa che erano tutt’altro che deboli – fu cancellato per rafforzare lo stereotipo negativo. Le vicende della resistenza caddero sempre più nell’oblio. Un decennio dopo la guerra, la gente era pronta a sentir parlare dei campi di concentramento e fu il trauma ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Negli anni Settanta, lo scenario politico cambiò e i racconti di singoli ribelli furono sostituiti dalle storie di «resistenza quotidiana».

[…]

Negli Stati Uniti è un’altra storia. L’idea che circola è che gli ebrei americani non discussero l’Olocausto negli anni Quaranta e Cinquanta presumibilmente per paura e senso di colpa e perché si stavano facendo una vita in provincia e volevano inserirsi nei loro quartieri popolati da borghesi non ebrei. Ma come dimostra Hasia Diner nel suo innovativo libro “We Remember with Reverence and Love: American Jews and the Myth of Silence After the Holocaust, 1945-1962”, questa spiegazione è infondata.

Semmai, nel dopoguerra gli scritti e le discussioni sull’Olocausto proliferarono. Un leader ebreo si preoccupava che l’attenzione sulla guerra fosse troppa, citando a esempio perfino il libro di Renia. Come fa notare Diner, gli ebrei americani – nella loro nuova identità di maggiore comunità ebraica del mondo – s’interrogarono su come parlare del genocidio, non sull’opportunità di farlo. Col tempo le storie cambiarono. Nechama Tec, autrice di “Resistance: Jews and Christians Who Defied the Nazi Terror e di Defiance. Gli ebrei che sfidarono Hitler” (da cui è stato tratto il film “Defiance – I giorni del coraggio”), sostiene che nel mondo accademico americano dei primi anni Sessanta c’era la tendenza a sposare la tesi della remissività degli ebrei e perfino a dare la colpa alle vittime. Questo «mito della passività», incoraggiato in parte dalla filosofa politica Hannah Arendt, non era obiettivo né suffragato dai fatti. Diner afferma che alla fine degli anni Sessanta la comunità ebraica americana era ormai consolidata e nota a tutti; un’esplosione di pubblicazioni successive sull’Olocausto aveva sepolto le opere precedenti, ed è forse per questo che il libro di Renia è scomparso dalla memoria collettiva. Perfino oggi, proporre questo materiale negli Stati Uniti presenta complicazioni etiche. Scrivere delle combattenti potrebbe dare l’impressione che l’Olocausto non sia stato poi «così terribile», una cosa rischiosa in un contesto in cui si sta perdendo il ricordo del genocidio.

Molti scrittori temono che glorificare chi resistette concentri troppo l’attenzione sulla capacità di agire, implicando che la sopravvivenza non dipese soltanto dalla fortuna, giudicando negativamente coloro che non imbracciarono le armi e, in fondo, biasimando le vittime. Inoltre, questa è una storia che rende obsoleto il tropo vittima-aggressore e svela sottili complessità, mettendo in primo piano il profondo disaccordo in seno alla comunità ebraica circa il modo di confrontarsi con l’occupazione nazista. Il racconto include inevitabilmente i collaborazionisti ebrei e i ribelli ebrei che rubarono denaro per comprare armi: un’etica traballante a ogni piè sospinto. La rabbia e la retorica violenta contenute in queste memorie di donne ebree lasciano interdetti. E così pure il fatto che molte di quelle combattenti per la resistenza fossero borghesi e urbane, più moderne e sofisticate, più «simili a noi» di quanto faccia comodo pensare. Tutti questi fattori dissuadono da una discussione. E poi c’è il genere. Di solito le donne scompaiono dalle storie nelle quali svolsero ruoli chiave, le loro vicende cancellate dalla Storia. Anche in questo caso, il silenzio è calato soprattutto sulle storie delle donne. Secondo il figlio di Chajka Klinger, lo studioso dell’Olocausto Avihu Ronen, ciò è dovuto in parte al ruolo delle donne nel movimento giovanile. In genere le donne erano quelle a cui veniva ordinato di fuggire con «la missione di raccontare». Dovevano documentare e divenire storiche di prima mano.

Molte delle cronache iniziali della resistenza furono scritte da donne. Come autrici, sostiene Ronen, riferirono le attività altrui – di solito degli uomini – anziché le proprie. Le loro esperienze personali finirono in secondo piano. Lenore Weitzman, autrice di studi fondamentali sulle donne e sull’Olocausto, spiega che, subito dopo la pubblicazione delle opere di queste donne, le storie principali furono scritte da uomini, i quali si concentrarono sugli uomini e non sulle staffette, che per prime minimizzarono la propria attività. Weitzman suggerisce che soltanto il combattimento fisico – che era organizzato e sotto gli occhi di tutti – fosse tenuto in grande considerazione, mentre altri compiti sotto copertura erano reputati banali. (Se anche così fosse, molte ebree combatterono nella rivolta e impugnarono le armi, e non dovrebbero scomparire nemmeno da quel racconto.) Anche quando le donne cercarono di raccontare le proprie storie, spesso vennero deliberatamente messe a tacere. Gli scritti di alcune sono stati censurati per convenienza politica, altre si sono trovate di fronte a una palese indifferenza e altre ancora sono state trattate con incredulità, accusate di essersi inventate tutto.

Dopo la liberazione, un reporter dell’esercito americano avvertì le partigiane Fruma e Motke Berger, del gruppo Bielski, di non ripetere la loro storia perché la gente le avrebbe prese per bugiarde o pazze. Molte donne furono schernite e rimproverate dai parenti di essere fuggite a combattere anziché rimanere a occuparsi dei genitori; altre furono accusate di «aver usato il letto per salvarsi». Le donne si sentirono giudicate in base alla persistente convinzione che, mentre i puri morivano, gli sleali sopravvivevano. E così, quando i loro vulnerabili sfoghi non erano accolti con empatia o comprensione, spesso le donne si ritiravano in se stesse e reprimevano le proprie esperienze, ricacciandole ben sotto la superficie.

E poi c’erano le strategie di adattamento. Erano le donne stesse a imporsi il silenzio. Molte avvertivano il «dovere sacro» e d’«importanza universale» di crescere una nuova generazione di ebrei e tennero per sé il proprio passato nel desiderio disperato di dare ai figli – e a se stesse – una vita «normale». Molte di quelle donne avevano circa venticinque anni quando la guerra finì; avevano tutta la vita davanti e dovevano trovare modi per andare oltre. Non tutte volevano essere «sopravvissute professioniste».

Gli stessi famigliari le invitavano al silenzio, preoccupati che affrontare i loro ricordi potesse essere troppo difficile, che incidere vecchie ferite le avrebbe annientate. Molte donne soffrivano dell’opprimente senso di colpa del sopravvissuto. Quando la staffetta di Białystok Chasia si sentì pronta a condividere il suo passato di furti d’armi e sabotaggi, gli ebrei si stavano ormai aprendo in merito alle loro esperienze nei campi di concentramento.

In confronto a quelle traversie, lei «aveva avuto vita facile». Il suo racconto apparve troppo «egoista». Altri hanno parlato della gerarchia della sofferenza nella comunità dei sopravvissuti. Una volta, il figlio di Fruma Berger si era sentito evitato a un evento per le seconde generazioni perché i suoi genitori erano stati partigiani. Alcuni combattenti e le loro famiglie si erano sentiti respinti dalle coese comunità di sopravvissuti, e si erano allontanati. E poi c’erano i tropi narrativi prevalenti sulle donne nel corso dei decenni. Hannah Senesh può essere stata un buon modello di ruolo perché dimostrava il coinvolgimento dell’Yishuv, ma gli studiosi dicono che divenne più famosa della sua compagna paracadutista Haviva Reich – che aveva convinto un pilota americano a consentirle di lanciarsi in segreto in Slovacchia, dove organizzò vitto e alloggio per migliaia di profughi, salvò militari alleati e aiutò bambini a fuggire – perché era una poetessa giovane, bella, nubile e ricca. Haviva, invece, era una divorziata bruna e sulla trentina, dal passato sentimentale con luci e ombre. Per gli ebrei nordamericani tutto ciò è storia passata, eppure la posta in gioco è alta. In Polonia, dove la gente risente ancora di anni di dominio sovietico, la collaborazione delle donne con l’Armata rossa assume un significato diverso.

Di recente il Senato polacco ha approvato una legge (poi emendata) che stabiliva che la Polonia non poteva essere accusata di nessun crimine commesso durante l’Olocausto. Oggi nel paese il ricordo della resistenza di Varsavia gode di un’enorme popolarità e la kotwica, il suo simbolo a forma di àncora, è inciso sugli edifici. Aver avuto in famiglia un combattente dell’Esercito nazionale è motivo di prestigio. La narrazione è tuttora in fieri, la resistenza e il suo ruolo sono esili. Il modo in cui la guerra è presentata – a se stessi e al mondo esterno – può spiegare chi si è, perché si agisce in un dato modo.

Copyright © 2020 by Judy Batalion © 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency.

Le Spie.

Nancy Wake, il "topo bianco" più temuto dai nazisti. Fu la spia britannica più ricercata durante la Seconda Guerra Mondiale, ma riuscì sempre a sfuggire ai nazisti. The White Mouse, come venne chiamata, guidò la Resistenza francese e salvò centinaia di uomini. Francesca Bernasconi il 23 agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi era Nancy Wake?

 Il “topo bianco”

 La fine della guerra

Giornalista, infermiera e poi agente segreto e spia britannica. Durante la Seconda Guerra Mondiale si schierò in prima linea contro i tedeschi, diventando una risorsa fondamentale per gli Alleati. È la storia di Nancy Wake, soprannominata “White Mouse”, “topo bianco”, per la sua straordinaria capacità di sfuggire alla Gestapo, che non riuscì mai a catturarla. Una donna determinata che non si fermò mai davanti a niente, pur di combattere il nazismo e restituire la libertà ai popoli invasi: “Mentre ero una spia - disse poi - pensavo che non mi sarebbe importato di morire. Senza libertà non c’era motivo di vivere”.

Chi era Nancy Wake?

Nancy, la più piccola di sei figli, nacque il 30 agosto 1912 a Wellington, in Nuova Zelanda. Due anni più tardi, la famiglia si trasferì a Sydney, in Australia, ma poco tempo dopo il padre tornò in Nuova Zelanda, lasciando soli moglie e figli. La Wake lavorò inizialmente come infermiera, dopo aver lasciato la casa della madre a 16 anni e, grazie a una somma ricevuta da una zia all’età di vent’anni, lasciò l’Australia e iniziò a viaggiare. A New York si formò come giornalista, spostandosi poi a vivere a Parigi, lavorando come reporter freelance. In Francia conobbe l’industriale Henri Fiocca, che divenne suo marito e con il quale si stabilì a Marsiglia alla fine degli anni Trenta. In Europa, proprio in quel periodo stavano covando le mire e le tensioni che avrebbero portato allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nancy Wake assistette all’ascesa del nazismo e alle crescenti violenze cui vennero sottoposte la popolazione ebrea e le altre minoranze. Il New York Times sostenne che la Wake raccontò di aver subito in quel periodo una “metamorfosi personale”, scatenata da una visita a Vienna negli anni Trenta. In quell’occasione infatti, la giornalista vide con i propri occhi le violenze dei nazisti, che malmenavano le persone ebree per le strade. Così promise a sé stessa che avrebbe “fatto tutto il possibile” per combattere l’odio scatenato dai nazisti: “Il mio odio per loro era molto, molto profondo”.

L’occasione per combattere il potere nazista le si presentò di lì a poco, quando la Germania invase la Francia. Nancy Wake iniziò infatti a collaborare con i gruppi della Resistenza locale, nascondendo chi aveva bisogno di copertura, corrompendo le guardie carcerarie per liberare i prigionieri e trasportando materiale tra gli oppositori. Le fu attribuito il merito di aver salvato centinaia di aviatori alleati abbattuti, scortandoli e facendoli uscire dalla Francia.

Dopo la caduta della Francia ed essendo diventata una seria minaccia per i tedeschi, che la cercavano in tutto il territorio, decise di fuggire in Gran Bretagna. Il marito, che non andò con lei, venne successivamente raggiunto dalla Gestapo, torturato per indurlo a rivelare il nascondiglio della moglie e infine ucciso. Nancy Wake non seppe nulla circa il destino di suo marito fino a dopo la guerra, quando le venne rivelata la sua morte.

Il “topo bianco”

I vari tentativi di cattura da parte della polizia nazista andarono in fumo. La capacità a darsi alla fuga senza farsi arrestare dalla Gestapo le valsero il soprannome di “topo bianco”. In poco tempo Nancy Wake divenne la donna più ricercata dai nazisti, che misero addirittura una taglia sulla sua testa.

Nel frattempo, “The White Mouse” era arrivata in Inghilterra, dove iniziò l’addestramento del British Special Operations Executive (Soe), l’intelligence britannica alleata della Resistenza francese. Nell’aprile del 1944, all’età di 31 anni, Nancy venne paracadutata in Francia, insieme ad altre 38 donne e 430 uomini, che avrebbero aiutato gli Alleati in prospettiva del D-Day, lo Sbarco in Normandia che avrebbe aperto un altro fronte europeo per l’attacco alla Germania nazista. La Wake arrivò in Alvernia, dove aiutò l’esercito britannico a stabilire linee di comunicazione con i maquisard, i locali combattenti partigiani, un’azione che si rivelò fondamentale, perché aveva lo scopo di distrarre e indebolire l’esercito tedesco in Francia, prima dello Sbarco degli Alleati.

L’agente “White Mouse” recuperò munizioni e armi lanciate in notturna con i paracadute, li nascose in depositi al riparo dai nazisti e pronti per l’esercito britannico, stabilì comunicazioni fondamentali con la Gran Bretagna. Una volta dovette affrontare uno scontro con i tedeschi, durante il quale la radio e i codici vennero compromessi e persi. Questo avrebbe significato l’interruzione delle comunicazioni con Londra. Per ripristinare la linea Nancy Wake percorse in bicicletta centinaia di chilometri, attraversando diversi checkpoint tedeschi per informare gli inglesi sulla perdita della comunicazione. Durante la guerra, l’agente britannica guidò una forza di migliaia di uomini della Resistenza francese di Alvernia, che riuscirono a dare del filo da torcere alle truppe tedesche.

"Senza le donne non va niente": la rivoluzione in teatro di Eleonora Duse

La fine della guerra

Dopo la liberazione della Francia, Nancy Wake seppe della morte del marito: “Mi sono sempre sentita responsabile della sua morte - disse la Wake nel 2002, come riporta The Australian - L'hanno torturato. E suo padre gli ha detto: 'Ti rilasceranno se dirai loro dov'è andata Nancy'. E lui ha detto: 'Papà, laisse-moi tranquille' (n.d.r. ‘Papà, lasciami in pace’)”. Poco dopo venne ucciso. Alla spia più ricercata dai nazisti venne attribuito il merito di aver salvato la vita a centinaia di soldati e quando la guerra finì Nancy Wake ricevette molti riconoscimenti da diversi Paesi del Mondo: tra le altre, venne insignita anche della George Medal britannica, della United State Medal of Freedom e tre volte della Croix de Guerre.

“The White Mouse” lavorò come agente segreto per il Ministero britannico dell’Aeronautica, nelle ambasciate di Parigi e di Praga. Nel 1957 sposò un pilota in pensione della Royal Air Force. La spia che tutti i nazisti avrebbero voluto catturare e uccidere non venne mai identificata. Morì a Londra, il 7 agosto del 2011.

Estratto dell’articolo di Gianluca Mercuri per corriere.it il 2 luglio 2023. 

C’erano due tipi di nazisti, nei tredici anni di Terzo Reich e durante la guerra: i volenterosi carnefici del regime — la massa enorme di burocrati che mandavano avanti la macchina totalitaria con la diligente apposizione di firme e timbri, […] e i professionisti dello sterminio e delle operazioni speciali. Questa seconda categoria, dopo la guerra, si differenziò in alcuni sottogruppi le cui vicende hanno continuato a segnare la storia ovunque: nella contrapposizione tra blocchi, nei conflitti mediorentali, nell’evoluzione a destra del Sudamerica.

Questa massa di nazisti vip sopravvissuti alle punizioni postbelliche si divise a seconda delle inclinazioni ideologiche prevalenti o della tendenza al pragmatismo. Alcuni abbandonarono la lotta al comunismo ma conservarono l’attitudine antidemocratica e antisemita, e fu in questo gruppo che pescarono i sovietici. Altri, tra i quali l’anticomunismo prevaleva sui sentimenti antidemocratici e antisemiti, si arruolarono invece con gli americani. Altri ancora mantennero l’odio antiebraico come ossessione principale, e si schierarono con la parte di mondo che si ribellava al colonialismo dei vecchi nemici della Germania, e in particolare col mondo arabo che aveva appena avviato il conflitto con Israele.

Di loro si occupa uno storico israeliano di 41 anni, Danny Orbach […] nel libro Fugitives: A History of Nazi Mercenaries during the Cold War, uscito l’anno scorso per Pegasus Books, e appena pubblicato nella traduzione in ebraico. Orbach — che un paio di anni fa si è visto recapitare a casa un pacco del Mossad con i file desecretati […] — si sofferma però soprattutto su un gruppo particolare. 

 Ovvero quelli, […]  che continuavano a «odiare tutti» e, nella loro apparente neutralità, «istigavano le parti coinvolte nella Guerra Fredda — americani, tedeschi, russi, arabi, persino israeliani — con l’obiettivo di arricchirsi il più possibile senza impegnarsi in nessuna di esse».  

[…]

Chi sfuggì al paradosso letale di essere sia un agente del Mossad sia nella sua lista di obiettivi fu un nome che è entrato — dalla parte sbagliata — nella parte più affascinante della storia: la leggenda. La figura di Otto Skorzeny è scolpita nella vicenda italiana come una maledizione: se l’ufficiale delle Waffen-SS non fosse riuscito a liberare Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, nel settembre 1943, forse non avremmo avuto Salò.  

D’altronde, era l’agente scelto di Hitler per le missioni più spericolate […] Non è un caso, insomma, se Skorzeny fu definito per anni dai servizi americani e inglesi «l’uomo più pericoloso d’Europa», data la sua capacità di sopravvivere a tutto: i processi postbellici — in cui fu misteriosamente perseguito solo per l’uso di uniformi nemiche — come l’inevitabile caccia degli israeliani. Caccia dal doppio risvolto.

Che Skorzeny fu un agente assai operativo del Mossad, è stato rivelato sette anni fa dai giornalisti Dan Raviv e Yossi Melman in un articolo sul giornale The Forward, ma le loro fonti restarono anonime. Ora Orbach, nei suoi documenti, ha ricevuto la conferma ufficiale dell’intelligence israeliana.

Dopo la guerra Skorzeny fu per anni trafficante d’armi e mercenario «costantemente alla ricerca di avventure per superare la noia», scrive lo storico. Aiutò sia i siriani, reclutando consiglieri militari, sia gli egiziani, facendo affari con consulenti tedeschi del programma missilistico del Cairo. Per questo il Mossad oscillò a lungo tra l’ammazzarlo e l’arruolarlo: stava da sempre coi nemici ma era una delle migliori spie del mondo e sapeva tantissime cose. 

Non a caso, a farlo cadere nella rete, nel 1962, fu Rafi Meidan, ex comandante dell’Amal, l’unità di caccia ai nazisti del servizio segreto israeliano. A Madrid, dove l’ex ufficiale viennese si era stabilito, Meidan si tolse lo sfizio di diventare amante di sua moglie Ilse: fu lei a presentarlo al marito, col quale, svela il rapporto del Mossad, aveva una «relazione aperta»,.  

Skorzeny fu poi «assunto» da Avraham Ahituv, futuro direttore dello Shin Bet. Una volta capito che gli israeliani non volevano eliminarlo, l’ex SS chiese loro una polizza sulla vita definitiva: essere cancellato dalla lista di ricercati del cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal. Gli israeliani fecero finta di accontentarlo, ma è un dato di fatto che Skorzeny morì di cancro nella capitale spagnola, nel 1975.

Prima però, per Israele, fece qualcosa di clamoroso. Come spesso gli capitava era settembre, stavolta 1962, 19 anni dopo il blitz sul Gran Sasso. Heinz Krug, uno scienziato tedesco che lavorava a Monaco di Baviera, era stato vent’anni prima tra gli inventori dei missili che avevano quasi messo in ginocchio l’Inghilterra. 

Ora era pagato dagli egiziani per rendere lo stesso servizio a Israele, e per questo era finito in cima alla lista del Mossad. Lui lo sapeva, si sentiva in pericolo, ma non pensava che il pericolo potesse arrivare da Skorzeny quando andò a incontrarlo. Era stato lui stesso a chiederglielo, convinto che quell’uomo leggendario avrebbe protetto lui e altri scienziati tedeschi nella sua situazione.

Skorzeny salì sulla Mercedes bianca di Krug e gli disse di andare nella foresta per parlare in modo riservato. La macchina che li seguiva, lo assicurò, aveva a bordo tre sue guardie del corpo. Arrivati nella foresta, Otto Skorzeny uccise Heinz Krug e i tre agenti israeliani che lo accompagnavano sciolsero il suo corpo nell’acido per impedire ai cani di trovarlo. 

Alla fine, fu l’atto di guerra perfetto: difensivo ma pure punitivo, e fatto compiere da un nemico. 

Le vie del Mossad sono infinite ed è la spiegazione del suo fascino, terribile e inesorabile.

I commando di Hitler dietro le linee nemiche. Storia di Davide Bartoccini su Il Giornale l'11 maggio 2023.

Nell'estate del 1942, mentre l’invasione dell'Unione Sovietica da parte dei nazisti procedeva lungo il fronte aperto dall'Operazione Barbarossa, una particolare e poco nota unità con “talenti speciali” alle dipendenze dell’Abwehr, i servizi segreti tedeschi, mise a segno una delle più audaci missioni di guerra della storia. Stiamo parlando del primo distaccamento del reggimento "Brandenburg", i commando di Adolf Hitler che operarono per tutta la durata del conflitto dietro le linee nemiche. Lo fecero avvalendosi dell'inganno, delle false identità e della completa padronanza delle lingue straniere, ma soprattutto del travestimento, che prevedeva l'uso spregiudicato di uniformi e insegne nemiche.

Celando il simbolo divisionale che esibiva una maschera da teatro e un pugnale - al tempo della Sonderverbänd 800 un pugnale avvolto da un punto interrogativo - i “brandeburghesi” si infiltrarono all'interno del territorio sovietico con indosso uniformi dello NKVD, la temuta polizia segreta di Stalin. Questo artifizio bastò da garanzia per superare ogni posto di blocco, dalla linea del fronte all'obiettivo, ovvero le importanti strutture petrolifere del settore di Majkop, da catturare e consegnare intatte alla Wehrmacht che avanzava su panzer assetati di carburante.

Il colpo di mano fece estremo affidamento sul timore che la popolazione e gli stessi soldati dell'Armata Rossa nutrivano per la polizia segreta. Per tale ragione, un raggruppamento di 62 uomini della Brandeburg comandati da Adrian von Fölkersam, si procurò uniformi e camion da trasporto Zis-6 con insegne della NKVD per raggiungere il sito petrolifere con la copertura di alcuni disertori che erano stati "catturati" per completare la messa in scena.

Una volta raggiunta Majkop e spiate le sue difese, i finti agenti della polizia segreta sabotarono il centro radio in modo da tagliare ogni tipo di comunicazione con il comando sovietico, e persuasero i difensori ad abbandonare le strutture petrolifere per salvarsi di un bombardamento imminente che avrebbe probabilmente distrutto tutto. Così facendo consentirono alla Wehrmacht di occupare il sito intatto e con il suo tesoro di greggio, senza sparare un solo unico colpo. Contestualmente, una seconda operazione condotta dal tenente Ernst Prohaska finse una ritirata precipitosa dei sovietici per superare il ponte di Bjelaja. Questo consentì al commando della Brandenburg di impedire alla piccola guarnigione di far saltare le cariche esplosive che lo avrebbero polverizzato per frenare l'avanzata tedesca, consegnando alla Wehrmacht un passaggio sicuro oltre il fiume.

Lo stesso anno i diversi distaccamenti della Brandeburg, che inquadrerà anche un reggimento paracadutisti e uno dotato di piccoli motoscafi per missioni sotto costa analoghe a quelle dello Special Boat Service britannico, prenderanno parte a numerose operazioni. I "Küstenjäger", i "cacciatori costieri", daranno la caccia al naviglio sovietico nel Mar d'Avoz e disturberanno gli alleati nel Dodecaneso. I paracadutisti verranno inviati in Tunisia e Libia per dare manforte alle divisioni di Erwin Rommel. In Jugoslavia saranno condotte operazioni contro i partigiani. Mentre una particolare sezione si spingerà fino all'India.

Specialisti del sabotaggio agli ordini di Canaris

L'origine delle sub-unità che verranno inquadrate nella Brandenburg risale al 1939. Il capitano Theodore von Hippel, affascinato dalle azioni di guerriglia condotte dal generale Paul von Lettow-Vorbeck durante le campagne dell’Africa orientale e non meno dai sabotaggi messi a segno dal famigerato colonnello T. E. Lawrence in Medio Oriente durante la prima guerra mondiale, suggerì all’alto comando di Berlino la creazione di unità d’élite appositamente addestrate per condurre ricognizioni e azioni dietro le linee nemiche. Lo scopo era quello di potere individuare, ottenere o distruggere obiettivi d’importanza strategica prima che avessero inizio le operazioni principali su più vasta scala.

L’alto comando della Wehrmacht, visionario per quanto riguarderà le tattiche della Blitzkrieg ma estremamente tradizionalista su altri piani, declinò il consiglio, che, invece, avrebbe trovato il favore dell'Abwehr, il servizio di intelligence affidato all’ammiraglio Wilhelm Canaris. Quest’ultimo accolse con entusiasmo le idee di von Hippel affidandogli il compito di creare la prima unità di quelli che sarebbero diventato noti come i “brandeburghesi” - nome dovuto all'addestrarono ricevuto presso la caserma di Brandenburg-am-Havel, nell'omonima provincia prussiana.

Essa sarebbe stata inquadrata nella seconda sezione dell’Abwehr, essendo la prima adibita allo spionaggio, la seconda sezione al sabotaggio, e la terza sezione alle attività di controspionaggio. Il primo battaglione di "specialisti" verrà addestrato al sabotaggio, all'infiltrazione e alla cattura o distruzione di obiettivi strategici quali ponti, incroci, snodi ferroviari e via dicendo, ricevendo il battesimo del fuoco in Pomerania.

Un approccio "differente" alla guerra

Le reclute della Brandenburg, insieme ai primi sabotatori formati da von Hippel nel battaglione Ebbinghaus che aveva preso parte all'invasione della Polonia, venivano selezionate - oltre che alla loro essenziali qualità di combattenti - in base alla conoscenza di altre lingue e degli usi e costumi di altre culture o etnie, in modo da potersi infiltrare come agenti segreti e confondersi con la popolazione. Venivano ricercate essenzialmente nel Volksdeutsche europeo, con particolare attenzione a chi proveniva dal vecchio Impero austroungarico, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, dagli Stati baltici, e ovviamente dall'Unione Sovietica, Belgio, Paesi Bassi e Danimarca: tutti stati che il Reich avrebbe invaso nella prima fase del conflitto. Suddivisi in quattro sezioni, una scelta simile se non uguale a quella effettuata dal SOE inglese, lo Special Operation Executive che avrebbe condotto i suoi sabotaggi nell'Europa occupata, era prevista anche una sezione anglofona, pescando nei tedeschi che avevano abitato in Inghilterra, in America e in Africa e avevano risposto alla "chiamata" di Hitler per ritornare in Germania.

La prima operazione degna di nota dei brandenburghesi verrà registrata nel 1940 durante l'invasione dei Paesi Bassi, quando catturano intatto il ponte sulla Mosa di Gennep permettendo ai panzer di attraversarlo in gran fretta. Azione simile a quella che il battaglione Ebbinghaus aveva compiuto nel '39 con i ponti sulla Vistola. Nelle campagne in Danimarca e Norvegia condurranno le prime incursioni su alianti, mentre nel giugno 1941 viene un raid alla raffineria di petrolio di Abadan in Iran manderà in fumo ingenti risorse Alleate.

Agli ordini di Skorzeny e delle SS

I sabotatori della Brandenburg proseguirono le loro azioni e i loro sotterfugi su ogni fronte attivo e dietro tutte le linee nemiche fino alla fine del 1943, quando l'Abwehr di Canaris iniziò a perdere gradualmente la fiducia e il favore di Hitler, che ormai si apprestava a perdere la guerra. Quella che era diventata a tutti gli effetti una divisione, suddivisa in quattro battaglioni e rinominata Sonderverbänd 800 finì sotto il controllo dello SD, il servizio d'intelligence delle famigerate SS. Poco meno di duemila brandeburghesi si trasferirono nelle SS, inquadrati nella SS-Jagdverbande di Otto Skorzeny per continuare a operare come commando in missioni di ricognizione di lungo raggio, sabotaggio e interdizione. Secondo alcuni incroci di informazioni, alcuni di loro presero anche parte all'Operazione Quercia, la liberazione di Benito Mussolini che all'indomani dell'armistizio venne imprigionato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, per ordine di generale Pietro Badoglio.

Si dice che a causa delle loro azioni di guerra spregiudicate, spesso non in conformità con leggi e convenzioni, molti dei superstiti che vennero addestrati a essere soldati "fantasma" nella caserma di Brandenburg si siano letteralmente dileguati al termine del conflitto. Indossando ancora una volta quella maschera e gli abiti o le uniformi di qualcun altro, per continuare un'esistenza tranquilla. Sotto copertura. Ragione per cui la loro storia forse non è tra le più note.

Estrogeni per Hitler e volpi radioattive contro il Giappone: in un libro i «trucchi» delle spie Usa nella Seconda guerra mondiale. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

«The dirty tricks department» racconta la storia, i metodi e gli uomini dell’Oss, l’agenzia di intelligence di Washington antesignana della Cia

Ad Adolf Hitler, che secondo uno studio psicologico di Harvard aveva una «forte componente femminile», volevano mettere estrogeni nei pasti, in modo che gli cadessero i baffetti, la sua voce diventasse stridula e soprattutto gli crescesse il seno. Un Führer con le tette difficilmente avrebbe ancora esercitato il suo carisma sui tedeschi. In Giappone, pianificavano di introdurre centinaia di volpi dipinte di vernice radioattiva fosforescente, che avrebbero terrorizzato soldati e civili, favorendo la vittoria americana. Un altro piano prevedeva che il Paese del Tenno fosse invaso da migliaia di pipistrelli kamikaze, lanciati da aerei, sotto le cui ali erano fissati congegni che avrebbero incendiato case e edifici di legno.

Non erano idee per una sceneggiatura da film, né vaneggiamenti di una mente disturbata. Ma alcuni dei progetti pensati e in molti casi sperimentati da una speciale sezione dell’Oss, l’Office of Strategic Services, antesignano della Cia, creato nel 1942 per coordinare l’intelligence e intensificare la guerra ibrida contro le potenze dell’Asse.

Nell’estate di quell’anno, Stanley Lowell, un chimico brillante conosciuto per la mente vulcanica e la passione per le invenzioni più strane, venne convocato a Washington da William “Wild Bill” Donovan, il generale che Roosevelt aveva voluto alla guida del nuovo servizio segreto. Dopo averlo fatto aspettare per ore in una cella, Donovan entrò e senza presentarsi gli disse: «Lei conosce Sherlock Holmes, naturalmente. Io per il mio staff ho bisogno del Professor Moriarty. Penso che lei possa esserlo».

Per Lowell fu l’incontro della vita. Da quel momento diventò capo di un gruppo segreto, il Research & Development Branch, incaricato di sviluppare tecniche clandestine e congegni per ingannare, terrorizzare, destabilizzare e distruggere il nemico. Donovan non sarebbe stato deluso. Nei quasi tre anni in cui fu operativa sotto la guida di Lowell, l’unità produsse di tutto: pistole silenziate, inchiostri invisibili, penne che sparavano, esplosivi camuffati da dolci o pezzi di carbone, sieri della verità, congegni per far deragliare i treni, pillole avvelenate senza odore né sapore, bussole nascoste in bottoni da uniforme, valigette che esplodevano all’apertura. Suona familiare? Sì. Lowell sembra la versione reale di Q, il mago dei trucchi tecnologici dei romanzi e dei film di James Bond. E in verità, in quegli anni, il futuro creatore di 007, Ian Fleming, lavorava per l’intelligence britannica, anch’essa impegnata in azioni non ortodosse.

Non tutti i progetti andarono a buon fine. L’Operazione Fantasia, quella delle volpi luminescenti, venne abbandonata dopo che un gruppo di canidi, opportunamente verniciati, venne gettato nella Chesapeake Bay, al largo di Washington, ma quando riuscirono ad arrivare a riva la tintura era quasi tutta stata lavata via. Non fece alcun progresso neppure il piano degli ormoni femminili per Hitler. E fu abbandonato il Project Capricious, che voleva diffondere l’antrace fra le truppe tedesche nel Marocco spagnolo usando le mosche. In compenso, lanciate sul Giappone, alcune decine di pipistrelli kamikaze sopravvissero e riuscirono a mandare in fiamme alcuni edifici e la torre di controllo di una base aerea. Ma la maggioranza morì per il freddo.

A raccontare la storia dell’unità di Lowell è ora lo storico americano John Lisle, in un libro appena uscito per St. Martin Press. «The Dirty Tricks Department», il dipartimento dei trucchi sporchi è l’affascinante e documentata ricostruzione di un mondo delle ombre, popolato di doppiogiochisti, eroi, tipi strani e scienziati pazzi, in quella lotta senza esclusione di colpi contro il nazismo che fu la Seconda Guerra Mondiale. Ma è anche una riflessione sui dilemmi morali e sui lasciti più oscuri di quelle attività. Un esempio per tutti, furono le ricerche sul siero della verità del dipartimento di Lowell a ispirare negli Anni ’50 il programma clandestino di esperimenti Mk-Ultra, uno dei più famigerati progetti della Cia, nel quale centinaia di prigionieri, malati di mente e anche cittadini inconsapevoli furono sottoposti a sieri, droghe come l’Lsd, onde sonore ed elettromagnetiche, tecniche di tortura, per forzarne le confessioni attraverso il controllo mentale.

Il libro è denso di aneddoti quasi incredibili. Come quando Donovan, per provare l’efficacia di una pistola silenziata, entrò nello Studio Ovale dove Roosevelt stava dettando una lettera e dietro a lui sparò 10 colpi contro una borsa di sabbia che aveva con sé. Il presidente non si accorse di nulla, girandosi verso di lui solo quando sentì l’odore della polvere da sparo. Oppure quello di Lowell, che durante una presentazione dei suoi nuovi marchingegni ai capi militari Usa gettò casualmente nel cestino una Hedy, un petardo per creare panico così chiamato da Hedy Lamarr, attrice esplosiva appunto e prima donna a recitare nuda in un film. Il congegno esplose con un botto assordante e tutti i generali si diedero alla fuga.

Norimberga 1945, processo alla Storia e agli orrori nazisti.

Sì, Norimberga svelò l’orrore al mondo intero. Ma in quell’aula fu umiliato anche il diritto. La storia del processo ai gerarchi nazisti racchiude in sé tutto quello che può essere un processo, ma anche tutto quello che non deve essere: "Una giurisdizione dei vincitori che si ergono a giudici dei vinti". Domenico Tomassetti su Il Dubbio il 18 settembre 2023

Avvocato e scrittore, Domenico Tomassetti è il vincitore della prima edizione del “Premio Letteratura per la Giustizia” - il concorso promosso da Dubbio, Cnf e Fai - con il romanzo “Una vita come la tua”, pubblicato da Bertoni Editore. Liberamente ispirato a fatti di cronaca giudiziaria, il libro offre uno spaccato della professione forense vista dal suo interno e da chi, ogni faticoso giorno, cerca di sopravvivere al mondo della (in)giustizia. Ma soprattutto è il racconto del rapporto tra un padre con suo figlio. Andrea Armati ne è il protagonista, che continua a “vivere” e scrivere sulle pagine del Dubbio.

«Che vai a fare a Norimberga? », mi chiede mio figlio Marco che sta facendo un periodo di studio all’Università di Colonia. È partito a maggio, faceva caldo. Sono andato a trovarlo con la macchina piena della sua roba invernale. Ed ora, scarico, riparto per l’Italia.

«Vado a vedere l’Aula 600, quella del Processo» «Perché?» Non so rispondergli. Spero di trovare la risposta in viaggio. In verità una risposta semplice ci sarebbe. Sono solo. Che torno a fare a Roma, prima della riapertura dello studio? Ma non voglio ammetterlo, nemmeno con me stesso.

Non ero mai stato a Norimberga prima. Il navigatore mi porta facilmente in Furtherstrasse. Parcheggio ed entro nell’edificio storico della Corte di Appello. Mentre pago il biglietto e mi consegnano l’audioguida, penso che non sarei dovuto venire. Ho paura della spettacolarizzazione, provo disagio come se fossi venuto a spiare la Storia dal buco della serratura. Potevo leggere di più, studiare come ho sempre fatto, invece di venire fino a qui. Ma non è così, mi sbaglio. I tedeschi hanno fatto i conti con il loro passato e hanno allestito un memoriale sobrio e molto approfondito (anche se un po’ filoamericano) nel quale, attraverso una mostra fotografica commentata in 12 lingue, raccontano quello che è successo nel processo senza quasi mai indulgere in commenti. L’idea te la devi fare da solo, dopo.

Ma è altro quello che elimina ogni timore di trovarsi difronte ad una vuota rappresentazione ad uso e consumo di turisti “guardoni”. Con una scelta orgogliosamente razionale, già negli anni ’60 (quasi contemporaneamente ai primi processi di Fritz Bauer) hanno deciso che nell’aula si tornasse ad amministrare la Giustizia della nuova Repubblica Federale: in quel luogo, nel 1945, un popolo intero ha preso consapevolezza dell’orrore e, nello stesso luogo, cerca di superarlo attraverso il quotidiano esercizio democratico della giurisdizione. Però, quando entri e ti siedi sulle panche destinate al pubblico, il peso della Storia incombe. Non puoi non pensare che proprio lì sono stati processati alcuni dei responsabili della più grande tragedia del XX secolo.

Berlino fu conquistata dai russi il 2 maggio 1945, il 9 maggio la Germania dichiarò la resa incondizionata. Hitler, Himmler e Goebbels erano morti. Alcuni gerarchi nazisti, tra i quali Eichmann, riuscirono a scappare grazie ad insospettabili complicità. Altri – tra i quali Goering, Ribbentrop, Speer – furono catturati. Altissime gerarchie militari - Donitz – si consegnarono spontaneamente agli Alleati. Non pensavano che sarebbero stati processati. Alcuni di loro temevano di essere giustiziati; altri, come il morfinomane Goering, erano convinti che gli americani gli avrebbero permesso di uscire silenziosamente di scena in cambio della rivelazione di chissà quali segreti. Probabilmente nessuno di loro sapeva che Stalin e Roosvelt, prima, e Truman, poi, non volevano esecuzioni sommarie, ma la celebrazione di un processo che mettesse a nudo le atrocità perpetrate dai nazisti e che, attraverso la divulgazione degli atti a mezzo stampa, le facesse conoscere al mondo intero. L’8 agosto 1945 americani, russi, inglesi e francesi – cioè i vincitori della guerra - sottoscrissero la Carta di Londra nella quale, per la prima volta nella Storia, la guerra di aggressione e la sua pianificazione venivano considerate un crimine, veniva definito il concetto di crimine contro l’umanità e si “organizzava” il Tribunale internazionale militare che avrebbe giudicato i criminali nazisti.

La prima udienza si svolse a Berlino il 18 ottobre 1945, ma gli americani pretesero che il processo fosse trasferito a Norimberga: la città delle grandi adunate hitleriane, organizzate da Himmler e filmate da Leni Riefenstahl; ma soprattutto la città in cui furono promulgate le leggi razziali. Norimberga era stata quasi completamente rasa al suolo. Uno dei pochi palazzi ancora in piedi era la Corte di Appello di Furtherstrasse con annesso carcere in cui alloggiare gli imputati evitando quotidiani spostamenti e sempre possibili gesti autolesionistici. Qui – nella stessa Aula in cui, tra meno di un’ora, si discuterà un procedimento iscritto a ruolo nel 2023 - tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946 fu celebrato il Processo. Nel corso del dibattimento emersero prove inconfutabili sia della pianificazione della guerra, fin dalla presa del potere del nazionalsocialismo, sia soprattutto della Shoah. L’accusa si basò su documenti recuperati dagli americani, principalmente relazioni di servizio delle Einsatzgruppen, su rapporti del governo sovietico e di quello polacco relativi ai campi di sterminio e su testimonianze dirette dei sopravvissuti. Particolarmente sconvolgente furono le testimonianze sul trattamento riservato ai bambini ebrei a Birkenau.

Una deportata ad Auschwitz dichiarò, piangendo, che i neonati di madri ebree venivano uccisi subito dopo essere venuti al mondo, mentre i bambini più grandi, ma non utili (o non più utili in quanto ammalati o sottonutriti) al lavoro, venivano gettati nei forni crematori, saltando il passaggio nelle camere a gas. “In nome di tutte le donne d’Europa divenute madri nei campi di concentramento, chiedo alle madri tedesche: dove sono adesso i nostri bambini?”, gridò la donna, guardando il banco degli imputati. In quel momento “gli imputati abbassarono la testa”. Al termine dell’udienza si udì l’avvocato di Donitz chiedere al suo assistito: “Ma è possibile che nessuno ne sapesse niente?”. Donitz non rispose, limitandosi a scuotere il capo, ma Jodl confermò: “Certo che qualcuno sapeva”.

L’importanza storica del processo di Norimberga è talmente palese da essere innegabile. Nell’Aula 600 il mondo comprese che lo sterminio di sei milioni di ebrei fu, per usare le parole di Hannah Arendt, “un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola ’umanità’ si svuoterebbe di ogni significato”.

Eppure, sotto il profilo giuridico, i dubbi sulla correttezza del processo si fecero strada fin dalle sue prime battute. Principalmente due: sull’imparzialità dei giudici (i vincitori processavano i vinti) e sull’inesistenza di una previa norma che permettesse di individuare la responsabilità penale degli imputati (nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali). La prima obiezione era rafforzata dalla indiscutibile circostanza che, tra i quattro giudici, sedevano un russo (nonostante la guerra fu scatenata in seguito alla sottoscrizione del patto Molotov-Ribbentrop di spartizione della Polonia, prontamente eseguito dall’Urss, dopo l’invasione nazista, con l’annessione di metà del territorio polacco) e un americano (a pochi mesi dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki che, causando quasi 150 mila vittime tra la popolazione civile, configurano un crimine di guerra proprio secondo la definizione della coeva Carta di Londra). Kelsen, all’epoca del processo professore a Berkley, condannò “il fatto che il tribunale istituito dall’accordo fosse composto esclusivamente da rappresentanti degli Stati vittoriosi. Non solo i rappresentanti degli Stati vinti, ma anche – ciò che è più importante – rappresentanti degli Stati neutrali sono stati esclusi dall’ufficio Tra gli Stati, i cui rappresentanti erano i giudici e gli accusatori nel giudizio di Norimberga, ve ne era uno che aveva spartito con la Germania il bottino della guerra condotta contro la Polonia”. Persino un giudice del Collegio, il francese Donnedieu de Vabres, affermò che si trattava di “una giurisdizione dei vincitori che si ergono a giudici dei vinti”. Per superare la seconda obiezione, invece, si fece appello alla Carta di Londra, sottoscritta però l’8 agosto 1945, cioè dopo lo svolgimento dei fatti per cui si stava celebrando il processo.

Ancora Kelsen, probabilmente con l’animo lacerato dalla complessità di una Storia che aveva vissuto in prima persona (ebreo austriaco, costretto ad abbandonare l’insegnamento presso l’Università di Colonia nel 1933), ammise che il diritto applicato al processo di Norimberga era stato positivizzato post factum e che l’accordo di Londra aveva senz’altro infranto il principio d’irretroattività, ma giustificò tale forzatura facendo riferimento all’entità degli atti criminali: “Nel caso in cui due postulati di giustizia sono in conflitto l’uno con l’altro, prevale il più alto; e il punire coloro i quali erano moralmente responsabili per il crimine internazionale della seconda guerra mondiale può certamente essere considerato come più importante che osservare la regola che si oppone alle leggi ex post facto”. Posizione certamente comprensibile, ma maggiormente condivisibile se, con i medesimi principi, si fossero processati tutti i criminali di guerra, non solo i vinti giudicati dai vincitori.

Il processo si concluse con la condanna a morte di 12 imputati, tra i quali Goering, Jodl, e Ribbentrop. Furono condannati al carcere a vita Hess e altri due imputati; a pene minori Donitz (10 anni) e Speer (20 anni); tre furono invece assolti von Papen, Schacht e Fritzsche.

Sono ancora seduto sulle panche dell’Aula 600 quando sento toccarmi sula spalla. Un usciere, in un inglese persino più scolastico del mio, mi chiede garbatamente di uscire: sta per cominciare l’udienza di un nuovo processo. Alzo gli occhi e vedo entrare gli avvocati che parlano con le parti. Dopo quasi trent’anni di professione sempre più mi sorprendo della fiducia accordata dagli uomini all’intervento dei tribunali. Non so se gli imputati del processo, che sta per cominciare, siano colpevoli o innocenti. Spero, in cuor mio, che trovino Giustizia, ma so che la verità che uscirà da quell’Aula, scritta in una sentenza, non sarà comunque null’altro che una verità giudiziaria: umana, controvertibile ed insoddisfacente. Delle colpe (morali e politiche) di chi fu processato, nella stessa Aula, quasi 80 anni fa sono invece certo. Perché è una verità storica, sulla cui base la Germania e il mondo intero hanno costruito un’idea di progresso civile e morale che ancora condividiamo. E sono consapevole che parte fondamentale delle prove, che quella verità hanno svelato, sono state raccolte nel processo del ’45.

Ma altrettanto sono certo che quello di Norimberga fu un processo ingiusto e parziale, inquinato da (più o meno elevate) finalità politiche. La storia del Processo di Norimberga racchiude in sé tutto quello che può essere, ma anche tutto quello che non deve essere un processo. Esco dalla Corte di Appello di Furtherstrasse. Fuori piove e sento freddo, per la prima volta in un’estate torrida anche a queste latitudini. Mi squilla il cellulare. «Adesso hai la risposta? Hai capito perché sei andato a vedere l’Aula 600?», mi chiede mio figlio Marco. «Forse», rispondo risalendo in macchina.

Mentre mi allontano penso che ho fatto bene ad andare a vedere l’Aula 600 e sono contento che lì, ancora oggi, si coltivi la più scandalosa ed irriverente utopia del genere umano: amministrare la Giustizia nella consapevolezza che “alle altissime finalità del diritto fanno riscontro le sue limitate possibilità”. Andrea Armati

Morto a 103 anni Ben Ferencz, ultimo procuratore di Norimberga. di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2023

Fu tra i primi testimoni a documentare le atrocità dei campi di concentramento nazisti. Ottenne condanne contro 22 comandanti degli squadroni della morte

È morto all’età di 103 anni Ben Ferencz, l’ultimo procuratore vivente del processo di Norimberga che processò i nazisti per genocidio e fu tra i primi testimoni esterni a documentare le atrocità dei campi di concentramento della Seconda guerra mondiale. Ferencz è deceduto venerdì sera in una casa di cura a Boynton Beach, in Florida.

Da procuratore ha ottenuto condanne contro 22 comandanti degli squadroni della morte nazisti. Ferencz duranti i processi di Norimberga aveva 27 anni ed era l’ultimo ex procuratore ancora vivo.

In seguito ha svolto un ruolo cruciale nel garantire il risarcimento dei sopravvissuti all’Olocausto e nella creazione della Corte penale internazionale dell’Aia, che di recente ha emesso un mandato di arresto per il presidente russo Vladimir Putin per crimini di guerra.

Nato l’11 marzo del 1920, era un giurista ungherese naturalizzato statunitense. Di origine ebraica, aveva 10 mesi quando la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti e si stabilì a New York. È cresciuto povero nelle strade di Hell’s Kitchen. Ha frequentato il City College di New York e ha ottenuto una borsa di studio per la Harvard Law School. Si arruolò nell’esercito dopo la laurea mentre la seconda guerra mondiale travolgeva l’Europa, sbarcando in Normandia e combattendo nella battaglia delle Ardenne.

In seguito fu trasferito in un’unità responsabile della raccolta di prove di crimini di guerra mentre le forze alleate si avvicinavano al centro del potere nazista a Berlino. Ferencz entrò in diversi campi di concentramento (Buchenwald, Mauthause, Flossenburg, Ebensee) poche ore o pochi giorni dalla loro liberazione.

Instancabile difensore dei diritti umani, ha anche scritto nove libri e decine di articoli, tenuto innumerevoli discorsi e viaggiato per il mondo fino ai suoi 90 anni diffondendo il suo motto di «legge non guerra». «Sono stato dannatamente fortunato a vivere così a lungo», ha detto Ferencz a Nbc News a novembre in quella che è stata la sua ultima intervista ai media. «Spero di aver fatto del bene durante la mia vita.»

Padre di 4 figli, nel 1946 aveva sposato la fidanzata dai tempi dell’adolescenza Gertrude Fried, con la quale aveva vissuto per 70 anni, fino alla morte di lei nel 2019. «Senza litigi» come amava dire.

Il Museo americano per la memoria dell’Olocausto ha dichiarato: «Oggi il mondo ha perso un leader nella ricerca della giustizia per le vittime del genocidio e dei crimini correlati».

Dagospia il 7 aprile 2023. Estratto della prefazione di Ezio Mauro alla nuova edizione Feltrinelli di “La banalità del male” di Hannah Arendt - pubblicato da “la Repubblica”

Si può raccontare il male non mentre si compie, ma quando si deposita attraverso la distanza del tempo e riassume la forma ordinaria del vivere quotidiano, mimetizzando l’inumano nell’umano? C’è un uomo in una gabbia di vetro che lo circonda per proteggerlo, lo isola mentre lo segnala e lo espone nell’aula del Tribunale di Gerusalemme, davanti al mondo.

 Di fronte tre giudici col capo scoperto e la toga nera, poi gli interpreti che traducono dall’ebraico al tedesco, quindi il pubblico ministero e il difensore, col suo unico assistente. Fuori poliziotti sui tetti e agli incroci, agenti in attesa nelle strade vicine, pronti a un intervento d’emergenza. Perché lui è Adolf Eichmann, catturato da un commando alla periferia di Buenos Aires la sera dell’11 maggio 1960 e portato a giudizio in Israele l’11 aprile 1961 con quindici imputazioni per crimini di guerra, contro il popolo ebraico e contro l’umanità, punibili con la pena di morte.

Bisogna immaginare Hannah Arendt con il taccuino aperto mentre si sporge dalla postazione dei giornalisti per guardarlo e raccogliere i segni della sproporzione tra la persona e il crimine, tra l’inaudito passato alla storia e l’ordinario registrato nell’aula: con quella presenza insieme materiale e simbolica del male racchiusa in una figura di mezza età, con la calvizie che si fa spazio, la dentatura irregolare, gli occhi miopi che ogni tanto si stringono, il collo magro e chiaro curvato sulle carte.

 Nulla di eccezionale traspare, niente suggerisce un segnale che riveli dove si nasconde l’origine dell’inconcepibile, il mistero germinale, come se il corpo umano nelle sue espressioni fosse incapace di contenerlo per intero. Ecco la prima rivelazione del processo: quel che si vede e quel che si sente non riescono a restituire la portata dell’accaduto che resiste al diritto, alla giustizia, alla pietà dunque alla comprensione, quasi che non si riesca a varcare la soglia dell’umano.

Eppure il dibattimento di Gerusalemme si basa sulle testimonianze dei sopravvissuti, non sulle carte come a Norimberga: ma sappiamo che nel primo periodo dopo la guerra non si può parlare di una vera e propria memoria della Shoah, perché gli stessi sopravvissuti non riescono a riprodurre l’immagine di ciò che hanno patito, portandolo nella vita comune.

 L’inconcepibile che avevano incontrato nei campi rimaneva inesprimibile, perché non era condivisibile, finché la scrittura ha rotto il silenzio con Primo Levi, permettendo al ricordo di rielaborarsi per comunicare se stesso, vivendo anche fuori dal singolo individuo e uscendo dall’esperienza fisica del dolore. Con la sofferenza che si fa strumento di conoscenza dell’inaudito e diventa immediatamente consapevolezza, responsabilità e giudizio. Dunque memoria.

 Non è quindi solamente un processo, quello di Gerusalemme, e non cerca soltanto di rendere giustizia alle vittime dell’olocausto e ai sopravvissuti. Non è vendetta e nemmeno risarcimento, ma qualcosa di più, doveroso e necessario, perché fa parte della liberazione. È il tentativo di recuperare una misura umana di razionalità che consenta di mandare avanti il mondo dopo Auschwitz, attraverso il dovere di rivivere gli avvenimenti per poterli leggere, catalogare e finalmente giudicare recuperando una norma e un criterio, ristabilendo infine un canone morale universale da cui ricominciare.

Il lavoro giornalistico, nella sua autonomia, è anche un libero strumento della memoria: il suo vero obiettivo è la ricerca di un significato di ciò che è stato, risalendo il tempo e recuperando il senso della storia, perché il mondo non è fatto di episodi alla deriva e fenomeni contingenti, senza radici, proiezioni e cause.

 La memoria è questo raccordo del tempo, ma è soprattutto un sistema di misura delle esperienze vissute, dunque è un atto politico nel senso più ampio e più alto del termine: non solo perché consente di conoscere, comprendere e giudicare, ma perché permette l’esercizio della coscienza.

 Arendt ha il lasciapassare dei giornalisti, siede tra i reporter, è in aula per scrivere le sue corrispondenze per il New Yorker. Il suo lavoro è quello di osservare, ordinare, restituire nella scrittura dei reportage quei pezzi di realtà che ha incontrato. Ma capisce subito che non può accontentarsi di essere il medium tra il lettore e il processo.

Ciò che è avvenuto e che rivive in aula confonde lo spazio e aggroviglia il tempo, porta l’oggi a entrare nello ieri, e il giornalismo non può limitarsi a registrare. Di fronte alla potenza di quell’accusa cambiano i doveri e le regole d’ingaggio, non si può rimanere spettatori, di lato, in un recinto protetto: e nemmeno soltanto testimoni.

 Arendt non è a Gerusalemme per assistere, ma per condividere, attraverso l’intelligenza degli avvenimenti (come la chiamerà Aldo Moro), la conoscenza dell’accaduto, la disponibilità a farsi carico della responsabilità che nasce dal disvelamento. Deve calarsi dentro, prendere parte coi suoi giudizi mettendosi direttamente in gioco, svolgere la sua funzione portando in quell’aula la sua dotazione di conoscenza, il suo sapere, la sua fatica di affondare e provare a risalire dentro questa tragedia. Di nuovo: l’intelligenza chiede aiuto alla coscienza.

È la consapevolezza di scrivere giorno dopo giorno la cronaca della storia, un impegno che comporta un obbligo morale, non solo una serie di doveri professionali. E che nasce e si realizza nel bisogno fondamentale di comprendere per far comprendere, di esplorare, lasciarsi contagiare, continuando ad ascoltare l’insistenza dell’unica domanda che conta nel mestiere: cosa resta da capire?

 La scrittura, come espressione concettuale della rivisitazione del reale, registra questo passaggio e il libro che raccoglie le corrispondenze dal tribunale lo testimonia. All’inizio la cronaca ha il sopravvento, come se nel clamore mondiale del processo bastasse assistere alle udienze e immergersi nelle ricostruzioni per governare i fenomeni, allinearli e renderli intellegibili.

Subito, però, il racconto in presa diretta si appoggia alla riflessione, si contamina e si arricchisce, porta Arendt nel cuore morale del problema, dove rimarrà fino all’ultima pagina aprendosi ai dubbi, persino alle questioni che la difesa avrebbe potuto sollevare mentre non lo ha fatto, alle domande scomode, al rifiuto anticipato del politicamente corretto.

 Quasi inconsapevolmente lo sguardo di Arendt si sposta e si prolunga, allarga il campo dall’imputato al mondo di complicità, obbedienza, cecità che lo circonda e lo accompagna rassicurandolo col conformismo generale, con la medietà regolare che rende normale l’eccezionale quando diventa consuetudinario, replicato burocraticamente con la meccanica abituale di un metodo.

Comincia l’esplorazione attenta e appassionata del contesto storico e politico, un’analisi del tempo nazista indispensabile per capire come quella quotidianità ordinaria e mediocre abbia potuto farsi strumento dell’orrore, superando i suoi limiti. O forse scivolando sotto la soglia del limite, perché il processo di riduzione della consapevolezza di sé e della responsabilità per gli altri ottunde, sgombra il terreno da ogni ostacolo e fa cadere qualsiasi tipo di interdetto, anche quelli supremi, morale, religioso, civile.

 Si può trasgredire la regola più sacra – e dunque più umana – trascendendola per superarla d’imperio col sacrilegio, non riconoscendola più come vincolante e legittima: quella norma però, scopriamo, è anche possibile ignorarla riparandosi nell’ottusità del compito assegnato dal comando, senza mai alzare lo sguardo sulle conseguenze, anzi limitando la visione alle proprie azioni ridotte a tecnica, impedendo a se stessi di pensare che fanno parte di un progetto di distruzione umana. Finché a Gerusalemme arriva il momento del rendiconto, per distribuire a ognuno degli attori di quella procedura la sua quota di responsabilità, che non si può nascondere per sempre.[…]

Cosa resta sul quaderno della corrispondente? La percezione fisica della difficoltà di comunicare l’offesa, la sua vergogna e i suoi guasti, di vederla riprendere forma dentro l’aula, di nominare l’impronunciabile. Una difficoltà per chi ascolta, e sa che può soltanto immaginare ciò che si sta ricostruendo nel tribunale perché tutti conoscano, e a quel punto possa aver corso la giustizia; ma anche per chi rievoca nelle udienze una realtà che ha patito, perché per rivisitare il peccato supremo contro l’uomo occorre «purezza d’animo, un’innocenza cristallina di cuore e di mente, quale soltanto i giusti possiedono». Poi, una frase di Arendt che vale anche per lei, come per tutti: «Si vide quanto fosse difficile raccontare » .

Oltre quattrocento udienze in 11 mesi, centinaia di testimonianze dirette, decine di migliaia di documenti da esaminare e, per la prima volta in un’aula di tribunale, vengono proiettate delle immagini su uno schermo per descrivere le atrocità commesse dai nazisti, alla sbarra per

Il processo ai gerarchi del Terzo Reich si apre con le macerie ancora fumanti nel cuore dell’Europa, a sei mesi dalla caduta del regime. È l’ottobre del 1945 e come sede viene individuata Norimberga, una scelta non casuale, la città tedesca è stata infatti il teatro prediletto della propaganda hitleriana che ogni anno celebrava per le sue strade la nascita il partito nazionalsocialista, una capitale “ideologica”.

Oltre quattrocento udienze in 11 mesi, centinaia di testimonianze dirette, decine di migliaia di documenti da esaminare e, per la prima volta in un’aula di tribunale, vengono proiettate delle immagini su uno schermo per descrivere le atrocità commesse dai nazisti, alla sbarra per crimini di guerra e crimini contro la pace. Non figura invece l’accusa di genocidio che acquista realtà giuridica solamente tre anni dopo, nel 1948 nella Conferenza di New York.

Quello di Norimberga è anche il “processo dei vincitori”, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e persino la Francia, riuscita a infilarsi in extremis grazie al colpo di reni del generale De Gaulle. Ogni nazione vincitrice infatti era rappresentata in aula da un giudice, un sostituto e i diversi procuratori.

Sovietici e britannici inizialmente non erano d’accordo sulle modalità con cui far svolgere il processo, Stalin aveva in mente i tribunali sommari del “grande terrore” con cui negli anni trenta aveva fatto giustiziare tutti i suoi oppositori, roba da far impallidire l’odierna Russia di Putin.

Churchill, da parte sua, si era spinto ancora più in là, sostenendo che i criminali nazisti sarebbero dovuti essere giustiziati «entro sei ore dalla cattura!» in quanto le prove di colpevolezza nei loro confronti erano schiaccianti. Alla fine prevalse il modello americano, molto più simile agli standard del moderno stato di diritto che prevede una procedura giudiziaria fondata sulla presunzione di innocenza e sul diritto degli imputati ad avere un avvocato, un processo equo per rispondere ad accuse formulate con chiarezza.

Il “pezzo grosso” era ovviamente Herman Goering, ex capo della Luftwaffe (l’aeronautica militare), ministro dell’aviazione e membro del cerchio magico di Hitler che per lungo tempo lo “elesse” a numero due del regime.

Il responsabile della propaganda Goebbels si era suicidato assieme all’amato fhurer nel bunker di Berlino, stessa sorte per il capo delle Ss Himler che si toglie la vita mentre era prigioniero degli alleati, il segretario personale di Hitler, Martin Borman viene infine freddato da un carro armato russo mentre tentava di fuggire dalla capitale tedesca. Mengele, medico dei campi di sterminio e Eichman, il “burocrate della Shoah” sono invece fuggiti in sudamerica ( il primo morirà di cause naturali, il secondo sarà catturato dal Mossad, processato e giustiziato in Israele nel 1961.

Assieme a quello di Goering i giudici leggono i nomi di altri 23 imputati: 12 vengono condannati a morte, tre all’ergastolo, quattro a pene dai 10 ai vent’anni di prigione. I restanti quattro se la cavano con un’assoluzione e un proscioglimento per motivi di salute grazie al giudice sovietico Iona Timofeevich Nikitchenko.

Alla lettura dei capi di imputazione sono professati tutti innocenti, affermando di non essere a conoscenza dello sterminio degli ebrei e di altri orrori compiuti dal regime, oppure di aver semplicemente «eseguito gli ordini», o addirittura evocando l’incapacità di intendere e di volere come Alfred Jodl, capo del Comando generale delle forze armate che affermò: «Non ero più me stesso». Una linea difensiva che si rivela fallimentare.

L’unico ad esibire spavalderia, ad avere atteggiamenti sprezzanti verso i testimoni, ad accompagnare con i sorrisetti e le smorfie le osservazioni dei procuratori e i racconti dei testimoni è Goering. Almeno fino a quando sullo schermo piazzato al centro dell’aula non appaiono le immagini dei campi di concentramento, dei forni crematori, dei mucchi di ossa dei prigionieri, in gran parte ebrei, ma anche omosessuali, gitani, malati di mente. A quel punto l’ex “eroe” della Prima guerra mondiale capisce che è tutto finito, che verrà condannato a morte. Sfugge all’impiccagione alla vigilia dell’esecuzione, suicidandosi, come Himler, con la classica pasticca di cianuro. Gliela aveva fornita una guardia americana che era rimasta affascinata dalla sua personalità magnetica.

I detrattori del processo hanno sempre sottolineato i limiti e le storture della “giustizia dei vincitori” gli unici a e essere rappresentati nel collegio inquirente e giudicante, l’assenza dei crimini di guerra commessi dagli Alleati come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki o la distruzione di Dresda e di altre decine di città tedesche. Oppure c’è chi, in punta di diritto, fa notare come i reati contestati ai gerarchi nazisti non fossero presenti nel codice penale e che quindi essi vennero giudicati sulla base di leggi create ad hoc contro di loro come i crimini di guerra e i crimini contro la pace. Era peraltro la tesi di Otto Stahmes, difensore di Goebbels che in aula ha citato il principiodel nullum crimen, nulla poena sine Lege Praevia.

Giudicare Norimberga dal punto di vista giuridico è un esercizio interessante ma del tutto fuori dalla Storia: il processo ai crimini del Terzo Reich, si è svolto secondo standard giuridici per noi oggi inaccettabili, ma allo stesso tempo ha gettato le fondamenta per la moderna giustizia internazionale.

I Condannati.

Condannata Irmgard Furchner, la 97enne «segretaria del male»: ebbe un ruolo nell’uccisione di 10.500 detenuti del lager. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

L'accusa è quella di avere avuto un ruolo nell’uccisione di oltre diecimila prigionieri nel campo di concentramento di Stutthof, nel nord della Polonia

Alla fine la sentenza è arrivata. In Germania, un'ex segretaria di un comandante nazista, è stata condannata a due anni di carcere per avere avuto un ruolo nell’uccisione di oltre diecimila prigionieri nel campo di concentramento di Stutthof, nel nord della Polonia. Si chiama Irmgard Furchner e ha 97 anni ed è una delle poche donne a essere state processate per crimini legati al nazismo. Ma, visto la veneranda età, la sentenza è stata sospesa.

Il processo era iniziato nel 2021. Il giudice ha dichiarato che, anche se quello di Furchner era un ruolo amministrativo, negli anni del suo lavoro (1943-45) lei era consapevole di quello che i suoi capi facevano: nel campo di concentramento di Sutthof sono morte circa 65mila persone, tra cui prigionieri ebrei e soldati sovietici.

Quando Furchner ha saputo del processo, ha provato a scappare dalla casa di riposo in cui viveva, ma poi è stata trovata ed è stata arrestata dalla polizia. «Mi dispiace per tutto quello che è successo. Mi rammarico che in quel periodo fossi proprio a Stutthof. Non posso dire altro», ha dichiarato il 6 dicembre scorso, in aula.

I Tesori.

Estratto dell'articolo di Franco Zantonelli per repubblica.it il 2 Maggio 2023.

Da mercoledì 3 maggio a venerdì 12 si terrà da Christie’s, a Ginevra, la più importante asta di gioielli della storia. Un evento che suscita non poche polemiche, visto il passato di chi ha accumulato quei gioielli. Oltre 700 pietre per un valore di 150 milioni di dollari, comprendente il diamante da 90 carati di origine indiana “Briolette of India”, che ha avuto tra i proprietari Caterina de Medici. 

[…]

Si diceva delle polemiche. Derivano dal fatto che quell’immensa fortuna risale al periodo nazista, in quanto venne accumulata da un imprenditore austriaco ben introdotto nel regime hitleriano, quando vigeva il principio dell’arianizzazione delle proprietà delle persone di religione ebraica. Si tratta di Helmut Horten, accusato di spoliazione dei beni degli ebrei, cui secondo l’accusa che, tra il 1945 e il 1948 lo fece finire in carcere, sottraeva aziende floride a prezzi di realizzo. Iniziò con quei metodi nel 1936, a Duisburg, ritirando l’impresa tessile di proprietà di un ebreo fuggito all’estero. 

[...]

Fatto sta che, con questi metodi l’imprenditore austriaco, accumulò una fortuna stimata da Forbes 2,9 miliardi di dollari. Così Helmut Horten avrebbe creato un impero, nel settore dei grandi magazzini. Uscito di prigione si trasferì a Croglio, nel Canton Ticino, dove creò una fondazione con obiettivi filantropici. Morto nel 1987, la sua fortuna passò alla vedova Heidi, lei pure nel frattempo deceduta. 

Il ricavato dell’asta, intitolata a quest’ultima, ha fatto sapere Christie’s, andrà in buona parte alla Fondazione Horten, impegnata nella ricerca medica e nella protezione dell’infanzia, ma servirà, pure, per finanziare un’organizzazione che “vuol far progredire la ricerca e l’educazione sull’Olocausto”. Un bel modo per lavarsi la coscienza ha mandato a dire, da Amsterdam, la figlia di Reinhold Stephan.

La stessa Fondazione Horten ha, comunque, incaricato un giovane storico tedesco, Peter Hoeres, dell’università di Würzburg, di indagare sul passato del suo fondatore. Ebbene, ne vien fuori che il magnate fu effettivamente membro del partito nazista ma che, successivamente, venne assolto dal comitato per la denazificazione. [...]

"Svenduto per scappare dai nazisti". Bufera sul Picasso esposto al Guggenheim. Storia di Clara Trevisan su Il Giornale il 25 Gennaio 2023.

Il Guggenheim è finito di nuovo nell'occhio del ciclone. Il 21 dicembre il museo di New York è stato citato in giudizio da una famiglia di origini ebree tedesche perché dal 1978 espone un Picasso appartenuto ai bisnonni, che erano stati costretti a svenderlo per fuggire dallo sterminio nazista. La faccenda ha risvolti legali e finanziari importanti dato che l'opera è valutata tra i 100 e i 200 milioni di dollari. E gli eredi sono convinti di avere tutto il diritto di riaverla indietro.

Come tanti altri che sono stati acquistati o venduti durante il periodo nazista, il quadro ha avuto una storia travagliata, che testimonia le persecuzioni del regime hitleriano. “La donna che stira” (“La repasseuse”) è stato dipinto da Pablo Picasso nel 1904, quando il talento del cubismo spagnolo aveva solo 22 anni. L’atmosfera di pesantezza e sacrificio che caratterizza la condizione dei lavoratori poveri è trasmessa dalle tonalità di blu che dominano la composizione, rimanenze del Periodo Blu che l’artista stava concludendo.

E di sacrificio parla anche la storia dell’opera stessa, che si lega per la prima volta al nome degli Adler nel 1916, quando Karl Adler la acquista dal gallerista tedesco Heinrich Thannhauser. Nel corso degli Anni Venti, mentre a Monaco di Baviera il giovane Adolf Hitler militava nelle fila del Partito Nazionalsocialista Tedesco ed elaborava la sua personale dottrina su razza, storia e politica, Karl Adler sedeva a Berlino nel consiglio d’amministrazione della più grande azienda manifatturiera di cuoio di tutta Europa e conduceva una vita agiata con sua moglie Rosi e i tre figli.

Le persecuzioni e l'esilio

Nel 1933 l’instaurazione del regime nazista in Germania ha mandato in frantumi le loro vite” si legge sui documenti del tribunale, con cui i pronipoti degli Adler raccontano come la rapida ascesa di Hitler abbia significato per i propri nonni la fine di una vita normale. Le leggi varate dal Fuhrer privavano gli ebrei dei loro possedimenti e li estromettevano dalla vita sociale ed economica del Paese, relegandoli nei ghetti. In quelle circostanze sempre più incerte, Adler aveva cercato di vendere il suo Picasso per la prima volta, ma alla sua richiesta di 14.000 dollari (che corrisponderebbero oggi a circa 300.000) non aveva trovato acquirenti e aveva scelto di tenersi l’opera.

Nel 1937 però, non riuscendo a mettere in salvo la sua famiglia in Sud America come avrebbe voluto, Adler comincia una fuga che lo rimbalza tra numerose città europee al costo di salatissime “tasse di volo” da pagare al Reich, oltre che di gravosi visti temporanei. È la vigilia della Seconda guerra mondiale quando Karl e Rosi si trovano obbligati a vendere il quadro per pagare l’esilio itinerante a cui la famiglia è costretta. Nel 1938 scelgono di vendere tutto ciò che possiedono per fuggire dall’Europa, ed è così che il Picasso torna nelle mani dei Thannhauser - questa volta del figlio, Justin - per la misera cifra di 1.552 dollari, corrispondenti a 32.000 del 2023, un prezzo di gran lunga inferiore al valore del quadro. Justin Thannhauser ha conservato gelosamente “La donna che stira” per tutta la vita, per donarla infine insieme a tutta la sua collezione alla Fondazione di Peggy e Solomon Guggenheim di New York nel 1976.

Il New York Post riferisce che i discendenti di Karl e Rosi hanno condotto delle ricerche indipendenti sui Thannhauser. Hanno così scoperto che i mercanti d’arte bavaresi hanno costruito parte della loro fortuna approfittando delle sventure di altri ebrei tedeschi, che cercavano di vendere preziose opere d’arte per fuggire dalle persecuzioni naziste. Nella citazione in giudizio depositata alla Corte Suprema di Manhattan, l’accusa sostiene che “Thannhauser conosceva bene il dramma degli Adler, e sapeva che se non fosse stato per la persecuzione nazista non avrebbe mai potuto mettere le mani su quel Picasso, tantomeno a quel prezzo”.

Il tentativo di restituzione dell'opera

I figli degli Adler non avevano mai immaginato di poter avanzare pretese sul dipinto, convinti che il modo in cui Thannhauser si era appropriato del quadro fosse legale. Tuttavia, quando nel 2016 il Congresso ha varato la Direttiva per la Restituzione di opere d’arte trafugate durante l’Olocausto, la famiglia ha trovato nuovo vigore nella rivendicazione del quadro. Nella recente azione legale mossa contro la Fondazione Guggenheim, i bisnipoti sono supportati da una decina di fondazioni non profit citate nelle volontà di uno dei figli di Adler.

L’accusa ritiene ingiusto che il museo continui a beneficiare del possesso dell’opera senza che questa sia stata acquisita tramite un giusto pagamento. Gli eredi precisano che Karl e Rosi sono stati costretti dalle persecuzioni a cedere l’opera a quel prezzo e che se non l’avessero fatto avrebbero subito una sorte tragica in mano ai nazisti. Pertanto, secondo gli Adler, è ora che il museo riconsegni l'opera ai legittimi proprietari.

Il Guggenheim rigetta l'accusa come priva di fondamento. Il museo afferma di aver condotto ricerche estensive sulla provenienza di “La donna che stira” e ricorda che già negli anni Settanta aveva contattato Eric Adler, figlio di Karl e Rosi, che però non aveva sollevato dubbi sulla legittimità della compravendita. Sara Fox, portavoce della Fondazione, si dice sicura che la transazione tra Karl Adler e Justin Thannhauser era legale, e che quindi l’opera, “unica e insostituibile”, rimarrà appesa nella sua sala a New York.

Solo l’anno scorso, lo Stato di New York ha approvato una legge in base alla quale i musei sono tenuti a dichiarare apertamente se le opere d’arte esposte sono giunte al museo tramite furto, confisca, vendita forzata o altri motivi involontari come risultato della persecuzione nazista. È questo il caso di altre due opere di Picasso, “Ragazzo che conduce un cavallo” e “Il Moulin de la Galette”, entrambi passate per le mani di Thannahuser. Dopo aver raggiunto un accordo nel 2009 con l’erede che le rivendicava, le opere sono rimaste esposte rispettivamente al MoMa e al Guggenheim di New York.

Da repubblica.it il 12 gennaio 2023.

Nel 1945 i nazisti avrebbero sotterrato quattro casse piene di oro, argento e pietre preziose nei pressi delle città olandesi Amerongen, Elst, Eck, Ommeren e Linden. Il punto esatto è indicato con una croce rossa su una mappa tenuta segreta per 75 anni nell’archivio storico dei Paesi Bassi e ora resa pubblica per solleticare la curiosità degli aspiranti milionari.

Per gli storici il tesoro venne scoperto e portato via dagli Alleati subito dopo la guerra, ma i cercatori non perdono le speranze e seguendo le indicazioni della mappa hanno cominciato a scavare.

Samuele Finetti per corriere.it l’8 gennaio 2023.

Come in tutte le cacce al tesoro, ci sono una mappa con una croce rossa, delle casse piene di oro, monete e diamanti seppellite in un campo e decine di aspiranti milionari che si sono messi a cercare e scavare. A scatenarli è stato l’Archivio nazionale olandese, che martedì ha pubblicato una serie di documenti — 1.300 pagine in tutto, sulle quali vigeva un vincolo di segretezza di 75 anni — risalenti all’immediato secondo dopoguerra. Tra le carte è spuntata una piccola mappa abbozzata a mano del villaggio di Ommeren, 35 chilometri a sudest di Utrecht, e poi la fatidica X ai piedi di tre grossi alberi.

 Chi l’abbia disegnata, i ricercatori dell’Archivio non sono riusciti a scoprirlo. Si sa però chi la consegnò all’istituto: fu un soldato della Wehrmacht, Helmut S., classe 1925 e quindi potenzialmente ancora in vita (per questo l’Archivio non ha diffuso il cognome), anche se nessuno è riuscito a rintracciarlo. 

Fu lui che, rientrato in Germania, spifferò a troppe persone quello che doveva restare un segreto. Tanto che la voce giunse alle autorità olandesi di stanza nella Berlino occupata, che a loro volta informarono il Beheersinstituut, l’ente incaricato di rintracciare i beni delle persone scomparse nei quasi sei anni di conflitto.

 Lo stesso ente organizzò una serie di ricerche tra il 1946 e il 1947: la prima fallì perché il terreno era ghiacciato, la seconda perché i rudimentali metal detector non segnalarono nulla. Per la terza, fecero venire sul posto lo stesso Helmut S., che però non fu d’aiuto se non per ricostruire la storia del bottino scomparso.

 I beni preziosi, sostenne il soldato, capitarono nelle mani dei tedeschi nell’agosto del 1944, quando una bomba sganciata dagli Alleati sventrò il palazzo — e, con quello, la cassaforte — della banca Rotterdamsche di Arnhem. L’aprile successivo, quando i combattimenti erano alle battute finali, le squadre naziste nascosero oro e gioielli in quattro casse per munizioni e le seppellirono in un campo. 

Lì si troverebbero ancora oggi, pronte per essere rinvenute dal più abile tra i molti cercatori che sono accorsi da tutto il Paese, incuranti del parere degli storici. I quali hanno prima smontato la versione di Helmut S., e poi hanno messo in dubbio la possibilità che il tesoro sia ancora dove fu sepolto.

 Anzitutto, ha sottolineato il professor Joost Rosendaal, i tedeschi non entrarono in possesso del tesoro dopo un bombardamento: furono piuttosto loro a dar fuoco alla banca, proprio con l’intento di derubarla. Quel mese, del resto, l’area attorno ad Arnhem non fu colpita. Fu colpita, invece, il 24 aprile 1945 dalla Royal Air Force. 

Ed è probabile, spiega Rosendaal, che proprio quella notte una delle bombe piovute su Ommeren abbia fatto saltare in aria il nascondiglio, permettendo alle truppe Alleate — se non a qualche abitante del villaggio, o ad un’altra colonna della Wehrmacht — di impossessarsene senza fatica.

 Gli archeologi improvvisati non si sono però persi d’animo e hanno invaso il villaggio armati di vanghe e metal detector. A loro, l’ex sindaco Klaas Tammers ha augurato buona fortuna. Ma ha anche ricordato che chiunque trovasse mai il tesoro dovrebbe consegnarlo alla fondazione che possiede quei campi.

L’Esoterismo.

Il Reich e la ricerca del sacro Graal: ecco "Il codice Wagner". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autrice, un estratto di Il codice Wagner (Fede & Cultura). Laura Salvetti il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Padre Herbert aveva avuto una notte agitata, e non solo per il maltempo. Le notizie che giungevano dalla sorella non lo lasciavano tranquillo. “Hoc est enim Corpus Meum”…. Mentre celebrava la Santa Messa, alle sei del mattino, pensava all’incontro apocalittico delle forze sul campo della storia.

La lotta contro la secolare oppressione cristiano ecclesiastica…ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito, come non c’era mai stata prima sulla terra: con un arco così teso si può mirare ormai alle mete più lontane.” Un brivido gli corse lungo la schiena mentre si inchinava sul calice che pareva traboccare sangue. In ginocchio nei banchi di noce piallato a mano, tre o quattro fedeli assistevano al Sacrificio.

Prosit! – Deo gratias!”. Padre Glinge scrutava il volto dell’amico e confratello. “Dobbiamo comprendere i prossimi passi da fare”. Nello studiolo scarno del Preposito, ai lati di un piccolo scrittoio in ciliegio intarsiato con il piano coperto di panno verde scuro, i due gesuiti cercavano il bandolo della matassa, per poterla svolgere con minori tagli e rannodi possibili. La situazione era preoccupante.

Heinrich Himmler aveva sguinzagliato per mezza Europa alcuni fedelissimi del Dipartimento Ahnenerbe alla ricerca della radice dell’immortalità e onnipotenza ancestrale. Secondo gli studi archeologici del Dipartimento, tale radice, non meglio ulteriormente descritta e definita, avrebbe dovuto essere stata sepolta nella Chiesa di Santa Caterina a Norimberga da parte dei Cavalieri Teutonici e dei Templari di ritorno dalla Terra Santa, dopo la prima Crociata. Nelle descrizioni e iscrizioni trovate nella Chiesa di Santa Caterina, pare ci fosse sempre il riferimento a un’arma, una lancia. L’attendibilità di tale riferimento era rafforzata dalla mitologia nordica.

Anche le leggende celtiche si erano sviluppate intorno alle eroiche gesta di mitici cavalieri dalla nomea immortale, sempre accompagnati da una spada o da una lancia così densa di personalità da portare un nome proprio. I due gesuiti indugiarono sui racconti mitici che avevano accomunato la loro infanzia e fanciullezza e che avevano certamente aiutato il fiorire della loro vocazione monastico-militare.

Secondo la tradizione celtica, creature ritenute divine dal popolo, gli onniscienti Túatha Dé Danann, avrebbero regnato agli albori della civiltà sull’Irlanda, e prima di ritirarsi per l’eternità nel Tír na nÓg, il paese dell’“Età dell’oro”, avrebbero consegnato ai propri sudditi quattro potenti oggetti magici in grado di trasmettere la conoscenza a chiunque ne fosse entrato in possesso: la Spada di Nuada, la Pietra di Fál, la Lancia di Lúg e il Calderone di Dagda.

La Lancia di Lúg, portentosa arma dai terribili poteri distruttivi dalla cui estremità scaturiscono scintille e stille di sangue, poteva essere neutralizzata solo con l’immersione nel Calderone di Dagda, ricolmo di sangue e veleno, in modo tale che non bruciasse e distruggesse tutto ciò che la circondava quando il dio Lúg non la brandiva.

Padre Glinge, allora adolescente, era rimasto affascinato dal profondo legame tra le tradizioni norrene e la nuova religione, dove il cerchio che univa le antiche pietre del potere divino (i menhir) si incontrava con la Croce dell’Unico Agnello. E ricordava ora, al più giovane confratello, che anche nella tradizione mitologica cristiana ricorrono riferimenti alle Lance dell’immortalità, come nelle leggende sul Santo Calice e nei miti di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, e nelle varie opere della tradizione cavalleresca.

La Lancia di Lúg, difatti, nel corso dei secoli negli antichi territori del Nord è stata accostata a miti cristiani, subendo una metamorfosi adattativa al racconto, tratto dagli eventi realmente accaduti relativamente alla Lancia del soldato Longino, che trafisse il costato di Cristo Crocefisso facendone scaturire sangue e acqua.

I due sacerdoti tacquero per un poco, seguendo il corso dei propri pensieri. “Se Himmler e le sue SS dovessero ritrovare la Lancia o il Santo Vasello…” Padre Herbert pronunciò la frase come se emergesse dal profondo di un pensiero remoto. Padre Glinge ribatté, senza timore di replica: “Non tengono conto della Volontà Superiore. Lo Spirito soffia dove vuole e non si sottomette al ciarpame terreno. È pur vero che a tempo debito Dio consente al Male di esprimersi anche con violenza – ricordiamoci, caro confratello, l’episodio di Giobbe, e tanti altri – ma è altrettanto vero che il consentire al Male di agire è finalizzato sempre al trionfo del Bene.”

Padre Herbert ammirava la Fede del Preposito Provinciale, così viva, limpida e svincolata da ogni evento terreno e da ogni supposizione umana. Il cimento cui andavano incontro necessitava di tutta la forza interiore di cui disponevano. “Caro confratello, è opportuno che Lei si rechi in loco per sincerarsi dello status quaestionis. Il contatto è Eva, la ragazza sveglia di cui le accennavo ieri l’altro. Ho conosciuto sua madre durante un periodo di direzione spirituale a Monaco, dieci anni orsono. Una brava donna, una bella famiglia, ed Eva ha votato tutta se stessa alla ricerca archeologica per una sorta di espressione estetica della propria profondità interiore. Le frequentazioni della ragazza non sono l’emblema dell’ortodossia, basti pensare al professor Sachs dell’Università di Archeologia e Paleontologia Ancestrale, ma potrebbero essere utili per le nostre ricerche. Bene. Prepari la valigia con poche cose. Non resterà lontano molto tempo.”

Padre Herbert sospirò, assorto, pensando a quanti anni prima era stato l’ultima volta a Norimberga.

Prima di Lui.

Dopo di Lui.

Lui.

Le Leggi Razziali.

La Morale.

La Religione.

Gli Eroismi.

I Savoia.

Il Colonialismo.

Gli Ufo.

Gli Esploratori.

L’Ecologia Fascista.

La Culinaria.

Operazioni culturali.

I Partigiani.

Gli Antifascisti.

Le Stragi.

I liberatori/invasori.

Giacomo Matteotti.

Claretta Petacci.

Edda e Galeazzo.

Margherita Sarfatti.

Prima di Lui.

Antonio Giangrande: Cultura. “Il Comunista Benito Mussolini”.

Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti.

Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra.

La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica.

Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo.

“Il Comunista Benito Mussolini”. La nuova fatica di Antonio Giangrande in Book o in E-book sui canali editoriali alternativi: Amazon e Create Space; Lulu e Google Libri.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Libro obbiettivo e non ideologico formato da riferimenti e documenti storici e testimonianze di alternativa fonte.

Brani tratti dal libro.

Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016). Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

Amate i profughi, sono l'Italia dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono i fratelli percossi dalla sventura, scrive Benito Mussolini il 28 novembre 1917 (pubblicato da "Il Giornale" il 17/08/2016). Non basta soccorrere i profughi che i treni e le tradotte dal Veneto rovesciano ogni giorno a migliaia e migliaia nelle nostre città. Bisogna comprenderli. Non basta comprenderli: bisogna amarli. La ospitalità dev'essere - soprattutto - amore.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Storia del 4 novembre, una festa controversa tra mito e condanna della guerra. Anniversario della vittoria nel primo conflitto mondiale nel 1918, è diventato giorno dell’Unità nazionale e delle Forze armate. Attraversando le diverse anime del Paese, dalla celebrazione marziale del fascismo alla sensibilità anti-regime della Repubblica. Elisa Signori su L'Espresso il 3 Novembre 2023

È la più longeva tra le celebrazioni dell’Italia unita, l’unica scampata ai suoi terremoti politici, istituzionali, sociali. In oltre cento anni di rituali, la semantica del 4 novembre è stata rimodulata più volte restando però un appuntamento ineludibile. Istituita come festa nazionale e anniversario della Vittoria (il 4 novembre 1918 finì la Prima guerra mondiale, dopo l’armistizio di Villa Giusti con cui si completò l’unificazione) il 23 ottobre 1922 dal governo Facta, l’ultimo a guida liberale, fu poi trasformata nell’apoteosi delle celebrazioni volute dal fascismo per l’anniversario della marcia su Roma: un ciclo cerimoniale che, dal 28 ottobre al 4 novembre, saldava insieme il culto delle origini del fascismo e quello della patria vittoriosa. 

Caduto il regime, mentre guerra e occupazione insanguinavano parte del Paese, il governo Bonomi nel 1944 riprese l’anniversario: epilogo “glorioso” di un’altra guerra, apparve simbolo corroborante per l’identità collettiva. Nel 1949 fu inserito come Giorno dell’Unità nazionale nel calendario civile della Repubblica tuttora vigente: dal 1977, tuttavia, non più giorno festivo, è solennità civile da celebrarsi la prima domenica di novembre. 

Al cuore della celebrazione si pone la riflessione su pace e guerra, sul ruolo delle Forze armate, sul concetto di patria e sui sentimenti che suscita e, in definitiva, sull’orizzonte valoriale del Paese. Tanto che ripercorrerne nel tempo il mutevole statuto – parole, luoghi, liturgie – risulta esercizio illuminante per cogliere nell’atteggiarsi di governi e istituzioni la costruzione della memoria ufficiale su temi tanto cruciali. 

Fu il fascismo ad appropriarsi della vittoria nella Prima guerra mondiale, che divenne mito fondativo e cardine della nuova religione politica: ai mesti riti del cordoglio per i caduti si sostituirono celebrazioni marziali per esaltare i martiri-eroi, il cui sangue aveva dato nuova linfa alla nazione, proiettata verso un destino di potenza. L’emarginazione progressiva del re e la centralità del culto del duce connotarono cerimoniali sempre più complessi e militarizzati. Tranne nel 1941, quando ridivenne giorno feriale: con la guerra in corso al fianco della Germania era inopportuno ricordare la sconfitta inflittale nel 1918. 

L’ipertrofia celebrativa imposta agli italiani nel Ventennio alimentò per reazione nel Dopoguerra una sorta di avversione della classe dirigente repubblicana per la dimensione simbolico-rituale della politica e i fattori emozionali del patriottismo, così a lungo deviati in senso nazionalista e bellicista. Una ritualità fredda, una retorica stanca segnarono molti anniversari, conflitti di memoria e contestazioni politiche vi si incrociarono specie negli anni ’70. Tra le diverse sensibilità e interpretazioni spicca l’iniziativa di Randolfo Pacciardi delle «caserme aperte» o il pellegrinaggio a Redipuglia rilanciato da Giuseppe Saragat. 

Di tutti i discorsi pubblici suonano incisive e attuali le parole di Sandro Pertini: tenente nella Grande Guerra, da presidente ne sfidò il mito e la definì nel 1983 «come ogni guerra crudele, devastatrice, tragicamente impotente a risolvere i veri problemi dell’umanità». E ricordando i caduti nella Seconda guerra mondiale: «A essi toccò sacrificare la vita in un’avventura temeraria e ingiusta voluta da un regime tirannico». Fu l’unica volta in cui in un messaggio ufficiale alle Forze armate figurò la condanna esplicita del fascismo.

Il mondo allo sbaraglio. L’inizio della Grande Guerra e il disprezzo per la vita umana nell’esercito italiano. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 24 Maggio 2023

Il 24 maggio del 1915 cominciava la tragedia del conflitto globale anche per il nostro Paese, che non era attrezzato, né organizzato, né pronto a una simile tragedia e andò incontro a un triennio disastroso

Il 24 maggio del 1915 per l’Italia cominciava la tragedia della Grande Guerra. «Il Piave mormorava/ calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio /l’esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro il nemico una barriera». Così inizia “La canzone del Piave” destinata a diventare il canto della Grande Guerra (per un breve periodo, dopo la Liberazione del 1945, fu usata anche come inno nazionale, prima che venisse adottato l’inno di Mameli).

L’autore era un noto canzonettista napoletano, Giovanni Ermete Gaeta in arte E.A. Mario, paroliere e musicista di tante canzoni anche più recenti (morì infatti nel 1961), il quale compose quel brano nel 1918, in un raptus di patriottismo in una sola notte. Del resto, tanti altri celebri inni sono nati così. La “Marsigliese” venne eseguita su di una pianola e portata al fronte dalle truppe provenienti da Marsiglia. Oggi è una sorta di inno universale ai principi di libertà, uguaglianza e fraternità.

Il casus belli fu determinato dall’assassinio, il 28 giugno 1914, dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono austro-ungarico e della consorte durante una visita di Stato a Sarajevo a opera di un giovane studente nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip. L’Austria colse l’occasione per realizzare i suoi piani aggressivi contro la Serbia (protetta dalla Russia), a cui dichiarò guerra un mese dopo.

Immediatamente si mise in moto il riflesso pavloviano del sistema delle alleanze: il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia, il 3 alla Francia; il 4 agosto fu la volta della Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania. Il 25 agosto il Giappone si schierò a fianco della Gran Bretagna.

Il vecchio mondo andava così allo sbaraglio. L’aspetto più paradossale era il seguente: il sovrano inglese, il Kaiser, lo Zar erano cugini di primo grado. La Belle Époque finiva, senza neppure rendersene conto, in un bagno di sangue che avrebbe aperto il vaso di Pandora dei nazionalismi, degli sciovinismi che travolsero gli ordinamenti liberali e aprirono la strada a regimi totalitari guerrafondai – che trasformarono l’intervallo tra la prima e la seconda guerra mondiale del secolo scorso in un armistizio.

Come ha notato Eric J. Hobsbawm nel suo “L’età degli imperi” (Laterza) dopo la Grande Guerra, nel 1919, sorsero molti Stati a ordinamento democratico, nel 1939 erano rimasti in pochi. Fino al 1915, l’Italia era alleata della Germania e dell’Austria, ma allo scoppio delle ostilità rimase neutrale.

Contro l’ingresso in guerra erano i socialisti, la Chiesa cattolica, Giolitti e gran parte dei liberali, settori dell’industria (mentre altri comparti sollecitavano una politica di armamenti). A determinare un diverso orientamento, sostenuto anche da un rovesciamento delle alleanze, furono delle minoranze attive che – come ha scritto Massimo L. Salvadori in “Storia d’Italia” – erano interventiste ciascuna a modo suo, partendo da posizioni politiche differenti. In sostanza, il connubio tra liberali antigiolittiani, irredentisti, repubblicani, interventisti cosiddetti democratici e nazionalisti finì per trascinare l’Italia nel conflitto.

Al momento della sua entrata il guerra l’esercito italiano poteva contare su trentacinque divisioni di fanteria. Il comandante supremo era Luigi Cadorna il figlio di quel Raffaele che nel 1870 aveva espugnato Roma dalla breccia di Porta Pia. Dei 5,7 milioni di richiamati 2,6 milioni erano contadini analfabeti. Mancavano gli ufficiali, tanto che si fece ricorso a giovani di complemento.

Ma soprattutto non c’era negli stati maggiori una visione della guerra moderna. Gli eserciti si stabilirono per anni sulle linee dei fronti raggiunti nelle prime offensive e restarono a macerarsi per anni nelle trincee, operando assalti alle linee nemiche che consentivano al massimo – con una ecatombe di morti e feriti – la conquista di qualche centinaio di metri, che sarebbero stati perduti pochi giorni dopo a seguito del contrattacco nemico. Furono usati micidiali gas asfissianti che coglievano all’improvviso le trincee nemiche seminando distruzione e morte. La disciplina – consistente nell’imporre operazioni militari assurde dove era evidente che i soldati andavano a morire inutilmente – era tenuta con le decimazioni.

Nel suo libro “La guerra dei nostri nonni” (Mondadori) Aldo Cazzullo narra – nell’incipit – un episodio che descrive la crudeltà e il disprezzo per la vita umana che costituivano la regola dei comandi. In un reggimento si verificarono delle proteste (di motivi ce ne erano tanti e giustificati). Il colonnello ordinò una decimazione per sorteggio. Gli chiesero se dovessero essere inseriti anche i nomi di quei militari che erano arrivati il giorno successivo a quello delle proteste (e che pertanto erano stati impossibilitati a prendervi parte). Il colonnello autorizzò l’inserimento; due di questi militari furono sorteggiati e andarono incontro increduli al loro destino davanti a un plotone d’esecuzione per una colpa (ammesso che lo fosse) a cui erano totalmente estranei, perché erano altrove.

La rotta di Caporetto nel 1917 non fu prodotta soltanto dai rinforzi che gli austriaci poterono trasferire dal fronte russo, ma anche dal malcontento che circolava tra le truppe per una conduzione idiota delle ostilità, che faceva dei soldati carne da cannone. Cadorna fu rimosso e sostituito con Armando Diaz, che inaugurò una linea meno disumana. Fu la resistenza eroica sul fiume Piave a risollevare le sorti del conflitto. La guerra finì il 4 novembre 1918 (si veda il bollettino firmato da Diaz), con il tragico conteggio di seicentocinquantamila morti (tra i milioni caduti sugli altri fronti).

Va detto che senza l’intervento americano gli alleati non sarebbero riusciti a vincere. Il presidente statunitense Woodrow Wilson fu il vero protagonista del trattato di Versailles, dove, su pressione della Francia, furono imposte dure condizioni alla Germania (che non furono estranee all’instabilità della Repubblica di Weimar).

Venne smembrato l’Impero austro-ungarico e ridisegnata la geografia dell’Europa. Si pensi che queste operazioni provocarono ben otto milioni di apolidi e all’interno dei nuovi confini furono costrette a convivere comunità di differenti nazioni, culture e religioni (soprattutto nei Balcani e nell’Europa centrale).

Wilson riuscì anche a definire un nuovo ordine mondiale con istanze sovranazionali (la Società delle Nazioni) dedicate a prevenire e dirimere i conflitti. Purtroppo non fu profeta in patria, perché il Congresso americano non ratificò il trattato. Quindi gli Stati Uniti si rifugiarono nell’isolazionismo e non poterono né vollero svolgere quella funzione di leadership che esercitarono dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Nazismo, Fascismo e Comunismo: la differenza spiegata in parole semplici. Scritto da FISAC CGIL il 23 agosto 2023.

Lo storico Alessandro Barbero spiega, in modo semplice e convincente, le differenze tra Nazismo, Fascismo e Comunismo.

Puoi scegliere in che modo seguire la sua spiegazione: leggendo il testo o guardando il video linkato alla fine dell’articolo.

Il Nazismo è una cosa che è stata inventata in Germania negli anni ‘20 e vent’anni dopo è finita: nel 1945 i capi nazisti sono morti tutti. Chiunque era stato nazista si è affrettato a buttare via il distintivo e a giurare che lui, per carità: “Sì, mi ero iscritto al partito per obbligo, però mai stato nazista in vita mia!” E il Nazismo lì è finito.

Poi voi direte “Ci sono ancora gli Skinheads in Germania Est che si ispirano a queste cose” (non ci stanno simpatici, magari): ma non è qualcosa di profondamente radicato e significativo. Il Nazismo, di per sé, è il Regime nazista: una roba che è stata messa su in Germania, che aveva lo scopo di rendere potente la Germania e sterminare gli Ebrei, scopo dichiarato fin dall’inizio. È stato quello. Tanto che, se voi trovate oggi uno che dice: “Io sono nazista”, è inutile chiedergli: “Ma Hitler ti sta simpatico?” Perché se uno è nazista, Hitler gli sta simpatico.

Il Nazismo aveva come simbolo la croce uncinata, la svastica; e la svastica vuol dire quello. Se uno oggi si volesse mettere una svastica all’occhiello, vuol dire: “Io sono per la dittatura, il militarismo, lo sterminio degli Ebrei, la grande Germania e così via”. Vuol dire quello.

E il Fascismo?

Il Fascismo è nato nel ‘19 e nel ‘45 è morto. È durato poco più di vent’anni anche lui. È morto il Fascismo ma non sono spariti i fascisti. L’Italia era piena di fascisti ed è tutt’ora piena di fascisti, perché il regime ha governato il Paese per lungo tempo, con un consenso diffuso anche se non generalizzato, ha fatto delle cose che una parte del Paese voleva. Nella memoria delle famiglie italiane moltissime famiglie hanno memoria di nonni antifascisti, operai finiti in galera, partigiani. Moltissime altre famiglie, invece, hanno memoria di nonni fascisti che hanno raccontato ai loro figli che nell’Italia fascista si viveva benissimo, non c’era nessun problema e non si capisce perché oggi si deve…. è così, questo è un dato di fatto. Però Il Fascismo in quanto tale, come fenomeno storico, dura dal ‘19 al ‘45. Dopo c’è il Neofascismo che è un’altra cosa. E infatti, se voi trovate qualcuno  (lo trovate di sicuro, anche qui nel quartiere penso sia pieno di persone che dicono “Ah, io sono fascista in realtà”) è inutile chiedergli: “E Mussolini ti sta simpatico?” Perché se uno è fascista, essere fascista vuol dire identificarsi col regime di Mussolini. Quello è. E il fascio littorio è il simbolo di quel regime, di quei valori. Quali sono i valori? Beh, l’Italia dev’essere forte, potente, unita, non bisogna litigare,  non ci devono essere partiti (che litigano fra loro), non ci devono essere giornali che scrivono cose scandalose. Dev’essere un Paese unito, forte, gerarchico. Non bisogna eleggere i Sindaci: decide il Governo chi dev’essere il Sindaco di Roma. Bisogna marciare tutti quanti per le strade, tutti inquadrati, e così l’Italia sarà forte, potente e rispettata. È una roba che piaceva a un sacco di gente. E a me, se qualcuno mi dice: “ Questa roba mi piace” mi sta anche bene. Ha tutto il diritto di dirlo, naturalmente. Però il Fascismo è quello.

Ma il Comunismo?

Ammettiamo pure che sia finito anche lui, perché nel mondo di oggi non lo si vede come una forza organizzata e attiva e neanche come un ideale preciso condiviso, come una cultura diffusa. Ammettiamolo pure. Ammettiamo che sia finito il Comunismo, che i Cinesi non siano comunisti, è tutta un’altra cosa (e lì sarebbe lunga), ma ammettiamo che sia finito.

È nato all’inizio dell’800 il Comunismo. Nel 1848 esce un librino firmato da Marx e Engels che comincia con le parole “Uno spettro si aggira per l’Europa”. E cioè i padroni, i ricchi hanno i brividi perché si sono accorti che i loro operai non si accontentano più di lavorare ed essere sfruttati ma si stanno organizzando e vogliono qualcosa. Vogliono cambiare il mondo.

Comincia nella prima metà dell’800 e dura fino a ieri. Centocinquant’anni. Il Comunismo è esistito in tutti i Paesi, nel senso che in tutti i Paesi del mondo ci sono state persone che dicevano “Io sono comunista, voglio il Comunismo”; ci sono state organizzazioni e partiti comunisti. Nella grande maggioranza dei Paesi non sono mai andati al potere, sono sempre stati perseguitati. Essere comunista voleva dire rischiare la galera o molto peggio. Perché ci sono tanti Paesi dove essere comunista a un certo punto voleva dire: ti sbattono al muro se ti trovano.

Dopodiché i partiti comunisti sono andati al potere in molti Paesi, per primo in Russia nel 1917 e poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel ‘45 in tanti altri Paesi. E non c’è nessun dubbio che al governo siano stati disastrosi. Non c’è nessun dubbio sul fatto che i Comunisti, dovunque sono andati al governo, hanno messo in piedi dei regimi fallimentari.

In Unione Sovietica è stato messo in piedi un regime omicida e assassino che ha dato tante cose – molta più eguaglianza che sotto il capitalismo – ma anche molta retorica vuota, molta propaganda insopportabile e molta violenza omicida. Stalin incarna un comunismo al potere che nei suoi anni, in quei vent’anni in cui Stalin è stato al potere in Unione Sovietica, ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler. Certo!

Dopodiché, il Comunismo è quello?

Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia appena unita di Vittorio Emanuele II che il Comunismo sono i campi di concentramento. Vallo un po’ a dire a quelli che si son fatti ammazzare in tanti Paesi lottando contro il colonialismo per esempio, e pensando che il Comunismo era una cosa meravigliosa.

Erano degli illusi? Può darsi benissimo. Però essere comunista, per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista, ha voluto dire: “Noi sogniamo un mondo migliore”. E cioè non un mondo dove marciamo tutti inquadrati e invadiamo l’Etiopia o la Polonia, beninteso: un’altra cosa. Un mondo dove sono tutti fratelli, tutti uguali.

Era un’utopia, erano degli illusi? È probabile. Quando hanno avuto la possibilità di applicarlo hanno fatto dei disastri! Verissimo. Dopodiché, la differenza mi pare evidente rispetto al Fascismo e al Nazismo. E se uno ignora questa differenza ignora la verità. Perché la verità è che tu non puoi dire “Essere comunista è come essere nazista, la falce e martello è come la svastica”. Sono due cose diverse.

Fascismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il fascismo è un movimento politico di estrema destra sorto in Italia nel 1919 ad opera del politico, giornalista e in seguito dittatore, Benito Mussolini. Alcune delle dottrine e pratiche elaborate e adottate dal fascismo italiano si sono diffuse in seguito, anche se con caratteristiche differenti, in Europa e in altri Stati del mondo.

Si caratterizzò come un movimento nazionalista, autoritario, autocratico, razzista, anticomunista e totalitario; l'ideologia sottesa a tale movimento fu interpretata allo stesso tempo come rivoluzionaria e reazionaria; in particolare il fascismo si autodefiniva, nonché fu considerato da vari politologi e studiosi, come alternativo al capitalismo liberale, proponendo una terza via. Sul piano ideologico fu populista, collettivista, statalista, fautore della funzione sociale della proprietà privata e della divisione della società in classi e del rifiuto del liberalismo e della democrazia rappresentativa.

Trovò i suoi precursori, negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, nel movimento artistico del futurismo (il cui ispiratore, Filippo Tommaso Marinetti, aderì successivamente al movimento di Mussolini), nel decadentismo di D'Annunzio e in numerosi altri intellettuali nazionalisti che si ritrovarono nella rivista Il Regno (Giuseppe Prezzolini, Luigi Federzoni, Giovanni Papini), molti dei quali militarono in seguito nelle file fasciste. Importante fu anche il contributo di correnti di pensiero della sinistra non marxista, quali il sindacalismo rivoluzionario, ispirato alle idee di Georges Sorel.

Una spinta decisiva alla nascita del fascismo venne anche dalle componenti, prodotte dalla prima guerra mondiale, dell'arditismo e del reducismo. La critica storica di alcuni studiosi come Piero Calamandrei o Paolo Alatri esita tuttavia ad attribuire una base ideologica al movimento fascista connotato, specie fra il 1920 e il 1924, da diverse filosofie operative, con repentini e opportunistici cambiamenti di impostazione politica tali da negare di per se stessi l'esistenza di una dottrina unitaria del movimento prima e del partito poi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale si sono sviluppate una serie di correnti che si rifanno all'ideologia, definite come neofascismo; tuttavia, la natura prevalente del movimento è tuttora oggetto di dibattito. Bisogna inoltre distinguere tra "fascismo-movimento" (portatore delle spinte maggiormente rivoluzionarie e socializzatrici) e "fascismo-regime" (rappresentante di elementi maggiormente reazionari). L'apologia del fascismo, ad oggi, nell'ordinamento giuridico italiano è un reato.

Etimologia

Il termine «fascismo» deriva dai Fasci di combattimento fondati nel 1919 da Benito Mussolini, origine etimologica dalla parola fascio (in lingua latina: fascis). Il riferimento era ai fasci usati dagli antichi littori come simbolo del potere legittimo, e poi passati ai movimenti popolari e rivoluzionari come simbolo di unione dei cittadini (per tale motivo, il fascio è tutt'oggi presente nei simboli e nelle panoplie nazionali americani e francesi). L'ascia presente nel fascio simboleggiava il supremo potere di ius vitae necisque, diritto di vita o di morte, esercitato solo dalle massime magistrature romane, mentre le verghe erano simbolo dell'ordinaria potestà sanzionatoria, e materialmente usate dai littori per infliggere la pena (non capitale) della verberatio (fustigazione).

Il richiamo ai fasci va inoltre letto come un esempio del fascino che il mito di Roma esercitava sul fascismo, il quale di fatto tentò una restaurazione degli antichi fasti imperiali romani e giustificò la sua politica espansionistica alla luce di una missione civilizzatrice del popolo italiano, erede di Roma.

Storia.

Storia del fascismo in Italia

La crisi economica del primo dopoguerra, la disoccupazione e l'inflazione crescenti, la smobilitazione dell'esercito che restituì alla vita civile milioni di persone, i conflitti sociali e gli scioperi nelle fabbriche del nord, l'avanzata del partito socialista divenuto il primo partito alle elezioni del 1919, crearono negli anni 1919-1922 le condizioni per un grave indebolimento delle strutture statali e per un crescente timore da parte dei ceti agrari e industriali di una rivoluzione comunista in Italia sul modello della rivoluzione d'ottobre del 1917. Il periodo tra le due guerre mondiali fu caratterizzato da forti tensioni sociali, soprattutto riguardo al reinserimento dei reduci della prima guerra mondiale e in particolare nel cosiddetto biennio rosso, che in Italia fu caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l'occupazione delle fabbriche, soprattutto nel centro-nord del Paese.

Benito Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista convertito alle idee del nazionalismo, riuscì a fondere idee, aspirazioni, frustrazioni dei reduci della Grande Guerra, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria, e che subito si contraddistinse per la violenza dei metodi impiegati contro gli oppositori. Il 23 marzo 1919 a Milano si radunarono circa trecento persone, soprattutto socialisti, sindacalisti, anarchici, ex-combattenti e in particolare arditi, intellettuali futuristi, che fondarono i Fasci italiani di combattimento. L'intento era essenzialmente volto alla valorizzazione della vittoria sull'Austria-Ungheria e alla rivendicazione dei diritti degli ex-combattenti. Il primo fascismo contrapponeva i reduci, inviati al fronte, agli industriali che si erano arricchiti con l'industria bellica (definiti "pescecani"). Dopo il primo congresso nazionale nel 1919, si presentarono alle elezioni politiche, ma senza ottenere alcun seggio. Nelle successive elezioni del 1921 vennero invece eletti 35 deputati.

Le violenze durante il periodo del biennio rosso perpetrate da arditi, futuristi e fascisti in un'offensiva contro sindacati e partiti d'ispirazione socialista causarono numerose vittime (circa tremila nel solo biennio 1921-22, secondo le stime di Gaetano Salvemini) in particolare trecento morti fra i fascisti e quattrocento fra i socialisti nella sostanziale indifferenza delle forze di polizia; la violenza crebbe considerevolmente negli anni 1920-22 fino alla marcia su Roma nel 1922. Sempre Salvemini sostenne che i tumulti e i propositi di "fare come in Russia" da parte dei socialisti massimalisti crearono una situazione di tensione:

«Insieme all’"antibolscevismo" degli industriali e dei proprietari terrieri, vi era quello dei bottegai e dei commercianti. Molti di costoro avevano avversato la guerra, e nel 1919 avevano simpatizzato con le proteste dei «bolscevichi» contro i responsabili della guerra. Ma non appena questo "bolscevismo" cominciò ad imporre calmieri, saccheggiare negozi, rompere le vetrine, anch’essi divennero accesi "antibolscevichi".»

Di fronte all'incalzare dello squadrismo fascista e dopo la marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III, preferendo evitare ulteriore spargimento di sangue e probabilmente meditando di poter sfruttare e controllare gli eventi, ignorò i suggerimenti di Luigi Facta, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, che gli aveva chiesto di firmare il decreto che proclamasse lo stato d'assedio, e decise invece di conferire l'incarico di primo ministro a Mussolini stesso che guidò così un governo di coalizione composto da nazionalisti, liberali e popolari. Dopo il delitto Matteotti, il regime assunse connotazioni dittatoriali e si attuò la progressiva identificazione del partito con lo Stato; l'azione di governo favorì i ceti industriali e agrari con privatizzazioni, liberalizzazione degli affitti, smantellamento dei sindacati. Grazie poi alla legge Acerbo, una legge elettorale proporzionale con un grande premio di maggioranza, alle elezioni del 1924 il "listone fascista" ottenne uno straordinario successo, favorito da ingenti brogli, violenze, intimidazioni e rappresaglie contro gli oppositori.

L'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato in parlamento i brogli e chiesto l'annullamento delle elezioni, sembrò aprire la possibilità di una crisi del governo in quanto si diffuse la convinzione che i mandanti fossero ai vertici dell'esecutivo; l'episodio dimostrava che la "normalizzazione" dello squadrismo annunciata da Mussolini non era riuscita e che un'opposizione legale non era possibile. I partiti d'opposizione reagirono abbandonando il Parlamento, sperando che il Re intervenisse ma questi, intravedendo una sovranità monarchica liberata del contrappeso parlamentare, si astenne da ogni iniziativa. Successivamente il discorso di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, con il quale si assunse la responsabilità politica del delitto Matteotti e delle altre violenze squadriste, di fatto proclamò la dittatura, sopprimendo ogni residua libertà politica e di espressione e completando l'identificazione assoluta del Partito Nazionale Fascista con lo Stato. Seguì quindi la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, nel 1928. Pur assumendo alcune caratteristiche proprie dei regimi dittatoriali, il Fascismo si mantenne formalmente subordinato alla monarchia sabauda e fedele allo Statuto del Regno. Dal 1925 fino alla metà degli anni trenta il fascismo conobbe solo un'opposizione sotterranea e di carattere cospirativo, guidata da esponenti anarchici, comunisti, socialisti, demo-liberali, liberali, socialisti liberali, molti dei quali pagarono la loro opposizione al regime con la vita, l'esilio, la prigionia o il confino.

Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Mussolini rimase in attesa degli eventi e inizialmente dichiarò l'Italia non belligerante. Quando, impressionato dalle facili e rapide vittorie della Germania e dall'imminente crollo della Francia, si convinse della vittoria dell'Asse, annunciò in un discorso a Roma il 10 giugno del 1940 l'entrata in guerra dell'Italia contro la Francia e l'Inghilterra, dando nel contempo ordine ai comandi di mantenere un contegno difensivo verso la Francia. L'impreparazione dell'esercito e l'incapacità dei comandanti condussero a terribili sconfitte su tutti i fronti, come nella campagna di Grecia nel 1940 e la rapida perdita dell'Africa Orientale Italiana (1941). Dopo una serie di alterne vicende nel tardo 1941 e nel 1942, la ritirata di Russia, nonché le sconfitte in Libia e Tunisia (1943), provocarono uno scollamento fra regime e popolo e il collasso degli apparati militari che aprì le porte all'invasione della Sicilia.

Il 25 luglio 1943 per iniziativa di alcuni gerarchi (Grandi, Bottai e Ciano) e con l'appoggio del Re, venne presentato un Ordine del giorno al Gran Consiglio del Fascismo col quale si chiedeva al Re di riprendere il potere; ciò portò all'arresto di Mussolini e all'improvviso crollo del regime, che si dissolse tra il giubilo di parte della popolazione italiana, stanca del regime e della guerra. L'esperienza bellica portò alla caduta del governo di Mussolini e al suo arresto e alla nomina del generale Badoglio come primo ministro. Con l'invasione degli Alleati, il paese era diviso in due, occupato dalle forze dell'Asse al nord e dagli Alleati al sud. Questa divisione consentì una temporanea rinascita del fascismo nelle regioni settentrionali, dove si organizzò la Repubblica Sociale Italiana, riconosciuta solo dai paesi dell'Asse. Negli ultimi venti mesi di esistenza il fascismo fu coinvolto nella guerra civile con le formazioni partigiane che fiancheggiavano l'avanzata alleata, nonché dall'attiva collaborazione con la politica tedesca di deportazione, concentramento e sterminio degli ebrei e di altre minoranze. Alla fine di aprile 1945 con il crollo del fronte e l'insurrezione popolare proclamata per il giorno 25 dal Comitato di Liberazione Nazionale, la RSI fu spazzata via. I suoi elementi dirigenti, compreso Mussolini, furono catturati dai partigiani e fucilati fra 28 e 29 aprile 1945. Con la morte di Benito Mussolini l'esperienza fascista si concluse.

Storia del fascismo in Europa

Quando in Italia il partito fascista giunse al potere, nel resto dell'Europa (comprese Francia e Regno Unito) e del mondo non si guardò a esso con sfavore, soprattutto per il suo impegno come argine al bolscevismo sovietico e l'eversione. In seguito, durante il periodo di massimo consenso del regime, fra 1925 e 1935, il miglioramento dell'immagine dell'Italia nel mondo portò perfino diverse personalità del pensiero democratico (fra cui Winston Churchill e il Mahatma Gandhi) a esprimere simpatia per Mussolini e il suo regime. D'altro canto l'esperienza fascista non mancò di provocare in Europa (e non solo) movimenti fascisti e filofascisti di emulazione, per lo più ideologica e di immagine.

Nella maggioranza di questi casi, infatti, la somiglianza col fascismo italiano è solo epidermica, legata a certi stilemi (saluto romano, colore scuro delle camicie, manifestazioni di massa etc.), al culto del capo e della violenza, e a un feroce anticomunismo. In altri casi si verificarono anche "gemellaggi" con la dottrina sociale, filosofica e politica vera e propria. Il più famoso dei movimenti para-fascisti fu il NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei o Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) di Adolf Hitler. Nel resto d'Europa, furono molti i movimenti fascisti e filofascisti che si svilupparono e, soprattutto nell'Europa orientale, salirono anche al potere.

Descrizione

Caratteristiche generali

D'ispirazione sindacal-corporativa, militante, socialista revisionista e organicista, il fascismo raggiunse il potere nel 1922, dopo la grande guerra con la Marcia su Roma e si costituì in dittatura nel 1925. Il fascismo descrive se stesso come una terza via alternativa a capitalismo liberale e comunismo marxista, basata su una visione interclassista, corporativista e totalitaria dello Stato, contraria alla democrazia di massa. Radicalmente e violentemente contrapposto al comunismo, il fascismo rifiuta infatti anche i principi della democrazia liberale, pur riconoscendo la proprietà privata. Appare inoltre come un movimento tradizionalista e spiritualista in alcune componenti, in altre mostra una chiara ascendenza positivistica. All'elaborazione della dottrina fascista, oltre che Mussolini, contribuì il filosofo idealista Giovanni Gentile.

I testi teorici fondamentali del fascismo sono essenzialmente due: il Manifesto degli intellettuali fascisti e La dottrina del fascismo. Gentile pubblicò il 21 aprile 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni e, insieme a Mussolini, lo scritto La dottrina del Fascismo (1933). Il 1º maggio del 1925, il filosofo Benedetto Croce, inizialmente favorevole al fascismo, pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti che ebbe tra i firmatari molti altri intellettuali. Importante anche la voce "fascismo" dell'Enciclopedia italiana, scritta da Mussolini con Gioacchino Volpe. Nel fascismo è presente anche l'influenza di Friedrich Nietzsche, tramite l'interpretazione teorica e pratica data da D'Annunzio, di Georges Sorel e del futurismo di Marinetti. Nietzsche fu l'unico filosofo che Mussolini studiò veramente, dal quale in gioventù fu ammaliato e dalla cui dottrina del superuomo egli trasse il senso da dare alla rivoluzione fascista.

Un fondamentale contributo alla nascita del fascismo fu dato dal movimento dello Squadrismo, ossia l'organizzazione di squadre paramilitari con le quali si realizzò una sistematica demolizione di sedi di partito (socialisti, popolari, comunisti) e di giornali, cooperative, case del popolo e la progressiva occupazione - con mezzi legalitari e illegali - di posizioni chiave nelle amministrazioni comunali. Inoltre lo stesso Giovanni Giolitti tenne nei confronti del movimento fascista un atteggiamento benevolo volto a utilizzarlo nel contrastare la sinistra in quanto era poi intenzionato a "costituzionalizzarlo" dopo essere arrivato al potere. Così facendo si riteneva di esaurirne le potenzialità poiché, essendo venuti meno gli avversari di sinistra, il fascismo avrebbe conseguentemente perso gli appoggi, anche finanziari, di coloro che temevano la "minaccia rossa".

Secondo l'ideologia fascista, una nazione sarebbe una comunità che richiede dirigenza forte, identità collettiva e la volontà e capacità di esercitare la violenza per mantenersi vitale. Per l'ideologia fascista la cultura è creata dalla società nazionale collettiva, dando luogo a un rifiuto dell'individualismo; il fascismo nega inoltre l'autonomia di gruppi culturali o etnici che non sono considerati parte della nazione fascista e che rifiutano di essere assimilati: questo in tutte le realizzazioni storiche del fascismo è stato applicato nei confronti di minoranze etniche o religiose, in particolare quella ebraica. L'ideologia fascista sostiene l'idea di uno Stato a partito unico e vieta qualunque opposizione al partito stesso.

Nacque principalmente come reazione alla Rivoluzione Bolscevica del 1917 e alle lotte sindacali, operaie e bracciantili, culminate nel Biennio rosso, ma al tempo stesso in parziale polemica con la società liberal-democratica uscita lacerata dall'esperienza della prima guerra mondiale unendo aspetti ideologici tipici dell'estrema destra (nazionalismo, militarismo, espansionismo) con quelli dell'estrema sinistra (primato del lavoro, rivoluzione sociale e generazionale, sindacalismo rivoluzionario soreliano), inserendovi elementi ideali originali e non, quali l'aristocrazia dei lavoratori e dei combattenti, la concordia fra le classi (organicismo), il primato dei doveri dell'uomo sui diritti (mediato dal pensiero di Giuseppe Mazzini), e il principio gerarchico, assorbito dal fascismo dall'esperienza dei reparti d'assalto volontari della divisione Arditi della Grande Guerra, che lo portarono al culmine dell'obbedienza cieca e pronta al capo. Si riporta qui la definizione di fascismo data, nel 1921, da colui che ne fu l'ideatore e il capo, Benito Mussolini:

«Il Fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano. Parliamo schietto: non importa se il nostro programma concreto, non è antitetico ed è piuttosto convergente con quello dei socialisti, per tutto ciò che riguarda la riorganizzazione tecnica, amministrativa e politica del nostro Paese. Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza, ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro.»

(Benito Mussolini, 19 agosto 1921 - Diario della Volontà)

Il giornalista, politico e antifascista Piero Gobetti nel 1922, riconduceva il fascismo alla tendenza all'autoritarismo tipica della cultura italiana, che a suo parere rifugge dal confronto delle idee e predilige invece la disciplina dello Stato forte:

«il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco»

Fra le innumerevoli interpretazioni successive del fascismo si riportano le seguenti di Lelio Basso (1961):

«Il fascismo è stato un fenomeno più complesso, in cui hanno confluito e si sono incontrate componenti diverse, ciascuna delle quali aveva naturalmente le sue radici nella precedente storia d'Italia per cui è assurdo parlare del fascismo come di una parentesi che bruscamente interrompe il corso della nostra storia, ma neppure si può affermare che esso sia semplicemente il logico punto d'approdo di questo corso precedente. Se il fascismo trova indubbiamente le sue origini nel nostro passato risorgimentale, se le componenti (...) sono venute maturando attraverso il tempo talché si può dire che costituiscano dei filoni ininterrotti tuttavia ciò che determinò il loro incontro in una sintesi nuova fu la guerra mondiale e la crisi del dopoguerra che, virulentando i germi preesistenti, fece esplodere in forma acuta quelle che erano state fin allora delle malattie croniche del nostro organismo. Ci sono quindi nel fascismo elementi di continuità ed elementi di novità e di rottura rispetto alla storia precedente: gli elementi di continuità sono appunto quelle malattie croniche, quegli squilibri tradizionali che in parte affondano le loro radici nei secoli passati e in parte sono un portato del processo risorgimentale, del modo cioè come l'Italia giunse a essere uno Stato unitario e moderno, mentre l'elemento di novità è la virulentazione sopravvenuta con la guerra e il dopoguerra che, mettendo in crisi i precari equilibri precedenti, fa scoppiare tutte le contraddizioni e precipita la situazione italiana fino al punto di rottura, determinando una sintesi nuova, un equilibrio nuovo, un fenomeno nuovo che appunto s'è chiamato fascismo.»

Quella recente (2002) dello storico Emilio Gentile fu invece la seguente:

«Un fenomeno politico moderno nazionalista rivoluzionario antiliberale antimarxista organizzato in un partito milizia con una concezione totalitaria della politica e dello Stato con un'ideologia attivistica e antiteoretica, a fondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuova civiltà.»

Da ultimo, è importante sottolineare come il fascismo fu sempre considerato dai suoi aderenti un movimento rivoluzionario, trasgressivo e ribelle (emblematico in tal senso il motto «me ne frego») in radicale contrasto col liberalismo dell'Italia pre-fascista. Pur avendo all'inizio tutelato gli interessi della borghesia industriale, Mussolini respinse ogni ipotesi di collusione con essa. Emblematico di ciò fu il cosiddetto programma di socializzazione dell'economia, tentata durante l'esperienza della Repubblica Sociale Italiana.

La politica interna e l'attività in Italia

Nel corso dei due decenni di governo, detti ventennio, il fascismo cercherà anche di imporre la propria visione antropologica al popolo italiano attraverso politiche educative, culturali, eugenetiche e infine attraverso una legislazione razzista e antisemita. In politica estera, il regime promuoverà prima una blanda revisione dei trattati di pace del 1919 per assicurare contemporaneamente una maggiore forza all'Italia e la stabilità in Europa, ma in seguito al sorgere del nazismo in Germania a metà degli anni trenta, il regime compì una spirale di scelte tali che nel suo ultimo quinquennio il fascismo finì col legarsi sempre più al regime nazista, con il quale finirà coinvolto nella seconda guerra mondiale. In seguito alla crisi del 1924-25 il regime fascista - fino ad allora al governo in maniera statutaria - subirà una svolta autoritaria che porterà all'abolizione delle libertà democratiche e alla realizzazione di una dittatura autoritaria. Il potere relativamente ampio del regime mussoliniano, ottenuto tramite la soppressione poliziesca dell'opposizione politico-partitica, consentirà al fascismo di imprimere radicali modifiche al paese, alla sua società, alla sua cultura e alla sua struttura economica.

L'esperienza bellica sarà disastrosa per il regime e per il paese. Le sconfitte sui fronti d'Africa e Russia con la conseguente invasione alleata delle regioni meridionali italiane portò alla caduta del governo di Mussolini e al suo arresto e la nomina del generale Badoglio come primo ministro: in una sola giornata venti anni di regime vennero spazzati via e quindi a una divisione della penisola in due tronconi, occupati rispettivamente dalle forze dell'Asse al nord e Alleati al sud. Questa divisione consentì una temporanea rinascita del fascismo nelle regioni settentrionali, dove esso organizzò uno Stato di fatto (Repubblica Sociale Italiana, RSI) riconosciuto solo dai paesi dell'Asse. Negli ultimi venti mesi di esistenza il fascismo fu coinvolto nella guerra civile con le formazioni partigiane che fiancheggiavano l'avanzata alleata. Alla fine di aprile 1945 con il crollo del fronte e l'insurrezione popolare proclamata per il giorno 25 dal Comitato di Liberazione Nazionale, la RSI fu spazzata via. I suoi elementi dirigenti - compreso Mussolini - catturati dai partigiani, furono fucilati fra 28 e 29 aprile 1945. Con la morte di Benito Mussolini l'esperienza fascista può essere considerata conclusa.

Lo storico Federico Chabod evidenzia le cause fondamentali dell'ascesa del fascismo: la complessa e conflittuale situazione politica con il benevolo atteggiamento di Giolitti verso i fascisti e i contrasti interni al partito socialista diviso tra riformismo e massimalismo nonché i contrasti tra cattolici e socialisti; il mito della vittoria mutilata nato alla fine della prima guerra mondiale; l'inflazione della moneta; l'aumento delle tasse e dei prezzi; la disoccupazione diffusa che riguardava ovviamente anche gli ex combattenti; il problema della riconversione industriale da industria bellica a industria di pace; la rovina economica delle classi medio e piccolo-borghesi; i facili arricchimenti di guerra; i grandi proprietari fondiari e gli industriali che temevano l'avvento di un bolscevismo italiano e vedevano con sgomento l'occupazione delle terre e delle fabbriche, gli scioperi, le agitazioni operaie, ed erano quindi pronti ad appoggiare le squadre fasciste per tutelare i propri interessi. Ha scritto testualmente lo Chabod: "Tutto questo determinò un profondo sconvolgimento che colpì tutti gli interessi e offese tutti i sentimenti. Interessi colpiti: piccoli borghesi che cadono nelle ristrettezze economiche, grandi proprietari fondiari che cominciano a temere l'avvento del bolscevismo italiano e vedono con sgomento l'occupazione delle terre, gli scioperi, le agitazioni operaie, l'occupazione delle fabbriche. Sentimenti offesi: l'amor di patria negato da socialisti e comunisti, la delusione dei trattati di pace, il mito della vittoria mutilata, la vana attesa delle masse della pace e della giustizia, il disordine e l'anarchia ogni giorno crescenti, la paura e l'incubo della rivoluzione sociale."

In queste circostanze il fascismo, che propugnava la necessità di uno Stato forte e totalitario, l'esigenza dell'ordine e del rispetto della proprietà, la lotta al bolscevismo, apparve come una concreta possibilità di salvezza alla borghesia, sia dal punto di vista economico sia da quello ideologico. "Agrari e industriali, reagendo al movimento proletario, appoggiarono il fascismo; se gli uni non volevano sentire parlare di terre ai contadini e dell'imponibile della mano d'opera, gli altri non accettavano il controllo operaio sulle fabbriche. Il loro appoggio finanziario al fascismo è fuori discussione". Lo Chabod evidenzia inoltre l'errore commesso dal Giolitti: "L'errore fondamentale del Giolitti fu di valutazione: giudicò il fascismo in base alle vecchie formule della lotta politica e parlamentare, credette ancora alla possibilità di blandirlo, di servirsene, di affidargli la parte di aiutante, salvo a sbarazzarsene in seguito". Le squadre, che, a detta di Mussolini, giunsero a raccogliere 300.000 aderenti, fornirono il nerbo della forza eversiva con la quale, il 28 ottobre 1922 il Fascismo marciò su Roma convincendo il sovrano Vittorio Emanuele III a consegnare le redini del governo.

Con il congresso di Roma del 9 novembre 1921 il fascismo si trasformò da movimento in partito. In seguito alla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922, il re Vittorio Emanuele III incaricò Benito Mussolini di formare un nuovo governo. Mussolini si presentò alle Camere con un governo di coalizione formato soprattutto da esponenti liberali, cattolici e da alcuni esponenti moderati dal Partito Fascista, e ottenne la fiducia il 30 ottobre del 1922. Il programma politico aveva subito una serie di aggiustamenti con l'obiettivo di favorire gli abboccamenti con le forze conservatrici e reazionarie, le quali cominciarono quasi subito a finanziare il movimento.

Con l'arrivo al potere, Mussolini intraprese una politica di riassetto delle casse dello Stato, di liberalizzazioni e riduzioni della spesa pubblica. Venne riformata la scuola dietro impulso del filosofo Giovanni Gentile. D'altro canto diede seguito a una serie di rivendicazioni delle associazioni combattentistiche, e dei sindacati fascisti, garantendo le pensioni e le indennità ai reduci e ai mutilati e rendendo obbligatoria la giornata lavorativa di otto ore agli operai. In politica estera, l'Italia accettò i patti siglati a Locarno con la Jugoslavia, ma ebbe la protezione delle minoranze italiane in Dalmazia e l'autonomia di Fiume (che nel 1924 venne unita all'Italia). Infine ci fu anche la revisione - a favore dell'Italia - dei confini delle colonie (fu rettificato il confine di Tripolitania e Cirenaica ed esteso il Fezzan ad alcune oasi strategiche, e alla Somalia venne annesso l'Oltregiuba).

La presenza tuttavia di un'ala oltranzista nel PNF, rappresentata da elementi estremisti come Italo Balbo e Roberto Farinacci, impedì la "normalizzazione" delle squadre d'azione, che continuarono a imperversare nel paese spesso fuori da ogni controllo. Ne fecero le spese numerosi antifascisti, il più importante dei quali, Giacomo Matteotti, che accusò in Parlamento Mussolini di aver vinto grazie a brogli elettorali, venne assassinato il 10 giugno 1924 nel corso del suo rapimento da parte di una banda di squadristi capeggiata da Amerigo Dumini.

La cosiddetta "crisi Matteotti" che ne seguì mise il governo Mussolini di fronte a un bivio: continuare a governare in modo legalitario, rispettando quantomeno nella forma lo Statuto, oppure imprimere una svolta autoritaria. Mussolini, premuto dai ras dello squadrismo, optò per la seconda scelta. Il fascismo divenne dunque dittatura. I passaggi successivi con cui il governo Mussolini si trasforma in dittatura sono i seguenti (per approfondire, vedi anche leggi fascistissime):

3 gennaio 1925 - Discorso della "Ceka" (il cosiddetto "mezzo colpo di Stato" del 3 gennaio.) Mussolini respinge l'accusa di essere mandante dell'omicidio di Matteotti ma rivendica la "responsabilità politica storica e morale" degli avvenimenti e del clima di violenza di quei mesi. Annuncia provvedimenti straordinari contro la Secessione dell'Aventino e minaccia di usare la Milizia contro le aggressioni dell'opposizione a membri dei Fasci e a militari. Il giorno successivo il ministro degli Interni Federzoni, inoltre, fa diramare telegrammi a tutti i prefetti affinché si proceda alla "chiusura di tutti i circoli e ritrovi sospetti dal punto di vista politico", "lo scioglimento di tutte le organizzazioni "sovversive"", "la vigilanza sui comunisti e gli "antinazionali"".

2 ottobre 1925 - Patto di Palazzo Vidoni (perfezionato con la legge Rocco del 3 aprile 1926) che riduce i sindacati a due, uno per i lavoratori e l'altro per il padronato (entrambi fascisti), abolisce il diritto di sciopero (per gli operai) e di serrata (per il padronato) e riconduce le controversie fra lavoratori e datori di lavoro all'arbitrato dello Stato e delle corporazioni.

24 dicembre 1925 - Tutti i poteri vengono affidati a Mussolini: il capo del governo viene dichiarato non più responsabile di fronte al Parlamento, ma solo nei confronti del sovrano.

31 ottobre 1926 - Mussolini subisce un attentato da parte di Anteo Zamboni in seguito al quale vengono abolite la libertà di stampa per l'antifascismo, i partiti e le organizzazioni antifasciste e si dichiarano decaduti i deputati della Secessione dell'Aventino.

La politica economica.

Lo stesso argomento in dettaglio: Politica agraria del fascismo italiano, Politica economica fascista, Autarchia e Politiche sociali del fascismo.

La repressione e i rapporti con Cosa nostra

Durante il fascismo, la lotta alla mafia venne affidata a Cesare Mori, ricordato come il "prefetto di ferro", inviato nell'isola nel maggio del 1924, dove condusse una dura repressione delle attività criminose di Cosa nostra in Sicilia. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, entrando nella Cosa nostra statunitense, mentre un'altra restò in disparte. Il "prefetto di ferro" coinvolse anche personalità di spicco del PNF come Alfredo Cucco, che fu espulso dal partito. Nel 1928 Mori fu nominato senatore e nel 1929 collocato a riposo.

La mafia ridarà segni di vita prima dello sbarco alleato del luglio 1943. Nel 1932, nel centro di Canicattì, avvengono tre omicidi, altri a Partinico associati incendi, danneggiamenti in stile mafioso; e eventi delittuosi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con «qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino». Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri, pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti.

La repressione e i rapporti con la Camorra

La mano ferma contro la criminalità agli inizi era servita al fascismo per affermarsi. Centinaia di delinquenti, piccoli e grandi, vennero inviati al confino. L'obiettivo era duplice: arrestare i camorristi scomodi, restii ai patti con la polizia, e dare all'opinione pubblica dimostrazione di una mano ferma contro la criminalità, legando ancora di più al regime i delinquenti più morbidi.

Mussolini sottovalutò il fenomeno camorristico, tanto che concesse la grazia a molti dei camorristi condannati a Viterbo. Molti delinquenti diventarono squadristi entrando nelle squadre fasciste ed ebbero in cambio il silenzio sul loro passato. Un altro guappo violento, Marco Buonocuore, sparò a un operaio antifascista e ottenne buoni incarichi pubblici. L'iscrizione al Partito Fascista era comunque agevolata, senza tener conto della fedina penale.

La filosofia, il pensiero e l'ideologia

La dottrina fascista

Sebbene il fascismo sia nato come movimento politico filosoficamente a carattere prettamente idealista, anti-ideologico e pragmatico, storicamente si è estrinsecato in una serie di posizioni, di volta in volta supportate da un'ampia e roboante propaganda, apparentemente contraddittorie - se non incoerenti - fra loro. Per tale motivo, nell'analizzare il fenomeno fascismo occorre scindere il fascismo "ideale" da quello "reale" esattamente come si fa per il marxismo, considerando che il modus operandi del fascismo storico fu dettato dalle circostanze tanto quanto dall'ideologia e dalla filosofia, e che a circostanze diverse la medesima ideologia è stata cambiata e piegata dalla filosofia originaria del movimento.

Nel saggio La dottrina del fascismo pubblicato nel 1932 viene fatta un'esposizione sistematica del pensiero fascista. Nella dottrina del fascismo il movimento si percepisce come nazionalista, il cui obiettivo finale è "una più grande Italia". Secondo i pensatori fascisti e lo stesso Mussolini, questo obiettivo si inquadra in una visione della storia di tipo conflittuale, nella quale società a base più o meno nazionale si incontrano, concorrono fra loro e - se necessario - si scontrano. E - per necessità darwiniana - in questo scontro sopravvivono solo le nazioni compatte al proprio interno, da cui discende la necessità di trovare una sintesi hegeliana della lotta di classe e delle esigenze dello Stato, tramite l'obbligo per ciascun cittadino (prestatore d'opera o capitalista) a concorrere a una concordia nazionale nel nome della produzione (industriale, agricola, bellica, etc., fonte di ricchezza per l'intera comunità nazionale e di potenza per lo Stato).

All'origine del movimento vi è l'idea mussoliniana della nascita, nelle trincee della grande guerra e nelle fabbriche della produzione bellica, di una nuova aristocrazia dei combattenti (trincerocrazia) e dei lavoratori che realizzi, appunto, "la sintesi dell'antitesi classe-nazione".

«Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini»

(Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919")

La concordia interna al paese viene sostenuta con argomentazioni organiciste e con l'affermazione metafisica che la Nazione è più della somma dei singoli individui che l'abitano, bensì "un organismo comprendente la serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti". Per la qual cosa, i viventi sono impegnati da un obbligo di riconoscenza verso le generazioni che li hanno preceduti e da un obbligo a lasciare un paese migliore alle generazioni che seguiranno. Cardine fondamentale della filosofia fascista è l'assoluta preminenza dello Stato e tramite questo del partito fascista (che se ne considerava al servizio), in ogni aspetto della vita politica e sociale. In questo senso il fascismo si pone come un movimento politico di stampo neohegeliano propugnando lo stato etico. Organicismo e stato etico hanno come conclusione logica la proclamazione del totalitarismo, nel IV Congresso del PNF (1925) per voce dello stesso Mussolini. Lo Stato totalitario avoca a sé tutte le prerogative e i diritti e pervade in maniera "totalitaria", appunto, le esistenze dei suoi cittadini. La concezione fascista dell'uomo prevede la negazione del cosiddetto homo oeconomicus, visione che gli ideologi fascisti sostengono accomuni liberalismo e marxismo, per proporre una visione differente.

«Noi abbiamo respinto la teoria dell'uomo economico, la teoria liberale, e ci siamo inalberati tutte le volte che abbiamo sentito dire che il lavoro è una merce. L'uomo economico non esiste, esiste l'uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero.»

(Benito Mussolini, Discorso del 14 novembre 1933, in "Tutti i discorsi - anno 1933")

Il fascismo è filosoficamente debitore di due opposte e differenti correnti di pensiero ottocentesche: da un lato vi è una corrente che si potrebbe definire "di sinistra", che si pretende ispirata a personaggi come Sorel, Proudhon, Corridoni e ai Futuristi, che propugnavano la rivoluzione, il sindacalismo combattente, l'ascesa della violenza come irrazionale ma decisiva soluzione ai problemi e alle aporie della logica e della democrazia liberale.

Dall'altro lato si riallaccia a correnti di pensiero ultraconservatrici, che risalgono al XIX secolo, in generale contraddistinte dalla critica contro il materialismo e l'idea di progresso delle società capitaliste borghesi, ritenute distruttrici dei valori più profondi della civiltà europea. Tali scuole di pensiero tendono a rievocare un'idea romantica, di una mitica società premoderna, armonica e ordinata, nella quale i diversi ceti della società, ciascuno nel suo ambito, collaborano per il bene comune. Da questo promana la critica alla democrazia liberale e alla società di massa "che avvilisce l'uomo" (il numero contro la qualità), fino a giungere a pensatori che sul finire del XIX secolo e l'inizio del XX secolo ritenevano esaurita la funzione della civiltà occidentale (in particolare Oswald Spengler, autore del famoso saggio Il tramonto dell'Occidente). Infine, non meno importante, soprattutto in Mussolini, è l'influenza del pensiero di Nietzsche, che - sebbene sommamente impolitico - permea continuamente il modus cogitandi del capo del fascismo.

I punti fondamentali

Sebbene il fascismo si proclamasse anti-ideologico, un'ideologia del fascismo fu elaborata negli anni venti e successivamente stilata in un articolo scritto da Giovanni Gentile durante il suo incarico di Ministro della pubblica istruzione e poi siglato da Mussolini, che però venne applicata solo in parte. In particolare essa non fu mai rigidamente codificata, sebbene abbondassero durante tutto il ventennio le "volgarizzazioni" e i "catechismi", che ebbero più che altro funzione propagandistica verso il popolo minuto. In pratica, però, nell'élite dirigente e intellettuale del Regime si dibatté aspramente sui vari indirizzi da dare alla politica italiana, e il fascismo oscillò spesso fra posizioni diversissime e contraddittorie.

Fra gli aspetti ideologici del fascismo che occorre citare, vi sono i seguenti:

il culto di Roma – Il fascismo si propone come ideale rinnovatore dei fasti della Roma antica, e vede in essa una sorta di mito di fondazione della nazione italiana;

l'esaltazione dell'autarchia in economia e del nazionalismo, anche linguistico: infatti, durante il periodo fascista si perseguì una politica di italianizzazione forzata, e le minoranze linguistiche furono perseguitate;

il culto della giovinezza – Il fascismo si considerava innanzitutto una rivoluzione generazionale. Mussolini è stato il più giovane primo ministro dell'Italia unita e attraverso il Futurismo il fascismo ha assorbito il mito della gioventù;

il culto della violenza – Nascendo dagli arditi e dai futuristi e dal sindacalismo rivoluzionario di Sorel il fascismo fa suo ed esalta il culto della violenza;

il "principio del capo" – Anche questo mediato dagli arditi, prevede una concezione gerarchica e piramidale del mondo. Viene dunque esaltata l'obbedienza, anche cieca, irrazionale e totale;

il corporativismo, inteso come superamento sindacal-organicista e interclassista del socialismo e del liberalismo.

In particolare quest'ultimo addentellato divenne sempre più importante nel fascismo a partire dalla grande crisi del 1929, tanto da poter essere considerato più un aspetto genetico del fascismo che non semplicemente ideologico.

La dittatura

Fondamentalmente il fascismo rifiuta la democrazia; esso non considera sé stesso un'esigenza temporanea, ma un sistema politico a sé stante a tutti gli effetti: la "terza via" contrapposta tanto alla destra reazionaria quanto alla sinistra marxista.

«Nessuno vorrà gabellare per "rivoluzionario" il complesso dei fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi. Non è una rivoluzione quella che si attua, ma è la corsa all'abisso, al caos, alla completa dissoluzione sociale. Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze. Farei meglio a dire -se mi permettete questo termine chimico- che sono un reagente. Se il carro precipita, credo di far bene se cerco di fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche con la violenza. Ma sono certamente rivoluzionario quando vado contro ogni superata rigidezza conservatrice o contro ogni sopraffazione libertaria. I peggiori reazionari in questo momento sono, per il Fascismo e per la storia, coloro che si dicono rivoluzionari, mentre i Fascisti, tacciati cretinamente di "reazionari", sono in realtà, coloro che eviteranno all'Italia la terribile fase di un'autentica reazione. Chiunque in Italia abbia il coraggio di fronteggiare le degenerazioni della sovversione e non, corre il pericolo di essere bollato come reazionario; ma poiché tali degenerazioni esistono e poiché il coraggio di fronteggiarle lo abbiamo dimostrato seminando anche di nostri morti le piazze d'Italia, noi abbiamo la spregiudicata disinvoltura di sorridere se ci chiamano reazionari. Io non ho paura delle parole. Se domani fosse necessario, mi proclamerei il principe dei reazionari. Per me tutte queste terminologie di destra, di sinistra, di conservatori, di aristocrazia o democrazia, sono vacue terminologie scolastiche. Servono per distinguerci qualche volta o per confonderci, spesso»

(Benito Mussolini, dal discorso tenuto al senato il 27 novembre 1922)

Il fascismo sostiene che le "autoproclamatesi" democrazie siano in realtà effettivamente regimi plutocratici, sorta di dittature massoniche basate sulla manipolazione della volontà popolare.

«Il fascismo è un metodo, non un fine; un'autocrazia sulla via della democrazia»

(Benito Mussolini, dall'intervista concessa all'inviato del Sunday Pictorial di Londra il 12 novembre 1926)

Questa considerazione viene da un aspetto dell'origine del fascismo, che è riassunta nel famoso discorso di Benito Mussolini nella frase:

«Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente.»

Il fascismo secondo il suo fondatore avrebbe dovuto rappresentare una forma di governo al di sopra delle divergenti opinioni dei partiti.

Nella sua fase finale il fascismo rifiutò poi le elezioni sul modello dei regimi democratici liberali dell'epoca (definendoli Ludi cartacei) ideando la democrazia organica, che ebbe una sperimentazione parziale poi nella Spagna franchista e nel Portogallo.

Assumono carattere totalitario così sia le leggi che hanno provveduto a eliminare (o "fascistizzare") le libertà liberali quali quelle di associazione, di stampa, di espressione etc., sia le leggi cosiddette "fascistissime", ossia:

legge 24 dicembre 1925: il potere esecutivo passa completamente nelle mani di Mussolini che non deve più rispondere al parlamento ma rimane responsabile solo verso il re;

legge 31 gennaio 1926: al potere esecutivo viene data la facoltà di emanare norme giuridiche;

legge 5 novembre 1926: viene creato il "tribunale speciale" (e, fra l'altro, ripristinata la pena di morte);

legge 9 dicembre 1928: il Gran Consiglio del Fascismo diventa, da vertice gerarchico del partito, organo dello Stato, sovrapposto ai poteri e agli istituti designati dallo Statuto;

Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 6 maggio 1926: viene ripristinato il confino di polizia, rivolto in particolare agli oppositori politici.

Queste leggi – altrimenti tipiche di qualunque autoritarismo – considerate nel contesto organico dello sviluppo del fascismo, permettono di approfondire ulteriormente i caratteri totalitari del fascismo, ossia:

un'ideologia ufficiale improntata da una filosofia assolutistica che prevede l'identificazione dell'individuo con lo Stato e la subordinazione dell'individuo allo Stato in tutti gli aspetti della vita (e per questo è legittimata la repressione nei confronti di qualsiasi opposizione);

Un sistema politico atto a sfruttare e sviluppare i caratteri della società di massa, dominato da un partito unico i cui vertici si identificano con le massime cariche del legislativo e dell'esecutivo;

L'organizzazione capillare delle forze di polizia a fini di controllo della vita privata dei cittadini e di repressione del dissenso in ogni sua forma (e, conseguente a ciò, un'ampia discrezionalità di tali forze nel fermare, imprigionare, interrogare qualsiasi cittadino da esse ritenuto sospetto di devianza politica nonché collusione palese tra polizia e magistratura nel trattamento giuridico e penitenziario di esponenti, veri o presunti tali, dell'opposizione).

Altro aspetto totalitario del regime si trova nella volontà appunto "totalitaria" di costringere ogni cittadino nell'ambito di un organismo collettivo (il cosiddetto "Armonico Collettivo"); l'individuo viene così inserito forzatamente, a prescindere dalla sua volontà, all'interno di strutture di partito le quali si occupano di "integrarlo" e inquadrarlo "dalla culla alla tomba" in formazioni educative, paramilitari, politiche, culturali, sindacali, corporative e assistenziali.

Accanto alle organizzazioni di partito, il fascismo intese anche dominare i mezzi di comunicazione di massa, avendo intuito Mussolini che il controllo capillare di stampa, radio e cinema era "l'arma più forte" per facilitare la trasmutazione fascista della società italiana; vi fu quindi un controllo rigoroso della circolazione delle informazioni sia attraverso il monopolio statale dei mezzi di informazione di massa (giornali, cinegiornali e radio), sia attraverso il controllo e l'uso della censura preventiva sugli altri mezzi di comunicazione di massa (teatro, cinema, musica leggera, fumetti) culminato nel 1939 con l'estensione del visto di censura preventivo anche per le opere musicali.

Ulteriore carattere totalitario del regime fu il costante uso della violenza e della repressione - oltre che il costante richiamo all'odio, al disprezzo e alla denigrazione - verso i partiti e i movimenti antifascisti o antinazionali (comunisti, neutralisti, bolscevichi, pacifisti, democratici), teso a imporre l'idea fascista su quelle dei suoi nemici (fin dall'inizio), nonché (dal 1938) verso gli ebrei, tramite l'approvazione dei provvedimenti di segregazione razziale. Alla luce di questi elementi, il fascismo inteso come forma di stato "totalitaria" si contraddistingue per la presenza di un partito unico che pervade la società in ogni suo aspetto, tramite un'incisiva e mirata propaganda tesa a imporre il volere del partito unico a ogni individuo, e tramite l'uso delle forze di polizia e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale atte a scoraggiare qualsiasi atto contrario al regime, nonché con l'identificazione di un "nemico" da additare al popolo (comunisti, partiti antifascisti, democratici, pacifisti, e dal 1938 anche ebrei).

L'era fascista

La volontà del fascismo di incidere nella storia si manifestò anche con l'istituzione della cosiddetta era fascista, ossia una particolare numerazione degli anni che faceva riferimento al giorno della marcia su Roma. Il primo anno dell'Era fascista era considerato dal 29 ottobre 1922 al 28 ottobre 1923. Il calendario in uso rimaneva quello gregoriano, mentre venivano indicati in maniera diversa solo gli anni. In genere, era adottata una doppia numerazione: in cifre arabe l'anno secondo l'Era cristiana e in numeri romani quello secondo l'Era fascista.

L'indicazione dell'introduzione dell'era fascista risulta da una circolare del 25 dicembre 1926 emanata da Benito Mussolini come capo del Governo. L'origine viene però ricondotta a una richiesta presentata il 26 novembre 1926 da Pietro Fedele, ministro della pubblica istruzione.

L'anno era considerato a partire dal 29 ottobre di ogni anno (giorno successivo alla marcia su Roma per terminare il 28 ottobre dell'anno successivo.

Il sistema di datazione fu interrotto dal 26 luglio 1943 con la caduta del Governo Mussolini; fu ripreso dalla Repubblica Sociale Italiana tra il 15 settembre 1943 e il 28 aprile 1945.

L'attuazione pratica

Pochi punti fermi dell'ideologia fascista furono sempre rispettati, cambiando di volta in volta la politica contingente, attraverso una visione pragmatica quando non cinica: fra essi, il principio di "una più grande Italia"; il principio del "primato del duce"; il principio dei "doveri dell'uomo". Tutto il resto, dalla politica economica (di volta in volta liberista nel suo primo periodo, statalista dopo la crisi del 1929, infine velleitariamente socializzatrice durante il periodo repubblicano) a quella estera (con le alleanze oscillanti, l'anticomunismo accompagnato dal riconoscimento dell'URSS), a quella militare (militarismo per le masse, accompagnato da una progressiva riduzione delle spese per le Forze Armate), fu di volta in volta determinato dalle direttive mussoliniane.

Il fascismo visse infatti soprattutto della volontà di Mussolini e si limitò a seguire alcuni principi di massima da lui indicati di volta in volta. Inoltre questo portò ad alimentare il culto della personalità, adoperando i mezzi di comunicazione di massa per trasmettere un ideale di uomo forte, deciso e risoluto: un fenomeno che ha preso il nome di "mussolinismo".

«Il mussolinismo è [...] un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza.»

(Piero Gobetti, "La rivoluzione liberale")

La cultura fascista

Il Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato il 30 marzo 1925 fu il primo documento ideologico della parte della cultura italiana che aderì al regime fascista e il tentativo di indicare le basi politico-culturali dell'ideologia fascista. Anche la letteratura italiana durante il fascismo fu influenzata dal regime.

L'Istituto Nazionale di Cultura Fascista (INCF) fu fondato nel dicembre 1925 e preposto alla diffusione e allo sviluppo degli ideali fascisti e della cultura italiana. Fu alle dirette dipendenze del Segretario del Partito e fu sottoposto all'alta vigilanza di Mussolini.

Sempre nel 1925 nasce l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a opera di Giovanni Treccani e Calogero Tumminelli, con direttore scientifico il filosofo Giovanni Gentile. Le sue principali opere furono dal 1929 l'Enciclopedia Italiana diretta da Gentile e nel 1940 il Dizionario di politica, diretto dal filosofo del linguaggio Antonino Pagliaro. Nel 1926 fu fondata la Reale Accademia d'Italia con il compito di "promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti". Prese il via nel 1929. Dopo il Manifesto degli intellettuali fascisti del '25, Mussolini e Gentile firmarono la voce fascismo dell'Enciclopedia Italiana, definita un "centone pragmatista" da Federzoni.

La Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, fondata nel 1930 a Milano da Niccolò Giani e da Arnaldo Mussolini, si proponeva in particolare di essere il centro di formazione politica dei futuri dirigenti del Fascismo. I principi-chiave sui quali l'insegnamento si basava erano l'attivismo volontaristico, la fede nell'Italia dalla quale si riteneva derivasse quella in Benito Mussolini e nel Fascismo, l'anti-razionalismo, un certo connubio tra religione e politica, la polemica con la liberal-democrazia e il socialismo, il culto della "romanità".

I Littoriali dello Sport, della Cultura e dell'Arte e del Lavoro erano manifestazioni culturali, artistiche e sportive destinate ai migliori universitari dei GUF, svoltesi in Italia tra il 1932 e il 1940. Erano organizzati dalla Segreteria nazionale del Partito Nazionale Fascista.

Razzismo e antisemitismo.

Alla fine degli anni trenta il fascismo cominciò a elaborare una serie di teorie razziste e antisemite, in parte a imitazione di ciò che stava avvenendo parallelamente in Germania. Nell'autunno 1938, nel quadro di una grande azione razzista già tempo prima, il governo Mussolini varò la "normativa antiebraica sui beni e sul lavoro", ossia la spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia. In seguito a una feroce campagna di stampa (in parte pagata segretamente da agenti tedeschi incaricati da Goebbels) si giunse ad approvare in fasi successive delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei e delle popolazioni non indoeuropee delle colonie. In queste ultime si puntò alla realizzazione di una sorta di sviluppo separato (apartheid) del genere praticato in quel periodo già in alcune colonie britanniche e negli Stati del sud degli Stati Uniti. In seguito i provvedimenti discriminatori si estesero anche ai cittadini italiani e libici di religione israelita, con un progressivo allontanamento della maggioranza di essi dalla vita pubblica italiana nonché con l'internamento in vari campi di concentramento fascisti.

Venne anche promulgato un Manifesto della razza, nella stesura del quale oltre a nomi dell'Accademia d'Italia vi era anche la mano di Mussolini. Nel 1938 Benito Mussolini espose il suo pensiero circa la questione razziale in questa maniera:

«Questo principio razzista introdotto per la prima volta nella storia del popolo italiano è di un'importanza incalcolabile, perché anche qui eravamo di fronte a un complesso di inferiorità. Anche qui ci eravamo convinti di non essere un popolo, ma un miscuglio di razze per cui c'era motivo di dire, negli Stati Uniti: “Ci sono due razze in Italia: quella della valle del Po, e quella meridionale.” Queste discriminazioni si facevano nei certificati, negli attestati, ecc. Bisogna mettersi in mente che noi non siamo camiti, che non siamo semiti, che non siamo mongoli. E, allora, se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani e siamo venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri. (...).»

(Benito Mussolini, "Tutti i discorsi - anno 1938")

Mussolini, in merito all'insorgere di una questione ebraica per il fascismo, poi, così proseguiva:

«Il problema di carattere generale lo si pone in queste linee: che l'ebreo è il popolo più razziale dell'universo. È meraviglioso come si mantengano puri nel corso dei secoli, poiché la religione coincide con la razza e la razza con la religione (...) Non vi è dubbio che l'ebraismo mondiale è stato contro il fascismo; non vi è dubbio che durante le sanzioni tutte le manovre furono tracciate dagli ebrei; non vi è dubbio che nel 1924 i manifesti antifascisti erano costellati di nomi di ebrei (...) E a tutti coloro che hanno il cuore dolce - troppo dolce - e si commuovono occorre domandare: "Signori, quale sarebbe stata la sorte di 70.000 cristiani in una tribù di 44 milioni di ebrei?".»

(Benito Mussolini, "Tutti i discorsi - anno 1938")

Il razzismo fascista prese varie forme, nel tentativo di distinguersi da quello nazista, e in esso convissero sia la convinzione del razzismo biologico sia quella del razzismo spirituale, invece generalmente assente nei razzismi nazista e in quelli di altri paesi. Un importante contributo all'antisemitismo fascista venne anche da taluni ambienti cattolici, sebbene il Vaticano non abbia mai né approvato, né appoggiato ufficialmente i provvedimenti antisemiti. Nessun documento proverebbe invece pressioni ufficiali e dirette da parte tedesca durante la genesi dei provvedimenti razziali.

A differenza degli altri razzismi del suo tempo, quello fascista è solo tangente alle politiche eugenetiche condotte dal regime, che erano fondamentalmente razziste nella Germania nazista e invece assenti nei razzismi coloniali e post-schiavisti rispettivamente britannico e statunitense. Infatti sebbene i provvedimenti per la difesa della razza prevedessero l'apartheid degli ebrei e dei non-indoeuropei rispetto agli italiani ariani, tutte le provvigioni e le iniziative a carattere eugenetico (ginnastica, colonie per l'infanzia, sanatori, Opera Maternità e Infanzia etc.) proposte e imposte dal regime continuarono ad applicarsi anche ai sudditi di cittadinanza libica e a quelli dell'AOI, almeno fino al 1942.

Il rapporto col nazismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Nazifascismo.

Il nazionalsocialismo si presenta, soprattutto dal punto di vista ideologico, come una particolare forma di "socialismo fascista". Nei fatti tuttavia l'aspetto "socialista" del regime tedesco era fondamentalmente una trovata propagandistica. L'interpretazione più diffusa è che il nazismo fu anch'esso una forma di fascismo; il regime tedesco si ispirava apertamente a Mussolini e condivideva col fascismo italiano impostazione economica, politica e sociale, nonché la politica estera aggressiva e i tratti ideologici caratteristici del fascismo fattosi regime.

Questa visione è respinta da alcuni storici che vedono nelle dittature italiana e tedesca due fenomeni distinti. Stanis Ruinas per esempio sostiene che il nazismo nasce come ideologia gemella al fascismo italiano, e tale rimane solo fino al 29-30 giugno 1934, quando con la "notte dei lunghi coltelli" la corrente "di destra" facente capo a Hitler elimina la corrente "di sinistra" facente capo a Ernst Röhm. Da quel momento il nazismo abbraccia implicitamente il capitalismo e si prefigura come un'ideologia prettamente di destra, abbandonando ogni ipotesi rivoluzionaria e quindi rimanendo "socialista" solo nel nome.

Secondo Ruinas da quel momento il paragone tra fascismo e nazismo è quindi unicamente fittizio e artificialmente mantenuto dal nazismo per motivi propagandistici di immagine pubblica. Questa analisi si basa sull'osservazione che nel fascismo italiano la componente "di sinistra" continuò a esistere, sebbene piuttosto emarginata per molti anni, e anzi nella RSI sarebbe tornata maggioritaria.

Secondo altre analisi, tuttavia, il passaggio dal cosiddetto "fascismo-movimento" (con slogan talvolta socialisteggianti) al "fascismo-regime" (con tratti più nettamente conservatori) fu un processo analogo, sebbene meno cruento e drastico, a quanto avvenuto in seguito in Germania in forma più convulsa durante la Notte dei lunghi coltelli. La spiegazione sociologica di questa "frattura" in entrambi i fascismi è dovuta al ruolo particolare (e caratterizzante del fascismo rispetto a generiche dittature di destra) che ha la mobilitazione dei ceti medi, rovinati dalla crisi economica in Germania o frustrati dalla fine della guerra e dallo scoppio delle lotte sociali in Italia; la mobilitazione di questi gruppi sociali è resa possibile specialmente dalla fraseologia rivoluzionaria e movimentista propria tanto dello squadrismo quanto delle SA, ma diventa successivamente un ostacolo al consolidamento della dittatura e richiede quindi l'eliminazione o l'emarginazione di quell'ala in un momento successivo. Con la RSI la necessità di mobilitare nuovamente ampie masse nella guerra civile spinse Mussolini a recuperare elementi dello squadrismo delle origini che erano stati messi in ombra negli anni precedenti.

L'idea di impero (neoghibellinismo)

Il continuo ritorno a un'idea di romanità portò come logica conseguenza l'affermarsi di teorie filosofiche neo-ghibelline, ossia propugnanti la ricostituzione di un Sacro Romano Impero o di un Impero romano che si ricongiungesse in qualche misura con una mistica tradizione ancestrale, e alla fine proponesse il superamento del fascismo in una forma di nuovo imperialismo spirituale e supernazionale, a carattere essenzialmente anticristiano.

Alfiere di queste tesi fu Julius Evola, filosofo perennialista e vicino in seguito al neopaganesimo romano di certi ambienti neofascisti del secondo dopoguerra, il quale rimase tuttavia alquanto isolato nell'ambito del dibattito culturale e filosofico del regime fascista, dominato invece da logiche nazionaliste e da forti correnti cattoliche che poco spazio intendevano lasciare al cosiddetto imperialismo pagano propugnato dal filosofo. Questa idea trovò in seguito sponda e nuovi argomenti in alcuni ambienti nazionalsocialisti e si diffuse soprattutto nel dopoguerra fra i movimenti neofascisti, neonazisti esoterici e tradizionalisti, restando perlopiù fuori anche dall'estrema destra maggioritaria che sarà rappresentata dal Movimento Sociale Italiano.

Secondo la teoria di Julius Evola, il fascismo si configurerebbe come una delle tante manifestazioni storiche del concetto più ampio di Tradizione, ossia di una società basata sui valori di gerarchia, militarismo e misticismo. In quest'ottica diverrebbero forme di Fascismo in senso lato le più disparate esperienze storiche: da Sparta e Roma alle società celtiche, nordiche e germaniche, al Sacro Romano Impero.

Il ruralismo.

L'uomo rurale venne esaltato come l'ideale forma di mascolinità da parte del governo fascista. È tradizionale, ed è anti-moderno. Ardengo Soffici descrive tale ideale mascolinità evidente nelle zone rurali d'Italia:

«[C]on la loro sobrietà, con la forza dei loro bracci nudi, abbronzati dal sole, e la resistenza feroce al lavoro e alla pena, rappresentavano [...] una lezione solenne di virilità»

In antitesi alla borghesia, questa figura è stata iconica nella suggestione che il governo fascista indica come il suo modo di essere, quando nella società del primo Novecento cominciò a venir meno il culto della mascolinità. È importante ricordare che il ruralismo fascista richiede esplicitamente il ripristino di un tradizionale, pre-moderno e rigidamente gerarchico ordine morale. In altre parole, il regime fascista ha utilizzato la figura del ruralismo come un mezzo attraverso il quale ha tentato di trasformare il modernismo in tradizionalismo. A questo proposito, la gioventù contadina che ha cercato di lasciare il villaggio e trasferirsi in città è stata dipinta come fatta di individui mettenti il destino della nazione a rischio attraverso il loro comportamento:

«Le varie fasi del processo di malattia e morte sono precisamente dimostrate, e portano un nome che li riassume tutti: urbanismo e metropolitanismo, come spiega l'autore .... La metropoli cresce, attirando persone dalla campagna, che, tuttavia, non appena esse sono urbanizzate, diventano - come la preesistente popolazione - sterili. I campi tornano a deserto, ma quando le abbandonate e bruciate regioni si diffondono, la metropoli è catturata alla gola: né la sua attività, né le sue industrie, né i suoi oceani di pietra e cemento armato possono ristabilire l'equilibrio che ormai è irrimediabilmente rotto: si tratta di una catastrofe»

Il modernismo, un fenomeno che include il trasferimento di giovani dai villaggi verso le città, è visto in luce negativa dal governo fascista, perché crea un sotto-tipo di mascolinità italiana che è più abile nel vivere all'interno di un'area metropolitana, assumendo meno responsabilità verso la collettività. In altre parole, la gioventù italiana non è più attiva nel coltivare i terreni agricoli, ma, invece, si disinteressa della collettività e quindi di se stessa, rendendo l'intero paese italiano meno fertile. Metaforicamente, ciò significa che essi smettendo di coltivare la loro mascolinità egemonica globalmente, e fisicamente, smettono di contribuire allo stato, perché quelli che si muovono in città di solito hanno meno figli e si sposano con una frequenza minore. Inoltre, l'ambiente sicuro della metropoli impedisce al "nuovo italiano" di godere il suo contatto con la natura, e gli ha impedito di contemplare profondamente sulle sfide morali, nessuna delle quali è messa a sua prova, come un risultato dell'artificiale, "materialista" atmosfera metropolitana che è priva di pericoli e avversità.

Il fascismo nella RSI

Il profilo delle personalità del fascismo rifondato nel Partito Fascista Repubblicano al Congresso di Verona si distinse da quello del ventennio per il protagonismo di numerosi personaggi degli ambienti squadristi, via via emarginati da Mussolini dopo la Marcia su Roma. I vecchi squadristi, che per lunghi anni spesso erano stati relegati a incarichi di secondo piano, tornarono alla ribalta, prendendo l'iniziativa sin dall'annuncio dell'armistizio e prima della proclamazione della Repubblica Sociale Italiana il 27 settembre 1943.

Un'altra caratteristica del fascismo repubblicano fu l'importanza assunta dalle componenti volontarie, che si vennero coagulando sin da prima della fondazione della repubblica e poi ne costituirono un tratto significativo, nelle proprie formazioni sia militari sia civili. Questo sforzo si lega al recupero della tradizione "movimentista" del primo fascismo. Ciò nonostante la RSI dovette ricorrere a numerosi bandi di leva al fine di mobilitare alcune centinaia di migliaia di italiani. Solo con la reiterazione dei bandi - che includevano la minaccia di passare per le armi i renitenti - si riuscì in fasi successive e ad arruolare un numero complessivamente calcolato da fonti reducistiche in sette-ottocentomila uomini, dei quali, sempre secondo le stesse fonti fasciste, un numero oscillante attorno ai duecentomila volontari, in buona parte giovanissimi (anche minorenni). La maggioranza della popolazione mantenne un atteggiamento di indifferenza e freddezza (la cosiddetta "zona grigia") o di ostilità (la "Resistenza disarmata" nelle fabbriche con centinaia di migliaia di scioperanti e sabotaggi continui dello sforzo bellico, nelle campagne, nei campi di internamento tedeschi (col rifiuto degli italiani internati di aderire alle forze armate della RSI) verso il rinato fascismo, consentendo al contempo lo sviluppo e il sostentamento della lotta armata antifascista.

Nel corso dei 600 giorni di durata della Repubblica Sociale, a partire dalla Carta di Verona, i dibattiti interni al Fascismo si orientarono essenzialmente su:

la critica al passato regime, ai suoi compromessi con la monarchia, la Chiesa e l'establishment industriale, ritenuti ostacoli che avevano impedito la completa realizzazione della "rivoluzione fascista";

la socializzazione delle imprese, che divenne tanto un propagandistico "ritorno alle origini" del fascismo quanto una maniera revanscista per colpire le classi sociali alto-borghesi, ritenute dal fascismo squadrista disfattiste, antifasciste se non in aperta combutta col nemico;

la nuova veste istituzionale da dare allo stato, se accettare l'introduzione di elementi democratici nella costituzione dello Stato e se consentire un regime pluripartitico o monopartitico;

la nuova forma da dare alle Forze Armate, interamente volontarie oppure mantenendo una continuità con il vecchio esercito monarchico di coscritti, nonché sulla loro apoliticità oppure sulla necessità di dar loro una veste politica;

il problema del "dopo" tanto in prospettiva di una vittoria dell'Asse (ritenuta ancora possibile grazie alle "armi segrete" di cui si pensava disponesse il Reich) sia quando la sconfitta divenne certa.

Fra le componenti psicologiche e politiche che mossero la RSI e il Fascismo Repubblicano se ne possono evidenziare alcune come emergono dalla memorialistica:

il desiderio di preservare la continuità del regime fascista e del suo collocamento bellico al fianco della Germania;

il desiderio di vendetta contro quegli elementi ritenuti esiziali per il vecchio fascismo: "i nemici di dentro e di fuori" che avevano impedito il completamento della "rivoluzione", avevano sabotato lo sforzo bellico facendo intelligenza col nemico, e avevano tradito Mussolini, identificati con la massoneria, gli ebrei, la plutocrazia, la monarchia, ecc.;

il cupio dissolvi, dettato dal desiderio di cercare "la bella morte" e concludere con essa un'esperienza politica e umana condannata alla sconfitta.

il desiderio di rendere un servizio alla nazione italiana nel suo momento ritenuto più buio (riscattandone l'onore, secondo i fascisti compromesso dall'armistizio dell'8 settembre). Da parte di taluni si è cercata una giustificazione della RSI nel tentativo - evidentemente fallito, visti gli esiti - di "ammorbidire" l'occupazione germanica e di mantenere in piedi l'apparato dello Stato per consentire la sopravvivenza del popolo durante la guerra.

Il dibattito sul significato del termine

Significato concettuale

Nell'ambito storiografico italiano il termine "fascismo" è usato soprattutto in riferimento al regime di governo e all'ideologia promossi e attuati da Benito Mussolini tra il 23 marzo 1919 e il 28 aprile 1945. Tale posizione è sostenuta anche da numerosi storici di formazione non-angloamericana.

Alcuni storici ritengono improprio l'utilizzo del termine "fascista" in riferimento alla Germania nazionalsocialista e ai regimi autoritari formatisi in Europa negli anni trenta e quaranta, considerati derivazioni del caso nazista più che di quello fascista (se si eccettuano il Portogallo di António de Oliveira Salazar, la Grecia di Ioannis Metaxas e il cosiddetto Austrofascismo, che tuttavia presentano somiglianze più che altro superficiali col fascismo italiano) o casi a sé stanti (come per la Spagna di Francisco Franco, il cui movimento e regime sono definiti Franchismo per distinguerli da fascismo e nazismo).

In tal senso, anche il termine "nazifascismo" è considerato scorretto da chi sostiene la specificità del fascismo italiano, perché non consentirebbe di cogliere le differenze avutesi tra i due movimenti. Questi studiosi contestano l'utilizzo del medesimo termine in riferimento a regimi autoritari post-bellici, uso che peraltro risulta essere effettuato in modo incoerente e, talora, con funzione di mero insulto (il termine "fascista" è usato, in tale accezione impropria, col significato astoriografico di "inumano, crudele, oppressivo"): in tal modo "fascista" è stato utilizzato tanto per indicare spregiativamente regimi quali quello di Augusto Pinochet in Cile (privo di una reale base ideologica), nonché regimi di segno ideologico opposto (quali quello comunista cinese e russo) oppure la democrazia americana.

Il punto di vista marxista e socialista

A sinistra, il termine "fascista" è talvolta usato per indicare qualsiasi regime autoritario di destra, specie quelli alleati dell'Asse durante la seconda guerra mondiale, come il regime militarista giapponese o il franchismo spagnolo, o più spesso i loro seguaci. Per alcuni anni, Stalin e la III Internazionale definirono i socialdemocratici come "socialfascisti" (una posizione abbandonata nel 1935).

Dal punto di vista di molte scuole interpretative marxiste, tuttavia, il fascismo vero e proprio è quello dell'Italia e della Germania: un "regime reazionario di massa" secondo la definizione di Palmiro Togliatti, accettata anche dal trotskismo internazionale e in qualche modo vicina alla definizione gramsciana di "rivoluzione passiva". In questo senso, non vengono fatte distinzioni di rilievo fra il regime hitleriano e quello di Mussolini, che vengono invece fatte rispetto a dittature prive di una base di mobilitazione di massa (come quella portoghese di Salazar o quella cilena di Pinochet). Il caso spagnolo è ambiguo, perché se pure esisteva un forte movimento fascista dal lato franchista, Franco non ne faceva parte e anzi si adoperò affinché venissero "riassorbite" in un generico "movimento nazionale" le forze che più apertamente si ispiravano a Hitler o a Mussolini (come la falange spagnola).

In generale, il termine è tuttora usato presso l'area culturale marxista o post-marxista come epiteto dispregiativo nei confronti della destra e in generale degli avversari politici. Un caso recente è stato quello del presidente venezuelano Chávez, che ha descritto il primo ministro spagnolo Aznar come "un fascista".Le interpretazioni del fascismo

All'interno della vasta critica storica sul fascismo, è possibile individuare varie interpretazioni, tra le quali:

quella di Mussolini (scritta con Gioacchino Volpe), che nell'Enciclopedia Italiana alla voce relativa scrisse "il fascismo fu ed è azione";

quella liberale di Benedetto Croce, che considera il fascismo come una "parentesi" della storia italiana, una "malattia morale" a seguito della grande guerra;

quella democratico-radicale di Gaetano Salvemini e del Partito d'Azione, che considera il fascismo come un prodotto logico, inevitabile, degli antichi mali d'Italia;

quella di tradizione marxista, che considera il fascismo come un prodotto della società capitalista e della reazione della grande borghesia contro il proletariato attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il "regime reazionario di massa" descritto dai comunisti italiani in clandestinità);

quella di Renzo De Felice e della sua scuola, che intende rivedere il giudizio storico tradizionale sul fascismo, proponendo un'analisi molto complessa e articolata che sottolinea, fra l'altro, il consenso raggiunto dal regime fascista, soprattutto fra il 1929 e il 1936, nella società italiana.

Interpretazione totalitarista

Il fascismo definiva sé stesso un sistema politico "totalitario". Nella concezione fascista dello Stato, l'individuo ha libertà e gode di diritti solo quando è pienamente inserito all'interno del corpo sociale gerarchicamente ordinato dello Stato (il cosiddetto Stato etico).

Nelle successive analisi degli storici (a partire dallo studio di Hannah Arendt del 1951) si sono sviluppate sostanzialmente due linee interpretative riguardo al carattere del regime fascista: una promossa inizialmente da Hannah Arendt e sviluppata successivamente da diversi autori, fra cui Renzo De Felice, che lo considera come prettamente "autoritario", e uno che lo considera "totalitario" (ma senza alcun'accezione apprezzativa) e che ha nell'allievo di De Felice Emilio Gentile uno dei massimi sostenitori. Tale interpretazione è soprattutto da riferirsi al concetto, promosso da Emilio Gentile, di:

«Totalitarismo inteso come metodo; metodo di conquista e gestione monopolistica del potere da parte di un partito unico, al fine di trasformare radicalmente la natura umana attraverso lo Stato e la politica, e tramite l'imposizione di una concezione integralistica del mondo.»

(Emilio Gentile)

E ancora:

«il totalitarismo – libero dallo sterminio di massa – è una tecnica politica che può essere applicata continuamente in una società di massa. [...] Una tecnica che punta a uniformare l'individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell'informazione.»

(Emilio Gentile)

Inoltre questo totalitarismo è definito da alcuni autori un "totalitarismo statalista" perché, secondo le parole di Giovanni Gentile "per il fascista tutto è nello Stato e nulla [...] ha valore fuori dallo Stato".

Interpretazione autoritaria

Tale interpretazione si basa in gran parte sull'idea, proposta da Hannah Arendt, di considerare il terrore come "la vera essenza" della forma totalitaria di governo; in tal senso, il regime fascista non può considerarsi "prettamente" totalitario in quanto mancò, a differenza di altri regimi quale quello nazista e quello stalinista, uno "sterminio di massa" e un uso costante del "terrore di massa" (cosa che peraltro veniva perpetrata tramite il meccanismo di azione detto Squadrismo).

Mancò inoltre, un completo controllo della comunicazione e dell'informazione.

Inoltre, sempre secondo questa interpretazione, lo stato autoritario ha limiti prevedibili all'esercizio del potere, ossia è possibile "vivere tranquilli" e non incorrere nella vendetta dello Stato se si seguono alcune regole di comportamento, e non si fa opera di militanza e propaganda politica, mentre nello stato totalitario i limiti all'esercizio del potere sono mal definiti e incerti.

Infine a sostegno di questa tesi vi è anche il fatto che il fascismo (a differenza di nazismo e comunismo sovietico) fu obbligato a convivere (spesso anche trovando un comune accordo) con i poteri della Monarchia e della Santa Sede, i quali, nonostante una progressiva erosione delle proprie prerogative, mantennero la propria autonomia (spesso più formale che sostanziale).

Il problema del totalitarismo imperfetto 

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Posizione intermedia fra le due precedentemente citate, il concetto di "totalitarismo imperfetto", coniato dallo storico Giovanni Sabbatucci, riconosce nel fascismo una chiara matrice e una volontà totalitaria, resa però inane dalla presenza di altri poteri (Chiesa e Monarchia), dal suo eccessivo gradualismo e dalla politica mussoliniana di lasciare sempre qualche "valvola di sfogo" a personaggi afascisti o fascisti non "ortodossi" (come ad es. il caso di Nicola Bombacci).

Sono assenti o solo embrionali nel totalitarismo fascista i seguenti attributi caratteristici del caso nazista:

la supremazia del partito rispetto allo Stato;

i campi di sterminio di massa (Vernichtungslager);

un'ideologia sterminazionista nei confronti di nemici "di razza".

Mentre rispetto alla dittatura sovietica vi è una sostanziale differenza in termini di estensione ed efficacia della repressione del dissenso.

Riepilogo

«Per non parlare delle dittature militari di questi ultimi due decenni in Grecia, Cile, Argentina, che pure tanto spesso sono state e vengono definite fasciste. Oggi, in sede scientifica, pressoché nessuno ha più dubbi sul fatto che tali regimi non debbano essere annoverati tra quelli fascisti, ma considerati classici regimi conservatori e autoritari»

(Renzo De Felice)

Attributi del totalitarismo fascista:

monopolio dei mezzi di comunicazione;

presenza di un'ideologia organica, propagandata con i mezzi di comunicazione di massa, cui l'individuo è tenuto ad aderire fideisticamente;

presenza di un partito unico, portatore di questa ideologia, che esercita un'autorità assoluta sotto la guida di un capo e di un ristretto numero di persone;

abbattimento di ogni forza antagonista;

ricorso sistematico alla mobilitazione delle masse, mediante il partito, l'uso della stampa, della radio, del cinema e delle grandi manifestazioni scenografiche;

controllo e repressione di tutte le opposizioni (in particolare quella comunista);

presenza di una polizia politica segreta (OVRA) che controlla l'effettiva "fascistizzazione" degli individui;

sacralizzazione della politica e del capo;

programma di costruzione di un "uomo nuovo";

affermazione del dirigismo politico in ambito economico.

Il neofascismo

Nonostante il divieto di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista, stabilito dalla Costituzione Repubblicana (XII Disposizione Transitoria), movimenti fascisti sopravvissero anche dopo la guerra. In particolare il Movimento Sociale Italiano di Pino Romualdi e Giorgio Almirante, che fu accusato a più riprese di ricostituzione del disciolto partito fascista. Il senatore Giorgio Pisanò nel 1989 fonda e guida la corrente interna al MSI denominata Fascismo e Libertà. Nel luglio 1991 Fascismo e Libertà esce dal partito guidato da Gianfranco Fini. Giorgio Pisanò guida la frangia dei camerati irriducibili verso un nuovo progetto politico profondamente mussoliniano; così fonda e diviene Segretario Nazionale del Movimento Fascismo e Libertà (MFL). Successivamente, l'11 dicembre 1993 il Comitato Centrale "missino" approverà il nuovo Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale con l'astensione di 10 dirigenti legati all'ex-segretario e combattente della RSI Pino Rauti. Nel 1994 Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale sciolse i legami interni con gli esponenti del MSI più nostalgici, trasformandosi in Alleanza Nazionale (AN) durante il congresso di Fiuggi. Fu il momento nel quale il gruppo di dirigenti vicini a Pino Rauti, si staccò da AN, coadiuvando insieme ai membri del MFL di Giorgio Pisanò nel progetto di conservazione dello storico partito, fondando la Fiamma Tricolore quale nuovo soggetto politico. Alcuni mesi più tardi il leader e segretario del MFL lascia però la vita politica, complice l'aggravarsi del suo stato di salute che lo porterà alla scomparsa (17 ottobre 1997). Il Movimento Fascismo e Libertà minoritario all'interno del nuovo soggetto, non trovando spazio ne esce dopo una breve esperienza. Nel 2001 il MFL subisce la scissione di alcuni dirigenti che fondano Nuovo Ordine Nazionale. Relativamente di recente, il 7 maggio del 2004, Pino Rauti il promotore e fondatore della Fiamma Tricolore, dopo alcune vicende personali, ha lasciato anche questo movimento per fondare il Movimento Idea Sociale (MIS).

Nel 2009 il MFL distingue e difende le sue finalità ideologiche nelle posizioni più socialiste dell'originario fascismo rivoluzionario e della Repubblica Sociale Italiana, optando per una netta contrapposizione e rottura verso tutte le altre forze neofasciste che si riconoscono nella destra italiana e/o comunque riconducibili alla cosiddetta Area, denominandosi Movimento Fascismo e Libertà - Partito Socialista Nazionale.

Contemporaneamente Alessandra Mussolini, nipote del dittatore, lasciava AN in polemica col suo presidente Gianfranco Fini, che aveva preso le distanze dalle posizioni legate al fascismo e alla figura di Mussolini. La Mussolini fondò così un proprio partito (AS, Azione Sociale) che promosse l'alleanza denominata Alternativa Sociale che univa AS ad altri due movimenti neofascisti e nazionalisti: Forza Nuova, guidato da Roberto Fiore, e Fronte Sociale Nazionale, fondato da Adriano Tilgher.

Storia del fascismo italiano. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La storia del fascismo italiano prende avvio alla fine del 1914 con la fondazione, da parte del giornalista Benito Mussolini, del movimento del Fascio d'azione rivoluzionaria, in seno ad un movimento interventista nella prima guerra mondiale.

Benito Mussolini con diversi militanti fascisti radunatisi a Napoli nell'ottobre 1922 per la Marcia su Roma. 

Le espressioni ventennio fascista o, semplicemente, ventennio si riferiscono al periodo che va dalla presa del potere del fascismo e di Benito Mussolini, ufficialmente avvenuta il 31 ottobre 1922, sino alla fine del regime, avvenuta formalmente il 25 luglio 1943. Specialmente dalla propaganda del regime, veniva inoltre utilizzata la locuzione Italia fascista per indicare il Regno d'Italia sotto il governo di Mussolini e del Partito Nazionale Fascista.

Il primo dopoguerra e la situazione sociale

All'indomani della prima guerra mondiale il Regno d'Italia si trovò in una situazione economica, politica e sociale precaria e difficile. Il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre 650 000 caduti e circa 1 500 000 tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse nell'Italia nord-orientale, divenuta fronte bellico con il dislocamento e, sovente, la perdita della casa e di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggiti dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.

Il sorgere del Regno di Jugoslavia alle frontiere orientali pose una pesante e decisiva ipoteca sulle idee di irredentismo italiano, con l'acquisizione dei territori promessi e inclusi nel patto di Londra: gli altri Alleati si erano appoggiati ai quattordici punti del presidente statunitense Woodrow Wilson per assegnare al Regno di Jugoslavia stesso (in slavo SHS, Srbija-Hrvatska-Slovenija) la Dalmazia, Fiume (che secondo il trattato del 1915 sarebbe dovuto restare all'Impero austro-ungarico o, in subordine, a un piccolo Stato croato) e l'Istria orientale. La città - dal canto suo - aveva espresso fin dagli ultimi fuochi della guerra la volontà di essere riunita all'Italia, ponendo così il governo di Roma nell'imbarazzo di dover accettare i voti della cittadinanza fiumana e, contemporaneamente, entrare in urto con Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Regno di Jugoslavia. Infine, nonostante la fine delle ostilità con gli Imperi centrali, l'Italia restava coinvolta nella campagna di Albania, dai contorni incerti e dagli obiettivi ancora più incerti, mentre il Montenegro, Stato vincitore della guerra e col quale l'Italia per motivi dinastici e strategici intratteneva rapporti privilegiati, veniva annesso alla Jugoslavia con il consenso delle altre potenze alleate e ciò venne recepito come un'altra grave ferita alla politica adriatica italiana.

Alla situazione politica internazionale difficile si aggiungeva una situazione economica interna drammatica: l'Italia dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone e aveva contratto pesantissimi debiti con gli Stati Uniti. Le casse statali erano quasi vuote, anche perché la lira, durante il conflitto, aveva perso buona parte del suo valore, con un costo della vita aumentato di almeno il 450%. Alla mancanza di materie prime faceva seguito anche la progressiva smobilitazione del Regio Esercito (dopo averne impiegato una grandissima parte come manodopera per le immediate necessità del dopoguerra e nel primo raccolto del 1919) e la fine della produzione bellica, che implicava una riconversione delle fabbriche. La mancanza di un solido mercato interno e la crisi di quelli esteri impediva - tuttavia - che la produzione potesse trovare sfogo e, di conseguenza, molte manifatture semplicemente chiusero.

In breve, inoltre, l'Italia si trovò ad affrontare il problema dell'assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell'industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati. Molte delle promesse fatte durante la guerra a costoro (come l'espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocando malcontento e delusione. L'attrito fra le masse di ex combattenti e quelle operaie si delineò immediatamente, con l'accusa nei confronti dei secondi di essersi "imboscati" e dei primi di essere stati "servi della guerra borghese". In un primo momento ciò provocò un'importante crescita di partiti e movimenti di sinistra, in particolar modo del Partito Socialista Italiano, la cui componente minoritaria rivoluzionaria era galvanizzata dal successo della rivoluzione russa. La fine della guerra, delle restrizioni politiche e della censura permise di riprendere le attività propagandistiche e sindacali. A destra, invece, le formazioni nazionaliste e interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace, mentre attorno ai circoli dannunziani veniva creata l'idea della "vittoria mutilata", che sarebbe poi divenuta il simbolo della delusione dell'opinione pubblica italiana.

Lo Stato si venne quindi a trovare sotto un triplice attacco: dall'estero, con l'evidente tentativo delle potenze alleate di ridimensionare la portata della vittoria e delle rivendicazioni italiane a vantaggio del Regno di Jugoslavia. Dalle formazioni socialiste e sindacali, che cominciarono una campagna para-rivoluzionaria, soprattutto attraverso una durissima campagna di scioperi. Dalle formazioni nazionaliste, la cui campagna denigratoria verso l'azione del governo sarebbe poi culminata nel settembre 1919 con l'Impresa di Fiume. A risentire di questa instabilità fu soprattutto l'ordine pubblico, con l'acuirsi del radicalismo e della violenza, l'urto fra le compagini socialiste e internazionaliste (compresse durante gli anni del conflitto e ora libere di agire nuovamente) e quelle nazionaliste e interventiste. Subito dopo la fine della prima guerra mondiale, l'iniziativa politica rimase nelle mani dei movimenti sindacali rappresentati dalle leghe socialiste e popolari che lanciarono un'escalation di scioperi e occupazioni, storicamente nota come "Biennio rosso", culminata nell'estate del 1920 in un'occupazione generalizzata di terreni agricoli, opifici e installazioni industriali in quasi tutta l'Italia, con esperimenti di autogestione, autoproduzione e la creazione di consigli di fabbrica sul modello dei soviet.

La nascita del fascismo

I fasci di combattimento e la genesi del fascismo

Immediatamente prima della fine del conflitto mondiale, Benito Mussolini, uno degli esponenti più importanti dell'interventismo, agì cercando varie sponde per dar vita a un movimento che imprimesse alla guerra una svolta rivoluzionaria. Tuttavia i suoi sforzi riuscirono a concretizzarsi solo sei mesi dopo il termine delle ostilità, quando un piccolo gruppo di reduci e intellettuali interventisti, nazionalisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, si radunò in un locale di Piazza San Sepolcro a Milano, dando vita ai Fasci di Combattimento, il cui programma si configurava come rivoluzionario, socialista e nazionalista allo stesso tempo.

Dagli strati sociali più scontenti e soggetti alle suggestioni della propaganda nazionalista che, a seguito dei trattati di pace, si infiammò e alimentò il mito della vittoria mutilata, emersero organizzazioni di reduci e, in particolare, quelle che raccoglievano gli ex-arditi. Queste ultime, riconosciute subito dai comandi militari come fonte di turbolenza politica, furono sciolte e i membri congedati, restituendo alla vita civile decine di migliaia di ex soldati agguerriti e portatori di un'ideologia aggressiva, violenta e gerarchizzante. Fra costoro, e fra gli altri congedati al malcontento generalizzato, si faceva largo un risentimento causato dal non aver ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in anni di duri combattimenti al fronte e per le offese subite dai militanti socialisti, giunte fino alla bastonatura degli ufficiali in uniforme e all'insulto nei confronti dei decorati che ostentassero le medaglie. Come numerosi storici hanno fatto notare (ad esempio Federico Chabod) è poi soprattutto dalla piccola borghesia, in particolare quella rurale, che il primitivo fascismo attinge i suoi militanti. Questo strato sociale - tendenzialmente costretto in Italia da un proletariato industriale e agricolo più o meno organizzato e rappresentato da partiti di massa (PSI e popolari) e sindacati e l'alta borghesia, protagonista ed egemone dell'Italia del periodo liberale - con la guerra aveva acquisito un ruolo fondamentale, fornendo alle forze armate italiane il nerbo degli ufficiali di complemento.

In qualche misura, a fronte dunque delle altre classi sociali, già organizzate o rappresentate, la piccola borghesia nel dopoguerra si trovò priva di referenti e minacciata di essere riportata a un ruolo di secondo piano, minacciata com'era dal basso dalle agitazioni socialiste e, dall'alto, dal grande capitalismo che prometteva di assorbirne mercati e risorse. La frustrazione per questa situazione fu terreno fertile per la fondazione il 23 marzo 1919 a Milano del primo fascio di combattimento, adottando simboli che sino ad allora avevano contraddistinto gli arditi, come le camicie nere e il teschio.

Le elezioni del 1919 e lo squadrismo

Nel movimento fascista, oltre ad arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari ed ex combattenti d'ogni arma confluirono successivamente anche elementi di dubbia moralità e avventurieri. Appena 20 giorni dopo la fondazione dei fasci di combattimento le neonate squadre d'azione si scontrarono con i socialisti e condussero l'assalto all'Avanti! (un quotidiano politico socialista), devastandone la sede: l'insegna del giornale fu divelta e portata a Mussolini come trofeo. Nel giro di qualche mese i Fasci si diffusero in tutta Italia, sebbene con una consistenza assai scarsa.

Il 23 giugno 1919 si insediò il governo di Francesco Saverio Nitti, sostituendo il dimissionario Vittorio Emanuele Orlando, dopo le delusioni seguite ai trattati di pace. Le politiche intraprese da Nitti sollevarono un fortissimo malcontento, soprattutto fra militari, reduci congedati e nazionalisti.

Il 19 settembre, Gabriele D'Annunzio ruppe gli indugi e alla testa di reparti ammutinati del Regio Esercito marciò su Fiume dove, manu militari, instaurò un governo rivoluzionario con l'obiettivo di affermare l'unione all'Italia del comune carnero. Questa azione fu immediatamente esaltata dal movimento fascista, anche se Mussolini non offrì – né avrebbe potuto offrire – alcun reale appoggio alla causa dei legionari. Per il suo contributo politico e alla propaganda, già all'epoca il poeta D'Annunzio (Massone di 33° grado) fu definito il vate del fascismo italiano.

Le elezioni politiche italiane del 1919 (per la prima volta secondo il sistema proporzionale) videro il trionfo dei due partiti di massa: il Partito Socialista Italiano che si affermò primo partito con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare Italiano di don Sturzo che, alla sua prima prova elettorale ottenne il 20% dei voti e 100 seggi. Il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.

In seguito alla durissima sconfitta elettorale, Mussolini meditò seriamente l'abbandono della politica, nonostante la sbandierata esistenza di 88 Fasci combattenti con 20.000 iscritti; cifra che alcuni storici ritengono viziata[chi sono? da eccessivo ottimismo. In ogni caso, sul Popolo d'Italia del 23 marzo 1929, il segretario del PNF Augusto Turati, affermò che al 31 dicembre 1919 i Fasci in Italia erano 31 con solo 870 iscritti. I risultati elettorali non garantirono tuttavia al paese la stabilità necessaria e il PSI, che aveva il maggior peso, continuò a rifiutare alleanze con i partiti "borghesi"; in particolare le occupazioni di terreni agricoli convinsero molti latifondisti, principalmente in Emilia, nell'alta Toscana e nella bassa Lombardia, a svendere cascine e fattorie a ex-mezzadri, fattori o piccoli coltivatori diretti. Fu questa la nuova categoria di proprietari terrieri, ben più decisa a difendere i propri beni dalle occupazioni rispetto ai precedenti latifondisti, alla quale Mussolini si rivolse per dare consistenza al movimento fascista, sposandone appieno le necessità.

Così, mentre i socialisti erano dilaniati dalle diatribe interne e dalla concorrenza sindacale delle leghe bianche dei Popolari sturziani, schiere di appartenenti alla piccola borghesia agraria, artigiana o del commercio, allarmati dalle occupazioni e dai disordini, confluirono nel movimento guidato da Mussolini. In pochi mesi si costituirono in Italia oltre 800 nuovi Fasci, con circa 250.000 iscritti, i quali diedero vita alle squadre d'azione, dette spregiativamente "squadracce" dagli avversari politici, che contrastarono le leghe rosse e bianche, durante gli scioperi o le azioni di occupazione, in un diffuso clima di violenza politica. La direzione velleitaria e confusa delle occupazioni, che aveva mostrato l'incapacità delle forze politiche più radicali a sviluppare una reale e progressiva azione rivoluzionaria, fu immediatamente chiara a molti politici, in particolar modo a Gramsci e a Giolitti, subentrato al secondo governo Nitti. Nel settembre 1920 Giolitti riuscì a spezzare il fronte occupazionista, attraverso la concessione di limitati progressi salariali, ottenendo il ritorno della legalità. Stabilita una temporanea pace sociale interna, affrontò la questione di Fiume, deciso a risolvere il problema internazionale della Reggenza del Carnaro. Dopo serrate trattative fra Italia, Jugoslavia e D'Annunzio, Giolitti diede il via all'azione militare, volta a sgomberare con la forza i legionari dal comune carnero, culminata con il Natale di sangue del 1920.

La componente militare largamente prevalente nelle squadre, conferì a queste una netta superiorità negli scontri coi socialisti, i popolari e i sindacati non fascisti, che sebbene notevolmente più numerosi subirono l'urto delle camicie nere. La sistematica campagna fascista di distruzione dei centri di aggregazione socialista, popolare e sindacale di intimidazione e aggressione dei loro militanti, assieme alla contemporanea politica sotterranea condotta da Mussolini nei confronti dei partiti moderati e della destra, portarono il socialismo a una crisi, mentre parallelamente cresceva la forza numerica e il morale dei Fasci di Combattimento. Così, mentre nel 1921 il Partito Socialista Italiano si disgregava in due successive scissioni, dando vita al Partito Comunista d'Italia, il 7 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista (PNF), trasformando il movimento in partito, abbandonando le posizioni del sindacalismo rivoluzionario, accettando alcuni compromessi legalitari e costituzionali con le forze moderate e distaccandosi sostanzialmente dalla linea politica fondativa del movimento, sancita nel programma di San Sepolcro del 1919. In quel periodo il PNF giunse ad avere 300.000 iscritti (nel momento di massima espansione il PSI aveva superato di poco i 200.000 iscritti).

Dal punto di vista organizzativo, al "gruppo di Milano" (nucleo originario del Fascismo) si aggiunse una componente rurale e agraria, forte dell'appoggio dei latifondisti e possidenti terrieri emiliani, pugliesi e toscani. Proprio in queste regioni le squadre guidate dai ras furono più determinate a colpire i sindacalisti, i popolari e i social-comunisti, e le masse rurali organizzate che avanzavano rivendicazioni sociali, politiche ed economiche, intimidendoli con la famigerata pratica del manganello e dell'olio di ricino o addirittura commettendo omicidi che restavano a volte impuniti. In questo clima di violenze alle elezioni del 15 maggio 1921 i fascisti riuscirono a portare in parlamento i loro primi deputati, fra cui Mussolini. Mimmo Franzinelli ha scritto in "Squadristi" (Mondadori 2003) che nei primi 3 mesi del 1921 i socialisti ebbero 164 fra morti e feriti, nello stesso periodo i fascisti ne ebbero 133, la forza pubblica 70, cittadini estranei 123, di cui una parte erano i cosiddetti crumiri. Renzo De Felice ha presentato dati analoghi per il primo semestre 1921. Gaetano Salvemini ha calcolato circa 300 fascisti uccisi nel triennio 1920-1922, 400 i "bolscevichi".

La celebrità del partito crebbe ancora quando i sindacati non fascisti proclamarono per il 1º agosto 1922 uno sciopero generale, come reazione agli scontri avvenuti a Ravenna: i fascisti per ordine di Mussolini sostituirono gli scioperanti, nel tentativo di far fallire la protesta. Sempre nell'agosto del 1922 gli abitanti di Parma, con epicentro nel quartiere popolare di Oltretorrente, organizzati dagli Arditi del Popolo, comandati da Guido Picelli e Antonio Cieri riuscirono a resistere alle squadre fasciste guidate da Italo Balbo, futuro "trasvolatore atlantico"; fu l'ultima resistenza all'incalzare del fascismo.

Particolare fu la situazione in Romagna, regione di origine di Mussolini: qui, nelle zone dove precedentemente era più forte il socialismo marxista più rapido fu il passaggio al fascismo, mentre nelle aree, come il forlivese e il cesenate, dove prevaleva la tradizione repubblicana fu molto più tenace la resistenza.

Inoltre tra le squadre fasciste dell'Italia meridionale militavano anche alcuni delinquenti, particolarmente a Napoli, dove la centralista organizzazione camorristica ottocentesca stava attraversando una fase di anarchia. Alcuni camorristi si dettero anima e corpo alla causa fascista, intravedendo la possibilità di carriera e di cancellazione dei reati precedenti. Ad esempio come nel caso di Guido Scaletti, piccolo camorrista dei Quartieri Spagnoli, che fondò il primo sindacato padronale partenopeo, o di Enrico Forte che per i suoi servigi di squadrista fu ricompensato, nel 1924, con la direzione della "Manifattura Tabacchi". Il fascismo, una volta preso il potere, usò abilmente i camorristi per controllare e reprimere l'attività di delinquenza comune, in cambio dispensando piccole cariche pubbliche, posti di lavoro e soprattutto tollerando il contrabbando. L'attività di Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri venne intensificata e diretta verso i malavitosi che non collaboravano con il regime. Nella zona di Aversa, dove si era formata una struttura camorristica potente e concorrente a quella napoletana, nel 1927 le forze dell'ordine operarono la maggiore retata anticamorra della storia, con 4.000 arrestati.

La marcia su Roma e l'arrivo al potere 

Dopo il congresso di Napoli, in cui 40.000 camicie nere inneggiarono a marciare su Roma, Mussolini decise di agire: il momento pareva propizio e così un forte contingente di 50.000 squadristi venne radunato in Umbria e Lazio e spinto dai quadrumviri contro la Capitale. Era il 28 ottobre 1922. Mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare il colpo di mano fascista il re Vittorio Emanuele III non dichiarò lo stato di assedio e vietò al Regio Esercito di intervenire per contrastare il tentativo di colpo di Stato e disperdere gli insorti, per opportunità della Corona e strumentale calcolo politico, nonché per evitare un bagno di sangue che avrebbe potuto potenzialmente far precipitare il paese in una guerra civile. Il re non avendo firmato il decreto di stato d'assedio, aprì di fatto la strada alle colonne fasciste verso la capitale dello Stato. Le camicie nere entrarono così a Roma il 30 ottobre.

Lo stesso giorno, a compimento della marcia su Roma, il re mandò una missiva firmata a Benito Mussolini in cui lo convocava a Roma con il fine di formare il nuovo governo dopo che il primo ministro Luigi Facta si dimise Il capo del fascismo aveva lasciato Milano per Roma e si mise immediatamente all'opera. A soli 39 anni Mussolini diveniva presidente del consiglio, il più giovane nella storia del regno. Il nuovo governo comprendeva elementi dei partiti moderati di centro e di destra, militari e alcuni esponenti fascisti.

Fra le prime iniziative intraprese dal nuovo corso politico vi fu il tentativo di "normalizzazione", cioè rendere legali le squadre fasciste - che in molti casi continuavano a commettere violenze - , provvedimenti a favore dei mutilati e degli invalidi di guerra, drastiche riduzioni della spesa pubblica, la riforma della scuola (Riforma Gentile), la firma degli accordi di Washington sul disarmo navale, l'accettazione dello status quo col regno di Jugoslavia circa le frontiere orientali e la protezione della minoranza italiana in Dalmazia.

Nei primissimi mesi del governo Mussolini venne anche istituito il Parco nazionale del Gran Paradiso, grazie alla donazione, fatta nel 1919 allo Stato italiano, della riserva di caccia reale da parte di Vittorio Emanuele III.

Il fascismo si trasforma in dittatura.

L'omicidio Matteotti.

Motivo: i dati riportati non sono facilmente verificabili nelle fonti citate e, spesso, incongruenti. Inoltre, a volte sono fuorvianti perché omissivi. Inoltre si accorpano sotto la generica definizione di "vittime" le persone che hanno perduto la vita a quelle che furono inviate al confino creando confusione

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Al movimento e al partito fascista è stata ricondotta la responsabilità diretta o indiretta della morte di molte persone e del danneggiamento di sedi di associazioni e movimenti di opposizione al regime: tali due fenomeni sono concentrati soprattutto nel periodo di instaurazione del regime fascista (1919-1924) e nel periodo bellico (1940-1945).

Nel primo semestre del 1921, le squadre d'azione fasciste assaltarono 17 tipografie, 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni e circoli socialisti, 100 circoli di cultura e 53 circoli operai. Le vittime degli scontri, nel solo 1921, sono stimate in circa 500 morti e migliaia di feriti.

A volte gli squadristi, che (almeno sino alla loro riorganizzazione nella forma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, creata nel 1923) erano sottoposti a uno scarso controllo da parte del Partito Nazionale Fascista, agirono di propria iniziativa nel compimento di tali azioni senza aver ricevuto ordini in materia dal PNF, che tuttavia avallava l'operato della sua base. Molti squadristi con la loro violenza sfogarono vecchie frustrazioni: la società italiana era stata sconvolta dalla prima guerra mondiale e viveva un periodo di grande violenza e di profondi tumulti e rivolgimenti sociali, dovuti principalmente all'insoddisfazione per la cosiddetta vittoria mutilata e alle precarie condizioni in cui si trovava a vivere il popolo, impoverito dagli sforzi patiti durante il conflitto.

Il Tribunale Speciale (operante sino al luglio del 1943 e dal gennaio 1944 al crollo della Repubblica Sociale Italiana), corte giudicante in materia di reati contro la sicurezza dello stato ma anche per reati comuni quali rapina e omicidio, emise 5.619 sentenze di condanna, delle quali 4 596 eseguite. Le sentenze di condanne a morte furono quarantadue, di cui trentuno eseguite; le sentenze di ergastolo furono 3.

Il regime fascista portò – in conseguenza delle leggi razziali fasciste – all'arresto di milleduecentocinquanta aderenti all'ebraismo.

Il regime fascista della Repubblica di Salò partecipò attivamente anche alla deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti:

gli oltre 600 ebrei partiti il 30 gennaio 1944 da Milano per il campo di concentramento di Auschwitz, erano stati quasi tutti rastrellati dalla polizia italiana.

molti furono anche gli ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti, raccolti dal regime della Repubblica Sociale Italiana nel campo di concentramento di Fossoli; il 15 febbraio 1944 il campo di Fossoli passò sotto il diretto controllo delle SS e immediatamente dopo, il 19 ed il 22 febbraio, partirono due treni di deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio nazisti — tra i circa 650 ebrei partiti col secondo convoglio per Auschwitz c’era anche lo scrittore ebreo Primo Levi.

Durante la seconda guerra mondiale, sul suolo italiano furono 194.000 i militari e 3.208 i civili caduti sui fronti di guerra (17.488 i militari e 37 288 i civili caduti in attività partigiana). Fuori dai confini dell'Italia, i morti furono: 9 249 militari morti in attività partigiana, 42 510 militari e 23 446 i civili morti fra i deportati nei campi di concentramento della Germania nazista e 5 927 militari caduti al fianco degli Alleati e 38 939 civili morti per i bombardamenti degli Alleati.

Taluni considerano tra le vittime del fascismo i morti che si ebbero tra alcune tribù libiche ribellatesi allo stato italiano (la Libia fu tra il 1911 e il 1947 una colonia italiana) nel 1915, approfittando del fatto che il governo italiano aveva preferito concentrare le proprie truppe sul fronte veneto per la guerra contro la Germania e l'Austria-Ungheria. Tra il 1922 e il 1931 fu intrapresa una poderosa opera di riconquista dell'entroterra libico (perduto a vantaggio di tali tribù) che portò alla morte di circa 13 000 ribelli libici.

Infine, vanno considerati fra le vittime del fascismo coloro i quali furono sottoposti alla misura del soggiorno coatto, ovvero il confino in piccole isole del mar Mediterraneo o in paesini prevalentemente del meridione d'Italia. La misura punitiva venne adottata sulla base del regio decreto n. 1848 emesso il 6 novembre 1926. Era applicabile verso chiunque fosse ritenuto pericoloso per l'ordine statale o per l'ordine pubblico.

In totale, coloro i quali furono sottoposti a soggiorno coatto furono oltre quindicimila. Fra di esse figurano i nomi di Antonio Gramsci, Cesare Pavese, Altiero Spinelli, Ferruccio Parri e Giuseppe Di Vittorio.

Fonti online:

Minerva.unito.it. URL consultato il 19 luglio 2020 (archiviato dall'url originale il 4 novembre 2018).

Criminidiguerra.it.

In vista delle elezioni politiche del 1924 Mussolini fece approvare la legge Acerbo, una nuova legge elettorale che avrebbe dato i due terzi dei seggi alla lista che avesse ottenuto la maggioranza con almeno un quarto dei voti. La campagna elettorale si tenne in un clima di tensione senza precedenti con intimidazioni e pestaggi e la Lista Nazionale guidata da Mussolini ottenne la maggioranza assoluta, con il 60% dei voti. Come ha scritto lo storico e senatore comunista Francesco Renda, le elezioni del 1924 furono di fatto "la prima e ultima legittimazione costituzionale del fascismo".

Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti prese la parola alla Camera contestando apertamente i risultati delle elezioni e dichiarandone la loro illegittimità. Al mattino del 10 giugno 1924 Matteotti fu rapito fuori dalla propria casa e fu successivamente ucciso da una squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini.

L'opposizione rispose a questo avvenimento ritirandosi sull'Aventino, la cosiddetta secessione dell'Aventino, ma la posizione di Mussolini tenne fino al 16 agosto, quando il corpo decomposto di Matteotti fu ritrovato nei pressi di Roma. Uomini come Ivanoe Bonomi, Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando esercitarono allora pressioni sul re affinché Mussolini fosse destituito, Giovanni Amendola gli prospettò scenari inquietanti, ma Vittorio Emanuele III appellandosi allo Statuto Albertino replicò: «Io sono sordo e cieco. I miei occhi e le mie orecchie sono il Senato e la Camera» e quindi non intervenne.

L'uccisione di un deputato fascista, Armando Casalini, da parte di un militante comunista, contribuì a ricompattare la maggioranza di governo che aveva dato segni di sfaldamento di fronte al precedente grave episodio. Ma per tutta la seconda metà del 1924 il regime apparve pencolante e Mussolini scatenò una controffensiva mediatica contro i "quartarellisti" (gli iscritti che stracciavano la tessera del PNF dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti al Fosso della Quartarella): durante tutto il Ventennio, il sostegno al PNF in questo periodo fu equiparato alle benemerenze "antemarcia".

Il punto di svolta si fa tradizionalmente cadere nella notte di San Silvestro del 1924: ciò che accadde esattamente non sarà forse mai accertato, ma si sostiene ricorrentemente che una quarantina di consoli della Milizia, guidati da Enzo Emilio Galbiati, ingiunsero a Mussolini di instaurare la dittatura minacciando di rovesciarlo in caso contrario.

Con il discorso del 3 gennaio 1925, alla Camera, Mussolini si assunse ogni responsabilità per i fatti avvenuti:

«Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.»

Questo discorso prelude all'avvento della dittatura. Il 26 gennaio, nel suo primo e unico intervento da deputato, Gramsci denuncia il carattere di regime piccolo-borghese del fascismo, alleato e sponsorizzato dai grandi proprietari terrieri e industriali e ironizza pesantemente sull'ex alleato di partito, rievocando il suo passato socialista.

Le leggi fascistissime

Nel biennio 1925-1926 vennero emanati una serie di provvedimenti liberticidi: vennero sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, venne soppressa ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata la pena di morte, venne creato un Tribunale speciale per la cognizione dei reati di matrice politica, venne potenziata la misura di prevenzione del confino, con la quale l'autorità amministrativa (il cui superiore gerarchico era il Ministro dell'interno) poteva imporre il domicilio alle persone sgradite.

Il 24 dicembre 1925 una legge cambia le caratteristiche dello stato liberale: Benito Mussolini cessa di essere presidente del Consiglio, cioè primus inter pares tra i ministri e diventa primo ministro segretario di Stato, nominato dal re e responsabile di fronte a lui e non più al Parlamento; a loro volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà essere discusso dal Parlamento senza l'approvazione del primo ministro. Il 4 febbraio 1926 i sindaci elettivi vengono sostituiti da podestà nominati con decreto reale, mentre gli organi elettivi quali consigli e giunte vengono sostituiti da consulte comunali di nomina prefettizia. Il Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926 sciolse tutti i partiti, associazioni e organizzazioni che esplicavano azione contraria al regime.

Il 16 marzo 1928 la Camera dei deputati è chiamata a votare il criterio per il rinnovo della rappresentanza nazionale. Il criterio prevede una lista unica di 400 candidati scelti dal Gran Consiglio del Fascismo su proposta dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro nonché da altre associazioni riconosciute. Gli elettori approveranno o meno tale lista. La riforma passa, quasi senza discussioni, con 216 sì e 15 no. Giolitti è uno dei pochi a protestare, ma viene messo subito a tacere da Mussolini con la frase: «Verremo da lei a imparare come si fanno le elezioni». Al Senato del Regno le proteste sono leggermente più animate, ma la legge passa con 161 favorevoli e 46 contrari. L'8 dicembre si chiude così la 28ª legislatura.

Il 24 marzo 1929 il popolo italiano è chiamato a votare la lista di deputati proposta dal Gran Consiglio del Fascismo: otto milioni e mezzo voteranno sì, soltanto 136.000 voteranno no; la percentuale dei votanti fu dell'89,6%.

La crisi economica del 1929

Il primo grosso problema che la dittatura dovette affrontare fu la pesante svalutazione della lira. La ripresa produttiva successiva alla fine della prima guerra mondiale portò effetti negativi quali la carenza di materie prime dovuta alla forte richiesta e a un'esigua produttività rapportata ai bisogni reali della popolazione. Nell'immediato, i primi segni della crisi furono un generale aumento dei prezzi, l'aumento della disoccupazione, una diminuzione dei salari e la mancanza di investimenti in Italia e nei prestiti allo stato.

Per risolvere il problema, come in Germania, venne deciso di stampare ulteriore moneta per riuscire a ripagare i debiti di guerra contratti con Stati Uniti e Regno Unito, cosa che comunque portò un certo aumento di inflazione. Le mosse per contrastare la crisi non si fecero attendere: venne messo in commercio un tipo di pane con meno farina, venne aggiunto alcool etilico alla benzina, vennero aumentate le ore di lavoro da 8 a 9 senza variazioni di salario, venne istituita la tassa sul celibato, vennero aumentati tutti i possibili prelievi fiscali, venne vietata la costruzione di case di lusso, vennero aumentati i controlli tributari, vennero ridotti i prezzi dei giornali, bloccati gli affitti e ridotti i prezzi dei biglietti ferroviari e dei francobolli.

Una degli strumenti propagandistici più efficaci del regime fu quello della cosiddetta "quota 90"; rivalutando infatti la lira nei confronti della sterlina inglese, Mussolini riuscì sì a far quadrare i conti dello stato, ma mise il paese fuori dai mercati d'esportazione poiché con tale mossa raddoppiò il prezzo delle merci italiane all'estero. Quando poi si registrò il crollo della borsa USA nella giornata del 29 ottobre 1929 (martedì nero), Mussolini ordinò di ignorare totalmente l'evento, pensando che l'episodio non avrebbe toccato minimamente l'Italia. L'economia nazionale entrò invece in una profonda crisi che portò alla nascita dell'IRI e che durò fino al 1937-1938. Solo nella metà degli anni 1930 Mussolini si rese conto della situazione e solo allora svalutò la lira del 41% e introdusse nuove tasse; da quel momento la politica del governo Mussolini diede scarso peso all'economia del paese, concentrandosi invece su una politica estera, in particolare nella guerra d'Etiopia e nella guerra civile spagnola prima e nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista poi.

La politica estera

In politica estera il fascismo seguì fino alla nomina agli Esteri di Galeazzo Ciano esclusivamente le direttive mussoliniane, dopodiché si trovò a dover agire - sia per la direzione di Ciano agli Esteri, sia per i minori margini di manovra dati dalla situazione internazionale - in maniera sempre meno autonoma e sempre più ideologica. Dopo la crisi di Corfù del 1923, Mussolini non si discostò per un lungo periodo dall'obiettivo del mantenimento dello status quo in Europa, seguendo una politica prudente e scevra da avventure militari, nonostante la retorica nazionalista e militarista fossero tra i caratteri distintivi del regime. L'Italia mantenne buone relazioni con Francia e Regno Unito, collaborò al ritorno della Germania nel sistema delle potenze europee pur nei limiti del Trattato di Versailles, tentando altresì di estendere la sua influenza verso i Paesi sorti dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico (Austria e Ungheria) e, nei Balcani, (Albania e Grecia) in funzione anti-jugoslava. L'Italia fu il secondo Paese al mondo, dopo la Gran Bretagna, a stabilire nel 1924 relazioni diplomatiche con l'Unione Sovietica.

Scopo dichiarato della politica estera fascista, fin dai primissimi atti e discorsi politici di Mussolini, era quello di assicurare "a un popolo di quaranta milioni di individui" un posto di primo piano sulla scena mondiale. Questo significava annettere all'Italia territori coloniali dove "esportare" la propria eccedenza demografica attraverso la valorizzazione delle colonie esistenti e poi - nel 1935 - con la conquista dell'impero d'Abissinia. Contemporaneamente, la politica a breve periodo previde - fin quando possibile - la revisione dei trattati sottoscritti dall'Italia fra il 1918 e il 1922 che "mutilavano" la vittoria nella grande guerra e che portarono l'Italia ad acquisire Fiume nel 1924 e a garantire Zara nonostante la rinunzia al resto della Dalmazia.

I rapporti con la Chiesa cattolica e il Concordato 

La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento fascismo è stata messa in dubbio.

Motivo: Le informazioni riportate sono parziali e sembrano sposare interamente la tesi della connivenza tra fascismo e Chiesa cattolica. Non si fa alcun riferimento allo scontro tra Mussolini e l'Azione Cattolica, né all'ostilità aperta di Pio XI verso la guerra in Etiopia e l'alleanza con Hitler, né in genere ai fatti che non riguardino il solo Concordato (pur importante). La lettura fa sembrare che il rapporto tra fascismo finisca nel 1929, quando invece ci sono rilevantissimi sviluppi anche per tutti gli anni '30 e '40

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Pochi giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, il 13 febbraio 1929, Pio XI, tenne un discorso a Milano a un'udienza concessa a professori e studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che passò alla storia per una lettura secondo cui Benito Mussolini sarebbe «l'uomo della Provvidenza»:

«Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. E allora? La soluzione non era facile, ma dobbiamo ringraziare il Signore di avercela fatta vedere e di aver potuto farla vedere anche agli altri. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa; tutto un viluppo di cose, una massa veramente così vasta, così complicata, così difficile, da dare qualche volta addirittura le vertigini. E qualche volta siamo stati tentati di pensare, come lo diciamo con lieta confidenza a voi, sì buoni figliuoli, che forse a risolvere la questione ci voleva proprio un Papa alpinista, un alpinista immune da vertigini e abituato ad affrontare le ascensioni più ardue; come qualche volta abbiamo pensato che forse ci voleva pure un Papa bibliotecario, abituato ad andare in fondo alle ricerche storiche e documentarie, perché di libri e documenti, è evidente, si è dovuto consultarne molti. Dobbiamo dire che siamo stati anche dall'altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l'incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti «tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio.»

(Pio XI, allocuzione Vogliamo anzitutto)

Questa lettura, suffragata dal regime, ad esempio attraverso la rivista ufficiale del fascismo Gerarchia, pesò su tutto il pontificato di Pio XI, ma il significato di quei patti, che sancirono il reciproco riconoscimento tra il Regno d'Italia e la Città del Vaticano, fu il coronamento di estenuanti trattative tra emissari del papa e rappresentanti di Mussolini. Infatti quest'ultimo gestì l'intera faccenda personalmente.

Tra fascismo e Chiesa ci fu sempre un rapporto ostico: Mussolini si era sempre dichiarato ateo ma sapeva benissimo che per governare in Italia non si poteva andare contro la Chiesa e i cattolici. La Chiesa dal canto suo, pur non vedendo di buon occhio il fascismo, lo preferiva di gran lunga all'ideologia comunista. Alla soglia del potere Mussolini affermò (giugno 1921) che «il fascismo non pratica l'anticlericalismo» e alla vigilia della Marcia su Roma informò la Santa Sede che non avrebbe avuto nulla da temere da lui e dai suoi uomini.

Con la ratifica del concordato la religione cattolica divenne la religione di stato in Italia, venne istituito l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole medie inferiori e superiori (nelle scuole elementari era stato introdotto nel 1923) e venne riconosciuta la sovranità e l'indipendenza della Santa Sede. Questo però non compensò i continui soprusi post-concordatari del regime nei confronti di quelle attività ecclesiastiche che contrastavano col volere del Duce di monopolizzare la cultura e l'educazione italica: i seimila Circoli cattolici chiusi con la forza e sottoposti a devastazioni e violenze di studenti indottrinati e protetti dalla polizia, i vari bollettini parrocchiali censurati e osteggiati, l'encicliche papali silenziate e censurate, le vessazioni sui membri del partito Popolare spiati di continuo dal regime come oppositori, o fatti incarcerare come De Gasperi dimostravano la vera volontà dei fascisti nei confronti della chiesa. Pio XI si doleva di tutto ciò e spesso si sfogava col quadrumviro De Vecchi o altri diplomatici del regime, con affermazioni riportate dal De Vecchi stesso in un suo testo: “Ecco cosa avete fatto, avete imbrogliato il Papa! Lo dicono tutti, lo sanno tutti, lo scrivono dappertutto, dentro e fuori l'Italia”. Oppure: “L'Azione Cattolica è la pupilla degli occhi del papa ed è perseguitata con sistemi che non voglio qualificare perché la qualifica sarebbe troppo grave…Gli vada a dire (al duce, ndr) che con i sistemi che usa e con i fini che si propone, mi fa schifo… nausea, vomito…”

Il consolidamento politico del regime

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia del grano, Leggi fascistissime, OVRA e Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926-1943).

Roma 1934: Facciata di Palazzo Braschi, sede della federazione fascista di Roma, durante la campagna per le elezioni politiche del 1934.

 La maggioranza degli italiani, soprattutto nei ceti medio-alti ma anche quel mondo agricolo vicino al Partito Popolare, trovò un modus vivendi con la nuova situazione, vedendo forse in Mussolini un baluardo contro il pericolo di una rivoluzione bolscevica e soprattutto contro il disordine economico successivo alla prima guerra mondiale.

Tale situazione venne favorita dal riavvicinamento con la Chiesa cattolica, che culminò nel Concordato dell'11 febbraio 1929 – i cosiddetti Patti Lateranensi – con cui si chiudeva l'annosa questione dei rapporti tra Stato e Chiesa aperta nel 1870 dalla Breccia di Porta Pia e che concedeva al cattolicesimo il ruolo di religione di Stato. Con i patti lateranensi firmati il 11 febbraio 1929 ci fu un accordo tra stato italiano e chiesa: la Santa Sede riconobbe lo stato italiano, che a sua volta riconosceva la sovranità sullo Stato della Città del Vaticano della Santa Sede stessa; quest'ultima ricevette anche delle indennità per la perdita dello Stato della Chiesa. L'intento politico di Mussolini, che pure era stato un acceso anticlericale in passato, era quello di allargare fortemente la base del consenso al fascismo (la grande maggioranza degli italiani dell'epoca era cattolica praticante). Nonostante ciò alcune critiche giunsero anche dall'interno del regime, come quella di Giovanni Gentile che pur riconoscendo il valore del cattolicesimo nell'identità culturale del popolo italiano, intravedeva un possibile pericolo nella rinuncia a quel concetto di laicità sul quale, a suo dire, si doveva ispirare il moderno stato fascista. I rapporti con le organizzazioni cattoliche e con il clero si mantennero tuttavia in un clima di sospetto reciproco: basti ricordare che il clero di intere province, ad esempio quella di Forlì, venne schedato dalla polizia, che comunque sorvegliava, anche mediante infiltrati, l'attività dei circoli cattolici.

Già agli anni Venti risalgono le prime opere del regime nel campo dei lavori pubblici e delle politiche sociali, opere che procurarono ampio consenso, come la bonifica dell'Agro Pontino, battaglia del grano (1925) e appoderamento del aree del latifondo paludoso-malarico a favore delle famiglie degli strati più indigenti tra gli ex combattenti del primo conflitto mondiale, colonie estive marine per combattere il gozzo (allora malattia endemica), e fondazioni delle "città nuove", opera del Razionalismo italiano, rurali o coloniali come Latina (allora Littoria), Sabaudia, Portolago, Torviscosa, Carbonia, Arborea (allora Mussolinia di Sardegna) che modificarono la visibilità internazionale del regime.

La propaganda venne sviluppata sia per mettere in luce le realizzazioni del regime, e sia per esaltare la personalità di Mussolini, come richiamandone i luoghi natali: Predappio e Forlì, che diviene nota come la "Città del Duce". Tali luoghi, anche rimodellati con opportuni interventi dagli architetti fascisti, divennero meta di pellegrinaggi, tanto spontanei quanto organizzati dal regime stesso.

La battaglia del grano fu un'iniziativa del regime promossa nel 1925, che prevedeva l'aumento della superficie coltivata e l'utilizzo di tecniche più avanzate quali la meccanizzazione e la diffusione di nuove varietà di grano, come le Sementi Elette, realizzate da Nazareno Strampelli. La "battaglia" portò a un aumento del 50 per cento della produzione cerealicola e le importazioni si ridussero di un terzo. L'autosufficienza fu raggiunta nel 1933.

Negli anni successivi si decise di portare avanti una seconda campagna, che alle "bonifiche integrali" avrebbe dovuto aggiungere una riforma agraria, ma le successive guerre e la resistenza dei latifondisti ostacolarono il programma. Sebbene non venisse intaccata la percentuale di terre dedicate alle colture pregiate, la destinazione degli aiuti di Stato soprattutto al settore del frumento svantaggiò gli altri settori. La meccanizzazione portò a una riduzione del numero di capi di bestiame allevati, tanto che il Regime dovette successivamente dare sostegno di Stato anche alla zootecnia.

Fra gli argomenti di propaganda, uno dei più ricorrenti era il richiamo alla Prima Guerra Mondiale ed all'importanza della vittoria italiana, come dimostrano anche i numerosi monumenti alla Vittoria che il regime fascista volle inaugurare, magari collegando le vittime della Guerra ed i cosiddetti martiri della rivoluzione fascista. In particolare, i festeggiamenti per il decennale del Regime videro l'intensificarsi della propaganda e delle inaugurazioni, compreso il Monumento alla Vittoria, a Forlì, che il Duce volle personalmente presentare alla "sua" città, con un celebre discorso in cui legava gli eroi della guerra ed i loro ideali con le idee del fascismo.

All'inizio degli anni 1930 la dittatura si era ormai stabilizzata ed era fondata su radici solide. Dal punto di vista normativo, si ebbe l'emanazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS), e poco dopo ancora fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926-1943) (che aveva come compito la lotta agli oppositori politici) e fu reintrodotta la pena di morte in Italia. Sotto il profilo amministrativo, era stata creata una polizia segreta, l'OVRA, la cui rete di spie si aggiungeva ai rapporti informativi con cui le pubbliche amministrazioni riferivano direttamente al duce.

I bambini, così come tutto il resto della popolazione, erano inquadrati in organizzazioni di partito; ogni opposizione era stroncata sul nascere; la stampa era profondamente asservita al fascismo: l'Italia insomma si era "abituata" al regime, tanto da osannarne il leader.

Durante questo periodo vennero organizzate diverse imprese aeronautiche. Dopo le crociere di massa nel mediterraneo e la prima trasvolata dell'Atlantico meridionale (1931), nel 1933 il quadrumviro della marcia su Roma, Italo Balbo, organizzò la seconda e più famosa trasvolata dell'Atlantico settentrionale per commemorare il decennale dell'istituzione della Regia Aeronautica (28 marzo 1923). A bordo di 25 idrovolanti SIAI-Marchetti S.55X dal 1º luglio al 12 agosto 1933 Balbo e i suoi uomini compirono la traversata fino a New York e ritorno attraversando tutte le maggiori nazioni europee e buona parte degli Stati Uniti. Per l'epoca fu un'impresa epica che diede al giovane ferrarese una fama addirittura superiore a quella di Mussolini.

Il 25 marzo 1934 si svolse il "secondo plebiscito", in funzione propagandistica, per fornire una copertura di ufficialità della solidità e del consenso interno del regime di Mussolini, il quesito verteva sulla accettazione di una nuova lista di 400 deputati per il parlamento scelti dal Gran Consiglio del fascismo. Ufficialmente la percentuale dei "sì" raggiunse il 96,25%. Bisogna ricordare che però coloro che votavano per il SÌ usavano una scheda tricolore, mentre chi votava per il NO usava una scheda bianca, perciò era facilmente riconoscibile (e quindi facilmente punibile). Il 30 marzo a Torino un folto numero di aderenti a Giustizia e libertà vennero imprigionati.

Il 14 giugno avvenne il primo incontro fra Hitler e Mussolini, a Stra nei pressi di Venezia, distante una ventina di chilometri dalla città veneta. Hitler anelava da tempo un incontro con lo statista italiano già tempo prima che il primo prendesse il potere in Germania. "Loro sono commossi, noi no" commentò Mussolini al segretario federale di Venezia, Pascolato. Tuttavia il motivo dell'incontro era favorire il disgelo tra i due paesi, in particolare ottenendo rassicurazione da parte di Hitler del fatto che non era sua intenzione occupare l'Austria né avere pretese sull'Alto Adige.

I casi di corruzione

Nel 1936 Galeazzo Ciano fu nominato Ministro degli affari esteri, subentrando, nella carica, allo stesso Mussolini (sottosegretario, dal 1932 al 1936, era stato Fulvio Suvich, che in ossequio alla nuova linea di politica estera del Duce era stato "allontanato" in qualità di ambasciatore a Washington, così come Grandi, quattro anni prima, era stato «spedito» ambasciatore a Londra). In tale veste Galeazzo Ciano maneggiava molto denaro, in questo caso dei cittadini. Soldi serviti alla causa del fascismo.

Il Duce, nel corso del confino a Ponza e alla Maddalena (25 luglio 1943), in totale isolamento, sul suo blocco per appunti, fa una lunga serie di riflessioni. Tra queste, annota: "Stento a credere che in casa Farinacci si siano trovati 80 kg d'oro...". L'orgia del potere nel regime fascista non conosceva limiti: a Milano, il segretario federale del Fascio, Mario Giampaoli, e il podestà Ernesto Belloni si arricchiscono con le mazzette degli industriali e con i lavori pubblici per il restauro della celebre Galleria, coperti dall’amicizia col fratello di Mussolini. Il ras di Cremona, Roberto Farinacci, conquista posizioni sempre più importanti tramite una rete occulta di banchieri, criminali e spie. Diventa così il principale antagonista del Duce, che a sua volta fa spiare i suoi maneggi.

La politica economica

La politica economica del fascismo fu essenzialmente basata sull'autarchia: la nazione doveva diventare autosufficiente, essenzialmente per poter mantenere la propria indipendenza economica anche nei momenti di crisi, il governo fascista spinse, allora, alla produzione dei prodotti autarchici, come ad esempio la Lanital e il formaggio italico. Il governo Mussolini mirò principalmente ad aumentare i margini d'azione, e quindi di profitto, all'iniziativa private. Vennero inoltre alleggerite le tasse sulle imprese, vennero privatizzati alcuni monopoli di stato, come quello sulle assicurazioni sulla vita e sul servizio telefonico, i cui costi diminuirono sostanzialmente (rimanendo comunque elevati).

Si limitò inoltre la spesa pubblica, in parte però con i licenziamenti dei ferrovieri. La politica liberista in economia portò buoni successi, con un aumento della produzione agricola (senza tuttavia raggiungere mai l'obiettivo di una completa autosufficienza alimentare) e industriale.

Nel 1940, alla vigilia dell'entrata in guerra, le retribuzioni dei dipendenti dell'industria in generale risultavano diminuite del 15% (in valori reali) rispetto al 1922. Ciò mentre il reddito nazionale pro capitale era aumentato del 20%.

Lo Stato sociale

Tra le misure di politica economica va considerata la creazione di un sistema di Stato sociale; nel 1927 fu promulgata la Carta del Lavoro, che prevedeva l'esistenza dei soli sindacati fascisti legalmente riconosciuti e sottoposti al controllo dello Stato (che di fatto coincideva con il Partito Nazionale Fascista), e l'introduzione dei primi contratti collettivi. Negli anni successivi, accanto a misure strettamente produttivistiche e relative al tema del lavoro (come la riduzione nel 1937 dell'orario lavorativo settimanale a 40 ore, ma con proporzionale riduzione del salario, determinata dalla grave crisi economica ed occupazionale degli anni '30; riduzione che sarà poi soppressa nel 1940 per esigenze belliche) se ne affiancarono altre volte alla tutela della famiglia con l'istituzione degli assegni familiari..

Nel settore previdenziale, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (CNAS), istituita nel 1919, venne trasformata nel 1933 nell'ente di diritto Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (INFPS, attuale INPS) e arrivò a impiegare 6.000 dipendenti nel 1937." Vennero inoltre disciplinati istituti di diritto del lavoro quali malattia, maternità e infortuni. Nel 1939 l'età pensionabile venne abbassata a 55 anni per le donne e 60 anni per gli uomini, venendo anche introdotta le reversibilità della pensione.

Nel 1942 con la legge n. 22 fu istituito l'Ente Nazionale Previdenza e Assistenza ai dipendenti Statali, oggi confluito nell'INPDAP.

La riforma del codice penale

A partire dalla metà degli anni 1920, il regime cominciò un'opera di rinnovamento della legislazione italiana. Il primo codice a essere riformato fu quello penale, detto codice Zanardelli, promulgato nel 1889. Il nuovo codice, chiamato codice Rocco dal nome del ministro della Giustizia Alfredo Rocco che promosse la riforma, fu redatto dal giurista Vincenzo Manzini, seguace del tecnicismo giuridico. Questa scuola di pensiero, fondata da Arturo Rocco, fratello maggiore del ministro, teorizzava l'applicazione dei principi del giuspositivismo al diritto penale, affermandone il primato e l'autonomia rispetto alle scienze sociali. Il tecnicismo giuridico, mettendo da parte ogni valutazione estranea allo studio dell'ordinamento vigente, favoriva un'interpretazione conservatrice del diritto penale, con una certa tendenza all'autoritarismo, sintomatica della profonda crisi che lo Stato liberale stava affrontando all'inizio del XX secolo a causa dell'avanzata dei movimenti socialisti. I caratteri autoritari del tecnicismo si intensificarono nel corso degli anni fino ad affermarsi completamente durante il periodo fascista, fornendo le basi per la stesura del codice Rocco, promulgato nell'ottobre 1930. Tra le principali innovazioni portate dal nuovo codice ci fu la reintroduzione della pena di morte per i delitti comuni, che era stata abolita quarant'anni prima con l'entrata in vigore del codice Zanardelli. Nel 1926, durante i lavori, lo stesso Alfredo Rocco intervenne in favore della pena capitale dalle pagine di Gerarchia, scrivendo che a sostenerne l'utilità ci fosse una

«schiera di scrittori autorevoli, dal giusnaturalista Filangeri fino al Romagnosi, al Pellegrino Rossi, al Gabba, al Lombroso, al Garofalo, al Manzini, al Rocco, al Massari. Quanto a Cesare Beccaria, campione massimo della teoria abolizionista della pena capitale, gli si fa un torto considerando sua gloria suprema l'aver auspicato la soppressione della pena di morte. L'aureo libro «Dei delitti e delle pene» nonostante l'affermazione nettamente individualistica nel campo del diritto penale, contiene il suo fondamentale titolo di onore nell'avere distrutto la tradizione medioevale e il complesso e barbaro meccanismo delle torture, che ancora simboleggiavano dispoticamente, in base alle ordinanze di Carlo V del 1532 e Francesco I del 1539, la giustizia criminale lombarda nella prima metà del secolo XVIII.»

(Alfredo Rocco, Gerarchia, 1926, vol. VI, p. 691.)

Tuttavia, nonostante le forti tendenze autoritarie, il codice Rocco non abolì principi tipici della scuola penale liberale, affermando nella parte generale il principio di legalità, il divieto di analogia e l'irretroattività della legge penale. L'influenza dell'ideologia fascista si manifestò con maggiore intensità nella parte speciale del codice, istituendo fattispecie dal carattere prettamente politico, tra le quali:

disfattismo politico (art. 265);

disfattismo economico (art. 267);

attività antinazionale del cittadino all'estero (art. 269);

vilipendio della nazione italiana (art. 291).

Diversamente da quanto accadde nella Germania nazista, nell'Italia fascista il diritto penale non assunse mai un carattere totalitario. I giuristi nazisti appartenenti alla scuola di Kiel respinsero la teoria liberale del bene giuridico, indicando come criterio fondamentale per l'individuazione del reato la «violazione del dovere di fedeltà nei confronti dello Stato etico, impersonato dal Führer». In Italia una posizione simile fu assunta dal giurista Giuseppe Maggiore, che contestò la persistenza dei principi liberali nel codice Rocco, proponendo di modificare l'art. 1 come segue:

«È reato ogni fatto espressamente previsto dalla legge penale e represso con una pena da essa stabilita. È altresì reato ogni fatto che offende l'autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo lo spirito della rivoluzione fascista e la volontà del duce unico interprete della volontà del popolo italiano. Tale fatto, ove non sia previsto da una precisa norma penale, è punibile in forza di una disposizione analoga.»

(Giuseppe Maggiore, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, in Rivista italiana di diritto penale, 1939, p. 140.)

La posizione di Maggiore rimase isolata, cosicché la matrice liberale permise al codice di sopravvivere al fascismo, anche in virtù delle importanti novellazioni avvenute nel 1944, un anno dopo il crollo del regime. Il codice è quindi rimasto in vigore fino ai giorni nostri seppur tra diverse critiche e periodici propositi di riforma.

Le riforme della scuola

Aula del liceo Quinto Ennio di Gallipoli durante il ventennio fascistaUn'aula scolastica nel 1930 in cui sulla parete dietro la cattedra si notano ai lati del crocefisso i ritratti del re Vittorio Emanuele III e del duce, oltre a un ritratto di un militare (forse eponimo dell'istituto), mentre sulla cattedra c'è un fermacarte a forma di fascio littorio e a fianco un apparecchio radio tipo "Radio Rurale" con evidenti impianti elettrici e di riscaldamento

Uno dei primi atti del governo Mussolini fu una radicale riforma scolastica portata avanti dal ministro Giovanni Gentile nel 1923: questa prevedeva un'istruzione classica e un esame a ogni conclusione di ciclo di studi, mettendo in questo modo sullo stesso piano scuole pubbliche e private. La riforma tuttavia non fu mai completata nel senso voluto dal filosofo, ma subì diversi aggiustamenti successivi. Fra gli scopi fondamentali - in senso fascista - della riforma vi era l'elevazione della scuola dell'obbligo ai 14 anni, la preminenza assoluta degli insegnamenti classici, i soli che permettessero l'accesso all'università in Italia, la realizzazione di un'istruzione tecnica per tutti coloro i quali invece non avessero avuto le doti per accedere ai gradi superiori d'istruzione.

Giuseppe Bottai si prefissò di allargare la base d'accesso agli atenei, e propose l'unificazione delle scuole medie (unico provvedimento di questa riforma a essere sopravvissuto alla catastrofe bellica). Accusando la vecchia riforma Gentile di "intellettualismo", venne successivamente varata la legge 1º luglio 1940, n. 899, ma con l'entrata in guerra dell'Italia nella seconda guerra mondiale impedì la completa applicazione della riforma Bottai, che rimase in gran parte sulla carta.

Le bonifiche e le opere pubbliche

Uno degli elementi che caratterizzò la propaganda fascista fu il tema delle bonifiche e della fondazione di nuove città. L'intensa attività relativa alla "bonifica integrale", all'appoderamento di terreni incolti e alla fondazione dei nuovi insediamenti, nasceva da specifici caratteri dell'ideologia fascista e in particolare dalle istanze tradizionaliste, antimoderne e antiurbane che caratterizzavano una parte del movimento fascista, senza per questo esaurirne la complessità, visto le opposte tendenze moderniste.

La "ruralizzazione" dell'intera società, il ritorno alla terra e alla civiltà contadina, fu infatti un obiettivo prioritario dello stesso Mussolini tanto da condizionare le scelte economiche fin dal 1928. L'inurbamento era visto come la causa dell'abbassamento della natalità e origine di disordini sociali. Al contrario la possibilità di sfruttamento agricolo di nuovi territori che proseguivano analoghe iniziative avviate già sotto il governo Nitti, avrebbe incrementato la produzione cerealicola rendendo possibile l'autarchia alimentare, avrebbe creato una classe sociale di piccoli mezzadri o proprietari agricoli, legati alla terra con tutta la famiglia, stabilizzando così la struttura sociale, e combattendo così la denatalità, i disordini sociali, e la "degenerazione della razza". 

Alcuni storici dietro l'ideologia nel "ruralismo" vedono altre motivazioni come una politica economica tesa a comprimere redditi e consumi, assorbendo il gran numero di disoccupati, causato anche dalla crisi mondiale successiva al 1929, cui l'industria non poteva dare lavoro, evitando l'arresto di una crescita demografica e facendo dell'agricoltura un serbatoio, in attesa che la produzione industriale superasse la crisi. L'attuazione degli interventi di bonifica prevedeva la pianificazione territoriale di ampia scala del territorio agricolo, la bonifica idrico-ambientale di vaste aree, la realizzazione di urbanizzazioni di varia tipologia insediativa, quasi sempre costituita da molti piccoli nuclei agricoli, ma che nel caso dell'imponente bonifica dell'agro pontino portò alla fondazione di nuove città tra cui Littoria (Latina) e Sabaudia. Questo ampio sviluppo urbanistico relativo alla creazione di nuovi insediamenti è stato recentemente oggetto di studi, riscoperte e pubblicazioni. Oltre che nel Lazio interventi di bonifica furono intrapresi con alterni successi in Sardegna, Friuli, Puglia e Sicilia. Analoghi interventi di colonizzazione furono attuati in Libia.

Le aree necessarie a realizzare gli interventi venivano recuperate quasi sempre attingendo a terreni demaniali incolti, aree soggette ad usi civici, aree acquitrinose acquisite a poco prezzo e che venivano affidati all'ente incaricato della bonifica, principalmente l'O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), che provvedeva alla pianificazione, all'appoderamento e all'assegnazione dei vari appezzamenti a famiglie di mezzadri che avrebbero nel tempo ripagato gli investimenti iniziali e anche riscattata la proprietà. Furono numerosi i casi in cui anche privati (società anonime speculative, opere pie, famiglie della nobiltà romana) parteciparono, più o meno volontariamente, alle iniziative di bonifica appoderando terreni da valorizzare e usufruendo di mutui agevolati per le opere necessarie. Scarsi furono i casi di esproprio per inadempienza dei proprietari, tenuti ad eseguire le opere di appoderamento, soprattutto in Puglia e in Sicilia, nonostante che la legislazione fosse stata orientata in tal senso sia prima, sia durante il fascismo.

Il principale promotore di tale legislazione e in generale dei processi di bonifica integrale fu Arrigo Serpieri che però nel 1935 fu esonerato dall'incarico di responsabile delle bonifiche proprio a causa della sua intransigenza verso i mancati espropri. La fondazione di nuovi centri e le bonifiche rappresentarono probabilmente l'operazione di maggior valenza propagandistica per il regime, con riflessi anche all'estero, tanto da essere scelti come tema principale per l'esposizione che si tenne in concomitanza del primo decennale della Marcia su Roma, la 1ª Mostra nazionale delle Bonifiche, organizzata da una commissione presieduta dallo stesso Arrigo Serpieri. Questa importanza propagandistica fu uno dei motivi per il quale il modello delle iniziative di "bonifica integrale" fu replicato ovunque e in continuazione fino alle soglie del secondo conflitto mondiale.

Durante il periodo fascista vennero realizzate alcune opere pubbliche come l'autostrada Firenze-Mare e l'autostrada dei laghi, oltre a diverse opere di bonifica, soprattutto nel sud Italia, per un totale di 5.886.796 ettari trattati tra il 1923 e il 1938. Vennero poi completati alcuni nuovi collegamenti ferroviari, come le cosiddette "linee direttissime" Bologna-Firenze e Roma-Napoli, che si affiancavano alle precedenti e i cui lavori erano cominciati alcuni anni prima della grande guerra.

Nel 1927 fu bonificata la piana di Terralba, in Sardegna, dove sorse l'attuale Arborea, fondata dividendosi da Terralba e inaugurata il 29 ottobre 1928 come Villaggio Mussolini, in seguito rinominata Mussolinia di Sardegna con R.D. n.1869 del 29 dicembre 1930. La denominazione viene modificata in Arborea l'8 marzo 1944, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di variazione contenuto nel R.D. n.68 del 17 febbraio 1944. Sempre negli anni 30' venne fondata in Sardegna Carbonia. Il centro nacque negli anni trenta del Novecento per ospitare le maestranze impiegate nelle miniere di carbone che furono avviate in quegli stessi anni nel territorio dal regime fascista per sopperire alle necessità energetiche dell'Italia negli anni dell'autarchia.

Nel 1931 iniziarono le operazioni di bonifica idraulica dell'Agro Pontino, che videro al lavoro migliaia di uomini delle zone collinari lepine e poveri contadini del centro-nord, concluse in 3 anni. Vennero costruite nella nuova pianura ottenuta 3000 poderi da destinarsi, in buona parte, ai contadini che lavorarono alla bonifica (O.N.C.). Altre imponenti bonifiche si ebbero nella valle del Po, in località Le Matine, nel metapontino, in maremma e nella Piana Reatina per bonificare la quale furono realizzate due dighe, di cui una era a quel tempo la più alta d'Europa con oltre 100 metri, esistenti tuttora e formanti i bacini artificiali del Salto e del Turano in provincia di Rieti.

L'Impero fascista

La politica del governo Mussolini si indirizzò anche verso la creazione di un impero coloniale, come "retrovia" e riserva demografica, industriale, agricola e di materie prime in caso di un nuovo conflitto generalizzato in Europa. Giocoforza, questo impero non poteva che essere cercato in Etiopia, uno dei pochi territori africani ancora indipendenti. La guerra d'Etiopia, lungamente ritardata da Mussolini proprio per trovare con inglesi e francesi un accordo diplomatico che smembrasse l'impero di Haile Selassie senza ricorrere all'invasione, portò alla rottura dei cordiali rapporti finora intrattenuti coi vecchi alleati. L'Italia subì delle sanzioni economiche e i suoi rapporti con le nazioni democratiche si incrinarono definitivamente. Nelle sue memorie, Winston Churchill descrisse come segue la situazione diplomatica successiva alla crisi etiopica: «la politica britannica aveva forzato Mussolini a cambiare fronte. La Germania non era più isolata. Le quattro potenze occidentali erano divise due contro due anziché tre contro una», mentre invece il diplomatico sir Robert Vansittart «pensava continuamente alla minaccia tedesca e avrebbe voluto avere la Gran Bretagna e la Francia organizzate al massimo delle loro forze per affrontare questo più grave pericolo, con l'Italia dietro di loro come amica e non come nemica»

La guerra d'Etiopia

La campagna militare italiana per la conquista dell'Impero d'Etiopia fu conseguenza della decisione di Mussolini di fornire all'Italia un'ampia retrovia coloniale dove attingere materie prime, derrate, uomini e fornire altresì uno sbocco all'emigrazione in vista di un prossimo e probabile conflitto generalizzato in Europa. Infatti il crollo repentino del Fronte di Stresa in funzione di contenimento della Germania nazista aveva posto Mussolini di fronte alla prospettiva di un isolamento dell'Italia in caso di guerra con i tedeschi per il mantenimento dello status quo in Europa. Questo aveva convinto il dittatore italiano che l'Italia poteva fare una politica autonoma solo a patto di ottenere un'autosufficienza alimentare, industriale e demografica che il solo territorio metropolitano e le colonie fino allora acquisite non potevano garantire.

La guerra d'Etiopia fu condotta dall'Italia senza risparmio di forze e mezzi, e fra questi vi fu anche l'impiego di armi chimiche, tra le quali il gas asfissiante fosgene e il gas vescicante iprite. Il suo uso ebbe come pretesto e venne giustificato come rappresaglia per le violazioni abissine della Convenzione di Ginevra (uso di pallottole dum-dum, atrocità contro i prigionieri) compiute da parte italiana. La repressione fu compiuta anche con l'istituzione di campi di concentramento, forche pubbliche, uccisione di ostaggi, mutilazioni di nemici catturati. Alcuni militari italiani si fecero riprendere dai fotografi accanto ai cadaveri penzolanti dalle forche o accoccolati intorno a ceste piene di teste mozzate. Qualcuno si mostrò sorridente ai fotografi mentre teneva in mano, per i capelli, uno di questi lugubri trofei. Un altro sanguinoso episodio dell'occupazione italiana in Etiopia fu la strage di Addis Abeba del febbraio 1937, seguita a un attentato dinamitardo contro Graziani.

Dal punto di vista propagandistico, essa fu il più grande successo del regime fascista: riuscì a attirare intellettuali e perfino antifascisti attorno ai leitmotiv del posto al sole, della liberazione degli abissini dalla schiavitù e della rinascita dell'Impero Romano.

Come conseguenza dell'aggressione all'Etiopia, l'Italia subì la condanna della Società delle Nazioni, che determinò un blocco commerciale del mar Mediterraneo e le sanzioni economiche condotte da 52 nazioni (fra cui tutte le potenze coloniali europee). Ciò favorì l'avvicinamento economico e politico dell'Italia alla Germania nazista (sebbene questa avesse rifornito di armi l'Etiopia in funzione anti-italiana sino a poco prima del conflitto), che era già uscita dalla Società delle Nazioni e aveva osteggiato il trattato di Versailles del 1919.

In seguito l'Impero in Africa Orientale fu tuttavia amministrato con pugno di ferro contro le bande di ribelli e lealisti al vecchio governo del Negus, e si preparò una forma di sviluppo separato fra le popolazioni indigene e i nuovi coloni italiani non dissimile dall'apartheid praticato in alcune colonie e dominion britannici come il Sudafrica. Se non altro vennero anche liberate decine di migliaia di schiavi e si tentò di "avanzare l'Abissinia: costruzione di strade, scuole, ospedali, ferrovie (le locomotive "Littorine" sono in uso in Etiopia ancor' oggi), inoltre l'odierna Addis Abeba, capitale dell'Abissinia, o Etiopia, era un villaggio prima che venisse conquistata dall'Italia che ha costruito praticamente la totalità della città odierna.

In seguito nei vari tentativi di Mussolini di trovare una nuova intesa con la Gran Bretagna l'Italia propose di risolvere il cosiddetto "problema ebraico" in Europa e Palestina offrendo ai sionisti un piano embrionale di colonizzazione territori nel Goggiam già abitati da secoli da popolazioni abissine di religione israelita, i falascia, con la creazione di uno "stato" federato all'Impero Italiano in AOI. A quanto risulta il piano restò lettera morta.

Le sanzioni economiche

L'11 ottobre 1935 l'Italia venne sanzionata dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia. Le sanzioni, in vigore dal 18 novembre, consistevano in:

embargo sulle armi e sulle munizioni;

divieto di dare prestiti o aprire crediti in Italia;

divieto di importare merci italiane;

divieto di esportare in Italia merci o materie prime indispensabili all'industria bellica.

Paradossalmente, nell'elenco delle merci sottoposte ad embargo mancano petrolio e i semilavorati. In realtà fu soltanto la Gran Bretagna a osservare le regole imposte dalle sanzioni. La Germania hitleriana così come gli Stati Uniti furono i primi due paesi a schierarsi apertamente verso l'Italia, garantendo la possibilità di acquistare qualunque bene. L'Unione Sovietica rifornì di nafta l'esercito italiano per tutta la durata del conflitto, e anche la Polonia si dimostrò piuttosto aperta.

Il consenso e la propaganda

L'effetto emotivo delle sanzioni venne sfruttato dal regime affinché l'Italia si stringesse intorno a Mussolini. Le grandi potenze coloniali occidentali furono etichettate quali plutocrazie ostili al raggiungimento da parte dell'Italia di un posto al sole, e tra queste la Gran Bretagna veniva chiamata perfida Albione. Ritornò in voga il patriottismo e la propaganda politica spinse affinché si consumassero solo prodotti italiani. Fu in pratica la nascita dell'autarchia, secondo la quale tutto doveva essere prodotto e consumato all'interno dello stato. Tutto ciò che non poteva essere prodotto per mancanza di materie prime venne sostituito: il tè con il carcadè, il carbone con la lignite, la lana con il lanital (la lana di caseina), la benzina con il carburante nazionale (benzina con l'85% di alcool) mentre il caffè venne abolito perché «fa male» e sostituito con il "caffè" d'orzo.

L'autarchia entrò anche nella lingua: sulla base di una "forma rozza di purismo" furono infatti banditi tutti i forestierismi da ogni comunicazione scritta e orale: ad esempio Chiave inglese diventò chiave morsa, cognac diventò arzente, ferry-boat diventò treno-battello pontone. Conseguentemente vennero rinominate tutte le città con nome francofono dell'Italia nord-occidentale e con nome tedescofono dell'Italia nord-orientale: secondo la toponomastica fascista, per fare un paio di esempi, Courmayeur diventò Cormaiore e Kaltern diventò Caldaro. Inoltre si affermava che anche l'uso del lei avesse origini straniere, perciò venne inaugurata una campagna per la sostituzione del lei con il voi, capeggiata dal segretario del partito Achille Starace.

Intanto mentre la Società delle Nazioni sanzionò l'Italia, Emilio De Bono venne silurato in favore del maresciallo Pietro Badoglio che fu autorizzato ad utilizzare i gas. Mentre la guerra si trasformò in una fonte di onorificenze per tutti i gerarchi, Badoglio commise stragi che finirono sui giornali esteri (quelli italiani censurarono ogni avvenimento). Alle 22:30 di sabato 9 maggio 1936 Mussolini annunciò al popolo italiano la fondazione dell'Impero. Le truppe del maresciallo Pietro Badoglio entrarono infatti in Addis Abeba il 5 maggio, ponendo così fine alla guerra d'Etiopia.

La nascita dell'impero comunque non portò nessuna delle ricchezze promesse: né oro, né ferro, né grano. L'Impero al contrario utilizzò il denaro statale per la costruzione di strade, di dighe e di palazzi e dette a Mussolini l'illusione di avere un esercito potente e la capacità di poter piegare gli stati europei che sanzionarono il paese senza peraltro mettere in pratica le temute minacce.

L'Europa centrale

Spartiacque della politica estera fascista fu essenzialmente la prima crisi austriaca del 1934, con il tentativo di Hitler di annettere l'Austria dopo aver fatto assassinare il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss (amico personale di Mussolini). In quel frangente l'Italia schierò le proprie divisioni al Brennero, minacciando un'azione militare in difesa dell'alleato austriaco, se la Germania avesse varcato le frontiere. Di fronte a questa crisi - tuttavia - Francia e Gran Bretagna rimasero inerti. Per contrastare le mire hitleriane sulla prima repubblica austriaca, nell'aprile 1935 Mussolini invitò i governi francese e britannico alla conferenza di Stresa, il cui esito fu un sostanziale fallimento, risolvendosi in generiche dichiarazioni contro le intenzioni revisioniste della Germania, nonché ingenerando in Mussolini la convinzione di aver ricevuto l'implicita approvazione franco-britannica verso la conquista italiana dell'Impero d'Etiopia.

Il successivo accordo navale anglo-tedesco, firmato nel giugno dello stesso anno senza che il governo di Londra ne avesse informato gli alleati francese e italiano, apparve a Mussolini come un ulteriore atto di ipocrisia da parte dei britannici, i quali avevano sostanzialmente riconosciuto che la Germania non era più sottoposta ai vincoli militari imposti dal trattato di Versailles del 1919.

L'intervento nella guerra civile spagnola

Il 18 luglio 1936 scoppiò la guerra civile spagnola che vide contrapposti le sinistre del Fronte Popolare, che erano al potere dalle elezioni del 1936, e la falange spagnola, una forza ideologicamente paragonabile al fascismo. Questa organizzazione non sarebbe mai stata capace di mettere il potere nelle mani del generale galiziano Francisco Franco senza l'aiuto della Chiesa Cattolica, della Germania nazista e dell'Italia fascista, che la finanziava. Mussolini fornì in via ufficiosa l'appoggio alla Falange inviando un contingente di circa 50.000 uomini inquadrato nel Corpo Truppe Volontarie, e un contingente della Regia Aeronautica denominato Aviazione Legionaria.

Allo scoppio delle ostilità oltre 60.000 volontari accorsero da 53 nazioni in aiuto dei repubblicani. Gli italiani accorsi a combattere per la Seconda Repubblica Spagnola erano fra i più numerosi, superati solo da tedeschi e francesi. Tra essi alcuni dei nomi più noti della resistenza al fascismo, come Emilio Lussu, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Carlo Rosselli e il fratello Nello Rosselli (assassinati qualche tempo dopo in Francia).

Ciò che spinse Mussolini a lanciarsi in un'impresa senza alcun reale tornaconto fu probabilmente la possibilità di offrire agli italiani reduci dalla conquista dell'Etiopia un'altra avventura bellica. Per Hitler invece la questione era legata alle materie prime presenti in Spagna: la Germania aveva infatti un disperato bisogno del ferro spagnolo che nel 1937 verrà importato per una quantità pari a 1.620.000 tonnellate; Hitler voleva inoltre sondare la sua capacità bellica in una sorta di test per le armi e gli equipaggiamenti che l'industria tedesca stava sviluppando per la Wehrmacht. Oltre al carattere economico di questo scontro si deve evidenziare la lotta ideologica in corso, tra fronti popolari e fascismi, con la complicazione data dalla natura della repubblica spagnola, di chiara ispirazione socialista. Forse proprio per questo le democrazie liberali non difesero tenacemente (ad esempio ricorrendo ad un blocco navale) la Spagna dall'aggressione fascista, poiché vedevano nella nascita di uno "stato rosso" nella penisola iberica un pericolo soprattutto per i loro interessi in Africa e in America latina. L'attiva partecipazione dell'Unione Sovietica alla guerra e il tentativo di egemonizzare la linea politica delle forze di sinistra spagnole erano una prova di questo pericolo, considerato dalle democrazie occidentali non meno grave del sorgere di un'ulteriore dittatura di stampo fascista.

Nessuno dei due dittatori ebbe comunque il tornaconto sperato dalla vittoria finale di Franco. Quest'ultimo infatti negherà l'appoggio all'Asse e si dichiarerà non belligerante nei confronti di Francia e Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale, rifiutando in seguito l'accesso alle divisioni tedesche che avrebbero dovuto assaltare Gibilterra. Mussolini, dal canto suo, non fu mai risarcito per le ingenti perdite di mezzi subite dall'Italia durante la guerra civile spagnola.

L'alleanza con la Germania nazista

Dal 1938 in Europa si iniziò a respirare aria di guerra: Hitler aveva già annesso l'Austria e i Sudeti e con la successiva conferenza di Monaco gli venne dato il lasciapassare per l'annessione di tutta la Cecoslovacchia, mentre Mussolini dopo l'Etiopia stava cercando nuove prede per non perdere il passo dell'alleato d'oltralpe. La vittima designata venne trovata nel Regno albanese.

Il 10 febbraio 1939 fu comunicata alla stampa la notizia della morte di papa Ratti, stroncato da un attacco cardiaco, a causa e a seguito del quale restò inedito «un messaggio ai vescovi, di forte impronta politica», successivamente identificato con l'ernciclica Humani generis unitas.

Il 12 marzo venne incoronato papa Pio XII, che il giorno seguente lesse il suo primo messaggio pubblico alla Radio Vaticana, contenente uno dei numerosi appelli alla pace nel mondo.

Il 7-8 aprile 1939, Tirana fu conquistata dalle forze fasciste, in due soli giorni, con un ausilio stimato in 22.000 uomini e 140 carri armati. Dopo la conquista del regno, venne instaurato un governo fantoccio con una nuova Costituzione, approvata il 12 aprile del 1939 a Tirana, che trasformò il regno europeo nel Protettorato Italiano del Regno d'Albania, le cui premesse furono poste con la campagna di Albania. Il 16 aprile dello stesso anno il trono albanese fu assunto dal Re d'Italia Vittorio Emanuele III.

Il 22 maggio tra Germania e Italia venne firmato il Patto d'Acciaio. Tale patto assumeva che la guerra fosse imminente, e legava l'Italia in un'alleanza stretta con la Germania. Alcuni membri del governo italiano si opposero, e lo stesso Galeazzo Ciano, firmatario per l'Italia, definì il patto una «vera e propria dinamite».

L'antisemitismo e le leggi razziali

I primi anni dell'Italia fascista non videro provvedimenti razzisti. La "questione ebraica", sulla scorta di quanto avveniva nella Germania nazista, si presentò in Italia soltanto alla fine degli anni 1930. Quando Hitler salì al potere in Germania nel 1933 emanò subito provvedimenti volti alla discriminazione negativa della popolazione ebraica, i quali non trovarono il favore di Mussolini che esplicitò la sua contrarietà. Tra i fascisti della prima ora vi erano moltissimi italiani di religione ebraica, tant'è che centinaia di essi parteciparono alla marcia su Roma.

Il comportamento di Mussolini verso gli ebrei sarebbe cambiato. Molti ebrei influenti si opposero apertamente alla guerra d'Etiopia e alla partecipazione alla guerra civile spagnola e da allora Mussolini cominciò a vedere gli ebrei con occhi diversi.

Il 14 luglio 1938 fu pubblicato sui maggiori quotidiani nazionali il Manifesto della razza. In questa sorta di tavola redatta da cinque cattedratici (Arturo Donaggio, Franco Savorgnan, Edoardo Zavattari, Nicola Pende e Sabato Visco) e da cinque assistenti universitari (Leone Franzi, Lino Businco, Lidio Cipriani, Guido Landra e Marcello Ricci) venne fissata la «posizione del fascismo nei confronti dei problemi della razza».

I dieci dettami erano:

Le razze umane esistono.

Esistono grandi razze e piccole razze.

Il concetto di razza è un concetto puramente biologico.

La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza ariana e la sua civiltà è ariana.

È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici.

Esiste ormai una pura razza italiana.

È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.

È necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei d'Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall'altra.

Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.

I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

Con questo manifesto si dava il via a quel processo che portò alla promulgazione delle leggi razziali. La Camera le approvò il 14 dicembre 1937: dei 400 deputati in carica, erano presenti 351, che votarono a favore all'unanimità, dove tra l'altro va segnalata la presenza di quattro deputati ebrei (Guido Jung, Gino Arias, Riccardo Luzzatti e Gian Jacopo Olivetti). Il Senato le approvò il 20 dicembre, dove furono presenti solo 164 senatori su 400, dei quali solo 10 furono i voti contrari. Nell'autunno 1938, nel quadro di una grande azione razzista già tempo prima, il governo Mussolini varò la "normativa antiebraica sui beni e sul lavoro", ovvero la spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia.

La persecuzione degli omosessuali

Gli omosessuali, un altro gruppo perseguitato dalle politiche del governo nazista di Hitler, non furono perseguitati ufficialmente dal governo fascista in quanto tali. Più di trecento persone furono allontanate, soprattutto dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938; di questi, 42 erano di Catania, ove il questore Molina fu tra i pochi ad applicare effettivamente tale legge, invece assai meno applicata altrove.

La seconda guerra mondiale

La crisi interna del regime negli ultimi anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il logoramento delle forze armate dopo cinque anni di continui impegni militari (Abissinia, Spagna, Albania), l'emergere deciso della Germania come prima potenza militare d'Europa e la sua alleanza con Stalin (Patto Molotov-Ribbentrop), spinsero Mussolini verso una politica doppiogiochista (alleanza dichiarata con la Germania, trattative sotterranee con la Gran Bretagna) che portò l'Italia in guerra. Durante la prima fase del conflitto la politica estera fascista fu sostanzialmente mossa dal tentativo di svilupparsi parallelamente (e spesso ai danni) di quella tedesca: un tentativo destinato a fallire in seguito ai numerosi rovesci militari subiti dalle forze armate italiane su quasi ogni fronte. Si segnala, in questo periodo, la durezza del contegno italiano verso la Francia, sconfitta dai tedeschi, il quale fu fra i principali motivi per i quali questa nazione non si unì decisamente all'Asse.

Sempre più prigioniera della propria propaganda, la politica estera fascista fu spinta ad azioni dettate più dalle necessità ideologiche che non da quelle pragmatiche, infilando il paese in una spirale di fallimenti della quale si giovarono tanto gli alleati dell'Asse quanto i nemici. A partire dal 1943, Mussolini cercò continuamente di convincere Hitler della necessità di un accordo con l'Unione Sovietica, per concentrare le forze contro gli angloamericani, mentre, tuttavia, continuavano segretamente i contatti fra il dittatore italiano e il premier britannico Winston Churchill. Con la caduta del fascismo, l'armistizio di Cassibile e la nascita della RSI cessò quasi del tutto ogni residuo tentativo di politica estera autonoma del regime, eccezion fatta per le pressioni su Hitler per un accomodamento russo-tedesco e gli sporadici contatti fra Mussolini e Churchill.

L'entrata in guerra dell'Italia

Il 1º settembre 1939 60 divisioni tedesche invasero la Polonia dando il via alla seconda guerra mondiale. Rapidamente l'esercito tedesco riuscì a conquistare Varsavia per poi spostare le sue attenzioni prima al nord, occupando Danimarca e Norvegia; rivolse poi le sue forze ad ovest avanzando contro i Paesi Bassi e, attraverso il Belgio, contro la Francia.

Benito Mussolini rimase in attesa degli eventi e inizialmente dichiarò l'Italia non belligerante. Fino a quando, impressionato dalle facili e rapide vittorie della Germania e dall'imminente crollo della Francia, si convinse di una vittoria nazi-fascista e annunciò in un discorso a Roma il 10 giugno del 1940 l'entrata in guerra dell'Italia contro la Francia e l'Inghilterra lo stesso giorno, dando consegna a quasi tutti i comandi di mantenere un contegno difensivo verso la Francia. Il 21 giugno, dopo la firma dell'armistizio franco-tedesco (il 17 giugno), 325.000 soldati italiani ricevettero l'ordine di attaccare le restanti forze francesi oltre le Alpi. Nessuno in Italia sembrò rendersi conto della capitolazione della Francia e l'azione fu giudicata malissimo dall'opinione pubblica internazionale. Franklin Delano Roosevelt arrivò a definire l'azione una «pugnalata alla schiena». Il 24 giugno venne firmato l'armistizio italo-francese, che sanciva una smilitarizzazione in territorio francese dei 50 km vicini al confine. Le divisioni italiane avanzarono di soli 2 km, con la perdita di 6 029 uomini contro i 254 francesi.

Dopo la battaglia delle Alpi Occidentali e la riuscita conquista della Somalia Britannica, venne annunciato l'inizio della campagna italiana di Grecia, che Mussolini decise di invadere senza prima avvertire l'alleato tedesco, annunciata al grido di "spezzare le reni alla Grecia" e dopo la promessa delle dimissioni da italiano nel caso le truppe italiane non fossero riuscite nell'impresa, fu lanciato l'attacco il 28 ottobre. Le divisioni italiane si trovarono ben presto in difficoltà davanti a una resistenza inaspettata, e con un equipaggiamento arretrato e inadeguato. Hitler si vide quindi costretto a inviare la sua Wehrmacht nei Balcani per risolvere in breve tempo la situazione. La mossa peraltro rimandò di qualche tempo l'invasione della Russia (operazione Barbarossa), tanto che lo stesso Führer, qualche anno dopo, indicò questa occasione come una delle cause della futura sconfitta tedesca.

A seguito di questa esperienza, Mussolini perse l'iniziativa e continuò ad utilizzare l'esercito italiano come supporto all'alleato tedesco, inviando le sue truppe alpine in Russia.

La caduta del fascismo e l'armistizio dell'Italia

Dopo che in maggio le ultime unità della Prima Armata italiana si arresero in Tunisia, il 10 luglio 1943 una potente forza d'invasione anglo-americana riuscì a sbarcare sulle coste sud della Sicilia. La resistenza delle truppe italiane, demoralizzate e prive di mezzi moderni per contrastare le preponderanti forze alleate, fu debole e ci furono cedimenti di alcuni reparti; il piccolo contingente tedesco poté solo rallentare l'avanzata del corpo di spedizione alleato. Il re e lo stato maggiore capirono ben presto che ormai era ora di esautorare Mussolini, che in soli tre anni di guerra aveva creato una situazione insostenibile. Il 24 luglio, dopo lunghe pressioni, il Duce si vide costretto a convocare il Gran Consiglio del Fascismo che votando l'ordine del giorno Grandi portò alla destituzione e all'arresto di Mussolini (25 luglio) e al ritorno dei poteri militari al re.

Destituito Mussolini, il nuovo governo italiano di Pietro Badoglio cominciò a trattare la resa con i comandi Alleati che ormai stavano dilagando in Sicilia. Lo scioglimento del PNF da parte del nuovo governo Badoglio avvenne il 2 agosto 1943 con il regio decreto leg. n.704. Il 3 settembre a Cassibile (presso Siracusa) il generale Giuseppe Castellano firmò segretamente l'armistizio a Cassibile con l'impegno di comunicarlo alla nazione entro 15 giorni, poco prima di un programmato sbarco alleato sulla penisola.

L'8 settembre 1943 si svolsero eventi che colsero impreparati il governo e la corona: gli Alleati, dopo aver avvisato Badoglio dell'impossibilità della difesa di Roma, ingiunsero l'obbligo al governo italiano di annunciare l'armistizio entro le 18.30 dello stesso giorno poiché era già stato programmato uno sbarco a Salerno. La paura cominciò a diffondersi presso i vertici del paese, che per un momento pensarono anche di fingere una rottura con gli anglo-americani per guadagnare tempo con i tedeschi. All'ora prestabilita il generale americano Dwight D. Eisenhower annunciò alla radio l'armistizio, seguito alle 19.42 da Badoglio che concluse il comunicato con l'ambigua dichiarazione: «Ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Soprattutto quest'ultima frase, seguita dalla fuga del re e di Badoglio da Roma alle 5 del mattino del 9 settembre, furono gli atti che portarono al caos che seguì quel giorno, in cui nessun ordine ufficiale fu impartito, lasciando le unità dislocate sui vari fronti senza direttive chiare e alla mercé delle truppe tedesche, che reagirono furiosamente alla notizia di quello che ritennero un tradimento degli ex alleati italiani.

La guerra civile, la Resistenza e le repubbliche partigiane

Nell'Italia del sud liberata dagli Alleati e formalmente guidata dal re e dal suo governo si cercava di tornare lentamente alla normalità, ripristinando - per quanto possibile - l'ordinamento pre-fascista. Contemporaneamente Mussolini, liberato dalla prigionia dai tedeschi su ordine di Adolf Hitler, dette vita ad uno stato nell'Italia centro-settentrionale. Si trattava della Repubblica Sociale Italiana, fondata a Salò in provincia di Brescia e riconosciuta internazionalmente solo dalle forze dell'Asse.

Per oltre due anni, dal 14 novembre 1943 fino al 25 aprile 1945, la penisola fu quindi divisa in due da una linea di confine non ben definita: tale linea continuò a spostarsi sempre più a nord durante il corso del conflitto, fino ad attestarsi per un certo periodo (9 mesi, dall'agosto 1944 all'aprile 1945) sulla Linea Gotica. In seguito allo sfondamento di quest'ultima nelle ultime settimane di guerra, l'esercito tedesco si ritirò completamente dal suolo italiano e la Repubblica Sociale fu smantellata dagli Americani.

La Repubblica Sociale Italiana

Dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, il fascismo crollò in tutta Italia e non vi fu alcuna reazione negativa all'arresto di Mussolini degna di nota, né da parte del Partito (che fu messo fuori legge), né della Milizia. Il segretario del PNF Scorza, anzi, scrisse prontamente una lettera di sottomissione a Badoglio, mentre nel Paese si moltiplicavano grandi manifestazioni contro la guerra e di gioia per la caduta del regime, duramente represse per ordine di Badoglio. Il fascismo si riorganizzò solo grazie all'occupazione tedesca nel centro-nord del Paese in seguito all'armistizio di Cassibile, dopo l'8 settembre 1943. La rinascita di uno stato fascista nel centro-nord Italia ebbe carattere di discontinuità col precedente regime, tale che alcuni autori - prevalentemente di estrazione fascista - hanno inteso separare radicalmente il fascismo del Ventennio da quello repubblicano.

La Repubblica Sociale Italiana si diede una propria base ideologica con il Congresso di Verona, dove esponenti del partito fascista, e in particolare quelli di estrazione ex squadristica, si riunirono per ricreare il partito messo fuori legge dopo il 26 luglio 1943. Il Congresso richiese l'istituzione di un Tribunale straordinario speciale per processare i gerarchi che il 25 luglio si erano schierati contro Mussolini; approvò un manifesto programmatico che delineò la struttura del nuovo stato; proclamò la nascita della Repubblica sociale e prevedeva la convocazione di un'Assemblea Costituente, riaffermando l'alleanza con la Germania nazista.

La repubblica si fondò sui principi della Carta di Verona riaffermando allo stesso tempo soprattutto i principi del primo fascismo, sino alla Marcia su Roma, persi, secondo degli estensori della Carta stessa, durante il successivo ventennio del regime fascista. Tra tali principi primeggiava, per originalità, una politica economica tendente alla socializzazione delle fabbriche. Un segno di continuità col Fascismo della seconda parte del ventennio fu invece l'affermazione nei punti di Verona di una componente antisemita, sotto forma di dichiarazione di decaduta cittadinanza italiana per gli ebrei, considerati "di nazionalità nemica per la durata della guerra".

L'Esercito Nazionale Repubblicano spesso male armato ed equipaggiato, era composto da nuclei di volontari ma anche da un gran numero di coscritti, il cui richiamo coi vari bandi (pena di morte per i renitenti) provocò un forte fenomeno di renitenza alla leva che tuttavia finì per alimentare la resistenza italiana. Secondo i rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana, formata in prevalenza da ex appartenenti alla MVSN, la coscrizione condusse anche alla fuga molti giovani che non rispondevano alla chiamata alle armi o abbandonavano i reparti appena raggiunti, parte dei quali riuscirono a riparare in Svizzera, mentre altri avrebbero finito per contribuire al formarsi (o l'ingrossarsi) di bande di malviventi.

Il dibattito interno alla dirigenza fascista repubblicana fra un esercito di soli volontari (Borghese, Pavolini) e un esercito di coscritti (Graziani) fu uno dei principali motivi di discussione nell'ambito della gerarchia fascista repubblicana e provocò non pochi problemi al funzionamento delle Forze Armate. Mussolini inizialmente era favorevole a un esercito di volontari e da reclutarsi fra i militari italiani internati in Germania. In seguito al duro e diffidente atteggiamento tedesco verso gli internati e soprattutto verso la popolazione maschile italiana atta alle armi o al lavoro, mutò opinione, autorizzando Graziani alla promulgazione dei bandi d'arruolamento di coscrizione. Mussolini.

Queste forze armate repubblicane tuttavia non godettero mai della fiducia dei comandi tedeschi e di Hitler, mentre i diversi ambienti politici del Reich le vedevano come una possibile minaccia ai loro obbiettivi di "satellizzazione" o addirittura di mutilazione dell'Italia in caso di vittoria dell'Asse. Per questo motivo, nonostante ogni pressione da parte del governo repubblicano e le prove di combattimento relativamente buone date in ogni (sporadico) impiego ai fronti, tali truppe furono usate principalmente per contrastare il crescente movimento della Resistenza che si stava sviluppando nelle regioni d'Italia occupate dall'esercito tedesco.

Il 23 settembre 1943 Mussolini dichiarò la nascita della Repubblica Sociale Italiana. A partire dall'8 settembre, a seguito dell'armistizio di Cassibile e della conseguente occupazione dell'Italia del centro-nord da parte delle truppe tedesche, diverse sedi del disciolto Partito Nazionale Fascista erano state già riaperte da gruppi di fascisti. Queste divennero di fatto a seguito dell'annuncio di Mussolini le sedi del nuovo PFR.

Il 7 novembre 1943 su il Corriere della Sera fu annunciata la convocazione del Congresso del nuovo partito che si sarebbe tenuto a Verona il 15 novembre con l'obiettivo di esaminare il progetto di una nuova costituzione repubblicana fascista.

La Repubblica Sociale Italiana fu formalizzata dal Congresso di Verona del Partito Fascista Repubblicano. Nel corso del congresso fu sancita la nascita di una nuova Repubblica denominata "sociale" e la successiva convocazione di un'Assemblea Costituente, riaffermando i principi ispiratori della prima fase del Fascismo (cosiddetto diciannovista") persi - a detta degli estensori della Carta stessa - durante il ventennio fascista; fu riaffermata l'alleanza con la Germania nazista; fu redatto un manifesto programmatico noto come "Manifesto (o carta) di Verona" che sancì la struttura del nuovo Stato; fu prevista, come elemento caratterizzante di politica economica, la socializzazione delle fabbriche (che tuttavia non venne mai attuata); fu istituito un Tribunale straordinario speciale per processare i gerarchi che firmando l'Ordine del giorno Grandi durante il Gran Consiglio del Fascismo il 24 luglio 1943 si erano schierati contro Mussolini e avevano provocato di fatto la caduta del governo fascista e l'arresto di Mussolini.

Venne anche costituito un esercito composto da un limitato numero di volontari, da reclutati a forza (pena di morte per i renitenti) e dai militari italiani deportati in Germania liberati in cambio dell'adesione alla RSI. Tali forze armate, su cui i comandi tedeschi riponevano scarsa fiducia, furono usate principalmente per contrastare il crescente movimento di resistenza che si stava sviluppando nelle regioni d'Italia occupate dall'esercito nazista. Questa fase politica del fascismo, definita "repubblicana" per contrasto con quella precedente, fu definita con intenti denigratori "repubblichina" dalle forze della Resistenza.

La fine della guerra, la morte di Mussolini e la nascita della Repubblica Italiana

Lo stesso argomento in dettaglio: Morte di Mussolini, Nascita della Repubblica Italiana e Amnistia Togliatti.

Nel frattempo, la Wehrmacht era ormai in ritirata su tutti i fronti e, nonostante gli sforzi di difesa sulla Linea Verde, i rifornimenti e l'equipaggiamento non erano nemmeno lontanamente paragonabili a quello degli alleati, che potevano anche contare sul supporto delle truppe partigiane e sulla collaborazione della popolazione che era avversa all'occupazione nazista.

Tutte le principali città italiane furono abbandonate dai tedeschi davanti all'avanzata anglo-americana e all'insurrezione generale ordinata dal CLN; i comandi nazisti in Italia decisero di trattare autonomamente la resa per assicurarsi una ritirata sicura verso la Germania. Nel frattempo Mussolini, dopo il tentativo di un accordo parallelo, decise di aggregarsi a una colonna tedesca per raggiungere la Germania. Fermato da un gruppo di partigiani nei pressi di Como fu imprigionato e quindi ucciso insieme a Claretta Petacci.

Gli altri gerarchi fascisti vennero processati e imprigionati, e a volte giustiziati. Il 21 giugno 1946 per molti scattò comunque l'amnistia presentata da Palmiro Togliatti. Con l'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana nel 1948 il Partito Nazionale Fascista venne messo definitivamente fuorilegge e la sua ricostituzione fu vietata. Per anni dopo la fine della guerra si registrarono omicidi e regolamenti di conti tra fascisti e antifascisti, come vendetta per tutto quello che accadde durante il ventennio precedente

Dopo di Lui.

Quella destra vittima di tanti inganni. In Italia, depennati liberali, fascisti e monarchici, ai conservatori rimasero solo seconde scelte. Stenio Solinas il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Fra i tanti (troppi?) libri che si interrogano su che cosa sia la destra in Italia, questo di Paolo Macry, La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni (Laterza, pagg. 157, euro 16) è il più controcorrente nell'approccio come nello svolgimento. Storico di lungo corso, Macry rovescia un luogo comune, quello cioè che un Paese antifascista sia un Paese di sinistra. Non a caso, il primo paradosso della nostra storia repubblicana consiste nel fatto che «per una somma di motivi, in Italia la sinistra non ha mai vinto le elezioni». C'è di più: se si esclude il Fronte popolare del 1948, anch'esso comunque uscito sconfitto dalle urne, la sinistra «non si è mai presentata alle elezioni come tale». Questo, naturalmente, non vuol dire che non sia mai andata al governo, ma che ci è sempre andata all'interno di coalizioni «che infatti venivano qualificate di centro-sinistra e che quasi sempre furono guidate da presidenti del Consiglio non di sinistra». Detto in altri termini, «nei Paesi europei, una volta o l'altra, la sinistra è diventata maggioritaria, conquistando perciò il diritto di governare. In Italia, mai».

Lasciando da parte il perché di questa singolarità, di cui l'elemento principe resta l'aver avuto il più grande Partito comunista d'Occidente, con cui era impossibile allearsi, ma di cui era impossibile contestare la leadership, l'altro paradosso che emerge è che a un Paese non di sinistra non corrispondesse, politicamente parlando, un Paese di destra... Come scrive giustamente Macry, se si ripercorre la storia repubblicana, sia nelle sue fasi germinali sia nel corso di tutta la prima Repubblica, «le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali. Una condizione di subalternità che ebbe a che fare con le loro scelte inadeguate e, non di meno, con un quadro politico dominato dai partiti - la Democrazia cristiana, le sinistre - che le sovrastarono e ne prosciugarono l'elettorato potenziale. Larga parte dell'opinione pubblica, di conseguenza, intrattenne con la democrazia rappresentativa un rapporto tortuoso, insincero».

Macry chiama tutto ciò «un inganno politico». Fu un inganno «tagliare di netto le radici con i decenni prefascisti», in sostanza accusando la cultura politica liberale «di aver aperto le porte alla dittatura». Fu un inganno «l'assunzione dell'antifascismo a religione civile», dimenticando da un lato il consenso di massa al regime, ma «rinunciando, al tempo stesso, a epurare la società fascista, che perciò poté sopravvivere pressoché intatta nell'Italia antifascista». E infine, fu ingannevole «il profilo assunto dalla destra neofascista» che da un lato si teneva stretto il proprio «ghetto identitario», ma dall'altro si muoveva «nello spazio tipico, in ogni Paese europeo, di una destra moderata e anticomunista, di estrazione impiegatizia e urbana, moderatamente protestataria, insofferente alla politica ufficiale e di umori qualunquisti».

In sostanza, depennati liberali, fascisti e monarchici (con il referendum che ne sancì il loro non fare parte della nuova Italia...) «quale approdo offrì la democrazia al paese di destra? Quell'Italia finì per confluire in culture politiche che le erano in parte estranee. Si rifugiò per decenni nel ventre del partito dei cattolici», una «seconda scelta», insomma. Ma poiché la Dc, nel frattempo, «stringeva accordi con le sinistre, i suffragi del paese di destra finirono per essere portati a sinistra. Un altro inganno».

Fermiamoci un attimo. Nell'Italia repubblicana sino a Tangentopoli, quello che emerge dall'analisi di Macry è una sorta di «conservatorismo impossibile», ovvero la nascita e l'affermarsi di un Partito conservatore tipico di una democrazia europea, una classica destra ideologico-politica, dunque. Questa nascita non è però solo ostacolata dalle contingenze politiche e partitiche da lui ricordate: affonda in realtà nella nostra storia nazionale, risorgimentale e unitaria, una storia che è rivoluzionaria e non conservatrice, che infatti fa politicamente tabula rasa del passato. L'Italia postrisorgimentale vedrà alternarsi fra loro riformisti e massimalisti all'interno dello stesso sistema di valori. Non c'è in essa spazio per un conservatorismo politico, come in Francia, come in Inghilterra. L'errore sta nel confondere i moderati con i conservatori, ma si tratta in realtà di due cose del tutto differenti fra loro. Il cosiddetto boom o «miracolo economico» degli anni Cinquanta è da questo punto di vista esemplare, frutto cioè di un'Italia moderata, ma modernizzatrice nei suoi desiderata e nella sua fiducia verso il futuro, non certo di un'Italia conservatrice, anche perché c'era poco o niente da conservare...

Alla certificazione del «conservatorismo impossibile» di una destra italiana, la Democrazia cristiana, come osserva Macry, diede un notevole contributo: da un lato sfruttando le potenti radici di massa della storica religiosità del Paese; dall'altro, all'interno di quello che era «il bipartitismo imperfetto» venutosi a creare in pratica dal dopoguerra, fungendo da polo opposto alla sinistra, pur continuando a dichiararsi di centro, «mai di destra», e però «un partito di centro che guarda a sinistra», pur, infine, dopo il decennio della ricostruzione, sterzando risolutamente a sinistra nelle scelte e nelle coalizioni di governo.

La caduta del Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica, se da un lato hanno terremotato il quadro politico-partitico italiano, dall'altro ne hanno ripresentato intatti quelli che ne erano i fondamentali. Resta «l'equazione tra anticomunismo e fascismo», imposta a suo tempo dalle sinistre e che «permetteva loro di combattere gli anticomunisti come fascisti e di autolegittimarsi in quanto antifascisti». È una condizione necessaria, ma non sufficiente però a togliere quelle sinistre dalla minorità elettorale che le è sempre stata propria e contro la quale l'onda lunga dell'egemonia culturale è solo in parte riuscita a limitare i danni. Sul fronte opposto si ripresenta il fantasma di una destra politica che fatica a incarnare una maggioranza del Paese che è umorale, estranea alla «religione dell'antifascismo», ma non per questo reazionaria e conservatrice, tantomeno fascista, diffidente nei confronti della politica e dei partiti, e quindi populista, mina vagante e insieme coscienza critica eternamente in attesa di trovare la voce che realmente la rappresenti. 

Mirella Serri per “la Stampa” - Estratti il 27 Novembre 2023

«È un corpo che dà l'impressione di essere enorme. Un che di pletorico, di straripante, di scoppiante. Gli occhi, di normale taglio, rotondi, erano colmi di uno sguardo immenso, incontenibile. La sua voce, non grossa, vibrava d'echi infiniti». 

Così gigantesco, immenso e sovrastante, Benito Mussolini apparve al giovane Giuseppe Bottai, come un superdotato non solo nello spirito e nell'animo ma anche nelle fattezze fisiche. Certo, l'enfasi della descrizione era notevole ma nacque dal fatto che Bottai era un gerarca-poeta cresciuto alla scuola di Filippo Tommaso Marinetti. 

Dopo aver fatto parte dei gruppi di assalto degli arditi durante la prima guerra mondiale, nel 1919 aderì a Roma futurista. Per tutta la vita non dimenticherà la sua esperienza anche di letterato d'assalto e dedicherà sempre molta attenzione a scrittori, giornalisti, pittori e critici d'arte, a quella che Mussolini chiamava la "covata Bottai".

(...)

Però il politico, nato a Roma nel 1895, era attento ai desiderata di Mussolini, era sensibilissimo e soffriva per ogni suo piccolo sgarbo (come il fatto di negare un gesto gentile ai suoi due figli), e gli era devoto.

Dopo ogni alzata di testa rientrerà nei ranghi ideologico-politici fino al momento cruciale.

A febbraio del 1943 verrà privato, senza nemmeno essere personalmente avvertito, della poltrona di ministro dell'Educazione nazionale. 

E il 25 luglio, dopo pochi mesi, fu tra i principali artefici della caduta del governo di Mussolini. E dunque del suo arresto. 

Adesso, a ripercorrere la storia del deputato e governatore di Roma è il nipote Angelo Polimeno Bottai il quale non conobbe mai il nonno ma ne aggiunse il cognome a quello del padre. Il giornalista del Tg1 ne racconta le scelte contrastanti nella sfaccettata e ricca biografia Mussolini io ti fermo. Storia leggendaria di Giuseppe Bottai, scelse la patria, combatté i nazisti (Guerini e associati).

Bottai infatti passò dal suggerire al Duce il superamento del modello totalitario dopo la Guerra di Spagna alla terribile e drammatica applicazione alla scuola delle leggi razziali da lui firmate in quanto ministro dell'Educazione nazionale. 

Fondò anche la rivista Critica fascista, sulle cui colonne si scontrò con il nemico di sempre, il ras Farinacci, e con lo scoppio della Seconda guerra mondiale diede vita al magazine Primato a cui collaborarono gli intellettuali destinati a diventare i nomi di spicco della cultura del dopoguerra, da Corrado Alvaro a Michelangelo Antonioni, da Vasco Pratolini a Giaime Pintor, da Cesare Zavattini a Giulio Carlo Argan, da Emilio Vedova a Renato Guttuso, fino a Enzo Biagi. 

Del quindicinale di Bottai, lo storico Michele Sarfatti ha sottolineato l'obiettivo di "arianizzazione" della pubblica opinione intellettuale, dal momento che si avvaleva di editoriali antisemiti, non firmati e frutto di un lavoro redazionale.

Particolarmente avvincenti sono le pagine che Polimeno Bottai dedica agli sforzi del nonno per difendere i beni artistici italiani e sottrarli dalle grinfie dei nazisti. E poi all'arresto, alla fuga e alle peripezie nella Legione straniera. Dopo che fu condannato all'ergastolo in contumacia, l'ex ministro, nel giugno 1944, raggiunse Sidi-Bel-Abbès. 

Eccolo diventato André Bataille nel fango e nelle trincee della Francia e poi eccolo pronto a combattere nella Selva Nera. Nel 1947 poté godere dell'amnistia e ad agosto del 1948 rientrò in Italia dove fondò la rivista A. B. C., critica nei confronti del Movimento sociale.

Anche dopo la sua scomparsa, il nome di Bottai ha continuato a dividere: nel 1995 la proposta del sindaco di Roma Francesco Rutelli di dedicargli una strada in occasione del centenario della nascita suscitò l'indignata reazione della comunità ebraica. Come spiega Sabino Cassese, giurista studioso del fascismo, «non fu critico al punto da preparare all'antifascismo le giovani generazioni, ma un mediatore; in molte occasioni prese una posizione di compromesso». Che però abbandonò quando, dopo il 25 luglio, «si arruolò volontario andando al fronte in Francia e in Germania per "espiare le sue colpe" - spiega Polimeno Bottai - e per combattere i nazisti. Nessun altro come lui. Se l'Italia fosse gli Stati Uniti, se Cinecittà fosse Hollywood, forse la sua storia sarebbe già un film kolossal».

Angelo Polimeno, nipote di Bottai: «Dava del tu a Mussolini ma fu lui a farlo cadere. Seppe di Piazzale Loreto ed ebbe compassione». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2023. 

«Il suo scopo non era fare arrestare il Duce, ma indurlo ad arrendersi agli alleati. Partecipò a quattro guerre da volontario, si arruolò nella Legione straniera per combattere i nazisti»

Scrive Giorgio Bocca: «L’unico a prendere un comando effettivo di uomini in Albania e a esercitarlo con dignità è Giuseppe Bottai, che si conferma a ogni occasione l’uomo migliore del regime».

«Il nonno fece quattro guerre, tutte da volontario: la prima guerra mondiale, l’Etiopia, l’Albania; poi combatté contro i tedeschi nella Legione straniera. Ci fu un tempo in cui era ricercato sia da Mussolini, che l’aveva condannato a morte, sia da Badoglio. Poi gli diedero l’ergastolo. Infine fu assolto».

Una vita da film.

«A Hollywood ne avrebbero fatto un kolossal. Io ne ho tratto un libro, mettendo insieme il suo diario e i racconti di sua figlia, mia madre Maria Grazia, di zia Viviana e di zio Bruno, già segretario generale del ministero degli Esteri».

Però Giuseppe Bottai fu anche uno squadrista tra i più duri. Nei giorni della marcia su Roma, i militari lo scongiurarono di non far passare le sue camicie nere per San Lorenzo. Bottai fu irremovibile. Negli scontri ci furono 13 morti, tutti socialisti.

«Era stato un ardito. Non sopportava le contestazioni che subivano gli ufficiali, i reduci. Ma considerò la violenza una necessità legata all’emergenza del biennio rosso. E si batté sempre contro l’ala più violenta del regime». 

Nel 1922 il biennio rosso era finito, e i più forti erano i fascisti.

«Grazie a Italo Balbo, che li aveva organizzati con mano spietata. Ma anche Balbo cambiò. Da governatore della Libia si oppose alle leggi razziali e all’alleanza con Hitler. Con mio nonno erano molto amici. Erano tra i pochissimi a dare del tu al Duce».

Cosa raccontava Bottai di Mussolini?

«Dal primo incontro uscì profondamente affascinato. Mussolini era più piccolo di lui, ma riempiva la stanza con la sua presenza; e parlava con gli occhi. Nacque allora dentro mio nonno un sentimento di lealtà; anche se sul Duce ha poi cambiato radicalmente opinione. Pure sul piano umano».

Perché?

«Una volta a piazza di Siena gli presentò i figli bambini: Mussolini fu incapace di un gesto, di un buffetto. Era freddo, chiuso».

E nel tratto umano com’era invece Bottai?

«Non aveva nulla del gerarca. Dolce con i familiari, alla mano con i collaboratori. Sempre circondato da giovani».

Sulle sue riviste, «Critica Fascista» e «Primato», scrivevano in effetti i migliori letterati e artisti.

«Tra cui molti che sarebbero diventati di sinistra: Pasolini, Alvaro, Alicata, Michelangelo Antonioni, Pratolini, Alfonso Gatto, Zavattini, Argan, Vedova, Capogrossi, Mafai, Afro, Guttuso... A Critica Fascista era abbonato pure Gramsci. Sulle sue riviste esordirono Scalfari e Biagi».

In combattimento però era un duro.

«Nel 1918 lo fecero prigioniero. Era in colonna con i suoi uomini, scorse in terra una rivoltella abbandonata, la prese, la scaricò nella nuca dell’ufficiale austriaco, riuscì a fuggire. Però anche in trincea aveva pensieri gentili: nelle lettere alla sua Nelia infilava sempre un fiore. Divenne amico di un prete, che gli diede la prima comunione».

Prima comunione da ardito?

«Suo padre, Luigi Bottai, commerciante di vino a Monsummano, Pistoia, era ateo e mazziniano. Mio nonno fu battezzato solo perché lo impose la balia: “Io una bestia non la allatto!”. Pur essendo nato e morto a Roma parlò sempre con accento toscano, mia mamma lo chiamava babbo».

Nel 1921 fu eletto deputato.

«Dovette lasciare la Camera perché non aveva ancora trent’anni».

Nel 1924 condannò l’omicidio di Matteotti.

«Lo definì il più efferato, inumano e stupido delitto che si potesse commettere. L’ala radicale del fascismo gli fu sempre ostile; e talora lo stesso Mussolini. Mise tutto se stesso nel progetto delle corporazioni, ma il Duce gli tolse il ministero e lo prese per sé».

Bottai divenne governatore di Roma.

«Aprì via della Conciliazione, corso Rinascimento, via delle Botteghe Oscure. Lanciò il progetto dell’Eur, fece l’ospedale Forlanini».

E partì volontario per l’Etiopia.

«Fu l’unico gerarca a chiedere un posto di combattimento, ebbe una medaglia al valore dopo la presa dell’Amba Aradam. Al ritorno andò a parlare con il Duce, gli propose di allentare la morsa del regime, di ampliare le libertà».

E Mussolini?

«Non lo prese sul serio. Fu gelido: “Sono contento di te come soldato e come fascista. E ora passiamo al lavoro”. Il nonno commentò che il Duce era diventato un pezzo di ghiaccio, la statua di se stesso. Per lui fu un dolore terribile. Ma fu anche l’errore più grave».

Perché?

«Avrebbe dovuto prendere definitivamente le distanze da Mussolini, e si sarebbe risparmiato altre sofferenze. Invece si trovò a recitare due parti in commedia».

Bottai era ministro dell’Educazione nazionale quando con le leggi razziali furono cacciati insegnanti e scolari ebrei. Una macchia terribile. «Ma non era antisemita. Erano ebrei alcuni tra i suoi collaboratori e tra gli artisti che chiamò al premio Bergamo, da Cagli a Levi. Farinacci e gli altri suoi nemici dicevano che fosse ebreo lui stesso; Tevere, il giornale di Interlandi e Almirante, lo chiamava “Peppino il giudiolo”. Hitler vietò a Bernhard Rust, ministro dell’Istruzione tedesco, di incontrarlo. Lui incontrò invece Aldo Ascoli, vicepresidente dell’Unione delle comunità israelitiche, che scrisse: “Bottai mi guarda tenendomi le due mani tra le sue, ha un po’ di lucido negli occhi e dice: bisogna essere forti, resistere, non lasciarsi andare”».

Renzo De Felice la definisce «una delle testimonianze più impressionanti dell’ipocrisia e della doppiezza di certi gerarchi».

«Ma l’israeliano Meir Michaelis, docente presso l’università ebraica di Gerusalemme, scrive: “Escludo che Bottai sia stato promotore della campagna razziale… Si trattava di condurre la politica razziale all’italiana e non alla tedesca”».

Resta il fatto che duecento studenti universitari, mille liceali, 4.500 scolari dovettero lasciare la scuola.

«Cosa doveva fare il nonno? Lasciare il ministero a un uomo di Farinacci, a un estremista, a un antisemita? Inoltre ottenne che in alcune città gli ebrei potessero avere corsi scolastici finanziati dallo Stato».

Come mai Bottai non fece la guerra di Spagna?

«Era contrario. Quando Montanelli ironizzò sulla presa di Santander...».

«È stata una marcia con un unico nemico, il caldo...».

«... Fu radiato dall’ordine, e il nonno lo protesse, lo mandò a fare il direttore dell’istituto italiano di cultura a Tallinn. Era contrario anche all’alleanza con Hitler. Salvò migliaia di quadri e statue dai bombardamenti e dalle mire naziste, grazie a donne come Fernanda Wittgens e Palma Bucarelli. E a uomini come Pasquale Rotondi e Ignazio Cucci, padre di Italo».

Come reagì Bottai alla dichiarazione di guerra?

«Il 10 giugno 1940 i suoi figli volevano assistere al discorso del Duce da una terrazza di fronte a Palazzo Venezia. Lui e Nelia dissero: “L’Italia sta entrando in un conflitto mondiale, e non c’è niente da festeggiare”».

In Albania legò con gli alpini della Julia.

«Scrisse: colonnello mi aveva fatto il re; comandante mi avevano fatto gli alpini, che solo loro possono fare di un gallonato uno che comanda».

Arrivò la falsa notizia che Bottai era morto.

«E il Duce non diede segni di dispiacere. Come non li diede alla notizia della morte di Balbo, che invece era vera. Mio nonno invece ne soffrì moltissimo».

Nel 1943 dovette lasciare il ministero.

«Era andato dal Duce a scongiurarlo di recedere dall’alleanza con la Germania, ma lui non volle sentire ragioni: “Ad agosto la situazione volgerà a nostro favore!”. Il nonno apprese il siluramento dalla radio. Tutti i dipendenti del ministero andarono a salutarlo. Ce n’era uno famoso perché lavorava pure di notte, lui gli strinse la mano. Si chiamava Renato Moro. Anni dopo suo figlio Aldo verrà a rappresentare il governo al funerale».

Siamo al 25 luglio 1943.

«Nonno ne fu protagonista con Dino Grandi, di cui era amico anche se lo prendeva in giro: “Da contadino a conte Dino” gli diceva. Andarono a Palazzo Venezia con una bomba a mano in tasca, per difendersi. Invece vinsero: a favore del Duce votarono in 7; contro il Duce in 19».

Tra loro ci fu pure Ciano.

«Disse che tra la patria e il suocero non poteva esitare; e pagò quella firma con la vita».

Però Bottai soffrì alla notizia dell’arresto di Mussolini.

«Non doveva essere quello l’esito del 25 luglio. Mio nonno pensava che il Duce sarebbe stato affiancato dal re e dai ministri nella conduzione della guerra. L’idea era portare Mussolini a lasciare Hitler e ad arrendersi agli americani. Il re andò oltre, affidandosi a Badoglio, che mio nonno non stimava».

E Badoglio lo fece arrestare.

«Quando arrivarono i carabinieri mia madre gli si strinse: “No, babbo, no!”. A Regina Coeli rilesse Balzac. Il capo della polizia, Senise, lo fece liberare il 12 settembre, prima che finisse nelle mani dei nazisti».

Dove si nascose?

«Cambiò molti nascondigli. Un portinaio che era stato cameriere a casa sua gli trovò una stanzetta a Palazzo Sciarra, vicino alla fontana di Trevi. Fu decisiva Annita Ferrari, la responsabile delle scuole cattoliche, che fece da tramite con Montini, il futuro Papa».

Suo nonno andò nella Legione straniera.

«Altri gerarchi fuggivano in Portogallo e in Sud America. Lui voleva combattere i nazisti, ma non se la sentiva di sparare su altri italiani. Un giorno lesse un annuncio su un giornale: a Napoli la Francia reclutava legionari».

Come ci arrivò?

«Con un altro colpo di fortuna: il capo dei servizi di intelligence del corpo di spedizione francese in Italia, capitano Serge Parisot, era figlio del generale che aveva firmato l’armistizio del 1940, e che il nonno aveva protetto dopo la caduta di Vichy. Il capitano lo incontrò in un convento di gesuiti: nonno era vestito da prete. Lo portarono ad Algeri».

Per l’addestramento?

«Gli chiesero come mai si fosse arruolato. Non rispose. “Questione di donne” commentò l’ufficiale che lo interrogava. Tanti andavano nella Legione straniera per dimenticare un amore infelice. Russi, polacchi, ungheresi, armeni, vietnamiti... Gli diedero il nome di Andrea Battaglia. Sbarcò in Provenza, combatté in Alsazia, forzò con gli altri la linea Sigfrido, passò il Reno, fino alla foresta nera. Non ha mai raccontato nulla: aveva la consegna del silenzio. Scrisse solo che non gli piaceva il modo in cui venivano svaligiate le case dei tedeschi».

Nel frattempo in Italia fu coinvolto nel processo ai gerarchi e condannato all’ergastolo.

«Ma poi fu assolto. Era tornato in Algeria, per reprimere le prime rivolte per l’indipendenza, il che gli dava grande angoscia; ma per fortuna la ribellione era già stata soffocata. Gli ricambiarono il nome in Andres-Georges Jacquier. La notizia dell’assoluzione gli giunse mentre era in un villaggio marocchino di confine, Oujda, dove era stato assegnato come bibliotecario. Tornò a Roma nel 1948, felice per la vittoria di De Gasperi».

Le foto dell’epoca ritraggono suo nonno in una bella casa, con una splendida terrazza. Si era arricchito?

«Aveva passato una vita in Parlamento, era professore universitario, scriveva sui giornali. Ma non aveva rubato. E non era interessato al lusso».

Come reagì alla notizia di Piazzale Loreto?

«Con orrore e compassione per la fine di Mussolini, e per il modo di quella fine».

Eppure l’aveva definito «capobanda».

«Per mio nonno il fascismo era finito il 25 luglio; e tra il fascismo e la patria lui aveva scelto la patria. Il Mussolini di Salò non aveva alcuna legittimità».

Bottai sarà stato l’uomo migliore del regime; ma era pur sempre un regime.

«Certo. Però in un regime la vera opposizione è sempre quella interna».

Scrisse: «Non potendomi attribuire delitti, hanno convertito in delitti gli atti della mia vita di cui non cesserò mai di essere orgoglioso». Ma come pensava andasse a finire? Nel fascismo è insita l’idea della guerra.

«Il fascismo non era diventato quello che mio nonno sognava: un rinnovamento dell’Italia e della classe dirigente. La pensava così anche suo figlio Bruno. Una volta, ero ragazzino, dissi una battuta in difesa del regime, e mio zio fu severissimo: “Fu una stagione nera, una tragedia da migliaia di morti!”».

Con il Msi che rapporti ebbe suo nonno?

«Non ci credeva. Ma quando alcuni giovinastri lo presero a schiaffi per strada chiamandolo traditore, esponenti del Msi lo difesero».

Ai tempi di Rutelli si pensò di dedicargli un via, ma la comunità ebraica si oppose.

«Una parte della comunità ebraica. Tullia Zevi mandò un telegramma di solidarietà a zio Bruno, che però era contrario a via Bottai: temeva ne sarebbero nate contestazioni, che avrebbero certo amareggiato il nonno».

Lei non l’ha mai conosciuto.

«Sono nato pochi mesi dopo la sua morte, a 63 anni, per il Parkinson. Un vero peccato, come nipote e come giornalista».

Lei Angelo è figlio di un ufficiale, Vincenzo Polimeno. Come mai porta anche il cognome del nonno?

«Me lo chiese mia madre, prima di andarsene. Adorava il babbo, e non voleva che il nome Bottai andasse perduto».

Il 25 luglio 1943. Come è nato il governo Badoglio, storia della congiura del 25 luglio 1943. Mussolini era stanco, spaventato, consapevole di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara. Simona Colarizi su L'Unità il 22 Luglio 2023

È opinione diffusa che solo la caduta di Putin possa mettere fine alla guerra in Ucraina. Ritenere però che lo zar possa lasciare il potere sull’onda di una rivolta popolare, è un’illusione smentita dalla storia di tutte le dittature novecentesche in Europa. Gli Stati totalitari, Germania nazista, Italia fascista, Unione Sovietica, ma anche tutta la corona di Stati autoritari, più o meno filonazisti o filofascisti, dalla Polonia all’Ungheria, ai Regni dei Balcani, avevano messo radici così profonde nei loro paesi da impedire ogni moto di ribellione delle masse.

Coercizione e persuasione, repressione, violenza ma anche organizzazione e una macchina del consenso resa più efficace dall’uso dei nuovi media, avevano reso la popolazione inerte e passiva, tranne naturalmente fasce di opposizione, decisamente minoritarie, tenute sotto stretto controllo da potenti reti poliziesche. Dunque la fine dei dittatori va analizzata attraverso una molteplicità di elementi e di protagonisti, compresi i poteri per così dire paralleli, che più o meno lentamente corrodono il tessuto istituzionale, politico ed economico, come è appunto avvenuto in Italia in quel fatidico 25 luglio 1943 – ottanta anni fa.

Il primo elemento fondamentale che fa da cornice all’evento finale, è naturalmente la guerra, una guerra ormai perduta, come era generale convinzione fin dall’autunno 1942 quando a Stalingrado iniziava l’assedio alla grande armata nazista e fascista, preludio alla rovinosa ritirata dall’intero territorio russo. A valanga seguivano le sconfitte in Africa, fino alla resa degli italiani e dei tedeschi prima a Tripoli poi a Tunisi nel maggio 1943. A quel punto lo sbarco alleato in Sicilia era solo questione di giorni. Le spie fasciste che testavano quotidianamente lo “spirito pubblico” – come si diceva allora – segnalavano il completo cedimento della “macchina del consenso” al regime, l’odio crescente della popolazione nei confronti dei gerarchi fascisti e persino di Mussolini, colpevole di aver precipitato l’Italia in un conflitto perduto, costato solo morte, distruzioni, sofferenze e fame.

Troppo deboli però erano le reti dei partiti antifascisti per suscitare un’insurrezione popolare, tanto più che la più organizzata, quella del Pci contava tra il ’42 e il ’43 poco più di 6.000 militanti in tutta Italia. Certo, nel marzo del 1943 per la prima volta esplodevano grandi scioperi operai nelle fabbriche del Nord, ma non bastavano a rovesciare il regime, anche se aprivano una larga crepa nell’edificio della dittatura già scosso dall’interno e abbandonato dai suoi fiancheggiatori. Persino Togliatti era consapevole che la soluzione al dramma poteva arrivare solo dall’alto, come in effetti stava succedendo se si guarda alle manovre in atto per prendere le distanze dal dittatore, a partire dalla Chiesa, fino ad allora l’anello più solido tra il paese cattolico e il regime fascista.

Pio XII aveva dato ascolto agli emissari inviati ripetutamente in Vaticano da Roosevelt e alla fine del 1942, nel rituale discorso radiofonico di Natale, aveva preso posizione a favore delle Democrazie Occidentali. Un via libera importante per i tanti cospiratori in piena attività alla fine del ’42: dagli esponenti della vecchia classe dirigente liberale democratica, antifascista e monarchica, ritiratasi a vita privata nel ventennio (tra cui Bonomi) ai membri della Corte (Maria José, nuora di Vittorio Emanuele III, Acquarone ministro della Real Casa) alle alte cariche delle Forze Armate dove massima era l’agitazione. Avevano guidato la guerra fin dall’inizio assai poco convinti che l’Italia fosse preparata a parteciparvi, come del resto aveva dimostrato la sconfitta in Grecia nell’ottobre 1940, a soli cinque mesi dall’entrata della nazione nel conflitto.

Su di loro Mussolini aveva scaricato tutte le responsabilità, accusandoli di tradimento, proprio quello a cui adesso si preparavano senza sentirsi dei traditori: la loro lealtà era al sovrano custode della nazione, avviata alla catastrofe dal duce, colpevole di essersi alleato alla Germania nazista. Lo scenario del dopo Mussolini che si cominciava a delineare già alla fine del ’42, per molti aspetti non era diverso da quanto in realtà sarebbe successo nella stessa giornata del 25 luglio: si ipotizzava che a guidare un nuovo governo sarebbe stato il generale Badoglio – anche se circolavano altri nomi – che avrebbe imposto una dittatura militare e iniziato le trattative della resa agli alleati. Tutti dunque aspettavano le mosse del re, autorità suprema del paese, l’unica che potesse eliminare il dittatore e porre fine alla guerra.

Aspettative malriposte se si considera quale fosse stato il comportamento del sovrano che aveva piegato la testa al momento della marcia su Roma, così come era rimasto sordo alle suppliche di Giovanni Amendola che gli aveva chiesto di dimissionare Mussolini dopo l’uccisione di Matteotti nel 1924. Amendola era stato bastonato a morte dagli squadristi, ma Vittorio Emanuele III era rimasto immobile, complice per tutti i venti anni della dittatura e dei suoi misfatti – leggi razziali, guerre e persecuzioni contro gli antifascisti. Se nel passato a fermarlo era stata la paura che si scatenasse un’altra guerra civile, adesso i timori si erano moltiplicati dopo vent’anni di dittatura fascista. Sua Maestà era consapevole di quale fosse il reale rapporto di forza tra lui e il duce.

Il dittatore aveva distrutto lo Stato liberale, senza però toccare la monarchia e la figura del monarca, lasciandogli il suo ruolo statutario, anche se svuotato di ogni potere effettivo. Questo equilibrio per tutto il ventennio era rimasto precario, appeso al filo del ricatto che implicava il silenzio e la sottomissione del re al fascismo. Tanto più che stretta l’alleanza con Hitler, Mussolini si era fatto sempre più impaziente di liberarsi dal dualismo fascio-corona, incompatibile con il sogno dello Stato fascista totalitario. In questa situazione la certezza che i fascisti non sarebbero rimasti inerti davanti a un’iniziativa per detronizzare il duce, paralizzava Vittorio Emanuele III.

Ad aggravare la sua paralisi intervenivano poi gli scioperi operai al Nord nel marzo 1943 che risvegliavano la paura della sovversione rossa, lasciando Vittorio Emanuele nel dubbio di quale fosse il pericolo più grande per sé e per la monarchia. Questo timore metteva direttamente fuori gioco i tentativi degli antifascisti monarchici e liberali ai quali il re non aveva alcuna intenzione di dar loro credito, anche se l’ex presidente del Consiglio Bonomi e l’ex ministro Soleri appoggiavano il piano dei generali. Negli anni precedenti alla marcia su Roma erano stati alla guida del paese senza riuscire a impedire le violenze squadriste che avevano scatenato una vera e propria guerra civile preludio all’ascesa di Mussolini al potere. Agli occhi di Vittorio Emanuele III questi révénantes – così li definiva con sprezzo – non avevano alcuna credibilità oggi di gestire una situazione ancora più complicata e pericolosa.

L’immobilismo del sovrano cozzava però con l’avanzata degli angloamericani sbarcati in Sicilia e pronti a invadere la penisola. Del resto lo stato maggiore alleato, perfettamente consapevole di quanto fragile fosse ormai il regime fascista nel paese, decideva di dare un segnale ultimativo al re con il bombardamento del 19 luglio che per la prima volta violava i cieli della capitale. Per di più colpiva proprio il quartiere operaio di San Lorenzo, ex cittadella dei ferrovieri socialisti; e Vittorio Emanuele III sapeva che la scelta non era stata casuale. A questa data però, il re aveva un’altra carta in mano da giocare che gli dava maggiore rassicurazioni, quella dei gerarchi fascisti, anche loro consapevoli di quale catastrofe si preparasse per l’Italia.

Persino Mussolini non aveva dubbi che la sola via d’uscita per la nazione e per il regime fascista fosse la rottura dell’alleanza con Hitler e la resa agli alleati. Una strada impossibile da percorrere, come dimostrava il 19 luglio, lo stesso giorno delle bombe su Roma, il suo incontro a Feltre con il Fuhrer che non lo lasciava neppure parlare. Al suo ritorno nella capitale, i giochi del colpo di stato interno al regime erano praticamente già fatti. In questa congiura il ruolo del sovrano era cruciale, ma rispetto alle altre soluzioni il piano dei fascisti consentiva al re di non fare il primo passo contro il duce. Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, aveva bussato alla porta di Villa Savoia già nel marzo ‘43, prospettando a grande linee il progetto dei congiurati, l’ala moderata del partito nella quale confluivano i più noti esponenti del fascismo che avevano affiancato Mussolini fin dall’inizio della sua ascesa al potere.

Molti di loro – tra questi Bottai – erano stati potenti ras delle province, alla guida delle bande armate di centinaia di squadristi. Dismessa la camicia nera, nel ventennio erano stati promossi alle più alte cariche del regime, ammirati e adulati dai notabili del vecchio Stato liberale fiancheggiatori del fascismo. Al complotto di Grandi avevano aderito, tra gli altri, Federzoni, ex capo dei nazionalisti, e il conte Ciano, genero del duce, un tempo entusiasta sostenitore dell’alleanza con la Germania, adesso diventato anti nazista. A loro si contrapponeva il cosiddetto partito tedesco, guidato da Farinacci e da Scorza, segretario del Pnf, che ai moderati imputavano la colpa di aver “svirilizzato” il fascismo privandolo della sua originaria carica rivoluzionaria.

Grandi e i suoi erano convinti che per uscire dalla guerra e salvare il salvabile della dittatura e delle loro stesse vite, si doveva imporre a Mussolini un passo indietro, cioè la rinuncia al ruolo di capo di stato maggiore al comando delle Forze Armate; un ruolo ricoperto dal re, di fatto espropriato della sua funzione. Riportato al comando spettava a Vittorio Emanuele III decidere sul destino dell’Italia. Per raggiungere il loro scopo, i frondisti preparavano un ordine del giorno da sottoporre al voto del Gran Consiglio del fascismo nel quale si chiedeva a Mussolini di lasciare le sue cariche istituzionali e militari per ritornare alla guida del partito e del paese allo sbando. Non compariva però nell’ordine del giorno l’intero quadro del piano che comprendeva l’immediata formazione di un nuovo governo composto in gran parte dai fascisti moderati e guidato da un generale – si preferiva Cavallero a Badoglio. Inoltre per Grandi e pochi altri al successo completo del colpo di stato era indispensabile la resa immediata dell’Italia agli angloamericani e la rottura dell’alleanza con la Germania nazista.

Il sovrano sembrava d’accordo, tanto da insignire Grandi della massima onorificenza, quel Collare dell’Annunziata che lo elevava al rango di cugino del re. In realtà del piano Grandi, Vittorio Emanuele III condivideva solo la prima parte, cioè la rimozione del duce sancita da un voto del supremo organo del regime. Un affare interno al fascismo, dunque, che lo esonerava da ogni responsabilità, mettendolo al riparo dai fulmini dell’ala dura fascista. Quanto al resto, non aveva alcuna intenzione di lasciare spazio nel governo del suo generale ai gerarchi che disposti a tradire il loro capo, non offrivano alcuna garanzia di lealtà alla monarchia. Non lo convinceva neppure l’ultima parte del progetto che avrebbe puntualmente disatteso la stessa mattina del 25 luglio: Hitler non avrebbe mai accettato che l’Italia si arrendesse agli angloamericani contro i quali le truppe tedesche e italiane combattevano nel Mezzogiorno, contendendo loro ogni metro di terreno.

Gli eserciti alleati avevano davanti una strada lunga e difficile per arrivare a Roma dove Vittorio Emanuele III li avrebbe aspettati dilazionando la resa, terrorizzato da una vendetta dei nazisti. Per il momento dunque il conflitto sarebbe continuato al fianco del Fuhrer, come si leggeva nel comunicato radiofonico rilasciato da Badoglio appena nominato primo ministro in quel 25 luglio. Gli eventi di quella giornata fatidica, iniziata il 24 luglio e conclusa il 25 luglio nelle prime ore del mattino, sono stati raccontati in tutti i particolari grazie anche a un vastissimo materiale documentario, ricco di testimonianze con le quali i protagonisti del colpo di stato hanno dato la loro versione di quanto accaduto. Una versione piena di contraddizioni, che cambiava col passare del tempo quando si faceva più lontana la tragica vicenda dell’ultimo fascismo, guidato da Mussolini ormai un’ombra di se stesso.

I nazisti che lo avevano riportato al potere, lo consideravano solo un “Quisling”, impotente persino a frenare le vendette dei gerarchi andati in minoranza al Gran Consiglio, al punto di non riuscire a salvar la vita neppure del genero, condannato al processo di Verona e fucilato insieme ad altri sei congiurati. Tutti gli altri, tra i quali Grandi, Federzoni, Bottai, cioè la maggioranza dei votanti a favore dell’ordine del giorno, erano fuggiti per non cadere nelle mani dei fascisti duri risorti dopo l’occupazione di Roma da parte degli eserciti tedeschi, mentre il sovrano, Badoglio, tutto il governo e lo stato maggiore avevano abbandonato la capitale già dall’8 settembre.

In assenza di un verbale che offra un resoconto dei discorsi pronunciati quella notte, quando il clima si era andato surriscaldando, si possono solo avanzare alcune ipotesi su questa sorta di “eutanasia” del regime, come ha sottolineato Emilio Gentile (2023). Badoglio lo ha definito un suicidio consapevole o involontario, dal momento che nella giornata del 25 luglio quando la notizia delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini si diffondeva, il regime improvvisamente si era dissolto nel nulla: nessuna reazione da parte della base, dei quadri intermedi, della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e dei gerarchi sconfitti dal voto al Gran Consiglio, tutti scomparsi dalla circolazione, mentre le strade di tutta Italia erano invase da una folla festante per la fine del fascismo.

Quanto ai congiurati che Mussolini a Salò definiva traditori, a posteriori si sarebbero difesi chi rivendicando il valore di un atto patriottico per salvare l’Italia liberandola dal dittatore, responsabile della disastrosa guerra al fianco di Hitler; chi invece sosteneva la totale buona fede di un’iniziativa che avrebbe dovuto rivitalizzare il fascismo cui veniva restituito il suo capo. Resta però aperto l’interrogativo più importante che riguarda Mussolini, di cui nessuno aveva mai sottovalutato l’intelligenza politica. Del resto non era la prima volta che il duce si trovava a mediare all’interno del regime tra moderati ed estremisti in perpetua guerra fra loro, e sempre era riuscito a trovare una mediazione, spostando alternativamente l’asse della politica fascista più a destra o più a sinistra. Mai aveva permesso di restare incastrato in una votazione che gli legasse le mani; tanto più che il Gran Consiglio era solo un luogo di discussione, a volte accesa, ma in genere conclusa appunto con una soluzione di compromesso.

Era stanco, forse anche spaventato; consapevole comunque di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Anche se l’ordine pubblico non veniva ancora violato – a eccezione degli scioperi operai che non si erano trasformati però in una rivolta – sapeva quanto fosse salita la tensione nel paese. Sapeva che l’unica strada era staccarsi da Hitler e cercare di patteggiare con gli alleati la sopravvivenza sua e del regime, magari con un repentino cambiamento di fronte, non inusuale nei rapporti internazionali dell’Italia. Sapeva però che l’alleato tedesco glielo avrebbe impedito, anche con la forza.

E allora, persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara; gli lasciava per lo meno la speranza di un possibile rilancio, di un accordo con Vittorio Emanuele III di fronte al quale si era presentato la mattina del 25 luglio, quasi fosse una visita rituale del capo del governo al suo re per informarlo di quanto era avvenuto. All’uscita da Villa Savoia veniva invece arrestato. Si chiudeva la prima parte della storia che sarebbe arrivata all’ultimo atto un anno e otto mesi dopo nell’aprile del 1945.

Simona Colarizi 22 Luglio 2023

Il governo fascista. Chi era Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini tra i congiurati del 1943. La sua posizione nel governo si defilò, tanto che nel 1943 fu tra i congiurati che prepararono e votarono la mozione contro Mussolini nella riunione del 25 luglio del Gran consiglio. David Romoli su L'Unità il 25 Luglio 2023

Galeazzo Ciano è stato uno dei più giovani capi fascisti. È nato nel 1903 a Livorno, figlio del conte Costanzo, che poi per anni fu il presidente della Camera durante il fascismo. Ciano entrò in diplomazia e nel 1930 sposò Edda Mussolini, prima figlia del duce, che aveva appena compiuto 20 anni. Di lì iniziò la sua carriera politica brillantissima.

A trent’anni capo ufficio stampa del fascismo, due anni dopo capo del Minculpop (il potentissimo ministero stampa e propaganda e cultura popolare) a 33 anni ministro degli esteri. Da principio Ciano fu un grande estimatore di Hitler. Iniziò invece ad opporsi all’alleanza coi tedeschi dopo il patto Ribbentrop-Molotov (Germania Urss) del 1939. La sua posizione nel governo si defilò, tanto che nel 1943 fu tra i congiurati che prepararono e votarono la mozione contro Mussolini nella riunione del 25 luglio del Gran consiglio.

Dopo l’8 settembre, quando arrivarono i tedeschi a Roma, affittò un aereo per fuggire in Spagna, con la moglie e i due figlioletti. Ma l’aereo fu dirottato a Monaco. Finì nelle mani dei tedeschi che lo portarono nel carcere di Verona e lì lo processarono insieme ad altri gerarchi che avevano votato la mozione contro Mussolini. Fu condannato a morte. Sua moglie Edda fece di tutto per ottenere la grazia dal padre. Non la ottenne. L’11 gennaio del 1944, all’alba, Ciano fu fucilato nel cortile del carcere.

David Romoli 25 Luglio 2023

La caduta di Mussolini e l’armistizio: Viaggio nell’Italia sospesa del ’43. Nicola Santini su L'Identità il 3 Settembre 2023 

Appuntamento con la Storia, 80 anni dopo, con i filmati, le testimonianze, le opinioni dei grandi professionisti.

In occasione dell’80ennale, giovedì 7 e venerdì 8 settembre, alle ore 21.05, Focus propone lo speciale in due parti «1943 – L’anno che…».

Il programma, condotto da Tommaso Cerno, è curato da Carlo Gorla, con la regia di Roberto Burchielli e la produzione esecutiva di Paola Tancioni.

Nelle due puntate si vedremo gli avvenimenti storici, militari, politici, economici e sociali che hanno caratterizzato il 1943: eventi che hanno segnato radicalmente la storia del Paese, i cui effetti e conseguenze ancora oggi ne incidono la cultura politica e ne condizionano il dibattito pubblico.

Il percorso di «1943 – L’anno che…» si dipana quindi in un on the road, che porta il pubblico nei luoghi simbolo del ’43 e lo racconta attraverso rarissimi materiali d’epoca, oggetti-simbolo, testimonianze dirette e le interpretazione di autorevoli storici, psicologi ed esperti di storia militare.

Tra gli interventi raccolti spiccano quelli di Fausto Bertinotti, Giordano Bruno Guerri, Vittorio Sgarbi, Gianni Vattimo, Renzo Arbore, Pupi Avati, Pippo Baudo e Achille Occhetto.

«1943 – L’anno che…» è realizzato con filmati e materiale di archivio provenienti da Istituto Luce, Cineteca Milano, Getty Images, e con il repertorio storico free di fondazioni e archivi Mediaset. Ed è scritto da, tra gli altri, Enzo Cicchino, Beba Slijepcevic, Tommaso Cerno e Roberto Burchielli (gruppo di autori che ha già firmato gli speciali «Il sogno di una Cosa», 2021, e «Marcia su Roma – Nella mente del Duce», 2022).

La prima puntata muove dalla cronaca dell’armistizio, la cui notizia, comunicata l’8 settembre 1943, scatena il caos nel Paese e lascia i militari italiani, impegnati sul fronte slavo, nelle isole greche e in quello che rimaneva del fronte africano, alla completa mercé dell’ex-alleato tedesco.

Con un movimento retrogrado, il programma ricostruisce gli avvenimenti che portarono al crollo del fascismo (25 luglio): dalla rotta dell’ARMIR (Armata italiana in Russia) allo sbarco anglo-americano in Sicilia, dalla pressione dei bombardamenti a tappeto degli Alleati alle drammatiche condizioni economiche e sociali del popolo italiano.

La seconda puntata muove ancora dall’armistizio, dichiarato mentre Mussolini è già agli arresti e Hitler lo sta facendo cercare per liberarlo, testimoniargli la propria amicizia e forzarlo a governare uno staterello collaborazionista, non riconosciuto dagli Alleati ma considerato belligerante e, come tale, sottoposto a feroci attacchi aerei.

Lo 007 che ebbe un ruolo chiave quell'8 settembre 1943. Storia di Davide Bartoccini su  Il Giornale giovedì 14 settembre 2023.

Per capire chi era Richard Mallaby, agente segreto britannico che si lanciò con il paracadute dietro le linee nemiche nella calda estate del 1943, possiamo tranquillamente affidarci al titolo di un saggio incentrato sulla sua coraggiosa vicenda (L’inglese che viaggiò con il re e Badoglio) e ripercorre le temerarie imprese dell’antesignano 007 con i lineamenti sottili quanto affilati che giocò un “ruolo chiave” nell’armistizio dell’8 settembre. Quando Londra esigeva una resa incondizionata della nostra Italia sofferente.

Noto con il somiglio di Dick tra i suoi amici e commilitoni del Soe, lo Special Operation Executive fortemente voluto dallo stesso Churchill che voleva “infiammare il cuore dell’”Europa” attraverso i suoi provetti sabotatori che non doveva centro risparmiare “il ventre molle” rappresentato dal nostro Paese, era considerato un operativo dal sangue freddo per il coraggio dimostrato nelle situazioni più pericolose: ragion per la quale venne selezionato per la delicata missione che prevedeva nulla di meno del seguire da vicino i negoziati per l'armistizio con l’Italia, seconda potenza dell’Asse, dove a seguito della destituzione di Benito Mussolini, degli sbarchi in Sicilia (Operazione Husky) e all’alba dello sbarco di Salerno (Operazione Avalanche) vedeva ancora 800mila soldati tedeschi nell’Italia che si sarebbe presto spaccata a metà lungo la Linea Gustav.

Secondo alcune versioni, a dire il vero meno accreditate di altre, sarebbero alcune sue missioni segrete che lo messo più di una volta “facci a faccia” con la morte a ispirare Ian Fleming per il suo James Bond: ”Quando si paracadutò in Italia, portava con sé dei codici segreti nascosti in un tubetto di dentifricio, oltre a un cristallo per una radio. Dick era un inglese molto coraggioso. Le sue missioni erano incredibili”, cita l’autore del libro citato in apertura G.Barneschi; ma sappiamo che furono altri gli agenti dello spionaggio, primo tra loro il doppiogiochista Dusko Popov, a rapire la fantasia dello scrittore - anche lui al tempo ufficiale d’intelligence degno di nota.

Ma torniamo a noi. Personaggio chiave nella nostra storia confusa e complessa storia bellica, Dick Mallaby fu presente non solo alla resa dell’Italia del 1943, ma anche a quella della Germania del 1945, quale protagonista operativo e testimone unico nel suo genere. Insidiato dagli agenti del Sim, il Servizio d’informazione militare italiano, e dei segugi dell’Ovra, la temuta polizia politica fascista con compiti di controspionaggio, l’agente segreto sceso dal cielo scoprì solo dopo quanto delicata era la sua posizioni in Italia e quanto fosse stato vicino alla fine.

Un ruolo fondamentale per il destino dell’Italia

Quale unico operatore radio presente in Italia, Mallaby trasmise in cifra dal 29 agosto 1943 fino alla fatidica giornata di Cassabile – località dove venne ratificato l’armistizio – messaggi del massimo livello di segretezza tra vertici italiani e comando Alleato, fino a ritrovarsi nel ristretto gruppo di 57 personalità che comprendeva il Re d’Italia Vittorio Emanuele III, sua la moglie la Regina Elena del Montenegro, il principe ereditario Umberto di Savoia, il capo del governo Pietro Badoglio ed i vertici delle tre Forze armate italiane, che dalla capitale Roma si recarono nel sud, a Brindisi. Imbarcato come telegrafista sulla corvetta Baionetta – il mezzo prescelto per portare in gran segreto la Famiglia Reale al sicuro oltre la nuova linea di fronte che avrebbe visto l’Italia come una forza cobelligerante – rende la figura dello 007 inglese estremamente interessante considerata la “complessità” di questa pagina della storia del nostro Paese ancora così discussa e divisiva.

L’agente speciale britannico che parlava un italiano perfetto essendo cresciuto in Italia, potè osservare con i suoi occhi le fasi più concitate di quella che venne bollata come “fuga” del Re nel contesto della delicatissima fase di trattativa. E riferire a Londra in seguito “umori” e “intuizioni” fondamentali per il proseguire del conflitto – almeno a livello di intelligence, rapporti di forza e per la “futura” leadership del nuovo alleato.

È noto infatti come sia i servizi segreti britannici, che avevano nel Soe il loro braccio armato, e i servizi segreti americani raggruppati dell’Office of Strategic Services, ebbero ed continuarono ad avere visioni contrastanti nel modo di supportare l’Italia nella fasi più delicate della Liberazione: sia come appoggio militare, alcuni preferivano supportare le formazioni monarchiche, militari ed ex fasciste e vicine alla destra, altri preferivano dare il loro supporto la Comitato di Liberazione Nazionale e alle formazioni partigiane della Resistenza più vicine a posizioni di sinistra. Ulteriore divisione era proprio quella di dare credito dalle informazioni classificate come segrete che sarebbero state passate all’intelligence alleata.

Un’altra missione per l’agente Mallaby

Allo 007 Mallaby venne affidata un’altra delicata missione – codificata come “Edenton Blue” – appena pochi anni dopo. Paracadutato ancora una volta dietro le linee nemichedell’Italia divisa tra occupanti tedeschi e fedeli alla Repubblica Sociale Italiana stabilita da Mussolini a Salò e Alleati. Venne catturato, e costretto a invitare una straordinaria copertura, asserendo di essere un emissario speciale incaricato dal generale britannico Harold Alexander di entrare in contatto con con il maresciallo Graziani per “verificare le possibilità di una resa concordata che evitasse ulteriori spargimenti di sangue e distruzioni nel nord Italia”.

Interrogato e contro interrogato convinse sia repubblichini e i nazisti d’essere chi sosteneva di essere, finendo al cospetto del generale Karl Wolff, capo della Gestapo dell’Sd (il servizio segreto delle Ss) in Italia. Dalla mediazione tra l’agente britannico e Wolff – che diventerà un protetto della Cia e sfuggirà alla massima pena inflitta del tribunale speciale di Norimberga – si aprirà una negoziazione all’insaputa di Hitler e del capo delle Ss Himmler, che porterà all’accordo per la resa delle forze di occupazione tedesche in Italia. Avvenuta a Caserta il 29 aprile 1945.

Questo colpo di genio venne a lungo tenuto segreto anche dei servizi informazione alleati. Solo i livelli più alti dell’intelligence infatti erano a conoscenza dei dettagli di questa “curiosa” missione di Mallaby: sospettato di essere diventato una spia doppiogiochista per salvarsi la vita dopo la cattura.

Le delicate e temerarie missioni portate a termine da Richard Mallaby come il suo ruolo particolare rimasero secretate a lungo, ben oltre la fine del conflitto. Trasferitosi a vivere in Italia, morì prematuramente a soli 61 anni nel 1981, dopo aver messo su famiglia.

Il 23 settembre 2016 è stato insignito della Medaglia d’oro, consegnata postuma ai figli. È seppellito ad Asciano, un paese della Toscana che amava profondamente, dove aveva abitato da ragazzo con la sua famiglia prima della guerra, e dove i contadini nostrani erano soliti chiamarlo “il signorino Dicche”, a quanto ci hanno raccontato nei libri che tengono viva la sua storia di dedizione, coraggio, e grande amore per la nostra terra.

La catastrofe dell’8 settembre non grava solo sul re e Badoglio. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

Caro Aldo, mi chiedo come possiamo oggi mantenere viva la memoria di quanto avvenuto l’8 settembre 1943 e nei mesi successivi fino alla Liberazione. In occasione di questo 80° anniversario, si percepisce sempre più, a mio parere e da una certa parte politica, l’intento di offuscarne più o meno tacitamente il ricordo. Giulio Guatelli, Parma A ogni ricorrenza dell’8 settembre mi torna sempre alla memoria Badoglio. Fu tra i responsabili della rotta di Caporetto, ma riuscì ad uscirne indenne, anzi fece carriera ai vertici dell’esercito specie durante il ventennio fascista. Caduto in disgrazia nell’ultimo periodo mussoliniano, tornò a galla nominato Capo del Governo, fu forse il maggiore responsabile della vergogna dell’8 settembre, forse più del re. Gian Piero Aureli

Cari lettori, Ormai è il valzer dell’8 settembre. Sempre lo stesso refrain: Badoglio incapace, re imbelle, principe vile. E certo Badoglio lasciò l’esercito senza disposizioni precise — salvo quella generica di rispondere a eventuali attacchi —, la fuga di Vittorio Emanuele III fu rocambolesca, e suo figlio Umberto avrebbe forse salvato la monarchia se fosse rimasto a Roma. Non c’è dubbio che l’8 settembre sia stato una catastrofe. Ma non sono soltanto Badoglio, il re e il principe gli unici responsabili. I tedeschi e gli angloamericani non erano in Italia per una congiuntura astrale, ma perché Benito Mussolini si era alleato con Adolf Hitler e aveva dichiarato guerra prima all’impero francese e all’impero britannico, poi agli Stati Uniti d’America e all’Unione Sovietica. La guerra parallela del Duce durò sei mesi. Alla fine del 1940 l’Italia era fuori combattimento. Dovettero intervenire i tedeschi a sorreggere le nostre forze armate. Da quel momento concludere una pace separata divenne molto più complicato; dal punto di vista politico, militare e pure logistico. Dopo il 25 luglio e la caduta del regime, poi, ai tedeschi apparve evidente che l’Italia si sarebbe sfilata dalla guerra, e presero di fatto il controllo del Centro-Nord. Per questo non si riuscì a tenere Roma. Fu un errore anche da parte degli Alleati, che avrebbero forse potuto fidarsi di più degli italiani: si sarebbero risparmiati nove mesi di durissimi combattimenti (la liberazione di Roma è del giugno 1944). Ma quando il generale Taylor arrivò nella capitale in gran segreto, prima che la notizia dell’armistizio fosse resa pubblica, per verificare se poteva rischiare la vita dei suoi paracadutisti per occupare Roma, ebbe un’impressione disastrosa. Badoglio lo ricevette in pigiama. Taylor trasse la conclusione che gli italiani non avessero alcuna voglia di combattere. E infatti molti si erano illusi che la guerra fosse finita. Cominciava invece, a Cefalonia e a Boves, la guerra di liberazione. Per questo l’8 settembre, come sosteneva Carlo Azeglio Ciampi e come ha ricordato l’altro giorno Rino Formica, la patria non morì; al contrario, si posero le basi per la sua rinascita.

Dalla mancata difesa della nostra Capitale al confine orientale. Alle radici del disastro. Due saggi appena usciti illustrano, a 80 anni di distanza, il meccanismo perverso che portò alla disgregazione delle nostre forze armate. Da Roma sino al vulnerabile Friuli Venezia Giulia. Matteo Sacchi l'8 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Quando, alle 17 e 45 dell'8 settembre del 1943, l'agenzia Reuters diffonde il comunicato diramato da Radio Algeri, quello che deve accadere accade. Le scelte, gli errori, gli azzardi e le ambiguità di tutti gli attori in campo fanno accelerare gli eventi, danno il via alla rapidissima detonazione che segnerà il destino di Roma, di una monarchia e di una intera nazione. Avvenimenti così convulsi e a tratti quasi surreali che gli storici hanno sempre faticato a darne un'interpretazione univoca. Del resto gli stessi partecipanti si trovarono coinvolti in un gigantesco gorgo di cui erano incapaci di decifrare l'intreccio delle correnti. Intreccio del quale a cose fatte, a Paese spezzato e martoriato, tesero quasi tutti, scientemente oppure no, a raccontare la versione più assolutoria (anche nel senso più propriamente giuridico) o quantomeno quella che li faceva sentire meno in colpa.

Ecco che allora tra le uscite storiografiche di quest'anno relative agli eventi del settembre 1943, ne segnaliamo alcune che suggeriscono delle rotte per navigare attraverso la tempesta che, esattamente ottanta anni fa, spezzò in due l'Italia e diede vita alla guerra civile.

Ad esempio Tagliare la corda (Solferino, pagg. 278, euro 18) di Marco Patricelli si concentra sulla fuga del Re e delle autorità militari del 9 settembre. Come chiarisce l'autore, mettere al sicuro la monarchia e le massime istituzioni italiane dai tedeschi era una priorità assolutamente giustificata. Il dramma dell'8 settembre e dei giorni a seguire non fu la fuga da Roma. Ma il folle dilettantismo con cui fu organizzata, se di organizzazione si può parlare. I termini dell'Armistizio di Cassibile, ma soprattutto il suo sottotesto politico militare, non vennero valutati a pieno. Questo nonostante il fatto che alcuni come il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia avessero avvisato Badoglio del difficile e stretto corridoio in cui ci si doveva muovere. Scriveva Guariglia il 28 agosto: «Siamo stretti tra due forze. Quella effettuale tedesca, quella potenziale americana... La posizione italiana è troppo grave per credere di poterla risolvere con qualche improvvisato colpo di testa».

E invece i colpi di testa ci furono e a ripetizione. Il generale Carboni distribuiva armi alla popolazione civile di Roma e agli antifascisti per organizzare una eventuale resistenza a Roma; armi che, però, venivano sequestrate dalle forze di polizia. Si tentò di organizzare la reazione contro i tedeschi attraverso la diffusione di un ordine segreto, il così detto «OP 44». Ma l'ordine conteneva indicazioni folli, come quella di girare verso le truppe tedesche anche i cannoni delle postazioni costiere. Erano in strutture di cemento con angoli di tiro orientabili solo verso il mare. Ma soprattutto l'ordine prevedeva solo azioni difensive, nemmeno un tentativo di prevenire le azioni dei tedeschi. Per di più era previsto un seguente fonogramma che allertasse i comandi. Quando gli alleati forzarono la mano agli italiani sulla data dell'8, tutti questi meccanismi saltarono. Ancora alle ore 23, dopo il famoso comunicato di Badoglio via radio, in cui non si ha nemmeno il coraggio di nominare i tedeschi come potenziali aggressori, il generale Carboni prima assicura al Re che le forze della Wehrmacht sono in fuga verso il Nord, poi chiede se sia il caso di inseguirle.

Poi anche al ministero della Guerra arriva l'eco delle cannonate. Non c'è nessuna fuga, i tedeschi sanno benissimo cosa fare, hanno accumulato forza mentre nessuno glielo impediva, organizzato l'Operazione Alarico. Il cannone risuona solo perché alcuni ufficiali hanno deciso da soli di intervenire e di sbarrargli la strada. Come il comandante della 21esima divisione, il generale Gioacchino Solinas. È un fascista convinto ma ha giurato al Re e rispetta il giuramento, fa da solo, combatte, non cede terreno, i suoi granatieri resisteranno sino al 10 settembre. Ma intanto la città viene abbandonata dalla corte. Ed è il modo, non l'abbandono a provocare il disastro, un vulnus irreparabile, di cui Badoglio fu in gran parte responsabile.

Un altro volume interessante che disegna una prospettiva nuova sul settembre del '43 è Il disonore delle armi (Ares, pagg. 702, euro 28) di Roberto Spazzali. Il volume prende in esame l'armistizio e la mancata difesa della frontiera orientale. Mostra quanto sia stata tragica la mancanza di ordini in questa zona dove sarebbe stato fondamentale ostacolare le truppe tedesche. Gli italiani si trovarono schiacciati tra i tedeschi e le forze partigiane jugoslave. Ci furono straordinari episodi di coraggio e resistenza, ma la mancanza di ogni coordinazione portò gli italiani al disastro. Il volume di Roberto Spazzali (realizzato con il contributo dell'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata) analizzando anche fonti poco utilizzate sino a ora, come gli incartamenti del processo del generale Giovanni Esposito, ricostruisce nel dettaglio una vicenda locale che è lo specchio del dramma dell'intero Paese. Ma che in Istria e Dalmazia ha avuto gli esiti più tragici.

Una catena di errori provocò di colpo "la morte della patria". Ma anche la sua rinascita. La Nazione come confortante punto di riferimento e vincolo di appartenenza venne meno di fronte al disastro militare e politico. Ma non fu la "fuga" del Re a causare la crisi. Francesco Perfetti l'8 Settembre 2023 su Il Giornale. 

Il primo a collegare l'8 settembre 1943 alla «morte della patria» fu un giurista e scrittore, Salvatore Satta, che affrontò il tema in un amaro, dolente e tragico De Profundis (Adelphi) scritto fra il giugno 1944 e l'aprile 1945. Lì egli fece notare come la «morte della patria» fosse «l'avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell'individuo» perché comportava la scomparsa della «nazione» come confortante punto di riferimento e vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica legittimata dalla storia.

In seguito Renzo De Felice riprese il concetto facendo risalire il momento iniziale della «crisi della nazione», ovvero dello «svuotamento del senso nazionale», proprio al giorno nel quale fu annunciato l'armistizio dell'Italia con gli Alleati. L'8 settembre diventò, per lui, «la data simbolo del male italiano», che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo».

In effetti quella data fu un trauma senza precedenti: disorientamento degli animi, tracollo morale della popolazione, sbandamento dell'esercito privo di ordini o chiare direttive. Il trauma dell'8 settembre non è paragonabile neppure al dramma della sconfitta di Caporetto, riassorbita e annullata a Vittorio Veneto. In questo caso il riassorbimento del trauma non fu possibile perché erano venuti meno gli anticorpi: il monopolio del patriottismo da parte del regime, realizzato facendo coincidere il «primato della nazione» con quello del regime, aveva minato dalle origini la «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata rovinosamente il 25 luglio. In altre parole il crollo del fascismo, autoidentificatosi col nazionalismo, aveva trascinato con sé la stessa idea di nazione che nell'Ottocento era stata associata ai concetti di libertà e indipendenza dei popoli.

Vittorio Emanuele III, insieme al suo entourage e ai militari, aveva svolto un ruolo fondamentale nella fine del regime, come ha dimostrato l'ottimo e documentato volume di Paolo Cacace, Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (Il Mulino). La decisione di por termine alla dittatura e persino quella di procedere all'arresto di Mussolini erano, infatti, già state prese e definite nei particolari tant'è che, alla luce di questo fatto, deve essere ridimensionata l'importanza della seduta del Gran Consiglio del Fascismo della notte del 24-25 luglio 1943 nella quale fu approvato l'odg Grandi: una seduta e una conclusione che offrirono, al più, al Sovrano il pretesto costituzionale per intervenire e portare avanti una azione già da tempo pianificata.

Dopo la seduta del Gran Consiglio e l'arresto di Mussolini si susseguirono, nel corso dei famosi «quarantacinque giorni», tutti quegli eventi nomina di Badoglio a capo del governo, creazione del nuovo ministero, trattative con gli anglo-americani che portarono l'8 settembre all'annuncio dell'armistizio in realtà era già stato siglato alcuni giorni prima, il 3 settembre, dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile.

La notizia venne diffusa improvvisamente, con un anticipo di quattro giorni rispetto agli accordi presi, alle 17,45 dell'8 settembre tramite un dispaccio della agenzia Reuters. Il direttore dell'Agenzia Stefani, Roberto Suster, prima di rilanciarla, ne cercò conferma ma i ministri cui si rivolse la smentirono perché non ne sapevano nulla. Poco dopo, alle 18 e 15, in un Consiglio della Corona, convocato da Badoglio alla presenza del Re, il generale Vittorio Ambrosio espose la situazione dicendo che l'annuncio dell'armistizio era giunto in anticipo rispetto alle previsioni. Ci fu chi sostenne che si dovesse dichiarare inaccettabile l'armistizio e creare un nuovo governo che riprendesse le trattative, ma alla fine prevalse l'opinione che ormai non poteva essere rinnegato un atto già siglato anche perché il non tener fede ai patti avrebbe comportato una pioggia di bombe sulla Capitale. Così alle 19,47 venne diffuso dall'Eiar il proclama di Badoglio che concludeva con le parole: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

All'alba del giorno successivo iniziò il trasferimento delle autorità politiche, civili e militari verso un territorio non occupato da tedeschi o alleati: fu, come venne polemicamente definita, la «fuga di Pescara». Qualcuno, come Ruggero Zangrandi in L'Italia tradita (Mursia), avanzò l'ipotesi che essa fosse stata agevolata da un accordo segreto con i tedeschi ma di tale intesa non v'è traccia documentaria all'infuori di sibilline e contraddittorie dichiarazioni di Eugenio Dollmann.

Che il Re e il governo dovessero lasciare la capitale non era scandaloso: era, anzi, atto di saggezza politica. Lo avevano fatto altri sovrani senza che si parlasse di «fuga»: il Re di Norvegia, la Regina di Olanda, il Re di Grecia, il Re di Iugoslavia. D'altro canto, era necessario non solo evitare la cattura di Vittorio Emanuele e di Badoglio, ma anche, e soprattutto, assicurare l'esistenza di un governo «legittimo» in grado di garantire la continuità delle istituzioni e quindi dello Stato. Peraltro, le modalità con le quali fu realizzato il trasferimento furono, secondo Giovanni Artieri nella sua bella Cronaca del Regno d'Italia (Mondadori), inferiori a «ogni più sciatta e sgomenta negligenza» sia per quanto riguarda la dimenticanza a Roma, quasi come «portacenere», di esponenti del governo a cominciare dal ministro degli Esteri Raffaele Guariglia la cui presenza accanto al Re sarebbe stata fondamentale per i rapporti con gli alleati, sia per l'improvvido coinvolgimento nella cosiddetta «fuga» di alti gradi delle Forze Armate partiti senza lasciare direttive precise. Donde, il caos e lo sbandamento anche morale all'origine di quella crisi definita «morte della patria». Una crisi, però, che val la pena di sottolinearlo fu anche la premessa di una vera e propria «resurrezione della patria» che avrebbe portato alla costruzione di una nuova Italia, finalmente libera e democratica.

Estratto dell’articolo di Ezio Mauro per “la Repubblica” venerdì 8 settembre 2023.

«Quel giorno non è morta la patria, come si continua a ripetere. Piuttosto, l’Italia ha conosciuto l’esperienza drammatica di uno Stato che si sfascia: una tragedia, perché da quel momento niente può garantire che possa durare in eterno». 

Ottant’anni dopo, Emilio Gentile rilegge la data dell’8 settembre 1943, con la fuga a Brindisi di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio coi vertici militari, lasciando il Paese senza guida e senza comando, l’esercito allo sbando, la capitale sguarnita davanti all’assalto tedesco. Per lo storico del fascismo quel giorno pesa ancora sul calendario civile italiano, col tradimento dei vertici istituzionali rispetto ai loro doveri. Un’ombra che arriva fino ad oggi […]

Professore, si poteva evitare quella fuga notturna del re insieme col Capo del governo?

«Chi l’aveva decisa non pensava a nessuna alternativa. Ma ebbe un ripensamento il principe ereditario Umberto: mai associato dal padre in nessuna decisione di rilievo della Corona, durante il viaggio avverte la necessità che almeno un membro della famiglia reale sia presente a Roma per fronteggiare i tedeschi, e chiede di poter tornare nella capitale. 

Umberto capisce che è in gioco il destino della monarchia, e le scelte di quel momento sono decisive. Certo se il principe avesse preso parte a un’azione anche simbolica di resistenza, avrebbe probabilmente trascinato molti civili e militari con sé. Ma Vittorio Emanuele e Badoglio lo bloccano». 

L’armistizio firmato in segreto il 3 settembre [...] non aveva segnato una seconda svolta, dopo l’arresto di Mussolini?

«Ma come si arriva all’armistizio? A tentoni, nel massimo della segretezza e nel massimo della confusione. Il governo (in forma non ufficiale per paura d’essere scoperto dai tedeschi) spedisce quattro inviati speciali dagli Alleati per capire se è possibile un accordo che consenta di fronteggiare i tedeschi, e su questa base giungere all’armistizio. 

Sono episodi paradossali. Il generale Castellano consiglia addirittura agli angloamericani cosa devono fare, proponendo loro di sbarcare a Livorno e a Rimini, scacciare i tedeschi e poi discutere l’armistizio. Siamo nell’assurdo di un Paese che va dai suoi nemici non per arrendersi, ma a cercare aiuto per liberarsi del suo alleato: inconcepibile». 

Com’è possibile che il re e Badoglio pensassero di “lavorare di ricamo” tra i due contendenti, spostando l’Italia dall’Asse su una posizione di neutralità?

«La nota dominante in realtà è il terrore della reazione di Hitler, che paralizza ogni azione italiana. Il risultato è che i tedeschi intuiscono questa ambiguità [...], sospettano, incalzano e soprattutto entrano nel nostro Paese da padroni, senza nessuna opposizione. E siamo appena ad agosto, con un rapporto di forze favorevole alla difesa».

[...] Quindi l’8 settembre italiano è figlio della confusione, della paura e dell’ambiguità?

«Per capire bisogna districarsi in una rete fittissima di menzogne, spiegazioni di comodo, ricostruzioni a posteriori, verità taciute. Aggiungiamo che nella frenesia della fuga dei vertici istituzionali vengono bruciati moltissimi documenti che sarebbero utili a decifrare scelte e responsabilità. Dopo la firma segreta dell’armistizio, dal 4 all’8 di settembre è tutto un gioco degli equivoci, con gli italiani convinti di aver tempo per l’annuncio della resa fino al 12, mentre sapevano benissimo che la data prevista era l’8». 

[...] quelle ore incredibili tra il 3 e l’8 settembre ancora oggi lasciano sgomenti per la totale irresponsabilità e la viltà dell’intera classe dirigente militare e politica, che si ostina a fare il doppio gioco. Con un solo scopo: salvare i membri della corona e degli alti comandi e il Capo del governo».

L’ambiguità si traduce in una raffica di assicurazioni menzognere ai tedeschi, documentate nei rapporti dell’ambasciatore Rahn a Hitler: mentono tutti?

«Dal re all’ultimo generale, passando naturalmente per Badoglio: tutti. Il primo settembre il ministro degli Esteri Guariglia garantisce a Rahn che il governo è deciso a non capitolare. 

Il 3, vale a dire il giorno in cui è firmato l’armistizio, è Badoglio che insiste: “noi combatteremo e non capitoleremo mai”. Il 4 il generale Ambrosio, Capo di stato maggiore, conferma ai tedeschi la volontà di continuare la guerra comune. E addirittura l’8 settembre scende in campo il re, per assicurare che il legame dell’Italia con la Germania “è per la vita e per la morte”».

[…] La prima preoccupazione di Badoglio dopo l’armistizio è scrivere a Hitler?

«È organizzare la fuga, per salvare il re con alcuni ministri e generali, lasciando all’oscuro della decisione il resto del governo e dei comandi, che rimangono a Roma, abbandonati al loro destino. Il terrore della possibile reazione tedesca – che, ripeto, domina ogni cosa – blocca anche le comunicazioni tra lo stato maggiore generale, lo stato maggiore dell’esercito, e i comandi delle forze italiane nella penisola e in tutti i territori di guerra dove erano dislocate. I reparti sono abbandonati alla vendetta dei tedeschi. 

L’ossessione della segretezza non è a salvaguardia del Paese, ma di chi ha deciso di abbandonare la capitale. Marina e Aeronautica nulla seppero delle trattative. Il rimo aiutante di campo del re, il generale Puntoni, l’8 mattina scrive nel suo diario che ci sono solo vaghe voci di armistizio: è all’oscuro anche lui».

[…] Badoglio e il re invocheranno a giustificazione della fuga da Roma il pericolo di una cattura tedesca del Capo dello Stato e del Capo del governo che avrebbe decapitato le istituzioni, cancellando l’armistizio con gli Alleati e riportando il fascismo al potere. C’era questo rischio?

«Certo lo ha ingigantito il prelevamento tedesco di Mussolini dal Gran Sasso. Ma bisogna tener conto che non tutti nel vertice tedesco avrebbero approvato una soluzione del genere. Kesselring ad esempio temeva la possibile reazione dell’esercito, monarchico per tradizione. In ogni caso, la fuga resta una fuga: soprattutto per le modalità in cui è stata decisa.

Senza informare gli altri membri del governo, lasciati a Roma, senza lasciare disposizioni per la difesa della capitale, senza ordini per i reparti, abbandonati a se stessi. Un intero esercito, [… ] precipita nello sbando, al buio, senza guida e senza un riferimento istituzionale. Non ci sono indicazioni su come resistere, tutto è sospeso e ambiguo, come la frase del Capo di stato maggiore dell’esercito, Roatta: “ad atti di forza reagire con atti di forza”». 

Più che un ordine, una tautologia militare?

«Appunto: col risultato di lasciar soli e indifesi oltre mezzo milione di soldati e i reparti che hanno deciso autonomamente di resistere condannandoli al massacro, come a Cefalonia e Lero. Ma è l’intera Italia che è abbandonata, anzi trasformata in campo di battaglia di due guerre, che diventeranno tre con Mussolini che dalla repubblica di Salò scatena la guerra civile». 

In casa Savoia solo Umberto capisce che in queste scelte la monarchia si gioca il futuro?

«No, prima e più di lui la moglie, Maria José. Confida all’ex ministro Soleri che vede buio per il futuro della monarchia, ha rapporti continui con gli antifascisti. Non a caso il re la detesta e la allontana a Sant’Anna di Valdieri, e il generale Puntoni registra le formule di cui si circonda: in casa Savoia si regna uno per volta, e le donne non fanno politica. L’esito è la fuga». 

Come se il re e Badoglio fossero fuggiti nottetempo dallo Stato: è così?

«Esattamente. Vittorio Bachelet, che ha 17 anni, vede dal treno che lo porta a Roma in quei giorni lo sfacelo dell’esercito, il disfacimento dello stato maggiore, soldati che gettano dal finestrino divise, mostrine, armi, bombe a mano. Si sfasciava non un regime, ma lo Stato nazionale».

Dunque l’8 settembre è la crisi dello Stato?

«La sua dissoluzione. Ottant’anni prima l’Italia era diventata uno degli Stati liberali europei, dopo oltre mille anni aveva creato l’unità del suo territorio sui principi di libertà e di uguaglianza di fronte alla legge. Con l’8 settembre questo Stato non c’è più, e gli antifascisti vivono questa tragedia sulla loro carne, perché in quei giorni non possono immaginare quale sarà il futuro. E infatti ci vorranno due anni di sacrifici e sangue per riconquistare ciò che in quel momento è andato perduto». 

Che lezione ci resta dell’8 settembre?

«Amara. Dal 1861 abbiamo vissuto tre regimi, due guerre mondiali, una vinta, una persa catastroficamente. Ma fino al ’22 abbiamo avuto uno Stato liberale che ha consentito anche ai suoi avversari di operare, garantendo porzioni crescenti di diritti e libertà. Poi, dopo un ventennio di statalismo forsennato, 77 anni di repubblica hanno permesso anche ai nostalgici del fascismo di affermarsi. Perché dunque l’ombra dell’8 settembre dura così a lungo e pesa così tanto sulla nostra coscienza civile? Perché abbiamo imparato da quel giorno che lo Stato delle libertà può non garantire la sua sopravvivenza». 

Che cosa teme, professore?

«[…]  Temo una democrazia senza più valori, puro recipiente o espediente recitativo, dove chi vince governa, ma quasi metà della popolazione non vota. Come se non fosse più possibile credere in qualcosa, e costruire insieme una democrazia migliore».

80 anni fa. Armistizio dell’8 settembre 1943, quali furono le conseguenze. La fuga del re e del governo, la viltà degli alti ufficiali, un popolo lasciato in balia dei nazisti. Era scomparsa l’Italia, lo Stato e tutte le sue strutture amministrative. Simona Colarizi su L'Unità l'8 Settembre 2023

Vissuto dai politici e intellettuali di allora come l’evento più distruttivo e doloroso della storia d’Italia dall’unità in poi, l’8 settembre 1943 è ancora oggi al centro di un intenso dibattito storiografico incentrato sul tema dell’identità nazionale e dello Stato-nazione. All’origine è la decisione del re, Vittorio Emanuele III, dello stato maggiore e delle più alte cariche pubbliche di continuare una guerra farsa al fianco dell’alleato tedesco dopo la destituzione di Mussolini in quel fatidico 25 luglio quando il duce era stato arrestato e il generale Badoglio aveva assunto il ruolo di capo del governo.

Una decisione non condivisa dal più autorevole tra i congiurati fascisti, Dino Grandi, che aveva invece proposto al sovrano di dichiarare immediatamente la fine delle ostilità. Non era solo il paese intero ad agognare la pace, ma era anche quanto si attendevano gli inglesi e gli americani, convinti che l’eliminazione del dittatore avesse rimosso ogni ostacolo alla resa dell’Italia, sconfitta su tutti campi di battaglia. Eppure il monarca e i suoi consiglieri avevano scelto un’altra soluzione che si sarebbe rivelata fatale per gli italiani. Aveva prevalso la paura di Hitler, pronto a far intervenire le truppe tedesche già presenti in Italia per consumare la sua vendetta contro il re traditore. Troppo lontane dalla capitale erano invece le armate angloamericane per garantirgli una protezione sicura, anche se naturalmente Vittorio Emanuele aveva intensificato i contatti già in corso, aprendo la trattativa sulla resa dell’Italia.

Il Fuhrer però desisteva da un’immediata rappresaglia, ben consigliato dal generale Kesserling, consapevole che le due divisioni tedesche impegnate in Sicilia non erano sufficienti a contenere l’avanzata degli angloamericani già sul punto di sbarcare sul continente. Meglio fingere di credere alla lealtà degli italiani, come aveva dichiarato Badoglio il 25 luglio con la frase a chiusura del suo messaggio: «La guerra continua al fianco dell’alleato tedesco». Per tutto il mese di agosto, ben otto divisioni tedesche venivano inviate in soccorso del fedele “alleato” italiano; in pratica i nazisti procedevano a una vera e propria occupazione della penisola senza sparare un colpo. Così blindata l’Italia sarebbe diventata un bastione difficile da espugnare per gli eserciti di Eisenhower e di Alexander che per risalire dalla Sicilia al Brennero avrebbero impiegato un anno e otto mesi di una terribile guerra con immani perdite di vite umane e di distruzioni su tutto il territorio.

Per l’intero mese di agosto il re era rimasto in attesa, sperando invano in uno sbarco a Nord di Roma degli eserciti americani; uno sbarco che proprio la presenza sempre più massiccia delle truppe tedesche rendeva ogni giorno più improbabile. Dall’altra parte cresceva l’impazienza degli alleati che dopo tanti rinvii iniziavano a diffidare della buona fede di Vittorio Emanuele e dei suoi generali, solo a parole pronti ad arrendersi. Alla fine il 3 settembre il generale Castellano firmava a Cassibile l’armistizio, anche se Badoglio chiedeva agli alleati una dilazione di qualche giorno prima di divulgare la notizia.

In teoria lo stato maggiore delle Forze Armate avrebbe avuto tutto il tempo di predisporre un piano dettagliato per onorare le clausole della resa, ma in quelle giornate convulse il re e il suo governo restavano immobili, in preda al panico. Non restavano immobili invece gli antifascisti che pure durante tutti i quarantacinque giorni erano rimasti alla finestra, timorosi di interferire nella trattativa in corso tra lo Stato italiano e gli angloamericani. Adesso però il Comitato delle Opposizioni Antifasciste, trasformato in Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), non voleva più aspettare, ben consapevole di quali e quante truppe tedesche fossero ormai presenti nel paese. L’8 settembre, quando alla fine Eisenhower comunicava via radio a tutto il mondo la resa dell’Italia, ovunque i partiti antifascisti offrivano ai comandanti delle piazzeforti il sostegno dei loro militanti: militari e civili insieme, da schierare contro il nemico nazista, deciso ad annientare l’Italia che aveva tradito la guerra di Hitler.

La sola idea di un popolo in armi veniva vissuta però come il peggiore degli incubi nelle alte sfere militari e civili, di provata fede monarchica, che avevano aderito al regime che garantiva l’ordine e la disciplina delle masse. Caduto il fascismo, nulla era cambiato con il governo Badoglio che aveva usato il pugno di ferro contro le manifestazioni popolari e tenuto a freno gli antifascisti; quanto bastava per illudere i generali e gran parte della classe dirigente filo fascista su una rassicurante continuità tra il passato e il presente. Tutto crollava invece in quella notte dell’8 settembre 1943 quando senza comunicare direttive coerenti ai comandanti delle piazzeforti italiane nella penisola e sui fronti guerra, il re, tutto il governo e la famiglia reale fuggivano a Brindisi nelle retrovie alleate.

Era quasi un viatico alla viltà degli alti ufficiali che si arrendevano ai tedeschi entrati da padroni, armi spianate, nelle aree militarizzate. Non si materializzava dunque un De Gaulle italiano, anche se vanno evidenziati i gesti eroici di alcuni ufficiali che rimasti come tutti gli altri senza ordini da Badoglio, avrebbero guidato i loro soldati e i cittadini nella resistenza contro l’esercito degli invasori nazisti. Avveniva a Eboli dove al suo rifiuto di arrendersi, il generale Gonzaga veniva fucilato dai tedeschi; resistevano i comandanti delle piazzeforti a Piombino, al Piccolo San Bernardo, a Susa e a Gorizia, dove l’alto ufficiale in servizio era costretto alla fine a consegnare ai nazisti tutte le truppe della Divisione “Giulia”, deportate in Germania. Quanto al destino di Roma, i generali Calvi di Bergolo e Giuseppe Cordero di Montezemolo, combattevano contro i tedeschi insieme a gruppi di civili antifascisti in una lotta sanguinosa, costata un alto numero di morti.

Fuori dall’Italia, è rimasto tristemente famoso il massacro di 5000 tra soldati e ufficiali della Divisione “Acqui” che per cinquanta giorni non si erano arresi. Per il resto, centinaia di soldati e ufficiali, intrappolati nelle piazzeforti occupate dai nazisti, spinti dalla paura di finire nei vagoni piombati diretti in Germania, cercavano una via di fuga disperata che si scontrava con la realtà dell’Italia divisa in due; un paese ormai solo un fronte di guerra tra i tedeschi, padroni dei territori al Centro e al Nord, e gli alleati ancora fermi nel Mezzogiorno, a circa trecento chilometri da Roma. Fame, freddo e paura erano i fattori che spingevano i più a entrare nelle bande partigiane che i militanti antifascisti stavano cercando di organizzare. La resistenza che iniziava da qui, avrebbe cancellato la vergogna dell’8 settembre, ma su questa ferita profonda non poteva cadere il silenzio.

Era scomparsa l’Italia, era scomparso lo Stato e tutte le sue strutture amministrative: non esisteva più un governo legittimo al Sud, non quello del re non riconosciuto dai CLN e neppure dagli angloamericani che solo nella primavera del 1944 avrebbero dato il loro nulla osta all’esecutivo di Badoglio, allargato però alla partecipazione dei partiti antifascisti; una legittimazione estesa di fatto al successivo governo guidato da Bonomi quando nel giugno, dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III si ritirava a vita privata. Non esisteva più un governo legittimato dagli italiani al Nord dove Hitler aveva consentito a Mussolini di creare uno Stato fantoccio, quella Repubblica sociale italiana, mutilata del Friuli Venezia Giulia annesso al Terzo Reich, dotata di un esercito che serviva ai nazisti solo per proteggere le retrovie dei loro eserciti dagli attacchi dei partigiani. Tedeschi, inglesi e americani erano dunque le uniche autorità a dettare legge sul destino degli italiani.

In quelle cupe giornate di settembre, «tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito» era distrutto irrimediabilmente, scriveva Croce sul suo diario. Con accenti ancora più amari, il giurista Satta nel suo De Profundis (Cedam, 1948 e poi Adelphi, 1980), scritto a caldo tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’44, definiva la tragedia dell’8 settembre come la “morte della patria”: nulla restava dell’Italia «senza virtù, invisa ai propri figli», disprezzata e calpestata dallo straniero nell’indifferenza di un popolo sbandato e passivo che «dalle armi altrui» aspettava la restaurazione della vecchia Italia. Si era così conclusa la storia dei vent’anni fascisti, la storia di una sconfitta che «come tale dobbiamo affidare alle generazioni future». Note così pessimiste che solo sul finale del libro mostravano un po’ di speranza grazie a chi nell’azione partigiana ritrovava se stesso e «dalle macerie della patria sfida i fati per l’avvenire».

Queste riflessioni di Satta venivano presto dimenticate nell’euforia della liberazione e per lo più ignorate dalla storiografia resistenziale, tutta proiettata a valorizzare la lotta di liberazione nazionale degli antifascisti, la nuova classe politica dell’Italia che aveva chiuso i conti con la monarchia e con le vecchie èlite liberali. Solo nel 1996 – a quarant’anni dal referendum istituzionale e dalla Costituente – Ernesto Galli della Loggia riproponeva le riflessioni di Satta in un lungo saggio dal titolo La morte della patria (Laterza, 1996). Immediata la polemica tra gli storici ma anche tra i politici fino al presidente della Repubblica Ciampi che durante il suo mandato – 1999-2006 – in numerosi discorsi pubblici respingeva indignato il “revisionismo” di Galli della Loggia: l’8 settembre non aveva segnato la morte della patria, ma la rinascita della patria dopo vent’anni di fascismo, grazie allo slancio patriottico dei partigiani che si erano battuti per la salvezza della nazione. La resistenza, insomma, interpretata come secondo Risorgimento, garantiva la continuità dello Stato unitario, fondato dai padri risorgimentali e risorto nella nuova Italia repubblicana.

Tuttavia Satta e dopo di lui Galli della Loggia avevano aperto la questione cruciale dell’identità nazionale, una questione ancora irrisolta nel ’45 dopo vent’anni di regime fascista che aveva cercato di nazionalizzare le masse italiane con la fascistizzazione forzata dell’intera società. Identificarsi emotivamente e ideologicamente nella patria significava identificarsi con lo Stato-nazione, un processo che malgrado la nascita dello Stato unitario era rimasto incompiuto, come si era espresso Massimo D’Azeglio, uno dei padri del Risorgimento: «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». L’8 settembre aveva mostrato tutta la debolezza dei vertici statali dal re ai militari, ai ministri, ai burocrati dell’amministrazione pubblica, incompetenti, inadeguati a gestire l’emergenza, doppiogiochisti, fino all’ultimo minuto così pavidi e spaventati da dimenticare persino di portare con sé nella fuga da Roma il testo dell’armistizio. Non aveva fermato i fuggitivi né il senso di responsabilità verso i militari e i cittadini, lasciati in balia dei nazisti, né il senso dell’onore e della lealtà nei confronti degli alleati con i quali appena cinque giorni prima avevano firmato la resa.

Eppure erano proprio loro a incarnare quello Stato nazionale che gli italiani avrebbero dovuto amare e nel quale si sarebbero dovuti riconoscere. Non può stupire lo scarso radicamento dell’idea di nazione nella maggioranza degli italiani, anche se esisteva una minoranza che proprio la fede nei valori del Risorgimento aveva spinto a prendere le armi contro i nazisti e i loro alleati fascisti. Non erano certo marginali nella resistenza le formazioni partigiane autonome, guidate quasi sempre da ufficiali dell’esercito regio, o le formazioni azioniste così numerose da essere seconde solo alle Brigate Garibaldi dove militavano comunisti e socialisti. Se la loro forza morale sarebbe stata fondamentale per la rinascita dell’Italia, nell’immediato non bastava a suscitare l’appoggio attivo ed entusiasta di tutta la popolazione alla lotta armata – come dimostra il dibattito storiografico ancora oggi vivace sulla estensione della “zona grigia”.

Eppure in qualche misura mi pare ingenerosa la descrizione a tinte fosche di Satta sulla passività, l’indifferenza, la mancanza di carità, il disfattismo di un intero popolo, lasciato solo e senza guida dai governanti. Nel suo De profundis si possono cogliere gli stessi accenti spregiativi così frequenti tra i tanti intellettuali antifascisti di vario colore politico che da sempre avevano espresso analoghi giudizi sul vuoto morale e civile degli italiani. Era avvenuto al momento dell’avvento al potere del fascismo nel ’22, quando le masse e la maggioranza delle classi dirigenti si erano piegate al dittatore. Gobetti aveva indicato nella resa dello Stato liberale l’“autobiografia di una nazione”, una definizione che sarebbe stata ripetuta all’infinito.

Gli avevano fatto eco nel ’23 Giustino Fortunato e Salvemini: «È tutto un fondo di immoralità inconscia e cinica»; «Il popolo non sente le ragioni morali…non si sente affatto oppresso dall’intolleranza, né disgustato dal servilismo». Anche Gramsci aveva parlato di un “popolo di scimmie” che vociavano a vuoto al seguito del più rumoroso e vanitoso primate; masse «informi, ancora polverizzate in un brulichio animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche» (“Avanti!”, 1919). Naturalmente, si riferiva solo alle classi borghesi, piccolo borghesi e ai contadini analfabeti, dando per scontata la “moralità” della classe operaia.

Al di là del moralismo degli intellettuali, in ogni epoca storica fustigatori dei costumi, le amare riflessioni sugli italiani non assolvevano dalle sue colpe la classe dirigente liberale che nel timore della sovversione, aveva privato troppo a lungo il popolo dall’esercizio di una vera cittadinanza. Negli anni del regime poi i governanti fascisti non avevano certo contribuito a colmare il vuoto morale e materiale degli italiani, ancora afflitti dopo venti anni da alti tassi di analfabetismo, di povertà, di abbandono. I valori della libertà e la coscienza dei diritti che pure in epoca prefascista le organizzazioni politiche socialiste, cattoliche e democratiche, tra mille contraddizioni, avevano seminato, erano stati soffocati dal messaggio “credere, obbedire e combattere” che aveva imbrattato gli edifici del regime in tutta Italia.

Ma con l’8 settembre lo slogan fascista aveva perduto ogni significato: non c’era più nulla in cui credere e per cui combattere, nessuno a cui obbedire. Logico che nelle masse prevalesse il disorientamento, la paura, l’istinto a chiudersi nelle proprie case per non sentire e non vedere, lasciando che i “potenti” si scannassero tra loro, pronte però a piegare la testa ai nuovi padroni chiunque essi fossero. La stessa Chiesa invitava a ubbidire alle autorità (ma quali?) raccogliendosi in preghiera per sopravvivere al tempo crudele delle vendette, delle stragi, dei bombardamenti, della fame, del terrore, senza perdere la speranza che la tempesta finisse presto. Bastava avere fede in Dio, nella Divina Provvidenza e nel Pontefice, l’unico potere riconosciuto da milioni di italiani dopo il disfacimento dello Stato l’8 settembre.

Troppo deboli erano ancora i partiti antifascisti, messi fuori legge per un ventennio dal regime fascista che nel suo percorso verso il totalitarismo aveva reso impenetrabile il paese a ogni voce di dissenso. La guerra e la sconfitta avevano portato alla crisi del fascismo, come era emerso il 25 luglio dal tripudio popolare per la caduta del dittatore; ma andavano ancora ricostruiti i legami tra il paese e gli antifascisti che appena ricomparsi sulla scena politica, rivendicavano la guida della nazione con una sola voce e con un solo obiettivo: liberare l’Italia dai nazifascisti. La resistenza sarebbe stata il terreno sul quale legittimarsi agli occhi degli italiani e agli occhi degli alleati come la nuova classe politica antifascista, pronta a dare la vita per riscattare la nazione dalla colpa della guerra fascista. Simona Colarizi 8 Settembre 2023

8 settembre 1943, l'armistizio e la tragedia dei militari. Come Eravamo Redazione Panorama 7 Settembre 2023.

Da Panorama del 20 novembre 2003 - di Elena Aga Rossi La sera dell'8 settembre 1943 veniva annunciata la firma dell'armistizio tra l'Italia e gli angloamericani. La popolazione si riversò nelle piazze per festeggiare la fine della guerra, senza rendersi conto che stava iniziando un periodo ancora più traumatico: l'occupazione tedesca. La storia dell'armistizio tra l'Italia e le potenze alleate è ancora poco conosciuta. Pietro Badoglio, il massimo responsabile del crollo dell'esercito seguito all'annuncio dell'armistizio, per coprire le proprie colpe accusò gli angloamericani di aver anticipato l'annuncio dell'armistizio. In realtà, gli angloamericani durante i negoziati si rifiutarono di indicare la data dell'annuncio, perché doveva coincidere con l'inizio dello sbarco a Salerno. Nello stesso tempo presero sul serio l'offerta di collaborazione attiva avanzata dal generale Giuseppe Castellano, impegnandosi a far sbarcare una divisione aviotrasportata per aiutare la difesa della capitale. Soltanto il 7 settembre scoprirono che gli italiani non controllavano gli aeroporti vicino a Roma e la divisione fu fermata mentre stava partendo. Il governo Badoglio era convinto che uno sbarco alleato sulla Penisola avrebbe spinto i tedeschi a ritirarsi. L'Italia avrebbe potuto uscire dal conflitto in modo indolore, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto. Dopo alcune ore di incertezza, però, il generale Albert Kesselring decise di non ritirarsi e di occupare Roma. Durante la notte dell'8 settembre il governo e il re fuggirono al Sud, portandosi dietro i comandi militari e lasciando l'esercito senza ordini precisi, se non quello di cessare le ostilità contro le forze angloamericane, ma di reagire «a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Alla responsabilità della monarchia e del governo si deve aggiungere la colpevole passività della maggioranza dei comandanti, che abbandonarono i loro posti o accettarono di far disarmare le loro truppe dai tedeschi, condannando così intere divisioni (tra 600 e 750 mila uomini) all'internamento in Germania. Fu persa l'occasione di avere condizioni di armistizio meno pesanti e l'intero Paese fu abbandonato alla violenta vendetta dei tedeschi. Vi furono però divisioni, reparti e singoli ufficiali sia in Italia sia nei territori occupati che rifiutarono di essere disarmati, motivati da un sentimento di onore militare e di fedeltà alla monarchia e alla patria. Date le circostanze, la scelta di resistere con le armi fu spesso una scelta eroica. I militari morti nei combattimenti delle settimane seguenti all'8 settembre o fucilati dopo la resa dai tedeschi furono almeno 20 mila. Soltanto negli ultimi anni si è parlato della tragedia della divisione Acqui a Cefalonia e a Corfù, ma altri episodi di resistenza anche prolungata si verificarono nei Balcani e in molte parti d'Italia: ai confini del Frejus e di Tenda, a Ventimiglia, Piombino, Sarzana, Napoli, Barletta, Boves, per citare solo alcuni luoghi. Particolarmente significativa è la storia del gruppo di San Martino, la cui memoria è rimasta viva a livello locale ma dimenticata dagli storici. La resistenza dei militari, sia quella attiva, come reazione armata, sia quella passiva, come rifiuto di collaborare o di aderire alla Repubblica sociale, è stata per molti anni lasciata alla memoria e al ricordo dei superstiti e delle loro associazioni. Eppure, la scelta di reagire e di resistere con le armi ai tedeschi nel periodo 1943-45, anche se fatta da una minoranza dei militari e dei civili, mostrò la capacità degli italiani, nel periodo più difficile e oscuro della nostra storia, di combattere e morire per il futuro della nazione.

Storia del Generale Ferrante Gonzaga, il primo caduto dopo l'8 settembre 1943. Edoardo Frittoli su Panorama 7 Settembre 2023.  Il nobile comandante rifiutò di arrendersi ai Tedeschi un'ora dopo la notizia dell'armistizio. Fu il primo caduto italiano dopo la resa di Cassibile. 

Il Generale Principe Ferrante Vincenzo Gonzaga di Vescovato ne era già convinto nei giorni successivi alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943: avrebbe compiuto qualunque sacrificio per difendere la Bandiera italiana dall'aggressione degli ex alleati tedeschi.

Gonzaga comandava allora la 222a Divisione di Artiglieria Costiera, impegnata dopo i fatti del luglio 1943 nell'organizzazione della difesa dell'area di Salerno. Le difficoltà e le angosce di quei giorni, Ferrante Gonzaga le riportò in una lettera alla sorella scritta sotto gli incessanti bombardamenti alleati che preparavano lo sbarco nel porto della città che il nobile ufficiale nato a Torino cercò di difendere schiacciato da due forze soverchianti con un manipolo di uomini stanchi, spaventati, ammalati. La storia del primo caduto dopo l'8 settembre è raccontata da Luciano Garibaldi nel libro "Maurizio e Ferrante Gonzaga - Storia di due Eroi" (Ares Editore). Frequenze radio dell'EIAR. Ore 19,45 dell'8 settembre 1943 La radio installata presso il Comando della 222a Divisione di Artiglieria Costiera gracchiò la parole di Badoglio che annunciavano l'armistizio e l'inizio dell'ora più buia per l'Italia. Siamo a Buccoli di Conforti, nei pressi di Eboli dove il Generale Gonzaga si era acquartierato nella villa del Commendator Conforti. Senza esitare, il Comandante stilava l'ordine di ritiro dalla zona costiera di Salerno per organizzare la difesa, nell'imminenza dello sbarco alleato che avverrà la mattina successiva. Arrivavano gli anglo-americani e bisognava resistere contemporaneamente all'assalto tedesco. L'ordine faticò ad arrivare alle batterie costiere a causa del pesante bombardamento aereo che nel pomeriggio dell'8 settembre aveva interrotto molte comunicazioni stradali nella preparazione dello sbarco. P

L'amico tedesco si fa nemico. I tedeschi della 16a Panzerdivision erano stanziati a circa mezz'ora di strada, nel centro di Eboli. Gonzaga mandò allora un ufficiale a comunicare ufficialmente la "cessata collaborazione" con le truppe germaniche in virtù del proclama Badoglio appreso poco prima dalla radio. Giunto al comando tedesco il messo del Generale, Maggiore Pinna, fu rimandato indietro con la richiesta di portare con sè il Generale Gonzaga. Sulla strada del ritorno viene fermato ad un posto di blocco della Wehrmacht, disarmato e fatto prigioniero. Mentre Ferrante Gonzaga è ignaro della sorte del suo ufficiale di collegamento, il Comando della 222a Divisione è preso d'assalto dai Tedeschi. Dopo un breve conflitto a fuoco con feriti, gli ex alleati fanno irruzione all'interno del Comando di Buccoli. Li comandava il Maggiore Von Alvensleben, che chiese ai militari italiani la resa immediata e la consegna delle armi. Quindi si avvicinò a Gonzaga, chiedendo quali fossero le sue intenzioni. Secondo le testimonianze raccolte nel libro, Ferrante Gonzaga dichiarò che "avrebbe mantenuto l'atteggiamento di lealtà nei confronti del Governo italiano" . Von Alvensleben chiese allora al Principe Gonzaga chiarimenti: che atteggiamento avrebbe tenuto nei confronti degli ex alleati germanici? Come interpretava l'ambiguo proclama del Capo del Governo dopo l'armistizio? La tragedia del primo caduto dopo la notizia della resa italiana si consumò in una manciata di secondi. Quando il Maggiore tedesco si fece insistente e minacciò l'uso della forza in caso di resistenza, Gonzaga fece un passo indietro e portando la mano alla pistola Beretta d'ordinanza esclamò "All'armi!" . Subito partì una raca dall'arma automatica di uno dei tedeschi presenti nella stanza, che colpì il Generale con tre colpi al cranio, fatali. Erano le 20,30 circa dell'8 settembre 1943. Verso le 23 il Maggiore Pinna fu scortato dai soldati della 16a Panzerdivision presso il comando della 222a, quando la tragedia si era ormai consumata. Incontrò Von Alvensleben visibilmente scosso. Disse che il nobile Generale era morto da eroe, esclamando "Un Gonzaga non si arrende! Viva l'Italia!" . Poche ore dopo, la costa di Salerno brulicava di uomini e mezzi alleati. Due principi, 12 medaglie Ferrante Gonzaga sarà insignito della Medaglia d'Oro al Valor Militare, di una Medaglia d'Argento, di una Medaglia d'Argento al Valor di Marina e di due Medaglie di Bronzo. il Principe Comandante della 222a Costiera era figlio del Generale Maurizio Ferrante Gonzaga, che partecipò alla guerra Italo-turca e alla Grande Guerra quale Comandante della 9a Divisione di Fanteria e quindi della 53a combattendo sull'Isonzo e a Caporetto. Dopo la guerra sarà eletto Senatore e quindi nominato da Mussolini Comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Ebbe 7 Medaglie al Valor Militare. Insieme, i due Principi Gonzaga hanno totalizzato 12 tra le massime onorificenze militari.

8 SETTEMBRE, IL FASCISMO NON HA PIÙ UNA PATRIA. FRANCESCO SOVERINA su Il Quotidiano del Sud il 3 Settembre 2023

L’8 settembre 1943 in poche ore si assistette allo sgretolarsi dello Stato e del fascismo, al venir meno di qualsiasi punto di riferimento, allo sbandamento di interi reggimenti e privi di direttive

Bastò qualche giorno, dopo l’annuncio del ritiro dell’Italia dal secondo conflitto mondiale, perché il Paese si ritrovasse spaccato in due, investito in gran parte del suo territorio dal ciclone della «guerra totale». È stata, questa, la dolorosa conseguenza del calcolo attendista della Corona e del Comando supremo, dell’ambigua fuoriuscita dall’avventura bellica del fascismo ad opera del blocco di potere che per oltre vent’anni lo aveva spalleggiato e che aveva cercato di rimanere in sella con il colpo di mano del “25 luglio” e la defenestrazione di Benito Mussolini. Nello spazio di alcune ore si assistette allo sgretolarsi dello Stato, al fulmineo venir meno di qualsiasi punto di riferimento, allo sbandamento di interi reggimenti e corpi d’armata, privi di direttive che non fossero indicazioni generiche e contraddittorie.

Preceduta dalle diserzioni di massa del luglio-agosto 1943, quando le sorti della guerra erano irreparabilmente compromesse per l’Italia e si era ormai consumato il divorzio tra il regime fascista e larghi strati della società, la proclamazione dell’armistizio – la sera del fatidico otto settembre – fu immediatamente seguita dall’ignominiosa fuga di Vittorio Emanuele III, del maresciallo Badoglio e dei vertici militari, atterriti dalla prospettiva di subire la ritorsione dei tedeschi. Per le modalità con cui fu reso pubblico e attuato, l’armistizio provocò la repentina dissoluzione degli apparati statali, la decomposizione delle forze armate, la defezione delle gerarchie militari.

Senza aver ricevuto alcun ordine chiaro e tempestivo dal re e dal capo del governo, Pietro Badoglio, la maggior parte dei generali e degli ufficiali intermedi non pensò ad altro se non a dileguarsi.

Braccati dalle truppe germaniche, che erano affluite massicciamente in Italia per sottomettere gli ex alleati, centinaia di migliaia di soldati si diedero alla fuga, intraprendendo una vera e propria odissea per far ritorno a casa. Abbandonate le uniformi e le armi, alla disperata ricerca di cibo e indumenti, i più fortunati beneficiarono di cure e assistenza, dell’aiuto prezioso delle popolazioni locali, specialmente delle donne, protagoniste di quel fenomeno collettivo che è stato definito «maternage di massa» dalle studiose più inclini (in prima battuta Anna Bravo) a individuare e a indagare forme specificamente femminili di «resistenza civile».

Tra di essi, come tra i civili, l’illusione della pace così tanto agognata, suscitata dalla notizia della cessazione delle ostilità contro gli Alleati, svanì subito; incombeva, invece, la tragica realtà di un conflitto stabilmente penetrato nel “vissuto” e nel “quotidiano”, sempre più sconvolti dallo scarseggiare dei viveri, dal dilagare della fame, dallo sfollamento delle città esposte a martellanti incursioni aeree, che soprattutto nel 1943 seminarono morti e distruzioni.

Con estrema rapidità la Wehrmacht disarmò l’esercito italiano e assoggettò i quattro quinti della Penisola, impossessandosi di un enorme bottino: 1.250.000 fucili, 33.000 mitragliatrici, quasi 10.000 pezzi d’artiglieria, 15.000 automezzi e ingenti quantità di carburante, munizioni e materiale vario. Come ha sottolineato la storiografia, si trattò dell’ultimo, grande successo militare della Germania nazista.

Predisposta sin dal maggio 1943, quando si andavano accentuando le difficoltà dell’alleato fascista, l’Operazione Achse – era questo il nome in codice del piano elaborato dallo stato maggiore tedesco – portò all’internamento di circa 800.000 soldati e ufficiali italiani, la gran maggioranza dei quali rifiuterà di aderire allo Stato fantoccio della RSI capeggiato da Mussolini e sarà impiegata nel lavoro coatto all’interno degli ingranaggi economici del Terzo Reich. Classificati come Imi (Internati militari italiani), in base all’espediente trovato dallo stesso Hitler, questi nostri sventurati connazionali furono privati della tutela accordata ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra e pure di quella assicurata dalla Croce Rossa Internazionale.

Ad essere inchiodati a questo triste destino saranno, tra gli altri, due napoletani rinchiusi nel campo 12°/D di Trier (Treviri): Michele Ottaiano e Vincenzo Meo. Il primo, catturato in Grecia e costretto ad un viaggio di dieci giorni in un «carro bestiame», veniva quotidianamente condotto a sgobbare nelle fonderie, «in condizioni disumane di vestiario e di cibo». Sarà utilizzato anche nell’ingrato compito di seppellire i numerosissimi morti causati da un bombardamento sulla città di Kassel. Il secondo, prelevato dai tedeschi – insieme con altri commilitoni ricoverati nel 52° ospedale da campo situato ad Atene – sarà destinato dall’organizzazione Todt a lavorare in una panetteria nella provincia di Coblenza.

Disprezzati – alla luce di un criterio di valutazione politico-razziale – come «traditori badogliani» e «meridionali», gli Imi nei campi di Küstrin, Sandbostel, Wietzendorf, ecc., patirono la fame e vessazioni di ogni genere: più di 50.000 non riusciranno a rivedere i loro cari e altrettanti moriranno al loro ritorno in Italia per malattie contratte durante la prigionia. Su questa pagina, a lungo misconosciuta, ha richiamato con forza l’attenzione Alessandro Natta ne L’altra Resistenza, un libro non a caso uscito nel 1997, a oltre quarant’anni di distanza dall’originaria stesura.

Nel rievocare, nella premessa, quelle vicissitudini, colui che è stato il successore di Enrico Berlinguer alla guida del Pci (1984-1988) ha rimarcato come gli italiani presi dai tedeschi si convinsero ben presto di essere dinanzi «a qualcosa di diverso dal potere di uno Stato ostile», di doversi misurare «con un nemico politico – il nazifascismo – con un nemico straniero e uno di casa nostra». Per questo motivo la decisione di rimanere volontariamente nelle spire della detenzione assunse «il senso di un pronunciamento e il carattere di una opposizione politica e ideologica», rendendo necessaria la rottura con il bagaglio di idee e certezze del periodo fascista, spesso attraverso un travagliato passaggio.

Contro i soldati del regio esercito che, all’indomani dell’armistizio, provarono a non soggiacere alle intimazioni naziste, come pure nei confronti dei civili, specialmente quelli che si trovavano a ridosso delle zone di combattimento o fecero causa comune con i militari italiani, le truppe tedesche agirono in maniera spietata. Si pensi a quanto accadde l’11 settembre a Nola, in provincia di Napoli, dove giustiziarono a sangue freddo 10 ufficiali, o a Barletta, in Puglia, dove reparti della divisione Hermann Göring si scontrarono con gli uomini del 15° reggimento costiero, sostenuti dalla popolazione locale. Pesantissimo il bilancio finale: 37 morti tra i militari italiani (altre decine di cadaveri in uniforme saranno poi rinvenuti nei dintorni del centro abitato), nonché 24 civili, 2 netturbini e ben 11 vigili urbani, che furono fucilati in quanto ritenuti responsabili dell’ordine pubblico.

Tra le file di un esercito in precipitoso scioglimento non mancarono gli atti di coraggio, che videro distinguersi decine di migliaia di soldati e ufficiali in Italia, nei Balcani e nelle isole greche. Il caso più noto e cruento fu quello che si concluse con il massacro della guarnigione di stanza a Cefalonia, in gran parte composta da militari della divisione “Acqui”, oltre che da finanzieri, carabinieri e marinai. Il rifiuto del diktat della Wehrmacht, suggellato da un referendum interno – un’autentica novità in palese contraddizione con la rigida concezione gerarchica della disciplina militare italiana – fu pagato a carissimo prezzo: migliaia e migliaia le vittime (alle gravi perdite negli scontri a fuoco si aggiunse un numero imprecisato di caduti dopo la resa tra fucilazioni, stragi e affondamenti di navi su cui erano stati imbarcati i superstiti).

Complessivamente elevato risulterà il sacrificio degli uomini in divisa nel contrastare gli ex camerati; circa 90.000 daranno la propria vita nella lotta di liberazione dal nazifascismo e al fianco dei partigiani jugoslavi e albanesi. Più o meno nel giro di un mese, a partire dall’8 settembre, migliaia di militari nonché centinaia di civili furono falciati dal fuoco germanico in una miriade di episodi che spesso non avevano alcuna apparente connessione, ma che segnarono «l’alba tragica» della Resistenza, il cui significato non può essere compreso se si prescinde dalla situazione dell’Italia in quel tornante storico. Come attestarono i fatti di Porta S. Paolo a Roma (9-10 settembre ´43) e anche quanto avvenne a Napoli dopo l’armistizio, i civili in più di un’occasione si affiancarono ai militari nel tenere testa agli invasori nazisti.

Nel marasma generale seguito al collasso dello Stato ognuno cercò di aggrapparsi al piccolo gruppo, alla rete amicale, ai legami parentali, oscillando fra gli stati d’animo della paura e della speranza, fra la tentazione di «stare alla finestra» e la necessità di compiere una scelta, cosa quest’ultima tanto più difficile dopo che vent’anni di dittatura fascista avevano anestetizzato la facoltà di decidere autonomamente. In quel frangente variegata è stata la gamma dei comportamenti: si andò dal disorientamento alla presa di coscienza politica, poli del «campo del possibile», dentro cui – come ha osservato Claudio Pavone in Una guerra civile – furono spinti ad addentrarsi centinaia di migliaia di italiani, che erano stati ‘educati’ ed indottrinati dal fascismo.

Il «trauma dell’8 settembre» aprì la fase cruciale delle «scelte», del momento in cui occorreva decidere se schierarsi o meno, se e da quale parte stare: se attendere il placarsi della bufera, se invece imbracciare le armi contro il nazifascismo o sposare la causa del terrificante “Nuovo Ordine” nazista, dei fautori del motto «credere, obbedire, combattere». Mentre già gli «unni meccanizzati» colpivano con stragi e rappresaglie civili e militari sbandati, da una coraggiosa disobbedienza di massa nacque – al Nord come al Sud – la Resistenza.

Civili e militari sbandati, non pochi dei quali meridionali, misero allora in moto un processo che portò alla congiunzione tra l’antifascismo politico della clandestinità e dell’esilio, o ridestatosi sotto l’incedere della guerra, e quello della «generazione ribelle» di giovani operai e studenti, la cui maturazione politica fu potentemente accelerata dal turbinoso precipitare del conflitto mondiale. Nel lungo e cruento settembre ’43 si incontrarono e amalgamarono l’onda breve, ma prorompente, della resistenza civile e l’onda lunga dell’antifascismo storico nelle sue differenti articolazioni, i cui contenuti politici si saldarono progressivamente alle motivazioni di ampi strati della società, ponendo così le premesse del cammino – un cammino accidentato e tortuoso – verso la democrazia e la repubblica.

La drammaticità dei risvolti e delle implicazioni concernenti la cesura dell’8 settembre – una vera e propria data spartiacque nella storia dell’Italia contemporanea – è stata resa bene dal film di Luigi Comencini del 1960, Tutti a casa, in cui il sottotenente Innocenzi, interpretato da Alberto Sordi, finito con i suoi uomini sotto il fuoco di reparti germanici, esprime tutto lo smarrimento e sconcerto di quei giorni con la paradossale frase: «è accaduta una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!» E con il «tutti a casa» l’Italia divenne davvero – secondo il giurista sardo Salvatore Satta – «terra di nessuno», andando incontro alla «morte della patria».

Il suo punto di vista, le sue considerazioni verranno ripresi e fatti propri intorno alla metà degli anni Novanta del Novecento dagli storici Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia, che hanno visto dispiegarsi, in seguito a quegli eventi, lo sfaldamento della nazione e della sua identità.

In realtà, con l’8 settembre entrò irrimediabilmente in crisi l’idea fascista di patria, la sua declinazione in senso autoritario e imperialistico, in nome della quale il regime mussoliniano si era lanciato in ben tre guerre, di cui l’ultima gli risultò fatale. Ne uscì – è vero – profondamente screditata l’idea stessa di patria, anche se i resistenti ne proporranno una nuova versione, antitetica a quella fascista, raccordando il motivo patriottico alle aspirazioni alla libertà e alla giustizia sociale, calpestate dalla ventennale dittatura in nome della trinità ideologica «Dio, patria e famiglia».

Estratto dell'articolo di Andrea Parodi per “la Stampa” il 25 luglio 2023.

Osservatelo mentre passeggia sulla terrazza con lo sguardo truce. In quell'animo non vi è dignità, in quel cuore non vi è umanità. Sembra una belva in gabbia». Parole che descrivono Benito Mussolini, da pochi giorni deposto a seguito del suo arresto, il 25 luglio 1943. 

La terrazza è quella di Villa Webber, all'isola della Maddalena, dove per venti giorni, dal 7 al 28 agosto, Mussolini viene rinchiuso prima del trasferimento al Gran Sasso. 

A scrivere queste parole, lucide, è un testimone d'eccezione. L'autore è Edoardo Curti, un maresciallo dei Carabinieri Reali scelto dagli Alti Comandi per la missione più importante della sua vita: scortare e sorvegliare l'ex Duce nelle settimane immediatamente seguenti alla sua deposizione. Parole che emergono da un diario, casualmente riscoperto dai due figli solamente quindici anni fa, che sta per essere pubblicato da Edizioni Remedios, piccola casa editrice di Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, dove Curti andrà a vivere dopo la guerra, al comando della locale stazione dei Carabinieri.

(...)

Da due anni Edoardo Curti, che nel 1943 ha 43 anni, si trova a Roma in missione con scopi investigativi per conto del Comando Generale dei Carabinieri Reali. 

Quel 27 luglio viene scelto come uno degli uomini di fiducia per la missione. Mussolini viene portato prima in auto a Gaeta, poi in nave a Ponza, e da lì, sempre via mare, a La Maddalena, in Sardegna, per la sua permanenza più lunga, prima che un idrovolante lo trasporti «in continente», con destinazione Gran Sasso.

«È probabile che mio padre – spiega Graziano, l'altro figlio – abbia sentito la necessità, in quei giorni, di scrivere un diario, ben conscio di essere testimone di un momento di grande importanza, non solo per la sua vita professionale». 

Dettagli che hanno colpito soprattutto la professoressa Giovanna Sotgiu, storica della Maddalena, che ha ritrovato passaggi di estrema importanza. «Per esempio, viene descritto per la prima volta il numero della scorta di Mussolini – spiega Sotgiu – composta da 70 carabinieri e 30 metropolitani». Ma anche incroci di testimonianze che la convincono sulla bontà del racconto di Curti: «Vengono citate le diverse visite di don Salvatore Capula, dettagli che coincidono con la versione del prelato». 

Don Capula è il parroco della Maddalena negli anni della guerra. Viene chiamato da Mussolini per il supporto religioso, compresa la Messa officiata in ricordo del figlio Bruno, morto esattamente due anni prima in un incidente aereo. Celebrazione a cui lo stesso Curti partecipa, descrivendola nel diario. Sotgiu è tra i pochi ad aver avuto accesso alle carte di don Capula, custodite ancora oggi in un luogo segreto per sua specifica richiesta.

Durante il periodo della Maddalena, Mussolini è ospitato in località Padule, all'interno di Villa Webber, residenza ottocentesca di James Phillipps Webber, un ricco inglese che la costruisce in un improbabile stile moresco-italiano come propria abitazione per gli ultimi anni della sua vita. Risulta essere in cattive condizioni già all'epoca, oggi si trova in uno stato di completo abbandono. 

Qui l'ex Duce (che Curti spesso paragona a Napoleone, per il comune destino di essere confinato in un'isola dopo la destituzione) viene spesso apostrofato con considerazioni personali. «Curti è un uomo che conosce bene il suo tempo ed è in grado di valutare i suoi contemporanei sulla base dei loro comportamenti – spiega Sotgiu -; profondamente negativa è la valutazione sulla impreparazione mostrata dalle autorità in tutta la vicenda dei trasferimenti di Mussolini». 

Nel diario più volte esprime la sua contrarietà su quelle scelte. Si chiede perché scegliere Ponza (dove racconta esserci «solo due vecchie mitragliatrici» a difendere l'intera isola), ma nutre riserve anche sulla Maddalena. Dal diario di Curti emerge anche un altro dato, inedito, sottolineato dalla professoressa Sotgiu: «Durante la sua permanenza a Maddalena Badoglio consente a Mussolini di ricevere doni che arrivano da Adolf Hitler e da Hermann Göring – conclude -; Hitler lo omaggia di 22 volumi di opere di Friedrich Nietzsche, mentre Göring gli farà recapitare un busto dell'imperatore Federico II di Prussia». 

Sullo sfondo la preoccupazione maggiore è quella che il celebre prigioniero possa finire in mano tedesca o angloamericana. «Sarebbe un'onta incancellabile per l'Italia», dice. Precisa anche quale sia l'estremo comando superiore che gli viene impartito: «Gli ordini di Roma sono di non lasciarlo cader vivo e, in ogni caso, meglio lascialo cadere in mano inglese che tedesca: gli si scarica la pistola addosso e lo si spegne!».

Il governo fascista. Chi era Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini tra i congiurati del 1943. La sua posizione nel governo si defilò, tanto che nel 1943 fu tra i congiurati che prepararono e votarono la mozione contro Mussolini nella riunione del 25 luglio del Gran consiglio. David Romoli su L'Unità il 25 Luglio 2023

Galeazzo Ciano è stato uno dei più giovani capi fascisti. È nato nel 1903 a Livorno, figlio del conte Costanzo, che poi per anni fu il presidente della Camera durante il fascismo. Ciano entrò in diplomazia e nel 1930 sposò Edda Mussolini, prima figlia del duce, che aveva appena compiuto 20 anni. Di lì iniziò la sua carriera politica brillantissima.

A trent’anni capo ufficio stampa del fascismo, due anni dopo capo del Minculpop (il potentissimo ministero stampa e propaganda e cultura popolare) a 33 anni ministro degli esteri. Da principio Ciano fu un grande estimatore di Hitler. Iniziò invece ad opporsi all’alleanza coi tedeschi dopo il patto Ribbentrop-Molotov (Germania Urss) del 1939. La sua posizione nel governo si defilò, tanto che nel 1943 fu tra i congiurati che prepararono e votarono la mozione contro Mussolini nella riunione del 25 luglio del Gran consiglio.

Dopo l’8 settembre, quando arrivarono i tedeschi a Roma, affittò un aereo per fuggire in Spagna, con la moglie e i due figlioletti. Ma l’aereo fu dirottato a Monaco. Finì nelle mani dei tedeschi che lo portarono nel carcere di Verona e lì lo processarono insieme ad altri gerarchi che avevano votato la mozione contro Mussolini. Fu condannato a morte. Sua moglie Edda fece di tutto per ottenere la grazia dal padre. Non la ottenne. L’11 gennaio del 1944, all’alba, Ciano fu fucilato nel cortile del carcere.

David Romoli 25 Luglio 2023

Il governo fascista. Chi era Luigi Federzoni, il colto tra i gerarchi fascisti. Mussolini gli diede una carica d’onore: la presidenza del Senato. Restò lì fino al 1939. Nel 1943 fu tra i protagonisti della rivolta contro il Duce. David Romoli su L'Unità il 25 Luglio 2023

Luigi Federzoni è nato a Bologna nel 1878. Ha studiato Lettere e poi Giurisprudenza. Si è laureato in letteratura italiana con un maestro d’eccezione: Giosuè Carducci. Studi e politica sono andati di pari passo. Prima della guerra fondò insieme ad Enrico Corradini un movimento politico nazionalista che dopo la marcia su Roma confluì nel partito fascista. Federzoni era un intellettuale e uno scrittore.

Nel 1919 entrò in Parlamento con il partito liberale. Ma aveva idee reazionarie. Mussolini puntò subito su di lui e nel suo primo governo lo nominò ministro delle Colonie, cioè lo mise nel posto nel quale era stato Giovanni Amendola, leader dell’antifascismo liberale e padre di Giorgio. Federzoni qualche anno più tardi diventò ministro dell’Interno, però non aveva buoni rapporti coi fascisti più radicali, in particolare con Farinacci, e in polemica con Farinacci si dimise da ministro. Mussolini gli diede una carica d’onore: la presidenza del Senato.

Restò lì fino al 1939. Nel 1943 fu tra i protagonisti della rivolta contro il Duce. A casa sua, probabilmente, fu redatto l’ordine del giorno Grandi che mise in mora Mussolini e permise al re di arrestarlo. Nel 1944 fu condannato a morte, come gli altri gerarchi ribelli, ma riuscì a rifugiarsi nell’ambasciata portoghese in Vaticano. Dopo la Liberazione di Roma fuggì in Spagna. Nel 1945 fu condannato all’ergastolo dall’alta Corte di Giustizia. Due anni dopo Togliatti decretò l’amnistia e Federzoni tornò in Italia. Morì vent’anni più tardi.

David Romoli 25 Luglio 2023

25 luglio 1943. Chi era Dino Grandi, il gerarca fascista che fece cadere Mussolini. Fu sottosegretario agli Interni, agli Esteri e ministro ad interim. Dal 1942 era convinto che la guerra fosse perduta, iniziò così a cercare una via per scalzare il duce. David Romoli su L'Unità il 25 Luglio 2023 

“Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent’anni”, disse Dino Grandi a Galeazzo Ciano nel 1942. Il genero del duce non ne fece parola ma probabilmente lo stesso Mussolini non si faceva grandi illusioni sulla fedeltà a lui e al regime dell’uomo che, col suo odg approvato dal Gran consiglio il 25 luglio del 1943, ne avrebbe determinato la caduta.

Era nato a Mordano, in Romagna, nel 1895, figlio dell’amministratore di un latifondo e di una maestra elementare: famiglia relativamente benestante anche se il titolo nobiliare, conte di Mordano e poi anche depositario del Collare dell’Annunziata che lo rendeva “cugino del re”, arrivarono solo nel 1937. La cuginanza onorifica, comunque, non spinse mai il sovrano a fidarsi del gerarca. Il giudizio di Vittorio Emanuele era drastico: “Quell’uomo non mi soddisfa. Non è un elemento sicuro, non ha schiena e con Mussolini recita una doppia parte”. Dunque non lo mise al corrente del colpo di stato che aveva in mente e che sarebbe scattato comunque, anche senza il voto del Gran consiglio, né lo avvertì della decisione di nominare Badoglio al posto di Mussolini, scelta che spiazzò completamente Grandi sovvertendone i piani.

Studente di giurisprudenza, solidale con Mussolini quando fu cacciato dal Partito socialista per le sue posizioni interventiste, prima socialriformista poi vicino a Prezzolini, Grandi si arruolò a vent’anni tra gli alpini e fu congedato nel 1919 con un paio di medaglie. A San Sepolcro non c’era e, pur essendo un nazionalista, forse non avrebbe mai preso parte attiva alla lotta politica se nell’ottobre 1920 un gruppo di militanti di estrema sinistra non gli avesse sparato in mezzo a una strada centrale di Imola e il giorno dopo il suo studio non fosse stato attaccato e distrutto da un altro gruppo di militanti. A quel punto si iscrisse al fascio di Bologna ma ancora nel 1921 il prefetto Cesare Mori, dopo aver riassunto in un rapporto le sue confuse peripezie politiche, lo descriveva come “elemento politicamente ancora molto giovane e incerto”. Nello stesso anno fu eletto deputato ma l’elezione, come quelle di Bottai e Farinacci, fu invalidata perché troppo giovane per il Parlamento.

Anche tra i ras le sue posizioni furono oscillanti: fu uno dei capi dello squadrismo che imposero a Mussolini la fine del patto di pacificazione con i socialisti nel 1921, ma l’anno dopo fu lui a formare un effimero patto con i repubblicani guidati da Ubaldo Comandini. Si oppose alla nascita del partito milizia e per questo si dimise dalla Direzione, ma le dimissioni furono respinte, e non partecipò alla marcia su Roma. Dopo la presa del potere di Mussolini, Grandi era in realtà deciso ad abbandonare la politica, o almeno a limitare al massimo l’impegno pubblico. Lo richiamò in servizio proprio il duce, nel 1924, convinto che il profilo moderato avrebbe permesso di sfondare nell’elettorato liberale.

Grandi fu sottosegretario agli Interni e poi agli Esteri, con Mussolini ministro ad interim in entrambi i casi, e ministro degli Esteri dal 1929 al 1932. Rimase un moderato anche alla guida della politica estera e anche molto apprezzato all’estero, due elementi che convinsero il duce a metterlo alla porta con l’accusa di “essere andato a letto con Francia e Gran Bretagna”. Mussolini non si perse in spiegazioni, defenestrò il ministro, sostituendolo con sé stesso, tramite conciso biglietto: “Verrò a prendere le consegne domattina alle 8”. Grandi finì ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939 e si spese invano per un’alleanza dell’Italia con il Regno Unito invece che con la Germania.

Tornato in Italia, Grandi diventò presidente della Camera e guardasigilli, rifiutò l’incarico di governatore della Grecia e dal 1942, convinto che la guerra fosse ormai perduta, iniziò a cercare una via per scalzare il duce e spingere l’Italia verso la pace separata. Considerava “necessario e urgente” il sacrificio di Mussolini. “Lui, la dittatura, il fascismo debbono sacrificarsi dimostrando con questo sacrificio il loro amore per la Nazione”, scrisse nel suo diario. In concreto, però, Grandi non fece nulla tranne sfogarsi a più riprese con Bottai e Ciano e affrontare il problema con il sovrano, che però non se ne fidava affatto. Fu lo sbarco degli alleati in Sicilia a offrirgli l’occasione per tentare il colpo con l’odg del 25 luglio, il cui contenuto aveva comunque già esposto preventivamente a Mussolini il 23 luglio.

Tra i gerarchi che rovesciarono Mussolini, solo Grandi e Federzoni erano del tutto consapevoli che l’obiettivo fosse la caduta del duce e del regime. Tutti gli altri si mossero confusamente o, nel caso dei più lucidi come Bottai, nella convinzione di poter salvare il regime sacrificando il suo fondatore e capo. I progetti di Grandi e Federzoni furono vanificati dal colpo di Stato ordito dal re: Grandi dovette accontentarsi di essere spedito in Spagna, il 18 agosto, con il compito di prendere contatti con gli alleati. Roosevelt mise però il veto a qualsiasi suo incarico futuro.

Grandi passò in Portogallo, visse per un po’ poveramente dando lezioni private, poi la Fiat di Valletta lo risollevò con una serie di incarichi di rappresentanza e l’ambasciatrice degli Usa Clara Boothe Luce, agguerritissima anticomunista, lo prese sotto la sua ala. Grandi si comprò una tenuta in Brasile, nei ‘60 tornò in Italia e aprì una fattoria modello, morì nel 1988 a 93 anni. La sua memoria è rimasta per sempre legata a una sola notte: quella tra il 24 e il 25 luglio 1943.

David Romoli 25 Luglio 2023

Roma, 25 luglio 1943: il Gran Consiglio sfiducia Mussolini. FRANCESCO SOVERINA su Il Quotidiano del Sud il 23 Luglio 2023.

La nottata in cui la storia del regime fascista cambierà per sempre, il Gran Consiglio del Fascismo approva la sfiducia al Duce Benito Mussolini

In una Roma semivuota, nell’afosa notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, quando la guerra appariva oramai perduta e il Paese era allo stremo, si tenne a Palazzo Venezia, a oltre tre anni e mezzo dalla sua ultima seduta, il Gran Consiglio del Fascismo, che “sfiduciò” Benito Mussolini con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

«Il Gran Consiglio – questo il passaggio-chiave del documento scritto e letto dall’influente gerarca – dichiara […] l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali […]; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re […] affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate […] quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono […]». Con il collasso politico-istituzionale del 25 luglio si era arrivati all’atto finale della decomposizione del regime fascista.

In quella «torrida estate» giungeva a maturazione la svolta decisiva nell’andamento del secondo conflitto mondiale, tanto sul piano internazionale, quanto su quello interno. Dopo le battaglie di El Alamein in Nord-Africa e di Stalingrado in Unione Sovietica, andava profilandosi il fallimento dell’«assalto al potere mondiale» da parte del nazifascismo, che divenne evidente con la vittoria dell’Armata Rossa nel più gigantesco scontro di carri armati nel saliente di Kursk, con l’offensiva statunitense nel Pacifico e il rovinoso cedimento dell’Italia, il «ventre molle» dell’Asse (Winston Churchill).

Ad onta della spavalda sicurezza con cui il Duce esortò nel «discorso del bagnasciuga» a inchiodare le truppe alleate sulla battigia, non appena avessero tentato di mettere piede in Sicilia, l’Operazione «Husky», scattata il 10 luglio 1943, una delle più imponenti operazioni aeronavali della guerra (2.800 navi con 160.000 uomini, 600 carri armati e 1.000 cannoni), portò nel giro di quasi due mesi alla conquista anglo-americana della grande isola del Mediterraneo.

Né servì a impedire il precipitare dell’Italia nel baratro della disfatta la riunione di Feltre del 19 luglio ´43 tra gli stati maggiori italo-tedeschi, tra un Hitler preoccupato e adirato e un Mussolini stanco, fisicamente sofferente e soprattutto incapace di farsi ascoltare e aiutare dal potente quanto diffidente partner. Proprio quel giorno, a centinaia di chilometri di distanza dal vertice italo-tedesco, Roma subiva il primo, terrificante bombardamento alleato, che provocò circa 3.000 morti e 11.000 feriti, nonché distrusse 10.000 case, lasciando 40.000 cittadini senza tetto. Al termine di quel micidiale attacco dal cielo, Pio XII si recò a visitare le zone colpite, dando la sua benedizione alle vittime sul Piazzale del Verano.

Si era alla resa dei conti per il regime fascista, che aveva trascinato il Paese nell’avventura del più grande conflitto bellico della storia, senza modernizzarne e irrobustirne l’apparato produttivo e la macchina militare, anzi depauperandone le risorse disponibili prima con l’aggressione all’Etiopia (1935-´36) poi con la partecipazione alla guerra civile spagnola (1936-´39). Di qui la sequela ininterrotta, per tre anni, di cocenti sconfitte in Grecia, in Africa, nella lontana e gelida Russia.

Il susseguirsi di notizie catastrofiche di lutti e di ritirate dall’Urss all’Africa rese sempre più dura e angosciosa la vita delle comunità e popolazioni, rurali ed urbane, alle prese con i problemi derivanti dagli sfollamenti, dalla devastazione di edifici e dimore, dall’incombere della miseria e della penuria alimentare, dal vacillare dell’intera struttura amministrativa e statale. La situazione più drammatica era quella di Napoli, la «regina del Mediterraneo», il «porto dell’impero», ‘seppellito’ da un diluvio di bombe, che costrinse tanti suoi abitanti a stabilire il proprio domicilio nelle cantine, ammassandovi poltrone, fornelli e materassi.

Con il montare del malcontento, sempre più serpeggiante in larghi strati della società, si offuscavano irreparabilmente il prestigio del regime e la popolarità del Duce; regime e Duce sul banco degli accusati per aver condotto il Paese alla rovina, per aver fallito la sfida cruciale della prova bellica. Fu con la guerra che il fascismo perse la sua scommessa storica: uno scacco bruciante per quanti – gerarchi e propagandisti – avevano alimentato incessantemente il mito della proiezione espansiva, del destino imperiale dell’Italia, erede dei fasti dell’antica Roma. Furono i morti nei deserti africani, sui monti balcanici, nelle nevi russe, il razionamento dei viveri, l’intensificarsi dei bombardamenti aerei sui principali centri urbani a mostrare la distanza, non più occultabile, fra propaganda e realtà; a scavare un fossato incolmabile tra il regime e gran parte della popolazione.

Tra la fine del 1942 e i primi mesi del 1943 la disgregazione del «fronte interno» stava compiendo il suo ultimo «giro di boa», come attestarono gli scioperi del marzo ´43 nel «triangolo industriale», che segnalarono lo scollamento delle masse popolari dal fascismo. Il 5 marzo di quell’anno, che si configurò come un vero e proprio spartiacque nelle vicende belliche su scala mondiale, mentre decine di migliaia di ateniesi manifestavano contro il lavoro forzato imposto dai nazisti e cadevano a centinaia sotto i colpi dei panzer tedeschi, prendeva il via a Torino un’ondata di scioperi per il pane, la pace e la libertà, che per più di dieci giorni paralizzò le maggiori fabbriche delle più importanti città del Nord. Pur traendo origine da motivazioni economiche, essa rappresentava un clamoroso atto di insubordinazione verso il fascismo e la sua guerra. Si trattava della prima, riuscita, protesta operaia di massa nell’Europa nazifascista.

Qualche mese più tardi, a giugno, anche il Napoletano fu scosso da agitazioni operaie, mentre già da un po’ il mondo rurale lanciava segnali crescenti di inquietudine e insofferenza: era nelle campagne che si avvertiva in modo ogni giorno più chiaro quella paralisi del regime che sarebbe sfociata nel crollo verticale del 25 luglio. Con il manifestarsi di una disaffezione collettiva, prendeva corpo lo sfaldamento delle basi di massa della dittatura. Fu in quel frangente che i ceti dominanti decisero di sganciarsi dal regime, separando il proprio destino da quello del Duce.

Sia pure tra esitazioni e incertezze, Corona, Vaticano e mondo degli affari addivennero al divorzio da Benito Mussolini, da colui che per un lungo periodo era stato il loro inamovibile referente. La soluzione messa in atto con la «congiura di palazzo» del 25 luglio fu la defenestrazione dell’«Uomo della Provvidenza». Sacrificando Mussolini, si tentò di salvare l’impalcatura autoritaria dello Stato e di proteggere gli interessi e i privilegi primari degli strati alti della società italiana.

La modalità con cui il Duce venne estromesso dalle stanze del potere politico metteva a nudo – come ha sottolineato il dirigente di primo piano del Pci, Giorgio Amendola – le difficoltà e i limiti dell’antifascismo storico, non in grado di assestare, dopo l’insorgenza operaia, la spallata finale al fascismo barcollante, decapitato invece dalla trama ordita dal re, dagli alti gradi dell’esercito e da una parte dei gerarchi del regime per preservare l’architrave su cui per vent’anni si era retto il «compromesso autoritario» con gli ambienti economicamente dominanti, in preda ora alla «grande paura» per il possibile ridestarsi dello spettro della sovversione e della rottura degli assetti sociali.

La caduta del fascismo e del suo leader, che venne arrestato lo stesso 25 luglio ’43, dopo un breve colloquio con Vittorio Emanuele III, avvenne senza suscitare la benché minima reazione da parte della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e del Partito Nazionale Fascista, che pur contava quattro milioni di iscritti. Fu festeggiata, invece, da tantissimi italiani, la cui esultanza mal celava la speranza che l’Italia si tirasse fuori dal conflitto. Purtroppo, la guerra “ufficialmente” sarebbe continuata. Con tutti i suoi orrori, con la riduzione della penisola a teatro di un terribile conflitto totale.

Lo chiarì subito il nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, generale fedele alla monarchia ma profondamente compromesso con il fascismo. Pronto ad usare la mano pesante nei riguardi delle manifestazioni antifasciste e popolari (oltre 90 le vittime dei «quarantacinque giorni» badogliani), annunciò la sera dell’8 settembre l’armistizio con gli Alleati. Iniziò allora il mese più difficile del Novecento italiano, segnato dalla fuga ignominiosa del re e di Badoglio, dalla liquefazione dell’esercito e dello Stato, dall’occupazione tedesca, ma anche dal congiungersi del dissenso esplicito al fascismo con quello carsico, inabissatosi durante il Ventennio, e con quello dolorosamente maturato nel corso della guerra.

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Il 25 luglio 1943. Come è nato il governo Badoglio, storia della congiura del 25 luglio 1943. Mussolini era stanco, spaventato, consapevole di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara. Simona Colarizi su L'Unità il 22 Luglio 2023 

È opinione diffusa che solo la caduta di Putin possa mettere fine alla guerra in Ucraina. Ritenere però che lo zar possa lasciare il potere sull’onda di una rivolta popolare, è un’illusione smentita dalla storia di tutte le dittature novecentesche in Europa. Gli Stati totalitari, Germania nazista, Italia fascista, Unione Sovietica, ma anche tutta la corona di Stati autoritari, più o meno filonazisti o filofascisti, dalla Polonia all’Ungheria, ai Regni dei Balcani, avevano messo radici così profonde nei loro paesi da impedire ogni moto di ribellione delle masse.

Coercizione e persuasione, repressione, violenza ma anche organizzazione e una macchina del consenso resa più efficace dall’uso dei nuovi media, avevano reso la popolazione inerte e passiva, tranne naturalmente fasce di opposizione, decisamente minoritarie, tenute sotto stretto controllo da potenti reti poliziesche. Dunque la fine dei dittatori va analizzata attraverso una molteplicità di elementi e di protagonisti, compresi i poteri per così dire paralleli, che più o meno lentamente corrodono il tessuto istituzionale, politico ed economico, come è appunto avvenuto in Italia in quel fatidico 25 luglio 1943 – ottanta anni fa.

Il primo elemento fondamentale che fa da cornice all’evento finale, è naturalmente la guerra, una guerra ormai perduta, come era generale convinzione fin dall’autunno 1942 quando a Stalingrado iniziava l’assedio alla grande armata nazista e fascista, preludio alla rovinosa ritirata dall’intero territorio russo. A valanga seguivano le sconfitte in Africa, fino alla resa degli italiani e dei tedeschi prima a Tripoli poi a Tunisi nel maggio 1943. A quel punto lo sbarco alleato in Sicilia era solo questione di giorni. Le spie fasciste che testavano quotidianamente lo “spirito pubblico” – come si diceva allora – segnalavano il completo cedimento della “macchina del consenso” al regime, l’odio crescente della popolazione nei confronti dei gerarchi fascisti e persino di Mussolini, colpevole di aver precipitato l’Italia in un conflitto perduto, costato solo morte, distruzioni, sofferenze e fame.

Troppo deboli però erano le reti dei partiti antifascisti per suscitare un’insurrezione popolare, tanto più che la più organizzata, quella del Pci contava tra il ’42 e il ’43 poco più di 6.000 militanti in tutta Italia. Certo, nel marzo del 1943 per la prima volta esplodevano grandi scioperi operai nelle fabbriche del Nord, ma non bastavano a rovesciare il regime, anche se aprivano una larga crepa nell’edificio della dittatura già scosso dall’interno e abbandonato dai suoi fiancheggiatori. Persino Togliatti era consapevole che la soluzione al dramma poteva arrivare solo dall’alto, come in effetti stava succedendo se si guarda alle manovre in atto per prendere le distanze dal dittatore, a partire dalla Chiesa, fino ad allora l’anello più solido tra il paese cattolico e il regime fascista.

Pio XII aveva dato ascolto agli emissari inviati ripetutamente in Vaticano da Roosevelt e alla fine del 1942, nel rituale discorso radiofonico di Natale, aveva preso posizione a favore delle Democrazie Occidentali. Un via libera importante per i tanti cospiratori in piena attività alla fine del ’42: dagli esponenti della vecchia classe dirigente liberale democratica, antifascista e monarchica, ritiratasi a vita privata nel ventennio (tra cui Bonomi) ai membri della Corte (Maria José, nuora di Vittorio Emanuele III, Acquarone ministro della Real Casa) alle alte cariche delle Forze Armate dove massima era l’agitazione. Avevano guidato la guerra fin dall’inizio assai poco convinti che l’Italia fosse preparata a parteciparvi, come del resto aveva dimostrato la sconfitta in Grecia nell’ottobre 1940, a soli cinque mesi dall’entrata della nazione nel conflitto.

Su di loro Mussolini aveva scaricato tutte le responsabilità, accusandoli di tradimento, proprio quello a cui adesso si preparavano senza sentirsi dei traditori: la loro lealtà era al sovrano custode della nazione, avviata alla catastrofe dal duce, colpevole di essersi alleato alla Germania nazista. Lo scenario del dopo Mussolini che si cominciava a delineare già alla fine del ’42, per molti aspetti non era diverso da quanto in realtà sarebbe successo nella stessa giornata del 25 luglio: si ipotizzava che a guidare un nuovo governo sarebbe stato il generale Badoglio – anche se circolavano altri nomi – che avrebbe imposto una dittatura militare e iniziato le trattative della resa agli alleati. Tutti dunque aspettavano le mosse del re, autorità suprema del paese, l’unica che potesse eliminare il dittatore e porre fine alla guerra.

Aspettative malriposte se si considera quale fosse stato il comportamento del sovrano che aveva piegato la testa al momento della marcia su Roma, così come era rimasto sordo alle suppliche di Giovanni Amendola che gli aveva chiesto di dimissionare Mussolini dopo l’uccisione di Matteotti nel 1924. Amendola era stato bastonato a morte dagli squadristi, ma Vittorio Emanuele III era rimasto immobile, complice per tutti i venti anni della dittatura e dei suoi misfatti – leggi razziali, guerre e persecuzioni contro gli antifascisti. Se nel passato a fermarlo era stata la paura che si scatenasse un’altra guerra civile, adesso i timori si erano moltiplicati dopo vent’anni di dittatura fascista. Sua Maestà era consapevole di quale fosse il reale rapporto di forza tra lui e il duce.

Il dittatore aveva distrutto lo Stato liberale, senza però toccare la monarchia e la figura del monarca, lasciandogli il suo ruolo statutario, anche se svuotato di ogni potere effettivo. Questo equilibrio per tutto il ventennio era rimasto precario, appeso al filo del ricatto che implicava il silenzio e la sottomissione del re al fascismo. Tanto più che stretta l’alleanza con Hitler, Mussolini si era fatto sempre più impaziente di liberarsi dal dualismo fascio-corona, incompatibile con il sogno dello Stato fascista totalitario. In questa situazione la certezza che i fascisti non sarebbero rimasti inerti davanti a un’iniziativa per detronizzare il duce, paralizzava Vittorio Emanuele III.

Ad aggravare la sua paralisi intervenivano poi gli scioperi operai al Nord nel marzo 1943 che risvegliavano la paura della sovversione rossa, lasciando Vittorio Emanuele nel dubbio di quale fosse il pericolo più grande per sé e per la monarchia. Questo timore metteva direttamente fuori gioco i tentativi degli antifascisti monarchici e liberali ai quali il re non aveva alcuna intenzione di dar loro credito, anche se l’ex presidente del Consiglio Bonomi e l’ex ministro Soleri appoggiavano il piano dei generali. Negli anni precedenti alla marcia su Roma erano stati alla guida del paese senza riuscire a impedire le violenze squadriste che avevano scatenato una vera e propria guerra civile preludio all’ascesa di Mussolini al potere. Agli occhi di Vittorio Emanuele III questi révénantes – così li definiva con sprezzo – non avevano alcuna credibilità oggi di gestire una situazione ancora più complicata e pericolosa.

L’immobilismo del sovrano cozzava però con l’avanzata degli angloamericani sbarcati in Sicilia e pronti a invadere la penisola. Del resto lo stato maggiore alleato, perfettamente consapevole di quanto fragile fosse ormai il regime fascista nel paese, decideva di dare un segnale ultimativo al re con il bombardamento del 19 luglio che per la prima volta violava i cieli della capitale. Per di più colpiva proprio il quartiere operaio di San Lorenzo, ex cittadella dei ferrovieri socialisti; e Vittorio Emanuele III sapeva che la scelta non era stata casuale. A questa data però, il re aveva un’altra carta in mano da giocare che gli dava maggiore rassicurazioni, quella dei gerarchi fascisti, anche loro consapevoli di quale catastrofe si preparasse per l’Italia.

Persino Mussolini non aveva dubbi che la sola via d’uscita per la nazione e per il regime fascista fosse la rottura dell’alleanza con Hitler e la resa agli alleati. Una strada impossibile da percorrere, come dimostrava il 19 luglio, lo stesso giorno delle bombe su Roma, il suo incontro a Feltre con il Fuhrer che non lo lasciava neppure parlare. Al suo ritorno nella capitale, i giochi del colpo di stato interno al regime erano praticamente già fatti. In questa congiura il ruolo del sovrano era cruciale, ma rispetto alle altre soluzioni il piano dei fascisti consentiva al re di non fare il primo passo contro il duce. Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, aveva bussato alla porta di Villa Savoia già nel marzo ‘43, prospettando a grande linee il progetto dei congiurati, l’ala moderata del partito nella quale confluivano i più noti esponenti del fascismo che avevano affiancato Mussolini fin dall’inizio della sua ascesa al potere.

Molti di loro – tra questi Bottai – erano stati potenti ras delle province, alla guida delle bande armate di centinaia di squadristi. Dismessa la camicia nera, nel ventennio erano stati promossi alle più alte cariche del regime, ammirati e adulati dai notabili del vecchio Stato liberale fiancheggiatori del fascismo. Al complotto di Grandi avevano aderito, tra gli altri, Federzoni, ex capo dei nazionalisti, e il conte Ciano, genero del duce, un tempo entusiasta sostenitore dell’alleanza con la Germania, adesso diventato anti nazista. A loro si contrapponeva il cosiddetto partito tedesco, guidato da Farinacci e da Scorza, segretario del Pnf, che ai moderati imputavano la colpa di aver “svirilizzato” il fascismo privandolo della sua originaria carica rivoluzionaria.

Grandi e i suoi erano convinti che per uscire dalla guerra e salvare il salvabile della dittatura e delle loro stesse vite, si doveva imporre a Mussolini un passo indietro, cioè la rinuncia al ruolo di capo di stato maggiore al comando delle Forze Armate; un ruolo ricoperto dal re, di fatto espropriato della sua funzione. Riportato al comando spettava a Vittorio Emanuele III decidere sul destino dell’Italia. Per raggiungere il loro scopo, i frondisti preparavano un ordine del giorno da sottoporre al voto del Gran Consiglio del fascismo nel quale si chiedeva a Mussolini di lasciare le sue cariche istituzionali e militari per ritornare alla guida del partito e del paese allo sbando. Non compariva però nell’ordine del giorno l’intero quadro del piano che comprendeva l’immediata formazione di un nuovo governo composto in gran parte dai fascisti moderati e guidato da un generale – si preferiva Cavallero a Badoglio. Inoltre per Grandi e pochi altri al successo completo del colpo di stato era indispensabile la resa immediata dell’Italia agli angloamericani e la rottura dell’alleanza con la Germania nazista.

Il sovrano sembrava d’accordo, tanto da insignire Grandi della massima onorificenza, quel Collare dell’Annunziata che lo elevava al rango di cugino del re. In realtà del piano Grandi, Vittorio Emanuele III condivideva solo la prima parte, cioè la rimozione del duce sancita da un voto del supremo organo del regime. Un affare interno al fascismo, dunque, che lo esonerava da ogni responsabilità, mettendolo al riparo dai fulmini dell’ala dura fascista. Quanto al resto, non aveva alcuna intenzione di lasciare spazio nel governo del suo generale ai gerarchi che disposti a tradire il loro capo, non offrivano alcuna garanzia di lealtà alla monarchia. Non lo convinceva neppure l’ultima parte del progetto che avrebbe puntualmente disatteso la stessa mattina del 25 luglio: Hitler non avrebbe mai accettato che l’Italia si arrendesse agli angloamericani contro i quali le truppe tedesche e italiane combattevano nel Mezzogiorno, contendendo loro ogni metro di terreno.

Gli eserciti alleati avevano davanti una strada lunga e difficile per arrivare a Roma dove Vittorio Emanuele III li avrebbe aspettati dilazionando la resa, terrorizzato da una vendetta dei nazisti. Per il momento dunque il conflitto sarebbe continuato al fianco del Fuhrer, come si leggeva nel comunicato radiofonico rilasciato da Badoglio appena nominato primo ministro in quel 25 luglio. Gli eventi di quella giornata fatidica, iniziata il 24 luglio e conclusa il 25 luglio nelle prime ore del mattino, sono stati raccontati in tutti i particolari grazie anche a un vastissimo materiale documentario, ricco di testimonianze con le quali i protagonisti del colpo di stato hanno dato la loro versione di quanto accaduto. Una versione piena di contraddizioni, che cambiava col passare del tempo quando si faceva più lontana la tragica vicenda dell’ultimo fascismo, guidato da Mussolini ormai un’ombra di se stesso.

I nazisti che lo avevano riportato al potere, lo consideravano solo un “Quisling”, impotente persino a frenare le vendette dei gerarchi andati in minoranza al Gran Consiglio, al punto di non riuscire a salvar la vita neppure del genero, condannato al processo di Verona e fucilato insieme ad altri sei congiurati. Tutti gli altri, tra i quali Grandi, Federzoni, Bottai, cioè la maggioranza dei votanti a favore dell’ordine del giorno, erano fuggiti per non cadere nelle mani dei fascisti duri risorti dopo l’occupazione di Roma da parte degli eserciti tedeschi, mentre il sovrano, Badoglio, tutto il governo e lo stato maggiore avevano abbandonato la capitale già dall’8 settembre.

In assenza di un verbale che offra un resoconto dei discorsi pronunciati quella notte, quando il clima si era andato surriscaldando, si possono solo avanzare alcune ipotesi su questa sorta di “eutanasia” del regime, come ha sottolineato Emilio Gentile (2023). Badoglio lo ha definito un suicidio consapevole o involontario, dal momento che nella giornata del 25 luglio quando la notizia delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini si diffondeva, il regime improvvisamente si era dissolto nel nulla: nessuna reazione da parte della base, dei quadri intermedi, della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e dei gerarchi sconfitti dal voto al Gran Consiglio, tutti scomparsi dalla circolazione, mentre le strade di tutta Italia erano invase da una folla festante per la fine del fascismo.

Quanto ai congiurati che Mussolini a Salò definiva traditori, a posteriori si sarebbero difesi chi rivendicando il valore di un atto patriottico per salvare l’Italia liberandola dal dittatore, responsabile della disastrosa guerra al fianco di Hitler; chi invece sosteneva la totale buona fede di un’iniziativa che avrebbe dovuto rivitalizzare il fascismo cui veniva restituito il suo capo. Resta però aperto l’interrogativo più importante che riguarda Mussolini, di cui nessuno aveva mai sottovalutato l’intelligenza politica. Del resto non era la prima volta che il duce si trovava a mediare all’interno del regime tra moderati ed estremisti in perpetua guerra fra loro, e sempre era riuscito a trovare una mediazione, spostando alternativamente l’asse della politica fascista più a destra o più a sinistra. Mai aveva permesso di restare incastrato in una votazione che gli legasse le mani; tanto più che il Gran Consiglio era solo un luogo di discussione, a volte accesa, ma in genere conclusa appunto con una soluzione di compromesso.

Era stanco, forse anche spaventato; consapevole comunque di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Anche se l’ordine pubblico non veniva ancora violato – a eccezione degli scioperi operai che non si erano trasformati però in una rivolta – sapeva quanto fosse salita la tensione nel paese. Sapeva che l’unica strada era staccarsi da Hitler e cercare di patteggiare con gli alleati la sopravvivenza sua e del regime, magari con un repentino cambiamento di fronte, non inusuale nei rapporti internazionali dell’Italia. Sapeva però che l’alleato tedesco glielo avrebbe impedito, anche con la forza.

E allora, persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara; gli lasciava per lo meno la speranza di un possibile rilancio, di un accordo con Vittorio Emanuele III di fronte al quale si era presentato la mattina del 25 luglio, quasi fosse una visita rituale del capo del governo al suo re per informarlo di quanto era avvenuto. All’uscita da Villa Savoia veniva invece arrestato. Si chiudeva la prima parte della storia che sarebbe arrivata all’ultimo atto un anno e otto mesi dopo nell’aprile del 1945.

Simona Colarizi 22 Luglio 2023

Forze speciali e commando: la storia segreta dello sbarco in Sicilia. Lo sbarco di Sicilia, avvenuto ottant'anni fa, fu preceduto da una serie di operazioni di forze speciali decisive per il successo alleato. Andrea Muratore il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il 10 luglio 1943 le truppe angloamericane sbarcarono in Sicilia, dando vita al primo attacco alla "fortezza Europa" costruita dalle potenze dell'Asse e mettendo in campo una potenza di fuoco notevole contro le truppe di Germania e Italia, accelerando le dinamiche che in due settimane avrebbero portato alla caduta del regime fascista a Roma e all'inizio della durissima campagna d'Italia.

Per la Sicilia fu battaglia vera: 8mila caduti per le potenze dell'Asse e 5mila alleati in sei settimane di scontri. Le truppe italiane e i rinforzi tedeschi, ben armati di carri armati Tiger e guidati dalla divisione corazzata di paracadutisti "Hermann Goring", la migliore unità schierata in Italia assieme ai famigerati "Diavoli verdi" che bene avrebbero performato a Cassino, combatterono con indubbia tenacia. Sul fronte alleato, dopo quello che fu il più ampio e complesso sbarco anfibio mai realizzato prima del D-Day del giugno 1944, un fattore decisivo della vittoria ottenuta in poche settimane dai soldati dei generali Harold Alexander e George Patton fu la silenziosa, ma decisiva, preparazione dell'invasione grazie alle operazioni delle forze speciali.

Nella notte precedente gli sbarchi, infatti, paracadutisti e ranger delle forze angloamericane furono inviati in Sicilia a conquistare snodi strategici, a fungere da avanguardie per gli sbarchi e a consolidare i gangli vitali delle teste di ponte che gli Alleati intendevano costituire nella parte meridionale della Sicilia. Decisivi furono in quest'ottica i reparti dell''82ª Divisione aviotrasportata statunitense, al comando del maggior generale Matthew Ridgway, e della 1ª Divisione aviotrasportata britannica, al comando del maggior generale George F. Hopkinson. L'operato delle truppe non andò nella direzione prevista, ma ebbe il decisivo effetto di distogliere riserve dalle forze italo-tedesche in aree come Siracusa.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio, portate da alianti, le truppe delle due divisioni iniziarono di fatto l'Operazione Husky, l'invasione della Sicilia, prima dell'arrivo al largo delle coste dell'isola italiana della flotta partita dal Nord Africa. Esploratori americani della 21ª Compagnia Paracadutisti Indipendente del 504º reggimento di fanteria paracadutista, insieme al 456º battaglione di artiglieria campale paracadutista, tutte parti dell''82ª Divisione aviotrasportata, furono inviati a seminare scompiglio alle spalle della zona di sbarco americana presso Gela.

La forza britannica avrebbe dovuto invece conquistare il Ponte Grande sul fiume Anapo, per bloccare l'afflusso di riserve tedesche dall'entroterra verso la zona di sbarco di Cassibile. A sostenere l'operazione sarebbe dovuta intervenire la 1ª Brigata aviotrasportata britannica, che si trovò per effetto dei venti che sferzavano la costa e dispersero la forza americana a essere l'unità maggiormente concentrata alle spalle del nemico, ma anche quella più investita dai contrattacchi nemici che si concentrarono sul Ponte Grande. Avrebbe tenuto il ponte tutto il giorno: alcuni suoi elementi si arresero di fronte alle truppe italiane alle 15.30, ma furono riscattati un'ora dopo dagli Scots Fusiliers che lo riconquistarono di slancio, consolidando la testa di ponte.

Al contempo, andava in scena a Capo Murro di Porco una delle operazioni destinate a diventare più celebri nella storia delle forze speciali nella seconda guerra mondiale: l'assalto dello Special Air Service Service britannico alla batteria costiera "Lambda Doria" che dominava la parte sud-orientale della Sicilia, nella penisola della Maddalena facente parte del comune di Siracusa. Nel sito dedicato alla storia dell'Operazione Ladbroke, la serie di sbarchi che precedettero Husky, è narrato il ruolo dei commando di Sua Maestà nell'operazione, affidata allo Special Raiding Squadron del Sas, guidato dal Maggiore Paddy Mayne, definito dai suoi compagni d'arme come una "valorosa canaglia".

Dopo lo sbarco, tra il 13 e il 16 luglio il ponte Primasole sul fiume Simeto fu attaccato nuovamente da elementi della 1ª Divisione paracadutisti britannica decollati dal Nord Africa nell'Operazione Fustian. L'obiettivo era colpire alle spalle le truppe dell'Asse e accelerare la marcia su Catania. Giocando di sponda con la 50ª Divisione di fanteria britannica, promosse un successo simile a quello del Ponte Grande: cattura dell'infrastruttura, ritirata sotto i colpi dell'offensiva nemica, propiziata soprattutto da truppe tedesche dotate di mitragliatrici pesanti, ricongiungimento con la forza da sbarco giunta, in questo caso, da Lentini.

313 militari morirono nell'Operazione Landbroke e 141 nell'Operazione Fustian: perdite pesanti concentrate principalmente tra i britannici, che non si risparmiarono nella battaglia. Il coordinamento tra commando e forze da sbarco ebbe successo a prezzo di un tributo di sangue notevole e nella caduta di insostituibili professionisti capaci di attività dall'alto valore strategico. I comandi alleati avrebbero replicato in grande, in Normandia, queste importanti manovre. Ma non da meno fu la capacità delle truppe dell'Asse di opporre una degna resistenza: tra il 9 e il 10 luglio, ad esempio, il 1º Battaglione del 75º Reggimento fanteria italiano (parte della Divisione "Napoli") ingaggiò una forza americana atterrata e fece prigionieri 160 paracadutisti che volevano impadronirsi della strada tra Palazzolo Acreide e Siracusa. Il 385º Battaglione costiero italiano si distinse al Ponte Grande, che di fatto contribuì a riconquistare e tenne prima del contrattacco britannico. Per sei, lunghe settimane la battaglia avrebbe fatto emergere altre unità che tennero in condizioni di netta inferiorità di uomini e mezzi. Ma la crepa nella "fortezza Europa" era aperta, inesorabilmente. E abbandonati da Roma e da un regime in dissoluzione, i militari italiani si trovarono a considerare vano il loro sacrificio. Al contrario di quello, oneroso ma strategicamente decisivo, dei militari alleati con cui si erano battuti con valore.

Lui.

La “zona grigia” del consenso tra fascismo e democrazia. GIORGIA SERUGHETTI, filosofa, su Il Domani il 24 luglio 2023

Sono passati ottant’anni dalla notte in cui il Gran consiglio del fascismo decise di sfiduciare Mussolini. L’enigma di come cambino idea le masse permette di tracciare una linea che arriva fino al presente

Nella notte a cavallo tra il 24 e il 25 luglio 1943, esattamente 80 anni fa, una lunga seduta del Gran consiglio del fascismo si conclude con la sfiducia a Benito Mussolini. Nel pomeriggio, dopo l’incontro con il re Vittorio Emanuele III, il “duce” è destituito da capo del governo e arrestato.

A distanza di giorni o settimane da questi eventi, il vento sembra già cambiato in favore del nuovo ordine, che ha preso il posto del regime fascista.

Il 26 agosto, Alberto Moravia firma sul quotidiano Il Popolo di Roma un lungo editoriale dal titolo “Folla e demagoghi”, in cui ricorda come, in vent’anni, «più è più volte, nelle occasioni più diverse, abbiamo visto la folla accalcarsi nelle piazze per ascoltare discorsi e applaudire».

Manifestazioni in gran parte «spontanee», condite di «entusiasmo» e «delirio». Solo che, continua, «in questi ultimi giorni, con spontaneità certamente maggiore, la folla ha gremito altre piazze non meno celebri e illustri di piazza Venezia. Manifestazioni di fede, applausi, evviva, insomma tutto il solito modo di esprimersi delle folle».

E siccome «non crediamo che ci siano a Roma due moltitudini ben distinte, una che applaudiva durante gli ultimi vent’anni e una, invece, che ha cominciato ad applaudire soltanto da venti giorni», si è costretti a pensare che «si tratta sempre della stessa folla».

IL CAMBIO DEL VENTO

Moravia fa discendere da queste osservazioni un invito a liberarsi della «folla», come categoria mentale prima ancora che come espressione politica, perché è del rapporto con questa che si nutrono i demagoghi.

È in quella parvenza di «consenso» data dall’acclamazione entusiasta, in quella capitolazione del pensiero che lascia il posto al «misticismo» politico, che si radica il potere dei capipopolo. Uscire dall’«infantilismo politico»: questo è il compito dell’Italia uscita dal fascismo.

L’autore de Gli indifferenti rinnova qui alcuni dei più comuni argomenti degli intellettuali del tempo contro il potere delle «folle», delle «masse» acefale, arroganti e conformiste.

Si pensi a José Ortega y Gasset, che nel suo La ribellione delle masse (1930) scriveva della massa che «travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato». Anche Hannah Arendt, nella sua opera monumentale sui totalitarismi, legherà l’affermarsi di questi regimi alla crescita di masse di individui sradicati e privi di relazioni tra loro. 

Eppure, l’osservazione del fulmineo cambiamento del vento, seguito alla caduta del fascismo, può aiutare a fare luce su aspetti più complessi che riguardano il consenso popolare nei sistemi di governo autoritario e totalitario. Aspetti che possono rivelarsi d’interesse anche per la riflessione sulla democrazia contemporanea e la sua crisi.

SFUMATURE DI GRIGIO

L’interrogativo intorno alle motivazioni che hanno spinto italiani e italiane a dare il proprio sostegno al regime fascista – quale misura di convinzione e quale di costrizione – è materia di dibattito per gli storici.

Ed è un interrogativo a cui, secondo Paul Corner, non è semplice dare una risposta semplice. Secondo lo storico, autore di studi sul «consenso totalitario», non ci sono in questo campo solo il bianco e il nero, il sostegno convinto e il rifiuto, il consenso e la paura, ma un’ampia gamma di sfumature di grigio, in cui l’adesione all’ideologia è parziale, ma la mancanza di opposizione non deriva solo dal terrore.  

Ciò che rende particolarmente difficile, in termini generali, misurare il consenso nei regimi non democratici è, ovviamente, l’impossibilità per chi vive al loro interno di esprimere una scelta valida in favore di un’opzione politica.

Il consenso cioè, si può dire, è sempre presunto, dedotto più ancora che dalle manifestazioni di pubblico sostegno delle folle, dall’assenza o dal carattere minoritario delle espressioni di aperto dissenso. Le quali sono, però, vietate.

Per questo il consenso e il suo mutare, in assenza di libertà politica, assumono un carattere prevalentemente negativo. Una forma di non-interdizione, di non-rifiuto, che ha radici nella percezione di impotenza, di impossibilità dell’opposizione, generata dalla privazione dello «spazio pubblico», dal suo «oscuramento» in «tempi bui» di cui ha parlato Arendt. 

UNA CONTRODEMOCRAZIA

Porre l’accento su un consenso “in negativo” permette però di mettere portare l’attenzione anche sui rischi esistenti nell’esercizio della sovranità popolare nelle democrazie, e più in particolare in quella che Pierre Rosanvallon chiama «democrazia negativa», articolata nelle forme del rifiuto.

Questa «sovranità negativa», scrive l’autore di Controdemocrazia, ha due volti. Può manifestarsi come potere d’interdizione (manifestazioni di protesta, veto, ostruzionismo) ma anche «in un altro modo, più debole: quello della passività, del consenso per difetto. A questo proposito, la rinuncia, l’astensione o il silenzio sono vere forme di espressione politica. Sono onnipresenti e hanno un ruolo che non può essere trascurato».

Il «consenso per difetto», in una democrazia, non deriva – come nelle autocrazie – dall’impossibilità di esprimere una preferenza valida, ma piuttosto da una varietà di motivazioni che va dall’indifferenza, all’assenza di una prospettiva alternativa all’esistente, fino alla percezione di un costo dell’azione superiore ai benefici che potrebbe portare, o al senso di completa inutilità dello sforzo.

Si tratta di «zone grigie» dell’espressione politica, che riprendendo la celebre tripartizione di Albert Hirschmann tra loyalty, exit e voice, possono essere rubricate sotto la categoria di defezione (exit).

Queste forme di ritrazione dall’azione hanno accresciuto la loro importanza nel determinare la vita delle democrazie, a partire dai risultati elettorali.

È «la fredda verità della democrazia all’alba del Ventunesimo secolo», scrive Rosanvallon: «siamo entrati in un’epoca indissociabilmente debole e negativa del fattore politico».

I «rifiutanti» contemporanei, scrive, «non somigliano più ai vecchi ribelli o ai dissidenti. Il loro atteggiamento non disegna alcun orizzonte; non li dispone a un’azione critica per agire; non ha alcuna dimensione profetica. Essi esprimono solo, in modo disordinato e rabbioso, il fatto di non saper più dare un significato alle cose e di non saper trovare il loro posto nel mondo. Al contempo essi pensano di poter esistere solo biasimando simmetricamente sempre di più un mondo di “rifiutati” sotto le diverse sembianze dello straniero, dell’immigrato o del “sistema”: devono detestare per sperare».

È un simile spirito, fondamentalmente avverso alla democrazia, che sostiene la crescita delle nuove destre populiste. Un filo rosso, o meglio «grigio», che – anche evitando ogni riduzione semplicistica – lega il passato al presente, e mette in guardia contro i pericoli di un restringimento dell’agire politico come espressione di libertà.

GIORGIA SERUGHETTI, filosofa. Giorgia Serughetti è ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto saggi su questioni di genere e teoria politica, con particolare attenzione a fenomeni migratori, sessualità, violenza contro le donne e movimenti femministi. 

Mussolini, il matrimonio con Rachele e la scalata al partito: «Siete germi patogeni entrati nel sangue». Antonio Carioti su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

A 29 anni uno sconosciuto leader del Forlivese conquistò il partito nazionale e la direzione dell’«Avanti!» con un attacco durissimo contro i deputati

Reggio Emilia, 8 luglio 1912

Al teatro Ariosto si celebra il XIII Congresso nazionale del Partito socialista italiano (Psi). E intorno alle 14.15 prende la parola, per quello che sarà l’intervento decisivo dell’intero dibattito, un delegato romagnolo. Sta per compiere 29 anni, è uscito pochi mesi prima dal carcere dove era stato rinchiuso per aver manifestato contro la guerra coloniale in Libia. Si chiama Benito Mussolini.

Lo sconosciuto

Leader del Psi nel Forlivese, proveniente da un’esperienza in Svizzera e da un’altra in Trentino (allora possedimento austriaco), per molti militanti è quasi uno sconosciuto, ma incarna perfettamente i sentimenti rivoluzionari della maggioranza della platea, stanca della politica moderata e accomodante del gruppo parlamentare socialista, dominato dai riformisti. Mussolini reca con sé un ordine del giorno che boccia la relazione presentata dai deputati del Psi al Congresso, definita «povera, scheletrica», e deplora l’«inazione politica» del gruppo a Montecitorio, «che ha contribuito a demoralizzare le masse».

La lista

A questo duro giudizio politico segue, nel testo, quella che lo stesso agitatore romagnolo chiama una «lista di proscrizione», con cui si chiede che vengano espulsi dal partito Leonida Bissolati, Angiolo Cabrini e Ivanoe Bonomi, parlamentari riformisti colpevoli di essere andati al Quirinale per congratularsi con il re Vittorio Emanuele III appena sfuggito a un attentato.

«Magro, aspro, parla a scatti»

Lo stesso provvedimento viene invocato contro Guido Podrecca, che alla Camera si è schierato a favore dell’impresa coloniale a Tripoli (sette anni dopo Podrecca sarà tra i fondatori dei Fasci di combattimento). Mussolini prende la parola. E la cronaca del «Corriere della Sera» sottolinea la sua profonda sintonia con l’uditorio, che lo applaude ripetutamente: «L’oratore, magro, aspro, che parla a scatti, con sincerità, piace al Congresso, il quale sente di avere in lui un interprete dei suoi sentimenti».

L’attacco ai «germi»

Il discorso è molto polemico, a tratti violento. Mussolini, oltre a leggere il suo ordine del giorno, reclama la fine dell’autonomia politica del gruppo parlamentare, di cui depreca «la disinvoltura morale». Dichiara che l’attentato alla vita di Vittorio Emanuele III doveva essere considerato come un normale «infortunio del mestiere del re». Paragona i deputati riformisti del Psi a «germi patogeni introdottisi nella circolazione del sangue». Conclude con una professione d’intransigenza: «Bissolati, Cabrini, Bonomi e gli altri aspettanti possono andare al Quirinale, anche al Vaticano, se vogliono, ma il Partito socialista dichiari che non è disposto a seguirli né oggi, né domani, né mai».

La vittoria

Il Congresso va in delirio. Al momento delle votazioni, la linea rivoluzionaria sostenuta da Mussolini s’impone di gran lunga con 12.556 suffragi congressuali. Altre due mozioni, più morbide verso i riformisti di destra, ottengono rispettivamente 5.633 e 3.250 voti, mentre le astensioni sono 2.072. I reprobi sono quindi espulsi, mentre il giovane romagnolo esce trionfatore dal Congresso e viene naturalmente eletto nella direzione del partito.

La direzione dell’«Avanti!»

In novembre giunge la consacrazione definitiva. Mussolini è nominato direttore del quotidiano ufficiale del Psi l’«Avanti!», che è anche lo strumento principale con cui il partito si rivolge alla propria base. Si tratta di un incarico della massima importanza, con il quale il sanguigno romagnolo diventa un punto di riferimento fondamentale per tutti i socialisti, ma anche per un’area più vasta che comprende i sindacalisti rivoluzionari e tutti coloro che non ne possono più dell’equilibrio politico compromissorio incarnato nella figura del leader liberale Giovanni Giolitti.

Il matrimonio

Mussolini si trasferisce così dalla Romagna a Milano, dove ha sede la redazione dell’«Avanti!». Dal 1910 ha una compagna fissa, Rachele Guidi, che sposerà civilmente nel 1915, ma questo non gli impedisce di coltivare altre relazioni sentimentali. Nel 1910 è nata a Forlì la sua prima figlia, Edda. Il secondogenito, Vittorio, verrà invece alla luce a Milano nel 1916. Alla guida dell’«Avanti!» Mussolini dimostra un brillante talento di comunicatore. Nel giro di un paio d’anni il giornale quasi raddoppia le vendite, da una media di 34 mila a una di 60 mila copie giornaliere, con punte di 100 mila. La linea è improntata alla massima intransigenza verso le istituzioni borghesi.

Lo sfottò ai comunisti

Nei casi in cui la polizia spara sulla folla uccidendo lavoratori in sciopero, purtroppo frequenti in quella fase storica, il direttore socialista usa parole di fuoco: «Nessuna violenza è più legittima – scrive – di quella che viene dal basso come reazione umana alla criminosa politica della strage». Non stupisce che Mussolini raccolga il consenso convinto di molti giovani socialisti che poi, anni dopo, si entusiasmeranno per la rivoluzione bolscevica. Alcuni, come Angelo Tasca e Amadeo Bordiga, scrivono sull’«Avanti!» o sulla rivista «Utopia», che il leader romagnolo ha fondato per poter ragionare di politica fuori dalle pastoie di partito. In ricordo di questa passata convergenza, un Mussolini ormai fascista, nel suo primo discorso alla Camera il 21 giugno 1921, si prenderà gioco dei deputati comunisti definendoli propri «figli spirituali».

 Mussolini marcia su Roma: «Porto a vostra maestà l’Italia di Vittorio Veneto». ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2023 

Mentre le camicie nere attendono intorno alla capitale, il 30 ottobre 1922 il capo del fascismo riceve dal re l’incarico di formare il governo. E mostra subito la sua arroganza 

Il 30 ottobre 1922, alle 11 del mattino, arriva al Quirinale dal re Vittorio Emanuele III, per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, un leader molto diverso dai suoi predecessori liberali. Ha solo 39 anni, è di estrazione popolare, indossa sotto la giacca una camicia nera. Ma soprattutto è anomalo il modo in cui Benito Mussolini è giunto a questo traguardo, facendo pesare non la rappresentanza parlamentare (dispone di soli 35 deputati su 535), bensì la minaccia dei fascisti armati raccolti intorno a Roma con l’intenzione di occupare la città.

A partire dall’autunno del 1920 gli squadristi hanno seminato il terrore, prendendo di mira le strutture del movimento socialista e le amministrazioni locali rosse. Particolarmente violenta, con un gran numero di omicidi, è stata la campagna per le elezioni politiche del 15 maggio 1921, che hanno visto le camicie nere presentarsi nei Blocchi nazionali promossi dall’anziano leader liberale Giovanni Giolitti. Nell’autunno del 1921 è nato il Partito nazionale fascista (Pnf), che nel giro di un anno, secondo le stime dello storico Emilio Gentile, ha raggiunto i 250 mila iscritti.

Il 24 ottobre 1922 a Napoli si è svolto un grande raduno del Pnf, nel corso del quale Mussolini ha rivendicato la guida della nazione. In situazioni come queste, ha proclamato, «è la forza che all’ultimo decide». Sono cominciati così i preparativi per un colpo di mano sulla capitale, la «marcia su Roma». A dirigerla sono stati chiamati i cosiddetti quadrumviri: Italo Balbo, il principale capo squadrista; Michele Bianchi, segretario del Pnf; Cesare Maria De Vecchi, ben ammanicato negli ambienti di corte; Emilio De Bono, un generale a riposo come garante presso i militari.

La mobilitazione dei fascisti è cominciata il 27 ottobre. Hanno occupato prefetture, caserme, stazioni ferroviarie, uffici del telegrafo. E nella notte hanno preso a concentrarsi intorno a Roma. Mussolini nel frattempo ostentava una calma olimpica: in serata si è fatto vedere a teatro, dove andava in scena Il cigno del drammaturgo ungherese Ferenc Molnar. I maligni dicono che sia rimasto a Milano per poter più facilmente raggiungere la Svizzera, in caso di fallimento della prova di forza.

Nelle prime ore del 28 ottobre il debole governo guidato da Luigi Facta ha approvato lo stato d’assedio per affidare ai militari il compito di ristabilire l’ordine. Ma il re Vittorio Emanuele III ha rifiutato di firmare il relativo decreto, per timore di arrivare allo scontro aperto. E Mussolini si è ritrovato il coltello dalla parte del manico. Appunto il 28 ottobre, sotto il regime, sarà celebrato come anniversario della marcia su Roma, anche se quel giorno gli squadristi restano ancora in attesa intorno alla capitale, infreddoliti e fradici per la pioggia. L’indomani Mussolini ha rifiutato l’ipotesi di entrare in un esecutivo diretto dall’esponente liberale di destra Antonio Salandra, quindi il re lo ha convocato a Roma per affidargli l’incarico.

Partito in vagone letto da Milano, il futuro dittatore è giunto a Roma la mattina del 30 ottobre dopo due cambi di treno, in quanto le linee ferroviarie sono state interrotte dai militari per bloccare l’avanzata dei fascisti. Il colloquio al Quirinale con il sovrano dura più di un’ora. Del contenuto non si sa nulla, trapelano soltanto le parole iniziali rivolte da Mussolini al re: «Chiedo perdono a vostra maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare. Porto a vostra maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria, e sono il fedele servo di vostra maestà». Ottenuto il suo scopo, il capo del fascismo ha tutto l’interesse a mostrarsi ossequioso verso chi gli ha dato via libera.

Intorno alle 12.15 Mussolini lascia il Quirinale e si trasferisce all’Hotel Savoia, dove ha preso alloggio. Qui riceve le personalità alle quali ha intenzione di affidare i ministeri. Le cronache lo descrivono «raggiante». Nel pomeriggio, mentre le camicie nere invadono la capitale provocando sanguinosi scontri con i militanti di sinistra nei quartieri popolari, arrivano all’albergo il generale Armando Diaz, il trionfatore di Vittorio Veneto, e l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel. Saranno i ministri della Guerra e della Marina. Mussolini si affaccia con loro al balcone dinanzi a una folla osannante: «Gridate evviva – esclama – agli artefici della vittoria. Essi hanno accettato di collaborare con me per dare alla nazione un governo che sia degno di essa».

lle 19.20 il nuovo capo del governo torna al Quirinale per sottoporre al re la lista dei ministri, che Vittorio Emanuele III approva. Oltre alla presidenza del Consiglio, Mussolini tiene per sé i dicasteri cruciali degli Interni e degli Esteri. Tre sono i ministri fascisti: alla Giustizia Aldo Oviglio, pronto a varare una provvidenziale amnistia per le malefatte degli squadristi; alle Finanze Alberto de’ Stefani, economista gradito agli ambienti imprenditoriali; alle Terre liberate (quelle annesse in seguito alla guerra) Giovanni Giuriati, ben deciso a usare il pugno di ferro nei confronti delle minoranze tedesche e slave. Inoltre alle Colonie va Luigi Federzoni, dirigente del movimento nazionalista che nel giro di pochi mesi confluirà nel Pnf.

Un nome di indiscusso prestigio è quello del filosofo idealista Giovanni Gentile, che accetta l’invito ad assumere la responsabilità della Pubblica istruzione dopo aver ricevuto piena assicurazione dell’autonomia di cui godrà nel compito di riformare la scuola. Per il momento entra al governo come indipendente, ma finirà per schierarsi apertamente al fianco di Mussolini, tanto da scrivere nel 1925 un manifesto degli intellettuali fascisti.

Per quanto il governo sia formalmente di coalizione, al suo interno i rapporti di forza sono nettamente sbilanciati. Al Partito popolare (Ppi) d’ispirazione cattolica, che ha quasi il triplo dei deputati rispetto al Pnf (102 contro 35) vanno solo due dicasteri: il Lavoro a Stefano Cavazzoni e il Tesoro a Vincenzo Tangorra. Quest’ultimo peraltro morirà in dicembre e l’interim del ministero sarà assunto dal fascista de’ Stefani. Anche ai liberali e ai democratici vanno le briciole.

D’altronde Mussolini non ha alcun riguardo per gli equilibri esistenti in un Parlamento che disprezza, come dimostrano le parole arroganti da lui pronunciate il 16 novembre 1922, nel famoso «discorso del bivacco», quando il governo si presenta alla Camera per la fiducia: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo momento, voluto». Non è solo una minaccia, è un programma politico.

Le Leggi Razziali.

Estratto dell’articolo di Marcello Pezzetti per “la Repubblica” giovedì 30 novembre 2023.

Il 30 novembre 1943, con l’ordinanza di polizia n. 5, la RSI di Mussolini decretò la fine della presenza ebraica sul suo territorio, e per un numero altissimo di ebrei, questo provvedimento segnò anche la fine della loro vita. Fino ad allora, nonostante la presenza di una legislazione antiebraica pesantissima e le continue pressioni tedesche, gli ebrei non erano stati deportati dal territorio nazionale, Dodecaneso compreso, anzi, l’Italia aveva protetto quelli che si trovavano all’estero […] 

Dopo l’occupazione dell’Italia centro-settentrionale, la polizia tedesca aveva incominciato da sola ad arrestare e a deportare gli ebrei, come nel caso della grande retata di Roma del 16 ottobre 1943 e nelle successive “azioni” nel nord del Paese, ad opera del Kommando di Theodor Dannecker, inviato dall’ufficio di Adolf Eichmann.

Dopo la promulgazione dell’ordinanza di polizia n. 5, tuttavia, nel territorio della RSI il sistema degli arresti subì una profonda modifica: dal mese di dicembre gli «appartenenti alla razza ebraica», definiti pochi giorni prima nella Carta di Verona come appartamenti «a nazionalità nemica», non vennero più arrestati solo dai tedeschi, ma anche dagli agenti italiani. 

Il testo dell’ordinanza, firmata dal ministro Guido Buffarini-Guidi, diceva che «tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale, debbono essere inviati in appositi campi di concentramento ». Che «tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro» e che «siano intanto concentrati gli ebrei incampi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati».

Le modalità di questa nuova fase della persecuzione sono ricordate dai pochi sopravvissuti agli arresti e alle deportazioni. «Sono entrati dentro le case, hanno rotto, hanno preso, hanno rubato, e non soltanto i nazisti, anche i fascisti. Il loro obiettivo, di tutti e due, era lo sterminio ebraico». (Romeo Salmoni). 

«Mio padre mi disse: “Scappa, Silvana!” Corevo, corevo , però le grida di mia madre… tornai indietro e lìfui presa. Le sue grida furono un tormento. Erano italiani, fascisti… perché il tedesco cosa ne sa lui che io sono ebreo?». (Silvana Zarfati).

L’istituzione italiana che ebbe la maggiore responsabilità nella messa in opera della «soluzione finale del problema ebraico» fu il ministero dell’Interno, con a capo Buffarini- Guidi e, successivamente, Paolo Zerbino. 

Vari settori dell’apparato burocratico statale operarono attivamente all’interno del sistema persecutorio: innanzitutto gran parte della Pubblica sicurezza, la “normale” polizia di Stato; l’apparato delle prefetture e delle questure che emanavano gli ordini di cattura; le istituzioni confluite nella Guardia Nazionale Repubblicana – G.N.R. (i carabinieri, i componenti della Polizia dell’Africa Italiana –PAI– e gli uomini della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), senza dimenticare il ruolo devastante del Ministero delle Finanze, che gestì i beni sottratti agli ebrei. 

«Ci ha prelevato la polizia fascista. Siamo andati via con le nostre valigie in un carrettino con su tre materassi. Avevano una lista, ma ormai il grosso degli ebrei di Ferrara era già stato preso prima». (Franco Schönheit). 

«L’arresto è avvenuto a Borgotaro, in modo molto semplice. Un giorno è venuto un carabiniere e ha detto: “Signora, venga con me con la valigia!” Con me c’era una mia amica, che piangeva, invece io no». (Dora Klein) 

Ma, oltre alle forze “istituzionali”, venne dato ampio spazio all’azione criminale di numerose forze autonome, le famigerate “bande”, la cui condotta criminale andò ben oltre la collaborazione con i nazisti.

I componenti di queste bande, quali la “Cialli-Mezzaroma” e la“Ceccarelli” a Roma o la banda “Koch” in varie città , oltre ad essere prezzolati dai tedeschi, si distinsero per furti, saccheggi e violenze inaudite nei confronti della popolazione ebraica. Infine, va sottolineata la responsabilità dei singoli delatori, che spesso tradirono i loro innocenti concittadini ebrei. 

[…] 

«Di notte due energumeni si sono introdotti nel nostro appartamento con la polizia e ci hanno arrestato. Caricati su una camionetta, mio padre ed io siamo stati portati al carcere maschile delle Murate, mia sorella e mia madre son state ricoverate nell’ospedale internodel carcere femminile». (Teo Ducci) 

[…] 

«Siamo arrivati a Marassi in macchina. C’eravamo io, mio papà, mia sorella e mia mamma… Mi viene troppa rabbia a pensare al carcere, perché io non ho mai fatto niente di male. Entrare da ebrei è tremendo! Poi, dopo circa un quindici giorni, c’hanno caricato su un treno per Fossoli». (Dora Venezia)

«Alle Nuove di Torino, nella cella eravamo in cinque: io, la mia mamma, la mia nonna e un’altra signora con una ragazza. Facevamo i bisogni dentro la cella, c’era un buiolino in un angolino. Mi ricordo suor Giuseppina, la suora delle carceri, che è stata meravigliosa perché ha aiutato delle mamme che erano entrate coi bambini a nascondere quei bambini. Come potevi reagire? Cosa potevi fare? Subire. Ormai eravamo intrappolate. Poi, un mattino, ci hanno caricati su un camion, ci han portati alla stazione e ci hanno scaricati a Fossoli». (Natalia Tedeschi) 

Dopo l’emanazione dell’ordine di polizia n. 5, i nazisti decisero un sostanziale cambiamento del loro sistema persecutorio: cercarono di superare la diffidenza nei confronti degli italiani sfruttandone le nuove misure persecutorie. Dannecker, l’incaricato della retata di Roma e dei primi arresti nel Nord del Paese, venne sostituito dal nuovo Judenberater Friedrich Boßhammer, che istituì un “ufficio antiebraico” (Ufficio IV B4) a Verona, dove aveva sede la Polizia di Sicurezza nazista.

Per gli ebrei residenti in Italia fu devastante la stretta collaborazione che si instaurò tra gli uomini di Boßhammer e le autorità italiane, in particolare le questure. I nazisti tennero stretta nelle loro mani l’organizzazione dei trasporti da Fossoli, e successivamente da Bolzano, per Auschwitz, ma non sarebbero mai riusciti a portare alla morte un numero così alto di innocenti senza la collaborazione dei «volonterosi carnefici» italiani.

Il rimorso rimosso. Le colpe collettive e la responsabilità di chi non se ne fa carico. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 13 Novembre 2023

Attribuire a un popolo i misfatti commessi da alcuni è ingiusto, ma diventa comprensibile quando quel popolo non si assume la responsabilità dei crimini commessi dai loro simili

L’incolpazione collettiva è ingiusta e indebita quando pretende di addebitare ai singoli appartenenti a un gruppo politico, sociale, religioso, eccetera, e per il sol fatto di tale appartenenza, i misfatti commessi da altri appartenenti a quel medesimo gruppo. Ma l’incolpazione collettiva è giusta e dovuta quando i singoli appartenenti a quel gruppo non si fanno carico morale e civile dei crimini commessi dagli appartenenti al proprio gruppo, quando non ne sentono il rimorso “in proprio”, e attribuiscono quei crimini a una responsabilità che non li coinvolge in nessun modo, una responsabilità dalla quale si assolvono per il semplice fatto di non aver avuto nelle mani l’ascia del boia.

Imputare agli italiani in quanto tali la responsabilità delle leggi razziali è ingiusto a un patto: che gli italiani in quanto italiani sentano il peso in proprio, sulla propria coscienza di italiani, di quel crimine. Gli italiani non l’hanno mai fatto: non quelli che festeggiavano le inibitorie e le comminazioni razziste; non quelli che le lasciavano correre voltandosi dall’altra parte; non quelli – anzi tanto meno quelli – che sulla scena dei corpi appesi in Piazza Loreto hanno costruito retoriche e carriere “antifa”, con i cortei che da settant’anni denunciano il pericolo fascista e pervengono in purezza all’adunata dell’altro giorno, quella di «Questa non è una piazza fascista! Fuori i sionisti da Roma!».

Questo succede e può succedere per un solo motivo: perché lo scempio del 1938, che non era una cosa fascista, ma una cosa italiana, non grava sulla coscienza degli italiani. Per questo ne sono colpevoli tutti, per questo è giusto e doveroso incolparli tutti: non perché abbiano commesso tutti quello scempio (questo non succede mai: non ogni turco ha massacrato un armeno), ma perché non se ne fanno carico, perché non sentono che è la “propria” vergogna. E ora si confida che l’imbecille non obietti che c’era la resistenza e che c’erano i partigiani.

Imputare i crimini della soldataglia che tortura e stupra e deporta i bambini durante l’operazione speciale, e fa dei villaggi occupati altrettanti lager, e gode della copertura della propaganda che paga e corrompe per negare lo scempio, imputare tutto questo al popolo cui appartiene il gruppo di belve è indebito a una condizione: e cioè che gli appartenenti a quel popolo sentano su sé stessi, sulla propria dignità e sul proprio onore di esseri umani, la vergogna di quei crimini.

Addebitare ai fedeli di un gruppo confessionale il gesto dell’inquisitore che appiccia il trono di fascine su cui è issata la strega, o l’allestimento della buca per l’adultera da lapidare, è ingiusto nel ricorso di un presupposto: vale a dire se chi si ispira a quella tradizione sente gravare sulla propria individualità, sulla propria posizione nel mondo, sul proprio rapporto con la vita, l’atrocità di quei misfatti.   

Ho fatto tre esempi, volutamente disparati, tanto per capirsi. Abbiamo il diritto di non essere incolpati dei crimini “altrui” se abbiamo il coraggio e la forza di farcene carico come crimini nostri. 

È la persecuzione del singolo in quando appartenente a un gruppo, è questo che è sempre ingiusto. È questo che occorre impedire sempre ed è questo che occorre sempre condannare quando succede. Ma non è ingiusto pretendere che il gruppo dai cui lombi viene il misfatto sia rappresentato da persone che ne sentano la responsabilità e la denuncino come propria. Perché è in questo, nel denunciarla come propria, che possono essere assolti.

Retroscena di un delitto. La notte in cui l’Italia fascista diventò razzista per legge. Giorgio Fabre su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.

La ricostruzione storiografica del dibattito del 6 ottobre 1938, quando Mussolini presenta al Gran Consiglio la prima versione della «Dichiarazione sulla razza» su cui si mostra disposto a mediare e ricevere emendamenti

Quel dibattito lo si può ricostruire in base a diversi appunti mussoliniani e ai quotidiani del tempo, ma adesso soprattutto leggendo e studiando con attenzione un testo che finora si conosceva solo in maniera indiretta e molto parziale: la prima versione «ufficiale» della Dichiarazione sulla razza, il ciclostilato elaborato dal duce e distribuito ai membri del Gran Consiglio la sera del 6 ottobre 1938.

Esso è venuto alla luce in maniera definitiva grazie a un nuovo fondo dell’Archivio Centrale dello Stato che contiene la copia pervenuta a Italo Balbo e che costui corresse, modificò e commentò in vari modi durante la discussione. Emerge quindi un testo dal quale si apprendono, per quanto possibile, precedenti e conseguenze, modifiche, opposizioni e conflitti rilevanti per la storia italiana che lo rendono ben più comprensibile di quanto fosse finora, perché se ne distinguono storia e sviluppi.

Il dibattito riguardò il razzismo di Mussolini, del suo partito e del paese. Per la precisione, diversi segmenti importanti e autorevoli di quel partito. La discussione durò circa cinque ore a Palazzo Venezia la notte tra il 6 e il 7 ottobre 1938 e si concentrò sul documento elaborato nel corso di diverse settimane dallo stesso duce e che allora venne dibattuto in modo piuttosto radicale; per giungere, alla fine, a una stesura che in molti punti era ben diversa da quella «mussoliniana» iniziale.

Il testo finale, intitolato fin dall’origine Dichiarazione sulla razza, fu poi passato il 7 ottobre agli organi di stampa, ma attraverso versioni piuttosto differenti tra loro: su vari giornali, infatti, apparve con alcune significative differenze. E questa è un’altra novità, tenuto conto soprattutto che tre dei giornali erano di proprietà di gerarchi presenti alla discussione: «Il Popolo d’Italia» dello stesso Mussolini, «Il Regime fascista» di Farinacci, il «Corriere Padano» di Balbo.

I primi due uscirono la mattina del 7, e i testi furono quindi consegnati subito, la notte, al termine della riunione: uno evidentemente dal duce, l’altro da Farinacci. Quanto al giornale di Balbo, che da quando fu fondato usciva la mattina, non pubblicò la Dichiarazione nella prima edizione dello stesso giorno ma in una successiva (non sappiamo esattamente in quale, di sicuro era presente nella quarta). E sono testi rilevanti.

Così come sono rilevanti gli editoriali che uscirono il giorno dopo, l’8, e tutti anonimi: uno su «Il Popolo d’Italia» e gli altri due sul «Corriere Padano»; Farinacci, cauto, non pubblicò invece alcun editoriale sulla Dichiarazione. L’editoriale de «Il Popolo d’Italia» non è mai stato attribuito a Mussolini e non compare negli elenchi noti dei suoi articoli. Ma, in base alle conoscenze ora ottenute, appare pressoché certo che sia suo, ed è un’altra novità perché è un testo importante.

Qui si è voluto ricostruire, in base a diversi documenti, molti dei quali nuovi, e per quanto possibile, il modo in cui avvenne quella discussione: in parecchi casi, il duce accettò semplicemente le modifiche che gli furono proposte; in altri le respinse e si direbbe anche con durezza; in altri ancora, diversi, operò con una mediazione, talvolta sottile.

Di certo, tra il 6 e il 7 ottobre i presenti videro un Mussolini non proprio (o non solo) autoritario, ma che cercò in tutti i modi di ottenere il consenso sul suo documento finale. Per certi versi, si tratta della testimonianza di una discussione politica davvero difficile da riscontrare, allo stesso modo, in tutta la storia del fascismo. Qui emerge un documento del duce che contiene un riflesso attendibile delle discussioni che suscitò e che non furono semplici.

Tutto ciò lascia però anche intuire come Mussolini e l’intero entourage fascista non fossero preparati a fondo a programmare e ad attuare quel «razzismo strutturale» e normativo che conseguiva all’ideazione e alla formulazione del razzismo di Stato, con tutte le conseguenze e applicazioni specifiche.

Si sa ormai molto bene che il duce aveva formulato, in sostanza da decenni, una propria concezione razzista, nella quale confluivano molti elementi: e a più riprese, lungo gli anni, aveva anche espresso il proprio netto antiebraismo. Lo aveva fatto in discorsi, dichiarazioni, articoli di giornale e anche con qualche eliminazione amministrativa.

Eppure non era arrivato a elaborare una legislazione né dei principi, che avrebbero riguardato tutti gli ebrei, italiani e stranieri: compresi i militari ebrei, aspetto quest’ultimo molto delicato, visto che il re era al vertice delle forze armate (e in particolare dell’esercito). La discussione però non riguardò certo solo i militari ebrei, ma anche diversi altri aspetti del nuovo razzismo istituzionale.

Ora è molto più chiaro come nell’ottobre 1938 – per realizzare il suo obiettivo – Mussolini partì con un proprio testo, che però mise a disposizione del più alto consesso del suo partito perché lo valutasse. Se ne può anche dedurre che all’inizio si aspettasse un assenso più o meno totale e che le risposte che ricevette furono una discreta sorpresa.

Si trattò di una discussione piuttosto lunga e articolata. Tuttavia, non è sempre possibile capire quali furono le posizioni e le dichiarazioni dei singoli partecipanti; anche per quanto riguarda le risposte di Mussolini, che in alcuni casi risultano chiare, in altri meno.

Fu un dibattito importante o addirittura fondamentale, perché doveva definire per intero la nuova politica e strategia generale del regime, in un contesto che già prefigurava la guerra, anche se non si capisce quanto Mussolini se ne rendesse conto; ma un particolare, si vedrà, confermerebbe che ne era consapevole.

E fu singolare che Mussolini definisse quella nuova strategia generale non attraverso un discorso politico, come aveva sempre fatto, ma questa volta attraverso una discussione con importanti esponenti istituzionali del partito, e ciò mentre il partito in quanto organizzazione c’entrava poco o veniva addirittura, per certi versi, annichilito. Inoltre, quella discussione diveniva un atto pubblico.

Nello stesso tempo, si trattava di definire i rapporti con quello che a quel punto era l’ormai ben noto razzismo nazista. Da questo punto di vista, Mussolini decise di andare per proprio conto, scegliendo una linea e una strategia molto diverse da quelle tedesche.

Da “6 ottobre 1938. Come il Gran Consiglio decise sugli ebrei” di Giorgio Fabre, il Mulino, trecento pagine, 26 euro

Così le navi e i marinai italiani salvarono migliaia di ebrei all'ombra delle Leggi Razziali. Negli Anni Trenta le navi italiane promossero un'ampia campagna silenziosa di trasporto degli ebrei in fuga dalle persecuzioni verso gli Stati Uniti. Andrea Muratore il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Le navi da trasporto italiane ebbero un ruolo decisivo nell'emigrazione di decine di migliaia di ebrei all'ombra delle leggi razziali tra il 1938 e l'entrata in guerra di Roma, nel 1940. La storia dimenticata a lungo e studiata in queste settimane dalla Fondazione Fincantieri rappresenta una pagina dimenticata della lunga tradizione navale italiana che ha come protagonisti i transatlantici tricolori che negli Anni Trenta rappresentavano eccellenze industriali e tecnologiche del nostro Paese. E rappresentarono un ormeggio sicuro per migliaia di ebrei in fuga tanto dalle leggi razziali italiane che dall'avanzata dei domini della Germania nazista, alleata del regime di Benito Mussolini.

Tra questi il Rex, importante nave che era risultato vincitore della gara per l'attraversamento atlantico del 1933, il cosiddetto Nastro Azzurro, e che trasportò oltre 30mila ebrei, secondo alcune fonti fino a 50mila, negli Stati Uniti. "Capitale" dell'esodo degli ebrei provenienti da tutta Europa era Genova, ove giungevano gli ebrei provenienti dall'Austria occupata dalla Germania e dagli altri Paesi su cui era caduta l'ombra del nazismo, che nei mesi tra lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 e l'entrata in guerra dell'Italia nel giugno 1940 passavano da Trieste.

Molti di questi cittadini ebrei erano provenienti dalla stessa Germania. Nei gangli delle leggi razziali poterono muoversi e arrivare a Genova o Trieste, in un contesto che vedeva il Rex, costruito nello stabilimento ligure di Sestri Ponente, adattato a nave da trasporto dotato anche di organi per la cucina adatta ai riti giudaici e alla preparazione di cibo kosher.

Un'altra nave operativa in questa tratta fu il Conte di Savoia, che intensificò le tratte tra il 1939 e il 1940. Costruito a Trieste, beneficiò del lassismo del fascismo nell'applicare strettamente le regole antiebraiche sulle navi transatlantiche che si muovevano da e verso gli Stati Uniti, complice la necessità di non dannegiare economicamente il sistema di trasporto.

Il 18 marzo 1937 il rabbino americano Max Green si imbarcò addirittura come membro dell’equipaggio del Rex, garantendo la continuità dell'assistenza religiosa ai passeggeri ebrei. Francesco Tarabotto, comandante fino al 1937, e Attilio Frugone, al comando della nave fino all'inizio della guerra, garantirono la continuità dell'assistenza in nome della sacralità delle leggi del mare, ai "fuggiaschi per fato", moderni Enea in fuga dalla patria metaforicamente in fiamme e diventata inospitale, all'ombra dell'Europa totalitaria. Alcuni passaggi permisero al Rex e al Conte di Savoia di imbarcare profughi anche Cannes, città della Francia mediterrnea il cui porto era una delle tappe in cui la Società Italia di navigazione faceva sostare le navi transatlantiche.

L'eccellenza industriale nella costruzione di navi è stata ereditata in questi decenni dai Cantieri Riuniti e dalla Società Italia alla moderna Fincantieri; il ricordo storico del ruolo, silenzioso, dei bastimenti italiani nel salvataggio degli ebrei in fuga dalla persecuzione che arrivò a coinvolgere il nostro Paese si è però perso ed è doveroso ricordarlo e valorizzarlo. Una tradizione, quella del salvataggio degli ultimi da parte delle navi italiane, che decenni dopo ebbe una replica con la missione di salvataggio dei boat people vietnamiti nel 1979 ad opera degli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e della nave appoggio Stromboli, che navigando per oltre 3mila chilometri portarono in salvo oltre 900 persone. Un tributo silenzioso al legame di valore e identità tra il nostro Paese e il mare. Forza unificatrice tra i popoli anche nelle fasi più convulse della Storia.

La Religione.

 (ANSA sabato 16 settembre 2023) - Pio XII venne informato di quanto accadeva nei campi di concentramento. Esiste una lettera che testimonia questo, datata 14 dicembre 1942. A pubblicarla è l'inserto 'la Lettura' del Corriere della Sera. La lettera è scritta dal gesuita tedesco Lothar König, uomo di collegamento tra l'arcivescovo di Monaco, nemico del nazismo, e il Vaticano. 

La riceve padre Robert Leiber, segretario del Papa. Si parla di Dachau e Auschwitz e dello sterminio quotidiano. L'ha trovata Giovanni Coco, archivista e ricercatore presso l'Archivio Vaticano, che a Massimo Franco rivela: "È un caso unico, ha un valore enorme". 

Sintesi della relazione dell’archivista Giovanni Coco al convegno in corso a Roma sulla Santa Sede e la Seconda guerra mondiale (organizzato presso la Pontificia Università Gregoriana), pubblicata dal “Corriere della Sera” sabato 14 ottobre 2023.

Solo una volta Pio XII si riferì alla Shoah in pubblico alludendo al concetto di «sterminio», nel 1943, quando parlò di «costrizioni sterminatrici». Tuttavia, né prima né dopo egli avrebbe più pronunciato la parola «sterminio» e così fecero anche i suoi successori nei loro discorsi pubblici. Sarà Giovanni Paolo II, nel 1979 ad Auschwitz, ad usare nuovamente quella parola per riferirsi alla Shoah. 

Capire il «silenzio di Pio XII» in realtà significa comprendere le ragioni di così lunghi silenzi, che non possono essere ricondotti a una causa soltanto. D’altra parte, nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus, egli aveva proposto l’immagine di una Chiesa come «guida e consiglio» di tutte le genti. 

Ma Papa Pacelli non poteva immaginare a quale prova lo avrebbe chiamato la storia, una prova che egli affrontò con quei mezzi che la sua formazione, nei lunghi anni trascorsi tra i ranghi della diplomazia vaticana, gli aveva fornito: il silenzio e il negoziato. 

Così Pio XII fece anche per i polacchi, cattolici. Ciò nonostante, in alcuni momenti, egli alzò la voce in pubblico e chiaramente contro le persecuzioni subite dal suo gregge. Lo stesso non accadde per gli ebrei, che secoli di antigiudaismo religioso avevano reso «quasi estranei» all’interesse della Chiesa.

Sì, essi avrebbero potuto beneficiare di assistenza e carità dal Vaticano: ma non come i cattolici; e sicuramente senza che la Santa Sede parlasse per loro. D’altra parte, non mancavano nella Curia Romana uomini di idee antisemite, come monsignor Angelo Dell’Acqua, paradossalmente ritenuto l’esperto nella questione ebraica. 

Una visione miope, fortemente limitata, figlia di un’epoca. Ciò nonostante Pio XII avvertì i limiti del silenzio come scelta diplomatica, mentre cresceva la percezione dello «sterminio» in Vaticano. Nel settembre 1942, mentre Dell’Acqua minimizzava le voci sulla Shoah, monsignor Giovanni Battista Montini invece usava per la prima volta la frase «sterminio che si sta facendo degli ebrei» in un documento prodotto all’interno della Segreteria di Stato.

Ma era ancora prevalente il timore che parlando «il governo tedesco, sentendosi colpito» avrebbe aggravato «la persecuzione contro il cattolicesimo in Polonia». Tuttavia le ripetute voci sulla barbarie nazista, confermate dal gesuita tedesco Lothar König, spinsero Pio XII a prendere una posizione. 

Nel Radiomessaggio natalizio del 1942 Papa Pacelli aggiunse volontariamente la frase sulle «centinaia di migliaia di persone» che «per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». 

Una frase timida, sebbene con la parola «stirpe» il Papa alludesse intenzionalmente al popolo ebraico, come egli stesso spiegava in una lettera a monsignor Konrad von Preysing, vescovo di Berlino. 

Ma nel discorso al Sacro Collegio del 2 giugno 1943, Pio XII decise di compiere un altro passo. Egli volle aggiungere un’allusione più esplicita agli ebrei, coloro che «per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe» sono «destinati talora, anche senza propria colpa, a costrizioni sterminatrici».

Questa volta si usava l’aggettivo «sterminatrice» che evocava la tragedia in corso. Inoltre, su disposizione diretta di Papa Pacelli, «L’Osservatore Romano» pubblicava quelle parole precedute da una rubrica eloquente: «Sofferenze di popoli per ragione di nazionalità o di stirpe». Quelle frasi avrebbero rappresentato il punto massimo della pubblica protesta papale sulla Shoah. 

Era forse quello l’inizio di una svolta nella posizione di Pio XII? C’è da dubitarne. Il Papa avvertiva fortemente le pressioni per il silenzio, provenienti soprattutto da parte dei cattolici tedeschi e in favore dei tedeschi. Ma soprattutto dopo l’occupazione di Roma la Santa Sede apparve sempre più reticente, in particolare davanti alla tragica giornata del 16 ottobre 1943, con la razzia delle SS nel ghetto della capitale.

Una lettera del 14 novembre 1943 forse aiuta a far luce su tutto l’atteggiamento del Vaticano. Il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano chiedeva di autorizzare una protesta dell’episcopato lombardo contro la persecuzione antiebraica in Italia settentrionale. Il 16 novembre, un mese dopo il rastrellamento di Roma, monsignor Dell’Acqua scriveva: «A me sembra che non convenga che la Santa Sede si interessi directe della questione: non lo fece (almeno mi pare) per la Germania, per la Francia, per l’Olanda, per la Slovacchia etc., non vedo perché debba ora scostarsi da tale linea di condotta».

Dell’Acqua suggeriva: «Sembra piuttosto consigliabile un’azione confidenziale, tanto più che principi generali sono stati più volte chiaramente esposti dalla Santa Sede. L’esperienza ha dimostrato che pubbliche dichiarazioni non fanno che maggiormente irritare le autorità e danneggiare quindi coloro cui si desidera e si vuole fare del bene». In quelle frasi si riassumevano tutte le paure, i preconcetti e i limiti dell’azione svolta dalla Santa Sede nella questione ebraica. 

A torto o a ragione il silenzio era considerato nei Sacri Palazzi una condizione di necessità, fino all’autocensura. Il 23 ottobre 1943 veniva segnalato che alcuni militari tedeschi diffondevano la voce calunniosa che il Papa avrebbe approvato la deportazione: una menzogna. Stupisce invece la reazione del Pontefice. Infatti fu preparata una nota di smentita, ma le parole di protesta vennero cancellate dal testo: verranno riferite «se mai, a voce».

Nemmeno la difesa dalle calunnie riuscì a smuovere il silenzio. Solo osservando tutti questi silenzi e quei timidi tentativi di parola si inizia comprendere il silenzio complessivo di Pio XII sulla questione ebraica. E si comprende poi anche il disagio provato da Papa Pacelli dopo la guerra, con la crescente consapevolezza interiore di aver provato a fare più di quanto molti collaboratori consigliavano, ma anche di non essere riuscito a fare ciò che l’urgenza dei tempi chiedeva. 

Così nel 1946 il cardinale Raffaello Rossi poteva dire: «Forse se avessimo condannato a tempo il nazismo non ci troveremmo oggi nella situazione in cui siamo», riferendosi al comunismo. Solo nel 1953, parlando ai giuristi, il Papa sarebbe finalmente riuscito a condannare quanto era accaduto: «In queste ultime decine di anni, si è assistito a massacri per odio di razza; si sono manifestati davanti al mondo intero gli orrori e le crudeltà dei campi di concentramento».

 Ma ancora una volta egli non sarebbe riuscito a pronunciare una parola densa di significati: sterminio. Segno eloquente della ferita aperta lasciata dalla questione dei silenzi in Pio XII: una inquietudine che purtroppo, doveva attendere il Concilio Vaticano II per trovare ascolto. 

I silenzi di Pio XII sulla Shoah. Cosa sapeva delle camere a gas.  MICHELE SARFATTI su Il Domani il 12 ottobre 2023

A fronte delle notizie sulle uccisioni giunte nel 1942, il primo intervento alla radio arrivò soltanto il 24 dicembre. Si trattò di una frase di pochi vocaboli, collocata alla fine di un testo di 35.000 battute, centrato su altri temi

A proposito delle notizie sulla Shoah pervenute in Vaticano nel 1942, ferma restando l’impossibilità di proporre dati statistici accurati, va considerato che si stima che gli ebrei uccisi in quell’anno siano stati tra il 50 e il 55 per cento del totale. Riguardo a questo e altri numeri, non va dimenticato che stiamo parlando di singole persone, ciascuna caratterizzata da un nome, un’età, una famiglia, affetti, sogni, studi o attività.

Le notizie erano riferite da sacerdoti rientrati da viaggi, esponenti religiosi locali, nunzi apostolici, rappresentanti di governi, cittadini laici, singoli ebrei, enti ebraici. Dalla lettura di tutte le carte a disposizione, emerge la lenta ma continua crescita dell’affiancamento dei vocaboli “ebreo” e “morte”, a partire da metà 1941. Mi sembra legittimo affermare che la Segreteria di Stato della Santa Sede fu uno dei maggiori punti di arrivo delle notizie sull’ebreicidio in atto nel continente.

In alcuni casi, i documenti erano rimasti chiusi nei depositi archivistici vaticani sino all’apertura del 2020; in altri, erano già stati pubblicati nella nota serie di volumi documentari edita dalla Santa Sede a partire dal 1965. In una relazione per Pio XII datata 6 gennaio 1942, il cappellano militare Pirro Scavizzi scrisse che gli ebrei polacchi (ma forse intendeva anche quelli ucraini) erano stati uccisi con vari sistemi, «di cui il più frequente ed il più conosciuto è quello del mitragliamento in massa [...] in gruppi di centinaia e centinaia e talvolta di migliaia», e di avere saputo di gruppi di ebrei caricati su vagoni ferroviari «poi abbandonati finché i poveri deportati erano quasi tutti morti». Aggiunse che «il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione».

I DOCUMENTI

Il 18 marzo 1942, i rappresentanti in Svizzera dell’Agence juive pour la Palestine e del Congrès juif mondial consegnarono un Aide-Mémorie al nunzio apostolico in Svizzera Filippo Bernardini, che il giorno seguente lo inoltrò al segretario di Stato Luigi Maglione. Il documento riepilogava la persecuzione antiebraica in atto nei territori sotto dominio tedesco e in alcuni Stati europei antisemiti. Tra l’altro affermava che le legislazioni e le persecuzioni antiebraiche attuate in Croazia, Slovacchia e Romania forse miravano «proprio allo sterminio fisico degli ebrei». Per la Polonia sotto occupazione nazista, denunciava «il lento e costante sterminio dovuto al sistema dei ghetti» e l’uccisione diretta di «migliaia di ebrei in Polonia e nelle parti occupate della Russia».

In una relazione per Pio XII, inviata il 12 maggio 1942, il cappellano militare Scavizzi scrisse: «La strage degli ebrei in Ucraina è ormai al completo. In Polonia e in Germania la si vuole portare ugualmente al completo, col sistema delle uccisioni in massa». Nel testo vi è anche menzione di Auschwitz, quale luogo di incarceramento di alcuni salesiani.

Il 12 luglio 1942 l’ambasciatore della Polonia presso la Santa Sede Kazimierz Papée inoltrò alla Segreteria di Stato un rapporto sulla situazione polacca. Riguardo agli ebrei, esso affermava che la valutazione di 700.000 uccisi proveniva da circoli ebraici e che i dati conosciuti dal governo polacco «sembrano confermare» quel totale. Il testo precisava che alcuni erano stati «uccisi in camere a gas», senza aggiungere dettagli. Nell’ambito della documentazione da me consultata, questo è il primo testo scritto, destinato al Vaticano, con la menzione delle camere a gas.

Il 12 settembre 1942 gli ambasciatori presso la Santa Sede di Belgio e Polonia, anche a nome dei rappresentanti di Francia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Cecoslovacchia e Jugoslavia, presentarono alla Segreteria di Stato una richiesta collettiva di pronunciamento contro le politiche tedesche di occupazione, che «potrebbe arrivare fino allo sterminio di certe popolazioni» e consegnarono uno stampato, datato luglio 1942.

Nel capitolo sulla Polonia era scritto che decine di migliaia di ebrei «furono uccisi per asfissia in camere a gas» e che nel settembre 1941 più di 800 polacchi e prigionieri di guerra sovietici erano stati uccisi a Oświęcim «per mezzo di camere a gas». Il sostituto della Segreteria di Stato Domenico Tardini annotò in un suo appunto manoscritto, datato 15 settembre 1942, di essere stato lui a ricevere i due ambasciatori, e che essi gli avevano voluto leggere gran parte dello stampato, «con estenuante lentezza».

Il 18 settembre 1942 il sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, dopo un incontro con il dirigente dell’IRI Giovanni Malvezzi, rientrato da un viaggio di lavoro a Varsavia, appuntò: «I massacri sistematici degli Ebrei […] hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose». A mio parere quelle parole si riferivano anche alle camere a gas.

Il 23 novembre 1942 il rabbino capo della Palestina Isaac Herzog scrisse al segretario di Stato Maglione che le notizie che gli pervenivano dalla Polonia erano «le più orribili che si possano immaginare. Lì si compiono soppressioni sistematiche di migliaia di persone al giorno» e che sperava che «Sua Santità il Papa farà tutto il possibile per salvare i nostri sfortunati fratelli in Polonia».

Infine, il 14 dicembre 1942 un gesuita tedesco scrisse una lettera al segretario di Pio XII, in cui confermava un precedente rapporto (al momento non rintracciato) sul fatto che a Rawa Russka vi era un altoforno (Hochofen) delle SS in cui venivano uccise «fino a 6000 persone al giorno». Il gesuita confermava anche le informazioni su Auschwitz contenute in quel rapporto. Infine collegava tutto ciò alle parole di Hitler del 30 settembre 1942 sullo sterminio di interi popoli.

Considerando che Rawa Russka era scritto tra virgolette, a differenza delle altre località menzionate, e considerando che lì non vi era un centro di sterminio di massa, pare molto probabile che il mittente si riferisse all’intera area di Rawa Russka, quindi anche al campo di Belzec, che distava una ventina di chilometri. In quest’ultimo, non venivano adoperati forni crematori come ad Auschwitz, ma il numero delle uccisioni giornaliere era effettivamente «spaventoso».

IL PRIMO INTERVENTO DEL PAPA

A fronte delle tante notizie sulle uccisioni di ebrei giunte nel corso del 1942, il primo accenno alle vittime fatto in modo pubblico dalla Santa Sede in quell’anno fu quello contenuto nel discorso pronunciato da Pio XII alla radio il 24 dicembre 1942. Si trattò di una frase di pochi vocaboli, collocata alla fine di un testo di 35.000 battute, centrato su altri temi.

La frase era situata al quarto punto di un elenco delle varie categorie di vittime della guerra, e concerneva le «centinaia di migliaia di persone» che erano uccise o duramente perseguitate «senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe».

La categoria quindi racchiudeva tutte le vittime prive di qualsiasi colpa, compresi – ma questo era chiaro solo agli ascoltatori avveduti – i polacchi in genere e gli ebrei. La formulazione adottata non costituì un atto di solidarietà esplicita, non pose pubblicamente i capi nazisti di fronte alle proprie responsabilità, non invitò gli Alleati a difendere gli ebrei, non ordinò ai cattolici di proteggerli dovunque e comunque. Queste parole sembrano essere state l’unico risultato pubblico ottenuto dalle notizie e dagli appelli accumulatisi nel corso di quell’anno.

Le notizie pervenute alla Santa Sede nel 1942 furono centinaia. Questi pochi esempi menzionano l’individuazione delle vittime tramite criteri razzisti, il legame tra deportazione e morte, la pratica delle uccisioni di massa, il ricorrere del termine sterminio, la contabilizzazione delle vittime in milioni, l’esistenza di locali chiusi in cui le persone morivano asfissiate dal gas, l’utilizzo di definizioni quali «incredibile» o «il più orribile che si possa immaginare». Nel loro insieme, esse descrivevano bene ciò che oggi denominiamo Shoah.

(Testo tratto dall'intervento tenuto all'International Conference di Roma l'11 ottobre) 

MICHELE SARFATTI. Storico. Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano. Componente del Comitato scientifico e d’onore della Fondazione Museo della Shoah, Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, 2018; Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, Viella, 2020.

Quello che i titoli sul silenzio di papa Pio XII hanno trascurato. Il Domani il 07 ottobre 2023

Come tutto quello che riguarda Pio XII e la Seconda guerra mondiale, ha fatto notizia il ritrovamento di una lettera arrivata in Vaticano alla fine del 1942 con informazioni dettagliate sui campi di sterminio nazisti. Si è dunque titolato che papa Pacelli «sapeva». Da un sessantennio infatti i «silenzi» del pontefice di fronte agli orrori bellici – e in particolare di fronte alla Shoah – dividono gli storici e l’opinione pubblica. A sollevare la questione era stato per primo, nella primavera del 1939, l’intellettuale cattolico francese Emmanuel Mounier, turbato dall’assenza di reazioni del papa da poco eletto davanti all’aggressione italiana all’Albania.

IL DOCUMENTO

Il documento scoperto nell’Archivio vaticano conferma quanto già si conosceva da diverse testimonianze: Pio XII era al corrente dei crimini di guerra nazisti e la sua scelta di evitare condanne esplicite – il papa deplorò più volte gli orrori, con allusioni trasparenti a carnefici e vittime, ma senza denunciare i responsabili – fu consapevole. Su questo atteggiamento, accompagnato dall’aiuto ai perseguitati e dall’appoggio segreto all’alleanza antihitleriana, entrambi accertati, i pareri sono fortemente contrastanti tra accusatori e difensori del papa.

E la causa di canonizzazione di Pacelli, che ristagna, non favorisce la comprensione storica. Comprensibilmente le anticipazioni giornalistiche della scoperta si sono concentrate sul documento, trascurando però una clamorosa novità del volume che include la lettera: l’archivio privato del papa per oltre due terzi è scomparso, distrutto o disperso.

Fatto passato inosservato perché il libro appena uscito – cinquecento pagine destinate agli specialisti e curate dall’archivista vaticano Giovanni Coco (Le “carte di Pio XII” oltre il mito, Archivio apostolico vaticano) – è un inventario minuzioso dei documenti «personali» di Pacelli, dei quali sono ricostruite le sorprendenti vicende.

LA LETTERA

Senza dubbio importante è la lettera che ha attirato l’attenzione dei media. Si tratta di un foglio fittamente dattiloscritto in tedesco, datato 14 dicembre 1942, indirizzato a un «caro amico» e firmato «vostro Lothar», con alcuni allegati.

Tra questi, una statistica di «deceduti» è corredata da un’annotazione del segretario personale del papa, il gesuita Robert Leiber, che indica come l’elenco si riferisse al «campo di concentramento di Dachau». Docente di storia, il gesuita era con Pacelli sin dal 1924 e con lui rimase durante il pontificato nel gruppo dei collaboratori più stretti.

CONDANNA DELL’IDEOLOGIA

Grazie a puntuali riscontri gli archivisti vaticani hanno identificato anche chi ha scritto la lettera: Lothar König, un giovane confratello di padre Leiber. Antinazista deciso, il religioso era tra gli uomini di fiducia di Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Frisinga. Il prelato – autore di importanti studi biblici e di letteratura cristiana antica, cappellano militare nella prima guerra mondiale, vescovo e dal 1921 cardinale – era sì conservatore e nazionalista, ma anche filosemita.

Con alcune celebri prediche, tenute nell’Avvento del 1933 e che ebbero larga risonanza, Faulhaber si schierò con decisione contro l’antisemitismo nazista. E nel 1937 fu tra gli autori della Mit brennender Sorge («Con bruciante preoccupazione»), l’enciclica di condanna dell’ideologia nazionalsocialista scritta da Pio XII insieme ad alcuni prelati tedeschi di cui si fidava. Passata la guerra, nel 1951, il cardinale ormai ottantaduenne avrebbe ordinato sacerdote nell’antico duomo di Frisinga il giovane Joseph Ratzinger.

LA SPIEGAZIONE DI KÖNIG

Nella lettera ritrovata König spiega che gli allegati sono stati «ottenuti con il massimo rischio. Non solo è a rischio la mia testa, ma anche la testa degli altri se non vengono usati con la massima prudenza e cura». Le notizie destinate al segretario del papa si riferiscono anche al campo di sterminio di Bełżec, non lontano da Rava Rus’ka, in un territorio occupato dai nazisti.

Scrive il gesuita: «Le ultime informazioni su ‘Rawa Russka’ con il suo altoforno delle SS, dove ogni giorno vengono uccise fino a 6000 persone, soprattutto polacchi ed ebrei, le ho trovate confermate di nuovo da altre fonti. Anche il rapporto su Oschwitz (Auschwitz) presso Kattowitz è esatto. La conferma ufficiale e più importante viene dai discorsi, in cui si diceva che intere tribù e popoli sarebbero stati “sterminati”. Con gli ebrei e i polacchi si fa davvero sul serio». I nomi sono trascritti in tedesco – Oschwitz e Kattowitz sono Oświęcim e Katowice, in Polonia – mentre il riferimento ai «discorsi» è a quello di Hitler del 30 settembre precedente. Allo Sportpalast di Berlino, infatti, il Führer aveva accennato allo sterminio programmato degli ebrei.

Elencati i documenti, König aggiungeva significativamente: «La grande preoccupazione qui è se Roma procederà con la necessaria cautela in modo che, se il Vaticano fosse occupato, non si potrebbe trovare nulla di incriminante che possa essere usato contro la Chiesa tedesca». Dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1942, papa Pacelli pronunciò il celebre radiomessaggio natalizio dove «per la prima volta alluse implicitamente allo sterminio degli ebrei».

Benché non sia sicura una connessione tra le notizie della lettera di König arrivata in quei giorni in Vaticano e il discorso di Pio XII, «non è del tutto da escludere l’ipotesi che quella lettera abbia in qualche modo corroborato il pontefice nella sofferta intenzione di accennare alla questione ebraica» annota Coco. Del resto notizie sulla Shoah ormai in corso erano già giunte in Vaticano, come attestano documenti pubblicati tra il 1965 e il 1981 nei dodici volumi degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, che si possono leggere in rete.

Il 12 maggio 1942 don Pirro Scavizzi, cappellano dell’ordine di Malta, scriveva al papa di «deportazioni ed esecuzioni anche in massa» degli ebrei. Della fine di agosto è un’altra lettera, in francese, dove Andrej Šeptyckyj, metropolita greco-cattolico di Leopoli, nell’Ucraina occupata dai nazisti, informava che «il numero di ebrei uccisi nel nostro piccolo paese ha certamente superato i duecentomila». Il papa lesse la lettera il 22 settembre. E quattro giorni prima il funzionario italiano Giovanni Malvezzi aveva informato monsignor Montini, stretto collaboratore di Pacelli, che i «massacri sistematici degli ebrei» avevano «raggiunto proporzioni e forme esecrande».

LE CARTE PERSONALI

Molto altro descrive l’inventario: da appunti del papa, che seguiva le questioni più diverse, alla minuta inedita dell’ultimo radiomessaggio natalizio, che Pio XII – morto il 9 ottobre 1958 – non arrivò a pronunciare. Definito da Coco quasi un «testamento» intellettuale e spirituale, il testo è venato dall’ottimismo, anche nei progressi della scienza e nei possibili «benefici di una industria nucleare a scopi pacifici»; ma questo «se il cuore dell’uomo cammina nelle rette vie volute dal suo Creatore, altrimenti il progresso si trasforma in immensa tragedia». La novità della pubblicazione vaticana è che la documentazione personale di Pacelli – con «una stima per difetto» precisa Coco – «sembra aver perduto quasi il 70 per cento del suo patrimonio originale». Ci sono così voluti vent’anni per rimettere insieme le carte recuperate dalla dispersione, riordinarle e aprirle alla consultazione degli studiosi.

Due sono i motivi principali della perdita: la volontà dello stesso Pio XII, che si spiega probabilmente con l’innata riservatezza, e una «somma incuria», come ammettono gli archivisti vaticani. E già era stata pubblicata una testimonianza sullo stato di conservazione dei documenti della Santa sede poco dopo l’apertura dell’archivio intorno al 1881: in parte erano sistemati sopra la galleria delle Carte geografiche – dal 2016 splendidamente restaurata – dove «dalle finestre, mal connesse e con vetri rotti, vi penetravano le cornacchie e le carte sciolte venivano dal vento sparse per la soffitta».

Un’incredibile trascuratezza ha segnato anche le vicende delle carte personali di Pio XII, fin quando sono iniziati la ricerca, il recupero e il restauro dei suoi documenti. Ma lo stesso Pacelli aveva detto alla fedelissima e onnipotente segretaria, Pascalina Lehnert, che era con lui dal 1918: «Se non avessi più tempo, le bruci». E poche ore prima della morte del pontefice a Castel Gandolfo, la religiosa e due consorelle eseguirono l’ordine, portando via – dalla stanza dove Pio XII agonizzava – «tre ceste» ricolme di manoscritti e dattiloscritti. Che finirono in cenere.

La prova nella missiva. Olocausto, Papa Pio XII sapeva. La lettera con accenno ai crimini nazisti e il silenzio della Chiesa. La notizia arriva contestualmente a quella della messa a disposizione di tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, Papa dal 1939 al 1958. Il fatto mette tutt’oggi a dura prova il suo processo di beatificazione avviato nel 1967. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2023 

Il pontefice Pio XII era a conoscenza degli orrori perpetrati dai nazisti nei campi di sterminio: più che una supposizione è un fatto deducibile da una lettera datata 14 dicembre 1942 scovata dall’archivista vaticano Giovanni Coco, che ne parla nel numero del 17 settembre di “la Lettura”, in un’intervista a Massimo Franco.

Nella missiva, il messaggio proviene dal gesuita antinazista Lothar König ed era indirizzato al segretario particolare del Papa, Robert Leiber. All’interno si fa riferimento al forno crematorio delle SS nel campo di concentramento di Bełzec, in Polonia occupata dai tedeschi, menzionando anche quello di Auschwitz.

È “l’unica testimonianza di una corrispondenza che doveva essere mantenuta e prolungata nel tempo” e rappresenta quindi una prova cruciale riguardo all’esistenza di un flusso di informazioni sui crimini nazisti che giungevano alla Santa Sede in contemporanea con l’attuazione del genocidio.

La notizia arriva contestualmente a quella della messa a disposizione di tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, Papa dal 1939 al 1958.

La possibilità di consultare il vasto materiale ha consentito agli studiosi di intensificare gli sforzi per comprendere meglio il comportamento del Pontefice in quel periodo e un’opportunità per confrontare diverse prospettive si presenterà durante il convegno internazionale in programma a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana in programma dal 9 all’11 ottobre: “I nuovi documenti dal pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane”.

 Se in passato in Vaticano si riteneva che i lager fossero “soltanto” campi di concentramento, le informazioni fornite da König andavano ben oltre, rivelando che nell'”altoforno” di Rava Rus’ka, ovvero Bełzec, “ogni giorno morivano fino a 6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei”. La lettera dipinge un quadro dell’orribile macchina della morte.

In questo senso appare facile contestualizzare il lungo discorso natalizio del Papa tenuto il 24 dicembre 1942, in cui faceva riferimento alle “centinaia di migliaia di persone che, senza colpa propria, talvolta solo a causa della loro nazionalità o etnia, erano destinate alla morte o a un progressivo deperimento”. Il silenzio di Pio XII mette tutt’oggi a dura prova il suo processo di beatificazione avviato nel 1967 e oggetto di controversie all’interno della Chiesa cattolica.

Pio XII, perché scelse il silenzio sul nazismo: ecco la verità. Sergio De Benedetti su Libero Quotidiano il 29 settembre 2023

Nei giorni scorsi, molti giornali italiani e stranieri hanno parlato di una lettera datata 14 dicembre 1942 ritrovata da Giovanni Coco, “ufficiale” dell'Archivio Apostolico Vaticano, nella quale il gesuita tedesco Lothar König, uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, cardinale Michael von Faulhaber, e il Vaticano, parla dei crimini contro gli ebrei nei campi di Dachau e Auschwitz. La lettera, indirizzata a Robert Leiber, segretario particolare di Pio XII (Eugenio Pacelli), denota una ricorrente consuetudine a tale terribile informazione, dando quindi l'impressione di lettere precedenti inviate e, chissà, di altre che avrebbero potuto pervenire in futuro.

Su tutto però, emerge la prova e la conseguente enfatica frase che, dunque, “Pio XII sapeva”. Che il Pontefice sapesse, è da tempo arcinoto e con lui sapevano il cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato, ed i monsignori Domenico Tardini e Giovan Battista Montini, addetti alla medesima Segreteria. Per questo probabilmente quando Maglione venne a mancare (22 agosto 1944), non fu sostituito fino al decesso di Pacelli (9 ottobre 1958). Il nuovo Papa infatti, Giovanni XXIII, (Angelo Roncalli) ordinò cardinale e nominò proprio Domenico Tardini nuovo Segretario di Stato e al tempo stesso ordinò cardinale Giovan Battista Montini, già nominato arcivescovo di Milano nel 1954.

Eugenio Pacelli, nato a Roma il 2 marzo 1876, studiò con disinvoltura, divenne sacerdote ed entrò giovanissimo nella Segreteria di Stato («studia già da Papa», diceva il popolino). Dopo una serie di incarichi delicati e complessi (era Segretario del cardinale Pietro Gasparri, prima e dopo che questi diventasse Segretario di Stato), nel 1917 divenne Nunzio Apostolico in Baviera e due anni dopo nell’intera Germania, trasferendosi a Berlino dove rimase fino alla fine del 1929. Perfetto conoscitore della lingua, ammiratore del popolo tedesco in ogni sfaccettatura culturale, Pacelli fu cautamente contrario alle decisioni delle Potenze vincenti nel primo conflitto mondiale, considerate eccessive verso i perdenti e fautrici di risentimenti nazionalistici. Concluse numerosi Concordati affinché fosse sempre la diplomazia a dirimere gli eventuali contrasti e così si spiegano gli accordi con la Baviera (1924) e la Prussia (1929).

Richiamato a Roma il 16 dicembre 1929 dopo il Concordato con l’Italia del febbraio precedente, divenne cardinale con il titolo dei Santi Giovanni e Paolo ed il 7 febbraio 1930 Segretario di Stato di Pio XI (Achille Ratti), carica che gli permise di continuare la sua politica diplomatica stipulando nuovi Concordati con il Baden (1932), l’Austria 1933, la Jugoslavia (1935) e rinnovando quello con la Germania il20 luglio 1933, sei mesi circa dopo l'ascesa al potere di Adolf Hitler (30 gennaio 1933).

Va segnalato che nelle memorie di Heinrich Brüning, Cancelliere della Repubblica di Weimar dal 30 marzo 1930 al 30 maggio 1932, si parla di una profetica corrispondenza con Pacelli riguardo la viva preoccupazione di quest’ultimo per i metodi brutali del nascente partito nazista, elementi questi che il Cancelliere giudicò eccessivi e frutto probabilmente di errate valutazioni di prelati tedeschi desiderosi di mettersi in mostra con la Chiesa di Roma. Pacelli, fedelissimo di Pio XI, cercò di frenarne gli eccessi, convinto com’era che prendere posizione e, addirittura, rinnegare il Concordato avrebbe rappresentato proprio ciò che voleva Hitler, il quale dunque, privo di un accordo stipulato e oltre tutto abiurato proprio dalla controparte, poteva avere mani libere più di quanto non stesse già abusando. Intanto, come molti documenti e narrazioni verbali confermano, attraverso qualunque associazione religiosa e non ma desiderosa del bene comune, Pacelli lavorava in tutta l'Europa occupata nel disperato tentativo di salvare quante più vite umane possibili.

La decisione di non denunciare pubblicamente le atrocità del nazismo peserà nella sua valutazione personale e per questo il processo di beatificazione va a rilento: iniziato nel 1967 con Paolo VI (Giovan Battista Montini), nel 1990 al tempo di Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła) è stato proclamato “Servo di Dio” e nel 2009 con Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) “Venerabile”: sono in molti nel mondo a ritenere che possa bastare. 

Quando Mussolini sfidò Dio a fulminarlo. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2023 

Nella serata del 26 marzo 1904 alla Casa del popolo di Losanna, in Svizzera, il pastore evangelico Taglialatela e il futuro dittatore, allora ventenne, si sfidarono in una contesa oratoria sull’esistenza di Dio

Dopo l’articolo dedicato al 25 aprile di Benito Mussolini, inauguriamo una serie per raccontare le vicende del dittatore attraverso alcune tra le date più importanti della sua vita.

Oggi forse ci parrebbe bizzarro organizzare un dibattito tra due relatori contrapposti sul tema dell’esistenza di Dio. Ma ai primi del Novecento il movimento socialista aveva nell’ateismo uno dei suoi tratti più marcati. E fu così che alla Casa del popolo di Losanna, in Svizzera, nella serata del 26 marzo 1904, si sfidarono in una contesa oratoria sul Creatore il pastore evangelico Alfredo Taglialatela e un giovane agitatore sovversivo appena ventenne (era nato il 29 luglio 1883), Benito Mussolini.

Fu allora che il futuro Duce, di fronte a un pubblico costituito soprattutto da emigrati italiani, utilizzò un espediente retorico rimasto famoso e ripreso anche dal regista Marco Bellocchio nel film Vincere. Secondo Angelica Balabanoff, esule russa allora legata a lui, Mussolini disse: «Datemi un orologio. Do dieci minuti di tempo al Padre Eterno. Se egli non mi colpisce in questo limite di tempo, vuol dire che non esiste. Lo sfido».

A quanto pare lo stratagemma ebbe successo, non solo perché il combattivo oratore sopravvisse alla prova, ma anche perché nel complesso i presenti, circa cinquecento persone, ebbero l’impressione che la posizione ateista avesse prevalso nel duello. Tant’è vero che il testo dell’intervento di Mussolini venne stampato poco dopo in opuscolo a Lugano con il titolo L’uomo e la divinità, come prima pubblicazione di una Biblioteca internazionale di propaganda razionalista diretta dal socialista Giacinto Menotti Serrati. Nel 2019 è stato riproposto dalle edizioni Fede & Cultura, a cura di Francesco Agnoli, con il titolo Dio non esiste.

Ma come mai Mussolini era così ostile alla religione, nonostante sua madre, la maestra Rosa Maltoni, fosse una fervida credente? E che cosa ci faceva così giovane in Svizzera, già avviato verso una carriera pubblicistica e politica?

Sull’ateismo del futuro dittatore influì forse il padre Alessandro, fabbro socialista di Predappio (Forlì), ma certamente molto di più l’esperienza traumatica da bambino nel collegio salesiano di Faenza. Il piccolo Benito (chiamato così in onore del rivoluzionario messicano Benito Juárez) vi era rimasto due anni, tra il 1892 e il 1894, che per lui erano stati un inferno. Monello «irrequieto e manesco», come lui stesso si sarebbe definito, si trovò a dover consumare un vitto pessimo e osservare una disciplina rigidissima, tra «umiliazioni e privazioni», anche perché considerato «figlio di un capopopolo».

Particolarmente odioso gli risultava il maestro Agostino Bezzi, del quale avrebbe in seguito descritto la «abominevole immagine» nei suoi ricordi: «Egli non mi poteva soffrire e io lo esecravo, lo esecro ancora s’egli è vivo e se è morto sia pur sempre maledetto. Non so, non posso perdonare a chi mi ha diabolicamente avvelenato i migliori anni della mia vita». Questo disagio contribuì a produrre il suo distacco dalla religione. Si dava malato per non andare a messa ogni mattina. Ma al tempo stesso era spaventato dal pensiero delle punizioni divine con le quali i salesiani ossessionavano i piccoli alunni.

Quando ferì alla mano un compagno con un coltello e venne severamente punito, i genitori decisero di trasferirlo altrove, nel collegio laico «Giosuè Carducci» di Forlimpopoli, dove si trovò molto meglio e conseguì il diploma di maestro elementare. Non era tagliato tuttavia per quel mestiere. Ottenne nel 1902 la nomina a insegnante presso il comune di Gualtieri (Reggio Emilia), ma qui intrecciò una relazione amorosa con una donna sposata e il conseguente scandalo lo costrinse a cambiare aria.

Mussolini emigrò così in Svizzera, dove si scoprì subito negato per il lavoro manuale, ma molto portato per l’attività politica. Da tempo era un lettore vorace di libri e giornali, un autodidatta tutt’altro che sprovveduto. E s’inserì così negli ambienti socialisti dell’emigrazione italiana, allora piuttosto numerosa, nella Confederazione elvetica, diventando collaboratore del giornale «L’avvenire del lavoratore». Rimase in Svizzera, nonostante diversi problemi con le autorità locali, fino al 1904.

Assai vicine gli furono in quel periodo due personalità già citate, con cui sarebbe poi entrato in forte contrasto. Angelica Balabanoff, che fu anche sua amante, ma rimase sempre fedele agli ideali socialisti, tracciò un ritratto al vetriolo del Duce nel libro Il traditore del 1942. Serrati subentrò a Mussolini nella direzione del quotidiano socialista «Avanti!» dopo la svolta interventista del futuro dittatore. E la polemica tra i due divenne rovente: nel 1920 Serrati venne anche aggredito fisicamente dai fascisti. Morì nel 1926, dopo aver aderito al Partito comunista. Invece il pastore Taglialatela, rivale di Mussolini nel dibattito di Losanna, divenne un convinto ammiratore del Duce e del regime littorio. La storia è piena di paradossi.

Gli Eroismi.

Cefalonia, sulle tracce dell'eccidio subito dagli italiani. La maggior parte dei 5155 italiani morti faceva parte della Divisione Acqui, ma c’erano anche finanzieri, carabinieri e uomini della Regia Marina. La guarnigione italiana si oppose al tentativo tedesco di disarmo, dopo l'8 settembre, combattendo per giorni. Antonio Borrelli l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La memoria inietta il promontorio. Le tracce sono seminate tra un campeggio e qualche casa vacanza, a due passi dal faro di San Teodoro che strizza l’occhio a Lixouri. Ma tutto intorno c’è il sapore della Grecia più amena e le sparute indicazioni confortano solo a tratti. Cefalonia è così, incontaminata e avventurosa come solo isole antichissime sanno essere. Non ricca ma dignitosa, affacciata al turismo ma non sfiancata da quello di massa, ogni anno la maggiore delle isole Ionie è sempre più battuta da visitatori di tutta Europa alla ricerca di spiagge dorate, acque cristalline, falesie imponenti e grotte mozzafiato. Ma a Cefalonia si arriva anche per riscoprire le tracce dell’eccidio italiano.

È qui che dopo l’8 settembre del 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio di Cassibile che sanciva la cessazione delle ostilità tra Italia e anglo-americani, 5155 soldati italiani furono rastrellati e uccisi dall’esercito tedesco. La maggior parte faceva parte della ormai famosa Divisione Acqui, ma c’erano anche finanzieri, carabinieri e uomini della Regia Marina. La guarnigione italiana si oppose al tentativo tedesco di disarmo, combattendo per giorni. Finì con la resa incondizionata, poi massacri e rappresaglie. I superstiti furono persino deportati su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate. 

Nella memoria collettiva Cefalonia è ancora nome proprio di uno dei più efferati crimini di guerra nel Secondo conflitto mondiale. Per questo motivo i curiosi sono ancora molti, forse oggi più che in passato. Di tanto in tanto si incrociano coppie di ultracinquantenni, sparute famiglie con bambini annoiati o anche solitari over 60. Tutti con zaini in spalla abbronzati al limite del paonazzo e tutti a sussurrare vernacoli d’oltralpe.

Sembrano più cercatori di Storia che turisti. E i segni di quei mesi sono tutti concentrati alla periferia di Argostòli, piccolo capoluogo marittimo dell’isola sulla costa nord-occidentale. La strada comincia lasciandosi alle spalle il ristretto centro abitato: solo pochi chilometri e poi tra agavi e palme svetta lei, la "Casetta rossa". Ha un’aura fascinosa e criptica, anche se non si conosce il suo passato. Ma chi fa capolino lì di solito sente l’intima missione di osservarla e meditare: quel villino tinteggiato di rosso era il punto di raccolta degli ufficiali della Divisione Acqui destinati alla fucilazione.

La sagoma moderna ha ormai poco a che fare con l’originale quartier generale, prima bombardato e poi imploso nel terribile terremoto del 1953. I proprietari hanno però ricostruito l’edificio sulle ceneri del suo antenato, dipingendolo dello stesso colore. Ecco perché sul cancelletto all’ingresso l’anno di costruzione indicato è il 1893, mentre su un’insegna artigianale è stato scritto: "Casa Rossa". I simboli si sprecano. D’altronde è qui che oltre un centinaio di prigionieri di guerra italiani attesero il loro turno davanti al plotone d’esecuzione prima del trasferimento a qualche centinaio di metri per il macabro rituale di morte.

La "Psychological Warfare Branch", branca dei servizi segreti angloamericani addetti alla propaganda, nel bollettino pubblicato nel 1944 scrisse che "il comportamento degli ufficiali italiani alla triste “Casetta rossa” di Cefalonia non appartiene alla storia ma al mito. Ad uno ad uno, nobilissimi cavalieri del dovere e dell’onore, essi salirono con sublime serenità il calvario che ancora li separava dalla gloria". Nel pellegrinaggio laico qualche fortunato si imbatte anche in anziani ciceroni autoctoni, che davanti alla Casetta raccontano ai forestieri ricordi dell’eccidio e storie personali della guerra.

Il viaggio prosegue qualche centinaio di metri più in là. Sulla lenta strada litoranea - metafora del tempo lento cristallizzato nell’azzurro mutevole del mare greco e scandito dal diapason monotono dei grilli - si apre una fossa. È una delle tre utilizzate dai tedeschi per ammassare i corpi degli ufficiali fucilati a Cefalonia il 24 e 25 settembre del’43. Una grande targa in italiano e in greco ricorda davanti alla roccia quei fatti, mentre al di là della strada qualcuno ha ammazzato la noia del buen retiro scrivendo su un muretto un insulto in inglese alla polizia. Chissà se con cognizione. Quella circondata da un recinto e sigillata alla buona con un catenaccio è l’unica "sopravvissuta" delle tre fosse comuni: l’altra si troverebbe a Lardigò, la seconda su un terreno oggi occupato un albergo. 

Bisogna chiudere gli occhi per provare a immaginarle, quelle terribili settimane del settembre ’43 sull’isola di Cefalonia: fa caldo e i colori del Mediterraneo sono ancora in esplosione, ma le comunità rurali greche vivono ormai in ginocchio. Da una parte le acque blu e le colline brulle disegnano la geografia della terra, dall’altra le mulattiere chiamate strade sono una via Crucis di case distrutte e devastazione. Nelle menti dei soldati piegati da una lunga e straziante guerra regnano incertezza, esasperazione e frustrazione.

È un’isola di contrasti. La gioia dell’armistizio dura poco, perché già la sera dell’8 settembre un cannone tedesco viene puntato verso una dragamine italiana, che risponde puntando le mitragliere verso la terraferma. Sono tre giorni di tensione interna al Distaccamento, col comandante Antonio Gandin che prova a proporre una trattativa coi tedeschi per evitare la strage e garantire una resa onorevole. I soldati, però, vogliono combattere. Il 15 settembre comincia la sanguinosa battaglia contro le truppe del 22º Corpo d’Armata tedesco guidate dal generale Karl Hubert Lanz. Sette giorni dopo, con gli italiani ormai allo stremo, il generale Gandin decide di arrendersi e dal balcone della "Casetta Rossa" viene issata una tovaglia bianca in segno di resa. Quando il messaggio arriva a Berlino, è Hitler in persona a ordinare che i soldati italiani vengano considerati come traditori e fucilati. 

Molto si continua a scrivere sul vero clima che si creò in seno alla "Divisione Acqui" in quei giorni e sulla necessità di parlare di "Resistenza". Che siano stati insubordinazione, patriottismo o veemenza bellica, nessuna polemica può oscurare l’eroismo delle migliaia di militari italiani che scelsero di battersi. Anzi, ottant’anni dopo, i martiri di Cefalonia sono ancora partigiani declassati. Una Resistenza che Indro Montanelli affianca a quella "quotata in borsa come tale perché avallata dai partiti politici" ritenendola "esclusa dal listino dei titoli, perché quelli, a cui si intestava la Patria e la Nazione, erano ormai scaduti".

Nei taccuini e sugli smartphone dei turisti europei, però, la storia di Cefalonia continua a vivere. Lo provano le migliaia di visite al memoriale costruito dal Ministero della Difesa italiano nel 1978, che si erge sobrio sulla collina di San Teodoro proprio tra le fosse comuni e la "Casetta Rossa". Se qui si medita, nel museo gestito da volontari nel centro di Argostòli si scoprono le storie dei soldati italiani sull’isola. Sarà per questo che oggi a Cefalonia si respira un’aria tersa intrisa di mito, civiltà, culto e memoria.

Militare e martire. Quel padre (spesso dimenticato) della Resistenza. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo è uno dei padri della Resistenza. Colonnello passato alla clandestina, organizzò la resistenza antitedesca dei militari a Roma. E morì da martire alle Fosse Ardeatine. Andrea Muratore il 27 Aprile 2023 su Il Giornale.

Quella di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo è una storia di coraggio ed eroismo nel turbine della Seconda guerra mondiale. L'ufficiale nato nel 1901, figlio di un'antica dinastia nobile del cuneese, fu tra i protagonismi dell'organizzazione che tra il 1943 e il 1944 portò molti militari a organizzarsi contro l'occupazione tedesca e la Repubblica sociale italiana. Assieme al coraggio dei martiri di Cefalonia e degli Internati Militari Italiani che rifiutarono di tornare a combattere a fianco dei tedeschi, la storia del suo Fronte militare clandestino mostra il contributo militare del Regio Esercito alla Resistenza. Spesso dimenticato.

Da brillante ufficiale a "clandestino"

I militari, legati dal giuramento al Re, non accettavano l'occupazione della Germania nazista di parte del Paese, avevano mal sopportato la guerra contro le potenze occidentali e, dopo avere assistito alla deportazione di 600mila commilitoni, avevano giurato vendetta all'Asse e a chi, a Salò, non aveva fatto nulla per impedirlo. La base di quello che sarebbe il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) fu costituito, prima dell'insurrezione partigiana, dal Fronte Militare Clandestino che ebbe in Montezemolo un comandante e un animatore.

Montezemolo, prima della Seconda guerra mondiale, fu studioso di ingegneria militare. Ufficiale di carriera, andò volontario nella Guerra civile spagnola nel 1937 nel corpo di spedizione italiano, e in seguito fu membro dello Stato maggiore dell'Esercito durante la campagna d'Africa tra il 1940 e il 1943. Perfetto conoscitore delle tradizioni militari tedesche, fu più volte chiamato a parlamentare per gestire l'estro militare, geniale e narcisista, di Erwin Rommel e dell'Afrika Korps per conto di Ugo Cavallero, superiore formale della "Volpe del Deserto".

Militare di comando e organizzazione, Montezemolo ebbe il primo, significativo, comando operativo nel luglio 1943, caduto Benito Mussolini, su ordine del generale Pietro Badoglio, nuovo presidente del Consiglio. L'11° Raggruppamento del Genio Motocorazzato schierato a Roma fu la formazione che il colonnello di stirpe cuneese si trovò a guidare.

Fu nelle torbide giornate della Roma post-fascista e non ancora occupata dai tedeschi che Montezemolo iniziò a tessere la rete con l'opposizione clandestina e i comandi Alleati. Si interfacciò direttamente con un generale delle terre dei suoi avi, Giorgio dei Calvi di Bergolo, referente della piccola nobiltà cuneese, che aveva dato all'Italia in passato già l'eroe di Adua, Giuseppe Galliano. Nelle settimane concitate tra il 25 luglio e l'8 settembre, giorno della resa dell'Italia, preparò le forze del Genio all'inevitabile reazione tedesca. Assieme a Calvi, non lasciò Roma "città aperta" dopo la fuga del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio a Brindisi.

Montezemolo comandante clandestino

Nella storia personale di Montezemolo c'è la vita di un militare leale, fino all'ultimo, al giuramento alla Corona. Disilluso dal fascismo, non lo stimò mai particolarmente dopo l'esperienza in Spagna né manifestò - come insegna la sua personale esperienza africana - astio verso i tedeschi. Fu solo quando la Wehrmacht e le SS entrarono a Roma colpendo la resistenza dei pochi reparti italiani che avevano difeso la Capitale e iniziando repressioni e rastrellamenti, che Montezemolo passò all'aperta opposizione organizzando la Resistenza clandestina. L'arresto di Calvi di Bergolo al ministero della Difesa il 23 settembre 1943 lo spinse alla clandestinità.

Montezemolo sfruttò le capacità di organizzatore per consolidare il Fronte Militare Clandestino di Roma che preparava la creazione di un caposaldo di resistenza alla Wehrmacht. I militari alla macchia dopo le retate germaniche furono cercati e arruolati. Si stabilì un ponte radio con Brindisi per dialogare con il governo nella zona liberata. Assieme alla "Banda Caruso", l'equivalente costituito dal generale Filippo Caruso per i Carabinieri, ai reparti clandestini di Marina e Servizio d'Informazione Militare e alle avanguardie del Cln, il Fronte costituì un primo punto di riferimento per dimostrare al re e al comando alleato l'esistenza di una volontà combattiva nell'Italia occupata e di un primo embrione di Resistenza.

Montezemolo si distinse per quattro mesi reclutando personale, compiendo sabotaggi e raccogliendo informazioni con metodi di intelligence umana e sul campo sulle posizioni tedesche e l'umore della popolazione. Invitò più volte gli Alleati a non bombardare Roma per non fornire elementi alla propaganda germanica. I generali Harold Alexander e Wesley Clark gli affidarono le comunicazioni tra il loro XV Corpo d'Armata angloamericano e le prime frazioni del Cln nell'Italia occupata.

La cattura

Monarchico e fedele al suo giuramento, sempre pronto a emanare direttive in nome di "Sua Maestà il Re", Montezemolo iniziò a organizzare a distanza i primi raggruppamenti di partigiani d'area monarchica nel centro Italia, nella zona del Monte Amiata, da cui prese nome un celebre raggruppamento. Troppo per i reparti tedeschi, soprattutto per le SS di Herbert Kappler, che gli diede personalmente la caccia. Il 25 gennaio 1944, infine, Montezemolo fu arrestato a Roma assieme al commilitone del Fmc Filippo De Grenet.

Le ipotesi sull'arresto variano a seconda della versione. C'è chi parla di un tradimento da parte degli interlocutori del Cln più oltranzisti nella lotta antimonarchica, nonostante l'ottimo rapporto personale tra l'ufficiale sabaudo e Giorgio Amendola del Partito Comunista Italiano, con il quale aveva concordato anche la consegna alle squadre rosse di armi, bombe e tritolo necessari alle operazioni di disturbo alla Wehrmacht impegnata nella durissima battaglia di Anzio. Altre ipotesi parlano di un cedimento informativo nella rete del Fmc o di una sovraestensione delle responsabilità in rapporto a un organico di poche centinaia di operativi.

Per 58 giorni Montezemolo fu tenuto agli arresti nella caserma di Via Tasso e torturato da SS e Gestapo. Le testimonianze successive alla guerra confermano che non tradì nessuno dei suoi compagni di militanza clandestina salvando così la struttura romana del Cln e del Fmc. La svolta per la sua posizione personale avvenne con l'attentato di Via Rasella dei Gruppi d'Azione Patriottica comunisti propiziato da Amendola. La morte di 32 militari del Reich della portò al tragico epilogo della rappresaglia delle Fosse Ardeatine.

Montezemolo vittima alle Fosse Ardeatine

Kappler, assieme a Erich Priebke, selezionò buona parte dei 335 italiani detenuti nelle carceri per attività sovversive e antitedesche che furono fucilati il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine. Tra di loro, anche il colonnello Montezemolo. Il questore di Roma Pietro Caruso, il capo delle bande fasciste di Roma Pietro Koch e il ministro dell'Interno di Salò, Guido Buffarini Guidi, aggiunsero 50 nomi alla lista inizialmente compilata dai tedeschi per la rappresaglia, rendendosi complici della più efferata repressione avvenuta a Roma contro la Resistenza.

Montezemolo morì da eroe nell'eccidio. Al suo fianco Don Pietro Pappagallo, al fianco delle famiglie vittime di repressioni e rastrellamenti, l'ex sottosegretario ebreo Aldo Finzi, antico sodale di Mussolini, partigiani di ogni colore e una lunga sequela di cittadini, ebrei e non, di Roma. Vittima dell'alleanza fatale che fu definitivamente scardinata dall'Italia con la Liberazione. Una Liberazione a cui il colonnello Montezemolo lavorò quando ancora tutto sembrava perduto, lasciando ai posteri un esempio di fedeltà e patriottismo.

 "E vediamo di finire bene". Il primo eroe italiano d'Africa. Storia di Andrea Muratore Il Giornale il 6 aprile 2023.

Militare cuneese partito dal cuore profondo dello Stato sabaudo, di cui i progenitori erano stati sempre fedeli servitori, per trovare gloria e morte nelle remote lande d'Abissinia, Giuseppe Galliano è il primo, tragico eroe dell'epopea italiana in Africa.

Galliano, l'eroe dimenticato d'Africa

Galliano fu l'ufficiale più attento di un esercito coloniale intento a perseguire una - fatua - ricerca di potenza nell'acrocoro dell'attuale Etiopia, ma scevro da pregiudizi razzisti o di superiorità, tanto da comandare i battaglioni indigeni dei primi ascari. Fu il fedele servitore di due Re - Vittorio Emanuele II e Umberto I - in nome della cui politica e visione dichiarava sempre di agire. Affrontò come nemico leale ma in maniera ferma le armate abissine di Re Menelik durante il tentativo infruttuoso dell'Italia di imporre il protettorato su Addis Abeba e i suoi domini tra il 1894 e il 1896.

Domenico Quirico in Squadrone Bianco, saggio dedicato alla storia delle truppe coloniali italiane, ricorda Galliano come membro del "fiore di una generazione di ufficiali coloniali che tiene in pugno magnificamente le proprie truppe" dopo averle "forgiate, allenate, provate in battaglia". L'ufficiale nato a Vicoforte, vicino Cuneo, nel 1846 e cresciuto nel vicino abitato di Mombarcaro prima di intraprendere la carriera militare, giovanissimo veterano della Terza Guerra d'Indipendenza, dal 1873 al 1883 membro del neocostituito corpo degli Alpini e dal 1890 ufficiale coloniale, affidava il suo ascendente a varie qualità: "la gentilezza, la bonomia, non priva di guizzi di sarcasmo a volte feroce".

La vittoria contro i dervisci

Galliano plasmò la fiducia dei suoi ascari del Regio corpo truppe coloniali d'Eritrea nel 1893, prima della campagna italiana d'Abissinia, quando a Agordat, 160 km a ovest di Asmara, fermò una violenta incursione dei Dervisci sudanesi impegnati nella guerra mahdista che li vedeva opposti al Regno Unito. 2.400 ascari ed italiani comandati dal colonnello Giuseppe Arimondi fermarono 10mila dervisci sudanesi grazie al ruolo decisivo dei battaglioni di Galliano, che messo sotto pressione dalla carica montante dei sudanesi ordinò un ripiegamento prima e una durissima controffensiva alla baionetta poi che aiutò gli italiani e i coloniali ad avere ragione dei nemici.

Fu "la prima decisiva vittoria fino ad allora vinta dagli europei contro i rivoluzionari del Sudan", come ebbe modo di commentare lo storico britannico e studioso del colonialismo italiano Glen St John Barclay. Galliano fu premiato per l'azione da lui guidata con la prima Medaglia d'Oro al Valor Militare della sua carriera, all'età di 48 anni, e con la promozione a maggiore.

Per il successivo impegno in Abissinia, Galliano inizialmente non seguì fino in fondo l'ottimismo del generale Oreste Baratieri che pensava di poter aver rapidamente ragione delle forze di Menelik e imporre il dominio italiano sull'attuale Etiopia. L'Abissinia era uno Stato sovrano, in via di lenta modernizzazione, i cui militari conoscevano in parte l'uso delle armi occidentali e soprattutto forte di una enorme superiorità numerica.

La difesa di Macallè

Galliano e i suoi ascari dovettero spesso ritrovarsi impegnati in combattimenti di retroguardia, mossi dalla necessità di conquistare o difendere sorgenti d'acqua o linee di rifornimento sicure. "Sono obbligato a fare un po' di tutto, anche il diplomatico", annotava nel 1895 parlando della necessità di non disunire le sue truppe di fronte alle difficoltà della guerra e a non esporre eccessivamente gli ascari rispetto alle truppe nazionali. Galliano era reduce di una nuova medaglia, d'argento questa volta, per la salda difesa di Coatit tra il 13 e il 14 gennaio 1895 di fronte alle armate tigrine di Ras Mangascià.

Tra fine 1895 e 1896 l'epopea militare di Galliano si consumò, infine, nei due episodi decisivi di Macallè e Adua. La prima località, di confine tra Abissinia e Eritrea, era sede di un forte che nell'autunno 1895 fu assediato per due mesi dalle forze di Menelik, desiderose di cacciare gli italiani invasori. Galliano, comandante della difesa a oltranza nelle retrovie italiane, si trovò per la prima volta responsabile di una battaglia a Macallè, che cedette dopo due mesi di resistenza in un "derby" tra truppe africane.

Le unità guidate da Galliano nella resistenza sono entrate nella storia delle campagne coloniali italiane: il III e il V Battaglione indigeni al completo, la 2ª Compagnia dell'VIII Battaglione indigeni, una batteria artiglieria da montagna indigeni della 7° brigata delle truppe coloniali si aggiungevano a due sezioni del genio e due reparti di Carabinieri italiani. 1.350 uomini contro 100mila assedianti subirono solo 30 perdite in due mesi, operando attacchi mordi e fuggi, con incursioni spericolate di ascari e artiglierie. Menelik e Ras Mekonnen ottennero di negoziare l'uscita ordinata degli italiani.

La fine fatale a Adua

Per Galliano l'aver portato in salvo il grosso delle sue truppe valse una seconda Medaglia d'Argento e la promozione a Tenente Colonnello. Ruolo con cui andò incontro al redde rationem decisivo di Adua. Nella tragedia della battaglia imposta dalle pressioni del Presidente del Consiglio Francesco Crispi, che definì la crisi abissina non una guerra ma una "tisi militare" l'1 marzo 1896 le truppe italiane andarono incontro alla disfatta contro Menelik e i suoi. Il Terzo Indigeni, così era nominato il raggruppamento di Galliano, era provato dalla battaglia ma esperto. Di fronte alle cariche abissine, forti di 100mila soldati di cui 80mila con armi da fuoco e di 42 pezzi d'artiglieria, in campo aperto i 17mila italiani furono messi in crisi. Galliano si trovò a difendere l'altura strategica del Monte Rajo fianco a fianco con Arimondi, il vincitore di Agrodat. E assieme ad esso cadde in una turma confusa, dopo una battaglia dettata dalla politica e non dalla ratio militare che fermò per quarant'anni le ambizioni italiane in Africa Orientale.

Di Galliano si ricordano le ultime parole: "Signori, si dispongano con la loro gente e vediamo di finire bene". Agiografiche o meno che siano, la confusione di Adua fu tale che non è noto né il contesto né il modo con cui il militare cuneese, soldato per vocazione, cadde.

Fu una scheggia d'artiglieria? Fu la sopraffazione delle truppe che portò il Terzo Indigeni a scomparire nella battaglia? Fu una vendetta postuma degli abissini per il loro "persecutore" numero uno. Difficile saperlo. Fatto sta che quel fatale 1 marzo 1896 cadde Galliano, primo eroe italiano d'Africa, l'anticipatore del Comandante Diavolo Amedeo Guillet nel rapporto tra coloniali e ufficiali nazionali nella storia delle bande armate degli ascari. Un militare contrario a ogni pregiudizio, dedito solo al suo mestiere. Da compiere con fermezza, disciplina e, nonostante la brutalità della guerra, rispetto per il nemico.

Una Medaglia d'Oro postuma portò Galliano ad essere il primo ufficiale decorato con due delle massime onorificenze della storia del Regio Esercito e a quattro le decorazioni complessive. Onori che bastano solo in parte a riassumere la vita di un soldato tutto d'un pezzo che si conquistò vera gloria sul campo.

Lettera di Luca Josi al “Corriere della Sera” il 5 aprile 2023.

Cinque aprile, oggi, del 1944. Oltre settanta abitanti di Chiusola, in Liguria, frazione comune di Sesta Godano, in provincia di La Spezia, vengono rastrellati e condotti nella piazza della chiesa pronti a essere trucidati. I nazisti vogliono il tenente Piero Borrotzu.

Lui si presenta, loro lo torturano e dopo poche ore lo fucilano.

 I testimoni di quel giorno, che grazie a lui continuarono a vivere e poi a crescere figli e nipoti, raccontano che accolse la raffica dei suoi carnefici gridando: W l’Italia! Probabilmente sarebbe stato un giovane socialista, come la sua intera famiglia, se partito e movimento non fossero stati sciolti da tempo. Ma cosa avrà sognato per il Paese a cui regalava la vita? Città incapaci di manutenere un marciapiede?

Scuole in cui insegnanti sottopagati subiscono lezioni di diseducazione civica da protettivi genitori? Ospedali pubblici in decomposizione? O forse, semplicemente, un presente e istituzioni che ispirino fiducia nell’oggi e un orizzonte positivo e possibile per il domani. Lasciando il coraggio agli eroi. Ventiduenne era nato nel 1921: il 25 aprile di una liberazione che non vide.

Quei resti dei soldati italiani dispersi in Russia: la campagna per riportarli a casa. Memorie dal sottosuolo: vicino a Millerovo sono stati ritrovati i resti di sei soldati italiani caduti durante la Seconda guerra mondiale. Ora potranno tornare finalmente in patria. Matteo Carnieletto il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

I resti erano lì da 80 anni. Coperti di terra, neve e ghiaccio. Dimenticati da tutti. Ossa senza un nome. Le loro divise erano ormai scomparse, inghiottite dal tempo che logora tutto. Eppure quei corpi consumati c'erano ancora e appartenevano a sei soldati italiani caduti in Russia non lontano dalla città di Rostov, nei pressi dell’aerodromo di Millerovo, da cui partivano gli aerei tedeschi per il fronte di Stalingrado, l’attuale Volgogrado.

La loro storia risale alla fine del 1942, quando le forze dell'Asse sono costrette a ritirarsi disordinatamente di fronte all'Armata rossa. Sono scontri furiosi, che non risparmiano nessuno. L'operazione Barbarossa, ovvero il tentativo da parte di Adolf Hitler di conquistare l’Unione sovietica, è ormai finita ma il führer è convinto che si possa sfondare a Sud, fino al Caucaso, per impossessarsi poi del petrolio di Baku. L'Asse schiera quindi oltre un milione e mezzo di uomini e 2500 carri armati per conquistare Stalingrado. Questa battaglia risulterà decisiva e costituirà uno spartiacque per l’intera Seconda guerra mondiale, un prima e un dopo. Il terzo Reich passa dalla fase offensiva a quella difensiva. Dopo aver perso l’Ucraina, la Bielorussia e la Crimea, Iosif Stalin emana il famoso decreto "Non un passo indietro". La cruentissima battaglia dura sette mesi. Si combatte casa per casa, piano per piano, stanza per stanza. In un freddo glaciale. I soldati dell'Asse cedono nel febbraio 1943 e i sovietici fanno oltre 90mila prigionieri.

Gli artiglieri italiani si trovavano su una altura che sovrastava l’aerodromo militare di Millerovo e avevano il compito di proteggerlo

Questa è la Storia. La "grande storia" che si studia sui libri, dove non c'è spazio per i volti delle persone che l'hanno davvero fatta, se non quelli dei leader e dei generali più importanti. È quella che tutti (o quasi) conoscono. Ma c'è anche la piccola storia, che racconta di persone che non ci sono più e che pure, a volte anche solo per un istante, si sono trovate a vivere eventi epocali. Come i sei soldati italiani caduti e finalmente ritrovati nei pressi di Millerovo nel 2021 (ma la loro storia è stata raccontata solo oggi dalla Rossijskaja Gazeta) grazie alla fondazione Nasledie di Viktor Vasilevskij e all’editore italiano Sandro Teti. I due sono accomunati dalla collaborazione con la Società di storia militare russa e la ricerca è partita dopo che Vasilevskij ha comunicato a Teti che un anziano che abitava vicino a Millerovo gli aveva raccontato che, da bambino, nella notte di Natale del 1942, aveva visto seppellire 16 corpi di artiglieri italiani addetti alla contraerea che proteggeva l'aeroporto militare di Millerovo. Vasilevskij e Teti hanno deciso di dividersi i compiti: in Russia riesumare i corpi e, in Italia, cercare tutte le informazioni possibili sui resti dei nostri compatrioti al fine di identificarli, dare loro una degna sepoltura e organizzare un'iniziativa sulla loro sorte e su quella delle centinaia di migliaia di dispersi e reduci del Csir e dell’Armir.

Archeologi, storici e volontari - riporta la Rossijskaja Gazeta - si sono messi all'opera per cercare i resti dei soldati italiani, che sono stati così trovati in numero di sei (e non di 16 come descritto dal testimone oculare, allora bambino di otto anni). Purtroppo però non sono stati trovati i numeri di matricola di riconoscimento dei caduti. La fondazione Nasledie che, con l'esposizione permanente sulla battaglia di Stalingrado ha realizzato il più grande museo storico-militare privato della Federazione russa, si è subito dichiarata pronta a finanziare ulteriori indagini per identificare i sei soldati italiani.

In una sorta di cassapanca sono custoditi i resti dei nostri soldati, presso una chiesa cattolica di Volgogrado

Ma non solo: Vasilevskij ha provveduto a fare benedire i resti dei caduti italiani presso la chiesa cattolica di Volgogrado e a consegnare tutta la documentazione (foto e video) di quanto ritrovato all'addetto per la Difesa dell'ambasciata d'Italia a Mosca, il generale Roberto Vannacci, già comandante del 9° Reggimento d’Assalto Col Moschin e comandante della Brigata paracadutisti Folgore, che ha confermato l'attendibilità delle informazioni ricevute e che si è detto pronto a raggiungere la regione di Volgogrado per poter vedere di persona i resti dei caduti italiani.

Un pulso notevole alle ricerche è stato dato dal generale Vannacci, addetto militare dell’ambasciata d’Italia a Mosca fino al 2022

Il generale Vannacci e il nostro ambasciatore a Mosca, Giorgio Starace, erano stati precedentemente informati del ritrovamento da Teti che si è messo in seguito in contatto con il capo dell'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito italiano, il colonnello Fabrizio Giardini, e, in particolare, con il direttore dell'Archivio dell'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito italiano, il tenente colonnello Emilio Tirone che sta fattivamente contribuendo all'identificazione dei nostri soldati, a cominciare dalla loro appartenenza a una unità contraerea distaccata per la protezione del sito di Millerovo.

Ora, grazie anche al lavoro del Commissariato generale per le onoranze ai caduti, si sta cercando di fornire una lista di possibili nomi per identificare le salme. Un lavoro non facile (i piastrini, come detto, sono infatti scomparsi) che sta vedendo l'importante contributo del Laboratorio di ricostruzione antropologica M.M. Gerasimov presso il Centro di antropologia fisica dell'Istituto di Etnologia e Antropologia dell'Accademia delle scienze russa, finanziata per questa iniziativa della fondazione Nasledie. L'obiettivo è quello di ricostruire, tramite il celebre metodo Gerasimov, il volto dei caduti e di questo si è occupata un'equipe di studiosi italo-russa guidata dalla prof. Elisaveta Veselovskaya, coordinata dalla prof. Stefania Zini, e composta da antropologi, storici e biologi (i professori Nikita Khokhlov, Ekaterina Prosikova, Yulia Pelenitsina, Anna Rasskasova e Olga Alekhina), che hanno realizzato la ricostruzione grafica e in formato 3D dei teschi e delle sembianze dei soldati italiani. I ritratti ottenuti permetteranno di dare loro prima un'identità e poi una degna sepoltura. Come spiega Teti: "Il nostro obiettivo è identificare i resti dei soldati italiani ritrovati. Se li trasferissimo alle autorità militari italiane senza dare loro un nome, essi andrebbero a riposare in una tomba comune dedicata al milite ignoto".

Ma questi caduti, come tutti i caduti di ogni guerra, meritano di più. Uno dei passaggi più toccanti dei racconti di Giovannino Guareschi riguarda la campagna di Russia. I fatti sono noti: prima di partire per l'Unione sovietica, il Brusco, uno dei compagni di Peppone, promette alla madre di accendere un cero sulla tomba del fratello caduto in guerra. Chiede a don Camillo di accompagnarlo ma, una volta arrivati al presunto cimitero, i due si trovano davanti a un campo di grano. Il Brusco fa l'unica cosa che sa fare: si arrabbia. "Ma perché hanno fatto questo? Hanno diciotto milioni di chilometri quadrati di terra, e proprio di questo pezzettino qui avevano bisogno per seminarci il grano?". La risposta di Don Camillo è pronta: "Compagno, chi ha avuto venti milioni di caduti in guerra non può preoccuparsi dei 50 o 100mila morti che il nemico gli ha lasciato in casa". Al che il Brusco replica: "Ma questo non posso mica andarglielo a raccontare a mia madre!". Ma Don Camillo: "E non dirglielo... lascia che pensi alla croce di legno della fotografia. Dille che hai acceso il lumino sulla tomba di tuo fratello. E seminando il grano di questa spiga, sarà un po' come tenessi in vita lui".

Viktor Vasilevskij, il presidente della fondazione Nasledie di Volgogrado e creatore del museo della battaglia di Stalingrado

In questi tempi bui nei rapporti tra Italia e Russia, un'azione come questa, che ha lo scopo di dare degna sepoltura a dei caduti in guerra, rappresenta proprio questo: il tentativo di seminare del grano che porta una speranza.

Quei cappellani militari morti sotto le bombe in Emilia-Romagna. Per gentile concessione della casa editrice Ares pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Alberto Leoni, «O tutti o nessuno!». Storia e ritratti dei 123 sacerdoti e religiosi morti in Emilia-Romagna nella Seconda guerra mondiale. Alberto Leoni il 20 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Per gentile concessione della casa editrice Ares pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Alberto Leoni, «O tutti o nessuno!». Storia e ritratti dei 123 sacerdoti e religiosi morti in Emilia-Romagna nella Seconda guerra mondiale

Quando l’Italia entrò in guerra, il 10 giugno 1940, nessuno poteva prevedere quale catastrofe si sarebbe abbattuta sul nostro Paese. Ben prima che i bombardamenti martellassero le nostre città, ben prima che l’odio ideologico e la brutalità dei soldati falciassero decine di migliaia di innocenti, la guerra era un dramma che si svolgeva all’estero, in tutti i Paesi in cui si espandeva la politica mussoliniana (giacché proprio lui, il Duce, si era arrogato il diritto e la responsabilità di decidere per tutta l’Italia senza tener conto dei rari pareri avversi). In queste guerre tragicamente assurde i soldati italiani fecero quanto veniva loro ordinato: e va ricordato che proprio la gran parte di quei militari, dopo l’armistizio, avrebbe scelto di opporsi al fascismo, sia con la scelta resistenziale, sia restando nella condizione degli Internati militari italiani (Imi) che, in numero di 600.000, patirono fame e malattie e contarono ben 40.000 morti in prigionia.

In quei contesti la presenza dei cappellani militari fu continua e capillare. Si tratta di una categoria di sacerdoti sul cui ruolo, nel dopoguerra, vi sono state feroci contestazioni proprio in ambito ecclesiale. Partecipare a una guerra, per un sacerdote, sembra a molti una contraddizione insanabile; l’ideale pacifista, in questo caso, sembra aver preso il sopravvento sulla tradizione, manifestando lo stesso grado di intolleranza che il veterocattolicesimo, precedente al Concilio Vaticano II, manifestava nei confronti degli obiettori di coscienza, tacciandoli senza mezzi termini di viltà (vale qui la pena di annotare che l’esercito britannico aveva già superato questo problema fin dalla Prima guerra mondiale, quando gli obiettori di coscienza servivano come portaferiti ed erano universalmente apprezzati per il loro eroismo). Due opposte visioni ideologiche, quella

tradizionale e quella progressista, che semplicemente non tengono conto dell’uomo. Proviamo a spiegarci con una leggenda tratta dalla tradizione dell’Oriente cristiano così come la narra Vladimir Sergeevič Solov’ëv nel suo saggio La Russia e la Chiesa universale.

Un giorno san Nicola e san Cassiano furono inviati sulla terra per un giro d’ispezione e si imbatterono in un carrettiere il cui carro si era profondamente impantanato nel fango. San Nicola decise di aiutare il pover’uomo e chiese a san Cassiano di aiutarlo, ma questi rispose che mai e poi mai avrebbe sporcato la sua bianca clamide. San Nicola scese nel fango e tirò il carretto fuori dalla fossa. Al ritorno in Paradiso, san Pietro rimproverò san Nicola per essersi presentato in uno stato pietoso. Quando però seppe dell’aiuto dato al carrettiere, san Pietro stabilì che san Nicola sarebbe stato festeggiato due volte all’anno mentre, rivolto a san Cassiano, disse: «Tu accontentati del piacere di avere una clamide immacolata: avrai la tua festa solo negli anni bisestili, una volta ogni quattro anni». Se guardiamo alla storia, constatiamo che all’inizio dello Stato italiano unitario non c’erano sacerdoti al seguito delle truppe. L’ordinariato militare venne istituito nel 1915, iniziando il suo servizio durante la Grande guerra. Nuovamente soppresso nel 1922, venne ripristinato nel 1926 ed esiste a tutt’oggi. Per un’unica ragione: se la Chiesa non è accanto all’uomo che vive l’esperienza più spaventosa che possa vivere, ovvero la guerra, a che cosa serve?

Ai nostri tempi digitali anche l’Ordinariato militare per l’Italia ha un suo portale web. Vi si precisa che l’obiettivo del cappellano militare è quello di essere «tutto a tutti». Così, più in dettaglio, ne vengono descritte le caratteristiche:

disposizione ad una pastorale autentica ma adeguata allo stile della vita militare, dinamico e operativo;

piena disponibilità all’accoglienza e alla ricerca dei più lontani ed in difficoltà;

condivisione piena del tempo e dei disagi nella complessità della vita militare;

giovinezza di spirito, anche se in età matura, per questo ambiente costituito soprattutto di giovani;

stabilità e maturità affettiva e psicologica, necessarie per superare solitudine e scoraggiamento;

trasparenza di vita, autenticità evangelica e sacerdotale; – grande intimità con Dio e passione per il Vangelo.

Queste informazioni possono aiutarci a comprendere meglio come erano fatti quei quattordici cappellani le cui foto o lapidi sono ospitate nella chiesa di Pieve di Rivoschio.

Il genio dimenticato di un generale. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 2 febbraio 2023.

Raimondo Montecuccoli è stato uno degli ultimi grandi geni militari totali della storia. Sicuramente, l'ultimo italiano. Nato a Montecuccolo dal Conte Raimondo, che governava la terra attualmente compresa nel comune di Pavullo nel Frignano (Modena), il generale, diplomatico e letterato italiano è stato al tempo stesso interprete e narratore dell'arte della guerra.

La parentela con il generale Ernesto Montecuccoli gli garantì l'ingresso nell'esercito dell'Impero germanico nel 1625, a soli sedici anni. Da allora Montecuccoli si distinse sempre per la sua dedizione totale al mondo degli eserciti che nel XVII secolo conosceva una grande evoluzione.

Per 50 anni Montecuccoli partecipò alle maggiori campagne militari d'Europa. La sua formazione fu tutta nella Guerra dei Trent'Anni, conflitto che lo vide nascere soldato e crescere generale. In nome del Sacro Romano Impero fu capitano di fanteria nel conflitto che vedeva gli imperiali opposti alle truppe protestanti e della Svezia, sopravvisse alla dura sconfitta della Battaglia di Braitenfeld, nel 1631, e fu sul campo anche a Lutzen l'anno successivo. In seguito divenne comandante: dapprima, tenente colonnello di cavalleria, combatté sotto l'arciduca Leopoldo Guglielmo in Slesia dove sconfisse un corpo svedese guidato da Erik Slang a Troppau nel 1642. In seguito, l'anno successivo, condusse assieme allo Stato Pontificio la Guerra di Castro nel 1643-1644 contro gli Stati dell'Italia centrale e tra il 1645 e il 1647 sconfisse il conte transilvano Giorgio I Rakosi in Ungheria e gli Svedesi a Brno mettendo al sicuro il fronte boemo e danubiano della Guerra dei Trent'Anni che si avviava a una sconfitta per l'Impero.

Montecuccoli, vittorioso nelle campagne da lui guidate in una guerra perdente, iniziò la carriera da "ineguagliabile maestro della guerra del XVII secolo", come lo ha definito la Britannica, che "eccelleva nell'arte della fortificazione e dell'assedio, della marcia e della contromarcia, e del taglio delle linee di comunicazione del suo nemico. Nel sostenere gli eserciti permanenti, ha chiaramente previsto le tendenze future in campo militare" e nel dividere le forze in unità funzionali ha anticipato Napoleone. Teorico, nell'opera Delle Battaglie e il Trattato della Guerra ha promosso l'idea che gli eserciti fossero un corpo vivo della società da tenere in attività costante, leggendo in quest'ottica l'idea di formazione della coscienza dello Stato-nazione in atto nell'Europa a lui coeva. E facendolo, paradossalmente, da generale di un Impero che amava professarsi universale.

Vent'anni prima della carica degli Ussari alati polacchi alle porte di Vienna (1683) che fermò per sempre l'avanzata ottomana, fu Montecuccoli a infliggere una sonora sconfitta ai turchi nella guerra con l'Impero nel 1664, sul fiume Raab, nell’attuale Ungheria, in una battaglia che impedì agli eserciti ottomani di penetrare nel cuore dell’Impero ancora fragile per l'onda lunga delle sconfitte della Guerra dei Trent'Anni. Nello sconfinamento tedesco della guerra franco-olandese combattuta dal 1672 al 1678 Montecuccoli rintuzzò nella campagna difensiva le avanzate francesi oltre il Reno. Si scontrò con i due migliori generali francesi dell'epoca, Henri de Turenne e Luigi II di Condé, ai quali è stato accostato, guidando la difesa del suo Paese.

Montecuccoli fu il generale della difesa in profondità, della guerra combattuta in forma elastica e dinamica, della modernizzazione delle truppe di un Impero nato come grande entità feudale e via via sempre più antistorico. A cui garantì, con le sue vittorie, un prolungamento della vita fino al definitivo tracollo dell'entità germanica a guida asburgica ai tempi di Napoleone. Fu teorico dell'arte della guerra, seppe essere diplomatico per Vienna alle corti di Svezia e Roma, e secondo Ugo Foscolo "con gli scritti rese eterno quanto aveva compiuto con le sue gesta". Dopo la morte nel 1680 la sua figura è caduta troppo a lungo nel dimenticatoio della Storia, complice il fatto che non fu un conquistatore, un fondatore di imperi, un uomo a capo di regni e potentati ma, dal 1625 al 1675, un soldato tutto d'un pezzo. Rispettoso, inoltre, di avversari e nemici, primi fra tutti i generali della parte opposta. Una visione moderna della guerra che cozzava con la nuova barbarie delle guerre fratricide e di religione che insanguinavano l'Europa.

Nikolajewka, l'ultima eroica battaglia degli Alpini. Ottant'anni fa a Nikolajewka gli Alpini della "Tridentina" salvarono l'Armir dalla distruzione totale. Andrea Muratore il 26 gennaio 2023 su Il Giornale.

Nikolajewka, uno dei tanti punti anonimi e trascurati dalla storia dell'immenso spazio sarmatico che si stende tra le attuali Russia e Ucraina. Nikolajewka, un nome diventato un simbolo di tragedia e eroismo per quegli incroci tra fato e storia che spesso contraddistinguono le guerre. Ottanta anni fa, il 26 gennaio 1943, nel piccolo villaggio oggi parte di Livenka, vicino Belgorod, gli Alpini della "Tridentina" sfondarono nell'ultima, disperata carica le linee sovietiche. Paradosso della storia: un assalto coraggioso per porre fine a una ritirata drammatica. Un'offensiva per arginarne un'altra, quella sovietica, che da tre mesi travolgeva le linee dell'Asse. Una colonna sbandata e coraggiosa che riesce, con un ultimo impeto, a rompere il rischio dell'accerchiamento, a evitare di essere inghiottita dalla steppa senza fine.

Nikolajewka è Alfa e Omega della tragedia dell'Armir, l'Ottava Armata italiana inviata da Benito Mussolini a sostenere l'offensiva tedesca a Est nel 1942. Truppe che avrebbero ben performato nel Caucaso o a Nord, nelle colline attorno l'assediata Leningrado, furono dirottate a guardare il fianco alla Sesta Armata del generale von Paulus che assediava, inutilmente, Stalingrado. Oggetto del desiderio prima e ossessione poi di Adolf Hitler, città-simbolo che portava il nome del dittatore sovietico in cui rifluì la marea della Wehrmacht che in Europa avanzava da tre anni.

Da un mese e mezzo, prima di quel 26 gennaio 1943, l'Armir aveva battuto in ritirata. A dicembre del 1942 l'offensiva ai fianchi delle truppe dell'Asse aveva travolto le divisioni rumene e ungheresi, imbottigliando i tedeschi. Il 14 gennaio 1943 era invece cominciata l'Anabasi dell'Armir, sotto i colpi dell'offensiva portata dai sovietici sul fronte Ostrogožsk-Rossoš', guidata dal futuro conquistatore di Berlino, Giorgiy Zukov, liberatore di Stalingrado. Travolte le truppe tedesche, dissoltosi il corpo d'armata rumeno, in rotta gli ungheresi e sfondate le linee delle divisioni di fanteria dell'Armir, gli alpini si ritrarono.

L'Armir si ritrovò presto trasformata in un drappello di colonne assediate dal gelo, dalle puntate sovietiche, dalle scaramucce con gli alleati tedeschi per mezzi, viveri, ristoro. Mario Rigoni Stern ne Il Sergente nella Neve e GLuido Bedeschi in Centomila gavette di ghiaccio concordano nel ritenere l'atto conclusivo di questa campagna, lo sfondamento di Nikolajewka, il simbolo stesso della tragedia vissuta dal corpo alpino e, al tempo stesso, della sua determinazione. Mentre a Schelijakino e Warwàrowka interi reparti alpini si sacrificavano per fermare i carri armati russi, la Divisione "Julia" e la "Taurinense" sobbarcavano la quota maggiore delle perdite e delle puntate offensive sovietiche, la "Tridentina" guidata dal generale Luigi Reverberi camminava nel gelo e nella neve dietro a pochi mezzi corazzati e cannoni da 88 millimetri anticarro per trovare la via della salvezza.

A Nikolajewka fu aperta, sfondando le linee sovietiche, la breccia che diede senso a questi sforzi. E nella pianura senza fine furono proprio gli alpini più rudi e montanari d'origine, i valligiani della "Tridentina", a fare la differenza. Spiccavano nella divisione i veneti del battaglione "Verona", i valtellinesi del "Tirano" e ben tre battaglioni formati da una commistione tra trentini e abitanti delle tre valli della provincia di Brescia. Nel "Vestone" e nel "Valchiese" erano presenti i combattenti arruolati in Val Sabbia e, appunto, nella Valle del Chiese che rappresenta il versante trentino dell'area bresciana, più elementi della Val Trompia. Ma l'unità più arcigna e degna di nota era il battaglione "Edolo", formato in larga maggioranza dagli alpini nativi della Val Camonica, che si era distitno nella "Guerra bianca" combattuta sul fronte alpino della Grande Guerra, operando tra i 2 e i 3mila metri sull'Adamello e al Passo del Tonale tra il 1915 e il 1916 e aveva poi combattuto la battaglia del Ponte di Penati nella guerra italo-greca.

Fu proprio ai ragazzi dell'Edolo che il generale Luigi Reverberi affidò le operazioni più sensibili della battaglia di Nikolajewka. La carica, cioè, a colpi di bombe a mano e avanzate frontali, contro le avanguardie sovietiche che presidiavano la sacca in cui l'Armir e le truppe tedesche e ungheresi erano intrappolate. A Brescia e nelle valli, non a caso, il 26 gennaio è il "Giorno del Sacrificio". Quello che più di tante altre campagne ha strappato vite nei rocciosi montanari diventati guerrieri. Il 26 gennaio, più che di una battaglia, fu la data di un pellegrinaggio di speranza concluso con un disperato assalto alla diligenza. Dopo il quale, per cinque giorni, i 30-40mila alpini rimasti abili al combattimento dopo 350 chilometri di marcia nella neve, a quaranta gradi sotto zero, riuscirono a passare nelle linee dell'Asse assieme a 16mila tra tedeschi e ungheresi.

Gli uomini delle valli avevano evitato di essere assorbiti dal gorgo della ritirata. A un prezzo durissimo: la Tridentina perse complessivamente 10mila dei 15mila uomini che ne facevano parte. 3mila di questi, tra morti, feriti e prigionieri, scomparvero proprio nelle convulse ore del 26 gennaio. Sacrificio estremo per la salvezza. Scrive Rigoni Stern: "Qualcuno ci aveva detto di andare oltre ma il nostro cuore ci ha portati qua. Si avanzava per andare a baita. Allora sì che abbiamo lottato per la nostra Italia, per le nostre valli, i nostri campi, le nostre donne. Ci hanno detto che fummo meravigliosi. Forse sarà vero ma una lunga strada è stata segnata: ossa, zaini, scarponi, armi e sangue. Ora su queste cose il vento dondola i grani". Reverberi aveva già guidato i precedenti sfondamenti di Opyt, Nowo Karlowka, Ladomirowka. Arrestato dai tedeschi dopo l'8 settembre, fu deportato a Posen come internato militare e venne liberato proprio dai sovietici nel 1944. Si presentò come il capo dell'unica divisione che "non siete riusciti a battere". E che con il suo sacrificio diede un epilogo eroico a una campagna tragica. Che dimostrò platealmente l'incapacità bellica del governo fascista, capace di mandare allo sbaraglio in un conflitto immane le sue truppe di più alto valore.

L'altro comandante-eroe dei sommergibili italiani. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale giovedì 31 agosto 2023.

La storia di Salvatore Todaro, in queste settimane sulla cresta dell'onda per il film Comandante in gara alla Mostra del Cinema di Venezia e che racconta il salvataggio da parte del comandante del sommergibile Cappellini dei naufraghi di un piroscafo belga affondato durante la Seconda guerra mondiale, ha posto sotto una lente di pubblica attenzione la storia dei sommergibili italiani e dei loro comandanti durante l'ultimo conflitto globale. Una guerra in cui i marinai italiani seppero - come ben riconosciuto anche dagli avversari, britannici in testa - battersi sempre con onore e rispetto dello ius in bello. Risulta importante sottolineare che l'epopea di Todaro non fu solitaria, ma anche un altro comandante di sommergibili, Carlo Fecia di Cossato, seppe esprimere grande umanità nel pieno del turbine della guerra.

Diciassette vittorie da sommergibilista contro naviglio alleato tra il 1941 e il 1942, un affondamento di due cacciasommergibili e tre motozattere della marina tedesca a Bastia, in Corsica, alla guida della torpediniera Aliseo dopo la resa dell'Italia agli Alleati fanno di Fecia di Cossato l'asso della marina tricolore nel secondo conflitto mondiale. Nell'Atlantico, tra le acque dell'Africa Occidentale e quelle del Nord America, il sommergibile Enrico Tazzoli guidato dal capitano di corvetta veterano della guerra civile spagnola e con Gianfranco Gazzana-Priaroggia come comandante in seconda, colò a picco sei navi britanniche, cinque norvegesi, due olandesi e una nave ciascuna tra quelle battenti bandiera di Stati Uniti, Uruguay, Panama e Grecia, per un totale di oltre 86mila tonnellate. Comandante spavaldo e tenace, che arrivò a sfidare la dichiarazione americana circa l'impossibilità per i sommergibili dell'Asse di colpire naviglio vicino alle coste statunitensi, Fecia di Cossato fu un protagonista di Betasom, l'unità militare della Regia Marina schierata a Bordeaux, nella Francia occupata dai tedeschi, per partecipare alla Battaglia dell'Atlantico.

Fu in questo contesto che nel dicembre 1941 Fecia di Cossato partecipò all'operazione di salvataggio dei naufraghi della nave corsara Atlantis della Marina tedesca affondata presso Capo Verde e trasbordati sulla nave d'appoggio Phyton, imbarcando nell'Atlantico centrale sessanta dei quattrocento marinai e portandoli in salvo a Saint Nazaire, meritandosi la Croce di Ferro dall'ammiraglio Karl Donitz.

Un anno dopo, nel 1942, a essere messi in salvo furono i naufraghi della Queen City, nave mercantile britannica colata a picco nel cuore dell'Atlantico dal sommergibile italiano. Un presagio di quanto sarebbe successo l'8 settembre 1943 quando i tedeschi divennero, improvvisamente da alleati nemici. E Fecia di Cossato, alla guida della torpediniera Aliseo, contribuì nella giornata del 9 settembre alla vittoriosa difesa di Bastia da parte della Regia Marina.

Dopo una violenta battaglia navale in cui la torpediniera contribuì a colare a picco cinque delle otto navi tedesche distrutte quel giorno, nella giornata che segnò la resa dell'Italia e il cambio di alleanza, Fecia di Cossato non dimenticò la tradizionale cavalleria bellica. Non curandosi della presenza di possibili sommergibili tedeschi nell'area, gettò le scialuppe nelle acque della città corsa e riuscì a salvare venticinque superstiti dell'equipaggio delle navi affondate. Una mossa rara nella storia della marineria della seconda guerra mondiale, ove da entrambe le parti la presenza dei sommergibili faceva spesso temere per manovre nemiche a sorpresa durante le fasi conclusive delle battaglie navali. E il capitano, da ex sommergibilista, lo sapeva bene. Nel frattempo, a condividere la gioia della sua nuova vittoria non poteva esserci l'equipaggio del Tazzoli che era affondato a maggio del 1943, con la perdita dell'intero personale a bordo, dopo l'impatto con una mina nel Golfo di Biscaglia.

Fecia di Cossato si fregiò, raro caso tra i militari in vita sopravvissuti a un'azione bellica, della medaglia d'oro concessagli per l'impresa di Bastia, che si andò a sommare alle due d'argento e alle tre di bronzo già ottenute in precedenza. La sua missione è annoverata tra le prime - e meno note - vicende della resistenza, tanto che anche l'Anpi ha inserito Fecia di Cossato tra i pochi marinai ritenuti eroi e anticipatori della Resistenza.

Per un personaggio tanto di spicco il destino avrebbe però presto riservato una fine improvvisa. Il 27 agosto 1944 Fecia di Cossato scelse la via del suicidio dopo essere stato messo agli arresti per il rifiuto di giurare fedeltà al governo di Ivanoe Bonomi, nuovo capo del governo italiano, che aveva negato il giuramento al re Vittorio Emanuele III, la Marina Italiana visse una fase spartiacque, una vera e propria crisi di identità. Oltre che un senso dell'onore che lo aveva portato a accettare di combattere contro gli ex alleati tedeschi, ma non ad accettare la resa della Marina: il capitano rifiutò l'idea di consegnare agli Alleati le unità della flotta, sostenuto dall'equipaggio, sostenendo la necessità di continuare col giuramento di fedeltà. Fu arrestato dal governo italiano di stanza nel Sud Italia a giugno 1944 per questo motivo e ricevette una licenza di tre mesi verso la fine della quale optò per il gesto estremo. A cui, da quanto si può apprendere dalla lettera di addio scritta alla madre, contribuì molto il dolore per il distacco dagli uomini e compagni d'arme delle crociere belliche del 1941-1942. I sommergibilisti, scelti volontari, dell'Enrico Tazzoli che dormivano, per citare l'inno dei sommergibilisti, "nel profondo cuor, del sonante mar".

"Da mesi e mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare. Penso che il mio posto è con loro", furono le ultime parole di Fecia di Cossato, che negli anni precedenti era diventato il "Corsaro dell'Atlantico" combattendo con tenacia ma chiara comprensione delle leggi umane che regolano il conflitto una guerra in cui a spingerlo non era l'identificazione con il regime fascista, ma il vincolo saldo di fedeltà alla monarchia e al sovrano. Una comprensione di cui aveva saputo dare atto anche nel momento in cui gli alleati erano diventati, improvvisamente, nemici da combattere. E che lo rendono un eroe controcorrente, dal destino tragico, nella storia di lutti e sofferenze del secondo conflitto mondiale.

Non chiamate «eroe fascista» il comandante Todaro. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera venerdì 1 settembre 2023.

Caro Aldo, andrà a vedere «Comandante», il film sull’eroe fascista Salvatore Todaro, che chiese e ottenne di essere trasferito nella X Mas? Io sì. Paolo Lupo, Milano

Caro Paolo, Certo anch’io andrò a vederlo. La presenza di due fuoriclasse come il protagonista Pierfrancesco Favino e lo sceneggiatore Sandro Veronesi è garanzia di un grande film. Raccolgo volentieri la sua sfida intellettuale sull’«eroe fascista». Gli autori del film hanno studiato la figura di Todaro, e hanno trovato più che altro espressioni di fede monarchica e cattolica. Comunque, così come quando parliamo di seconda guerra mondiale usiamo indiscriminatamente le parole «tedeschi» e «nazisti», certo fino all’8 settembre le forze armate italiane si possono senza scandalo definire «fasciste». Todaro non era un militante politico. Era un soldato. Era in marina, la meno fascista delle tre armi. C’è un punto debole nella sua lettera. Lei cita la Decima Mas, e pensa chiaramente a Junio Valerio Borghese e alla guerra antipartigiana. Ma quello è un contesto del tutto diverso. Fino all’8 settembre, la Decima Mas fa la guerra, e la fa bene. Dopo l’8 settembre, molti tra i suoi comandanti restano fedeli al re, e si battono al fianco degli Alleati contro i nazisti; a cominciare da Luigi Durand de la Penne, l’eroe di Alessandria d’Egitto. Il punto non è tanto se Todaro possa essere definito o meno fascista, ma se fino all’8 settembre gli italiani abbiano fatto la guerra in modo diverso dai tedeschi. In alcuni contesti certo sì. In altri, ad esempio nella Jugoslavia occupata dove secondo il generale Robotti non si ammazzava abbastanza, purtroppo no. La Quarta Armata che occupava il Sud della Francia difese gli ebrei, e infatti il suo capo di Stato maggiore, il generale Alessandro Trabucchi, sarà uno dei capi della Resistenza, prenderà il posto del generale Perotti fucilato con i suoi uomini dai fascisti al Martinetto. L’idea molto diffusa per cui i partigiani erano fondamentalmente comunisti è un falso storico, le prime bande partigiane sono fondate da militari, anche se certo i comunisti pagheranno un alto contributo di sangue. Ci sono episodi attestati in cui fin dal 1940 la milizia legata al regime e l’esercito confliggono, ad esempio in Grecia camicie nere e alpini vennero più volte alle mani, segno che i nostri montanari non avevano tutta questa voglia di combattere la guerra del Duce; anche se poi la spedizione fu salvata dalla Julia — motto: mai daur, mai indietro —, che tenne miracolosamente sul Pindo, a costo di perdite spaventose, per consentire alle altre truppe di ripiegare. I superstiti furono poi mandati a farsi massacrare in Russia, con gli altri alpini della Tridentina e della Cuneense.

Chi era Salvatore Todaro, il “Comandante” fascista del film con Favino che salvava vite in mare. Alla guida di un sommergibile durante la Seconda guerra mondiale, Todaro, interpretato da Favino, soccorse i nemici dopo averli affondati. «Una lezione di umanità ai tempi del fascismo». Chiara Nicoletti su L'Unità il 31 Agosto 2023 

“Fascista? Io sono un uomo di mare” risponde così a chi lo addita, Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Cappellini agli inizi della Seconda Guerra Mondiale, interpretato da Pierfrancesco Favino in Comandante, film di apertura dell’80ª Mostra del Cinema di Venezia. Una frase che può facilmente illustrare che cosa c’è al fondamento del film, una storia di esseri umani e di umanità e non di uomini di guerra legati ai potenti di turno.

Il regista Edoardo De Angelis, orgoglioso di aprire il concorso, racconta di non voler mandare un messaggio ma condividere una visione del mondo, in questo caso, quella di un uomo che, nell’ottobre del 1940, dopo aver affondato un mercantile armato di supporto alle forze alleate, trasse in salvo i marinai superstiti per sbarcarli in porti neutrali e ottemperare così alla legge del mare. Salvatore Todaro ha sempre sottolineato il suo essere uomo e il suo essere italiano. Ma cosa significa essere italiani? “Spesso me lo sono chiesto, da napoletano, perché per noi è diverso – risponde De Angelis. Quando mi sono imbattuto nella figura di questo comandante, mi è stato chiaro. Per Todaro essere italiani significa portare 2000 anni di storia di civiltà sulle spalle, accogliere e non respingere, arricchirsi della diversità.  Il comandante del mercantile abbattuto, dopo essere stato salvato, gli chiede perché non li hanno lasciati in mare a morire, ammettendo che nella loro posizione, non avrebbero lasciato superstiti. Todaro risponde semplicemente: “Perché siamo italiani”. Se essere italiani significa questo, allora sono orgoglioso di esserlo”. Todaro ci ha mostrato cosa significa essere davvero forti e cosa può significare ancora oggi essere italiani”.

Si unisce Favino: “Quella battuta ha risuonato in me. Io vengo da una famiglia dove di tanto in tanto arrivava qualcuno che i miei stavano aiutando e io e mia sorella ci spostavamo dalla nostra stanza per ospitarli. Mi è stato insegnato che dove si mangiava in 6, si mangiava anche in 8. Io ho sempre pensato che quello fosse un dato dell’italianità e cerco di trasmetterlo alle mie figlie e lo applico nella mia vita”. Complice la presenza del ministro Salvini alla Mostra per l’apertura, la domanda inevitabile che aleggia nell’aria, arriva alle orecchie di De Angelis e Favino: avete paura che il film venga etichettato come omaggio a un eroe fascista? Se il regista di Indivisibili risponde un secco “No”, Favino “finge” di generalizzare: “Penso che nulla di creativo venga dalla paura, non si può non fare qualcosa per questo. Avrei dovuto aver paura di fare un mafioso, un politico, un anarchico, ogni volta c’era la possibilità che qualcuno non fosse soddisfatto”.

A proposito di fascismo, tra le critiche al film e alla persona di Salvatore Todaro, c’è il suo essere stato membro della X Flottiglia Mas. Ci tiene però a precisare De Angelis nelle note di regia “per non incorrere in equivoci calunniosi, che al tempo del suo passaggio la X Mas non è ancora diventata la vergogna e il disonore dell’esercito italiano, cosa che avviene dopo l’8 settembre 1943 quando il suo fondatore, Junio Valerio Borghese, decide di farne una teppa di aguzzini al servizio dei nazisti e della Gestapo, responsabile di rastrellamenti e di torture nei confronti di ebrei italiani e di partigiani”.

Todaro non seppe mai di quegli orrori poiché, nel 1942, lasciata la X Mas, trovò la morte, raggiunto nel sonno da una raffica di mitra sparata da uno Spitfire inglese, come aveva, tra l’altro, predetto. Pierfrancesco Favino in conferenza stampa viene definito la super star del cinema italiano e nonostante il suo instancabile lavoro per supportare l’industria di casa nostra e ben due film importanti in concorso, si emoziona intensamente per ogni ruolo. Salvatore Todaro gli ha donato molto.

Lo dimostra descrivendo chi è diventato per lui: “Per me è un magnifico esempio di quello che io cerco nel mio mestiere, il fatto che un essere umano non sia mai una cosa sola, un aggettivo e che possa essere contemporaneamente, come nel caso di Todaro, un cattolico praticante e uno spiritista, un appassionato di arti e filosofie orientali e un militare convinto. Credo che questa sia una storia di un’epifania, di un uomo che non accetta la sua condizione fisica, che sceglie di scendere sotto il mare ed è pure capace di disobbedire, sapendo di farlo, per obbedire ad una legge più alta: mettere l’uomo al primo posto. Non parte con l’idea di salvare il mondo ma decide di fare questo gesto perché sente di appartenere a una cultura e un’idea di umanità”.

Detto questo, Favino si commuove quando parla della figlia di Todaro, Graziella Marina, che il comandante non ha mai conosciuto perché nata dopo la sua morte: “Non ho mai sentito la voce di mio padre – mi ha detto – adesso ce l’ho”. A gran richiesta, come sottolinea l’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco, Comandante uscirà il 1 Novembre nelle sale italiane con 01 distribution. Il primo giorno di Venezia 80, oltre al concorso, si dedica alla cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla carriera alla maestra del cinema italiano e internazionale, Liliana Cavani, dalle mani dell’attrice inglese Charlotte Rampling, protagonista del suo più grande successo di critica e pubblico mondiale, Il portiere di notte del 1974. Oltre al premio, Cavani porta in anteprima a Venezia il suo ultimo lavoro, L’Ordine del tempo, in uscita il 31 agosto.

Ispirata dal libro omonimo dello scienziato Carlo Rovelli, la regista ha costruito una storia su un gruppo di amici di vecchia data, riuniti per festeggiare un compleanno, costretti a rivedere scelte, legami, obiettivi e speranze a causa della minaccia che il mondo potrebbe finire nel giro di poche ore. La caduta di un asteroide che incombe sulle teste dell’umanità come spinta alla riflessione sul tempo: “È nato tutto con la curiosità di voler parlare del tempo, anche perché può sempre accadere che qualcosa ti caschi in testa”, ironizza Cavani.

L’Ordine del tempo si apre con il mito di una donna forte, l’Alcesti della tragedia di Euripide e si chiude con un’altra donna, altrettanto forte seppur più concreta e tangibile: “Era un po’ un segnalare l’importanza della donna che è capace di ragionare, di affrontare e che trova la soluzione possibile. L’intelligenza della donna credo sia stata importante, anzi importantissima nella storia e non è tuttora mai stata abbastanza raccontata”. Chiara Nicoletti 31 Agosto 2023

L'eroismo di Salvatore Todaro fu citato nel discorso al Senato dopo la strage di Cutro. Quando Matteo Renzi parlò in Senato del “Comandante” oggi interpretato da Pierfrancesco Favino. La storia di Salvatore Todaro. Redazione su Il Riformista il 30 Agosto 2023 

Mercoledì sera il Festival di Venezia sarà inaugurato da un’opera molto attesa: è “Il Comandante“, il film di Edoardo De Angelis con protagonista Pierfrancesco Favino nel ruolo di Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Comandante Cappellini durante la seconda guerra mondiale.

A ricordare la vita di Salvatore Todaro fu Matteo Renzi nel discorso che tenne in Senato nel marzo 2023 subito dopo la terribile tragedia di Cutro, di fronte al Ministro degli Interni Piantedosi. “Voglio che quest’aula – disse Renzi – ricordi la figura del comandante Todaro, nato in Sicilia, cresciuto a Chioggia, diplomato all’Accademia di Livorno: questa figura è un eroe nazionale perché in tutti i momenti difficili della storia italiana ha sempre fatto prevalere le ragioni dell’umanità. Quando il 16 ottobre 1940 la sua imbarcazione distrugge il piroscafo belga prende i ventisei naufraghi e li salva. Questa è l’identità italiana».

La storia di Salvatore Todaro fino ad oggi non era particolarmente nota al grande pubblico: classe 1908, fu un militare italiano, comandante di sommergibili nella seconda guerra mondiale. Nel 1940 prese il comando del sommergibile “Comandante Cappellini” e quando il 16 ottobre, al largo dell’isola di Madeira, silurò ed affondò il piroscafo belga Kabalo, decise di prendere a bordo i ventisei naufraghi della nave belga e li portò sulle cose delle isole Azzorre. Tale generoso comportamento non fu apprezzato dal comandante in capo dei sommergibilisti tedeschi, l’ammiraglio Karl Dönitz, che lo criticò severamente. “Neppure il buon samaritano della parabola evangelica avrebbe fatto una cosa del genere”, sbottò l’ammiraglio tedesco Dönitz, che pure lo ammirava. “Signori, – dice rivolgendosi ai colleghi italiani – io vi prego di voler ricordare ai vostri ufficiali che questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il Don Chisciotte del mare”. Todaro rispose alle critiche mosse, con una frase lapidaria, riportata da molte fonti e mai smentita, rimasta celebre, da allora in poi, nella storia della nostra Marina: “Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle”. Todaro morì in Tunisia nel dicembre 1942, colpito dalle mitragliatrici di uno Spitfire inglese mentre era al comando del motopeschereccio armato Cefalo.  Aveva 34 anni e la sua memoria venne onorata con la medaglia d’oro al valor militare.

Il Comandante, il film di Edoardo De Angelis scelto per aprire il festival del cinema di Venezia, si concentra proprio sulla vicenda dell’affondamento del Kabalo e della conseguente decisione di Todaro di trarre in salvo i superstiti e accoglierli a bordo, salvandoli così da morte certa nel pieno della seconda guerra mondiale. Un film coraggioso che ha ricevuto il pieno sostegno della Marina Militare, al punto da concedere alla produzione la possibilità di accedere ai suoi archivi e al diario di bordo del sommergibile Cappellini.   Le riprese si sono svolte negli ultimi mesi del 2022 tra Taranto, il Belgio e i Cinecittà Studios di Roma.

«Comandante»: nel nuovo romanzo di Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi la storia di Salvatore Todaro. ROBERTO SAVIANO su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

Esce per Bompiani il libro in cui regista e scrittore rievocano l’impresa del sommergibilista che salvò i nemici dal naufragio. Dalla vicenda anche un film con Pierfrancesco Favino

Alcuni luoghi del mondo in cui viviamo hanno il potere di deformare i concetti, di sconvolgere le definizioni lessicali o quantomeno di metterle a dura prova. Sono luoghi particolarmente vasti — deserti, montagne, foreste — in cui l’assenza di riferimenti noti, la mancanza di codici riconoscibili e interpretabili può creare spaesamento e rovina. È così vasto, il mare, che pensarlo come un luogo risulta difficile. Eppure lo è. Per Joseph Conrad è «un luogo metafisico: spazio isolato, astorico, di pienezza e di solitudine, in cui i conflitti spirituali raggiungono con facilità le posizioni estreme e radicali ed in cui gli uomini vengono a trovarsi, drammaticamente, alle prese con l’Assoluto». Chi va per mare sa molto bene che ci mette niente, la libertà, a dilatare la sua grana, a diventare smarrimento, lo smarrimento a trasformarsi in terrore, e il terrore a introdurre le note di un tristissimo requiem. È così, il mare. Unisce e separa. Partorisce e inghiotte. Dal mare nasce la vita che nel mare, spesso, finisce. Non lo scopriamo oggi. Ma oggi siamo costretti a ricordarlo ogni giorno. Ci basta guardare la tv, sfogliare le pagine di un quotidiano, leggere le notizie online o anche, semplicemente, bazzicare i social network. Il mare, oggi, è più cimitero che culla. Il mare non ammazza nessuno, ma non fa neanche nulla perché dalla morte si scampi. Muove onde alte venti metri, ma non muove un dito. Il confine semantico che esiste fra un «Ti porto al mare» e un «Ti getto in mare» segna tutta la volubilità di luogo (metafisico oppure no) dalle cui bizze tutte le civiltà, in tutte le epoche, hanno sentito il bisogno di garantirsi nominando santi, dei e protettori di ogni sorta.

Eppure, a proteggere gli uomini dal mare sono gli uomini. La storia che Sandro Veronesi ed Edoardo De Angelis raccontano nel libro Comandante (Bompiani) è una testimonianza potente e attuale — pur essendo ambientata ai tempi della seconda guerra mondiale — di quell’urgenza laica, umana e inderogabile che obbliga un individuo a salvarne un altro quando si trova in mare aperto. Un’urgenza non che andrebbe mai messa in discussione, ma che ci fa riflettere, soprattutto in certi frangenti, sull’importanza di usare il condizionale. La genesi del romanzo, il suo stesso concepimento, è incredibilmente curioso, come ricorda Veronesi nella prefazione al libro. Nel 2018, stufo e frustrato di dover ascoltare espressioni indecenti come «pacchia», «crociera», «taxi del mare» associate alle operazioni di soccorso ai migranti in mare, lo scrittore dà vita a un movimento chiamato Corpi reclutando partecipanti tra la cerchia di amici, prevalentemente scrittori o registi, anche loro esasperati dalla xenofobia imperante e da certa politica che ne alimenta il fuoco. Quelli di Corpi si scambiano messaggi in una chat di gruppo.

Fra loro c’è anche il regista De Angelis. È lui, una mattina, a pubblicare nella chat il link a un articolo che parla dell’ammiraglio Giovanni Pettorino — il comandante della Guardia Costiera che, nonostante le strette governative, ha coraggiosamente ricordato che «salvare le vite in mare è un obbligo di legge e morale», ve lo ricordate? —, il quale, a sostegno della propria tesi ricorda l’impresa del comandante Salvatore Todaro, in missione per la Regia Marina, quindi per un Mussolini ansioso di far bella figura con i tedeschi e con l’ammiraglio Karl Dönitz. Durante il conflitto, Todaro affondò con il proprio sommergibile, il Cappellini, il piroscafo belga Kabalo, che poco prima aveva rischiato di uccidere lui e i membri del suo equipaggio. Ebbene, una volta riuscito a salvare sé stesso e i suoi, e dopo aver affondato lui, piuttosto, l’imbarcazione nemica, Todaro fece qualcosa di straordinario, inaspettato, e illegale. Salvò l’equipaggio del Kabalo lasciando salire a bordo gli stessi belgi che fino a pochi minuti prima sparavano cannonate contro il Cappellini e che adesso, poveri disgraziati, si apprestavano a morire con i polmoni gonfi d’acqua salata. Tornato a terra, Salvatore Todaro venne duramente rimproverato dall’ammiraglio tedesco Dönitz, che lo chiamò «Don Chisciotte del mare» ricordandogli come quella fosse «una guerra, non una crociata missionaria». Todaro era perfettamente a conoscenza delle regole. Sapeva benissimo che molti altri, al posto suo, avrebbero eseguito gli ordini lasciando che i belgi annegassero. Però rispose: «Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle».

Fin qui è storia. Una storia straordinaria, certo. Ma qualcosa di ugualmente straordinario — stavolta dettato dal caso, non dalla volontà — doveva succedere perché il libro di Veronesi e De Angelis prendesse la propria strada. Una delle persone iscritte alla chat, la promoter musicale Jasmin Bahrabadi, invia a Veronesi una mail in cui spiega che la buonanima del comandante Todaro era suo nonno. Questo è singolare, soprattutto se si tiene conto che la chat coinvolge in tutto ventotto persone, compreso il suo stesso ideatore. La mail è corredata da un articolo scritto proprio da lei e pubblicato su un quotidiano nel quale si parla di Todaro. Stregati dalla storia, incuriositi dal caso, De Angelis e Veronesi si mettono a fare ricerche sul comandante, aprendo bauli — letteralmente — con le sue vecchie cose, parlando con i parenti, ricostruendo e dando la forma narrativa del romanzo alla vicenda del sommergibile Cappellini e del suo comandante. Il progetto è quello di scrivere insieme la sceneggiatura di un film, che infatti è già in avanzata lavorazione: a interpretare Todaro sarà Pierfrancesco Favino, si gira a bordo di un Cappellini fedelmente ricostruito con settantatré tonnellate d’acciaio e oltre cento fra ingegneri e operai. Il punto, però, è che la storia si rivela così potente da spingere Veronesi a proporre a De Angelis, prima ancora della sceneggiatura, la scrittura di un romanzo. È un racconto corale, un diario a più voci che però, una volta calatosi in mare, come molti altri concetti che sulla terraferma hanno una consistenza solida e univoca, trova una nuova disciplina, un rigore composito e unitario. Le voci sono tante, e tanto diverse fra loro, ma suonano insieme. Navigano insieme, sperano insieme, temono insieme. E in questo compito di coagulazione vocale, che è anche raggruppamento visuale, la visione dello scrittore e quella del regista sono sinergiche. Veronesi dimostra ancora una volta che la potenza della vera prosa sta nella calibrazione certosina dei suoi registri, che una lama va affilata bene, perché tagli a dovere, ma non troppo, perché altrimenti si sfalda. De Angelis scrive come vede, e questo è un grande dono. La grammatica per lui è strumento al servizio del suo occhio interiore. In queste pagine, gli autori, com’è sempre auspicabile, scompaiono. Si annichilano, come direbbero i fisici. Risultato del processo, irreversibile, è che sulla carta restano solo i personaggi. Restano le loro voci.

La prima a parlare è Rina, moglie di Salvatore Todaro, che le viene riconsegnato dopo una banale esercitazione con la schiena rotta, un’invalidità che lo costringerà a indossare per tutta la vita un busto metallico che non potrà mai togliere e che gli procura un dolore placabile solo con la morfina. Però — e qui la follia assume tratti di spaventosa e umana coerenza — quel busto lo tiene dritto. Lo costringe a restare dritto. In una posa «da guerriero». Rina, che aveva sperato grazie a questa disabilità di poterlo vedere finalmente tranquillo, finalmente salvo, Rina che progettava di vendere la casa di Livorno e trasferirsi con lui in un cascinale, deve arrendersi all’idea che Salvatore tornerà in missione.

La missione si chiama Agguato. Il sommergibile Cappellini deve navigare nell’Atlantico e oltrepassare Gibilterra a caccia di navi nemiche. E la trova, la nave. È un piroscafo belga. Nessun problema, sembrerebbe. Nel conflitto bellico il Belgio è neutrale. E allora perché il piroscafo è scortato a distanza da una nave militare inglese? Cosa trasporta? E perché ha un cannone a prua? In un batter d’occhio, la nave di scorta sparisce e dal piroscafo iniziano a sparare. Cosa succede in questo rapido scambio lo abbiamo già detto, il Kabalo ha la peggio, il suo equipaggio viene salvato dallo stesso comandante che l’ha affondato e che adesso, per salvare la pelle ai naufraghi, deve stipare i suoi uomini in spazi assai angusti. Quasi non ci credono, i belgi, che quest’uomo malconcio, scalzo e con un busto metallico stia salvando loro la vita mettendo a rischio la propria e contravvenendo a ordini ben precisi. E gli altri, l’equipaggio del Cappellini, di questa «bestiaccia lunga 73 metri e larga 7» con un «motore termico da 3000 cavalli per la navigazione di superficie e due motori elettrici da 1300 cavalli l’uno per la navigazione subacquea», armato con «due cannoni da 100, due mitragliatrici binate da 13 millimetri e otto tubi lanciasiluri da 533. Dodici siluri di dotazione, 600 proiettili da cannone e 6000 da mitragliera», come vanno alla guerra? Ci vanno ognuno con la propria voce, ognuno con il proprio dialetto, con il proprio impiego: il motorista Stumpo, il marconista Schiassi, il cuoco Giggino, ascoltano canzoni trasmesse da Radio Andorra, l’unica che in tempo di guerra parla di tutto tranne che di guerra, e suonano allo stesso tempo la propria, di canzone. Meglio: prendono parte alla sinfonia sottomarina, al racconto corale, mentre Todaro gioca alla lotteria più pericolosa del mondo schivando mine e bombe di profondità e riuscendo, per via di quei «duemila anni di civiltà» o semplicemente perché (anche senza il busto) è uno con la schiena dritta, a conservare un’umanità sorprendente.

Sorprendente, si badi, soltanto perché in fin dei conti Todaro comanda un sommergibile mandato alla guerra in una spedizione chiamata Agguato. Per questo è sorprendente. È sorprendente che un codice arcaico ed eterno, inderogabile, cromosomico, baleni alla mente di un sommergibilista della Regia Marina fascista sperso nelle vastità dell’Atlantico — quello stesso codice ricordatoci dall’ammiraglio Pettorino: «Salvare le vite in mare è un obbligo di legge e morale» —, per sprofondare miseramente prima che possa raggiungere la terraferma. Prima che possa raggiungere certi palazzi dove chiaramente non ha mai attecchito. Certe stanze dove ancora si parla di «crociere» e di «pacchia». Mentre i «Don Chisciotte del mare» — per usare l’espressione dell’ammiraglio tedesco Dönitz — invece di fare lo slalom fra mine e bombe di profondità devono schivare bordate e minacce che arrivano dalla terraferma. Bisogna leggerlo, questo bel romanzo. Bisogna leggere anche Don Chisciotte.

Saviano affonda Todaro a colpi di fake news: ecco la vera storia di un eroe del mare. Il nostro strano Paese "riscopre" una vicenda nota. Lo scrittore però non si è documentato. Stenio Solinas il 31 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Questa è una storia con un presente e un passato. Nei giorni scorsi sul Corriere della Sera Roberto Saviano ha rievocato la vicenda del sommergibile Cappellini e del suo comandante Salvatore Todaro, che nel 1940 salvarono l'equipaggio del piroscafo belga Kabalo. Lo ha fatto in maniera concisa e insieme imprecisa, come vedremo, ponendo però l'accento oltre che sull'impresa in sé sulla sua riproposta, in forma di libro e poi di film, a opera dello scrittore Sandro Veronesi e del regista Edoardo De Angelis: Comandante (Bompiani, pagg. 152, euro 16) è il titolo del primo, a doppia firma, e si presume del secondo.

Nella ricostruzione di Saviano, tutto parte da un movimento, chiamato Corpi, con tanto di chat di gruppo, a cui Veronesi diede vita nel 2018 quando le operazioni di soccorso ai migranti in mare erano oggetto di critiche, anche becere, spesso pretestuose. Nella chat, pare di capire, appare dapprima un link legato all'articolo di un ammiraglio in cui veniva ricordata proprio l'impresa del comandante Todaro «in missione per la Regia Marina, quindi per un Mussolini ansioso di fare bella figura con i tedeschi e con l'ammiraglio Karl Dönitz», chiosa Saviano, un modo contorto per non dire una cosa molto semplice: Todaro era un ufficiale italiano in guerra e come tale pronto a fare la sua parte, ovvero il suo dovere.

Al link si aggiunge poi una mail in cui una «promoter musicale», qualsiasi cosa voglia dire questo termine, fa sapere che il comandante Todaro era suo nonno, una cosa singolare, commenta Saviano, visto che la chat «coinvolge in tutto ventotto persone», il che lascia perplessi sul potere evocativo-associativo del movimento Corpi prima ricordatoAl di là di ciò, «stregati dalla storia, incuriositi dal caso, De Angelis e Veronesi si mettono a fare ricerche sul comandante, aprendo bauli -letteralmente- con le sue vecchie cose, parlando con i parenti» ecceteraDa qui un romanzo e poi una sceneggiatura dove, a detta sempre di Saviano, che di professione fa anche lui lo scrittore, «la potenza della vera prosa» sta in una «lama che va affilata bene, perché tagli a dovere, ma non troppo, perché altrimenti si sfalda». Che le lame si sfaldino ci sorprende, ma ce ne faremo una ragione, che, nel caso del regista De Angelis, questi scriva «come vede», sarà pure «un grande dono», a patto tuttavia che veda bene e non sia né miope né strabico

Fin qui la storia della chat e dintorni. Veniamo al racconto su come andò quel salvataggio in mare e su chi era Todaro. Scrive Saviano che «il piroscafo belga Kabalo poco prima aveva tentato di uccidere Todaro e i membri del suo equipaggio». La cosa non è vera, il Kabalo non sparò: aveva sì un cannone, ma non poté utilizzarlo perché l'accorciata distanza provocata dall'emersione del sommergibile non gli consentiva l'angolo di inclinazione giusta per colpirlo. «Todaro salvò l'equipaggio del Kabalo lasciando salire a bordo gli stessi belgi che fino a pochi minuti prima sparavano cannonate e che adesso, poveri disgraziati, si apprestavano a morire con i polmoni gonfi di acqua salata».

In realtà, il mercantile venne colpito e affondato dopo che le due scialuppe di salvataggio erano state messe in acqua e si erano allontanate: quelli che sul momento prese a bordo il Cappellini erano solo i cinque marinai rimasti indietro rispetto al «si salvi chi può» e buttatisi in acqua dopo che l'unico canotto di bordo era a propria volta caduto in mare. C'è qualcos'altro tralasciato nella sua ricostruzione da Saviano, e che però è molto importante. Todaro recuperò successivamente le due lance, le prese al traino, per due volte il traino si ruppe, imbarcò alla fine tutti e ventisei i membri dell'equipaggio belga e dopo quattro giorni di navigazione li sbarcò su una spiaggia delle Azzorre

Nella rievocazione di Saviano Todaro era invalido per una «banale esercitazione», che lo aveva lasciato «con la schiena rotta. È vero, ma un po' riduttivo. La schiena Todaro se l'era rotta nel 1933, mentre era osservatore sugli idrovolanti: il suo si era infilato in mare colpito nei piani di coda dalle colonne d'acqua sollevate da un siluroQuanto alla sua morte, avvenuta nel dicembre del 1942 e da Saviano non ricordata, sarà nel canale di Sicilia, a opera di un areo americano, mentre sul peschereccio Cefalo trasportava verso un porto algerino due barchini esplosivi da usare contro la flotta anglo-americana.

Sandro Veronesi è del 1959, e quindi appartiene alla mia generazione, gli anni Cinquanta, appunto. Saviano, come De Angelis, sono della fine degli anni Settanta, una generazione dopo, insomma. Ciò che li accomuna è l'essere intellettuali, essere italiani, interrogarsi e appassionarsi, immagino, su ciò che è stato il nostro passato proprio per poter capire meglio il nostro presente e lavorare in qualche modo per un futuro migliore. Dalla ricostruzione giornalistica di Saviano su come sia nato Il Comandante vien fuori che nessuno di loro, almeno sino al 2018, sapesse chi fosse Todaro, il suo coraggio, le sue imprese, e sempre restando al resoconto di Saviano l'impressione è che almeno quest'ultimo non abbia poi approfondito più di tanto.

Bene, questa è la storia presente. Il passato ci porta invece alla fine degli anni Sessanta, il 1968, per la precisione. Un ragazzo di diciassette anni accompagna il padre a una cena in casa di amici. In questa cena è presente uno scrittore, Antonino Trizzino, di cui il ragazzo è un lettore, e quindi il padre lo porta con sé perché sa che gli farà piacere. In quegli anni Trizzino ha scritto vari libri, Navi e poltrone, Settembre nero, Sopra di noi l'Oceano, tutti pubblicati da Longanesi, tutti di grande successo, nonché fonti di grandi polemiche.

L'ultimo è il racconto dell'attività sommergibilistica, specie in Atlantico, della nostra marina e l'impresa di Todaro è raccontata nei minimi dettagli, così come quella del sommergibile Malaspina e del suo comandante, il capitano Leoni, che nell'agosto sempre del 1940 fece la stessa cosa con i superstiti della British Fane, una petroliera inglese. Come scriveva allora Trizzino, per capire le ragioni di questa umanità e di questo altruismo «bisogna risalire a quegli anni: il comandante Leoni appartiene a una generazione di giovani in gran parte animata dall'ambizione di fare onore al proprio Paese, di accrescerne la fama e il rispetto del mondo. Sentono il dovere di mostrarsi nobili e generosi, non coraggiosi soltanto».

Nella dedica di Trizzino a quel ragazzo diciassettenne, dopo il nome e il cognome c'è scritto. «Da italiano a italiano». Non c'erano chat, né gruppi d'ascolto: si leggeva, si andava in biblioteca e in libreria, si era curiosi, ci si appassionava, si imparava da quelli più grandi di te, si voleva capire, si cercava di mantenere un filo rosso, una continuità generazionale. Tutto qui. Che a distanza di cinquanta e passa anni non si abbia la conoscenza della propria storia, da italiani a italiani, appunto, la dice lunga sul tipo di Paese che abbiamo costruito.

Todaro il mago del mare rimasto sommerso per più di ottant'anni. Il "Comandante" di sommergibili che salvò i naufraghi merita il ricordo. Non la retorica. Matteo Sacchi il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Sembra un romanzo ma è vero. Combatteva con la schiena fracassata e il corpo chiuso dentro un busto d'acciaio. Sembra un romanzo ma è vero. Lo chiamavano Zoroastro o il Mago Baku per la sua passione per le lingue orientali e lo yoga, ma davvero il suo istinto di guerriero aveva qualcosa di istrionico, la sua sfida al pericolo qualcosa di alchemico. Una magia interrotta solo da una raffica di mitraglia che lo colse nel sonno.

Salvatore Todaro (1908-1942), il petto appesantito da un numero strepitoso di medaglie (tre d'argento e due di bronzo da vivo, una d'oro da morto) è, per biografia e carisma, l'eroe perfetto per qualunque racconto, film o romanzo. Anche perché al comando dei sommergibili aveva un piglio cavalleresco, che può anche essere un limite tattico, ma è sempre un buon viatico per la leggenda. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi scriveva Brecht, e l'Italia nella Seconda guerra mondiale è stata molto sventurata: nella mancanza tecnologica e logistica si suppliva col coraggio e col sangue. Ma ancora più sventurata è la patria che gli eroi se li dimentica molto molto a lungo (se si esclude la memoria di corpo coltivata dalla Marina o qualche saggio di nicchia). Quindi è sicuramente bene che adesso sia in libreria un romanzo a quattro mani firmato da Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi dal titolo Comandante (Bompiani, pagg. 152, euro 16).

Racconta, con le libertà che è giusto si prenda un romanzo, e che sono dichiarate a fine volume, una parte rilevante delle imprese di Todaro. Ovvero quelle relative alla missione atlantica del sommergibile Cappellini dell'ottobre 1940.

Passato lo stretto di Gibilterra (un inferno di mine e cacciatorpediniere britanniche) Todaro e i suoi uomini iniziarono ad operare dalla base oceanica Betasom di Bordeaux dalla quale i sommergibilisti italiani, sostenendo l'impegno tedesco durante la Battaglia dell'Atlantico, si impegnarono a bloccare le rotte marittime tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, dopo una lunga e snervante attesa in mare, il Cappellini finalmente intercetta un bersaglio. È un mercantile belga armato di cannone che viaggia a luci spente nella notte e che ha perso contatto con la sua scorta britannica. Todaro non ci pensa un attimo: porta la sua nave all'attacco delle 5mila tonellate del Kabalo, ne esce un duello d'artiglieria in cui Todaro fa serrare sotto il Capellini per entrare nella zona morta del cannone nemico. Non è questa la sede e non lo è un romanzo per discutere di quanto male funzionassero i siluri italiani, anche per tattica d'impiego. Sta di fatto che, anche se un sommergibile non è una cannoniera, Todaro vince. La nave in fiamme affonda. Ci sono uomini in mare, poi compare anche una lancia. E Todaro a questo punto fa quello che pochissimi in quella guerra crudele avevano l'umanità di fare. I naufraghi li soccorre. Trascinerà in superficie la loro scialuppa verso il porto sicuro di Santa Maria delle Azzorre. Una follia che rende il sommergibile vulnerabile ad ogni attacco. E quando le cime, un sottile cordone ombelicale di salvezza, si spezzano Todaro fa tornare indietro il battello e insiste. E quando la scialuppa non tiene più il mare, imbarca i naufraghi sul sommergibile riempiendolo oltre ogni limite, ficcandone alcuni nella torretta. E questo significa che di nuovo il sommergibile non può immergersi. Ma alla fine, con cocciuto coraggio, i naufraghi saranno portati in salvo. La scelta non piacque al comando tedesco (e nemmeno a quello italiano) e pare - non vi è certezza storica su questo - che Todaro abbia risposto alle rimostranze di Dönitz con un lapidario: «Noi siamo marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà, e noi queste cose le facciamo».

Nel romanzo tutto questo c'è. E c'è anche altro. La fatica e il rischio della vita claustrofobica dei sommergibilisti. La voglia di combattere di Todaro, un guerriero senza se e senza ma. L'orgoglio di essere marinai italiani. C'è anche l'eroismo di Danilo Stiepovich, l'altra medaglia d'oro del Cappellini, ucciso in combattimento. La sua morte viene anticipata alla battaglia con il mercantile belga anche se in realtà avvenne mesi dopo in uno scontro con gli inglesi (di nuovo lotta in superficie nello stile Todaro). Ma è comprensibile gli autori abbiano voluto, con la sua epicità, tenerla nella narrazione. Il senso di un romanzo non necessariamente è la precisione assoluta, semmai trasmettere il senso e la sensazione di vite al limite e così diverse dalle nostre. Talmente diverse che si fa quasi fatica a ricordarsi che lo stesso Todaro, il veterano col busto d'acciaio rimasto ferito durante un'esercitazione con l'idrovolante era, nel 1940, appena un trentenne. Poi la scrittura, il racconto è fatto in prima persona dai vari personaggi - gioca bene con i dialetti che ancora caratterizzavano il modo di parlarsi degli italiani e che rendevano l'interno delle nostre navi delle piccole Babele galleggianti. Non bastasse, nell'epilogo c'è una frasetta che ci si dovrebbe ricordare bene a romanzo finito: «Dei centoquarantacinque sommergibili impiegati durante la Seconda guerra mondiale dalla Regia Marina Militare, ne sopravviveranno soltanto trentasei. Tutti gli altri riposano sul fondo del mare coperti da croci di corallo».

Allora tutto bene? Si può dire tutto bene tranne all'inizio, la prefazione. Il problema non è nel modo in cui il romanzo si immerge nella storia ma nella spiegazione del perché si immerge. Attenzione, nulla da dire sulle motivazioni personali degli autori che si sono avvicinati alla vicenda di Todaro quando è stata nominata dall'Ammiraglio Pettorino, allora comandante della guardia costiera, relativamente alla difficile gestione dei migranti abbandonati dagli scafisti nel mare libico. Ma questa vicenda complessa risalente a più di ottanta anni fa, e che ora diventa romanzo e film, non ha senso presentarla come apologo morale: «Gli Italiani (quelli che vanno per mare, ma soprattutto quelli che non ci vanno, che prendono il sole sul bagnasciuga, e giocano a racchettoni, e partecipano alle feste in spiaggia, e considerano giusto, perfino patriottico, lasciar morire affogata la gente che fugge dalla povertà, dalla persecuzione e dalla guerra) sappiano di chi sono figli. Anzi, nipoti». Perché allora se si fa così si fa torto alla Storia e al lettore, allora ci vuole il saggio, e ogni imprecisione da romanzo diventa un modo di tirare per la giacca con le emozioni. I romanzi non andrebbero mai spiegati e invece in Italia...

Salvatore Todaro, il fascista che salvava i nemici naufraghi. Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023 

Sandro Veronesi ed Edoardo De Angelis raccontano la storia del comandante di un sommergibile italiano che disobbedì ai tedeschi e salvò i superstiti di due navi avversarie che affondavano. E poi, sfidando la sua stessa legge marinara, si rifiutò di giustiziare due ammutinati

Salvatore Bruno Todaro (Messina, 16 settembre 1908 – al largo di La Galite, Tunisia, 14 dicembre 1942) è stato un militare italiano, pluridecorato comandante di sommergibili della Regia Marina italiana (foto Mondadori Portfolio)

Salvatore Todaro è un eroe del mare che non smetterà di stupirci, anche dopo averlo conosciuto. Perché ha qualcosa di indecifrabile, come ogni eroe di quell’avventura iniziatica che è la vita quando è libera da pregiudizi altrui e dalle proprie convinzioni. Nato a Messina nel 1908 e morto nel 1942 al largo di La Galite, in Tunisia, Todaro agisce di sorpresa, come il suo sommergibile, il Cappellini. Ha spiazzato i suoi contemporanei, perché in nome della legge del mare ha salvato i superstiti delle navi nemiche che affondava, contravvenendo all’ordine dell’ammiraglio tedesco Karl Dönitz (ma senza subirne conseguenze). Ha spiazzato sé stesso, perché la pietà che gli monta dentro lo spingerà a ribellarsi persino alla legge marinara, non punendo gli ammutinati. E spiazza noi posteri, che a un secolo dalla Marcia su Roma, con la destra al governo che a volte confonde profughi e invasori, facciamo i conti con un eroe in camicia e pizzo neri, uno che oltre alla moglie aveva sposato la morte in battaglia.

Un eroe fascista, dunque, che salvava i naufraghi. Sempre. Ce lo raccontano Sandro Veronesi ed Edoardo De Angelis, che ne hanno fatto un libro, Comandante (Bompiani), dopo aver lavorato alla sceneggiatura del film (con Pierfrancesco Favino protagonista). Si sono concentrati sull’affondamento della nave belga Kabalo, intercettata e cannoneggiata nella notte del 16 ottobre 1940 in Atlantico (il Belgio era neutrale, ma la nave trasportava armi per gli Alleati): nonostante gli ordini dell’Asse fossero di non soccorrere superstiti, Todaro li trattò come naufraghi, fino a imbarcarli, mettendo a rischio sé stesso e il suo equipaggio, per sbarcarli poi, dopo varie avventure, nel porto sicuro più vicino (gesto che ripeterà successivamente, con la nave inglese Shakespeare). Il libro ha un afflato epico, uno stile viscerale e una vitalità anfibia, per i cambi di forma, dal racconto orale all’epistola, e dei punti di vista, dalla moglie di Todaro all’infermiera di terra, dai marinai italiani a quelli belgi, che danno polifonia al racconto. La storia è stata intercettata da De Angelis e Veronesi nel 2018, quando al governo Conte c’era Salvini agli Interni con la politica dei cosiddetti “porti chiusi”.

Come avete scoperto la figura di Todaro?

De Angelis: «In occasione del discorso che l’ammiraglio Pettorino fece per l’anniversario dalla Guardia costiera. Non potendo esprimere un dissenso diretto verso il governo, racconta una storia, quella di Todaro. E per questo ha subìto attacchi, per aver raccontato una storia vera, di un comandante medaglia d’oro al valore militare. Assurdo. Ho condiviso un articolo che citava il discorso con il gruppo che Sandro aveva creato, si chiamava “Corpi”, per ricordarci che chi muore in mare è un corpo che perde la vita. All’epoca, al potere, c’erano mostruosità linguistiche che rappresentavano mostruosità umane, una narrazione piena di disprezzo per le vite abbandonate in mare in nome di una supremazia della nazionalità italiana. Come se essere italiani significasse respingere, lasciar morire».

Veronesi: «La storia di Todaro sembrava fatta apposta. Eravamo tutti indignati, perché sapevamo che gli italiani non si comportano così. Un conto è se mi parli di chi discende dai Vichinghi, che prendono un guscio di legno, un tronco scavato, e vengono da Oslo fino al Mediterraneo. Da loro ti aspetti una certa durezza. Ma gli italiani sono storicamente artisti della navigazione, grandi conoscitori dell’umanità nel mare, un popolo di poeti, santi e navigatori davvero.

In fondo al libro (ndr. qui accanto la copertina) abbiamo messo la filza di santi protettori dei naviganti, dei pescatori, di chi va per mare. L’Italia è un molo di terra, sappiamo meglio di tanti il pericolo che è il mare. E quei provvedimenti del governo mettevano in discussione questa verità. Mi stanno colpendo le notizie che anche oggi, come allora, ci sono operazioni della Guardia costiera che continua a salvare vite, ma è meglio non dirlo, va contro la propaganda del potere».

Todaro non comanda una nave ONG che recupera naufraghi. Ma un sommergibile da guerra pieno di camerati che affondano nemici. Ed era abilissimo, di una bravura che gli venne riconosciuta, con medaglie, anche dai nazisti. Eppure, il guerriero fascista ci sorprende come campione di umanità.

Veronesi: «Certo, aveva la camicia nera, il pizzo... anche io all’inizio l’ho visto come fascista, poi l’ho studiato, e ho scoperto che era monarchico, più che fascista. Come quasi tutti gli ufficiali della Marina. Non sarebbe andato a combattere per la Repubblica di Salò. Certo, è morto prima, ma per essere chiari: avevamo letto nelle cronache dell’epoca che per la cerimonia funebre di Stiepovich, marinaio di Todaro, c’erano stati saluti e grida “Eia Eia Alalà”. Così avevamo immaginato questa scena, ma dalla Marina ci hanno detto che quella era la versione della propaganda.

Il punto è che prima di essere fascista era un monarchico e prima di essere un monarchico era un uomo di mare... In mare, gli esseri umani sono più umani, perché siamo tutti più fragili, chiediamo e diamo aiuto. La storia di Todaro, ho scoperto, è nota nella famiglie che hanno un parente in Marina, o militare. Siamo noi civili che non la conosciamo. E credo vada insegnata a scuola, è una figura eroica, come Enrico Toti che lancia la stampella contro gli austriaci... coltivando queste figure superiamo i pregiudizi su di noi».

Uno dei momenti più forti del racconto è il giudizio del comandante belga. Considerava tutti gli italiani fascisti e tutti i fascisti dei porci. Dovrà ricredersi, perché il sommergibile tornerà a pescarli in mare, come promesso. Per la Repubblica italiana l’antifascismo è una pregiudiziale fondante. Il fascismo è stato il nostro male. Questa storia, che pure sbugiarda il nazionalismo marittimo della destra di oggi, mette in crisi l’assioma.

Veronesi: «Io un pregiudizio del genere sui fascisti non l’ho mai avuto. Neanche sulle persone che si dichiarano fasciste oggi. Dipende di cosa stiamo parlando e dove siamo. Ci sono persone che non riescono a rinchiudere la propria generosità dentro una ideologia e viceversa persone la cui meschinità di fondo non viene nobilitata da una ideologia nobile. No. Io ho un pregiudizio sul fascismo come struttura mentale che attira a sé le persone. Ma anche così, l’adesione a questa ideologia non esclude che se c’è dell’umanità poi emerga. E non devo sorprendermi di un fascista buono, che fa una cosa esemplare... non è che da un fascista devo aspettarmi solo gesti disumani».

De Angelis: «Aggiungo che il pregiudizio non va sottovalutato, è il fondamento della conoscenza, noi conosciamo per analogia: generare una nuova conoscenza è il superamento di una vecchia. Chi racconta storie cerca di stressare questo meccanismo, di ribaltare il pregiudizio, quello è lo sfizio del racconto. Senza pregiudizio non ci sarebbe il racconto».

Qual è in questo racconto lo “sfizio” più grande?

De Angelis: «Partire da questo pregiudizio: un militare deve rispettare le regole di ingaggio. E invece no, Todaro risponde alla legge del mare, salvare le vite, i superstiti sono naufraghi, anche se nemici. Se non ci fosse quel pregiudizio, la storia sarebbe bella ma senza ribaltamento. Todaro, spiegando il suo gesto, sbatte in faccia all’ammiraglio tedesco la verità, quando dice “Gli altri non hanno come me duemila anni di civiltà sulle spalle”».

«Dice che l’uomo alla guida di una triremi romana duemila anni fa è lo stesso che comanda un sommergibile nel 1940, in Atlantico. I belgi con cui stiamo girando il film si commuovono per questa affermazione perché quella frase non vuol dire “sono italiano” ma significa “sono belga”, “sono francese”, sono chi vuoi, ma non sono come lo pensi tu, non sono quello che tu pensi io sia, non sono quell’insieme di regole in cui non mi riconosco».

Per lei Veronesi, qual è lo sfizio in questo racconto?

Veronesi: «Lo stesso di Todaro, che soffriva del pregiudizio sugli italiani e ha goduto a dire al comandante belga, che non capì il gesto e poi per il resto della vita è andato a onorare la tomba di Todaro, “io ti ho salvato perché sono italiano”. Non ci fosse stato quel pregiudizio sull’italiano, non si sarebbe impuntato così... chissà. Alla fine è smarrito, quando scrive alla moglie confessa di aver provato pietà per due belgi che avrebbe dovuto buttare a mare perché si erano ammutinati, e invece si limita a prenderli a schiaffoni. Rispetta la legge del mare quando li salva, poi la tradisce quando non li punisce. Prima ha salvato delle persone, come doveva fare, poi non ne ha uccise due, come doveva fare. Tanti sono già morti, in mare, al mare non ne vuole darne altri. Si scopre straniero a sé stesso, più compassionevole di quanto pensava di essere e di quanto doveva esser come comandante».

De Angelis: «Si sente in balia di un sentimento che non sa collocare. Lì è l’umanità che diventa un vizio, sfocia nella pietà, nella compassione, non è applicazione di una legge eterna, ma di una legge umana. Fa scelte azzardate perché ha fede nell’umanità».

La Morale.

L’isola degli arrusi. La storia dei quarantacinque gay catanesi confinati dal fascismo per pederastia. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 24 Aprile 2023

Un’iniziativa fotografico-editoriale restituisce per la prima volta i volti di quegli uomini confinati dal regime a San Domino nel 1939 «nell’interesse del buon costume e della sanità della razza»

Tirato in 400 copie e autoprodotto negli scorsi mesi dalla fotografa Luana Rigolli, L’isola degli arrusi (in siciliano occidentale arrusu è il corrispettivo italiano di frocio) è un libro che muove e commuove. È un memoriale potente, che rende a noi presente la passione di quarantacinque catanesi confinati dal fascismo per pederastia e solleva prepotentemente il velo su una pagina scarsamente conosciuta della nostra storia. Un invito quasi ineludibile a seria riflessione che, ancor più significativo alla vigilia del 25 aprile, si è tradotto venerdì nello specifico incontro romano su moderazione di Alessio Ponzio, componente dello staff dell’LGBT+ History Month Italia e professore straordinario presso l’Università di Torino, dove, a partire dal corrente anno accademico, è titolare del corso di Storia dell’omosessualità. 

A ospitare l’evento il Circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli” con introduzione del presidente Mario Colamarino e interventi della stessa Rigolli, del regista Alessandro Tampieri, della coppia di papà arcobaleno Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, l’uno scrittore e attivista Lgbt+, l’altro poeta e conduttore radiofonico, che sono i coautori del documentato saggio storico-antropologico La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista. Pubblicato per la prima volta nel 2006 e recentemente riedito per i tipi Donzelli con prefazione di Vittorio Lingiardi, tale opera è non solo testo di riferimento per chi voglia approfondire la ricerca scientifica o semplicemente informarsi al riguardo. Ma anche fonte d’ispirazione dell’accennata iniziativa fotografico-editoriale, che restituisce per la prima volta i volti di quegli uomini tra i 18 e i 50 anni, confinati nella prima metà del 1939 a San Domino, isola dell’arcipelago pugliese delle Tremiti, per l’ossessivo zelo del questore di Catania Alfonso Molina.  

«Nell’interesse del buon costume e della sanità della razza», così aveva questi motivato, tra il gennaio e il febbraio del 1939, le proposte di confino. Pur mancando come per il passato uno specifico reato nel Codice penale, riformato dal guardasigilli Alfredo Rocco ed entrato in vigore nel 1931, i rapporti omosessuali continuavano di fatto a essere considerati criminosi. Anzi, erano trattati come delitti non più solo contro la morale pubblica e il buon costume. Ma ora, in linea col nuovo titolo X del testo normativo, anche contro l’integrità e la sanità della stirpe. 

L’assenza di un intervento del legislatore in materia influì in ogni caso sulla portata dell’azione repressiva della pederastia che, alternamente considerata vizio acquisito e malattia congenita, era derubricata dal regime a fenomeno scarsamente diffuso. Laddove s’intervenne, più che al carcere si ricorse pertanto al confino e all’internamento manicomiale: d’altronde le due misure preventive potevano meglio garantire l’occultamento di una realtà altrimenti dannosa all’immagine del virile maschio italiano. 

«Il regime – così a Linkiesta Claudio Finelli, segretario e referente Cultura di Arcigay Napoli – si fece promotore dell’assunto, tanto ideologico quanto assurdo, che la progenie romano-italica fosse sostanzialmente immune da “simili perversioni” e che, tranne rarissime eccezioni, la virile tempra nostrana non conoscesse questi cedimenti e queste “mollezze” proprie dei popoli d’oltralpe. Questo stato di cose ha inevitabilmente indotto gli omosessuali del tempo a vivere nella massima clandestinità la propria esistenza, per evitare d’incorrere in quei provvedimenti amministrativi che ne avrebbero comunque sancito il confino». Misura, questa, che oggi conosciamo meglio e possiamo valutare con più appropriato criteri grazie allo studio magistrale di Lorenzo Benadusi Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista.

Tornando al questore Molina, delle complessive cinquantatré proposte di confino, da lui presentate e tutte relative, secondo una diffusa concezione valutativa dell’omosessualità d’origine greco-romana, a «pederasti passivi», ne erano state alla fine accolte quarantacinque. Quelle appunto dei protagonisti del libro. Originari per lo più del capoluogo etneo e, in misura minore, di Adrano, Risposto, Paternò, essi sarebbero rimasti a San Domino fino al 7 giugno 1940. Dovendosi infatti adibire l’isola a luogo di relegazione per oppositori del fascismo, essi si videro commutare il confino, su proposta del capo della polizia e approvazione del Duce, in due anni d’ammonizione. 

Gianfranco Goretti ricorda al nostro giornale di aver faticato, insieme col proprio compagno, nel «riportare alla luce questa storia, di cui s’era persa traccia nel corso degli anni. La nostra è stata una ricerca d’archivio molto approfondita. Quando vent’anni fa è stato pubblicato L’omosessuale e l’isola, abbiamo preferito non rivelare l’identità delle persone coinvolte per rispetto sia della privacy sia dei parenti sia del desiderio di non visibilità, che i diretti interessati avevano sempre manifestato nel corso della loro esistenza. Il lavoro di Luana restituisce oggi dei volti ed è dunque d’indubbio interesse: l’impatto è infatti molto potente, molto forte».

È dal corposo saggio di Goretti e Giartosio che, come si diceva, nasce il progetto fotografico e, quindi, il libro di Rigolli. «Sono – racconta l’autrice a Linkiesta – una fotografa  molto appassionata di storia, soprattutto del ’900, e di isole. Nel febbraio 2019, entrando in una libreria, mi sono imbattuta per caso in una copia de L’omosessuale e l’isola. Non conoscevo questa drammatica vicenda collettiva. Ma, immergendomi nella lettura del libro, ho subito pensato a una storia fotografica.  Nell’autunno di quell’anno ho iniziato i miei viaggi con destinazione San Domino e, quindi, Catania. Nella città siciliana ho fotografato di notte i luoghi che i maschi omosessuali frequentavano, volendo così esprimere la situazione di clandestinità nella quale erano costretti  a vivere. A San Domino, invece, gli scatti dei luoghi di confino sono stati tutti realizzati di giorno: era in quelle ore, infatti, che essi vivevano l’isola, in quanto la notte dovevano tassativamente restare nei cameroni». 

In entrambe le località Luana Rigolli ha cercato di conoscere persone che avessero avuto in qualche modo a che fare coi 45 confinati. A San Domino, ad esempio, ha avuto la possibilità di colloquiare col novantaseienne Attilio Carducci, che all’epoca aveva 12 anni: nell’azienda agricola paterna lavorarono infatti alcuni di quegli uomini. La parte più laboriosa è stata quella relativa alla ricerca presso l’Archivio di Stato centrale. «Ma – confessa al nostro giornale –  sono stati anche i momenti più avvincenti, perché è come se lì li avessi direttamente conosciuti». Oggi attraverso gli scatti raccolti in questo libro possiamo anche noi fare la stessa esperienza di Luana, che dei confinati omosessuali catanesi ha fotografato le schede biografiche, i documenti riguardati l’arresto, le umilianti visite mediche, le richieste di grazia al Duce. È d’altra parte questa la finalità, che lei stessa si prefigge con L’isola degli arrusi. «Come la storia degli omosessuali catanesi a San Domino – spiega –  ha colpito me che sono etero, così può colpire tante persone esterne al mondo Lgbt+. E la fotografia è, indubbiamente, mezzo immediato e quanto mai efficace, per arrivare a più persone possibili. È necessario ricordare quanto è accaduto solo meno di 90 anni fa, per non ricadere più negli stessi errori».

Un’osservazione è forse da farsi e riguarda, per quanto affascinante, proprio il titolo del libro. In palermitano e, più in generale, nel dialetto siciliano occidentale arrusu è con le sue varianti garrusu/jarrusu antico termine, per indicare spregiativamente  i maschi omosessuali e, più specificamente, quelli passivi. Che, invece, erano e sono in prevalenza chiamati puppi in area innanzitutto catanese, ai cui usi linguistici resta tradizionalmente estraneo il lemma arrusu. Questo vocabolo, come spiega a Linkiesta il professore Giovanni Ruffino, accademico della Crusca e massima autorità in campo di dialettologia siciliana, «è un arabismo: tale è l’origine più largamente condivisa. La forma araba originaria è ’arus, il cui significato è “sposo, sposa, fidanzata”, con evidente variazione semantica». Ma questa è tutta un’altra storia. 

Barbara Costa per Dagospia il 15 aprile 2023

Mussolini ha paura della pannocchia. Ma se lì la pannocchia non c’è! No, non c’è, ma c’è lui, "l’uomo della pannocchia", l’americano William Faulkner, che ne scrive servendosene a dildo stuprando, e perché il fascista popolo italiano deve leggere queste porcherie? Perché mettergli in testa che, in ogni persona, “c’è perdizione, c’è marciume, e c’è il Male, per prima cosa”, e che della morale, ogni morale, puoi f*ttertene, dato che l’animo umano dalla corruzione non si salva, non si vuole salvare? Che si ritiri quell’antologia, si distrugga, anzi no. Fatela uscire… "addomesticata".

Opponetegli una prefazione, a firma Emilio Cecchi, uno fidato, e che lo vanti, che gli italiani sono migliori e superiori agli “americani barbari” a cui abbiamo dichiarato guerra. Con noi non avranno scampo.

 Deve aver ragionato così, Mussolini, alle prese con "Americana", l’antologia di letteratura USA curata da Elio Vittorini. Più che ragionato, il Duce si è illuso, che le frescacce apposte da Cecchi per fermare una tale americana ferocia di parola, una tale forza dell’uomo che sa riscattarsi, e sa ribellarsi contro il Potere, non attecchissero nella penisola. Io non so se Emilio Cecchi si sia mai vergognato delle cattiverie e delle bugie immani che ha vergato in ossequio al Duce per indebolire (invano) la potenza istintiva e ruggente negli scrittori USA, che in Italia dilagherà nel secondo dopoguerra grazie a Nanda Pivano. Ma fermenti ribollono già da prima, e sono fermenti politici, e accesi, e sono fermenti sessuali.

La letteratura statunitense è "fatta" di sesso, e Vittorini non può non saperlo, tenta di celarlo nella sua "Americana" che a leggerla oggi, nell’ultima edizione Bompiani, non ha perso nulla della sua carica. Vittorini può sì epurarlo, il sesso, snobbarlo, selezionando con cura estratti limati e casti, bilanciando parola per parola, ma non ci sarebbe stata alcuna censura, alcun bisogno di prefazione correttiva, se Americana non fosse impregnata di libertà umana, politica, e tanto sessuale.

Puoi preferire passi puliti di Steinbeck, Hemingway, Poe, di Melville, di Hawthorne, “maestri del sangue versato”, ma non puoi abolire che Steinbeck ha scritto "Furore" e che vi mette in scena il sesso, il naturale desiderio di sesso, nelle donne, con un finale, il seno gonfio di latte poppato a sfama degli adulti, che mima la lactofilia. È come un cazzotto in pieno volto. È americano.

 Non puoi tornare a casa, e non puoi girarci intorno, con Hemingway che ha posto in "Addio alle armi" sesso esplicito, in un letto di ospedale, tra un uomo e una donna che lo vogliono e si vogliono. Hemingway per i più stolti passa per maschilista ma nei suoi libri le sue donne sono vive e in prima persona attive nel sesso: sono pagine alte di orgasmi tangibili, e umidi, ed è un orgasmo femminile, quello che gemito dopo gemito "senti" in "Per chi suona la campana". A opera di un pene che sa il fatto suo.

Puoi ometterne le righe scabrose ma non puoi sempre occultare il sesso degli scrittori, sesso da loro vissuto e ributtato su pagina. Parte degli autori presentati in Americana non sono etero. Sono gay, e, quando non lo sono, fanno lo stesso letteratura omoerotica come gli riesce e gli piace. Vittorini non può dir parola sulla reale identità sessuale di Walt Whitman, lo definisce non un “adesivo”, slang che per Whitman sta a gay, né un “invertito” (termine che Radclyffe Hall, nel suo "Il pozzo della solitudine" del 1928, conia per la sua protagonista trans, ma qui siamo a vette di sessualità "altra" troppo altre per Americana) bensì “un eccentrico, di rozza cultura”, e tuttavia non può fuggire ai “suoi versi che sono, volta per volta, una misura nuova: nulla mai si ripete”.

Vittorini non può scriver parola sulla reale identità sessuale di Gertrude Stein – una che non si è nascosta – ma va lodato per averne risaltato “l’energia da inerzia, la Stein ha ripreso dai neri la loro rivolta, le loro oscurità segrete, rielaborandosele. La scrittura della Stein avanza, retrocede, e avanza, come il passo della musica e della danza nera”.

 Vittorini reputa che Emily Dickinson sia una donna “inappagata”, e che eppure abbia “dato il massimo, in un’epoca di femminile soggezione, col carbonio puro dei suoi versi”, e dice il sacrosanto sulle quattro "Piccole Donne" della Alcott, cresciute all’unico scopo di trovare marito, servirlo, farci figli, servire tutti: “Un romanzetto, di psicologia spicciola, dal significato patetico”.

Mussolini non si accorge che in due righe Vittorini gli distrugge il mito della donna fascista passiva e sforna-figli? D’altronde che i fascisti tra loro fossero ignoranti e ridicoli è notorio. Quando a Nanda Pivano sequestrano le prime traduzioni, non le toccano il lavoro su Sherwood Anderson e solo perché al momento da lei titolato "S. Anderson" e quella S i fasci credono stia per "Santo"! La 25enne Nanda Pivano i fascisti sotto interrogatorio l’hanno molestata, minacciandola di violentarla, uno dopo l’altro, se non avesse smesso di leggere e tradurre scrittori così deviati, triviali, “un culto fanatico di spettacolose esibizioni di sangue e di sesso”.

Questo è stato il Ventennio, altro che Mussolini ha fatto anche cose buone, o le fesserie scritte da Cecchi per paura, di cosa, che qualche sparuto lettore si potesse svegliare scosso all’ipotesi “che la vita potesse avere uno sviluppo nuovo”? A queste verità di Elio Vittorini, Cecchi antepone ingiurie: Jack London “è un balordo”, Anderson “è un disadattato”, e Sinclair Lewis “è fuori da questa raccolta” perché è ebreo: la sua "Ann Vickers", per Cecchi “va a letto con questo e con quello, è una specie di ragno che zampetta nel vuoto, un essere senza visceri”.

 Le donne USA in letteratura e nella vita vera secondo Cecchi sono “demenza erotica, isteriche sgualdrine, cariche di whisky, e di scompensi sessuali”. Parlando degli USA, Emilio Cecchi capitola nella retorica la più guasta: li biasima “Paese senza storia”, e meno male che ci sarà la Pivano che si sgolerà a scriverlo, che non è vero, perché “gli Stati Uniti hanno succhiato dall’Europa le radici, e se ne sono nutriti, ma sono andati oltre. Com’è nella loro natura.

L’America per prima critica sé stessa, e reagisce sempre. Sono gli americani 200 anni più vecchi di noi perché loro sono entrati 200 anni prima nella contemporaneità”. Intanto Cecchi è sicuro: gli Stati Uniti “sono a noi civiltà minore perché mettono al primo posto il benessere, la felicità materiale”. Chiamali fessi! Invece passare la vita a patire la fame da ignoranti com’è stato per il 90 per cento degli italiani fino al Piano Marshall, è meglio?!?! Conclude Cecchi: “L’America brancola alla ricerca della propria unità etnica e etica”. È il 1942. Due anni, e ci avrebbero fatto il c*lo. Salvandoci da noi stessi.

I Savoia.

Umberto II, il Savoia che sognò un regno sostenuto dal popolo e veramente libero. Pubblicate per la prima volta le conversazioni tra il Re e Giusto Matzeu, l'ufficiale che lo informava sulla Resistenza. Il ritratto inedito di un leader attento al Paese. Francesco Perfetti il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Fra giugno 1945 e marzo 1946 Umberto di Savoia ebbe colloqui con un giovane ufficiale antifascista di nobile famiglia sarda impegnato nella guerra di liberazione, Giusto Matzeu, che gli riportava notizie dal fronte e dal Nord. Comandante della zona Basso Lario, questi non era solo un combattente, ma anche un uomo di formazione umanistica che nel dopoguerra avrebbe pubblicato lavori di poesia e critica letteraria e sarebbe stato professore a Milano.

Fra i due si stabilì un rapporto di empatia che finì per dare ai loro incontri un carattere più confidenziale rispetto alle interviste rilasciate da Umberto, durante la Luogotenenza e il Regno, a giornalisti e scrittori come Nino Bolla, Giovanni Mosca, Carlo Maria Franzero, Silvio Maurano, Luigi Cavicchioli, Giovanni Artieri... I colloqui non erano destinati alla pubblicazione, ma alla vigilia del referendum istituzionale Matzeu pensò di rifonderli in volume. Il libro, completato nel 1948, quando Umberto era ormai in esilio non fu tuttavia pubblicato e solo ora vede la luce col titolo Umberto II. Dalla Luogotenenza al regno. Gli inediti colloqui con Giusto Matzeu (Edizioni San Faustino, Brescia, pagg. 344, euro 19) a cura di Marco Gussoni che ne ha reperito sul mercato antiquario il dattiloscritto originale.

Umberto riceveva Matzeu per dovere d'ufficio, per ottenere informazioni sulle operazioni belliche e raccogliere giudizi su persone impegnate nella guerra di liberazione, ma non si limitava a questo e si lasciava andare a considerazioni storico-politiche. Il primo colloquio avvenne il 12 giugno 1945, poche ore prima che Ivanoe Bonomi rassegnasse le dimissioni e aprisse la crisi di governo che si sarebbe risolta con la nomina di Parri.

Umberto chiese a Matzeu un parere e questi fu categorico: «Parri non è adatto per essere capo di un governo». Peraltro egli non cambiò idea e lo nominò perché, secondo lui, questi, voluto dal Nord e dai partiti, era «l'uomo della situazione» e sarebbe stato bene «metterlo alla prova, vederlo all'opera» anche per verificare quanto se ne diceva, e cioè che fosse «uomo modesto, laborioso e tenace». L'episodio mostra come Umberto facesse valere la sua volontà nelle decisioni politiche importanti. Ne rivela anche l'antifascismo: al suo interlocutore disse che i partigiani erano «l'espressione di tutto il popolo italiano, il simbolo della rivolta ideale» e aggiunse che sarebbero dovuti «rimanere sempre uniti, al di sopra dei partiti e lontani dalle competizioni politiche» perché solo così avrebbero potuto avere «un ruolo definitivo nella vita del nostro Paese».

Educato al «mestiere di Re», Umberto aveva una visione della monarchia come istituzione regolatrice della dialettica politica: «La monarchia è al di fuori e al di sopra dei partiti, la sua funzione è al di fuori delle mischie della piazza, in un equilibrio che consente la tutela di tutte le correnti politiche e garantisce l'esercizio di tutte e pubbliche libertà. Nella lotta democratica, le minoranze possono diventar maggioranze, e queste, o per imperizia o per incapacità, e spesso anche per elefantiasi, o mutamenti politici, possono sfaldarsi: la monarchia ha una funzione sociale e giuridica attraverso la quale garantisce tutti i processi di evoluzione democratica e la possibilità, con i mezzi legali, di arrivare al potere». Si trattava di una visione moderna, democratica e liberale dell'istituto monarchico e non è un caso che Umberto precisasse che «democrazia e libertà sono due termini e coincidono, due ideali che si fondono in uno solo».

Concetti, questi, che egli aveva già sviluppato in una celebre intervista rilasciata nell'ottobre 1944 al giornalista americano Herbert Lionel Matthews: una intervista che aveva spinto l'interlocutore a concludere che meta dei monarchici italiani sarebbe stata quella di «una monarchia liberale e democratica», insomma una «monarchia di sinistra». In realtà Umberto aveva riaffermato l'intenzione di volersi considerare al di sopra dei partiti politici aggiungendo che il sentimento monarchico non avrebbe dovuto «materializzarsi in un partito politico» e precisando, ancora, che la monarchia non avrebbe ostacolato i programmi «socialmente molto avanzati» che caratterizzavano tutti i partiti politici.

Ciò spiega la sua posizione nei confronti del referendum istituzionale. Nel colloqui con Matzeu, per esempio, egli rifiutava, contro il parere dell'interlocutore e di altri consiglieri, di coinvolgere ufficialmente la Corona nella battaglia politica. Per lui, infatti, il referendum era solo «una consultazione popolare» attraverso la quale il popolo avrebbe potuto «liberamente esprimere la sua volontà» e aggiungeva che Casa Savoia aveva «accettato il referendum, ossia il cosciente responso del popolo» anche tenendo presente il fatto che essa era «giunta al Trono d'Italia attraverso quelle vie con i plebisciti popolari». Le preoccupazioni del suo interlocutore sulle garanzie di una consultazione serena e sull'equanimità del controllo degli Alleati non lo coinvolgevano più di tanto avendo egli aveva fiducia nelle popolazioni, nelle istituzioni, nella magistratura.

La sua concezione di una monarchia che considerava «tutti gli italiani come cittadini uguali, anzi come propri figli, compresi coloro» che non l'avrebbero votata; questa concezione implicava, a suo parere, la necessità di ampio consenso. Una battuta di Umberto è significativa: «Casa Savoia non può, e non vuole regnare senza il consenso del popolo». È una battuta che comporta altre conseguenze come, per esempio, quelle contenute nelle risposte alle domande poste da Matzeu nell'ultimo incontro: se, in caso di vittoria monarchica con un margine del dieci per cento il referendum sarebbe stato ripetuto e, ancora, se, in caso di vittoria repubblicana frutto di possibili brogli o inganni elettorali, egli avrebbe lasciato l'Italia per evitare lotte fratricide e spargimenti di sangue. Le convinzioni di Umberto spiegano il suo comportamento e la scelta di partire per l'esilio anche di fronte alle resistenze dei consiglieri più stretti e al loro invito a resistere e reagire alla patente violazione del diritto, un vero e proprio «colpetto di Stato» (come lo avrebbe definito Luigi Barzini), perpetrata dal governo con la dichiarazione della vittoria della repubblica senza che questa venisse proclamata dalla suprema Corte. Nel volume si trovano precisazioni importanti su fatti e momenti della storia più recente, dalla lotta partigiana alla nascita del Regno del Sud ai rapporti con gli alleati, ma soprattutto vi si trova un ritratto inedito di Umberto che appare non già un personaggio politicamente sbiadito quanto piuttosto una persona di spessore culturale e politico, realmente preoccupato del bene del Paese.

Luigi Amedeo di Savoia Aosta, il principe avventuroso (e rubacuori). Marco Valle il 6 Dicembre 2022 su Inside Over.  

Un uomo, tante vite e tanti sogni che divennero imprese. Ecco Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, un personaggio poliedrico, affascinante e decisamente anticonformista. Anche troppo per i suoi reali parenti. Con l’eccezione di uno spirito libero come la regina Margherita, moglie di re Umberto e tutrice di Luigi dopo la morte, a soli trent’anni della madre, gli altri membri di Casa Savoia faticarono a comprendere Luigi o non lo capirono del tutto. Racchiusi in logiche dinastiche passatiste, per tutti o quasi i Sabaudi il terzogenito di Amedeo, l’effimero re di Spagna, venne visto come un simpatico eccentrico, il parente eroico ma bizzarro.  Talvolta ingombrante, persino fastidioso.

Il cugino Vittorio Emanuele III, che pur lo stimava e gli era a suo modo (ovvero ad intermittenza e parsimonia…) amico, gli negò pervicacemente il permesso per sposare Katherine Elkins, il grande amore di Luigi. La ragazza, figlia del senatore statunitense Davis Elkins magnate del carbone e dell’acciaio, era pur sempre una borghese, certamente ricchissima ma protestante e cosmopolita mentre Vittorio voleva appioppare a Luigi una granduchessa dei Romanov o qualche aristocratica balcanica. Risultato niente nozze e tanti flirt in giro per il mondo con una sorpresa finale (ma lo vedremo dopo).

Così questioni di cuore ma soprattutto tanta voglia d’avventura distaccarono presto il duca dai rigidi protocolli sabaudi.  Ma andiamo per ordine. Sin da giovanissimo Luigi si appassionò, grazie anche a Margherita, all’alpinismo e al mare alternando le prime escursioni sulle Alpi con gli studi all’Accademia navale di Livorno e a sedici anni, appena nominato guardiamarina, sul brigantino “Amerigo Vespucci” fece la sua prima circumnavigazione del globo. Una grande avventura funestata dalla morte del padre. Al suo rientro in Patria dopo un anno e mezzo di navigazione, il re Umberto lo nominò duca degli Abruzzi. Luigi ringraziò il sovrano ma alla vita di corte preferì la piccozza per cimentarsi con ascensioni sempre più impegnative: Monte Rosa, Monte Bianco, Cervino. Una dura ma efficace scuola.

Il mare però lo richiamò un’altra volta e nel 1893, imbarcato sulla cannoniera “Volturno” come sottotenente, approdò per la prima volta in Somalia, allora colonia italiana. Una terra di una bellezza disperata che da subito lo intrigò. Da allora il “mal d’Africa” lo avvolse. Per sempre. Poi, nel novembre 1894, una seconda circumnavigazione del mondo sull’incrociatore “Cristoforo Colombo” lo portò in Alaska, dove vide per la prima volta l’inviolato monte Saint Elias (alto 5.489 metri), e in India per ammirare le vette innevate dell’Himalaya. Un’altra straordinaria malia.

Al ritorno in Italia, dopo 26 mesi di onde e acqua salata Luigi decise la sua strada. Le più montagne del mondo lo attendevano. In Asia e in America. Grandi progetti ma troppo ambiziosi e dispendiosi per un’Italia appena malamente sconfitta il primo marzo 1896 ad Adua dagli abissini di Menelik.  Un colpo durissimo. Il primo ministro Crispi fu obbligato a dimettersi, il trono di Umberto I vacillò mentre l’opposizione repubblicana rialzava la testa. La sconfitta — pesante, ma di certo non peggiore degli analoghi disastri britannici in Afghanistan e Sud Africa e francesi in Messico e Indocina — rivelò impietosamente la fragilità della monarchia e la debolezza della classe dirigente liberale. Fu ancora una volta Margherita l’unica in famiglia ad avere le idee chiare: per ridare lustro alla dinastia e all’Italia serviva un’impresa epica e un vero eroe. Chi meglio di Luigi Amedeo di Savoia, il principe alpinista?

Umberto borbottando approvò e finanziò il nipote che nel maggio del 1897 partì per la sua prima spedizione. Destinazione Alaska. Assieme a Luigi il fedele amico Umberto Cagni, lo scienziato Filippo De Filippi, il fotografo Vittorio Sella, il presidente del CAI torinese Francesco Gonella e quattro guide valdostane. Dopo cinque settimane di viaggio il gruppo raggiunse infine la montagna nordamericana arrivando, in 38 giorni di scalate, in cima il 31 luglio. Un successo sportivo e mediatico che stupì il mondo ed entusiasmò l’Italia. Due anni dopo il duca, determinato a piantare il tricolore sul Polo Nord, ripartì sulla “Stella Polare”, un ex baleniera norvegese acquistata per l’occasione, per l’Artico. Tra il luglio 1899 e il settembre 1890 la spedizione s’inoltrò sempre più a settentrione ma a causa delle proibitive condizioni climatiche — Luigi ebbe una mano congelata e due dita incancrenite e la nave rischiò d’essere schiacciata dai ghiacci — dovette rinunciare alla meta finale. Ciò nonostante gli italiani toccarono la latitudine nord 86° 34’, il punto più estremo mai sfiorato sino ad allora. Un record mondiale.

Sei anni dopo, compiuta la sua terza circumnavigazione del globo al comando dell’incrociatore “Liguria”, Luigi tornò in Africa puntando sul Ruwenzori, l’inesplorato massiccio montuoso tra il Congo e l’Uganda intravisto anni prima da Stanley. In soli due mesi la spedizione mappò l’intera area, inerpicandosi sulle montagne per raccogliere preziosi reperti della fauna e della flora e scalare quattordici vette compresa la più imponente alta 5.109 metri, che il principe battezzò in onore della regina e tutrice della sua infanzia, Punta Margherita. Noblesse obblige…

Nel 1909 Luigi Amedeo, con De Filippi e Sella, tornò in Asia per scalare il K 2, 8.160 metri, la seconda vetta più alta del mondo. Una sfida terribilmente impegnativa.  Organizzato un campo base sul Godwen Austen, il ghiacciaio sui piedi della grande piramide di pietra, si diede inizio a una campagna di studi meteorologici, geologici e botanici e di rilevamenti cartografici impiegando strumenti come la fotogrammetria terrestre, per l’epoca avveniristici. Mentre gli scienziati si occupavano delle loro ricerche, il duca affrontò l’immane colosso attaccandolo più volte riuscendo a salire, il 18 luglio, sino a 7500 metri, «superando di 213 metri la massima altitudine toccata dall’uomo». Solo la fitta nebbia e i venti gelidi gli impedirono di raggiungere la vetta. Nel 1954 altri italiani coraggiosi — Achille Compagnoni, e Lino Lacedelli con il determinante contributo di Walter Bonatti— completarono con successo la missione.  

Promosso contrammiraglio alla fine del 1909, Luigi si dedicò nuovamente alla marina e allo scoppio della guerra italo-turca del 1911 assunse il comando delle siluranti impegnate nell’Adriatico. Uno scenario delicato, alla luce degli accordi della Triplice alleanza e delle pressioni dell’Austria Ungheria, alleata ma poco amica. Vienna pretendeva la neutralizzazione del bacino ma il duca, insofferente degli indugi del governo di Roma, optò per una linea aggressiva affondando le torpediniere turche dislocate nell’Albania al tempo ottomana e scatenando così un incidente diplomatico con Austria e Grecia. Per evitare ulteriori problemi il presidente del Consiglio Giolitti ordinò all’irruente comandante di ritirare le navi dalle coste albanesi e di starsene quieto in ufficio.

Insomma, per il potere politico il duca era diventato ormai una personalità scomoda. Lo fu ancor di più nel 1915 con l’intervento italiano nella grande guerra.  Nominato al comando supremo delle forze navali il Savoia-Aosta — interpretando i sentimenti di gran parte dei quadri della Regia Marina — iniziò a sognare l’agognata rivincita che doveva cancellare l’onta di Lissa 1866. Purtroppo un’impostazione operativache, come avverte il grande storico Giorgio Giorgerini:

«Faceva acqua da tutte le parti: anzitutto non vi era una giustificata ragione per cui la flotta avversaria dovesse prendere il mare per affrontare una specie di “disfida di Barletta”; in secondo luogo le forze navali avversarie avrebbero potuto condurre veloci puntate offensive nel Medio e Alto Adriatico, come fecero alcune volte,  e rientrare alle basi senza che la squadra italiana avesse il tempo per intercettarle; inoltre la Marina austriaca comprese subito che il modo più vantaggioso sarebbe stato l’impiego dei sommergibili aumentati di numero coll’ingresso in Mediterraneo di battelli tedeschi».

Risultato? Nessuna “big battle” nelsoniana ma un continuo stillicidio di affondamenti causati da mine e siluri. Un conto salato che Luigi pagò per intero. Su pressione degli anglo-francesi, della politica nostrana e dell’opinione pubblica sempre più scontenta dell’andamento della guerra navale, il 7 febbraio 1917, il duca lasciò il comando a Thaon de Revel che impostò correttamente una ben più proficua guerriglia navale con mas, siluranti e idrovolanti. Ma questa è un’altra storia.

A guerra finita, ormai ritirato dalla vita pubblica e insofferente ad ogni vincolo e obbligo, Luigi scelse l’Africa. Nel 1919 sbarcò in Somalia dove, anche grazie all’aiuto finanziario della mai dimenticata Katherine, fondò una colonia agricola, il Villaggio Duca degli Abruzzi. Così in una lettera del 2018 al Corriere della Sera, il nipote Amedeo d’Aosta ricordava l’ennesima impresa (e l’ennesima vita) dell’illustre zio: «Una comunità dove convivevano italiani e somali, la moschea e la chiesa, servizi sociali, scuole, ospedali, telegrafo, telefono pubblico, ufficio postale. Intorno la campagna irrigata e resa fertile grazie alla costruzione di una diga che alimentava una vasta rete di canali e chiuse. Il tutto realizzato con un’attenzione per l’ambiente davvero inedita ai tempi. E poi oltre 100 chilometri di strade asfaltate, una ferrovia che consentiva di raggiungere Mogadiscio, la capitale, in poco più di tre ore. Insomma dove prima esisteva solo un modesto villaggio chiamato Giohar, all’inizio degli anni ’30 al Villaggio Abruzzi vivevano oltre 200 italiani e 8000 somali, impegnati nella produzione di zucchero, cotone, banane destinati in gran parte all’esportazione. Lavoro, dunque, con tutta la dignità che comporta il lavoro: 8200 posti di lavoro creati con una sola azienda».

In quegli anni africani Luigi Amedeo trovò tempo ed energie per organizzare, tra l’ottobre 1928 e il febbraio1929, una missione alla ricerca delle sorgenti del fiume Uebi Scebeli, ritrovate a 2680 metri d’altitudine nella conca etiope di Hoghisò. Un’altra vittoria. Il 18 marzo 1933 il duca morì nel suo “Buen ritiro” consolato da Faduma Alì, una bellissima somala che ingentilì il suo volontario esilio nel continente nero. Ma il suo ultimo pensiero fu per l’amore americano. Così lontano, così desiderato. Prima di spirare inviò a Katherine un laconico telegramma. “Luigi Amedeo non è più in grado di scrivervi”. Lei capì.

Il Colonialismo.

Italiani brava gente” e altre bugie, i crimini rimossi del nostro colonialismo. ENRICO DALCASTAGNÉ su Il Domani il 18 ottobre 2023

Una proposta di legge chiede di istituire una giornata per le vittime delle nostre guerre in Africa, una pagina buia a lungo taciuta. Boldrini, prima firmataria: «Ricordiamo gli eccidi durante il fascismo e la caccia al nero ad Addis Abeba». Le strade e i monumenti dedicati ai gerarchi e gli sforzi per «decolonizzare lo sguardo»

«Noi non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo a nessuna economia». A parlare così, qualche anno fa, era Manlio Di Stefano, allora deputato del Movimento 5 stelle e sottosegretario agli Esteri nei due governi Conte e poi con Draghi presidente del Consiglio.

Il suo pensiero non è per nulla isolato. Di Stefano non è il primo né l’ultimo della lista di chi dimentica che per 75 anni, dal 1885 al 1960, l’Italia dominò gli abitanti di quattro stati africani: Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Quella stagione non è mai entrata nel dibattito pubblico nazionale. L’Italia non pagò per i crimini commessi, coltivando invece il mito degli “italiani brava gente” e alimentando una memoria del suo passato come “colonialismo buono”.

L’idea è diffusa da destra a sinistra. «Un pugno di intellettuali politicizzati vuole riscrivere l’epopea tricolore d’oltremare. Ma basta fare un viaggio laggiù per vedere il buon ricordo della nostra gente», ha scritto su La Verità il responsabile cultura di CasaPound. E pochi giorni fa, a Propaganda Live, una firma di valore come Filippo Ceccarelli si è lasciato sfuggire che «l’Italia è un paese senza colonialismo». Un’espressione infelice – il riferimento era al Medio Oriente nel secondo dopoguerra – che è bastata per attirargli critiche sui social.

LA PROPOSTA DI LEGGE

Riportare alla luce la questione dei crimini di guerra italiani e avviare un processo di analisi critica è l’obiettivo della proposta di legge per «l’istituzione del giorno della memoria per le vittime del colonialismo italiano», presentata martedì da Laura Boldrini, deputata del Partito democratico. Con lei, in conferenza stampa alla Camera, c’erano Nicola Fratoianni di Alleanza verdi e sinistra e Riccardo Ricciardi del M5s. Il tutto sotto l’ombrello dell’Anpi, per cui è intervenuto il presidente Gianfranco Pagliarulo.

«La giornata di ricordo che vogliamo fissare per il 19 febbraio, anniversario della strage di Addis Abeba, è l’occasione per avviare un processo di studio e riflessione che coinvolga le giovani generazioni e le comunità afrodiscendenti – ha detto Boldrini, prima firmataria della proposta – Un modo per ricordare gli eccidi, le campagne militari, le leggi razziali, la deportazione e la prigionia di cui ci macchiammo».

«È chiaro che, con questa maggioranza, in parlamento non ci sono i numeri per far passare la legge – ha subito riconosciuto Fratoianni – Ma intanto noi poniamo il tema. Il colonialismo spiega il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le pieghe più nascoste della società italiana. Un razzismo ordinario che può esplodere in episodi terribili o continuare a covare sotto la cenere».

QUATTRO COLONIE

La “piccola” storia coloniale dell’Italia si può dividere in due fasi. La prima espansione, a cavallo tra Otto e Novecento, per volere del leader della sinistra storica Agostino Depretis e poi di altri presidenti del Consiglio del Regno – come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti – che guidarono una serie di spedizioni per colonizzare due stati nell’Africa orientale, l’Eritrea e la Somalia, e uno nel Maghreb, la Libia.

C’è poi la seconda fase, in epoca fascista. Tra il 1929 e il 1930 il maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Mussolini di “pacificare” il Fezzan e la Cirenaica: un via libera per sterminare la resistenza armata e spopolare intere regioni. Per togliere sostegno alla ribellione antitaliana, 100mila abitanti dell’altopiano di Gebel furono deportati nei campi di concentramento. Le esecuzioni sommarie e la mancanza di cibo e acqua portarono alla morte di 50mila persone.

Ma tra le quattro colonie quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, conquistata dal duce tra il 1935 e il 1936. Un’impresa gigantesca per cui il regime impiegò carri armati, aviazione militare, bombardamenti (di cui una piccola parte con il gas nervino). Dopo la fine della seconda guerra mondiale i governi italiani chiesero l’amministrazione fiduciaria delle colonie, in vista dell’indipendenza. Ci venne negata in Eritrea e in Libia ma concessa in Somalia fino al 1960.

LA STRAGE DI YEKATIT 12

Il punto più basso del colonialismo italiano è rappresentato dalla strage di Addis Abeba del 1937. Era il 12 del mese di Yekatit, che nel calendario etiope corrisponde al nostro 19 febbraio. Quel giorno, dopo che partigiani etiopi cercarono di uccidere il viceré Rodolfo Graziani, i soldati fascisti massacrarono migliaia di uomini, donne e bambini. Una cieca rappresaglia che vale la pena rivivere tramite le parole dello storico David Forgacs, che ricostruisce l’accaduto in Messaggi di sangue (Laterza 2020):

«Il 19 febbraio, poco prima di mezzogiorno, nove bombe a mano furono lanciate durante una cerimonia nel cortile del palazzo Guenete Leul, ad Addis Abeba. Bersaglio principale dell’attentato, opera di due soli uomini, era il maresciallo Rodolfo Graziani, che officiava la cerimonia […]. Graziani venne ferito dalle schegge delle esplosioni ma non ucciso e fu trasportato all’ospedale in automobile.

Il lato anteriore del palazzo era difeso da soldati italiani, carabinieri e ascari, che reagirono contro 3.000 etiopi, per la maggior parte poveri e anziani, stipati nel cortile adiacente. L’eccidio durò quasi tre ore, tutte le persone davanti al palazzo furono uccise. Era solo la prima ondata di un massacro che si sarebbe allargato alle zone residenziali: l’uccisione dei civili continuò per altri due giorni e causò la morte di oltre 4.000 persone».

Le violenze furono perpetrate soprattutto da camicie nere e civili italiani: alla “caccia al nero” si unirono anche operai, burocrati e impiegati coloniali, che massacrarono gli etiopi a fucilate e manganellate; dando fuoco alle loro case o investendoli con i camion. Il regime provò a mantenere il silenzio sull’eccidio tagliando i cavi telefonici, ma osservatori delle ambasciate straniere fecero trapelare la notizia al Times di Londra e al New York Times.

Ma la ferocia del colonialismo non si vide solo nelle stragi e nelle deportazioni. Fu anche apartheid razzista e sessista, costruita con norme e sentenze a partire dal ’37, quando il governatore dell’Eritrea, Vincenzo De Feo, vietò la coabitazione di cittadini italiani e sudditi autoctoni e stabilì pene in caso di «rapporti promiscui». Obiettivo delle politiche segregazioniste era mantenere la società coloniale «razzialmente pura».

VIE E MONUMENTI

In Italia «le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo», ha detto lo scrittore Wu Ming 2 riferendosi a lapidi, edifici e targhe stradali: migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, che «ci parlano invano del passato coloniale o ci ripetono che fu un’impresa eroica e patriottica».

Da tempo il collettivo Wu Ming è impegnato nella mappatura di strade e monumenti dal sapore coloniale. Solo a Roma ci sono vie dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che con l’aviazione fascista portarono morte e distruzione in Etiopia. Piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, è intitolata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea.

E nel tranquillo borgo di Affile, fuori Roma, «sopravvive il mausoleo dedicato a Graziani, inaugurato nel 2012 da Francesco Lollobrigida, ieri assessore in regione e oggi ministro nel governo Meloni», ha ricordato Boldrini in conferenza stampa, mentre il nome del “maresciallo dell’aria” Italo Balbo risuona nelle 21 vie d’Italia che ancora lo omaggiano.

UNO SGUARDO DIVERSO

Nel 2020, sulla scia delle proteste di Black Lives Matter, è stata lanciata una petizione per cambiare nome alla fermata Amba Aradam, sulla linea C della metropolitana di Roma: per togliere il riferimento alla cruenta battaglia della guerra d’Etiopia (diventata anche un curioso modo di dire) e intitolarla al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola. In consiglio comunale sono state approvate mozioni in tal senso e il nome della stazione sarà presto cambiato in Porta Metronia.

L’Assemblea capitolina ha poi adottato una mozione che la impegna a «risignificare i luoghi dedicati alle conquiste d’Africa». Un passaggio accolto con gioia da Rete Yekatit 12-19 febbraio, che mantiene vivo il ricordo della strage: «Con interventi di contestualizzazione e didascalie dobbiamo modificare gli odonimi della città. Non cancellare ma aggiungere riferimenti agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui le intitolazioni si riferiscono».

Su questo insiste anche la proposta di legge presentata alla Camera: «È sorto un movimento di decolonizzazione dello sguardo che chiede di assegnare un significato nuovo, veritiero e più giusto a quelle tracce – si legge nella relazione introduttiva – È venuto il momento di discuterne, con un percorso di riflessione che coinvolga storici, istituzioni e scuole». Senza continuare a sperare nell’oblio. 

ENRICO DALCASTAGNÉ. Giornalista professionista. È laureato in Mass media e politica a Bologna e ha frequentato il master in giornalismo della Luiss di Roma. Già collaboratore del Foglio e di YouTrend, si occupa di politica e società italiana.

Testimonianze e fatti d’armi dalle colonie italiane del regime. Nicola Santini su L'Identità il 6 Agosto 2023. Dalle prime operazioni in Cirenaica nel 1923, passando per l’Etiopia e terminando in Tunisia nel maggio del 1943, le vicende legate all’impiego delle Camicie Nere nelle colonie italiane sono ricostruite attraverso le testimonianze dei protagonisti, i bollettini militari, i diari storici dei vari comandi e gli articoli di stampa.

Niccolò Lucarelli con Le Camicie Nere in Africa 1923-1943, (Ugo Mursia Editore, 2023) ripercorre i fatti d’armi sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista del contesto politico, senza tralasciare quello psicologico e morale; per quest’ultima ragione viene lasciato spazio sia alle voci di quelle Camicie Nere fino all’ultimo convinte della necessità della guerra, sia di quelle che proprio in Africa ebbero i primi dubbi sulla giustezza dell’impresa coloniale e del fascismo tutto.

Dichiara l’Autore: “Accanto alle Camicie Nere che, in Africa come altrove, commisero crimini sui quali è giustamente arrivata la condanna della storia, ce ne furono molte altre per le quali l’adesione al Fascismo fu una scelta portata avanti con onestà morale e intellettuale, lontana dalla violenza e dalla tirannia. Come ha notato anche Franco Cardini, per molti di quei Militi la camicia nera fu una sorta di bandiera, che garrì con fierezza a Culqualber, a Gondar, sul Mareth e a Enfidaville. Per altri, invece, quella stessa camicia fu una sorta di lasciapassare per commettere nefandi crimini”.

Questo volume è una riflessione che prende le mosse dalla nascita della Milizia stessa, per capirne gli scopi e il carattere. Il volume intende essere una trattazione esaustiva dell’impiego della Milizia in Africa, senza tacerne le pagine più buie, inquadrando le vicende nel contesto politico della “guerra fascista”, e approfondendo le condizioni logistiche in cui combatterono gli italiani. Questo un piccolo assaggio del libro: “Quando però, pochi mesi dopo, sarebbero nati i battaglioni di Camicie Nere, si sarebbero prospettati anche compiti più strettamente militari . Il primo impiego di natura militare della Milizia Volontaria fu nella guerra di riconquista della Libia, e giunse nel settembre del 1923, a meno di un anno dalla sua creazione, segno evidente dell’impazienza mussoliniana di porre un ulteriore sigillo fascista sulle imprese coloniali italiane”.

L’autore de Le Camicie Nere in Africa è Niccolò Lucarelli, che è nato a Prato nel 1983.

Si è laureato in Studi Internazionali, ha esordito nel giornalismo culturale sulle pagine online di Paese Sera, recensendo spettacoli teatrali, mostre d’arte e concerti di jazz, in Italia. Attualmente è critico d’arte e teatrale per Artribune e ArtsLife. Collaboratore della «Rivista Militare», ha pubblicato vari volumi sulla Seconda guerra mondiale, fra cui Italiani in Albania 1939-1945 (2021) e Operazione Bagration. L’Armata Rossa contrattacca (2022). È attivo come curatore indipendente e ha firmato progetti espositivi in Italia e all’estero.

Gli italiani in Etiopia e quel ritratto di occupante che emerge da una foto. Le fotografie possono rappresentare e distorcere, cancellare ed evidenziare. Dal ritrovamento di una vecchia immagine emerge il passato coloniale. Spunto per una riflessione sulla memoria. Maaza Mengiste su L'Espresso il 12 luglio 2023.

Nella mente rivedo quella sbiadita immagine in bianco e nero, che è stata oggetto di ore di contemplazione. Non ho bisogno di averla qui per vedere quei due uomini, uno etiope e uno italiano. L’etiope indossa un paio di calzoni laceri. Una giacca enorme gli pende sbottonata sul petto nudo, su cui incrocia le braccia ossute. È scalzo. E sebbene sia difficile dargli un’età, i suoi capelli scuri sono abbondantemente intrisi di bianco. Sbircia l’obiettivo con il mento basso, la bocca è una riga triste. Nella sua espressione: qualcosa che pare dolore, qualcosa che potrebbe anche essere confusione. 

Eri stato tu a notare l’assoluto contrasto tra lui e l’italiano, che è più alto e assai più robusto. Ben vestito, con una camicia abbottonata quasi fino al collo e sotto una maglietta. I calzoni sono puliti, integri. Il cappello è di sbieco e, ripensandoci ora, capisco che gli protegge la faccia dal bagliore del sole. Ecco perché può guardare direttamente in macchina, indifferente al riverbero. Ha le scarpe. La sua espressione, mentre guarda sollevando il mento, è rilassata. Forse perfino soddisfatta.

Ho osservato per un’infinità di tempo lo spazio vuoto all’altro lato dell’italiano. C’è l’etiope. C’è questo italiano. Poi c’è una strana chiazza senza niente. Ha le dimensioni di un essere umano, ce ne starebbe un altro. Fu proprio questo fatto insolito ad attirare la mia attenzione. L’altrimenti perfetta composizione è rovinata da quello spazio vuoto. Sembra che si sia creata una lacuna, che qualcuno sia stato grattato via lasciando solo una striscia di terra scolorita. Perfino i toni seppia in quella sezione dell’immagine sono stranamente tenui. Troppa luce nell’ombra.

Anche l’inquadratura è bizzarra. I due uomini dovrebbero essere al centro del quadro, invece sono spostati a sinistra. Manca di equilibrio. Ma se ci fosse una terza persona, sarebbe una composizione perfetta. C’è una breccia al posto di chi non è nella fotografia. L’ombra del fotografo, con l’elmetto militare, si allunga sul terreno fra i due uomini. C’è qualcosa di strano anche in quell’ombra. Come entrambi abbiamo notato, risulta troppo nitida, troppo cesellata, troppo perfetta. Sembra che il sole, proprio in quel punto, si sia attenuato. Ho l’impressione che l’ombra abbia un’angolazione diversa dalle ombre dietro i due uomini. Qualcosa non va.

Voglio raccontarti di al-Lydd, 75 chilometri da Gerusalemme, dove un uomo dalla voce pacata di nome Omar mi ha guidata verso un parcheggio al centro della città. Indicando il terreno, mi ha informata che ci trovavamo sul luogo di un massacro del 1948. Centinaia di palestinesi, tra cui donne e bambini, erano stati uccisi dagli israeliani. Non era un fatto contestato, mi disse Omar, l’aveva riconosciuto anche il governo israeliano. Ciò che voleva farmi capire era che quel parcheggio non era solo un parcheggio. Era un luogo di violenta oppressione. Un luogo di dolore e lutto, e che ciò che giaceva sotto l’asfalto era un’altra città che conteneva altre storie che aspettavano di essere ascoltate.

Siamo rimasti lì, in silenzio, e io pensavo a cosa ti avrei detto più tardi. Su quella brutta striscia di terra asfaltata, l’abisso tra quanto vedevo e quanto in realtà stavo guardando era palpabile. Non era la storia che veniva negata, ti avrei detto, ma la memoria.

Simonide disse che per consolidare un dettaglio nella memoria, si dovrebbe immaginare di collocare il fatto in una stanza di un palazzo immaginario. Un palazzo in grado di espandersi per contenere nuove informazioni, nuove stanze, tutte quelle necessarie. Per ricordare qualcosa, non c’era che da rammentare in quale stanza era immagazzinato un certo dettaglio e tirarlo fuori. Era un principio organizzativo efficiente, un metodo preciso ed efficace per ricordare. Ora sto pensando alle pitture e le incisioni rupestri, quelle meravigliose, fragili figure di umani e animali: penso alla conoscenza dipinta e incisa nella pietra, i parametri del mondo che si consolidano in quelle rappresentazioni. Questo è ciò che so. Questo è ciò che vedo. Questo è ciò che faccio. Accantonata ogni domanda. Ogni incertezza sospesa.

La più antica biblioteca del mondo fu costruita a Ninive nel 7° secolo a.C., le sue 30mila tavolette cuneiformi suddivise per argomento. Racconti e cronache di antiche tradizioni che il canto e la poesia hanno tramandato. Dettagli modellati intorno al metro e la melodia. Una volta mi hai detto che ricordiamo il mondo grazie ai dettagli che riusciamo a comprendere e organizzare. Ma ora voglio chiederti: cosa ne fai dei dettagli che non seguono una logica coerente? Che mutano costantemente significato e forma? Da quando ho cominciato a collezionare fotografie, ho anche viaggiato in lungo e in largo e spesso sorge la seguente domanda: Quale accoglienza riserviamo a ciò che indugia ai margini di una conoscenza sancita dallo stato? Cosa ne facciamo del nostro disagio? Perché è più facile adeguarsi, piegarsi alla seducente volontà del potere. Il potere è rassicurante. Persuasivo. Molto più facile immaginare un parcheggio solo come un posto fatto per mettere la tua auto, fingere che non significhi nulla di più, che sia esclusivamente ciò che dev’essere.

Lascia che torni a quella foto. Io non penso, mentre continuo a ragionarci, di averne memoria. Ho un ricordo di quando l’ho trovata, del momento in cui l’ho scoperta. Ho un ricordo delle parti che compongono il tutto. Non credo di capire cos’altro cerca di dirmi, ma di una cosa sono certa: non è solo il ritratto di due uomini. Al pari del parcheggio, è anche qualcos’altro. Tu e io abbiamo discusso di come possa funzionare la manipolazione fotografica. Forse l’uso di una doppia esposizione per realizzare l’immagine di un istante che non è mai esistito. Ma perché? Mi hai chiesto di recente. Perché prendersi la briga di farlo? Perché, te lo ripeto, ricordiamo ciò che vediamo, anche se ciò che vediamo non è del tutto vero.

Le fotografie possono rappresentare e distorcere, cancellare ed evidenziare. Ciò che quei due italiani portarono a casa con loro, insieme all’equipaggiamento militare e fotografico e i souvenir del periodo in Africa, erano foto che gli permettevano di rimodellare se stessi in qualcos’altro, qualcosa di nuovo: eroico, audace, onorevole o forse perfino allegramente crudele. Le loro foto documentavano una storia particolare e grattavano via il resto. E a poco a poco quelle narrazioni, abbellite e alterate, censurate o ingigantite, assumevano valore di fatti nella loro ripetizione. Quelle storie di guerra si trasferivano nel regno della memoria, con l’aiuto di un fotografo. Se vuoi portare a casa una certa versione di te, prima fai la foto, poi eventualmente la manipoli, infine racconti la storia.

Ciò che intendo dire è questo: la fotografia che ti ho descritto in realtà non è la foto di un africano in piedi accanto a un italiano. Nessuna foto scattata in territori contesi da un membro delle forze coloniali italiane riguarda gli etiopi, eritrei, somali o libici che vi sono inquadrati. Certo, l’obiettivo puntava su uomini e donne africani, ma la narrazione – e l’occhio – era sempre in funzione degli italiani. Ogni foto scattata in Africa in epoca coloniale era in sostanza un autoritratto dell’occupante.

La memoria del mondo. Ma ti chiedo: Il mondo ha memoria? E in tal caso, chi può rivendicarla come propria? Cosa possiamo fare tutti noi altri per far risaltare quell’incongruo spazio vuoto che sta a lato del potere e chiede uno sguardo ravvicinato? È più facile accettare un dettaglio ben confezionato, adatto a una stanza organizzata in un palazzo organizzato. Ma accanto a quelle narrazioni costruite ce n’è un’altra, della misura di un essere umano, di molti, che mostra un segmento di terra dove non batte il sole. Chi osa guardare?

Ciò che ti sto scrivendo oggi è parte di una questione più ampia su cui continuo a riflettere, relativa alla differenza tra vedere e guardare, fra commemorare e ricordare, fra storia e memoria. Per anni, ho usato la fotografia per porre domande sulla responsabilità dello scrittore e della letteratura nel far conoscere un’assenza, nel rendere visibili le cancellazioni. Come possono le parole aiutarci a vedere? Come si può andare oltre ciò con cui siamo a nostro agio, avvicinarci a ciò che è vero? Perché se indubbiamente esiste una memoria del mondo, esiste anche un altro paesaggio di cose che non si lasciano dimenticare. Proviamo a guardarlo insieme.

2023 Maaza Mengiste. Traduzione di Anna Nadotti

Gli Ufo.

Estratto dell’articolo di Chiara Fabrizi per lastampa.it – 20 marzo 2017

Quando ancora non esisteva la definizione di Ufo, un velivolo non identificato si schiantò nei pressi del Lago Maggiore, al confine tra Piemonte e Lombardia. Era il 13 giugno 1933 e a Vergiate, in provincia di Varese, non distante dall’aeroporto di Malpensa, restarono a terra non solo i rottami dell’«aeromobile» ma anche i corpi dei due piloti. 

Del primo caso «ufologico» in Italia si sa poco: il regime fascista secretò subito la vicenda - un dispaccio dell’agenzia Stefani di carattere «riservatissimo» lo testimonia -, di cui però continuò a occuparsi un ufficio, il Gabinetto RS/33, di cui faceva parte anche Guglielmo Marconi.

A provare a dissolvere la nebbia di mistero che avvolge il fatto è stato Roberto Pinotti, fondatore e segretario del Centro ufologico nazionale. [...] ha spiegato che «i resti dell’Ufo, che nei disegni viene descritto come un velivolo cilindrico, con una strozzatura poco prima del fondo, con oblò sulla fiancata, da cui uscivano luci bianche e rosse, furono portati nei capannoni della Siai-Marchetti a Vergiate, dove rimasero per 12 anni. Così come i corpi dei piloti, conservati in formalina, a lungo studiati. Si sa che erano alti 1,80, avevano capelli e occhi chiari».

Si capisce quindi perché Mussolini pensò che fossero piloti tedeschi, nonostante l’autorevole parere contrario dello stesso Marconi. [...] «Il Duce credette, forse, che sarebbe stato opportuno allearsi con una potenza militare come quella della Germania nazista, capace di produrre un velivolo mai visto prima, piuttosto che averla come nemica».

Ad ogni buon conto furono gli Alleati a prendere in custodia quelle casse, a guerra finita: negli Anni 50 il personale della US Air Force occupò gli stabilimenti per la manutenzione degli aerei militari e successivamente i resti vennero inviati negli Stati Uniti. E, [...] «Stranamente - ha sottolineato Pinotti - le tre persone che erano a conoscenza del trasporto di quelle casse negli Usa sono morte, due in incidenti di mare, una suicida».

Resta ancora molto da spiegare sul primo avvistamento di Ufo in Italia, ma gli esperti sembrano concordi nel sostenere che la zona tra Lago Maggiore e Ticino è tra quelle che registrano il maggior numero di segnalazioni di oggetti non identificati. [...]

Gli Esploratori.

Giuseppe Tucci, l’esploratore di Mussolini (e Andreotti). Marco Valle il 28 Dicembre 2022 su Inside Over.

Alla fine degli anni Venti del Novecento il regime fascista si accinse ad abbandonare l’iniziale linea di prudenza e di “basso profilo” internazionale che aveva consentito al gruppo dirigente di consolidare il potere interno, rilanciare l’economia, normalizzare, sebbene a caro prezzo, la Libia ed ottenere piccoli (e poco soddisfacenti) aggiustamenti lungo le frontiere africane.

Con l’incrinarsi del quadro post-bellico seguito alla crisi economica globale, Benito Mussolini e Dino Grandi, ministro degli Esteri tra il ’29 e il ’32, inaugurarono la politica del “peso determinante” e dell’equidistanza: una strategia pragmatica tesa a presentare l’Italia come l’ago della bilancia dello status quo continentale e finalizzata ad ottenere il pieno riconoscimento del ruolo italiano nel “direttorio europeo”. Ma non solo. Di fronte all’assemblea quinquennale del Partito nazionale fascista, Mussolini suggellò la nuova linea geopolitica nazionale: “Gli obiettivi hanno due nomi: Africa e Asia. Sud e Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare la volontà e l’interesse degli italiani […] Questi nostri obiettivi hanno la giustificazione nella geografia e nella storia. Di tutte le grandi potenze occidentali d’Europa, la più vicina all’Africa e all’Asia è l’Italia. Nessuno fraintenda la portata di questo compito secolare che io affido a questa e alle generazioni italiane di domani. Non si tratta di conquiste territoriali […] ma di un’espansione naturale che deve condurre alla collaborazione fra l’Italia e le nazioni dell’Oriente”.

Da qui una serie d’iniziative “metapolitiche” importanti: la prima edizione a Bari nel 1930 della Fiera del Levante, il rilancio dell’Istituto orientale di Napoli, la creazione, con sede al Cairo e corrispondenti nel mondo islamico, dell’Agence d’Egypte et d’Orient, l’inizio delle trasmissioni in lingua araba nel ’34 di Radio Bari, i congressi a Roma degli studenti asiatici e la fondazione, il 16 febbraio 1933, dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, l’Ismeo. L’iniziativa scientifica più ambiziosa e politicamente più ardita.

Per la prima volta dall’Unità il governo di Roma promuoveva e impostava, investendo risorse importanti, un serio progetto culturale – prodromico a quella collaborazione economica e politica auspicata dal duce – verso l’Asia e, in particolare, l’India. Prendeva così forma quella contradditoria, intermittente ma a volte efficace ”strategia dell’attenzione” mussoliniana (e già dannunziana…), ben descritta da Renzo De Felice nel suo Il Fascismo e l’Oriente, verso popoli ormai insofferenti del dominio coloniale britannico, olandese e francese.

Una passione e un interesse risalenti alla “Lega dei Popoli oppressi” di Fiume – in cui l’orbo vate aveva “arruolato” virtualmente anche gli indipendentisti del Ghadar Movement – e ribadita più volte dagli articoli di Mussolini sul Popolo d’Italia; nel settembre 1921 il futuro duce, commentando i fatti indiani, scriveva: “Una razza si è risvegliata. È in piedi. Il raggiungimento dell’indipendenza dell’India è solo una questione di tempo”. Suggestioni e ipotesi che motivarono nel maggio 1926 l’invito ufficiale di Mussolini al poeta Rabindranath Tagore, primo asiatico insignito del premio Nobel, e la visita romana di Gandhi nel 1931, suggellata da un incontro a Palazzo Venezia tra il Mahatma e il duce.

A dirigere l’Istituto, presieduto formalmente dal filosofo Giovanni Gentile, fu chiamato un personaggio sorprendente quanto fascinoso: Giuseppe Tucci. L’uomo giusto nel posto giusto. Nato il 5 giugno 1894 a Macerata, figlio unico di una coppia pugliese, il ragazzo sin da giovanissimo si distinse per la sua passione per lingue e culture remote e lontanissime (figuriamoci poi nella Macerata del tempo…) come il sanscrito o per gli esercizi yoga. Insomma, un ragazzo fuori dal comune e molto, molto ambizioso.

Come scrive Enrica Garzilli, autrice di una monumentale quanto fondamentale biografia – L’esploratore del duce, due volumi di ben 1496 pagine complessive – il personaggio aveva già le idee chiare sin dall’adolescenza: “Tucci disse che cominciò a interessarsi dell’Oriente da ragazzo, studiando le gesta di Alessandro Magno che, come si sa, invase parte dell’Asia e nel 326 a.C. conquistò parte dell’India. Da qui si capisce anche il suo carattere: forte, accentratore, conquistatore. Conquistò vette, potere, fama, onori, e una cultura assolutamente fuori dal comune. E non esitò a usare tutti i mezzi per raggiungerli”.

Diplomato “con onore” nel 1912 al Liceo Classico Leopardi, Giuseppe si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Roma dove sviluppò sempre più la sua attenzione sulle civiltà asiatiche affiancando lo studio del cinese alle ricerche sul buddhismo.

Nemmeno la Grande Guerra a cui partecipò con il grado di tenente distrasse il giovane dai suoi molteplici interessi – compreso l’apprendimento negli anni di trincea dell’ebraico e del persiano… – e nel 1919 si laureò a pieni voti con una tesi intitolata Sull’importanza e dello stato attuale degli studi di storia di filosofia orientale. Il primo passo di una carriera accademica folgorante.

Ottenuta nel 1923 la libera docenza in lingue e letterature dell’Estremo Oriente e l’anno dopo la docenza di religioni e filosofie dell’Estremo Oriente, Tucci si poteva già definire una vera autorità tra gli studiosi nostrani – invero pochi… – di orientalistica. Ma le aule e il tran tran universitario presto annoiarono il suo spirito inquieto. Nel novembre 1925, liquidato un primo matrimonio, il professore si trasformò in un viaggiatore molto particolare. Grazie a proprio a Tagore.

Nel suo confortevole soggiorno romano il sapiente indiano ebbe espressioni di stima per il regime e il suo capo che a sua volta presenziò alla conferenza del poeta alla Sapienza. Nelle successive conversazioni, Mussolini promise a Tagore un aiuto concreto per l’Accademia privata di Vishva Bharati, fondata dal Nobel a Shantiniketan, nel Bengala. L’accordo prevedeva l’invio di materiali didattici e di due docenti italiani, tra cui Tucci. Il sogno lungamente meditato, consumato e sempre ripreso finalmente si realizzava. Con molti imprevisti e qualche iniziale delusione.

La realtà indiana era ben altra cosa e ben più complessa della visione libresca su cui Tucci come i suoi colleghi universitari avevano costruito una narrazione dotta quanto fantasiosa, a tratti persino irenica. L’Asia vera era la terribile miseria e l’incredibile rassegnazione di sterminate plebi scandalosamente sovrastate dallo sfarzo di vecchie e inutili aristocrazie su cui lampeggiava un ancor flebile ma crescente movimento intellettuale e politico ansioso di libertà e indipendenza.  D’Annunzio e Mussolini, per una volta, avevano visto giusto. E Tucci lo comprese subito. Come annota Oscar Nalesin nel suo saggio dedicato all’esploratore: “Negli ultimi anni della sua vita ascriverà all’impatto dovuto a quella prima immersione nell’umanità del subcontinente l’allontanamento dalla visione romantica dell’India allora molto diffusa tra gli orientalisti europei”.

Il soggiorno a Shantiniketan fu però di breve durata. Pochi mesi dopo l’arrivo della missione italiana Tagore, su consiglio dei suoi ammiratori antifascisti italiani e stranieri fece una brusca marcia indietro rimangiandosi i giudizi positivi sul regime (per poi, come precisa De Felice, quattro anni più tardi scrivere a Mussolini un’imbarazzata lettera di scuse…). Ovviamente Roma ruppe ogni rapporto con l’università e richiamò in patria i docenti ma Tucci decise di restare in Asia. L’inizio della grande avventura himalayana: otto spedizioni tra il 1928 e il 1948.

In compagnia della sua seconda moglie Giulia Nuvoloni, il professore si recò nel Ladakh e poi in Nepal – posti magnifici, sconosciuti e all’epoca terribilmente inospitali – per studiare usi, costumi locali e territori. Sfruttando poi abilmente le sue entrature nell’amministrazione coloniale inglese – parallele alle frequentazioni con gli ambienti intellettuali del movimento indipendentista – decise di ripercorrere le tracce di Ippolito Desideri, il gesuita pistoiese che nel Settecento aveva varcato i confini della teocrazia lamaista.  Ottenuto dai britannici uno speciale lasciapassare entrò per la prima volta in Tibet, stato allora indipendente ed ermeticamente chiuso agli stranieri, e raggiunse faticosamente gli empori di Gartok, Yatung e Gyantse, i soli mercati aperti al commercio con l’estero. Durante il periglioso viaggio Tucci iniziò a raccogliere e fotografare oggetti e testi rari, preziose testimonianze della fede buddhista in versione tibetana. L’inizio di straordinaria collezione di statue, reliquie e ornamenti, oltre a un vasto e prezioso patrimonio di libri, incunaboli, pergamene e 25mila fotografie.  

Rientrato in Italia nel 1931 l’uomo era ormai una celebrità. Accademico d’Italia dal 1929, cattedratico “per chiara fama” dell’Università di Roma, nel 1933 Tucci, come sopra accennato, divenne vicepresidente dell’Ismeo e uno dei protagonisti della politica orientale di Mussolini. Come spiega la professoressa Garzilli: “Il potere aiutò sempre Tucci, e viceversa. Lo usò e fu usato a sua volta. Tucci fu protagonista della politica culturale e della politica asiatica in senso stretto attuata da Mussolini. Il fascismo lo usò per la propaganda in Italia e la propaganda in Asia”.

Come abbiamo visto, si trattò di una collaborazione assolutamente non sgradita poiché, proprio grazie ai copiosi finanziamenti forniti dal regime, Tucci organizzò nuove spedizioni nel Nepal e nel Tibet percorrendoli in lungo e in largo con straordinari risultati scientifici; al tempo stesso l’avventuroso sapiente con cadenza quindicinale spediva precisi resoconti direttamente al duce. Da qui, nel dopoguerra, le accuse di spionaggio, ma chiunque abbia letto con minima attenzione gli splendidi libri di Peter Hopkirk sul “great game” comprende con facilità quanto esplorazione, letteratura e intelligence fossero al tempo sinergiche sotto ogni bandiera. Compresa quella tricolore.

Di certo Tucci fu protagonista informale ma sostanziale – come confermano i ripetuti viaggi in Giappone e gli archivi della Farnesina – del processo d’avvicinamento diplomatico a Tokyo, culminato nel 1937 con l’adesione dell’Italia patto anti Comintern. Nel suo libro La lupa e il Sol levante, Tommaso De Brabant sottolinea come, una volta arrivato nella capitale nipponica il maceratese “tenne anche un discorso in giapponese, portando i saluti del duce, per poi aprire a Tokyo e Kyoto sedi dell’Istituto culturale italo-giapponese e impostare un programma di scambi culturali e commerciali”.

Scoppiata la guerra, il professore, ormai impossibilitato a viaggiare, oltre a dedicarsi allo studio e alla catalogazione degli ingenti materiali raccolti e chiudere il suo secondo matrimonio, dal gennaio 1941 all’agosto 1943 collaborò attivamente con la rivista Yamato, raffinato mensile culturale italo-giapponese ma anche sostenitore del patto Tripartito.  La classica goccia del classico vaso.

Nel giugno 1944 gli anglo-americani entrarono a Roma e un mese dopo le nuove autorità epurarono Tucci dall’università per la sua “partecipazione attiva alle politica del fascismo”. Una brillante carriera incenerita di colpo. Ma l’uomo non si arrese (non era il tipo…); da subito iniziò a bombardare gli epuratori di memoriali e documenti e ad attivare la sua vasta rete di contatti. Alla fine l’ebbe vinta e l’8 gennaio 1946 fu richiamato in servizio attivo.

Grazie all’appoggio felpato ma efficace di Giulio Andreotti, nel 1947 l’Ismeo riaprì i battenti con Tucci presidente. Un rapporto continuato fino alla morte del professore, “più diplomatico e discreto da parte del senatore, vissuto con più enfasi da Tucci”, spiega Garzilli, che sottolinea quanto detto dallo stesso Andreotti sulla genesi di questo legame. “All’epoca era difficile distinguere tra lo scienziato e il personaggio che legato al fascismo. Io lo feci”. L’anno dopo arrivò l’autorizzazione del governo tibetano per recarsi a Lhasa, la città proibita; grazie ad un cospicuo finanziamento governativo (auspice il “divo Giulio”) si organizzò una spedizione che raggiunse la capitale tibetana dove il professore incontrò il Dalai Lama, l’allora tredicenne Tenzin Gyatso, che affascinato dalla sua personalità gli affidò in custodia una preziosa collana di volumi sacri (ovviamente mai restituiti…). Resta il fatto che gli scienziati italiani furono probabilmente gli ultimi occidentali a respirare le atmosfere dell’antica teocrazia himalayana. Nel 1950 la Cina maoista strinse nella sua morsa il Tibet e nove anni più tardi, fuggito il Dalai Lama in India, annesse l’intero territorio.

Chiuso il capitolo tibetano l’infaticabile presidente dell’Ismeo con la sua nuova compagna Francesca Bonardi, accompagnò Andreotti in Brasile nel 1951 poi si rivolse al Nepal, con due spedizioni nel 1952 e nel 1954, al Pakistan, in Afghanistan e all’Iran. Campagne di scavo con ritrovamenti importanti. Il suo ultimo capolavoro diplomatico-scientifico fu però l’invio nel 1957 di una missione dell’Ismeo in Cina, tredici anni prima del riconoscimento ufficiale italiano e il riavvio delle relazioni tra Roma e Pechino. Un’operazione di soft power sinergica delle politiche “neo-atlantiste”di Gronchi, Fanfani e Mattei. Non pago, sempre in quell’anno, Tucci fondò il Museo d’arte orientale a Roma dove concentrò le collezioni dell’Istituto (oggi, dopo lo scioglimento dell’Ismeo nel 2012, sono custodite nel Museo delle civiltà e nella Biblioteca Nazionale di Roma).

Negli ultimi anni il professore smise di viaggiare e s’impegnò sempre più a scrivere e a pubblicare, ma nell’Italia del tempo era ormai diventato un personaggio scomodo. Vi era chi rinvangava (spesso artatamente) il suo passato mussoliniano, chi non sopportava il suo rapporto con il potere politico, chi – tra cui molti suoi allievi – lo invidiava e basta. Non a caso dalla sua morte, il 5 aprile 1984, sulla sua eccezionale figura e la sua imponente opera è sceso il silenzio, il buio. Da qui l’importanza del libro, innovativo quanto a tratti “inopportuno”, di Enrica Garzilli.  I geni, anche se scomodi, vanno ricordati.

L’Ecologia Fascista.

Quando il duce combatteva con la natura. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera l’11 gennaio 2023.

Un libro descrive il rapporto del fascismo con l’ambiente, senza considera l’atteggiamento degli altri Paesi nella stessa epoca

Lo so che per parlare di un libro (La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo, Einaudi) bisognerebbe prima averlo letto. Ma dal momento che i suoi autori (Marco Armiero, Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg) ne hanno fornito loro stessi una versione abbreviata in un articolo di giornale (Domani, 9 gennaio) mi sembra ovvio che possa parlarne anche io basandomi solo su quell’articolo. Il quale — evidentemente al pari del libro — è mosso da un antifascismo radicale così intessuto di cerebralismo concettoso e di argomentazioni sofistiche da sfiorare il ridicolo. Spesso da oltrepassarlo.

Qualche esempio. Il rapporto del fascismo con la natura all’insegna della «battaglia» (del grano, contro le mosche, ecc.) o della «trasformazione delle vallate alpine in motori idroelettrici» esprimerebbe in pieno la sua ideologia bellicista ed espansionista. La natura sarebbe «un nemico da sconfiggere e uno spazio da conquistare. La stessa bonifica era in fin dei conti una guerra contro la palude e la malaria, una guerra coloniale interna per conquistare lo spazio vitale necessario all’espansione di una prolifica Italia fascista»; dal suo canto «l’autarchia significava occupare ogni millimetro del suolo, del mare e del sottosuolo, era un’espansione in intensità e spesso in profondità, visto il ruolo cruciale della ricerca di minerali e combustibili, del controllo del regime sulla natura»; «come i nemici in guerra, così la natura sembra nascondere i suoi tesori; tutti gli eserciti sanno bene che nei territori occupati la ricchezza non è mai in mostra. Bisogna perquisire, requisire, spaventare, costringere, estorcere fino all’ultima goccia; il tutto con una buona dose di violenza e. come è noto, la violenza era forse l’unica cosa di cui il fascismo non mancava». Una sola domanda: ma come mai in quegli anni Roosevelt e Stalin facevano con la natura a un dipresso le stesse cose del duce? Erano fascisti anche loro?

Alberto Busacca per “Libero quotidiano” il 13 Gennaio 2023.

La tesi che la sinistra deve dimostrare è molto semplice: i fascisti odiano la natura. Di più: godono ad inquinare col solo scopo di distruggere il pianeta. Caduti in una crisi d'identità senza precedenti, infatti, i compagni, per non sparire, si stanno disperatamente aggrappando alla zattera ambientalista.

 E cercano di accreditarsi come gli unici veramente e sinceramente ecologisti. Ve lo ricordate Enrico Letta in campagna elettorale? Lo ripeteva in continuazione: la sinistra è per le energie rinnovabili, mentre la destra per il «nero fossile». Già, i brutti e cattivi, oggi, non possono che essere nemici della natura. E quindi non può che essere nemico della natura il più brutto e cattivo di sempre: Benito Mussolini.

Proprio al rapporto tra Benito e l'ambiente è dedicato un libro uscito recentemente, "La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo" (Einaudi), scritto dagli storici Marco Armiero, Roberta Biasillo e Wilko Graf von Hardenberg, che hanno anche firmato un lungo articolo sul Domani.  «Non ci interessa», spiegano, «capire quanti ettari di territorio fossero riservati a parco o quanti alberi siano stati piantati durante il regime, non crediamo affatto che il fascismo si disinteressasse alla natura. Ma l'alternativa al disinteresse non è come qualcuno sembra intendere una cura attenta della natura».

 Insomma, non si può dire che i fascisti se ne fregassero dell'ambiente. Ma ovviamente non si può nemmeno farli passare per ecologisti. E così gli autori si sforzano di spiegare come quello di Mussolini e dei suoi fosse alla fine una specie di ambientalismo tossico. Con risultati, però, piuttosto grotteschi. La natura, nella visione fascista, non sarebbe altro che «un nemico da sconfiggere e uno spazio da conquistare».

La stessa bonifica, orgoglio dei nostalgici, «era in fin dei conti una guerra contro la palude e la malaria, una guerra coloniale interna per conquistare lo spazio vitale necessario all'espansione di una prolifica Italia fascista». Insomma, pare di capire che combattere contro la palude e la malaria sarebbe segno di scarso amore perla natura... Non solo.

 I tre si scagliano anche contro l'autarchia, che significava «occupare ogni millimetro del suolo, del mare e del sottosuolo, era un'espansione in intensità e spesso in profondità, visto il ruolo cruciale della ricerca di minerali e combustibili, del controllo del regime sulla natura». E ancora: «Come i nemici in guerra, così la natura sembra nascondere i suoi tesori; tutti gli eserciti sanno bene che nei territori occupati la ricchezza non è mai in mostra. Bisogna perquisire, requisire, estorcere fino all'ultima goccia. Il tutto con una buona dose di violenza e, come è noto, la violenza era forse l'unica cosa che al fascismo non mancava».

Una tesi bizzarra, che ha fatto storcere il naso anche a Ernesto Galli della Loggia, uno non certo sospettabile di simpatie fasciste. L'articolo dei tre storici, ha scritto sul Corriere, «è mosso da un antifascismo radicale così intessuto di cerebralismo concettoso e di argomentazioni sofistiche da sfiorare il ridicolo. Spesso da oltrepassarlo». E poi: «Una sola domanda: ma come mai in quegli anni Roosevelt e Stalin facevano con la naturale stesse cose del duce? Erano fascisti anche loro?».

L’antesignano dell’ambientalismo? Fu Arnaldo Mussolini. Emanuele Beluffi su culturaidentità.it il 26 Novembre 2022

Cinabro Edizioni pubblica gli scritti di un​ mite e appassionato studioso che sembrano un monito per l’ecologismo di oggi

Lo dicevamo anche noi di CulturaIdentità nel nostro Manifesto delle Città Identitarie: “Gli abitanti hanno costruito da tempo un’alleanza tra l’agricoltura e il territorio che favorisce la conservazione del paesaggio e la biodiversità. In questo contesto l’agricoltore diventa custode della terra”. Queste le nostre parole, di ora come allora. E di cui ci piace avvertire la risonanza anche in quel Ministero “del nuovo immaginario italiano” che abbiamo voluto identificare nel Ministero della Cultura​. E, perché no,​ nel  Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste​: è vero che l’Italia, potenza industriale, fa parte del G7, ma è anche vero che il nostro Paese vanta una forte tradizione legata alla sfera agraria e ambientale, al punto da occasionare quello che sopra dicevamo essere l’ “immaginario” culturale di una nazione. O una weltanschauung, una visione del mondo, come lo era quella agraria e ambientale di Arnaldo Mussolini (Dovia di Predappio, 11 gennaio 1885-Milano, 21 dicembre 1931), direttore del Popolo d’Italia dal novembre del ’22 agli ultimi giorni di una vita terminata a soli 46 anni per un attacco cardiaco​ e spesa ​per una rinascita agricola e forestale dell’Italia.

Cinabro Edizioni, insieme al gruppo abruzzese di Coscienza e Dovere, ci fa oggi scoprire (o ri-scoprire) l’impegno di uno studioso e docente di agraria​, mite e​ dalla spiccata sensibilità ecologica, con cui animò anche riviste  e approfondimenti  di carattere agrario e forestale. Il bosco e l’aratro. Raccolti di scritti di carattere forestale e agrario, di Arnaldo Mussolini, è il libro appena uscito nella collana Paideia di Cinabro Edizioni (216 pagine, 20€, a cura di Coscienza e Dovere, con prefazione di Remo Grandori e introduzione di Diego Giorgi), che comprende gli articoli sul rilancio dell’agricoltura e la salvaguardia della terra pubblicati sulle pagine del Popolo d’Italia da Arnaldo Mussolini, fautore di un “culto dell’albero”​, con cui intendeva un’educazione civile e di rispetto verso gli alberi​ ​e un’attenzione per il problema forestale straordinariamente attuali, se pensiamo alle storture dell’ecologismo ideologico di oggi: un lascito giornalistico e culturale che rischiava di restare nei cassetti più riposti della memoria collettiva.

La Culinaria.

 Estratto da wired.it mercoledì 26 luglio 2023.

I fascisti odiavano la pasta. Spaghetti, tagliatelle e maccheroni finirono al confino come Altiero Spinelli, Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Per questo la pastasciutta è antifascista. E ogni 25 luglio, ormai da 80 anni, in Italia si cucina, si mangia e si celebra la prima pastasciutta antifascista, offerta dai sette fratelli Cervi alla comunità di Campegine, a Reggio Emilia, per festeggiare la fine della dittatura fascista e la deposizione di Benito Mussolini, avvenuta in quella stessa data nel 1943.

La famiglia Cervi

La famiglia Cervi era una famiglia di contadini benestanti. Il signor Alcide, padre dei sette fratelli, era riuscito ad emanciparsi dalla condizione di mezzadro assieme alla moglie Genoveffa e a prendere un podere in affitto a Gattatico, vicino Campegine, nel 1934. Lì costruirono la loro vita, lavorando la terra assieme a Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.

Ma i Cervi erano molto più che semplici contadini. Erano antifascisti.  

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Fu quindi naturale e immensa la gioia che li pervase la sera del 25 luglio 1943, quando tornando dai campi scoprirono che il dittatore Mussolini era stato deposto, arrestato e confinato in Abruzzo dalla monarchia sabauda. Era tempo di festeggiare e mettere fine anche a quella fame che il fascismo aveva regalato a tutto il paese per 20 anni. 

Prima degli anni Cinquanta e della diffusione della produzione industriale, l’Italia è sempre stato un paese di persone malnutrite e affamate, che mangiavano male e morivano presto.  

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Gran parte delle persone mangiava solo polenta, a nord, e pane, al sud. Niente pasta, che tra l’altro è molto più nutriente, perché ai fascisti non piaceva.  

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Così, è facile immaginare perché i fratelli Cervi decisero di dare una festa e cucinare quintali di pasta al burro e parmigiano per festeggiare la fine del fascismo. Una pastasciutta antifascista, la prima, che venne cucinata a Gattatico e poi trasportata a Campegine. Nel tragitto la pasta divenne completamente scotta e, nel frattempo, gli altri contadini e contadine cominciarono a rubacchiarne un po’ per placare i morsi della fame. Un’avventura.

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Postilla: perché i fascisti odiavano la pastasciutta?

Come insegna il sociologo Marco Cerri nel suo libro La pastasciutta dei Cervi, i motivi sono tre. Il primo riguarda il progetto autarchico, perché la pasta si fa col grano e per raggiungere l’autosufficienza cerealicola bisognava consumare poco grano. Il secondo è propagandistico e nasce dai futuristi. Tommaso Marinetti e gli altri si scagliarono contro la pasta dicendo che rammolliva lo spirito, dava sonnolenza e portava al neutralismo, cioè ad essere contrari alla guerra. 

Infine, l’ultimo riguarda la logica del ruralismo fascista, che additava la pasta come una moda importata dall’America. Fino agli anni Trenta del Novecento, la pasta era un alimento consumato quasi esclusivamente a Napoli e praticamente sconosciuto nel resto d’Italia. Furono i migranti tornati dagli Stati Uniti a darle nuova vita, dato che tra le comunità italiane d’oltreoceano era un alimento estremamente diffuso.

Fu quindi il sentimento anti statunitense dei fascisti, unito ai problemi economici e alla propaganda futurista che portarono il regime a combattere una guerra contro la pasta, tanto che nei suoi primi anni il consumo pro capite era di appena 12 chili l’anno, ridotto ai 9 durante la guerra. Mentre già nel 1954 ci fu un balzo a 28 chili l’anno, stabilizzatosi poi agli attuali 23 a testa. 

Per questo, ancora oggi, la pastasciutta resta un simbolo dell’antifascismo. E quest’anno, a 80 anni dalla fine della dittatura, il 25 luglio 2023 verranno cucinate 220 pastasciutte antifasciste in tutta Italia, come annuncia l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Per ricordare i fratelli Cervi, la loro generosità e l’antifascismo su cui si fonda la Repubblica italiana, nonostante qualcuno provi a farcelo dimenticare.

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it mercoledì 26 luglio 2023.

Niente pastasciutta antifascista per l'Anpi: potrebbe causare disordini. Questa l'incredibile risposta all'associazione partigiani della sindaca Elena Mezzalira del comune di Rosà, in provincia di Vicenza. L'evento voleva commemorare i sette fratelli Cervi che organizzarono nel 1943 una gran mangiata di pastasciutta per festeggiare la destituzione di Benito Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943. Questo perché "il nome dell'iniziativa può essere richiamo di disordini, problemi di sicurezza e ordine pubblico", ha risposto via mail la sindaca agli organizzatori.

"Questa sindaca è contro la Costituzione e quindi la democrazia. Non so se ha la tessera di Fratelli d'Italia o della Lega. Certo è una fascista che andrebbe rimossa dall'incarico e il comune Commissariato", dice il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo. Tra l'altro a Porto Burci, sempre in provincia di Vicenza, i neofascisti hanno appeso uno striscione con su scritto "se manca olio, lo portiamo noi". Un richiamo al tristemente famoso olio di ricino con cui le camicie nere purgavano i propri oppositori durante il Ventennio.

L’Anpi protesta e assicura che “non smetteremo di denunciare alle autorità competenti e di diffondere unità e cultura”. Mentre il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni confida che “il prefetto di Vicenza si attivi subito per spiegare a questa esponente della destra cosa è la Costituzione della Repubblica”.

Operazioni culturali.

Croce e l'ottimismo della ragione. Nel 1938, in piena tempesta nazi-fascista, il filosofo era proiettato verso la ricostruzione. Giuseppe Bedeschi il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

Benedetto Croce pubblicò il suo libro La storia come pensiero e come azione nel 1938, quando il fascismo era al potere in Italia ormai da sedici anni, e il nazismo a sua volta aveva dato vita al Terzo Reich in Germania cinque anni prima. La ristampa che l'editore Laterza ha fatto recentemente di questo importante libro ci permette di ricostruire i pensieri del grande filosofo liberale in quegli anni difficili, quando la libertà sembrava scomparsa per sempre dalla vita politica di gran parte d'Europa.

L'animo di Croce non era però di abbattimento e di disperato pessimismo, poiché egli restava fermo nella sua convinzione che l'attività umana non può essere se non progresso, e che di decadenza si può parlare solo relativamente, cioè solo come un momento che prepara nuovo progresso. Può sembrare superfluo, diceva Croce, ma non è, insistere su questo punto: che «la storia si scrive del positivo e non del negativo, di quel che l'uomo fa e non di quel che patisce». L'uomo «combatte credenze e tendenze avverse, le vince, le sottomette»; «e lo storico non perde mai di vista l'opera che si vien formando tra questi ostacoli»; e «anche quando quell'opera ha compiuto il suo ciclo vitale e decade e muore, egli appunta l'occhio non sulla decadenza e sulla morte, ma sulla nuova opera che in quella decadenza si prepara e già vi germoglia e crescerà in avvenire e darà frutti». Se si guarda solo alla decadenza, non si comprende nulla della storia. La decadenza di Roma si è cinta «di mistero, nonostante che così a lungo e così variamente se ne fossero ricercate le cause; e mistero rimane e rimarrà fin tanto che non si discacci quel fantasma della decadenza», e non «si sostituisca al soggetto storiografico dell'Impero decadente, l'altro soggetto, la società e civiltà cristiana che nasceva e cresceva». «Anche si parla della necessità di far larga parte all'irrazionale nella storia», ma, diceva Croce, l'irrazionale non è un elemento della storia e della realtà, bensì è solo «l'ombra che il razionale stesso proietta, la faccia negativa della sua realtà, intelligibile e rappresentabile solo in quanto si rappresenta e s'intende questa».

La storia appariva dunque a Croce come una successione di epoche, nella quale ciascuna periva per non essere riuscita a dare risposte soddisfacenti ai problemi che essa stessa aveva creato, alla crescita che essa stessa aveva prodotto. Ma ogni epoca trasmetteva a quella successiva, insieme ai problemi insoluti, le proprie conquiste e le proprie realizzazioni, e l'epoca che ereditava quelle conquiste e quelle realizzazioni, mentre dava soluzione ai problemi insoluti, ne creava di nuovi, corrispondenti a nuove conquiste e a nuove realizzazioni, che sarebbero poi passate in eredità all'epoca successiva. La storia era dunque un morire-rinascere, un divenire in cui nulla andava perduto, e la civiltà concresceva su se stessa, accumulando le proprie creazioni e foggiando forme sempre nuove per creazioni sempre superiori.

Così, all'esempio spesso addotto della fine della grande civiltà greco-romana, cui seguì la barbarie del Medioevo, bisognava ribattere, diceva Croce, che «la civiltà antica; in quel che ebbe di veramente reale, non morì, ma si trasmise come pensiero, istituzioni, e persino come attitudini acquisite», sicché, a veder bene, quello che morì di quella civiltà fu solo quanto ebbe di irreale, cioè le sue contraddizioni, per esempio la sua incapacità di trovare forme politiche ed economiche rispondenti alle mutate condizioni della società. Allo stesso modo il Medioevo, che in parte fu sicuramente progresso, perché risolse problemi che la civiltà antica ava lasciato insoluti, ne pose altri che non risolse, e che furono risolti nei secoli successivi. E se la posizione di questi nuovi problemi, in quanto distruggeva l'antico senza sostituirvi apparentemente nulla, «parve regresso, fu in realtà inizio di nuovo progresso».

Il quadro tracciato da Croce nel suo libro La storia come pensiero e come azione incominciò a incrinarsi vistosamente in alcuni scritti crociani del 1946, all'indomani della spaventosa tragedia della Seconda guerra mondiale e di fronte al profilarsi minaccioso del totalitarismo sovietico. Infatti, in un saggio intitolato La fine della civiltà, Croce iniziava con queste parole: «Nel corso e al termine sella seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea». E che cosa era questa fine della civiltà che molti temevano come possibile o addirittura prossima? Era, rispondeva Croce, «non l'elevamento ma la rottura della tradizione, l'instaurazione della barbarie, che ha luogo quando gli spiriti inferiori e barbarici, che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signori».

Nel 1946 Croce scrisse un altro saggio: L'Anticristo che è in noi. Che cosa intendeva il filosofo napoletano con questa espressione? Intendeva «l'Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione». L'Anticristo preparava una età di «impoverimento», di «imbarbarimento», di «inselvatichimento», di «ora aperto ora represso e fremente bellum omnium contra omnes». Si tratta, come si vede, di espressioni assai crude, un tempo inconcepibili sotto la penna di Croce.

Sul fatto che la minaccia dell'Anticristo contro il Cristo si fosse levata, Croce non aveva dubbi. Ne erano chiari segni il «totalitarismo», il «partito unico», l'«obbedienza al partito», che, pur caduti il fascismo e il nazionalsocialismo, continuavano a operare in vaste regioni d'Europa e del mondo. Egli affermava: «le conseguenze pratiche di questo processo si osservano nei casi dei nostri giorni: nella durezza che si versa in crudeltà o addirittura in morbosa ferocia contro quelli che sono stati avversari od ostacoli; nella generale indifferenza con la quale si assiste allo schiacciamento di nazioni e di stati e al divellimento d'intere popolazioni dalle loro sedi tradizionali e secolari». Si era entrati nuovamente, insomma, in una età «di varia decadenza e corruttela e imbarbarimento», dopo quella già vissuta durante la Seconda guerra mondiale; in una età che non poteva essere definita di progresso e di civiltà. La vita dello Spirito sembrava come sospesa, anzi spezzata, sull'orlo di un baratro pronto a inghiottire di nuovo il mondo civile.

Dagospia giovedì 3 agosto 2023.Alberto Mattioli: “Gran Teatro Italia. Viaggio sentimentale nel Paese del melodramma” - Garzanti – Estratto

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Duole dirlo. Il fascismo combino i disastri che sappiamo, ma faceva quello che l’Italia democratica e antifascista non ha mai fatto: una politica culturale. I democristiani avevano il potere ma non erano interessati alla cultura e i comunisti erano interessati alla cultura ma non avevano il potere. 

Invece, bisogna ammetterlo, il duce o, meglio, alcuni dei suoi consiglieri una visione della cultura l’avevano, magari per molti aspetti sbagliata, ma altrettanto spesso giusta. Vogliamo fare un elenco dei risultati?

La prima Mostra cinematografica al mondo, il Centro sperimentale di cinematografia, l’Istituto superiore di sanita, l’Accademia d’arte drammatica, e poi naturalmente l’Enciclopedia Italiana, l’Accademia d’Italia (curioso pero che un regime cosi nazionalista scopiazzasse a man salva l’Encyclopaedia britannica e l’Academie francaise) e cosi via. 

Quando nel 2007 il Deutsches Historisches Museum di Berlino fece il punto sull’arte dei totalitarismi europei del XX secolo con la mostra Kunst und Propaganda im Streit der Nationen 1930- 1945 mettendo a confronto l’Italia fascista, la Germania nazista, la Russia sovietica e, gia che c’era, l’America del New Deal in quanto grande caso di interventismo statale con relativi mecenatismi e commissioni, l’Italietta littoria risulto ampiamente la piu interessante, specie in arti «moderne» come il cinema o la cartellonistica, tanto che sulla copertina dello sterminato catalogo ci sono i Balilla di Albino Siviero, in arte Verossi.

E, francamente, fra gli stakanovisti in marcia verso il sol dell’avvenire pero sempre stranamente statici di Stalin, i villici bavaresi con venti figli riuniti intorno al desco nazi-Biedermeier aspettando il discorso del Fuhrer alla radio o i murales a maggior gloria della Social Security di Washington (ma la fotografia americana dell’epoca e fantastica), i bombardamenti in picchiata dei nostri futuristi o, mettiamo, il Profilo continuo del Duce di Renato Bertelli (1933) vincono facile.

Estratto dell’articolo di Marco Giusti per "il Foglio" giovedì 20 luglio 2023. 

Ma si sono davvero incontrati nel 1935 Walt Disney e Benito Mussolini? Forse non è così importante quest’incontro, quanto il desiderio, da parte di entrambi, che fosse avvenuto, ma certo il velo dal mistero, perché di mistero si tratta, non è mai stato dissipato. Anche perché ci sono ben due autorevoli personaggi che descrivono con particolari l’incontro.

Uno è Romano Mussolini, figlio del Duce, che in un’intervista del 1995 a Francesco De Giacomo racconta che Walt Disney, con la moglie Lilian, il fratello Roy e sua moglie Edna, arrivarono assieme al padre da Palazzo Venezia a Villa Torlonia, parlarono di Topolino, di Minnie, del nuovo personaggio della Disney, Paperino, e regalarono ai figli del Duce un gigantesco Topolino di legno “alto quanto un bambino di dieci anni”.

L’altro testimone è proprio il fratello di Walt, Roy Disney, che racconta invece, tra il 1967 e il 1968 al giornalista Richard Hubler, l’incontro a Palazzo Venezia, dove la delegazione Disney venne accompagnata nel grande studio da un buffo personaggio con scarpe che scricchiolavano, bella gag cinematografica, e il Duce spiegò agli americani che ora in Italia i treni erano finalmente diventati sicuri.

I ricordi di pur così autorevoli personaggi sono stati confutati da un più recente, e invero documentatissimo studio di uno storico dell’animazione francese, Didier Ghez, “Disney’s Grand Tour – Walt and Roy’s European Vacation – Summer 1935”, Theme Park Press, 2015, che ci ha messo più di vent’anni per raccontarci, con dovizia di particolari, il Grand Tour europeo di Walt Disney.

Proprio ricostruendo quasi ora per ora gli incontri romani, Ghez esclude che Disney abbia avuto il tempo, tra un pranzo e una cena da Alfredo, tra un ricevimento e l’altro, per incontrare Mussolini nelle due giornate. Perbacco! E i ricordi dei due testimoni? Per Ghez, il figlio Romano se lo è solo immaginato. […] . E Roy, […] a 74 anni, era già vecchio e non troppo lucido per essere credibile. Se fosse avvenuto, scrive Ghez, ci sarebbero delle fotografie di Disney insieme al Duce, un filmato. 

Tanto che le sole foto esistenti sono quelle degli eventi organizzati a Roma per celebrare Walt Disney mentre i filmati dell’Istituto Luce, ne esistono ben due, vedono ripresi gli ospiti della delegazione Disney assieme al ministro della Propaganda, cioè Galeazzo Ciano, alla moglie, Edda Mussolini, e a Luigi Freddi, a capo della Direzione generale della cinematografia italiana dal 1934.

Uno dei filmati riguarda l’arrivo alla Stazione Termini del treno da Venezia che aveva portato gli americani a Roma. 

L’altro la serata disneyana al cinema Barberini dove vennero proiettati ben tre cortometraggi della Disney, “The Goddes of Spring”, dove la Dea della Primavera è una proto-Biancaneve, “Mickey’s Plays Papa” e “Mickey’s Man Friday”, oltre alla prima di un film diretto da Rouben Mamoulian, “Resurrezione”. [...]

A questo punto, urge un flashback. Non credo che Walt Disney si potesse definire un simpatizzante fascista, più probabilmente era solo un grande uomo d’affari che vedeva nell’amicizia con Mussolini un metodo spiccio per ottenere vantaggi nella distribuzione dei film e nella pubblicazione di libri e riviste. 

Certo, fa un certo colpo trovare sui giornali americani dei primi anni Trenta una curiosa pubblicità di Mickey Mouse, apparsa anche su The Hollywood Reporter del 1932, ma anche altrove, “VIVA MOUSE-OLINI”, dove vediamo un Mickey Mouse col braccio alzato sul modello fascista che arringa una folla oceanica. 

L’idea dei pubblicitari della Disney, speriamo non di Disney stesso, è spiegata proprio sui giornali. Come Mussolini è il dittatore d’Europa, Mickey Mouse è il dittatore del cinema mondiale. Oddio! In fondo, Mickey Mouse e Mussolini nascono, sulla scena internazionale, nello stesso momento. E, cosa che non avevo mai osservato, i loro nomi si assomigliano molto, anche perché nei primi tempi i giornali americani più volte storpiano Mussolini in Moussolini. Da qui Mouse-olini.

Per confermare la vicinanza tra i due “dittatori” in Italia si mostrano nel 1932 in double bill i cartoon di Mickey Mouse e le newsreel di Mussolini. Ma ritorniamo al 1935, l’anno del Grand Tour disneyano. Da una parte Walt Disney ha un problema di tiroide e urge uno stacco dal lavoro. Niente di meglio che l’Europa. […] Ma ci sono anche altri motivi. Quelli ufficiali sono che Walt deve ricevere in Francia la Legion d’onore. Che non riceverà in Francia, stranamente, allora, ma un anno più tardi in America. E deve visitare i potenti di tutta Europa, cosa che i giornali lanciano subito. Come notizia. 

Walt Disney partirà per incontrare il Papa, il Duce, oltre a Re Giorgio e al presidente francese. Nessuno nomina Hitler. Ma dietro al viaggio ci sono anche profondi motivi economici. C’è bisogno di mettere ordine negli affari europei della Disney, sia per la distribuzione dei film, sia per il merchandising dei giocattoli, sia per i diritti di libri e fumetti.

E con il sonoro e la costruzione di film legati alla grande musica europea, come ad esempio “The Band Concert”, il primo Mickey in Technicolor che si porterà dietro Disney, in uscita quattro mesi dopo il suo viaggio, costruito sull’ouverture del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, urge stringere rapporti con chi detiene i diritti come Casa Ricordi. 

E’ urgente anche andare in Inghilterra, dove si fabbricano inoltre i pupazzi di Mickey Mouse (a Birmingham), perché ha capito, numeri alla mano, che i guadagni dei cartoon vengono soprattutto dal merchandising. L’idea è quindi di sviluppare la vendita di film, pupazzi, libri, fumetti all’estero. 

I Disney resteranno due mesi in Europa […]. In Italia arrivano il 12 luglio 1935, all’Hotel Villa d’Este, sul Lago di Como. Quella sarà la loro base. Da lì andranno a Milano per affari in treno. Il 14 si vedono però con il loro nuovo editore italiano, Arnoldo Mondadori, e Mario Luporini, che distribuisce i film della United Artists, a Villa Meina, sul Lago Maggiore. Il passaggio editoriale dalla Nerbini di Firenze alla Mondadori è delicato, sembra che lo abbia voluto Mussolini in persona, grande sponsor della Mondadori.

Il primo Topolino Mondadori è datato infatti già 11 agosto 1935, e il legame rimarrà attivo […] fino al 1988. E’ chiaro che Walt Disney […] non può e non vuole farsi grossi problemi sui rapporti che gli editori europei hanno con i loro politici. E [...] non sente nessun imbarazzo a fare affari e a incontrare Mussolini. 

[…] Il 19 luglio i Disney si spostano in auto a Venezia, fermandosi al Danieli. Ma ripartono quella notte stessa in treno, in una cuccetta caldissima senza aria condizionata, per Roma. 

La mattina dopo arrivano, stanchi e accaldati, a Termini, accolti da Luigi Freddi, direttore generale della cinematografia, e da Galeazzo Ciano, ministro della Propaganda, che è il superiore diretto di Freddi. Secondo la stampa di tutto il mondo quel 20 luglio “Disney sarà ricevuto da Mussolini e da Papa Pio XI”.

Intanto vengono accolti all’Hotel Ambassador di via Veneto 125 e mangiano da Alfredo, che gli serve lui stesso la pasta (le celebri fettuccine?), leggiamo sul libro di Ghez, con la forchetta e il cucchiaio d’oro che gli hanno regalato anni prima addirittura Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Nel pomeriggio […] vengono ricevuti da Ciano al ministero della Propaganda, che stava a via Veneto 56. E’ da lì, con tutta probabilità, che arrivano a Villa Torlonia per portare il Topolino gigante in legno e incontrare la famiglia Mussolini. 

E se crediamo che l’incontro sia avvenuto […], è evidente che sia questo il momento ideale, anche se secondo Ghez non c’era proprio tempo per un simile incontro. In tutto questo, mangiano una seconda volta, a cena, da Alfredo. E da lì vanno al cinema Barberini dove è stata organizzata una serata in loro onore. Senza Mussolini. Ci saranno invece Ciano e la moglie, Freddi e altri gerarchi. 

[…]  Su uno striscione è scritto enfaticamente “Roma saluta il poeta del cinematografo”. Il giorno dopo, il 21 luglio, cosa che Ghez non dice nella sua pur accuratissima ricostruzione, Mussolini rompe le relazioni con l’Etiopia. Primo passo per la dichiarazione di guerra. La situazione politica peggiora terribilmente, anche se i Disney procedono tranquillamente il loro viaggio d’affari.

Il 21 luglio in mattinata, […]  Ciano ha organizzato un grande ricevimento in onore di Walt Disney nella hall dell’Hotel Ambassador a Via Veneto. E’ lì che Disney riceve una foto di Mussolini autografata realizzata dalla grande fotografa ebreo-ungherese Ghitta Carel, amica di Margherita Sarfatti e fotografa ufficiale di Casa Savoia e del Duce. In realtà non è un’idea di Ciano la foto con dedica, ma nasce da una precisa richiesta di Walt Disney. 

Il giorno dopo, il 22 luglio, i Disney vanno a Napoli in treno. Alloggeranno all’Hotel Excelsior, vedranno Pompei, Sorrento, il Museo Archeologico. Faranno una gita al Vesuvio e ripartiranno da Napoli il 24. Il 25 luglio del 1935 ripartono da Genova per New York sul Rex.

[…]  Aggiungo al racconto del Grand Tour italiano un paio di notizie che Ghez non riporta, ma che mi sembrano piuttosto interessanti [...] 

Il 24 settembre del 1937, ben dopo la Guerra d’Etiopia, Vittorio Mussolini, ventenne figlio del Duce, […] descritto dai giornalisti americani come “un ragazzone dal robusto appetito”, arriva a New York. 

Il padre gli ha affidato addirittura la direzione della cinematografia italiana, con grande dispiacere del ben più qualificato Luigi Freddi. 

 […] Da quel che si legge sui giornali americani del tempo sembra non rendersi bene conto della situazione. Gli chiedono quanti innocenti il fascismo ha ucciso in Etiopia, Spagna e Italia. Ma fa finta di nulla. Nell’incontro che avrà giorni più tardi col presidente americano, Franklin D. Roosevelt, riesce a non dire assolutamente nulla.

[…] E’ venuto in America col sogno di Hollywood, pronto a fondare con Hal Roach, il produttore delle comiche di Laurel e Hardy distribuite dalla Metro Goldwyn Mayer, la RAM (Roach And Mussolini). Lo stesso Roach [...] spiega, in data 30 settembre 1937, che “Il Duce è pacifista, perché due dei suoi figli sono aviatori. Non vuole la guerra”. 

E precisa, “I soldi per la RAM vengono dalle banche, non dal governo. Useremo solo star italiane. Ma forse tecnici americani.” 

E ancora, “Mussolini non si è mai espresso contro gli ebrei. Sono convinto che la mia collaborazione con Vittorio è la cosa migliore che si possa fare proprio per gli ebrei. Se non sono stupidi la smetteranno di prendersela con Mussolini trattando male suo figlio. La RAM produrrà 12 film nei tre anni successivi. Quattro saranno per la distribuzione internazionale. Gli altri otto avranno piccoli budget da 40.000 dollari a film. Il primo film sarà Rigoletto con Laurel e Hardy. Spero di conoscere il Papa”.

E il giovane Mussolini rassicura i giornalisti americani con un “Non faremo guerra per 60 anni”, quando già il 24 ottobre 1937 nascerà l’Asse Roma-Berlino. […]  I giornali riportano un elenco di invitati per la festa del suo ventunesimo compleanno che include proprio Walt Disney, Gary Cooper, Winifred Sheehan, Will Hays e William Randolph Hearst. 

Del resto con l’uscita di “Biancaneve e i sette nani”, prima in America, il 21 dicembre 1937, e poi in Europa, e Roy Disney tornerà in Italia nel 1938 per controllare il doppiaggio, Walt Disney non se la sente di avere un rapporto non pacifico con la famiglia Mussolini.

Ma ovviamente gli ebrei di Hollywood non ci sono cascati e proprio dalla Metro Goldwyn Mayer è stato chiesto a Hal Roach di non andare avanti con la RAM e di tagliare per sempre l’accordo imbarazzante con Vittorio Mussolini. 

Dopo le dichiarazioni di Roosevelt contro la guerra e i paesi aggressori, [...] Vittorio Mussolini, turbato anche dalla causa intentata da Renato Senise che si è sentito escluso dalla storia della RAM, tornerà a casa. L’unico film che nascerà da tutta questa storia sarà “La Tosca” di Jean Renoir, girato a Roma.

Topolino, grazie alla passione di Mussolini per il giornaletto e per il personaggio, e forse per un motivo di pura propaganda, dovuta al legame che si era creato tra Mickey Mouse e Mouse-olini, fu l’ultimo dei fumetti americani a sparire dalla circolazione nell’Italia fascista. L’ultimo titolo fu “Topolino e l’illusionista”, n. 4777 del 3 febbraio 1942, cioè un mese e 23 giorni prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’America.

E, come ha raccontato lo stesso Romano Mussolini, nel 1942 ci fu la proiezione di “Fantasia” a Villa Torlonia. La copia era stata ritrovata a Tobruk dall’esercito italiano tra le cose abbandonate dagli inglesi il 21 giugno del 1942. Venne spedita in Italia e venne vista dalla famiglia di Mussolini. E tutti rimasero molto impressionati. Dopo il 25 luglio del 1943 tutte le proprietà di Mussolini vengono portate a Rocca delle Caminate con l’idea di fare un Museo Mussolini a Predappio. Che fine ha fatto il Topolino di legno? Sembra che venne rubato a Rocca delle Caminate nel giugno del 1944. E portato dove?

Estratto dell’articolo di Fabio Isman per “il Messaggero – Cronaca di Roma” l’11 aprile 2023.

Nella Seconda guerra mondiale, Roma è stata bombardata, stando agli archivi, 51 volte; l'ultima, il 3 maggio 1944: colpiti la Magliana e il Quadraro, quando mancava appena un mese alla liberazione. Il maggior numero di vittime e la quantità più elevata di danni, come è noto, si ebbero a San Lorenzo; e in totale, si calcolano almeno tremila vittime, uccise da quattromila bombe aeree: oltre mille tonnellate di ordigni.

Questo, molti lo sanno: magari, l'hanno anche vissuto sulla propria pelle. Quanto invece è meno noto, è che fu colpito, per due volte, anche il Vaticano; una bomba è addirittura piovuta non lontano da San Pietro, a un centinaio di metri. E la storia merita di essere raccontata.

 Il primo bombardamento della città avviene il 19 luglio 1943: ancor prima che cadesse il fascismo. È quello famoso su San Lorenzo: aerei americani, 719 morti; 1.659 feriti. Il Vaticano è invece preso di mira per la prima volta il 5 novembre dello stesso anno; e per la seconda, il 1 marzo del 1944.

Quattro bombe e una inesplosa, di piccolo calibro e in sequenza nel primo bombardamento altre sei nel secondo, subito fuori dai confini vaticani, presso Porta dei Cavalleggeri. In questo caso, la Raf, l'aeronautica inglese, ammette esplicitamente l'errore. La prima, invece, resta ancora un piccolo mistero.

 Il 1 novembre 1943, erano le otto di sera. La "strisciata" degli ordigni sganciati parte da Porta Fabbrica, più o meno davanti al palazzo di Santa Marta; continua sui piazzali del Governatorato e della Ferrovia; infine, coinvolge i Giardini Vaticani. Due guardie palatine contuse: gettate a terra per lo spostamento d'aria; e un gendarme ferito in modo lieve a una mano da una scheggia.

Ma danneggiati una serie di palazzi: il Governatorato, il Laboratorio del Mosaico, la facciata della Stazione, la casa dell'arciprete. L'obiettivo era la Radio Vaticana. Non siamo lontani da San Pietro. In frantumi i vetri di gran parte dei Musei e della stessa Basilica: anche alcuni da originali di Bernini. Si dice che Pio XII Pacelli abbia esclamato: «Si è avuto più rispetto al Cairo, quale centro religioso dell'Islam, che a Roma».

[…] Il secondo bombardamento avviene alla stessa ora di sera. Un aereo isolato aveva già sorvolato la zona giorni prima. Sei bombe subito fuori dal perimetro della città dei papi. Ucciso un operaio in piazza del Sant'Uffizio, forse Pietro Piergiovanni, e ferito un agostiniano olandese.  […]

Il fascismo come autoritarismo imperfetto nella collettanea Treccani curata da Pasquino. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 23 Dicembre 2022

Spesso le collettanee di accademici denunciano una carenza di qualità e calibro intellettuale dei vari autori o dei loro interventi. Nulla di tutto ciò accade con Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani, 2022, pp. 438, €27), operazione culturale da leccarsi le orecchie per i patiti del genere, davvero fra le più notevoli e incisive di questo anno del centenario della Marcia su Roma. Il coordinamento è a cura del politologo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, che firma qui solo l’introduzione e le conclusioni.

Pasquino è andato sul sicuro: ha chiesto a un nutrito gruppo di professori ordinari o emeriti, soprattutto politologi e storici (un binomio che noi scienziati politici abbiamo molto apprezzato), di partecipare a questo volume per riflettere sulle condizioni politiche, economiche, sociali e culturali che aprirono la strada all’affermazione del regime mussoliniano nel nostro Paese, anche al fine di inquadrare l’entità dell’influenza che il fascismo ha poi conservato nella nascita e nello sviluppo della Repubblica italiana. Quindi non solo interpretazioni storiche, ma gli effetti della Storia sul nostro oggi. I pregi di questa raccolta e della sua metodologia sono molteplici.

La prima cosa che salta all’occhio è il felice e proficuo sdoganamento e mescolanza di alcuni celeberrimi nomi di accademici che, fino a un passato poi non tanto remoto, furono ascritti a una identità culturale liberale o “di destra” e quindi ostracizzati dai loro “colleghi” con simpatie marxiste o comunque progressiste. Solo per fare i nomi più famosi: Marco Tarchi, professore ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze, uno dei massimi esperti del fascismo e del populismo, considerato almeno fino al 1994 l’ideologo della “Nuova Destra” e con un passato di militante di rilievo nazionale del MSI. Poi Alessandro Campi, professore di Scienza politica e Relazioni internazionali all’Università di Perugia e già Segretario generale e poi Direttore scientifico della fondazione FareFuturo. Sono gli unici due autori della collettanea che intervengono con ben due saggi ciascuno, entrambi di grande rilievo.

Ancora: Giuseppe Parlato, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi Internazionali di Roma (UniInt), già allievo del liberale Renzo De Felice, la massima autorità italiana sul fascismo. De Felice  venne stigmatizzato con sterili accuse di “filo-fascismo” per aver descritto – in tempi forse precoci per la pacificazione nazionale – gli “anni del consenso” mussoliniano, quando la vulgata anche accademica sul Ventennio preferiva di gran lunga parlare crocianamente di “calata degli Hyksos”, “parentesi”. Si voleva espungere il regime mussoliniano come una sorta di gramigna che aveva infestato la radice pura, naturalmente democratica e antifascista, dell’Italia e degli italiani.

E’ facile notare come anche questa gustosissima collettanea s’inserisce nel solco dell’interpretazione defeliciana, arricchendola però di una poliedriticità e ampiezza di interpretazioni che, se non rovinano una qual certa omogeneità d’impianto, di certo offrono spunti e riflessioni che possono portare a conclusioni anche molto differenti. Pasquino, in uno slancio di encomiabile pluralismo che — per onestà intellettuale — non mostra quando interviene nei talk politici televisivi con i suoi j’accuse contro il riformismo di Matteo Renzi, ha voluto condividere e promuovere le riflessioni dei tre illustri intellettuali di destra e presentarle assieme a quelle di altri colleghi non marxisti.

Utili dunque e importanti gli interventi del radical-socialista Piero Craveri, professore emerito di Storia contemporanea e presidente dell’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e preside della fondazione biblioteca Benedetto Croce. Importante il saggio della defeliciana Simona Colarizi, professoressa emerita di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma e una delle maggiori esperte di storia dei partiti politici italiani della prima Repubblica. Notevole anche l’apporto di altri grandissimi nomi più tipicamente progressisti, come Santo Peli, forse il maggior studioso di GAP e Resistenza italiana, autore fra l’altro di La Resistenza in Italia. Storia e critica (Einaudi, 2021) che è il miglior testo analitico su quel periodo della storia italiana. Non si può poi dimenticare la collaborazione di Paolo Pombeni, l’altro grande papa dell’ateneo felsineo per quanto riguarda la politologia, professore emerito di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna.

Per chi non si occupa di Storia, questi nomi sono tutti di enorme peso politico e culturale nei loro ambiti. Rappresentano la crema dell’accademia italiana in storia contemporanea e in scienza politica. Manca, ma non è una sorpresa per chi conosce le tristi diatribe fra accademici, quell’Emilio Gentile ritenuto da molti come il massimo esperto vivente di Fascismo. La sua assenza come dicevo non stupisce: Gentile è uno dei massimi padri della teoria che il fascismo fu una “via italiana al totalitarismo”, che è per l’appunto l’opposto dell’assunto da cui parte Pasquino, il quale sottolinea come la sola presenza della monarchia che insediò il fascismo e gli sopravvisse, “come a nessuna monarchia successe mai nei regimi totalitari” è sufficiente, anche senza citare la presenza della Chiesa cattolica, per parlare di un regime autoritario ma non totalitario.

La struttura della collettanea è suddivisa in sei parti, ognuna costituita di 4 saggi brevi, tranne la quarta sezione, intitolata “Il fascismo maturo” che consta solo di due interventi e la sesta, di tre contributi. Nella prima parte, “Le origini” (30-91), si collocano 4 saggi di storiografia in cui si analizza il peso culturale che gli studi sul fascismo hanno avuto in Europa e nel mondo. Qui l’intervento più importante è quello di Marco Tarchi che illustra l’ “Ideologia del fascismo” (pp. 51-68), tema assai delicato e super-discusso.

Tarchi, dopo aver brevemente illustrato l’ampiezza delle varie interpretazioni sul punto, parte dalla citazione di documenti di pugno di Mussolini stesso e del filosofo Giovanni Gentile, per concludere che “vi sono dunque validi motivi per ritenere che di un’ideologia del fascismo si possa legittimamente parlare” (55) e li ricorda nell'”avversione all’individualismo” che “porta a vedere nei tre filoni ideali che a esso in forme diverse si connettono — liberalismo, democrazia e socialismo — altrettanti nemici” (59). Tarchi ricorda dunque l’importanza del concetto di nazione (61) ma su tutto colloca “lo Stato” che considera come “l’elemento che della visione ideologica fascista costituisce il caposaldo” (62).

Nella seconda parte, “La conquista del potere” (93-169) si trovano 4 interventi di storia ed è questa la sezione più debole dell’opera. Il saggio di Marco Filoni, “Gentile, Croce e la disputa dei manifesti” (149-55) si limita a riprodurre i due celeberrimi manifesti di Gentile e Croce (156-67), aggiungendo all’inizio delle considerazioni che non aggiungono nulla di rilevante. Anche l’intervento di Filomena Fantarella, pomposamente intitolato “Le interpretazioni del fascismo” (137-48) pecca di ambizione, vastità dell’argomento e pochezza contenutistica, anche a mo’ di Bignami. Più interessanti sono i due pezzi d’apertura, a firma rispettivamente di Giuseppe Parlato “Il fascismo movimento” (95-112) e di Piero Craveri “Premesse e sviluppo della crisi dello Stato liberale” (113-136), dove il primo riprende una famosa definizione di Renzo De Felice del 1975 e la sviluppa, mentre il secondo è un gradevole riassunto a livello di manuale del liceo di come lo Stato liberale si suicidò nelle mani giovani e dinamiche del 39enne Mussolini.

La terza parte, “L’esercizio del potere” (170-247) è per converso la sezione più riuscita della collettanea. Qui i saggi sono di politologia, con una interessante apertura di Antonio Carioti “Il regime: il duce e i gerarchi” (171-90) che pescando nella microstoria ricostruisce anche a livello psicologico il rapporto fra gli elementi interni del regime, mettendo in risalto quel Mussolini dal “carattere solitario, diffidente, incorreggibile accentratore” che “non si preoccupa mai di far crescere intorno a sé una classe dirigente” (171).

Magistrale, al solito, l’intervento di Paolo Pombeni, “Il Partito nazionale fascista” che si sofferma sulla mediocre organizzazione interna della struttura, denunciando il partito come “un caso emblematico di stravolgimento dei fini iniziali” (191) considerando che Mussolini veniva dal “partito moderno per eccellenza”, quello socialista, e seppe fondare un “antipartito”. Il giudizio di Pombeni è netto: almeno dal 1939 in avanti, “il PNF rivelò sempre più l’inconsistenza della sua funzione e la miseria del suo burocratismo” con un “continuo alternarsi di segretari” che “non riuscì a rivitalizzare una formazione senza nerbo” (204-5).

La quarta parte, “Il fascismo maturo” (247-78), l’unica di due soli saggi, contiene un approfondimento su “Lo stato fascista” di Guido Melis, che accusa il fascismo di aver voluto “cambiare lo Stato senza una teoria dello Stato” (249) e mette in risalto come nell’atto costitutivo della Milizia del 1923 non venga fatto alcun riferimento allo “Stato” preferendogli più spesso il sinonimo “patria”, termine caro anche alla nostra premier Giorgia Meloni, e come questo termine “Stato” si fatichi a trovarlo anche all’interno della pubblicistica fascista dell’epoca. Melis poi si sofferma sullo “Stato ‘corporativo’ e le sue contraddizioni”, regalando alla dicitura delle pesanti virgolette e sostenendo che in definitiva lo Stato fascista fu “intimamente contraddittorio” (263). Annalisa Capristo affronta poi, in un intervento assai breve “Le leggi antiebraiche” (267-74) ripercorrendo l’intera legislazione in modo puntuale ma non analitico.

La quinta parte, “La perdita del potere” (278-371) offre 4 saggi storici in cui si alternano le vicende dei fascisti, nei saggi di Marco Palla “Il Gran Consiglio del 25 luglio 1943” che pesca molto dalla monografia di De Felice, e dei giornalisti Mario Avagliano e Marco Palmieri “La Repubblica sociale italiana” (339-54), alle vicende degli antifascisti nei due notevoli interventi di Simona Colarizi “Storia dell’antifascismo” (297-327) e di Santo Peli “La Resistenza” (355-371).

Nella sesta e ultima parte, “Il fascismo dopo il fascismo” (372-434) troviamo un saggio di Paolo Bagnoli, “Il fascismo nella storia d’Italia” (373-91) che collega il Ventennio con i prodromi dell’età tardo-liberale, un  notevolissimo contributo di Marco Tarchi “Neofascismo” (393-409) che propone una formidabile e rara storia dei movimenti neofascisti degli anni della Prima Repubblica, con un’analisi potremmo dire dall’interno delle correnti del MSI e poi dei movimenti giovanili degli anni Settanta.

Infine le brevi conclusioni di Pasquino “Autoritarismi e populismi” (411-34) che propone una classificazione dei regimi non democratici secondo una più accurata articolazione: “regimi classicamente autoritari”, dove naturalmente colloca l’esperienza fascista, “teocrazie” come l’Iran di Khomeini, i “Sultanismi” dove si riprendono le definizioni di Chehabi e Linz (1998), i “Totalitarismi”, dal nazismo di Hitler alla Cina di Mao, passando per l’URSS di Stalin, e includendo la Cambogia dei Khmer rossi di Pol Pot, e infine i “Populismi”, che secondo Norris e Inglehart (2019) sono il prodotto di fattori culturali più che economici.

I Partigiani.

Antonio Giangrande: Se l’ANPI è l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia, ed i partigiani non erano solo comunisti, chi ne fa parte quanti cazzo di anni hanno? Considerato che dovrebbero essere dei centenari, gli anni se li tengono molto bene. Se invece non sono Partigiani, ma solo gente di parte, che lo dicessero: siamo solo comunisti, che operano al di là della loro pertinenza storica.

Quel “falso storico” sulla Resistenza che insistiamo a celebrare. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 29 Settembre 2023

Il Tg3 di mercoledì scorso ha dato molto risalto alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”. Sottolineando la presenza del Capo dello Stato, il quale ha deposto una corona di fiori davanti al monumento dello Scugnizzo, il servizio si conclude sostenendo che la metropoli partenopea “fu la prima città italiana liberata, grazie ad una grande azione di tutto il popolo.”

In realtà, spiace doverlo dire, si tratta di un colossale falso storico, dal momento che le truppe tedesche stanziate nella zona di Napoli avevano già iniziato un ordinato ripiegamento strategico per rallentare l’avanzata degli Alleati, attestandosi sulla linea del Volturno. Molto istruttivo, a questo proposito, il libro di Ezio Erra, politico e intellettuale napoletano scomparso nel 2011, Napoli 1943 – le quattro giornate che non ci furono, edito da Longanesi.

È sufficiente leggerne la presentazione per farsene già una prima, significativa idea: “Davvero Napoli insorse contro i nazisti nel 1943? Davvero ci furono le quattro giornate raccontate dalla storia resistenziale ed esaltate dal cinema? Facendo appello ai ricordi personali e comparando testimonianze dirette e indirette, documenti inediti e analisi obiettive, Erra rievoca le tre settimane dell’occupazione tedesca, concluse con una ritirata della potente e militarmente preparatissima divisione Goering. Una ‘fuga’ turbata da scontri disordinati con gruppuscoli partigiani, passati alla storia come le “quattro giornate di Napoli”. Sulla verità dei fatti si stende un’altra ombra: a liberazione avvenuta 7mila napoletani presentarono domanda al Ministero degli Interni per ottenere la qualifica di “patriota” e quindi le sovvenzioni previste…”

D’altro canto, onde dimostrare in modo indiretto quanto la propaganda abbia ingigantito oltre ogni misura ragionevole i fatti in questione, occorre fare qualche passo indietro, ricordando ciò che avvenne a Roma e dintorni nei giorni immediatamente successivi al fatidico 8 settembre. Come raccontato con dovizia di particolari dall’illustre Liddell Hart, storico militare di fama mondiale, nonostante le netta superiorità delle truppe italiane stanziate intorno alla Capitale, le due deboli divisioni di paracadutisti comandate dal generale Student, contro le stesse previsioni dell’alto comando germanico, riuscirono in breve tempo a disarmare le nostre truppe.

Quindi noi dovremmo credere che dove fallì l’esercito italiano, che comprendeva la divisione corazzata Ariete, la divisione motorizzata Piave, la divisione di fanteria dei Granatieri di Sardegna, più altre truppe sparse qua e là, riuscirono i volenterosi napoletani armati alla bell’e meglio? Io direi che dopo ottant’anni, con molta acqua passata sotto i ponti, potremmo anche permetterci di uscire dalla stucchevole e trita retorica resistenziale, almeno in questa occasione. Claudio Romiti, 29 settembre 2023

"La Resistenza non è monopolio dell'Anpi". E i partigiani rossi attaccano Valditara. L'Associazione nazionale partigiani d'Italia critica il ministro dell'istruzione in merito alla proposta di estendere il protocollo per la promozione della Resistenza nelle scuole anche ad altre associazioni. Stefano Gigliotti su Il Giornale il 19 Settembre 2023

Con il centrodestra al governo diverse cose sono destinate cambiare. Anche la promozione dei valori resistenziali nelle scuole, per anni evidentemente appannaggio di una sola parte politica. "Si rilassino i professionisti della polemica politica. I valori dell'antifascismo sono anche i miei e la Resistenza è un valore prezioso", ha tranquillizzato il ministro dell'istruzione Giuseppe Valditara, spiegando che "la Resistenza non è monopolio dell'Anpi e i valori resistenziali devono essere patrimonio di tutti".

Nei giorni scorsi l'Associazione nazionale partigiani d'Italia - in una lettera alla premier Giorgia Meloni e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella - aveva lamentato il mancato rinnovo di un protocollo d'intesa Anpi-Ministero dell'Istruzione, attivo dal 2014, per lo studio della Resistenza nelle scuole. In realtà, l'accordo non è stato cancellato ma esteso a "tutte le associazioni partigiane e non con una soltanto" perché "la Resistenza non l'hanno fatta solo i comunisti, ma anche i cattolici, i liberali, gli azionisti e perfino i monarchici", ha aggiunto Valditara.

Parole di buon senso ma non per l'associazione di partigiani rossi guidata da Gianfranco Pagliaruolo. "Fulminato sulla via di Damasco, dopo quasi un anno di silenzio il ministro Valditara scopre l'importanza del protocollo dichiarandosi impegnato a costruire una convenzione con tutte le associazioni partigiane" - ha ribattuto Pagliarulo - "Sappia però che non solo siamo già informati sul fatto che la Resistenza è stata opera di tante forze politiche, ma che l'Anpi stessa, che conta 141.500 iscritti, è un'associazione pluralista che accoglie nelle sue fila persone con diversi orientamenti politici, purchè antifascisti".

Polemiche anche dai paritti di sinistra che si ritengono gli unici depositari della lotta al fascimo. "Valditara ha ingaggiato una crociata contro l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia" - fa notare il capogruppo dell'Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro - "Altra ossessione di Valditara è il comunismo. La destra tenta di imporre una nuova matrice culturale eliminando ciò che viene considerato contrario, ostile, alla loro propaganda. E lo fanno cercando di distruggere l'esistente". Mentre per il Partito Democratico si tratta di una "polemica strumentale ed inutile del ministro Valditara contro l'Anpi", affermano Sandro Ruotolo e Andrea De Maria.

La scelta di Valditara è stata difesa da Cristina Olini, vice presidente dell'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani. "La Resistenza non è stata fatta soltanto dai partigiani dell'Anpi, dai partigiani all'epoca comunisti, ma anche dai cattolici, dai repubblicani, dal clero" - viene ribadito - "Credo che ampliare la convenzione sia un'ottima scelta in modo tale che le organizzazioni possano riunirsi in comune accordo".

Estratto dell’articolo di Federico Fubini per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.

All’Archivio centrale dello Stato a Roma, in un fascicolo del ministero dell’Interno relativo al periodo 1944-1946, si trova un documento che pone alcune domande sulla Resistenza e sul racconto che noi italiani facciamo a noi stessi riguardo alla nostra storia. È datato al 19 settembre 1945, 5 mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale in Italia e parla dell’affiliazione di partito dei partigiani dentro e attorno alla capitale. 

Pone, soprattutto, la questione della reale entità del contributo dei comunisti alla lotta partigiana a Roma. È importante sottolineare subito che quel documento apre, appunto, ad alcune domande; non fornisce risposte, non permette di saltare a conclusioni affrettate e semmai può costituire una base, per gli storici, da cui partire in vista di ulteriori approfondimenti: anche perché, nella sua ambiguità, i suoi significati potrebbero essere molteplici. […]

Il documento non è firmato, né è in carta intestata — benché sia dattiloscritto — dunque deve trattarsi di un’informativa estremamente informale al gabinetto del ministro dell’Interno. L’assenza di riferimenti fa ritenere allo storico Mimmo Franzinelli, autore di molti libri importanti su quella fase di cerniera della storia italiana, che si tratti di una nota dei servizi segreti. Questa modalità anonima e lo stile stesso del testo rimandano del resto alle note che fino a pochi anni prima la polizia politica del Duce stendeva su tutto e su tutti. 

Ministro dell’Interno nel settembre del 1945 è Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, che è anche presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale dei partiti antifascisti: accanto ai democristiani di Alcide De Gasperi, ai comunisti guidati da Palmiro Togliatti e ai socialisti di Pietro Nenni — tutti ministri nel governo Parri — anche il Partito d’Azione stesso, il Partito democratico del lavoro di Meuccio Ruini e Ivanoe Bonomi, oltre ai liberali.

[…] E c’è quel documento non firmato sulla Resistenza romana, fino alla ritirata dei nazifascisti dalla capitale il 4 giugno 1944. Si legge: «Alcuni giorni prima della liberazione di Roma, il comitato centrale del Fronte Clandestino di Resistenza tenne una riunione dei capi delle varie bande partigiane». Il fronte era l’ala civile delle organizzazioni partigiane della capitale che — come riferisce lo storico Giorgio Rochat — spesso si limitarono a operazioni di sabotaggio come deragliamenti di treni, ostruzioni stradali, distruzione di depositi e, più di rado, ad attacchi ad automezzi isolati. La priorità allora era evitare ritorsioni dei nazisti sulla popolazione e distruzioni dei monumenti di Roma.

Continua il documento anonimo: subito dopo la liberazione della capitale, «ciascun capo (del Fronte Clandestino di Resistenza, ndr ) presentò l’elenco dei propri iscritti. Venne quindi accertato che dei 7-8 mila partigiani organizzati ed aderenti ai vari partiti, 1.200 circa appartenevano al Partito comunista, oltre 3.000 alla Democrazia cristiana ed il resto al Partito d’azione, democratico del lavoro e liberale». 

L’elenco si trovava all’«Ufficio patrioti», istituito presso la presidenza del Consiglio e affidato all’allora colonnello Siro Bernabò. Bernabò non è un personaggio secondario. In anni seguenti, promosso generale di corpo d’armata, sarebbe arrivato fino al posto di comandante delle forze terrestri alleate per il Sud Europa (con sede a Verona). In quel ruolo, ebbe una funzione importante nella guerra fredda, nel contenimento dell’influenza sovietica e nelle tensioni — anche coperte — che attraversarono l’Italia allora.

L’informazione è la seguente: «Recentemente, in occasione del rilascio di brevetti, ricompense etc. — si legge nel documento — si è venuti a conoscenza che la lista dei partigiani comunisti da 1.200 iscritti è salita a circa 14.000, mentre in quelle degli altri partiti ne figuravano alcune centinaia di meno. Questa nuova situazione sarebbe stata creata dall’Ufficio patrioti, il cui personale è pressoché totalmente comunista».

Infine la conclusione: «All’alterazione pare vi sia stato il tacito assenso del colonnello Bernabò, il quale si sarebbe prestato alle manovre dei social-comunisti, particolarmente di Togliatti, i quali gli avrebbero fatto intendere che a lui sarebbe stata riservata un’importante carica nel nuovo ministero dell’Assistenza Post-Bellica». Malgrado le apparenze, non è facile interpretare queste accuse. Franzinelli sospetta che la velina dei servizi servisse soprattutto per colpire Bernabò e che fosse ispirata da suoi avversari interni allo Stato o all’esercito. […]

 "I partigiani non hanno mai cantato Bella ciao". Così il sindaco gela l'Anpi. Antonfrancesco Vivarelli Colonna, sindaco di Grosseto, non ha risparmiato una "stoccata" all'Anpi nel ripercorrere le origini di "Bella ciao". "Non vi sono prove del fatto che venisse cantata dai partigiani. Veniva invece cantata, con altre parole, dalle mondine di Vercelli". Giovanni Fiorentino il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.

"I partigiani non cantavano “Bella ciao”. Allora perché ai nostri giorni, ogni 25 aprile l’Anpi canta proprio quella canzone? Qualcuno mi può aiutare a capire? Sono sinceramente curioso". A chiederlo è il sindaco di centrodestra di Grosseto, Antonfrancesco Vivarelli Colonna, il quale in un video pubblicato nelle scorse ore sulla sua pagina Facebook ha ripercorso le origini storiche del brano. “Perchè Bella ciao viene associata ai partigiani ed intonata il 25 aprile? - ha proseguito - chi lo fa è non solo promotore di una divisione che avremmo dovuto superare, ma a mio avviso non conosce la storia: Bella ciao non veniva infatti cantata dai partigiani durante la guerra civile". Vivarelli, nel sollecitare una risposta, ha sollevato seri dubbi sulle origini storiche della canzone, che solo in un secondo periodo sarebbe a suo dire stata "retrodatata" sino a farla diventare evocativa della guerra civile.

Bella ciao? Era il canto delle mondine

"La prima traccia della canzone risale al 1906: veniva cantata fra le mondine di Vercelli, chiaramente con un testo diverso da quello attuale. Altre tracce portano al 1964, sempre nel medesimo contesto agricolo. Un'altra traccia si ha invece nel 1963: una canzone con il medesimo ritmo era conosciuta in Cina e Corea, legata anche in questo caso a contesti agricoli - ha proseguito il primo cittadino - tornando indietro, un brano musicalmente simile venne inciso a New York da un musicista originario di Odessa, nel 1919. Tra i partigiani circolavano inoltre dei fogli, sui quali erano scritte le canzoni da cantare. E in nessuno di questi figurava Bella Ciao. Idem dicesi per la Brigata Maiella: nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio del fondatore della brigata partigiana, non vi è alcun accenno al fatto che Bella ciao venisse cantata dai partigiani. Perché quindi Bella ciao viene associata ai partigiani?".

I botta e risposta fra Vivarelli e l'Anpi

Il video si conclude con l'invito agli utenti a dare una risposta, sollecitando poi i più giovani ad informarsi. "La popolarità di questa canzone nasce forse dalla sua orecchiabilità - conclude Vivarelli - perché durante la guerra non fu mai cantata". Si profila quindi un nuovo capitolo del botta e risposta a distanza fra l'Anpi e il sindaco della città toscana. La sezione locale dell'Anpi non gradì la scelta della giunta Vivarelli di dedicare una via a Giorgio Almirante, accanto ad un'altra da intitolare invece ad Enrico Berlinguer. Un'ipotesi che era stata accolta con favore, fra gli altri, anche da Antonio Padellaro, di certo non vicino al centrodestra. A dispetto di tutto ciò, l'Anpi ha più volte contestato Vivarelli, impedendogli di tenere il discorso istituzionale nel corso della cerimonia dello scorso 25 aprile (perlomeno in un primo momento). E la polemica, su queste basi, promette di continuare.

Estratto dell'articolo di Aris Alpi, direttore laltraimola.it.. per “il Fatto quotidiano” il 7 marzo 2023

Un segreto inconfessabile custodito fino alla morte, legato agli ultimi giorni del Duce e della Petacci, confidato soltanto a qualche parente. Una vita come combattente per la resistenza in Spagna e Francia. Nato nel 1902, ferroviere toscano originario di Poggio Tignoso, una trentina di anime sopra Firenzuola. Alfredo Mordini, nome di battaglia Riccardo, costruisce la sua carriera politico-miliare sull’attività antifascista, sfociata nel 1943 con il suo arruolamento nella 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia attiva nell’Oltre Po pavese, per la quale riceverà una Medaglia d’argento al valore militare. 

Partigiano esperto e spietato, è protagonista con altri undici compagni nell’operazione Dongo del 28 aprile 1945, che porterà alla fucilazione dei gerarchi fascisti, di Mussolini e Petacci: il firenzuolino è scelto per guidare l’operazione. Ma il suo ruolo, secondo alcune testimonianze, non è quello che ci è sempre stato raccontato nelle cronache fino a oggi e spiegherebbe in parte il motivo della fucilazione del Duce e della Petacci dinanzi a Villa Belmonte, teatro della cosiddetta “esecuzione ufficiale”.

[...]

La presenza del partigiano Riccardo negli anni scompare rapidamente dalla narrazione: la sua immagine si smaterializza senza motivo. Perché? Secondo il prof Luciano Ardiccioni, autore di Nel cuore della Linea Gotica, “Riccardo” avrebbe partecipato addirittura all’esecuzione stessa di Mussolini. Nel libro di Fabrizio Bernini Claretta difese col suo corpo il Duce dai mitra dei giustizieri viene confermata la presenza di “Riccardo”, assegnandoli una parte nella soppressione del Duce e della Petacci, ossia quella dell’esecutore involontario per il primo e volontario per la seconda. 

La dinamica mai chiarita emerge però da uno scritto risalente al 2002 firmato dal Generale Ambrogio Viviani, per 36 anni nell’esercito ed ex parlamentare del Partito Radicale; una descrizione che riporta Mordini in un ruolo segreto e di primissimo piano durante gli ultimi minuti del Duce. “Verso le ore 11 Lampredi e Mordini sono a casa De Maria. Moretti rassicura i coniugi e Lino con Sandrino che a turno sono stati di guardia sul ballatoio davanti alla stanza dei prigionieri. Mussolini e Petacci stanno ancora cercando di riposare e sono sommariamente vestiti.

Passati i momenti più critici dalla cattura avvenuta circa 20 ore prima, ritenendo ormai di venire sottoposto a un processo, rinunciato a un possibile tentativo di fuga, Mussolini, trovandosi di fronte due sconosciuti rifiuta di obbedire all’ordine di seguirli. Segue una colluttazione – forse un ordine del Mordini rigettato con forza dal Duce – durante la quale Mussolini viene gravemente ferito da alcuni colpi di pistola Beretta calibro 9 sparati da Mordini. Anche Clara Petacci (coinvolta) viene ferita con due colpi della stessa arma”.

“A quel punto – ricostruisce Viviani – occorre riparare al grave imprevisto e viene organizzata una fucilazione ‘ufficiale’”: quella che tutti conosciamo, davanti al cancello di Villa Belmonte, necessariamente senza testimoni essendo impossibile farla in pubblico insieme agli altri. 

Geninazza viene allontanato, Lino e Sandrino vengono lasciati in casa De Maria. Mussolini viene necessariamente disteso a terra e la donna gli è in qualche modo accanto. Segue una raffica di mitra. È di scarso interesse sapere chi abbia effettivamente sparato. Longo nella veste di Walter Audisio dichiarò di averlo fatto; la stessa cosa sostenne anni dopo Moretti; Lampredi diede il colpo di grazia con la pistola di Moretti. Petacci venne eliminata perché non testimoniasse su quanto era accaduto in casa De Maria. Giuseppe Frangi (Lino), nipote dei De Maria, venne trovato morto pochi giorni dopo, il 6 maggio, alle ore 2:00.

[…] 

Che fine farà Alfredo Mordini? Di lui si perdono le tracce. Emarginato dalla vita politica, dopo la guerra è costretto a umili lavori per guadagnarsi un tozzo di pane per campare. Allontanatosi dal Pci, morirà dopo anni di alcolismo, a soli 67 anni. […]

Goffredo Coppola, storia del rettore dell'Università di Bologna fucilato con Mussolini a Dongo. Fernando Pellerano su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023.

Home Movies pubblica sul suo sito il video storico dell’esecuzione dei gerarchi fascisti il 28 aprile 1945. Tra loro il rettore dell'Alma Mater che fu fascista e fedele al Duce, creando dibattito per il suo ritratto in Ateneo

Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi seguirono le sue lezioni nella facoltà di Lettere. Il professor emerito, Gian Paolo Brizzi, che nel 2005 scrisse la sua biografia, se lo immagina interpretato sul grande schermo da Alberto Sordi: «una figura più umoristica che tragica, sebbene tragica lo sia stata». Nella quadreria del Rettorato campeggia, fra quelle degli altri Magnifici dell’Alma Mater e fra qualche polemica ormai sopita, anche il suo ritratto. Alla stragrande maggioranza dei bolognesi il suo nome dice poco o nulla, eppure Goffredo Coppola, è uno dei sedici gerarchi che fino all’ultimo seguirono il Duce nella sua fuga fallita verso la Svizzera, fucilato a Dongo e poi finito a Piazzale Loreto. Goffredo Coppola, filologo classico, saggista, politico, pubblicista (collaborava con il Corriere della Sera) e soprattutto Rettore dell’Università di Bologna durante i mesi della Repubblica di Salò. 

Goffredo Coppola e Bartolo Nigrisoli: due storie opposte

Un personaggio di cui parlare, non certo per un banale revisionismo, ma per ricordare un pezzo di storia che appartiene all’Ateneo e alla città. Troppi sono ignari di lui o poco edotti, così come, su opposta sponda, di Bartolo Nigrisoli, uno dei docenti universitari, meno di venti su 1200, che nel ’31 rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista, l’unico di Bologna. Sapere per capire. Si ricorda Coppola il 28 aprile, perché nello stesso giorno di 78 anni fa venne fucilato dai partigiani a Dongo.

L'associazione Home Movies e il filmato recuperato 

E oggi, sul proprio sito, l’Associazione HomeMovies, specializzata nel recupero di film amatoriali, pubblica il documento filmato di quell’esecuzione di gruppo, dove c’erano anche fra gli altri Pavolini, Barracu, Bombacci, girato sulle sponde del lago di Como. Un minuto in 9,5 mm del cineamatore Luca Schenini. Pellicola requisita subito da un partigiano, nascosta per molti anni, la cui copia è oggi conservata dall’AAMOD - Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che l’ha messa a disposizione del progetto HomeMovies100: una clip al giorno su temi disparati, un almanacco della storia e della memoria (nei giorni scorsi sequenze legate alla Liberazione). 

Il rettore dell'Alma Mater e il rapporto con il Duce

Coppola in quelle non chiare immagini non si vede, ma c’era. Era il primo della lista compilata dal comandante partigiano ‘Valerio’ ovvero Walter Audisio, esecutore poche ore dopo, a Giulino di Mezzegra, del Duce. Coppola compare in una delle foto scattate quel giorno: piccoletto, magro, con gli occhiali, pantaloni alla zuava e grandi stivali. «Sapeva di andare a morire. Raggiunse Mussolini - dice Brizzi - per consegnargli quella pergamena della Laurea Honoris Causa che non ritirò nell’Ateneo nel ’26 (e mai più ne volle sapere per scaramanzia)», a causa del trambusto seguito dopo l’attentato attribuito ad Anteo Zamboni. L’anello di quella laurea, simbolo di cultura e con due grandi fasci littori, fu invece restituito all’orafo Veronesi che lo ha conservato come cimelio in cassaforte.

L'Università di Bologna e il fascismo

 Coppola, tumulato a Milano, venne nei primi ’50 trasferito alla Certosa (recuperato dagli ex rettori Ghigi, Battaglia e Guerrini, suo prorettore) dove si trova tuttora con tanto di epigrafe del latinista Pighi. Filologo classico con importanti studi callimachei, s’interessò di papirologia a Firenze. Per alcuni studiosi fu ‘scarso’, altri ne riconobbero l’importanza, come lo storico Canfora che poi chiese a Brizzi un articolo su di lui per la sua rivista scientifica. Fascistissimo? «Non della prima ora. Sono una bufala le sue medaglie d’oro nella prima guerra mondiale (fu scartato), mentre nella campagna di Russia non combatté ma fece propaganda (cattolica) distribuendo santini. Critico verso il fascismo, si converte nel ’32 proprio a Bologna, vera capitale, più di Milano e Roma, con la sua Xa Legio. Assai fascista anche Unibo, la facoltà di Lettere in particolare, con Alessandro Ghigi a capo che però il 25 luglio ’43 si dà malato, «ma stava benissimo». 

Una figura controversa e discussa 

All’unanimità eleggeranno Coppola, anche perché sapeva bene il tedesco, utile quindi con gli occupanti». In quei mesi, sempre in giro per l’Italia - sostituì all’Istituto di Cultura Giuseppe Gentile freddato dai partigiani - farà poco o niente a parte l’odiosa delibera sugli studenti maschi che avrebbero dovuto lasciare l’Ateneo per andare a combattere. A Bologna visse 13 anni, sempre in albergo, all’Astoria (che non c’è più). Sempre da solo, si vociferava fosse gay. 

Il ritratto e il dibattito: giusto tenerlo o meno?

Il 16 agosto’43 dopo una lite con degli antifascisti che festeggiavano la caduta del regime fu arrestato per ‘apologia di fascismo’, reato allora inesistente, e ‘disfattismo politico’. Fu liberato il 9 settembre in San Giovanni in Monte dai tedeschi. «Particolarmente odiosi i suoi scritti sui giornali contro gli ebrei, raccolti poi nel libriccino “Trenta Denari”», ricorda lo storico Luca Alessandrini, ex direttore del Parri. «Un antisemitismo cattolico, non hitleriano», precisa Brizzi. Dieci anni fa l’ultima polemica sul suo ritratto, fatto nel ’52 da Gino Marzocchi, presente in rettorato. La decisione di esporlo - l’idea delle effigi fu del rettore Felice Batttaglia pochi anni prima - fu adottata dall’autorità accademica nel 1957 ignorando le pur vivacissime contestazioni culminate in un’interrogazione in Parlamento. La battaglia del latinista, prof. Giancarlo Giardina, per rimuoverlo – «un impresentabile, un reggente più che un rettore» - fallì. Solo Walter Bigiavi nel’68, nella sua breve reggenza, lo rimosse, ma per un solo mese. Carnacini lo rimise al suo posto. Roversi Monaco prima, Calzolari poi e infine Dionigi, incalzati da chi riteneva ‘fuori luogo’ e imbarazzante quel ritratto, furono contrari alla damnatio memoriae. Del resto nell’elenco dei cittadini onorari di Bologna troviamo ancora il Duce. «La sua morte ha fatto comodo a tanti», dice Brizzi. Per attribuirgli anche cose a lui estranee. Come la consegna del radio ai tedeschi o la delazione dei partigiani e del loro covo nell’Istituto di Geografia uccisi in Ateneo nell’ottobre del ’44. Ma convintissimo fascista, e antisemita, lo fu e lo fu fino alla fine. 

L'accusa di collaborare con i servizi segreti

Pare sia stato anche collaboratore del capo dei servizi di sicurezza in Italia. «Non sono per distruggere, ma per museificare che non significa esporlo lì in quella sala, ma magari in una collezione universitaria o in un museo con tanto di didascalia che spieghi», dice Alessandrini. «La quadreria non è un Pantheon delle persone integerrime. Non c’è niente da nascondere», ribatte Brizzi. Casomai da svelare. Per sapere, per capire.

Estratto dell’articolo di Antonio Carioti per corriere.it il 25 Aprile 2023

Era il 25 aprile 1945. Due protagonisti della storia d’Italia, irriducibili nemici, s’incrociarono sulle scale dell’arcivescovado di Milano. Quello che scendeva era Benito Mussolini, giunto ormai agli sgoccioli della sua parabola politica e umana. Saliva le scale invece Sandro Pertini, il dirigente socialista che nel 1978 sarebbe stato eletto presidente della Repubblica italiana: avrebbe riferito successivamente che il Duce in quel momento appariva «molto emaciato, pallido, irriconoscibile, non era più il baldanzoso delle fotografie». Mancava poco alla fine del dittatore che aveva oppresso l’Italia per vent’anni. Ma come si era arrivati a quel fuggevole incontro?

[…]  Una settimana prima il Duce aveva abbandonato Villa Feltrinelli di Gargnano (Brescia), sua residenza nel periodo della Repubblica sociale italiana (Rsi), per trasferirsi presso la prefettura di Milano. Era un uomo allo stremo. […] 

Nel pomeriggio del 25 aprile, mentre i partigiani prendevano possesso della città dopo aver proclamato lo sciopero generale, una delegazione fascista, guidata da Mussolini, ne incontrò una del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) presso l’arcivescovado di Milano.

[…] Apparve presto chiaro che non esistevano margini per un vero negoziato, in quanto la richiesta ultimativa del Clnai era la resa incondizionata. Per giunta nel corso della discussione affiorò la notizia che i tedeschi avevano a loro volta avviato dei contatti sotterranei con i partigiani, senza consultare le autorità della Rsi […]. «Ci hanno sempre trattati come servi e alla fine ci hanno traditi!», esclamò Mussolini, adirato contro i nazisti. Quindi lasciò l’incontro, dicendo che sarebbe tornato entro un’ora con una risposta. Fu allora, uscendo per le scale, che si trovò di fronte Pertini, giunto in ritardo alla riunione.

[…] Intorno alle otto di sera del 25 aprile, Mussolini partì per Como con il suo seguito, comprendente l’amante Clara Petacci e una scorta delle SS al comando del sottotenente Fritz Birzer. All’uscita dalla prefettura gli venne scattata l’ultima foto da vivo. 

Nella città lariana la notte tra il 25 e il 26 aprile fu all’insegna della più assoluta incertezza. [...] Al mattino Mussolini partì per Menaggio, sulla sponda occidentale del lago di Como, dove tenne una riunione con i gerarchi al seguito. Poi si recò in una caserma della milizia confinaria, un ex albergo in località Grandola. Forse voleva provare a passare la frontiera elvetica, ma la zona era presidiata dai partigiani. Del resto sua moglie Rachele era stata respinta, con i figli Romano e Anna Maria, al confine di Chiasso. Quindi il dittatore tornò a Menaggio.

Il 27 aprile il Duce si aggregò a un’autocolonna della contraerea tedesca diretta verso nord. Tra le località di Musso e Dongo il corteo venne bloccato dai partigiani della 52ª brigata Garibaldi. Dopo una breve sparatoria i resistenti, al comando di Pier Bellini delle Stelle, si accordarono con i nazisti: li avrebbero lasciati passare, in cambio della consegna di tutti i fascisti che erano insieme a loro. Nella piazza di Dongo il convoglio venne ispezionato. Mussolini si era nascosto su un camion, con indosso un cappotto e un elmetto tedeschi, ma venne scoperto dal garibaldino Giuseppe Negri e arrestato insieme agli altri italiani.

L’armistizio firmato dall’Italia del 1943 prevedeva che il dittatore fosse consegnato agli Alleati, ma i partigiani erano di diverso avviso: un decreto del Clnai aveva stabilito per i capi principali della Rsi la pena di morte. Quando ricevette la notizia dell’arresto del Duce alla sera del 27 aprile, il comitato insurrezionale di Milano, composto da Pertini, Leo Valiani (azionista), Emilio Sereni e Luigi Longo (comunisti), incaricò Walter Audisio e Aldo Lampredi, partigiani del Pci, di andare a prelevare Mussolini e giustiziarlo. 

Il Duce trascorse l’ultima notte della sua vita insieme a Clara Petacci, a cui era stato concesso di seguirlo. […] Sull’esecuzione di Mussolini sono circolate molte versioni differenti, ma la più accreditata riferisce che il dittatore e l’amante furono uccisi a colpi di mitra in località Giulino di Mezzegra, a fianco del cancello di Villa Belmonte, alle 16.10 del 28 aprile 1945.

Dall’Unità del 1 giugno 1973. La rivelazione di Giulio Salierno: “Imparavano a usare armi sotto la guida dei missini”. Il racconto delle violenze e della carriera nel partito neofascista di un ex condannato per assassinio. Paolo Persichetti su L'Unità il 7 Giugno 2023 

Quella di Giulio Salierno è una storia fuori margine, come d’altronde recita il titolo di uno dei suoi libri, Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, uscito nel 1971. Giovane fascista, fanatico e violento, cresciuto nella sezione del Movimento sociale italiano di Colle Oppio, la formazione politica che raccolse nel dopoguerra i nostalgici del regime mussoliniano, Salierno è un destinato: brillante (giovanissimo ha già incarichi di responsabilità), determinato, interpreta con un fervore febbrile l’antropologia del revanscismo fascista dopo la sconfitta del 1945.

Gli stralci della intervista che qui pubblichiamo, apparsa sull’Europeo e ripresi dall’Unità nel 1973, anticipano di pochi anni i contenuti di uno dei suoi volumi più importanti, Autobiografia di un picchiatore fascista, apparso nel 1976 per Einaudi. Vera e propria etnografia della destra romana, tra sezioni missine che non consideravano conclusa la guerra persa nel 1945, palestre di boxe come l’«Indomita» e la «Bertola», campi paramilitari, traffici di armi e esplosivi, attentati, agguati squadristi contro le sezioni comuniste di Garbatella e Cinecittà, violenza sadica, connivenze con apparati dello Stato travasati nella Repubblica direttamente dal ventennio, incontri con Pino Rauti, Julius Evola e Giorgio Almirante.

E una ossessione: uccidere Walter Audisio, il comandante partigiano, divenuto nel frattempo parlamentare comunista, responsabile della esecuzione di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Fargli «un buco nella testa – scrive Sergio Luzzato nella nuova edizione pubblicata da minimum fax nel 2008 – con un foro di ingresso in cui si potesse infilare il dito mignolo e un altro d’uscita in cui si potesse ficcare il pugno», era una idea che corrispondeva esattamente alla mentalità del neofascismo giovanile della Roma dei primi anni 50. «I ragazzi come Salierno» – spiega ancora Luzzato – sapevano come fare: «bastava appostarsi fra la Nomentana e la Salaria, caricare il fucile automatico e sparare contro l’onorevole Audisio. Bastava vendicare il Duce».

Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista. Coinvolto in un omicidio nel corso di una rapina finita male, nel 1953 Salierno deve fuggire assieme al suo complice dopo una lettera anonima fatta pervenire alla polizia da ambienti missini che volevano scaricarlo. Arrivato a Lione si arruola nella Legione straniera, ma una volta giunto in Algeria viene riconosciuto da un poliziotto italiano che era sulle sue tracce e arrestato.

L’ingresso nel carcere di Sidi-Bel-Abbès, le condizioni bestiali di detenzione vissute in quel luogo, lo portano a conoscere la realtà dei prigionieri politici algerini che combattono per l’indipendenza tra sevizie e torture. Inizia qui il suo percorso di ripensamento. Solidarizza con i giovani militanti algerini e una volta estradato in Italia abiura il fascismo, scopre Gramsci e la letteratura marxista, studia sociologia tra mille difficoltà in un carcere che non riconosceva il diritto allo studio. È il primo detenuto del dopoguerra a laurearsi. Nel 1968 ottiene la grazia dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per «motivi di studio». Collabora con Umberto Terracini e Franco Basaglia. Nel 1971 pubblica insieme ad Aldo Ricci, Il carcere in Italia, rimasto uno dei classici della saggistica sul tema.

Gli istituti asilari (il carcere, i manicomi, gli ospedali, la scuola, la polizia e l’esercito), sono per Salierno uno specchio della società borghese. Alla domanda «Chi va in carcere e perché?», risponde che non a caso la condizione sociale, il grado di istruzione, la collocazione professionale, la provenienza geografica, la derivazione familiare, sono una sorta di condanna aprioristica e senza appello che la società «emette nei confronti delle classi subalterne, emarginandole nei ghetti della miseria e della degradazione culturale e morale ancor prima che negli istituti di pena».

L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda oggi: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo. E se dunque la domanda giusta non è dove vieni ma dove vai, è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono.

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«Ero pieno di armi. Oltre cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava quaranta colpi. Me l’aveva dato un altro attivista. Gia allora tutti gli attivisti missini avevano armi». Sono frasi di Giulio Salierno rilasciate in una lunga intervista al settimanale L’Europeo.

Oggi simpatizzante di un gruppo della cosiddetta sinistra extraparlamentare, Salierno a sedici anni e mezzo era già vicesegretario giovanile del Msi. A diciassette segretario giovanile e delegato al congresso come dirigente della «Giovane Italia». A diciassette e mezzo era commissario politico per cinque sezioni. A diciotto (nel 1953), venne scelto per ammazzare il compagno Walter Audisio, il leggendario colonnello «Valerio». Una carriera fulminea, costruita giorno per giorno nelle sezioni del partito neofascista e soprattutto nei campi paramilitari già allora organizzati per sovvertire l’ordinamento democratico della Repubblica.

Su questi campi paramilitari, sull’addestramento alla violenza, sulla tecnica della provocazione, Salierno racconta vicende e tecniche, illustra i metodi organizzativi neofascisti, più volte denunciati dalle forze politiche democratiche – dal nostro Partito innanzi tutto – e di cui ha avuto occasione di occuparsi anche la magistratura. È, quella riportata dal settimanale, un’ennesima importante testimonianza resa da chi ha personalmente vissuto una simile esperienza.

«Imparavamo ad usare le armi in campagna – dice l’intervistato –, soprattutto durante la stagione di caccia. Non costituiva un problema: bastava smontare il fucile o la mitragliatrice e uscire da Roma. Io l’ho fatto una enormità di volte, e nessuno mi ha mai arrestato. Una volta per Capodanno ho perfino sparato in città, col mitra. Nessuno mi ha detto nulla. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Non che i campeggi fossero veri campi di addestramento militare. intendiamoci.  Dal momento che si trovavano sotto la giurisdizione del partito, l’uso delle armi v’era ufficialmente proibito. Però c’era sempre un istruttore o due che portavano un mitra o un fucile o un paio di rivoltelle e così, oltre allo spirito guerresco, nei campeggi si assorbiva l’abitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma una bomba non è più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non e più una strage».

Quando Salierno faceva queste cose, il Msi indossava il doppiopetto di Arturo Michelini. Almirante, il «massacratore di partigiani», era – all’interno del partito neofascista – «il teorico della linea dura». «È arduo dimostrare che una strage è stata voluta al vertice del Msi – dice ancora Salierno –. Magari è stata suggerita da un dirigente, si, ma prenderlo in castagna è quasi impossibile perché tra l’esecutore materiale e lui non c’è mai un filo diretto. Il filo è una catena dove ciascun anello è rappresentato da attivisti fidatissimi, cioè i duri, che costituiscono la struttura paramilitare all’interno del Msi. Non solo: l’attentato fascista dev’essere sempre fatto in modo da lasciare il dubbio che l’autore sia un rosso. Noi dicevamo addirittura che l’attentato perfetto è quello che si fa “teleguidando” il rosso: cioè inducendo il rosso a farlo per te. Per esempio attraverso un agente provocatore».

Le cose dette con tanta chiarezza da Salierno sembrano storia di questi giorni. Ricordano Piazza Fontana, gli attentati ai treni operai, l’attentato al direttissimo Torino-Roma, le bombe di Piazza Tricolore che uccisero l’agente Marino, la strage davanti alla Questura di Milano. Episodi tragici della trama nera, sui quali sta indagando al magistratura, per i quali sono stati chiamati in causa dirigenti nazionali del Msi.

Nella stessa intervista, come abbiamo accennato all’inizio, Giulio Salierno rivela un altro episodio gravissimo, sul quale è bene che la magistratura faccia piena luce aprendo un’inchiesta. «Ad un certo punto — dice Salierno — fu deciso di giustiziare Walter Audisio». Del progetto si era già parlato nel 1948 e venne ripreso nel 1953 «in seguito ad una osservazione del generalissimo Franco». «Un gruppo di dirigenti del Msi – continua l’intervistato — s’era recato in Spagna ed era stato ricevuto da Franco. Nel corso del colloquio Franco aveva chiesto: “Com’è che i fascisti italiani non hanno ancora eliminato Walter Audisio. detto colonnello Valerio?”».

E più avanti: «Per arrivare a ciò ci voleva una cosa sola: un giustiziere pronto ad uscire dal partito qualche mese prima e poi disposto a rivelare il suo nome dicendosi fiero del gesto. Il giustiziere prescelto fui io. Uscii dal partito, dunque, e immediatamente dopo ebbe inizio lo studio dell’attentato». II compagno «Valerio» fu pedinato dagli attivisti del Msi e fu deciso che sarebbe stato ucciso davanti casa. «Un piano perfetto — dice Salierno —. Mi ci preparai con lo scrupolo di un vero killer ed in pochi mesi fui pronto».

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Paolo Persichetti 7 Giugno 2023

Il calciatore che uccise Mussolini: Michele Moretti (ovvero il commissario Gatti). Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Fu idraulico e celebre partigiano tanto da avere un ruolo importante a Dongo. Ma fu anche terzino e poi ala della Comense, giocò in B e in C e perfino il c.t. Pozzo lo valutò per la Nazionale, ma non lo convocò 

Il calciatore, l’idraulico, il partigiano, ma soprattutto il giustiziere di Mussolini. Quella di Michele Moretti, conosciuto dai compagni della Resistenza come Pietro Gatti, è una storia quasi leggendaria, ma che intreccia sport e politica in uno dei momenti più drammatici e significativi per l’Italia. Nato a Como nel 1908 da padre ferroviere, le sue imprese sportive vennero presto dimenticate di fronte al ruolo che ebbe con i partigiani nella cattura e nell’esecuzione del Duce, tanto dall’aver combattuto con i partigiani prima e l’esser fuggito in Jugoslavia e Unione Sovietica poi, quando dietro la fuga rimase irrisolto il mistero di un presunto bottino in milioni di lire dell’epoca sottratto alla Repubblica di Salò e agli ultimi gerarchi fascisti.

Ma quello che pochi ricordano è che come calciatore giocò come terzino e poi ala nella Comense fra il 1927 e il 1935, protagonista di una stagione fantastica in serie C, dove la squadra non perse neanche una partita con ben 90 gol segnati. Nel complesso giocò 4 campionati cadetti con 83 presenze all’attivo, fino alla stagione del 1933-34 quando, perdendo per 4-2 con il Bari, vide sfumare all’ultima giornata la promozione in A conquistata invece dalla Sampierdarenese (antenata della Sampdoria). Ebbe anche la possibilità di vestire la maglia della Nazionale i giocatori visionati da Vittorio Pozzo, unico allenatore a detenere ancora oggi il record di due Mondiali di calcio vinti, giocando fra gli azzurrabili ebbe un comportamento altalenante, focoso e discutibile, mostrando presto la sua indole combattiva, anche nella vita.

A casa, il ragazzo che per sopravvivere all’epoca lavorava in realtà come idraulico a Maslianico (Como), aveva sempre ascoltato il pensiero di alcuni esponenti del socialismo italiano e straniero, come Costa, Turati, Prampolini e naturalmente Marx. Nel 1944 prese parte anche a degli scioperi, prima di lavorare in Austria, in una succursale della Gerenzana a Pols, quando la sua storia sarebbe diventata famosa. Era fuggito, ma mantenendo sempre i contatti con i vertici comunisti nell’Italia settentrionale durante la Resistenza. Fu il 25 aprile del 1944, esattamente un anno prima della Liberazione, ad abbracciare pienamente la causa dei partigiani sulle Alpi Lepontine, sulla sponda occidentale del lago di Como e del lago di Mezzola. I compagni raccontavano che avesse tante vite quante ne hanno i gatti, fino a quando non fu chiaro che il fascismo era caduto e che il Duce stava fuggendo oltreconfine.

Come commissario politico della 52esima Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», operante sul monte Berlinghera, intercettò un gruppo di soldati tedeschi, che fuggendo provava a razziare abitazioni, opere d’arte, ricchezze e quello che potevano. Catturati i fuggiaschi la scoperta: Benito Mussolini e la compagna Clara Petacci, insieme ad altri fedeli gerarchi, erano nascosti fra gli ostaggi. Moretti chiese consiglio ai vertici militari comunisti, ma presto si decise per l’esecuzione del Duce. Dal posto di blocco di Dongo a Bonzanigo, frazione di Mezzegra, giunsero i capi partigiani Walter Audisio e Aldo Lampredi. La storia si fa confusa, ma sembra che Moretti prese parte alla fucilazione con una MAS-38 francese di calibro 7,65. 

LA STORIA

Bruno Neri, il calciatore partigiano che sfidò Mussolini

Da quel momento, in una fase storica estremamente confusa, l’ex calciatore venne accusato di essere fuggito con 33 milioni di lire, parte del tesoro della Repubblica di Salò, precedentemente sequestrato ai prigionieri. Un aspetto che fu oggetto anche di un processo nel 1957, ribattezzato «L’Oro di Dongo» ma il partigiano Gatti era già scappato in Jugoslavia, prima di riprendere nel dopoguerra il proprio lavoro di idraulico nell’allora Unione Sovietica. Si racconta della perdita della moglie, di quella di un figlio, anche se il resto della sua vita fu in buona parte avvolta nel mistero, compresa la sua testimonianza diretta sulla morte del Duce. Il calciatore-partigiano fu premiato con l’Abbondino d’Oro nel 1993, massima onorificenza del Comune di Como, dove nel frattempo era rientrato nell’ultimo periodo della sua vita, prima di morire per cause naturali il 5 marzo del 1995. Una storia fra le tante di anni complessi, ma che mostra come lo sport e la vita rimangano sempre componenti difficili da slegare e che si intrecciano nello svolgersi degli eventi.

Esecuzioni, torture, stupri.  Le crudeltà dei partigiani. Giampaolo Pansa il 7 Ottobre 2012 su Il Giornale.

La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega 

C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo.

A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo.

Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica.

Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano?

Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento.

Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.

L’INCREDIBILE STORIA DIMENTICATA DEI 5000 PARTIGIANI SOVIETICI CHE AIUTARONO LA RESISTENZA ITALIANA. DI SILVIA GRANZIERO su The Vision il 22 ottobre 2021.

L’Italia è punteggiata di cippi e lapidi commemorative con la stella rossa dell’Unione Sovietica o scritte in cirillico. È questo quasi tutto quel che rimane di un aspetto poco noto della liberazione, la fase della nostra storia senza cui l’Italia repubblicana che oggi diamo per scontata non esisterebbe. Vista l’ambiguità con cui da qualche anno si parla di liberazione e Resistenza, non stupisce che la conoscenza diffusa su questi temi escluda diversi aspetti ed episodi densi di significato, come la partecipazione di partigiani di nazionalità non italiana alla guerra di liberazione dal nazifascismo. Tra questi, i circa 5000 soldati sovietici che combatterono al fianco dei partigiani, ma che dal dopoguerra furono relegati nell’oblio quasi totale. Eppure quelle vicende storiche testimoniano una solidarietà che travalica i confini nazionali, in nome dello stesso fine della liberazione dal nazifascismo, che ancora oggi merita di essere celebrata. 

Per capire come i sovietici arrivarono in Italia bisogna risalire all’Operazione Edelweiss, il piano con cui Hitler pianificò la conquista di tutta l’area del Caucaso per impossessarsi dei pozzi di petrolio di cui l’Azerbaijan era ricco. Si trattava di un obiettivo strategico anche perché, dopo l’occupazione tedesca dei territori dell’attuale Ucraina, la Repubblica Socialista Sovietica Azera era rimasto l’unico fornitore di petrolio dello schieramento alleato e la sua capitale, Baku, era un importante centro di manifattura di 130 tipi diversi di armi, tra cui i leggendari razzi Katjusha – così chiamati dalla celebre canzone popolare russa che dopo la guerra assunse un forte significato patriottico, e la sua melodia, portata in Italia dai reduci di ritorno dalla Russia, diventerà la base per “Fischia il vento”. Oltre alle motivazioni strategiche però ci sono quelle “esoteriche”: Hitler infatti vuole il Caucaso anche per prendere il monte Elbrus, ritenuto la sede mitica del Valhalla, dimora degli eroi della mitologia germanica. Così, violando il patto Molotov-Von Ribbentrop, nel giugno 1941 invade l’Unione Sovietica, puntando verso il Caucaso. Alla notizia, tra i volontari che si arruolano nell’Armata Rossa per fermarlo ci sono anche 40mila azerbaijani, che si costituiscono in diverse divisioni su base nazionale, i cui posti di comando, però, spettano a ufficiali russi, cosa che comporta qualche difficoltà a livello di gestione e coordinamento per la distanza culturale e linguistica tra i soldati e i gradi superiori.  

Nell’autunno 1942 è ormai chiaro il fallimento del progetto nazista, nel quale sono coinvolti anche gli italiani dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia). Dopo aver sconfitto i tedeschi a Stalingrado, nel gennaio 1943 l’Armata Rossa organizza una controffensiva: nonostante alla fine prevalgano i sovietici, durante gli scontri molti di questi sono costretti ad arrendersi; tra i prigionieri dei nazisti – in totale tra i 3 e i 4 milioni di persone – diversi azerbaijani sono probabilmente uccisi subito perché, essendo musulmani, sono circoncisi e quindi scambiati per ebrei. Dopo una prima fase di sterminio, però, il regime nazista decide di cambiare strategia, puntando sul collaborazionismo – tanto che, alla fine del 1942, nasce a Berlino l’anticomunista Comitato per la liberazione dei popoli della Russia – e sull’impiego dei prigionieri nei campi di lavoro. Vengono anche creati dei reparti militari cosacchi, posti sotto il comando dall’atamano – cioè il comandante cosacco – Pëtr Krasnov e vengono dotati di una certa libertà d’azione perché, diversamente dalle etnie slave, sono ritenuti di origine ariana. L’idea è impiegare i caucasici contro l’Armata Rossa, ma cercando di mettere per sicurezza i diversi sovietici l’uno contro l’altro.  

Da queste legioni sono molti a disertare e unirsi di nuovo all’Armata Rossa o a entrare in clandestinità, atteggiamento che fa ancor più perdere la fiducia dei tedeschi nei confronti dei sovietici, che vengono quindi ritirati dal fronte orientale e dirottati su quello occidentale, allontanandoli dalla madrepatria. Anche così, però, gli antifascisti non rinunciano ai loro propositi di fuga e, giunti con le legioni naziste in Francia e in Italia, nell’estate del 1943, fuggono mettendosi in contatto con le formazioni partigiane locali. Corpi di partigiani azeri e georgiani legati alla Brigata Garibaldi sono attivi in Emilia, nelle zone di Parma e Piacenza e nel bolognese, fino a tutto l’Appennino tosco-emiliano; altri sulle montagne nella zona di Bergamo e di Brescia, dove è attestata la presenza di disertori russi, cecoslovacchi, polacchi e altri non meglio identificati “slavi” di cui i testimoni ricordano le prove di coraggio. Come quella del georgiano Pore Mosulishvili – attivo nell’area del Lago Maggiore assieme ad altri caucasici  – che, accerchiato dai tedeschi, si suicida a inizio dicembre 1944. Qualche tempo prima, il 24 ottobre, tra i trucidati nelle stragi compiute dalla polizia fascista nei dintorni di Novara – un’azione di vendetta nei confronti delle operazioni partigiane della zona – c’è anche il georgiano Sikor Tateladze, che viene impiccato assieme ai compagni italiani. 

Il più noto, però, è il partigiano Mikhailo, nome di battaglia con cui passa alla storia Mehdi Huseynzade, un giovane artista poliglotta, destinato a morire a 25 anni e a essere ricordato come eroe. Tenente dell’Armata Rossa ferito gravemente e fatto prigioniero in battaglia nel 1942 nei pressi di Stalingrado, Huseynzade, di fronte all’opzione di andare in campo di concentramento, preferisce entrare nella Legione nazionale azerbaigiana, con l’idea di fuggirvi il prima possibile. Qui, grazie al suo talento per le lingue, diventa interprete e viene affidato alla 152esima divisione turkestana di fanteria, nel reparto di propaganda e controspionaggio. Questa, dopo l’8 settembre del 1943, viene inviata nella zona di operazioni Litorale Adriatico, la nuova provincia del Reich tedesco che comprende Trieste e la Venezia Giulia; qui Huseynzade progetta la fuga insieme ai suoi compagni Javad Hakimli e Asad Gurbanov.

I tre riescono a mettersi in contatto con dei partigiani comunisti e a entrare nel IX Korpus del Fronte di liberazione sloveno, composto di sloveni e italiani legati alla Brigata Garibaldi. È da loro che Huseynzade viene ribattezzato Mikhailo ed è con loro che progetta diversi attentati contro le postazioni tedesche nella zona, tra cui l’esplosione di una bomba in un cinema pieno di soldati tedeschi a Villa Opicina il 2 aprile 1944, che provocò 80 morti e 110 feriti; 20 giorni più tardi salterà poi in aria il circolo militare Deutsches Soldatenheim in via Ghega a Trieste durante uno spettacolo, facendo 450 tra morti e feriti. Il mese dopo esploderà il casinò militare di via del Fortino, sempre a Trieste, e verrà innescato un ordigno in una caserma. 

A settembre dello stesso anno, Mikhailo, travestito da ufficiale nazista, fa saltare due aerei e 25 automezzi in un autodromo tedesco e il mese dopo, con i suoi uomini, fa un’incursione in carcere liberando 700 prigionieri di guerra. La taglia che pende sulla sua testa non gli impedisce di portare a termine un ultimo attentato in un cinema militare di Sezana; ma quando, a novembre, cerca di introdursi nei magazzini di uniformi tedesche a Gorizia, i tedeschi lo fermano. Secondo il dossier ufficiale – in cui probabilmente la realtà sfuma nel mito – gli inseguitori individuano la località in cui Mikhailo alloggia, e lui, accerchiato, uccide 25 soldati tedeschi, prima di suicidarsi con l’ultimo proiettile rimasto. Esiste un’altra versione secondo cui i nazisti trovarono per caso Mikhailo a pranzo in una trattoria nel villaggio di Vitovlje, in Slovenia, e lo trucidarono. Un suo compagno, il georgiano David Tatuashvili, gli costruì una tomba in una località che oggi si trova in Slovenia, su cui Javad Hakimli – che ne parlerà nel 1963 nel suo libro di memorie Intigam (“La vendetta”) – incide la stella rossa dell’Urss.

In Azerbaijan, oggi, Mikhailo è celebrato come personificazione dell’impegno nazionale nella guerra di liberazione europea. Gli sono stati dedicati film e nel 1973 un monumento nel centro di Baku. Ciò è stato possibile solo dopo la morte di Stalin, che aveva addirittura emanato un ordine per punire chiunque avesse fatto parte delle divisioni tedesche, anche se arruolato a forza e disertore di provato antinazismo. L’eroe dei tre mondi – Urss, Italia e Slovenia – non è però altrettanto riconosciuto all’estero. Non solo in Urss – dove le peculiarità locali delle nazionalità non russe sono state a lungo percepite come un pericolo per l’unità dello Stato – ma anche in Jugoslavia, in rotta con Stalin dal 1948. In Italia i partigiani sovietici per anni non hanno ricevuto onori. Da noi, infatti, vicende come quella di azerbaigiani e georgiani non sembrano essere in linea con la narrazione dominante del dopoguerra, di esaltazione degli alleati americani, per cui l’apporto comunista alla liberazione è un ricordo scomodo.

Eppure questo è uno degli episodi che mostrano la trasversalità della Resistenza, la cui solidarietà merita di essere ricordata. Sono ancora troppe poche e isolate le iniziative di commemorazione, come quelle programmate per fine ottobre a Gallarate e Verbania, o come l’inaugurazione, nel 2017, di un piccolo museo dedicato a Mikhailo in Slovenia; mentre pioneristico è stato il riconoscimento da parte della Regione Toscana già negli anni Settanta verso i reduci venuti da lontano. Nella memoria collettiva non sembra esserci uno spazio per questo solidale antifascismo che travalica confini nazionali e ostacoli linguistici e che si realizza anche nella partecipazione dei partigiani italiani alle operazioni di Resistenza all’estero. Questi episodi sono stati praticamente cancellati, a eccezione di qualche lapide nei boschi o negli angoli dei nostri cimiteri, e invece dovrebbero essere fatti conoscere, come testimonianze della solidarietà sovranazionale, preziose tanto più oggi per contrastare la voglia di costruire muri, risvegliando quella di abbatterli. Silvia su The Vision

L’organetto della morte: la strage nazifascista compiuta a suon di musica. WALTER VELTRONI su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

Esce il 18 aprile il libro di Agnese Pini «Un autunno d’agosto» (Chiarelettere) sugli orrori commessi dalle SS di Walter Reder nel 1944 a San Terenzo Monti, in Lunigiana

Il capo supremo (Reichsführer) delle SS, Heinrich Himmler (1900-1945) , in primo piano, passa in rassegna un reparto combattente delle truppe scelte naziste

La strage di San Terenzo Monti, nell’agosto del 1944, fu consumata al suono di un organetto. Rimasero uccise 159 persone, la maggioranza donne e bambini. Furono i nazisti, per vendicare l’uccisione di sedici dei loro, avvenuta durante un’azione partigiana di due giorni prima. Non ci furono editti o inviti a consegnarsi, i nazisti non facevano così, semplicemente applicavano come ragionieri la contabilità della «banalità del male»: uno di loro valeva dieci italiani.

Nazisti certo, comandati da Walter Reder. Gli stessi che in quei giorni, mentre scappavano sconfitti dall’Italia che insorgeva e dagli alleati che arrivavano uccisero 69 persone a Nozzano, 560 a Sant’Anna di Stazzema, 162 a Vinca, 12 a Farneta, 159 alle Fosse del Frigido, 72 a Bergiola Foscalina, 770 a Marzabotto: 1963 vittime in due mesi, per lo più donne e bambini.

A San Terenzo non erano soli, però. Come sempre. Con loro, a suonare l’organetto mentre quelle povere persone annegavano nel sangue, c’erano i fascisti italiani, in quel caso i militi repubblichini della Brigata nera di Livorno. Parteciparono in cento all’eccidio che avvenne all’alba del 19 agosto. Per quella strage orrenda furono condannati in undici all’ergastolo ma pochi anni dopo vennero messi in libertà, amnistiati.

In Un autunno d’agosto (edito da Chiarelettere), il bellissimo libro in cui Agnese Pini, direttrice di quotidiani, ha raccontato (attraverso la memoria della nonna Iolanda), affondando il bisturi nel proprio strazio, quella strage dimenticata nella quale morì la sua bisnonna (Palmira Ambrosini), si ricorda la spietatezza dei fascisti scappati alla giustizia: «Fu Giovanni Tomagnini detto Sergio, caporalmaggiore, a squartare una donna incinta di nove mesi a Vinca: lei si chiamava Alfonsina Marchi… Fu il sergente Giovanni Bragazzi a dare l’ordine di lanciare per aria una bambina di due mesi, mentre cinque camicie nere travestite da nazisti le sparavano al volo... Fu Italo Masetti a buttare una bomba a mano dentro a una casa colonica per sterminare le donne e i bambini...».

Sono, a dirlo, le carte processuali dell’Italia che, nel dopoguerra, in fretta e furia voleva seppellire ciò che era stato. Un’operazione forse necessaria: l’Italia aveva bisogno, certo, di guardare oltre l’inferno che aveva vissuto: la dittatura, la guerra, la fame, l’occupazione straniera, la guerra civile, i bombardamenti. Doveva ricominciare a vivere e seppellire l’odio che il fascismo aveva generato tra gli italiani. Tutto vero.

Ma è vero anche ciò che coraggiosamente scrive Agnese Pini: «In Italia non ci fu mai una Norimberga, e se da un lato la clemenza giudiziaria riuscì a facilitare un percorso apparente di pace — che si sarebbe presto infranto nel terrorismo rosso e nero — dall’altro non riuscì a costruire una profonda, vitale e forte coscienza di popolo e di paese sulle colpe e sui crimini per cui gli italiani, sostanzialmente, si autoassolsero. Con molta fretta e altrettanta leggerezza».

Agnese Pini ha unito alla minuziosa fatica del cronista di vaglia, che ricostruisce fatti attraverso testimonianze e documenti, la forza di una scrittura calda, a volte bruciante nella capacità di descrivere, una per una, le storie di quei bambini, delle loro mamme, della illusione di trovare salvezza quando la guerra e la ferocia trasformano le persone in pezzi da contare. Persone, non nomi. Pini racconta di un uomo che per salvare la propria famiglia fu costretto dai nazisti a cercare persone da scambiare e si risolse a fermare due povere ragazze che furono poi uccise.

Pini racconta della bambina piccola, Maria, che vede i suoi genitori morire falciati da una scarica di mitra e si ripara nell’acqua gelida per salvarsi, salvo poi essere accudita dal prete del paese che vedrà morire davanti ai suoi occhi ucciso dai nazisti. Maria, per ironia della storia, di cognome si chiamava Vangeli.

La strage si consuma in due atti. Prima vennero impiccati cinquantatré prigionieri e poi fu sterminata a raffiche di mitra una intera comunità. Solo una bambina, Clara, si salvò fingendosi morta, e molti anni dopo disse rassegnata: «Cosa vuole che facciano giustizia dopo sessant’anni, che poi a perdere la mamma…».

«L’armadio della vergogna» in cui furono dimenticate per decenni le carte delle stragi è la testimonianza del cinismo con il quale si è scritta la parola fine a qualcosa che invece dura ancora e tortura generazioni di italiani. Il procuratore militare Marco De Paolis, uno dei pochi che abbia no cercato di combattere la rimozione, dice all’autrice che una volta raggiunti i nazisti responsabili direttamente degli eccidi li aveva trovati: «Tutti inevitabilmente vecchi, ma ancora pieni di crudeltà e di odio». Sono stati condannati, ma nessuno ha fatto un giorno di carcere.

Queste stragi del 1944, lo mette bene in rilievo Agnese Pini, furono consumate sempre a danno degli ultimi, dei contadini che vivevano dei frutti dei loro campi e del lavoro per far crescere le bestie. I nazisti prima razziavano gli animali, confiscavano il cibo e poi uccidevano, violentavano, torturavano.

Chi leggerà Un autunno d’agosto sentirà tutto questo non come un racconto lontano, ma ne avvertirà la terribile, inopinata attualità. Bucha non è in Toscana nel Novecento, ma oggi nel nostro mondo ferito e impazzito, che dimentica, rimuove, ripete gli orrori della guerra e delle dittature.

Bortoloso, i dem celebrano il partigiano che uccise donne e civili. Marco Cimmino su Libero Quotidiano l’08 aprile 2023

Se c’è una cosa che ti insegna il mestiere dello storico è che la storia è una somma di memorie, spesso difficilmente conciliabili, ma che meritano tutte attenzione e rispetto: si deve entrare *Docente di storia e storico militare segue dalla prima (...) in questo caleidoscopio in punta di piedi e sempre cercando di tenerne fuori le proprie idiosincrasie, le simpatie, le ragioni meno nobili. Certamente, esistono, nel nostro lavoro, autentici mercenari: pennivendoli che scrivono a comando, per nascondere, camuffare o tagliare brandelli di queste memorie. Tuttavia, mi sento di dire che la maggioranza degli studiosi lavori con serietà e, spesso, con un guiderdone da fame.

Ciò detto, però, un’operazione tra le più difficili è cercare di raccontare una storia, in qualche modo, paritetica: descrivere, insomma, fenomeni e accadimenti, misurandoli con giudizio equanime, pesandone i fattori con la medesima bilancia. Non mi pare che ciò sia avvenuto, in occasione del centesimo compleanno del signor Bortoloso, festeggiato in pompa magna dal Pd di Schio e per il quale la capogruppo del Pd in consiglio comunale ha speso parole importanti: un’idea fra tutte, quella di portare avanti i suoi ideali.

RABBIA BELLUINA

Dovete sapere che il suddetto Bortoloso, insieme ai suoi compagni di lotta, assassinò, nel luglio 1945, 54 uomini e donne, detenuti nelle carceri di Schio: la guerra era finita, ma la rabbia belluina di Bortoloso e dei suoi soci non poteva permettere che questi prigionieri la scampassero. Così, li ammazzarono, brutalmente, come si fa con i cani rabbiosi, contro ogni legge umana e divina. Per questo crimine terrificante, il Bortoloso, che come nome di battaglia aveva scelto, significativamente, “Teppa”, venne condannato a morte da un tribunale repubblicano e poi graziato, in virtù della solita amnistia.

Si sarà pentito, ricreduto, avrà espiato: non è dato sapere e non sta a me giudicare. Il punto non è il “Teppa”, che, tra non molto, dovrà affrontare ben altri giudici: il punto è il Pd, la sua capogruppo a Schio e, più in generale, il modo che ha questa gente di trattare la storia. Dirò di più: di considerare la giustizia, umana oltre che quella storica. Perché gli insopportabili arcicensori democratici, sempre col ditino alzato a fare la morale a chiunque e per qualunque motivo, attentissimi a qualsivoglia violazione del loro codice comportamentale in materia di genere, colore, religione e ideologia, soffrono di uno strabismo storico sconcertante. Almeno quanto l’arroganza con cui nemmeno accettano una franca discussione su certi argomenti.

Proviamo ad immaginare che un qualunque esponente politico, estraneo alla loro inattaccabile consorteria, avesse festeggiato, con tanto di foto ricordo ed emozione di rito, un nazista personalmente protagonista di qualche orrendo eccidio, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto; e che, per soprammercato, avesse proclamato la sua volontà di perpetuarne gli ideali: riuscite a immaginare l’esplosione nucleare che questo avrebbe causato nel mondo politico italiano? Le geremiadi, gli anatemi, le richieste di dimissioni, di scuse, di marginalizzazione del reprobo?

VENERATE L’ASSASSINO

Ebbene, quello che hanno fatto gli esponenti Pd veneti è, epistemologicamente, la medesima cosa, alla lettera: hanno omaggiato e trattato con commossa venerazione un assassino della peggior specie, assimilabile, appunto, alle belve naziste. Con l’aggravante di avere agito a guerra finita da mesi. Lodevole pare l’intenzione di «non inchiodare una persona ad un singolo episodio della sua vita», ma lo storico, in punta di penna, non può non rammentare agli smemorati che anche Piazza Fontana è stato, per qualche criminale, un singolo episodio: cosa vogliamo fare? Si volta pagina e portate spumante e pasticcini? Ora, naturalmente, il centro destra chiede dissociazioni e chiarimenti: fa, cioè, a sua volta, un po’ il centrosinistra. Ma il problema è più ampio e meriterebbe una seria riflessione: non qualche boutade sui giornali o qualche intemerata televisiva. Io credo che sia tempo di operare una giustizia storica su alcuni lembi della nostra memoria, che ancora ci dividono, perché mai sono stati davvero raccontati: credo che lo dobbiamo alle vittime, ma anche ai nostri giovani, disorientati o, peggio, orientati male, da questo braccio di ferro insensato. Si dimentichi “Teppa” e tutte le teppe di ogni colore e credo, che hanno afflitto il nostro Paese nei momenti bui: ma si ricordino, sempre, le loro azioni. E non ci si sogni di chiamare la bestialità “ideale”, pena rinunciare all’umanità. Non è solo il sonno della ragione a generare mostri. 

Ignazio La Russa attacca la Resistenza: «Via Rasella? Pagina non nobile, uccisi dei pensionati». «I partigiani rossi volevano il comunismo, non libertà». Così il presidente del Senato rilegge le pagine della resistenza italiana. L’Espresso il 31 marzo 2023.

«Via Rasella è stata una pagina tutt'altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani, antifascisti e non», lo ha detto il presidente del Senato Ignazio Benito La Russa a Terraverso, podcast di Libero, rispondendo sulle critiche alla premier Meloni circa l'eccidio delle Fosse Ardeatine riferito a 'morti italiani': «Un attacco pretestuoso - ha aggiunto La Russa - Tutti sanno che i nazisti hanno assassinato detenuti, anche politici, ebrei, antifascisti e persone rastrellate a caso, certo non gente che collaborava con loro».

Sempre sulla storia della resistenza ha commentato «Non sarà il primo 25 aprile che celebro, sono andato da ministro della Difesa a rendere omaggio al monumento dei partigiani, ho portato un mazzo di fiori a tutti i partigiani, anche a quelli rossi che come è noto non volevano un'Italia libera e democratica ma volevano un'Italia comunista. Chi muore per un'idea e per una scelta ideale, non può mai essere oggetto di avversione». 

Ignazio La Russa insultato sulla "Stampa": "Un fascista fuori controllo". Libero Quotidiano l’01 aprile 2023

"Ridicolo falso manipolatorio". Ed è forse il passaggio meno cruento dell'editoriale contro Ignazio La Russa pubblicato sulla Stampa, diretta da Massimo Giannini, e firmato da Andrea Malaguti. Il commento è alla celebre intervista a Terraverso, il podcast di Liberoquotidiano.it, in cui il presidente del Senato definisce l'attacco partigiano di via Rasella a Roma "una pagina tutt'altro che nobile della Resistenza. Fu uccisa una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS". Frase per la quale si è scusato, affermando che "è stato un errore non dire che erano nazisti".

"Il nostro presidente del Senato - taglia corto l'editoriale del quotidiano torinese - è un fascista che difende il fascismo e comprende (chissà se, in qualche caso, persino condivide) le ragioni del nazismo. Non rappresenta noi - la destra, la sinistra, il centro, i fragili o i ricchi, i torinesi o i bolognesi - rappresenta banalmente sé stesso, il padre già segretario del Partito nazionale fascista di Paternò e il suo bisogno irrefrenabile e ossessivo di dimostrare che i partigiani erano fango, i gap dei banditi e l'Anpi una cosca". E ancora: "Difficile capire se Ignazio Benito La Russa sia totalmente fuori controllo o si senta finalmente libero di mostrarsi fino in fondo per quello che è. Poco cambia".

Quindi l'attacco politico alla premier, Giorgia Meloni: La Russa, si legge, "sa che nessuno della maggioranza chiederà le sue dimissioni. Che la presidente del Consiglio masticherà amaro cinque minuti per l'imbarazzo, forse gli farà una telefonata cattiva, e poi continuerà a proteggerlo perché è uno dei Padri Fondatori. Mentre metà dell'opinione pubblica si produrrà in grasse risate - quanto è simpatico e schietto il papà di Geronimo, Apache e Lorenzo Cochis - accusando la metà opposta di essere ottusa, trinariciuta, prevenuta e pericolosa".

"La guerra non è mai finita", sentenzia Malaguti e in questo in fondo ha ragione, visto che per esempio l'Anpi Milano ha deciso di non invitare La Russa e il presidente della Camera Lorenzo Fontana alle celebrazioni del 25 aprile. Siamo, in fondo, tutti "schiavi di un passato che non passa mai", anche a sinistra preferiscono accusare solo il centrodestra. C'è spazio anche per il feroce sfotto a un altro meloniano, Galezzo Bignami, quando Malaguti sarcasticamente ricorda i due militari nazisti Herbert Kappler ed Erich Priebke "che vestiti come deputati di Fratelli d'Italia a una festa di compleanno, vendicano i poveri baby-pensionati delle Schutz Staffel, martorizzati mentre eseguono La Villanella con trombe e tamburi".

Quindi, conclude l'editoriale, "se Mattarella (Dio non voglia) si prende un raffreddore un po' feroce o decide di andare a vivere in Polinesia", La Russa "rischia di insediarsi temporaneamente al Quirinale e di farsi patriottici selfie con i corazzieri". Per questo va cacciato: "Esistono gli strumenti per rimandarlo a casa (dove certamente non soffrirebbe) o almeno su un seggio qualunque di Palazzo Madama. Fatelo per favore. Magari prima del 25 aprile". 

Via Rasella, lo storico Cimmino: chi sono state davvero le vittime. Marco Cimmino, Docente di storia, su Libero Quotidiano l’01 aprile 2023

L’attentato di via Rasella, a quanto pare, suscita ancora divisioni e discussioni: certi fenomeni legati alla guerra civile, infatti, sono ancora ritenuti divisivi. Siamo, insomma, lontanissimi da quella storia «sine ira e studio» auspicata da Tacito. Eppure, proprio l’episodio in questione si presterebbe ad un’analisi meno ideologica o, se si preferisce, meno ideologicamente inquinata, data la sua natura complessa e, al tempo stesso, fortemente esemplificativa del clima che aleggiava in quei giorni in Italia. La Resistenza, infatti, dopo l’otto settembre, s’interrogava circa la tattica e la strategia da adottare, con numerosi contrasti, e con opinioni spesso radicalmente opposte all’interno del Cln. Dirò di più: già si delineava quella divergenza strutturale tra gli obbiettivi dei resistenti comunisti e quelli degli antifascisti che di comunismo non ne volevano sentir parlare.

TERRORISMO ECLATANTE - Dunque, a Roma, c’erano i gappisti che miravano al terrorismo eclatante, apparentemente incuranti delle conseguenze (peraltro giustificate dal diritto internazionale) dei loro attentati: anzi, lo scatenare l’inevitabile rappresaglia veniva, piuttosto cinicamente, giudicato uno strumento poderoso di propaganda antitedesca. Ma i gappisti avevano, probabilmente, anche un secondo obbiettivo, se vogliamo assai più sotterraneo, in quanto assai più imbarazzante. La sicura rappresaglia avrebbe colpito, presumibilmente, ostaggi già nelle mani della polizia fascista: carcerati antifascisti, ebrei, renitenti e così via. A Regina Coeli, la maggioranza dei prigionieri politici era composta da resistenti non comunisti: il loro sacrificio avrebbe eliminato, per così dire, parte della concorrenza. So che pare un ragionamento orribile, tuttavia, in altri casi le fortissime rivalità all’interno della Resistenza produssero simili aberrazioni: basti Malga Porzus per tutte.

Vada sé che la decisione di compiere un attentato di quelle proporzioni trovò il Cln affatto diviso: non tutti condividevano questa strategia insurrezionale. D’altronde, erano proprio stati gli attentati gappisti a imporre alla guerra civile una brusca accelerazione, rispetto agli intenti iniziali, che volevano, da entrambe le parti, evitare lo spargimento di sangue fraterno: tacere su questo aspetto della Resistenza significa darne una lettura assai poco storica.

Dunque, i comunisti dei Gap agirono autonomamente, nonostante l’azione fosse sconsigliata, quando non avversata, da molti: l’impressione, dunque, è che l’iniziativa rispondesse ad una strategia concordata a livello partitico ma non condivisa dall’intero Cln.

ZONA GRIGIA - Ma veniamo alle vittime dell’attentato: trascurando i danni collaterali, i trentatre morti di via Rasella furono immediatamente ascritti al novero dei nazisti, quando non addirittura delle SS.

 È, d’altra parte, un equivoco abbastanza diffuso quello di rubricare come nazisti tutti i militari tedeschi, tra il 1939 e il 1945, non tenendo conto di quella che è, in tutti i fenomeni storici di questo tipo, la maggioritaria “zona grigia”. Non tutti i soldati tedeschi erano dei fanatici nazisti: esistevano anche i militari di leva puri e semplici e, nel caso dei morti di via Rasella, perfino dei tedeschi che erano lì proprio per il loro scarsissimo nazismo.

Tanto per cominciare, i caduti del “Bozen” erano, tecnicamente, italiani, divenuti tedeschi in virtù dell’annessione dell’Alto Adige all’Alpenvorland. E non erano soldati in senso stretto né SS: erano reclute di una sorta di polizia ausiliaria, l’Ordnungspolizei. Perdi più, questi Tirolesi erano prevalentemente cattolici praticanti, assai tiepidi verso il nazismo e molto poco bellicosi: subivano scherzi e vessazioni dai veri soldati tedeschi e venivano frequentemente insultati per la loro scarsa fede nel Capo e perla loro poca marzialità. Erano, insomma, qualcosa a metà tra un reparto di punizione e un gruppo male assortito di militari di second’ordine. Non erano musicisti e non erano nemmeno antinazisti in senso stretto, ma, certamente, erano tutt’altro che un reparto d’élite fiero del proprio nazionalsocialismo e che marciava impettito: erano dei poveracci, reclutati in malo modo a Bressanone o a Brunico e mandati in territorio ostile per far loro scontare il proprio spirito religioso. Carnefici e vittime, in un gioco degli specchi che è difficile decifrare fino in fondo: il bene e il male, spesso, nella storia, giocano a rimpiattino. E non sempre i buoni sono assolutamente buoni e i cattivi assolutamente cattivi.

Se c’è una cosa che si impara presto, nel nostro mestiere, è che non esiste un male assoluto. Esistono molteplici risvolti di una medesima memoria, difficilissimi da dipanare. Per questo, talvolta, sarebbe meglio evitare di proporre alla gente verità formidabili, che non resistono all’urto della realtà. In certi casi, meglio tacere.

Lettera di Mirella Serri a Dagospia l’1 aprile 2023.

Caro direttore, il presidente del Senato nel commentare l’attentato di via Rasella ha detto che fu colpita “una banda musicale di semi pensionati e non biechi nazisti delle SS”.

 Consiglierei a Ignazio La Russa di rileggere le pagine di Carla Capponi, medaglia d’oro al Valor Militare, una dei gappisti che organizzò l’attentato in cui persero la vita i 33 soldati del terzo  reggimento di polizia Bozen creato da Himmler, capo delle SS. Perirono comunque marciando, cantando ma senza accompagnamento musicale.

 “Consideravo che in quello scontro”, scrive Carla Capponi, “malgrado la potenza micidiale della bomba, ci misuravamo in modo impari: loro, 156 uomini superarmati, contro undici ragazzi con una pistola in tasca e quattro bombe a mano artigianali…  Cosa più grave per noi, operavamo al di fuori di ogni legge, di ogni diritto, anche quello della pietà. Eravamo ‘banditen’ e non già patrioti che combattono per la libertà della patria invasa; eravamo giovani che nessuna legge difendeva e che chiunque avrebbe potuto ammazzare o consegnare al nemico per riscuoterne la taglia” .

Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per la Stampa l’1 aprile 2023.

Storia all’olio di ricino raccontata in un podcast per Libero Quotidiano da Ignazio Benito La Russa, detto anche Il Custode della Fiamma. «Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza. Fu uccisa una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS». L’ha detto davvero, con convinzione, a poco più di tre settimane dalla celebrazione del 25 aprile. Ridicolo, falso, manipolatorio. Ma in definitiva facile da spiegare: il nostro presidente del Senato è un fascista che difende il fascismo e comprende (chissà se, in qualche caso, persino condivide) le ragioni del nazismo.

 Non rappresenta noi - la destra, la sinistra, il centro, i fragili o i ricchi, i torinesi o i bolognesi - rappresenta banalmente sé stesso, il padre già segretario del Partito nazionale fascista di Paternò e il suo bisogno irrefrenabile e ossessivo di dimostrare che i partigiani erano fango, i gap dei banditi e l’Anpi una cosca.

Ha l’anima nera e la rivendica, lo spirito dei tempi glielo permette, sbracare fragorosamente è ormai sport di massa dai consensi garantiti. Sa che nessuno della maggioranza chiederà le sue dimissioni. Che la presidente del Consiglio masticherà amaro cinque minuti per l’imbarazzo, forse gli farà una telefonata cattiva, e poi continuerà a proteggerlo perché è uno dei Padri Fondatori.

 (...)

Non ha il senso della misura, il Custode della Fiamma. Tanto meno quello del ridicolo e quando allo Yad Vashem di Gerusalemme gli chiedono se il fascismo sia il male assoluto, scatta come se una lucertola gli fosse entrata nel colletto e grida: «Ho finito di fare dichiarazioni». Fosse vero. Non lo è mai. Insiste, intigna, nega e reinventa, replicando senza imbarazzi il suo Bignami “for dummies” (venghino signori, venghino), fatto di busti del Duce e brevi cenni su come sbertucciare la Resistenza. «I partigiani di via Rasella sapevano che ci sarebbe stata la rappresaglia», constata. Già. Scemi loro. Anzi, criminali.

A questo punto come si fa a non provare un po’ di tenerezza per quelle due anime sensibili - com’è che si chiamavano? Ah, sì, Herbert Kappler ed Erich Priebke - che vestiti come deputati di Fratelli d’Italia a una festa di compleanno, vendicano i poveri baby-pensionati delle Schutz Staffel, martorizzati mentre eseguono “La Villanella” con trombe e tamburi? Certo, dieci antifascisti (anzi, italiani direbbe la premier) per ogni musico-babypensionato può sembrare eccessivo, ma quelli erano i tempi, no?, non si può mica sottilizzare. «Hanno cominciato loro!».

 Dispone di una sua personale enciclopedia del mondo in volume unico dalla quale si rifiuta di derogare, il Presidente Nero, e vanta una raffinata sensibilità ferita. «Non posso sbagliare una parola, gli altri guardano quello che dico io dall’alto», dice turbato nel Podcast primaverile. È il mondo che ce l’ha con lui, anche se da decenni gli riconosce soldi, gloria e onori. Sì, è vero, è ricco e blasonato, ma il superficiale sistema democratico lo ha sempre trattato come un difetto. Solo che ogni difetto ha il suo momento di gloria e questo, drammaticamente, è il suo. Che se Mattarella (Dio non voglia) si prende un raffreddore un po’ feroce o decide di andare a vivere in Polinesia, rischia di insediarsi temporaneamente al Quirinale e di farsi patriottici selfie con i corazzieri.

Difficile capire se Ignazio Benito La Russa sia totalmente fuori controllo o si senta finalmente libero di mostrarsi fino in fondo per quello che è. Poco cambia. Esistono gli strumenti per rimandarlo a casa (dove certamente non soffrirebbe) o almeno su un seggio qualunque di Palazzo Madama. Fatelo per favore. Magari prima del 25 aprile. Non ci servono sgangherati Custodi della Fiamma, solo dignitosi Custodi della Costituzione antifascista. Parole al vento, probabilmente, ma sai che Liberazione.

Estratto da corriere.it l’1 aprile 2023.

«Ho sbagliato a non sottolineare che tedeschi uccisi erano nazisti, spiace sinceramente che nell’ambito di una lunga intervista rilasciata a Libero, a seguito delle mie poche parole in risposta ad una precisa domanda sulle pretestuose critiche indirizzate a Giorgia Meloni in occasione delle celebrazioni per l’Eccidio delle Fosse Ardeatine - a cui ho più volte partecipato con profondo sdegno e commozione - sia nata una polemica più ampia di quella che volevo chiudere. Al riguardo, non ho difficoltà a precisare che ho sbagliato a non sottolineare che i tedeschi uccisi in via Rasella fossero soldati nazisti ma credevo che fosse ovvio e scontato oltre che notorio».

Così il presidente del Senato Ignazio La Russa prova a spegnere le polemiche per le sue dichiarazioni (…) Sull’azione partigiana di via Rasella molti, anche di sinistra, sono stati assai critici. Mi sono limitato a dire “non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana».

Estratto dell'articolo di Massimo Gramellini per il Corriere della Sera l’1 aprile 2023.

Illustre signor presidente del Senato, le scrivo per segnalarle un pesce d’aprile che la riguarda. Un buontempone che si spaccia per la seconda carica dello Stato e imita alla perfezione la sua voce ha dichiarato che l’azione di guerra partigiana del 23 marzo 1944 in via Rasella non ebbe come bersaglio un reggimento di poliziotti altoatesini in partenza per il fronte con i nazisti, ma «una banda musicale di semi-pensionati». Forse intendeva dire «di baby-pensionati», dal momento che il più anziano aveva 42 anni e il più giovane 28.

Il fatto poi che fossero di ritorno dal poligono di tiro, anziché da una sala concerti, avrebbe dovuto far sorgere qualche ulteriore dubbio al suo sosia. D’altronde le prime a smentirlo furono le SS di Kappler, che di certo non avrebbero allestito il macello delle Fosse Ardeatine per vendicare qualche innocuo musicista in disarmo. Si discute da sempre sull’opportunità politica di quell’attentato nel cuore della Capitale, ma nemmeno il revisionista più accanito si era mai spinto a mettere in dubbio che i partigiani avessero colpito dei soldati nemici.

 (...) Però la esorto a forzare per una volta il suo carattere schivo. E a spiegare al sedicente Ignazio La Russa che tra il presidente del Senato e un battutista da apericena esiste ancora qualche differenza.

Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il Corriere della Sera l’1 aprile 2023.

«Basta, mi sono stancato. D’ora in poi non parlerò più di fatti storici, solo di attualità, e mi aspetto che mi si giudichi su quello che faccio e dico su temi di attualità, non sul passato del quale, semmai, parlerò con gli storici e non con i giornalisti. Quindi non fatemi più domande su queste cose perché non rispondo».

 È pomeriggio inoltrato e Ignazio La Russa è un fiume in piena. 

 (...) Definire «una banda di musicisti» i soldati nazisti e «pagina non gloriosa» della Resistenza l’azione di via Rasella ha provocato non solo un terremoto nell’opposizione, ma ha anche la reazione della comunità ebraica: «Ecco — replica lui — questo mi dispiace, mi dispiace se Ruth Dureghello, che io stimo e apprezzo, ci è rimasta male. Forse avrei potuto specificare meglio che si trattava effettivamente di nazisti, quello sì, ma mi pareva una cosa ovvia. Però in effetti potevo essere più preciso su quello. Ma la mia intenzione era proprio spegnere la polemica assurda che si era creata sulle parole della Meloni, non attizzarla. Perché se avessi voluto su via Rasella avrei detto ben altro...». Cioè? «Che appunto ce ne sono stati di ben più gloriosi di atti della Resistenza, come il sacrificio di Salvo D’Acquisto, che si consegnò ai nazisti senza aver fatto nulla solo per salvare la vita a cittadini innocenti.

E avrei potuto ricordare che a via Rasella non fu uno scontro a fuoco faccia a faccia con i nazisti: si trattava di un battaglione che tornava in caserma colpito con una bomba, e morirono anche due passanti innocenti, italiani... Eppure mica le ho dette queste cose, proprio perché non volevo si creassero problemi, volevo chiuderli. Io che la storia la conosco ne citerei altri di atti gloriosi...».

 Giorgia Meloni, dice, non l’ha sentita, ma La Russa sembra escludere che qualcuno possa rimproverargli alcunché. Lui è fatto così, si considera il più «laico» della destra e quindi in qualche modo il più dialogante ma niente, si rammarica, non lo capiscono: «Loro vogliono solo montare polemica su cose di 70 anni fa, anziché giudicarmi per come faccio il mio lavoro». Però, siccome tutto è tranne che ingenuo, sta già preparando qualcosa in vista del 25 Aprile. Sarà presente alle celebrazioni? «Non l’ho mai detto. Ho detto che ci sono stato in passato ma adesso non dico più niente. Quello che farò lo saprete il 22, 23 aprile, non prima». E aggiunge: «Sarà una sorpresa...».

Estratto dell’articolo di Luca Monticelli per “la Stampa” il 2 aprile 2023.

Roma A pochi giorni dalle parole della premier Giorgia Meloni sulle Fosse Ardeatine, la destra italiana ci ricasca. A Ignazio La Russa, che dice che via Rasella è stata «una delle azioni meno gloriose della resistenza perché ha innescato la rappresaglia nazista», risponde lo storico Alessandro Portelli, che ha studiato e raccontato cosa successe a Roma nel marzo del ‘44: «Non c'era nessuna relazione automatica tra resistenza e rappresaglia nazista, ci furono massacri nazi-fascisti in assenza di qualunque azione partigiana», spiega.

 Professore, La Russa definisce i soldati del reggimento Bozen «una banda musicale di semi pensionati». E' vero?

«Il Bozen era un reggimento di polizia aggregato alle SS che dopo la liberazione di Roma ha continuato le azioni di repressione rendendosi colpevole di svariati omicidi nell'Italia settentrionale. Erano armati fino ai denti, i sopravvissuti altoatesini hanno raccontato che in via Rasella molti sono morti perché sono scoppiate loro le bombe che portavano alla cintura.

Non erano una banda musicale, ma sfilavano cantando, erano obbligati dai loro superiori a farlo, perciò alcuni testimoni hanno raccontato di una banda militare. Se lo dice un superstite che il 23 marzo del ‘44 era un bambino è un conto, che lo dica la seconda carica dello Stato è di una gravità inaudita».

 Su via Rasella si sono spesso spacciate delle fake news. Si è detto che i partigiani sapevano che sarebbero state uccise dieci persone per ogni soldato tedesco morto e che i nazisti avessero invitato gli autori dell'attacco a costituirsi per evitare la rappresaglia.

«Non esisteva la regola del 10 a 1, tanto che ci fu una complessa trattativa per arrivare alla lista delle 330 persone, il primo ordine di Hitler fu di 50 morti italiani per ogni soldato tedesco. Se guardiamo le altre stragi, a Civitella val di Chiana ad esempio, ammazzarono 156 persone per 3 tedeschi. […]».

Pensa che Fratelli d'Italia voglia assolvere il fascismo?

«La Russa e gli altri della destra non accettano come sono andate le cose perché se ne vergognano, non possono ammettere neanche a se stessi che se ne vergognano. […]».

Via Rasella, quello che i tecnocrati rossi non vogliono che si dica. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 aprile 2023

Il fatto che una frase discutibile del presidente del Senato scateni un simile pandemonio ha molto poco a che fare con i precetti di compostezza istituzionale cui si fa appello per censurare le parole di Ignazio La Russa. La realtà è che non gli si imputa di averla detta sbagliata su via Rasella, ma di aver bestemmiato il decalogo degli interdetti repubblicani: un reato molto più grave, nella teocrazia da 25 aprile, rispetto allo sproloquio sui pensionati di quel convoglio nazista. La regola, impassibile di emendamento, è che le vittime delle Fosse Ardeatine fossero antifasciste, e non serve a codificare un fatto storico che non esiste (che già sarebbe grave), ma a connotare di fascismo quella atroce rappresaglia: fascista perché infieriva su antifascisti, non perché faceva strage di innocenti. E ugualmente, per converso, le vittime dell’attentato partigiano, sulla cui identità è vietato indugiare perché, a prescindere dall’infelicissima uscita di La Russa, non erano i componenti di una colonna militare: erano “il nazismo”.

Le parole del presidente del Senato non si potevano dire non già perché il re era vestito anziché nudo, bensì perché il re non può essere nudo. Per la stessa ragione, non si può dire che la democrazia italiana in realtà non è nata dalla resistenza perlopiù comunista, ma nonostante la resistenza perlopiù comunista: che non avrebbe voluto nessuna democrazia. Non si può dire che proprio la prevalenza comunista nei ranghi della resistenza ha reso meno liberale e meno democratico il corso repubblicano, meno liberale e meno democratica la Costituzione imposta a presidiarlo. Non si può dire che una quota notevole dell’eredità fascista si è trasmessa al presunto opposto, all’antifascismo statalista e autoritario che nell’avvicendamento di potere ha assunto, non cambiato, molti tratti antidemocratici del regime precedente.

Non si può dire che a sua volta questo processo di reiterazione si deve perlopiù al contributo della parte politica, la parte comunista, che ha fatto del 25 aprile la festa meno sentita dagli italiani, i quali magari solo oscuramente, ma con forza, hanno sempre avvertito il carattere ambiguo di quelle celebrazioni: che trionfavano in adunate e in retoriche sinistramente simili, per quanto diversamente colorate, rispetto a quelle incamiciate di nero. Il vocabolario di La Russa è adoperato male, ma la grammatica antifascista cui contravviene è anche più diseducativa. 

I fantasmi del passato e le follie del presente. Ormai è una consuetudine, una tradizione, una polemica che divampa puntuale ad ogni festa nazionale. Augusto Minzolini il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Ormai è una consuetudine, una tradizione, una polemica che divampa puntuale ad ogni festa nazionale. Ovviamente l'apoteosi si raggiunge il 25 aprile, la Festa della Liberazione, ma neppure gli altri appuntamenti ne sono immuni. Destra e sinistra, rossi e neri sia pure con i colori un po' sbiaditi si confrontano con parole grosse e scomuniche in diatribe storiche, confondendo il presente con il passato e la Storia con la politica. Il risultato che ne consegue è il peggiore: questi anniversari dovrebbero servire ad unire il Paese, a pacificare, a porre le basi per una memoria comune o, comunque, non contrapposta ad uso delle fazioni e invece consegnano l'immagine opposta, quella di una nazione divisa.

Ciò non significa che tornino i fantasmi di un tempo semmai, ad esser generosi, la loro parodia. Ci vorrebbe prudenza, rispetto e scienza quando si affrontano simili argomenti, cioè l'approccio, appunto, che hanno gli storici. Invece, qui le opinioni diverse si trasformano automaticamente nell'occasione di una rissa lessicale. L'attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa, in un podcast ha dato una sua lettura dell'attentato di via Rasella. Tra l'altro ha definito quella vicenda «una pagina tutt'altro che nobile della Resistenza» e le vittime di quell'azione partigiana «una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti». In fondo ha dato voce ad una versione di un episodio principe della storiografia della Resistenza condivisa anche da qualche studioso. Lo ha fatto con un linguaggio fin troppo colorito visto che in quella vicenda morirono 33 soldati tedeschi e due civili italiani e poi nella conseguente rappresaglia nazista 335 prigionieri del tutto estranei all'attentato. Per cui avrebbe dovuto soppesare meglio le parole dedicate ad una delle pagine più sanguinose di quel periodo.

Ma il problema vero è un altro: si dà il caso che il presidente del Senato non è uno studioso, uno storico, ma ricopre un ruolo politico-istituzionale, è la personalità che fa le veci del presidente della Repubblica quando è all'estero o nel caso avesse un impedimento. È una carica, quindi, che rappresenta tutti gli italiani e nella quale dovrebbero riconoscersi tutti gli italiani. Quindi, come il capo dello Stato dovrebbe aver ben presente il principio di terzietà per evitare che, se fosse chiamato a sostituirlo, non scoppi una guerra civile.

Detto questo La Russa si è scusato, solo che questo non è bastato né all'Anpi, né alla neosegretaria del Pd, Elly Schlein. C'è l'Anpi di Milano che ha proposto di escludere La Russa dalle manifestazioni per il 25 aprile e quella nazionale ha promosso una raccolta di firme per le sue dimissioni insieme con Rifondazione comunista. L'ex segretario della Cgil di Bologna è andato anche oltre con una frase che si tira dietro la vergogna: «La Russa è la dimostrazione più evidente che nel '45 ne furono stesi troppo pochi».

Di male in peggio. Insomma, stiamo assistendo ad una regressione pericolosa se si tiene conto che l'andamento elettorale e la svolta radicale data dalla Schlein al Pd ci sta portando verso un processo di polarizzazione sulle estreme. Sarebbe auspicabile una legittimazione reciproca vera che abbia a cuore l'interesse generale. Al contrario lo sguardo volge fatalmente verso un passato che andrebbe una volta per tutte superato. Un passato che dovrebbe essere parte di una Storia comune e non di una polemica politica, mi sia consentito, a dir poco dozzinale.

La Russa, chi è dalla sua parte: sinistra "disarmata". Corrado Ocone su Libero Quo0tidiano il 03 aprile 2023

Quella di Ignazio La Russa su via Rasella la si potrà pure considerare una uscita a gamba tesa ma un merito indubbio ce l’ha avuta. Due elementi importantissimi erano infatti rimasti in ombra nelle polemiche della settimana scorsa sulle parole pronunciate da Giorgia Meloni alla commemorazione della strage nazista delle Fosse Ardeatine. Il primo “non detto” consiste nel fatto che non si può parlare delle Fosse Ardeatine senza collegarle, in un rapporto  di causa ed effetto, all’attentato di via Rasella che ne fu l’origine. Quella delle fosse Ardeatine fu infatti una strage annunciata: i nazisti che occupavano Roma avevano fatto presente che, se qualcuno di loro fosse stato colpito, dieci italiani sarebbero stati giustiziati.

Pur sapendo questo i partigiani del Gap, cioè di ispirazione comunista, decisero di provocare le spietate forze di occupazione, anche in contrasto con le intenzioni di altri partigiani di altre idee politiche. Le domande che subito ci si è posti sono state queste: quello compiuto dai comunisti era un atto utile ai fini della lotta in corso? Cosa si voleva dimostrare? Cosa lo giustificava? Non era giusto porsi il problema delle conseguenze e commisurare alla luce di esse gli eventuali vantaggi dell’azione terroristica? Perché gli autori e i mandanti non si denunciarono e autocostituirono dopo l’attentato, salvando la vita ai malcapitati che furono portati con ferocia bestiale alle Ardeatine?

DOMANDE DIFFUSE

Queste domande, ed è questo il secondo “non detto” nelle polemiche di questi giorni, se le sono poste non solo storici appartenenti alla cosiddetta tendenza “revisionista” (quasi che la storiografia possa non progredire e non rivedere continuamente, come ogni scienza). A porsele sono stati anche, e forse soprattutto, storici e pensatori molto legati alla tradizione e ai valori della Resistenza. Va dato atto, ad esempio, a Norberto Bobbio di aver sollevato gli stessi dubbi e le stesse perplessità del presidente del Senato nel libro L’inutile strage di Vecellio e Bandinelli. «Sia ben chiaro», disse in quell’occasione Bobbio, «nessuno pensa di rimproverare i protagonisti di aver compiuto il loro spietato dovere... Ci sarà lecito almeno dire, ancora una volta senza il timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei trentadue soldati tedeschi erano soggettivamente innocenti?...».

DUBBI RADICALI

Il libro di Vecellio e Bandinelli nasceva in ambiente radicale perché era stato proprio Marco Pannella a infrangere per primo, in un memorabile congresso del 1979, il muro di ideologia che impediva di occuparsi laicamente di questo, come di altri discutibili episodi della nostra Resistenza. Si era allora in un periodo di terrorismo rosso violento e di diffusa complicità a sinistra, soprattutto fra gli intellettuali. Ricollegandosi in qualche modo alle coraggiose parole di Rossana Rossanda che, nel terrorismo delle Brigate rosse e degli altri gruppi similari vedeva una «aria di famiglia», Pannella rincarò la dose e chiese ai comunisti di dire final«I comunisti lo sanno, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante ma per inasprirlo. Cerca le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio» mente parole chiare su quello che per lui era stato un vile è inutile attentato.

Pannella, oltre che da Bobbio, fu difeso da Giorgio Bocca, pure autore di una Storia della Resistenza in più punti critica. Il quale disse senza mezze parole che quello perpetrato a via Rasella era un «atto terroristico» e non certo una gloriosa pagina della lotta antifascista come il Pci voleva farla passare (probabilmente anche perché nel frattempo alcuni dei mandanti ed esecutori dell’attentato erano diventati importanti dirigenti del Partito, da Giorgio Amendola allo storico della letteratura Carlo Salinari).

Sull’inutilità politica dell’attentato insisté pure Giampiero Mughini facendo riferimento al libro Morte a Roma di Robert Katz. Quello dei partigiani, scrisse Mughini, fu «un bersaglio scelto a caso, uomini che non avevano in sé alcun elemento per assurgere a simbolo della prepotenza dell’occupazione nazista. Politicamente inutile perché non faceva compiere un salto di qualità alla Resistenza romana, che dopo via Rasella restò quel che era prima: opera minoritaria di poche decine di persone. Il tremendo botto non cambiò nulla nel vivere e nel sentire della città... Alcide De Gasperi si trovava nel collegio di Propaganda Fide, in piazza di Spagna, quando la bomba esplose. “Ne avrete combinate una delle vostre”, disse amichevolmente a un comunista (mi pare fosse Giorgio Amendola) che in quel momento si trovava da lui. Bandiera rossa, una componente importante della Resistenza romana, si dissociò subito dall’attentato, che giudicò sconsiderato».

Anche se l’Anpi e i comunisti più trinariciuti erano già allora sulla difensiva, quel che è da notare è che essi, in quegli anni, non avevano ancora l’egemonia che hanno oggi sul pensiero di sinistra. Ove, fra l’altro, c’erano studiosi e giornalisti che, pur essendo fortemente schierati politicamente, conservavano uno spirito critico che oggi semplicemente non sarebbe più tollerato. Che questa vera e propria involuzione di pensiero sia figlia della totale mancanza di idee politiche a sinistra a me sembra evidente. Così come lo è il fatto che l’antifascismo è lo strumento ideologico che con cui si riesce ad aggregare una parte politica che non ha più altri obiettivi se non la spartizione del potere.

DA REGIME A REGIME

In un approccio laico alla Resistenza altre verità sottaciute, anzi impronunciabili, andrebbero dette: ad esempio che i partigiani comunisti non combattevano i fascisti per la libertà e la democrazia ma per instaurare anche in Italia un regime socialista sul modello di quello sovietico, con l’Italia ridotta a satellite della Russia. Oppure, andrebbe detto che non i partigiani ma le forze alleate, in primis i tanto detestati americani, dettero la libertà al nostro Paese. Pagando, anche in vite umane, un prezzo altissimo. È qui che quella che viene detta storiografia “revisionista”, ma che sarebbe giusto definire storiografia pura, ha detto parole precise e non partigiane, non sottovalutando il valore della Resistenza ma contribuendo a renderla meno agiografica e quindi più vicina all’effettivo corso di quelle come di tutte le vicende umane.

CREARE L’ODIO

Basta leggere Giampaolo Pansa o, a un livello meno divulgativo, un Renzo De Felice per averne contezza. Il primo ha insistito sull’inutilità dell’attentato: «Non c’era alcuna necessità», ha scritto Pansa, «di compiere quell’attentato, visto che gli americani erano a due passi da Roma. L’azione di via Rasella fu dettata solo da motivi politici: i comunisti romani intesero dare un segnale forte perché erano accusati di attendismo». Quanto a De Felice, le sue parole, scolpite nella pietra, dovrebbero essere di monito a tutti: «Sotto il profilo militare il terrorismo era privo di utilità. Nella strategia comunista aveva però una duplice funzione: 1) provocando la reazione dei fascisti e dei tedeschi e, quindi, l’indignazione e l’odio popolare verso essi, scoraggiava i tentativi di pacificazione che, specie subito dopo l’8 settembre, trovavano sostegno tra coloro che paventavano le conseguenze che una lotta fratricida senza esclusione di colpi avrebbe avuto sul futuro del tessuto nazionale e tra chi, molto più semplicemente, non voleva essere coinvolto in una lotta che non sentiva o si preoccupava solo di passare attraverso di essa con il minor danno possibile; 2) creava attorno ai Gappisti comunisti che ne erano i maggiori protagonisti e l’applicavano soprattutto contro obiettivi molto noti e simbolici (tipico il caso dell’assassinio del filosofo Giovanni Gentile) che ne moltiplicavano gli echi, un alone di forza e di onnipresenza alla quale nessuno poteva sottrarsi che, oltre a funzionare da deterrente, esaltava agli occhi della gente l’attivismo, l’efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti rispetto alla “passività” degli altri partiti impegnati nella resistenza».

Via Rasella: tutto va discusso ma combattere i nazisti era giusto. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2023.

Caro Aldo, le dichiarazioni della seconda carica dello Stato sui «musicisti semi-pensionati» di via Rasella trucidati dai partigiani della seconda carica dello Stato lasciano allibiti. Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di stravolgere la verità storica? Vittore Trabucco In questo Paese dire la verità è diventato impossibile. Si viene tacciati di revisionismo di una storia scritto a loro esclusivo uso e consumo, ipocritamente. L’attentato di via Rasella fu un atto politico. Serviva la rappresaglia, e chi lo mise in atto, sapeva sarebbe accaduta. Giorgio Aloisi

Cari lettori, Centinaia di voi hanno scritto per commentare la polemica su via Rasella. Segno che la discussione sulla storia non è così poco sentita come dicono. Un numero non trascurabile di italiani difende il Duce sempre e comunque. Poi ci sono quelli che non se la sentono di difendere il Duce delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler, ma che si sono costruiti una storia immaginaria di uno statista lungimirante che commise sì il fatale errore, ma insomma non aveva tutti i torti e si trovò di fronte comunque italiani non migliori di lui. Questa controstoria mescola pezzetti di verità, circostanze che possono essere discusse e invenzioni assolute. A leggere libri anche di grande diffusione, pare che Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, le più efferate stragi naziste nell’Europa occidentale, siano colpa dei partigiani, accusati ora di avere esposto la popolazione alle rappresaglie, ora di non averla difesa. Il culmine di questa contro-storia è ovviamente via Rasella: l’episodio della Resistenza che si presta di più a essere discusso. Anche qui, si mescolano invenzioni assolute — la «banda musicale», gli avvertimenti nazisti che non ci furono: «L’ordine è già stato eseguito» comunicò l’agenzia Stefani — e valutazioni legittime; perché gli storici e pure i politici devono poter essere liberi di fare le loro valutazioni su qualsiasi avvenimento e circostanza, ad esempio sull’opportunità di compiere un attacco nella consapevolezza che sarebbe seguita una rappresaglia. Purché ci sia un minimo di comune sentire, ci sia il riconoscimento unanime del fatto che nella guerra civile seguita all’occupazione nazista c’era una parte giusta e una parte sbagliata; e combattere l’invasore nazista era giusto. In qualsiasi altro Paese questa è un’ovvietà; in Italia no. Credo però che sia inutile chiedere abiure, scuse, condanne. Si avrebbero parole insincere, non sentite, e quindi inutili.

Dracula non era La Russa. Quella volta che il pasoliniano Pannella provocò il Pci su via Rasella. Mario Lavia su L’Inkiesta il 4 Aprile 2023

Durante il Congresso radicale del 1979 il leader volle ricordare i «quarantaquattro ragazzi altoatesini» con «un’altra divisa»: una polemica forse strumentale contro il partito a cui rimproverava il compromesso storico, ma che metteva efficacemente il dito in una piaga che sotto la pelle bruciava ancora

«Io non volevo parlare di queste cose, ma stamattina ho letto il discorso fascista di Pannella…». La voce profonda di Giorgio Amendola sollevò l’applauso di tutto il XV Congresso del Partito comunista (aprile 1979), all’Eur. Un Congresso difficile perché i comunisti avevano appena chiuso l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale con la Democrazia cristiana e sostanzialmente non avevano chiara la prospettiva politica tanto che alle elezioni del giugno persero quattro punti, per la prima volta nella loro storia arretravano. Il tema della Resistenza, ovviamente, per il Pci era sacro.

«In questa sala ci sono delle medaglie d’oro per l’azione di via Rasella», disse ancora Amendola, tra l’altro lui stesso era il capo con Sandro Pertini e Riccardo Bauer di quel Cln a Roma che aveva autorizzato, o deciso, l’attacco al battaglione Bozen. Nella “sala” (cioè il Palasport) in effetti c’erano Carla Capponi, Rosario Bentivegna, probabilmente Pasquale Balsamo, non sapremmo dire se anche Carlo Salinari: tutti “gappisti” di via Rasella che conducevano la forma forse più tremenda della guerra, la guerriglia urbana: colpisci duro e scappa.

Gli autori e i mandanti non devono farsi scoprire, l’organizzazione ne risulterebbe indebolita: è una regola della guerriglia, alla faccia di quelli che oggi dai divani accusano di vigliaccheria quei partigiani opponendogli l’eroismo di Salvo D’Acquisto, che non faceva la guerriglia, guerriglia che è stata dichiarata dai Tribunali parte integrante della Resistenza.

Ma che era successo con Pannella? Il leader radicale in quel periodo apriva un fronte al giorno in polemica con il Pci, un po’ perché – lo abbiamo ricordato – voleva sottrarre voti ai comunisti rimproverandogli il compromesso storico e l’unità nazionale, operazione che in effetti gli andò bene, ma soprattutto perché forse mai come in quella polemica affiorò il “pasolinismo” di Pannella.

Ecco quello che disse al Congresso radicale che si svolgeva negli stessi giorni di quello del Pci: «Bene, compagni del Pci, preparate una caterva di insulti per chi vi parla. Se non si rifiutano le leggi barbare della guerra, rendeteci conto dei quarantaquattro ragazzi altoatesini fatti saltare per aria a via Rasella solo perché portavano un’altra divisa, e per cui sono morti poi i compagni di Giustizia e Libertà ed ebrei alle Ardeatine! Non possiamo fare la storia senza questi dilaniamenti interiori e senza dire che se si è barbari e assassini, non è il fatto che la causa sia giusta o meno che ci può affrancare… Se barbari e assassini sono i ragazzi dell’Azione cattolica come Curcio, allora anche Carla Capponi, la nostra Carla, medaglia d’oro della Resistenza per aver messo la bomba in via Rasella, con Antonello, con Amendola e gli altri, debbono ricordare quella bomba…».

Un discorso tipicamente pannelliano, “pasoliniano” nel ricordare i «quarantaquattro ragazzi» con «un’altra divisa»: c’è qui l’eco della famosa poesia di Pasolini sui poliziotti figli di contadini attaccati dagli studenti borghesi a Valle Giulia nel Sessantotto. Ma il punto era evidentemente un altro: l’accostamento dei gappisti a Renato Curcio, accostamento non “cattivo” («la nostra Carla…») ma per così dire, secondo lui, “oggettivo”.

Ora, pizzicare i comunisti su via Rasella e in più sul terrorismo era chiaramente troppo. Dal palco del Congresso del Partito comunista Amendola e Luciano Lama furono violentissimi, forse più Lama di Amendola.

Quest’ultimo insieme a Arrigo Boldrini, capo della Resistenza, andarono in commissariato a denunciare il «fascista» Pannella per «vilipendio della Resistenza»: non se ne fece nulla. Ma al capo dei radicali non bastava, resosi conto di aver toccato un nervo scoperto insistette: «Ieri sono andato al congresso del Pci con questo loden blu che conoscete, è lì sul tavolo. L’ho comprato in gennaio una sera a Trieste, con una mezza bora, perché crepavo di freddo. E oggi l’Unità scrive che sono andato lì con un mantello nero, come Dracula, a provocare e a farmi cacciare dal congresso urlante…».

Siccome chi scrive quel giorno era presente, può testimoniare che Pannella indossava veramente un mantello nero, molto pittoresco, aggirandosi nel palco degli invitati al Congresso comunista, e la cosa venne presa come un ulteriore sgarbo, una presa in giro, e sonoramente fischiata, cosa di cui il leader radicale ovviamente s’infischiò.

Ancora Pannella spiegò ai radicali: «Io ho detto questo: che nel momento in cui il terrorismo induce a disperazione, tutta la storia della violenza va ripercorsa e rivista. E dobbiamo dirci che il terrorismo fa parte della nostra storia, la storia della sinistra, con Dostojevski e il nichilismo. Ricordare che erano sudtirolesi i ragazzi di via Rasella è insultare la Resistenza? Io vorrei portar fiori sulle tombe di quei quaranta ragazzi, il cui nome non è scritto da nessuna parte. Allora via Rasella era il modo giusto, tragico e drammatico di affermare i valori socialisti. Ma non è un oltraggio dire che per domani le cose devono essere diverse…».

Era «sociologismo d’accatto», come scrisse l’indomani L’Unità? Era certamente polemica politica ma anche un voler mettere il dito in una piaga che sotto la pelle bruciava ancora, una piaga che i comunisti certo non esibivano ma che doleva quando chiunque la sfiorasse. Storie di ieri. Credevamo, prima che arrivassero i Fratelli.

Mughini zittisce chi lincia La Russa: "Operazione politicamente suicida". Libero Quotidiano l’1 aprile 2023

Le parole di Ignazio La Russa sull'attentato di via Rasella hanno tenuto banco ieri a Stasera Italia, la trasmissione condotta da Barbara Palombelli su Rete 4. Le dichiarazioni fatte dal presidente del Senato sull'episodio della Resistenza che causò la morte di 33 tedeschi e portò alla rappresaglia nazista dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, ha scatenato la sinistra, che poi ha sparato a zero su di lui. 

"Via Rasella è stata una pagina tutt'altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi pensionati e non nazisti delle SS", questo quanto detto dal presidente del Senato al podcast di Libero Terraverso. La sinistra lo ha subito accusato di revisionismo storico e di ricostruzioni inaccettabili. Giampiero Mughini, ospite della Palombelli, ha provato a mettere le cose in chiaro: "Via Rasella è stata un'operazione politicamente suicida perché si colpiva un corpo non particolarmente simbolico, erano degli altoatesini più di terza che di seconda fila".

"Si sapeva benissimo  quale sarebbe stata la reazione dei tedeschi perché la rappresaglia era addirittura una legge riconosciuta dal Diritto militare - ha poi aggiunto il giornalista - in Francia i tedeschi ne avevano ammazzati 50 per uno" e non dieci per uno come alle Fosse Ardeatine.  

(ANSA il 24 marzo 2023) - Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, seguito dal ministro della Difesa Guido Crosetto, ha reso omaggio alle vittime nel giorno del 79esimo anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. È così iniziata la cerimonia, alla presenza del Capo dello Stato.

 Sul palco, tra gli altri, il presidente del Senato Ignazio La Russa, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, la vice presidente della Regione Lazio, Roberta Angelilli.

Nell'assoluto silenzio, con molta commozione dei familiari presenti, sono stati scanditi tutti i 335 nomi delle vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine durante la cerimonia al Mausoleo. Sullo schermo i volti in bianco e nero dei martiri.

 Il silenzio è poi esploso, alla termine della lettura del lungo elenco, in un applauso. Mattarella, con le altre istituzioni presenti, ha deposto una corona di alloro sulla lapide in omaggio ai martiri e, alla conclusione della cerimonia, ha visitato le grotte e il sacrario.

Ma è polemica sulle parole del messaggio della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: "Oggi l'Italia onora le vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Settantanove anni fa 335 italiani sono stati barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione naziste come rappresaglia dell'attacco partigiano di via Rasella - ha scritto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un messaggio nell'anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine -.

 Una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani. Spetta a tutti noi - Istituzioni, società civile, scuola e mondo dell'informazione - ricordare quei martiri e raccontare in particolare alle giovani generazioni cosa è successo in quel terribile 24 marzo 1944. La memoria non sia mai un puro esercizio di stile ma un dovere civico da esercitare ogni giorno".

"La presidente del Consiglio ha affermato -  nota il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo  - che i 335 martiri delle Fosse Ardeatine sono stati uccisi 'solo perché italiani'. È opportuno precisare che, certo, erano italiani, ma furono scelti in base a una selezione che colpiva gli antifascisti, i resistenti, gli oppositori politici, gli ebrei.

 È doveroso aggiungere che la lista di una parte di coloro che, come ha affermato Giorgia Meloni, sono stati 'barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione naziste', è stata compilata con la complicità del questore Pietro Caruso, del ministro dell'interno della repubblica di Salò Guido Buffarini Guidi, del criminale di guerra Pietro Koch, tutti fascisti".

[…]

Da Bruxelles, al vertice Ue, la premier risponde ad una domanda sulle polemiche: "Li ho definiti italiani, che vuol dire che gli antifascisti non sono italiani? Sono stata onnicomprensiva...".  […]

Dagospia il 24 marzo 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Gentile direttore, ma la nostra premier quando, ricordando le Fosse Ardeatine, dice “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”, sa di cosa parla?  335 stranieri a Roma non li trovavi nemmeno a pagarli oro.

 L’Italia, meglio ricordarlo al capo del Governo, era un paese in guerra e gli stranieri o erano internati o erano scappati. C’erano i rappresentanti delle ambasciate dei paesi alleati ma, per esempio, i giapponesi si erano trasferiti a Salò.

Forse la nostra premier intendeva dire che i nazisti avrebbero potuto arrestarsi tra di loro perché gli unici non italiani erano proprio loro. O forse non era più semplice dire che erano stati arrestati antifascisti, ebrei, comunisti?

 La toppa è stata peggiore del buco quando ha risposto alle obiezioni dell’Anpi: “Che vuol dire che gli antifascisti non sono italiani? Sono stata omnicomprensiva”. Vuol dire che potevano arrestare solo italiani. Altri non ve ne erano. Urge un ripasso governativo di storia.  Mirella Serri

Estratto dell’articolo di Giovanni De Luna per “La Stampa” il 25 marzo 2023.

A questo punto è meglio che stiano zitti. L'Italia della Resistenza è chiaramente un passato ostico per la destra che ci governa. [...] Soprattutto in quei discorsi manca la chiarezza. È stato così anche per l'anniversario delle Fosse Ardeatine, nel ricordare quel 24 marzo 1944, quando i tedeschi fucilarono 335 ostaggi per rappresaglia, in seguito all'attentato partigiano di via Rasella, a Roma.

 «Italiani»: così Giorgia Meloni ha chiamato le vittime dell'eccidio. Ma «italiani» erano anche quelli che collaborarono al massacro insieme ai tedeschi: il ministro dell'Interno della Repubblica di Salò, Guido Buffarini Guidi; il questore di Roma, Pietro Caruso; il criminale di guerra e capo di una "banda" di aguzzini, Pietro Koch. «Italiani» non è un termine che fa chiarezza.

Tra il 1943 e il 1945 italiani antifascisti lottarono armi in pugno contro gli italiani fascisti. Fu così in Italia, e fu così in Europa. In Francia, ad esempio, i francesi di De Gaulle combatterono contro i francesi di Pétain. E così in Belgio, in Olanda, in Norvegia, ovunque l'occupazione nazista obbligò i popoli a schierarsi.

 I fronti non erano più quelli dettati dalla geopolitica della Prima guerra mondiale (italiani contro austriaci, francesi contro tedeschi) ma scaturivano direttamente dalla dimensione tutta ideologica della Seconda guerra mondiale: fascismo contro antifascismo, nazismo contro comunismo, dittatura contro democrazia, totalitarismo contro libertà. Si era obbligati a scegliere da che parte stare.

E i fucilati alle Fosse Ardeatine avevano scelto di essere antifascisti, pagando con la vita quella scelta. Tutti erano Todeskandidaten (persone da eliminare) già rinchiusi nelle prigioni fasciste e naziste, appartenenti alle varie organizzazioni politiche che partecipavano alla Resistenza, dal Partito d'Azione alla Democrazia Cristiana, in uno schieramento che accomunava comunisti e monarchici, anarchici e socialisti, ecc...

In particolare, 154 erano persone a disposizione dell'Aussenkommando, 23 in attesa di giudizio del Tribunale militare tedesco e altre già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni; 75 appartenenti alla comunità ebraica romana; 40 persone a disposizione della Questura, fermate per motivi politici; 10 fermate per motivi di pubblica sicurezza; 10 arrestate nei pressi di via Rasella subito dopo l'attentato; una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco; sette vittime non furono identificate e non fu possibile stabilirne l'appartenenza.

La faticosa compilazione delle liste con i nomi di chi sarebbe stato mandato a morte fu un esercizio tanto macabro quanto laborioso e non avrebbe potuto svolgersi senza la collaborazione delle autorità italiane, fasciste.

 Non ci voleva molto a ricordarlo, aiutando i giovani a chiarirsi le idee su quel passato. Ma Giorgia Meloni non lo ha fatto e per di più ha chiamato i fucilati vittime «innocenti». E questo è proprio un aggettivo che non meritano. L'innocenza presuppone il candore di chi viene ammazzato senza colpe, travolto da un evento inspiegabile. Non fu così. Quelli ammazzati alle Fosse Ardeatine erano colpevoli, di sicuro lo erano per chi li uccise. E la loro colpa era stata proprio quella di scegliere da che parte stare. [...]

 Estratto da “Il FattoQuotidiano" – ilfattoquotidiano.it il 24 marzo 2023.

 (...) L’Anpi precisa subito che le vittime delle Fosse Ardeatine “certo, erano italiani, ma furono scelti in base a una selezione che colpiva gli antifascisti, i resistenti, gli oppositori politici, gli ebrei.

 È doveroso aggiungere che la lista di una parte di coloro che, come ha affermato Giorgia Meloni, sono stati ‘barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione nazistè, è stata compilata con la complicità del questore Pietro Caruso, del ministro dell’interno della repubblica di Salò Guido Buffarini Guidi, del criminale di guerra Pietro Koch, tutti fascisti”. Meloni ha replicato: “Li ho definiti italiani, che vuol dire che gli antifascisti non sono italiani? Sono stata onnicomprensiva…”, ha sostenuto la premier.

Nel frattempo, infatti, le parole di Meloni hanno provocato varie repliche politiche. “No presidente Meloni: 335 persone non furono trucidate dai nazifascisti alle Fosse Ardeatine solo perché erano italiani . Perchè erano italiani ed antifascisti, ebrei, partigiani.

 Un giorno o l’altro riuscirà a scrivere quella parola? ANTIFASCISTA“, ha scritto su Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. “Il 24Marzo del ’44 335 detenuti antifascisti ed ebrei furono trucidati dai nazifascisti. Martiri della libertà, uccisi perché antifascisti dal vile regime.

Dispiace che la Presidente #Meloni non parli della motivazione dell’eccidio. Italiani e antifascisti! #FosseArdeatine”, ha scritto su twitter il senatore del Pd, Michele Fina. Daniela Ruffino, deputata di Azione, ricorda che le vittime delle Fosse Ardeatine “erano state prelevate da un braccio di Regina Coeli dove erano stati rinchiusi antifascisti, liberali, ebrei, dissidenti. È la storia. Rimuoverla o distorcerla equivale a negarla. La presidente Meloni ha perso un’altra occasione per pacificare e pacificarsi”.

Dalle Fosse Ardeatine al delitto Andreotti: la storia secondo Giuseppi. Francesco Giubilei il 25 Marzo 2023 su Il Giornale

Il leader grillino colleziona una gaffe dietro l'altra: prima inventa il "delitto Andreotti", poi commemora le donne uccise alle Fosse Ardeatine, peccato che nell'eccidio siano morti solo uomini

Se il detto ciceroniano "historia magistra vitae" fosse applicato alla politica italiana, il risultato non potrebbe che essere sconfortante. Negli ultimi anni i politici italiani si sono resi protagonisti di gaffe, strafalcioni, dichiarazioni sconcertanti sulla storia che hanno testimoniato nel migliore dei casi superficialità e nel peggiore vera e propria ignoranza. Capofila di questa tendenza sono stati i grillini che ci hanno abituato a posizioni campate per aria in ogni ambito dello scibile umano tra cui la storia. Non poteva essere da meno il leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte che questa settimana si è reso protagonista di una doppia gaffe che fa dubitare delle conoscenze storiche dell’avvocato del popolo.

Nella foga di attaccare il governo, alla Camera Conte ha affermato: "A quattro mesi dall'insediamento del suo esecutivo, avverto il dovere di denunciare con fermezza la grave inadeguatezza che connota la vostra azione, e gli esempi ormai sono molteplici". Poi lo strafalcione: "I vostri esperti manager che motivano la squadra citando il discorso di Benito Mussolini all'indomani del delitto Andreotti…". Anche se probabilmente si è trattato di un lapsus, Conte stava in realtà leggendo il discorso e non parlando a braccio, una circostanza che ha fatto immaginare a molti osservatori che l'errore non fosse casuale.

Neanche il tempo di metabolizzare lo strafalcione che l’ex premier ha fatto il bis. Per ricordare l’eccidio delle Fosse Ardeatine, ha infatti scritto su Twitter: "L’eccidio delle Fosse Ardeatine ancora oggi ci ricorda l’abominio della violenza nazifascista. Una vile rappresaglia costata la vita a 335 donne e uomini tra detenuti comuni, civili, partigiani, cittadini ebrei: una pagina dolorosa e mai cicatrizzata della nostra Storia". Peccato che nell’eccidio non siano morte donne ma soltanto uomini. Si tratta di un errore doppiamente grave, da un lato perché è un falso storico, dall’altro nasce dalla volontà di promuovere a tutti i costi un linguaggio inclusivo anche rendendosi protagonisti di strafalcioni storici.

Dalla cancellazione alla riscrittura della storia il passo è breve ma per Giuseppe Conte è ancor più facile inventare fatti storici mai avvenuti.

Meloni commemora l'eccidio. Ma l'Anpi l'attacca comunque. Ricordo trasversale delle Fosse Ardeatine 79 anni dopo. La sinistra però ne approfitta per contestare la premier. Pasquale Napolitano il 25 Marzo 2023 su Il Giornale.

L'Anpi è ossessionata dal governo Meloni. Natale, Pasqua, 25 aprile, 2 giugno: ogni ricorrenza è buona per imbastire una polemica. Per armare i fucili contro il capo dell'esecutivo. E se non c'è un motivo concreto, basta inventarlo. Bisogna buttarla in rissa. L'Associazione dei partigiani corregge il premier anche sul messaggio diffuso in occasione del settantanovesimo anniversario delle Fosse Ardeatine, l'eccidio dei 335 civili prigionieri politici, ebrei, militari, detenuti comuni, assassinati dalle truppe naziste il 24 marzo del 1944 per rappresaglia all'azione dei partigiani dei Gap il giorno precedente in via Rasella. Meloni ricorda dal suo profilo social il massacro: «Oggi l'Italia onora le vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Settantanove anni fa 335 italiani sono stati barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione naziste come rappresaglia dell'attacco partigiano di via Rasella. Una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani. Spetta a tutti noi - Istituzioni, società civile, scuola e mondo dell'informazione - ricordare quei martiri e raccontare in particolare alle giovani generazioni cosa è successo in quel terribile 24 marzo 1944. La memoria non sia mai un puro esercizio di stile ma un dovere civico da esercitare ogni giorno». Passano pochi minuti e puntuale arriva la stoccata dell'Anpi: «La presidente del Consiglio ha affermato che i 335 martiri delle Fosse Ardeatine sono stati uccisi solo perché italiani. È opportuno precisare che, certo, erano italiani, ma furono scelti in base a una selezione che colpiva gli antifascisti, i resistenti, gli oppositori politici, gli ebrei. È doveroso aggiungere che la lista di una parte di coloro che, come ha affermato Giorgia Meloni, sono stati barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione naziste, è stata compilata con la complicità del questore Pietro Caruso, del ministro dell'interno della repubblica di Salò Guido Buffarini Guidi, del criminale di guerra Pietro Koch, tutti fascisti» si legge in una nota dei partigiani. La polemica decolla.

Il premier ribatte da Bruxelles: «Li ho definiti italiani, che vuol dire che gli antifascisti non sono italiani? Sono stata onnicomprensiva...».

La girandola va avanti per tutta la giornata. Interviene il presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo. Laura Boldrini si accoda: «La storia bisogna dirla tutta. Giorgia Meloni non può omettere che alle Fosse Ardeatine i 335 trucidati erano sì italiani, ma soprattutto antifascisti, oppositori, ebrei. E proprio per questo vennero uccisi. Molto grave mistificare i fatti storici». Dal fronte Schlein interviene Chiara Gribaudo: «Massacrati solo perché italiani. No, Presidente Meloni. Come Fonzie, non riesce a pronunciare quella parola. I morti delle Fosse Ardeatine sono stati massacrati perché antifascisti. Le rinfresco la memoria e il vocabolario, Presidente».

Nello scontro vengono trascinati anche i familiari delle vittime: «La storia dice che questo eccidio è stato compiuto dai tedeschi con la piena collaborazione dei fascisti che hanno stilato una lista di 50 nomi» - commenta all'Ansa il presidente dell'associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri (Anfim), Francesco Albertelli. Ornella Vanoni non vuole mancare alla rissa: «Non sono stati uccisi solo perché italiani, ma perché italiani ebrei e italiani partigiani. Forse la Meloni è un po' confusa davanti a questa memoria» twitta la cantante. Anche il Terzo Polo attacca. Missione compiuta, polemica di giornata innescata. Prossimo appuntamento al 25 aprile.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 25 marzo 2023.

Hanno fatto bene a ricordare a Giorgia Meloni che i 335 delle Fosse Ardeatine non erano semplicemente italiani assassinati in quanto italiani, ma ebrei in quanto ebrei, antifascisti in quanto antifascisti, militari in quanto militari disubbidienti, e detenuti comuni per fare numero, e che alcuni italiani, in quanto fascisti, collaborarono all'eccidio. Fra di loro il questore Pietro Caruso e mi è tornato alla memoria in giorno in cui, nella Roma liberata, doveva aprirsi il processo a suo carico.

 Era il 18 settembre 1944. Una folla disperata e furente assediava il Palazzaccio e, quando seppe del rinvio dell'udienza, invase l'aula del tribunale. Lì c'era il direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, testimone contro Caruso, e sulla cui rettitudine e collaborazione alla Resistenza aveva garantito Pietro Nenni, nientemeno.

Una donna gli si piantò davanti e lo accusò della morte del marito. La folla gli si fece addosso. I carabinieri e i soldati inglesi cercarono vanamente di proteggerlo. Carretta fu trascinato fuori e cominciò il linciaggio. Già mezzo morto, venne adagiato sui binari perché il tram facesse il resto. Il tranviere si rifiutò, e scampò a medesima sorte esibendo la tessera del Pci.

 Allora Carretta fu scaraventato nel Tevere ma, siccome ancora boccheggiava, dei bagnanti presero un paio di gozzi e lo raggiunsero per finirlo a colpi di remi. Infine ne appesero il cadavere a testa in giù a Regina Coeli.

Ci sono anche le immagini di un giovane Luchino Visconti, che girava un documentario dal titolo "Giorni di gloria". Le immagini del linciaggio furono scartate. Giusto per ricordare che tempi furono quelli.

Sallusti a testa bassa: “Fosse Ardeatine sulla coscienza dei partigiani”. L’attacco del direttore di Libero contro Anpi e sinistra, che ieri hanno contestato il ricordo delle Fosse Ardeatine di Giorgia Meloni. Redazione su Nicolaporro.it il 25 Marzo 2023

Non si placa la polemica contro Giorgia Meloni, che – nella giornata di ieri – per ricordare le Fosse Ardeatine, quando 335 italiani vennero uccisi dalla furia nazifascista, ha parlato genericamente di “italiani”, e non di “antifascisti”. Immediatamente, si sono levati i cori di Anpi e opposizioni, che hanno cercato implicitamente di sostenere che il premier, utilizzando la semplice formula “uccisi perché italiani”, abbia cercato di attenuare le responsabilità dei gerarchi fascisti e nazisti.

Alessandro Sallusti, direttore di Libero, ha però sviscerato un elemento che è sfuggito all’intellighenzia di sinistra. Innanzitutto, le Fosse Ardeatine sono state la conseguenza dell’applicazione di una direttiva tedesca, che prevedeva l’uccisione di dieci italiani per ogni soldato tedesco vittima di attentato. E ancora, il 23 marzo 1944 – data della tragedia – “un gruppo di partigiani del Partito Comunista organizzò, nonostante fosse conscio che ci sarebbe stata una rappresaglia, un attentato in via Rasella contro un plotone di soldati tedeschi”, ricorda Sallusti, che conclude: “Ci furono 33 vittime tra i militari e morirono anche 2 civili di passaggio, di cui uno era un bambino di 13 anni”.

Oltre a scagliarsi contro il Presidente del Consiglio, l’Associazione Nazionale Partigiani – continua il direttore di Libero – “potrebbe ammettere che l’attentato di via Rasella fu quello più stupido e inutile della storia della Resistenza, che quei 335 italiani, antifascisti e non, trucidati per rappresaglia pesano come un macigno anche sulla loro coscienza?”.

E c’è di più. Nessuno dei pianificatori dell’attentato ebbe il coraggio di consegnarsi ai nazisti, con la speranza che si potesse evitare la strage. Anzi, ricorda ancora Sallusti, “alcuni di loro fecero poi una discreta carriera tra le file del Partito Comunista Italiano”. In sostanza, “con tutta la condanna possibile e immaginabile per quello che fecero i nazifascisti, i neo-partigiani farebbero bene a volare basso su quella tragica storia, che loro hanno raccontato in un modo, ma che la storia dice di essere andata in un altro”.

Fosse Ardeatine, Sallusti con Meloni: “Le vittime erano italiani, i partigiani facciano mea culpa” Lucio Meo il 25 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.

Molti giornali, questa mattina, si esercitano in lezioncine di storia a Giorgia Meloni su quella che sembrava invece una banalità, per quanto pesantissima, espressa ieri dal premier nella ricorrenza della strage delle Fosse Ardeatine. Ovvero, che le vittime della rappresaglia nazista per l’attentato dei partigiani a via Rasella erano in primis italiani. “Onore ai 335 italiani massacrati nell’eccidio delle Fosse Ardeatine”, aveva detto ieri la Meloni, frase che a “Repubblica“, “La Stampa” e agli altri organi della sinistra ormai in servizio permanente, è apparsa offensiva, anzi, “revisionista”, come si nota dalle prime pagine di oggi.

Fosse Ardeatine, Sallusti sta con la Meloni

Su “Libero“, invece, il direttore Alessandro Sallusti si sorprende di tanta faziosità “storica” e si schiera con la Meloni: “La sinistra si inalbera: ma quali italiani, quelli erano antifascisti e la premier non lo dice. Oibò, scopriamo ora che gli antifascisti non erano italiani, aggettivo che indica i nativi dell’Italia e quindi apparentemente pertinente con quanto successo a Roma settantanove anni fa quando la furia nazifascista commise una delle sue vili imprese fucilando 335 italiani tra detenuti politici (antifascisti), ebrei (in quanto ebrei) e detenuti comuni (per fare numero). Già, perché le Ardeatine furono l’applicazione di una nota direttiva tedesca che prevedeva l’uccisione per rappresagli di dieci italiani per ogni soldato tedesco che fosse stato vittima di attentato….”, scrive Sallusti.

Quell’attentato a via Rasella fu folle…”

La verità storica è che quell’attentato a via Rasella sia stato una mossa sconsiderata, dei partigiani, ma non si può dire, soprattutto ora che c’è la destra al governo. “Successe che il 23 marzo del 1944 un gruppo di partigiani del Partito comunista organizzò, nonostante fosse conscio che ci sarebbe stata la rappresaglia, un attentato in via Rasella contro un plotone di soldati tedeschi, reclute altoatesine assegnate alla banda militare. Ci furono trentatré vittime tra i militari e morirono anche due civili di passaggio, uno era un bambino di 13 anni. Ora, dopo quasi ottant’anni, l’Associazione nazionale partigiani oltre a scandalizzarsi per le parole di Giorgia Meloni, potrebbe ammettere che quella di via Rasella fu l’attentato più inutile e stupido della storia della resistenza, che quei 335 italiani, antifascisti e non, trucidati per rappresaglia pesano come un macigno anche sulla loro coscienza? Vogliamo dirlo che il comando partigiano romano attuò una politica folle, politica peraltro non condivisa dai loro colleghi che operavano nel Nord Italia che infatti si guardarono bene dal commettere simili imprudenze?”, si chiede Sallusti, che fa notare: “Ovviamente nessuno degli ideatori e degli esecutori dell’attentato ebbe il coraggio di consegnarsi ai tedeschi per evitare la rappresaglia. Anzi, alcuni di loro fecero poi una discreta carriera politica nelle fila del Partito Comunista…”.

Fosse Ardeatine: Enzo Biagi intervista il colonnello Herbert Kappler. Andrea Soglio su Panorama il 24 Marzo 2023.

Da Panorama del 23.05.1996 - di Enzo Biagi Quanto è monotona e ripetitiva la vita. Anche in Francia c'è polemica sulla giustizia, si discute di magistrati conservatori e rossi, e sempre con l'accusa di parzialità. E in Italia, dopo Berlusconi, anche Romiti si sente vittima di una persecuzione. C'è un altro potere in alternativa a quello politico? Un tribunale internazionale sta processando "Dusko" Tadic, serbo di Bosnia, già proprietario di un bar e istruttore di karate: è accusato dell'assassinio di 13 musulmani e di averne seviziati una trentina. In nome della "pulizia etnica". La televisione sta trasmettendo qualche momento delle udienze che vedono sul banco degli imputati il capitano delle Ss Erich Priebke: un vecchio che segue con apparente distacco quello che accade attorno a lui. Mezzo secolo lo divide e lo allontana da quei fatti: forse hanno davanti un altro uomo. C'è chi lo difende, ha obbedito, e non poteva farne a meno. "Disziplin" era la tradizionale regola dell'esercito tedesco, nel quale valeva anche il principio di Svejk, il buffo personaggio inventato da Hasek, che diceva: "Il buon soldato non deve pensare, per lui pensa il superiore". Il superiore del capitano Priebke era il colonnello Herbert Kappler: lo incontrai nel penitenziario di Gaeta. Rappresentava con il maggiore Reder, quello di Marzabotto, uno degli ultimi "criminali di guerra". Sulle pareti del corpo di guardia erano dipinte ingenue immagini di battaglie, aerei che andavano all'assalto, e un motto che era un programma e un invito: "Vigilando redimere". Mi disse subito: "Non mi chiami colonnello, mi chiami Kappler" come se volesse allontanarsi dal passato. "Non desidero discutere certi fatti". Alle Fosse Ardeatine furono fucilati per rappresaglia 335 ostaggi. In un attentato in via Rasella erano caduti 33 soldati tedeschi. Per errore ci furono cinque vittime in più del rapporto prestabilito: dieci per uno. Disse: "Mi ritengo corresponsabile da un punto di vista religioso e morale, e per questo non mi sono mai ribellato, ma non colpevole. Mi spiego: considerarmi l'unico reo di quella tragedia non mi sembra giusto. Sì, c'ero anch'io, ma non ho dato il via, non ho creato la circostanza. Ho eseguito, ed era durissimo. Le sarei grato se non volesse approfondire". Poi, anche in un decrepito carcere, che trasuda muffa, odore di rancio, di sudore, di salsedine, e fuori anche il mare è sporco, si stabiliscono tra uomini rapporti che aiutano la confidenza. Il poliziotto Kappler sentiva il bisogno di liberarsi dei fantasmi e dei ricordi. Gli chiesi se aveva mai fatto ricorso alla violenza. "Io, mi creda signor Biagi" disse "non ho seviziato nessuno, solo una volta ho dato a un detenuto due schiaffi, non ricordo il suo nome, e poi mi sono scusato. Fu un momento di eccitazione, persi il controllo. Se qualcuno dei miei lo ha fatto è andato contro i miei ordini". Mentiva, credo. Aveva il suo comando al numero 55 di via Tasso: c'era una stanza per l'interrogatorio di coloro che dovevano parlare a ogni costo. Più tardi sentii un francese, il generale Massu, cattolico praticante, che mi spiegò l'utilità delle sevizie come mezzo per indurre i presunti terroristi a parlare. Lo aveva praticato con successo ad Algeri. Secondo la descrizione di un detenuto, il locale era dotato di "catenelle di ogni grossezza, uncini, mazzuoli e martelli, fruste, bottiglie contenenti corrosivi, corde metalliche, punteruoli di varie dimensioni, poi una specie di branda di ferro sulla quale venivano legati gli arrestati". "Tutto ciò è inventato" mi disse Kappler.

Gli chiesi come era diventato nazista: "A 17 anni presi la licenza liceale. La socialdemocrazia era al governo, potevo scegliere tra due possibili opposizioni: o coi comunisti o col nazismo. Lei sa dove andai". Di quel giorno, il 23 marzo 1944, un giovedì di primavera, le camicie nere di Salò festeggiavano il XXV annale della fondazione dei fasci, gli alleati attaccavano senza risultati Cassino, a Milano, al Lirico, che sostituiva la Scala, davano il Boris, era in programmazione un film con Rabagliati e Tito Schipa: In cerca di felicità, sul Corriere risaltava la foto di un motociclista tedesco, tra le rovine e il fango di Nettuno, di quel giorno, dicevo, Kappler non voleva parlare. Kesselring, il feldmaresciallo, aveva dichiarato: "Se c'è un colpevole dell'eccidio quello sono io". Ai giudici il colonnello raccontò che, dopo l'attentato, il generale Mältzer gli disse di preparare l'elenco di quelli che dovevano essere fucilati. Kappler andò dal questore di Roma, Pietro Caruso, perché gli mettesse a disposizione gli archivi. Ricevette una telefonata: "Per ogni soldato ucciso dieci italiani". Chiamò il quartier generale di Kesselring al Soratte e parlò con l'ufficiale di servizio per sapere da dove arrivava quell'ingiunzione: "E' partita da molto in alto" fu la risposta. Organizzò con minuzia e con tecnica perfetta l'esecuzione. Il resoconto è a verbale: "Ordinai che ognuno sparasse un solo colpo. Precisai che il proiettile doveva raggiungere il cervelletto della vittima, e che le canne delle armi non dovevano essere appoggiate alla nuca. L' idea di fare compiere l' operazione in una caverna fu mia. Pensai di creare così una specie di grande camera mortuaria naturale. Non potevo concedere più di un minuto per ciascuno. I prigionieri scendevano dai camion e, man mano che arrivavano, un ufficiale, Priebke, cancellava i nomi dalle liste che aveva sott'occhio. Quando tutto fu finito era caduta la notte. I miei dipendenti apparivano abbattuti e a un certo momento tirai fuori una bottiglia di cognac per rianimarli". Uno solo rifiutò di sparare: Kappler lo ricordava come "un certo Wayten". Basta anche un giusto per salvare la dignità umana.

Sbloccata la censura sul libro che demolisce il mito resistenziale a Monterotondo. Andrea Cioni su Libero Quotidiano il 12 settembre 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Con una certa soddisfazione salutiamo la fine di un episodio di censura di stampo bulgaro, ma con attori nostrani, che durava da due anni in quel di Monterotondo, cittadina laziale storicamente “rossa” (ha dato i natali anche a Renato Curcio, fra i fondatori delle Brigate Rosse…). Il libro protagonista è "Sprungeinsatz Monterotondo" di cui avevamo scritto nel marzo scorso. 

Ma andiamo con ordine e riepiloghiamo brevemente i fatti.

Uno studioso, Guido Ronconi, frugando nelle carte conservate all’archivio dell’esercito tedesco scopre nel 2003 i rapporti inediti dei paracadutisti tedeschi lanciatisi nel settembre 1943 su Monterotondo per occupare lo Stato Maggiore del Regio Esercito, colà dislocato. Effettuate ricerche analoghe a Roma, all’archivio dello Stato Maggiore e dei Carabinieri, lo studioso riesce a ricostruire gli avvenimenti passo per passo, con un livello di dettaglio anche inconsueto per avvenimenti di oramai ottanta anni fa. Negli archivi francesi e tedeschi scopre poi numerose fotografie inedite scattate anch’esse a Monterotondo nel settembre 1943, complemento ideale della ricerca. Ronconi, credendo di fare cosa gradita alla cittadinanza, propone lo studio al Comune di Monterotondo e l’allora direttore, dott. Togninelli, accetta con entusiasmo di pubblicarlo: si tratta infatti del primo studio scientifico su fatti che hanno marcato la cittadina laziale e che, forse neanche troppo stranamente, non sono mai stati analizzati seriamente prima di allora.

Il libro viene così stampato nel 2021 e costa in tutto EUR 10.805,20: denaro pubblico, sicuramente ben speso per far conoscere nel dettaglio una pagina di storia così importante per la comunità monterotondese. Però… il contenuto del libro probabilmente non piace a tutti. A volte infatti è meglio nascondere la verità, e se questa salta fuori, beh, si può provare con la censura, magari funziona…

È proprio quello che incredibilmente succede. Nelle centinaia di pagine di documenti originali consultati, con relazioni di tutte le parti coinvolte nei combattimenti, risulta che solamente due civili di Monterotondo, due ragazzi sedicenni, presero parte ai combattimenti contro i tedeschi. Carta canta, come si suol dire, ma in questo caso i dati non corrispondono a quanto l’ANPI locale sostiene da 80 anni, ovvero che a Monterotondo la popolazione compatta si unì ai soldati italiani contro i tedeschi in una sorta di Resistenza ante litteram! Addirittura il vicepresidente ANPI, Enrico Angelani, sostiene che si trattò del “primo episodio della resistenza e l’occasione per organizzare un vero e proprio nucleo partigiano”.

La differenza fra quanto sostenuto dall’ANPI - spacciato per verità storica - e i risultati delle ricerche d’archivio esposte nel libro è eclatante, tale da costringere a rivedere certe posizioni consolidatesi negli anni.

Tuttavia anziché aprirsi a un confronto, rendendo pubblico il libro e lasciando alla popolazione di Monterotondo e ai lettori di farsi una propria idea, magari arricchendo la discussione con ulteriori documenti e testimonianze inedite, dibattendo pubblicamente le conclusioni alle quali è arrivato Ronconi, l’ANPI ha, secondo l’autore e altre voci di corridoio, fatto pesanti pressioni per non rendere pubblico il libro, operando di fatto una censura di stampo sovietico. Un fatto francamente inaccettabile nell’Italia del 2023, e ancor più inaccettabile se proveniente da un’associazione che dichiara in ogni occasione di difendere i valori costituzionali e democratici.

Reso edotto dei fatti grazie al nostro articolo su Libero del 16 marzo scorso, l’Avv. Marco Di Andrea, capogruppo di FdI nel Consiglio Comunale, ha voluto vederci chiaro presentando già nel marzo scorso un’interrogazione all’Assessore alle Politiche Culturali Marianna Valenti volta a capire dove fossero le copie del libro e per quale motivo, pur essendo costate EUR 10.805,20 di denaro pubblico, non fossero state divulgate.

A fronte di una risposta non esaustiva dell’Assessore, l’Avv. Di Andrea è ritornato alla carica il 12 giugno 2023 con una mozione volta a fissare una data per la presentazione del libro in occasione dell’ottantesimo anniversario degli eventi bellici del settembre 1943.

Messo con le spalle al muro da Di Andrea, il Consiglio Comunale non poteva non approvare all’unanimità la mozione, visto l’impiego di denaro pubblico che sarebbe altrimenti stato speso inutilmente se il libro non fosse stato diffuso senza un motivo plausibile.

“Per fortuna – commenta Ronconi - la legge e il buonsenso hanno alla fine prevalso sull’ennesimo tentativo oscurantista e retrogrado di tacitare voci dissonanti dalla fantasiosa vulgata resistenziale.

Un grazie all’Avv. Di Andrea per aver impedito questo tentativo e per aver scongiurato uno sperpero di denaro pubblico che sarebbe stato veramente scandaloso”.

Aspettiamo adesso di vedere se la presentazione, prevista per il 16 settembre prossimo presso la biblioteca comunale di Monterotondo, (ore 17.00) avverrà tranquillamente o se invece verrà disturbata dai soliti facinorosi che, non di rado, nel nome della democrazia e dell’antifascismo, sono soliti intervenire rumorosamente nelle occasioni di esposizione di idee e fatti non in linea con il pensiero unico resistenziale.

1943: “popolazione” di Monterotondo contro I tedeschi? Un mito resistenziale: erano in due. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 marzo 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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E’ sempre un momento durissimo per gli aedi della vulgata resistenziale quando emergono i dati d’archivio, soprattutto se militari, che riferiscono una realtà storica completamente diversa o drasticamente ridotta.

Ecco perché poi si è costretti a ricorrere alla censura e a toppe che si rivelano peggiori del buco. L’ultimo caso riguarda il comune di Monterotondo, vicino Roma, teatro di aspri combattimenti appena successivi all’8 settembre 1943 fra soldati italiani e parà tedeschi. Gli scontri sono stati ricostruiti da Guido Ronconi, un ricercatore di storia militare, che vive in Germania, parla tedesco e frequenta gli archivi militari. Nel 2003, frugando tra le carte del Militärarchiv di Friburgo, si imbatte in una documentazione inedita delle unità di Fallschirmjäger tedeschi che furono aviolanciate su Monterotondo, il 9 settembre 1943, per conquistare il palazzo Orsini dove aveva sede lo Stato Maggiore del Regio Esercito. Ronconi ha poi confrontato queste informazioni con i dati degli archivi storici del nostro Esercito e dei Carabinieri e, infine, con quelli dell’archivio militare francese, che possiede molti documenti video-fotografici di preda bellica.

Gli ex alleati germanici sapevano da un pezzo del voltafaccia di Badoglio: si erano premuniti per catturare i generali italiani in modo che non potessero dare ordini. Fatica sprecata: non solo gli ordini non furono impartiti, a prescindere, ma soprattutto Badoglio e Roatta si erano già imbarcati per Brindisi con il Re, lasciando vuoto il castello. Comunque, dato che i tedeschi incrociarono la nostra divisione Piave che si dirigeva verso Tivoli, ingaggiarono un combattimento che lasciò 54 di loro sul terreno e non 300-350 come tramandato sino ad oggi.

Ronconi ha così proposto all’Istituto di Cultura di Monterotondo di pubblicare un libro, da lui iniziato a scrivere nel 2015 (e da poco pubblicato in Germania, in tedesco). L’iniziativa fu accolta dal curatore, Paolo Togninelli che non badò all’avvertimento dell’autore: “Guardi che, da quanto emerso, alcune pagine della resistenza potrebbero uscirne radicalmente ridimensionate…”.

Il volume “Sprungeinsatz Monterotondo”, viene così stampato nel 2021, dopo tre anni di attesa dalla firma del contratto, in 600 copie, per la cifra di 10.805,20 euro di denaro pubblico. Ma non è mai stato venduto o distribuito. Nemmeno la Biblioteca comunale del paese dice di possederlo. Al Comune dicono che sarà venduto presso i Musei civici “dopo la fine dei lavori”, ma dal museo negano che vi siano lavori in corso.

Il motivo? Ronconi presume che il libro sia stato ritirato per proteste dell’Anpi locale che, da sempre sostiene come agli scontri avesse partecipato eroicamente una non meglio specificata “popolazione civile”, con una sorta di resistenza ante litteram, primo sussulto della nuova Italia antifascista. Secondo il vicepresidente Anpi Enrico Angelani, fu “il primo episodio della resistenza e l’occasione per organizzare un vero e proprio nucleo partigiano”.

In due pagine del volume di Ronconi, si fa luce sulla presunta partecipazione agli scontri di questa “popolazione civile”: due ragazzi, di cui è noto solo il nome di uno, Dario Ortenzi. Era un 17enne che si trovava nei campi, fece da guida a una pattuglia di soldati italiani e, poi, prese parte ai combattimenti guadagnandosi una medaglia d’argento. Anche il recente libro di Massimo Lucioli - Massimo Castelli “Monterotondo 9 settembre 1943” smentisce la leggenda rossa: “Solo tre o quattro persone, tra le molte decine di civili chiusi nel Castello, chiesero ai militari delle armi per poter partecipare agli scontri, ma ciò non fu possibile per mancanza di armi e munizioni. […] Quindi la partecipazione ai combattimenti di masse di civili in armi, tanto declamata ed enfatizzata nel dopoguerra, è smentita non tanto nei fatti, perché qualche civile effettivamente partecipò, bensì nei numeri, che furono, in realtà, totalmente irrisori”.

Commenta amaramente Ronconi: “Ovviamente sto valutando azioni legali nei confronti del Comune, perché non posso accettare che il frutto di anni di ricerche venga semplicemente censurato. Se l’avessi saputo mi sarei rivolto a un altro editore, mentre ho deciso di offrire il libro a Monterotondo perché ero, e sono tuttora, consapevole dell’importanza di questi avvenimenti per la cittadinanza e volevo quindi fare cosa gradita ai cittadini tutti”.

Ma, si sa, la verità è un dono gradito a pochi.

A beneficio dei lettori, Ronconi sintetizza di seguito le leggende resistenziali che riguardano Monterotondo, riprese e diffuse dall’ANPI, locale e non, a ogni occasione.

Partecipazione massiccia di civili ai combattimenti contro i paracadutisti tedeschi, al fine di spacciare la favola dell’insurrezione popolare spontanea contro l’invasore nazista (!). In nessuno dei documenti da me consultati, provenienti dall’Ufficio Storico dell’Esercito, dall’Ufficio Storico dei Carabinieri, dall’archivio comunale di Monterotondo e dal Militärarchiv di Friburgo (archivio esercito tedesco), quindi sia da parte italiana sia da parte tedesca, viene menzionato l’intervento di civili, tranne quello di due ragazzi, di cui uno solo noto per nome, Dario Ortenzi, decorato di medaglia d’argento al valore militare. Solo la motivazione della decorazione (Medaglia di Bronzo al Valor Militare) al Ten. dei Carabinieri Garroni ne fa menzione, ma parla di Mentana e non Monterotondo, inoltre la motivazione, ovvero aver armato e guidato i civili di Mentana contro i paracadutisti e infliggendo loro gravi perdite (!), appare totalmente fantasiosa. Basterebbe la logica a smentire la teoria della partecipazione dei civili: all’epoca Monterotondo aveva circa 7500 abitanti, se qualcuno avesse effettivamente partecipato ai combattimenti si sarebbe saputo, visto che tutti più o meno all’epoca si conoscevano, e sarebbe stato, giustamente, onorato negli anni a venire, come effettivamente avvenuto con Ortenzi. Invece si è sempre parlato genericamente di civili, senza mai citarne i nomi e cognomi, e questo solo fatto dovrebbe bastare a smentire questa balla resistenziale. Castelli e Lucioli nel loro libro, pur non avendo consultato fonti di archivio, giungono ovviamente (pagg. 31-32), e non poteva essere altrimenti, alle stesse mie conclusioni. È comunque una vera fortuna i civili non parteciparono in massa ai combattimenti! Se ciò fosse avvenuto e dei civili armati fossero stati catturati dai tedeschi, questi avrebbero avuto il diritto di fucilarli!

I combattimenti di Monterotondo furono il “primo episodio della Resistenza e l’occasione per organizzare un vero e proprio nucleo partigiano” (Enrico Angelani, Valeria Frangiolini, Edgardo Prosperi “Resistenze a Monterotondo”, pag. 162), nonché “Monterotondo fu la prima città italiana a insorgere contro l’aggressione nazista” (Valter Sbergamo, “Itinerario sui luoghi della Resistenza a Monterotondo”, Fuorilinea, Monterotondo, 2021, pag. 13).Non è infrequente trovare, in commenti sul web così come in opere cartacee, il tentativo di spacciare i combattimenti delle truppe italiane contro i tedeschi a Monterotondo come un episodio di “resistenza”, motivato da presunti sentimenti antifascisti delle truppe italiane.

Il tentativo di rivestire di una cornice antifascista un combattimento dettato in primissima istanza da un primordiale istinto di sopravvivenza, dalla reazione ancestrale di autodifesa di fronte a un’aggressione improvvisa e pericolosa, sembra tuttavia veramente fuori luogo. Quanto questo tentativo sia puerile e destinato all’insuccesso è ampiamente dimostrato dall’analisi degli avvenimenti tali e quali essi accaddero.

Se, per assurdo e a solo fine dialettico, dovessimo invece accreditare di ideali resistenziali e antifascisti ante litteram l’aliquota di soldati italiani che si batté a Monterotondo, dovremmo di conseguenza, logicamente, attribuire un più o meno acuto sentimento fascista e filotedesco a quanti, ed è universalmente noto che furono la maggioranza, che invece non si batterono, non solo a Roma e dintorni, arrendendosi ai tedeschi senza combattere, o dopo una resistenza di facciata.

È evidente quindi quanto questo sillogismo sia assurdo e infondato, e allo stesso modo l’accurata analisi degli avvenimenti rende evidente quanto assurdo e infondato sia assegnare ai militari italiani di Monterotondo la patente di “resistenti” e pretendere per loro un primato di reazione patriottica all’aggressione nazifascista…

Molto semplicemente: i soldati che presero le armi contro i tedeschi lo fecero perché erano lì per quello, per difendere il castello Orsini e lo SMRE ivi dislocato da attacchi esterni. Avrebbero combattuto anche se l’armistizio non fosse stato dichiarato e ad attaccarli fossero stati paracadutisti americani o inglesi, ma il corso degli eventi fece sì che i loro avversari fossero tedeschi.

Quindi appare chiaro che ogni tentativo di “vestire” i combattenti italiani di Monterotondo di colori ideologici antifascisti sia profondamente errato e rappresenti solo un subdolo tentativo di sfruttare a posteriori e per fini chiaramente politici avvenimenti di natura ben diversa. Chi insiste su questa strada è in malafede, lo dice la logica prima ancora della copiosa documentazione d’archivio esistente!

Per completezza, riportiamo le considerazioni di Guido Ronconi sulle leggende resistenziali che riguardano Monterotondo, riprese e diffuse dall’ANPI, locale e non, a ogni occasione.

I combattimenti di Monterotondo come “primo episodio di sconfitta dell’esercito d’occupazione tedesco ad opera delle truppe italiane” (citazione dal libro di Enrico Angelani “L’8 settembre”, EDUP, Roma, 2005, pag. 18) nonché Monterotondo come “L’unica [città] a mettere in fuga i temibili diavoli verdi di Student” (Valter Sbergamo, “Itinerario sui luoghi della Resistenza a Monterotondo”, Fuorilinea, Monterotondo, 2021, pag. 13).

Innanzitutto va precisato che i tedeschi, all’8 settembre 1943, non erano truppe d’occupazione, bensì erano arrivati in Italia come alleati su precisa richiesta italiana.

Ciò acclarato, riveste effettivamente un certo interesse rispondere alla domanda: chi ha vinto la battaglia di Monterotondo? Nella memoria collettiva di Monterotondo, forgiata da 80 anni di menzogne propinate a ogni occasione (e mai come in questo caso è vero che una menzogna ripetuta più volte diventa verità…) si è radicata la convinzione che i paracadutisti tedeschi si arresero.

In realtà dare una risposta corretta al quesito è piuttosto semplice.

È infatti sufficiente constatare quale dei due contendenti ha raggiunto il proprio obiettivo. Trattandosi di obiettivi diametralmente opposti, la realizzazione dell’uno comportando necessariamente il fallimento dell’altro, non potrà esservi dubbio alcuno.

Lo scopo dell’attacco tedesco su Monterotondo era, come noto, occupare il castello Orsini al fine di neutralizzare lo Stato Maggiore del Regio Esercito.

Lo scopo del presidio italiano di Monterotondo era di proteggere lo Stato Maggiore del Regio Esercito, sito nel castello Orsini, da attacchi di qualunque provenienza.

I paracadutisti di Gericke riuscirono a occupare il castello Orsini, raggiungendo così l’obiettivo prefissatosi.

Il presidio italiano non riuscì a impedire ai paracadutisti di occupare il castello Orsini.

Queste semplici evidenze portano inevitabilmente a concludere che il Major Gericke e i suoi uomini uscirono vittoriosi in quanto riuscirono a raggiungere l’obiettivo, mentre le forze italiane, agli ordini del Colonnello Angelini, non riuscirono ad assolvere il compito loro assegnato e risultarono pertanto perdenti.

È inoltre incontestabile che la grande maggioranza dei soldati italiani presenti a Monterotondo fu catturata dai tedeschi, di questi almeno circa 2500 furono rinchiusi nel castello Orsini e liberati solamente in seguito alla firma della tregua il 10 settembre.

Poco importa, poi, al fine di stabilire chi ha vinto e chi ha perso, constatare che lo Stato Maggiore del Regio Esercito non si trovava più nel castello al momento dell’ingresso dei paracadutisti.

Il fatto incontrovertibile è che l’obiettivo assegnato settimane prima dal General Student agli uomini di Gericke era stato raggiunto: le forze italiane erano state sbaragliate e la bandiera da guerra del III Reich sventolava al posto di quella italiana sulla torre del castello sede dello SMRE.

Dopo aver raggiunto l’obiettivo, i paracadutisti dovettero confrontarsi con la reazione italiana, manifestatasi tramite l’invio di unità della divisione “Piave”, quindi non facenti parte della guarnigione iniziale di Monterotondo, alla riconquista della cittadina laziale.

La tregua d’armi fu stipulata prima che l’attacco italiano potesse svilupparsi in tutto il suo vigore, ma si trattò comunque di un mutuo accordo e certamente non di una resa di Gericke. La situazione dei combattimenti a Roma influenzò pesantemente i responsabili italiani, inducendoli a stipulare la tregua anche se la situazione locale a Monterotondo era chiaramente a loro favore.

È probabile, senza che ovviamente vi possa essere certezza, che se non vi fosse stata la tregua il giorno successivo le forze italiane, grandemente superiori in numero ai tedeschi, avrebbero alla fine prevalso sui paracadutisti. Non bisogna comunque dimenticare che non sarebbe stato facile stanare i Fallschirmjäger dal castello Orsini: se un pugno di 32 carabinieri era riuscito a resistere per un’intera giornata, è difficile credere che un intero battaglione di paracadutisti, pur indebolito dalle perdite subite, non sarebbe riuscito a fare almeno altrettanto, considerando anche che la “Piave” avrebbe difficilmente potuto utilizzare le armi pesanti di cui disponeva per evitare di danneggiare le abitazioni e provocare ulteriori vittime fra la popolazione civile.

Certo è che i paracadutisti non si sarebbero arresi facilmente e che i combattimenti avrebbero richiesto un alto contributo di sangue ai contendenti e probabilmente anche alla popolazione di Monterotondo.

In ogni caso è più che evidente che il vincitore di una battaglia non scende certamente a patti con lo sconfitto. Pertanto il semplice fatto che le ostilità furono concluse con una tregua, in seguito alla quale le due parti abbandonarono il campo (la “Piave” fu richiamata a Roma lo stesso 10 settembre, mentre il II./FJR 6 aspettò gli autocarri inviati dall’XI. Fliegerkorps e lasciò Monterotondo l’11 settembre), è ampiamente sufficiente per concludere che la convinzione che i paracadutisti tedeschi si arresero non si basa su alcun fatto reale e concreto.

Piuttosto la convinzione di una vittoria italiana, che come si è detto è stata sparsa ad arte nel dopoguerra e tuttora viene propagandata a ogni occasione, ha poco a vedere con la storia e con la valutazione obbiettiva dei fatti e rileva più nel campo politico, a giustificazione di una più che fantasiosa primogenitura monterotondese di presunti quanto irreali aneliti resistenziali.

Le forze tedesche erano costituite da 800 o 900 uomini, le loro perdite ammontarono a 300-350 morti. Questi dati, errati, sono riportati in molte testimonianze dell’epoca. Effettivamente i testimoni oculari contarono i paracadute in cielo, ma questo erano usati sia per gli uomini sia per i contenitori con armi e munizioni! In realtà su Monterotondo si lanciarono esattamente 650 paracadutisti, le loro perdite ammontarono a 54 morti e 78 feriti (di cui 31 feriti leggeri – compresi i due piloti dell’unico aereo tedesco abbattuto dalla contraerea italiana - e 47 feriti gravi). È comprensibile che questi dati delle perdite tedesche calcolate durante la battaglia siano errati, meno comprensibile è che vengano ripetuti pedissequamente da quasi 80 anni e che nessuno si sia preoccupato di verificarli, cosa facilmente possibile scrivendo al WAST, equivalente tedesco del nostro Onorcaduti! Certo però fa comodo perpetuare la leggenda di un battaglione di paracadutisti tedeschi semidistrutto dagli eroici civili di Monterotondo…

Lo zio di De Gregori massacrato dai partigiani comunisti. Ciro Niglio il 7 Febbraio 2023 su Culturaidentita.it

Altri 15 partigiani della Osoppo furono fucilati in quei giorni: tra loro Guido Pasolini “Ermes”, fratello di Pier Paolo.

Dal 7 al 18 febbraio 1945, presso le malghe di Porzûs nel comune di Faedis (Udine), sulle Prealpi friulane, furono uccisi 17 Italiani. Erano combattenti per la libertà uccisi da altri italiani. Oggi chiamiamo quella tragedia l’eccidio di Porzûs, uno degli eventi più controversi della resistenza.

Questo articolo non intende ripercorre quei fatti, che oggi, dopo quasi ottant’anni, sono diventati un argomento di studio più disteso, principalmente dopo che nel 2012 il Presidente Napolitano ha definito l’eccidio di Porzûs “tra le più pesanti ombre (..) della resistenza”, individuandone le radici in un “torbido groviglio [di] feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell’Italia”.

Oggi ricordiamo una vittima di quell’eccidio, il Capitano degli Alpini Francesco De Gregori, che, con il nome di battaglia “Bolla”, era il Comandante del Gruppo delle Brigate Est della Divisione Osoppo. Era nato a Roma il 4 febbraio 1910. Oggi quel nome è noto per i successi musicali di suo nipote, l’omonimo cantautore romano. Nell’anniversario della morte, intendo ricordare lo zio del noto artista nato nel 1951, che è stato chiamato Francesco, proprio in memoria dello fratello del padre.

Era un apprezzato Ufficiale degli Alpini, che aveva frequentato l’Accademia Militare di Modena. Da Tenente dell’8° Alpini, aveva combattuto sul fronte greco-albanese, meritando sul campo una Medaglia di Bronzo e di una Croce di Guerra al Valor Militare. Alla proclamazione dell’armistizio, in un clima di crescente tensione, non esitò a schierarsi contro l’oppressione nazista. Entrò nelle Brigate Osoppo-Friuli, i cosiddetti “fazzoletti verdi”. Nel multiforme panorama della resistenza, che meriterebbe un’analisi meno politicizzata, la Osoppo era una formazione autonoma fondata nel seminario arcivescovile di Udine il 24 dicembre 1943. Erano volontari di ispirazione laica, socialista e cattolica, appartenenti a gruppi già attivi in zona. Scelsero il nome Osoppo come collegamento identitario col risorgimento friulano, che nel 1848 vide la città di Osoppo resistere all’assedio austriaco lotta per sette mesi.

Il nostro De Gregori, col nome “Bolla”, era diventato il Comandante nella Gruppo delle Brigate Est della Osoppo. In tale veste, nell’autunno 1944 si oppose al passaggio delle formazioni italiane sotto il comando slavo, con l’annessione del Friuli Orientale (dal confine al fiume Tagliamento) alla Jugoslavia. De Gregori denunciò le mire di annessione di un ampio territorio italiano (provincia di Udine compresa, che allora includeva quella di Pordenone) da parte slava, con la sostanziale acquiescenza dei comunisti italiani. Non avrebbe mai immaginato quello che sarebbe avvenuto a febbraio 1945, quando gli italiani della Osoppo rimasero vittime di un folle attacco da parte di altri italiani. Infatti, il 7 febbraio un centinaio di appartenenti ai GAP e capeggiati da Mario Toffanin “Giacca”, raggiunse Porzûs. I gappisti affermarono d’essere in parte dei partigiani sbandati, in parte civili fuggiti da un treno che li portava in Germania. Giunti a contatto con la Osoppo fu inviato presso di loro Fortunato Pagnutti “Dinamite”, un partigiano del quale si fidavano, avendo già svolto l’incarico di staffetta fra i due reparti. “Dinamite” riferì di guidare un gruppo di sbandati che volevano entrare nella Osoppo. Chiese di incontrare “Bolla”. Fu così inviata una staffetta ad avvertire De Gregori, ma quando questa si fu allontanata, il gruppo degli osovani, inferiore di numero, fu fatto prigioniero. La stessa sorte toccò a “Bolla” quando giunse sul posto. “Giacca” lo interrogò per farsi dire dove erano depositate armi. Come raccontato poi dai testimoni, caricato il materiale saccheggiato sulle spalle dei prigionieri, fu formata una colonna per scendere a valle L’operazione non era finita. “Giacca”, alla testa alcuni garibaldini, rimase alla malga con De Gregori e Gastone Valente “Enea” (commissario politico delle Brigate Giustizia e Libertà). Dopo poco furono udite delle raffiche. Era la fine di “Bolla” ed “Enea”. I loro corpi furono poi trasfigurati, pugnalati e sputacchiati. Così veniva ucciso, a 45 anni appena compiuti, il Capitano degli Alpini Francesco De Gregori “Bolla”.

Altri 15 partigiani della Osoppo furono fucilati in quei giorni: tra loro Guido Pasolini “Ermes”, fratello di Pier Paolo.

Alla memoria di Francesco De Gregori è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «Soldato fedele e deciso, animato da vivo amor di Patria, dopo lo armistizio prodigava ogni sua attività alla lotta di liberazione organizzando, animando e guidando da posti di responsabilità e di comando il movimento partigiano nella Carnia e nella zona montana ad est del Tagliamento.

Comandante capace e soldato valoroso, dopo essersi ripetutamente affermato in numerosi combattimenti, si distingueva particolarmente durante la dura offensiva condotta da preponderanti forze tedesche alla fine di settembre 1944 nella zona montana del Torre Natisone. In condizioni particolarmente difficili di tempo e di ambiente, fermo, deciso e coraggioso riaffermava l’italianità della regione e la intangibilità dei confini della Patria. Cadeva vittima della tragica situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza».

L’eccidio ebbe seguiti giudiziari con un lungo processo, che si concluse con pesanti condanne. La sentenza d’appello del 30 aprile 1954, confermata in Cassazione nel 1957, decretò che «la strage (…) fu un atto tendente a porre una parte del territorio italiano sotto la sovranità jugoslava». La corte si pronunciò anche in merito alle accuse di collaborazionismo mosse alla Osoppo, concludendo che non esistesse alcuna prova in tal senso e rimarcando non solo l’inesistenza di accordi con tedeschi e fascisti, ma anche la «profonda avversione verso il nazifascismo» di Bolla.

A quasi 80 anni da quei fatti, ricordiamo il Capitano Francesco De Gregori, uno dei tanti militari morti nella guerra di liberazione, con l’auspicio che il lettore possa riappropriarsi, al di là dei revisionismi, di una Storia fatta di eroismo italiano, purtroppo spesso rimosso. Gli Eroi, come Francesco De Gregori, non sognavano un mondo senza armi e senza guerra. Sono Uomini morti, al contrario, per una Nazione, per difendere Valori, per ideali che oggi in tanti sono liberi di ritenere superflui o retrogradi. Mi auguro che questo articolo possa restituire il Comandante “Bolla” nella sua autenticità, senza polemiche e senza che nessuno se ne serva per sbandierare “concetti ideologici” appartenuti a totalitarismi, fortunatamente condannati dalla Storia.

Gli Antifascisti.

Estratto dell’articolo di Federico Fornaro per “la Stampa” sabato 12 agosto 2023.

Sulla pagina del suo diario del 29 maggio 1945, Pietro Nenni appuntò una notizia che mai avrebbe voluto scrivere: «Una lettera di Saragat a De Gasperi conferma la notizia della morte di Vittoria. Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri». 

Appena finita la riunione, De Gasperi si diresse a piedi verso la sede dell'Avanti! e «in quel breve tratto pensai che cosa un padre (aveva tre figlie, ndr.) potesse dire a un altro padre. A furia di pensare arrivai alla porta, feci la scala, arrivai all'ufficio: aveva già capito tutto. Ci trovammo abbracciati, a piangere assieme». 

Vittoria, affettuosamente chiamata Vivà, era la terza delle quattro figlie (Giuliana del 1911, Eva, detta Vany, del 1913 e Luciana del 1921) di Nenni e di Carmen Emiliani. Vivà aveva concluso la sua vita terrena dopo sofferenze e umiliazioni disumane il 15 luglio 1943 nel campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Con uno stile narrativo asciutto e coinvolgente, Antonio Tedesco, direttore scientifico della Fondazione Nenni, ne ricostruisce la vita e il tragico epilogo nel libro Vittoria Nenni - n. 31635 di Auschwitz.

Vittoria era una giovane donna italiana che scelse di combattere a fianco dei francesi contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti. Era nata ad Ancona il 31 ottobre 1915 quando il padre era al fronte, partito volontario da convinto interventista repubblicano. Il giorno del suo undicesimo compleanno, il 31 ottobre 1926, Mussolini uscì illeso da un attentato a Bologna e Vittoria, di ritorno da scuola, si ritrovò sulle scale del palazzo di Milano dove abitava faccia a faccia con un gruppo di fascisti che avevano appena finito di devastare l'abitazione della sua famiglia. 

Interrogata su dove fosse il padre, Vivà rispose che lo ignorava e per tutta risposta gli squadristi le strapparono i libri di mano. Nel rogo dei mobili di casa Nenni scomparvero per sempre anche «i suoi regali, i suoi giocattoli, i suoi libri di favole ai quali teneva tanto».

Una bambina ancora spaventata salutò poche settimane dopo il padre in partenza per l'esilio clandestino in Francia. La madre e le quattro figlie lo raggiunsero a Parigi […] Nel giugno 1940, Hitler decise di attaccare la Francia e in due settimane i nazisti sbaragliarono l'esercito nemico ed entrarono trionfalmente a Parigi il 14 dello stesso mese. Iniziò per i fuoriusciti antifascisti e le loro famiglie una nuova fase drammatica dell'esilio, isolati nella Francia collaborazionista di Vichy, costantemente braccati e spiati. 

Vivà e il marito, nell'agosto 1940, decisero di tornare a Parigi dove Henri iniziò ad occuparsi della piccola stamperia di proprietà di Nenni. Ben presto, durante le ore notturne, nella tipografia si iniziò a stampare materiale di propaganda della resistenza francese, a cui Vivà, pur non essendo iscritta ad alcun partito, si era avvicinata a partire dal secondo semestre 1941.

Il 17 giugno 1942 i poliziotti francesi irruppero in casa dei coniugi Daubeuf e arrestarono Henri, mentre sorprendente Vivà venne lasciata in libertà. Avrebbe potuto mettersi in salvo. Scelse invece di rimanere vicino al marito, ma il 25 giugno fu arrestata anche lei. Trasferiti entrambi nel carcere-fortezza di Romainville, il principale penitenziario di Parigi, l'11 agosto, insieme ad altri 95 detenuti, Henri Daubeuf fu passato per le armi. […] 

Pietro Nenni apprese dalla figlia Eva dell'imminente deportazione della figlia e scrisse sul diario: «Brutte notizie della mia Vittoria. A quest'ora sarà già in procinto di partire verso la Germania. Verso quale destino?». Il 24 gennaio 1943, 230 donne, tra cui la figlia di Nenni, furono caricate su un carro bestiame con destinazione Polonia, in una località a loro sconosciuta, Auschwitz: soltanto 49 di loro si salveranno. […]

La morte di Vittoria Nenni sopraggiunse per una febbre tifoidea. «Da quando la nostra Vivà ci ha lasciati - avrebbe confessato Nenni - non c'è giorno, e forse non c'è ora, in cui non mi dica che forse è per causa mia, o per lo meno del mio genere di vita, che ella è stata presa dall'ingranaggio che l'ha schiacciata».

La strage di piazzale Loreto, quei patrioti uccisi perché antifascisti. Il 10 agosto 1944, a Milano, quindici uomini furono fucilati da una legione al comando dei tedeschi e lasciati a terra per l’intera giornata. Avevano diverse idee politiche, ma erano uniti dall’opposizione al regime. L’eccidio, che doveva fungere da monito, rafforzò la Resistenza. Massimo Castoldi su L'Espresso il 10 Agosto 2023  

Un'immagine dei quindici martiri antifascisti fucilati in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944

A Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944 alle 5 e 30 del mattino quindici uomini furono fucilati in modo scomposto da un plotone della Legione fascista autonoma “Ettore Muti”. I corpi rimasero accatastati al sole d’agosto, sul piazzale, contro una palizzata di legno fino alle otto della sera, oltraggiati ripetutamente dalle guardie della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana), tra il silenzioso sgomento dei passanti. L’ordine della fucilazione provenne dai comandi tedeschi, che occupavano la città ormai da quasi un anno. I quindici fucilati furono tutti prelevati dal carcere di San Vittore, dove erano detenuti perché antifascisti. Nessuno di loro subì alcun processo.

Due libri recenti ricostruiscono la vicenda: il mio – “Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il «contrappasso»” (Donzelli, 2020) – e quello di Elisabetta Colombo, Anna Modena, Giovanni Scirocco, “Il nostro silenzio avrà una voce. Piazzale Loreto: fatti e memoria” (il Mulino, 2021). L’eccidio ebbe chiaramente la doppia firma nazista e fascista, palesata e ostentata dagli stessi organismi di potere. I fascisti, che ebbero il controllo della piazza per l’intera giornata, presto tolsero il cartello posto tra i morti che rivendicava l’eccidio, per affiggere un proprio manifesto sulla palizzata in legno, avocando a sé con quel gesto l’impresa.

Si voleva spaventare la popolazione, ma si ottenne l’effetto contrario: crebbe il disprezzo per i tedeschi e per il tradimento fascista dell’Italia. E si ampliarono i consensi alla Resistenza, sempre più coesa nella difesa della patria da usurpatori, corrotti e violenti, nel nome di una nuova idea di Europa fondata sui diritti civili fondamentali. I quindici uomini trucidati il 10 agosto 1944 rappresentavano questa Resistenza. Molti scrissero nei loro ultimi messaggi «W l’Italia», celebrando la patria, che difendevano uniti da un ideale comune. Alcuni collaboravano tra loro, tutti lavoravano a un unico progetto.

Erano uomini di età, professioni, estrazioni sociali, ma soprattutto di idee politiche diverse. Il cattolico Vittorio Gasparini fu ucciso insieme con i comunisti Libero Temolo, Giulio Casiraghi, Andrea Esposito e Vitale Vertemati, con l’azionista Umberto Fogagnolo e con i socialisti Eraldo Soncini, Angelo Poletti, Domenico Fiorani e Renzo Del Riccio. Con loro Antonio Bravin, Emidio Mastrodomenico, Giovanni Galimberti, Andrea Ragni e mio nonno, Salvatore Principato, il più anziano del gruppo, che aveva cinquantadue anni. Era socialista turatiano, faceva il maestro elementare, aveva contrastato il fascismo fin dagli inizi, collaborando attivamente prima con i fratelli Rosselli e con Giuseppe Faravelli, poi con Rodolfo Morandi e i gruppi socialisti milanesi.

Il cartello posto tra i corpi subito dopo la fucilazione li stigmatizzava come gappisti, e tali sono rimasti anche negli anni della memoria, che stentò a riconoscere in loro le diverse e complesse anime dell’antifascismo. Si è preferito a lungo farne soltanto un simbolo. Anche per questo si sono studiate poco, e forse non si sono volute studiare, le loro biografie. Oggi che quella storia è stata in parte scritta, anche quella memoria può essere ripensata, ritrovandovi ottant’anni di storia italiana.

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “TuttoLibri – La Stampa” il 26 febbraio 2023.

Alle 9 del 1° settembre 1945 dal gruppo dei prigionieri del campo di Coltano, vicino a Pisa, si levarono grandi applausi: ammainata la bandiera statunitense, salì quella italiana. Addio ai pistoleri della divisione Buffalo, ecco arrivare come sorveglianti i «verdoni», gli uomini del colonnello Francesco Marinari.

 […] Ma chi erano i carcerati ammassati in quell'affollamento cencioso? Erano i cosiddetti ragazzi di Salò - non tutti giovanissimi - catturati dalle truppe angloamericane. Tra di loro vi erano volti destinati a diventare nel dopoguerra molto apprezzati e famosi, come quelli di Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Gorni Kramer e Walter Chiari. Adesso a ricostruire con nuovi documenti l'avvincente vicenda di tanti campi di prigionia o «purgatori» creati dagli Alleati in tutta Italia, è lo storico Gianni Oliva ne Il Purgatorio dei vinti.

Non tutti i personaggi coinvolti hanno ricordato il loro soggiorno a Coltano: un'eccezione fu quella di uno dei «padri nobili» della tivù italiana, Vianello. «Non rinnego né Salò né Sanremo», disse con una delle sue sapide battute, ricostruendo la sua adesione ai bersaglieri a Salò.

A descrivere la permanenza nei pressi di San Rossore è stato anche l'attore Salerno il quale, finita la guerra, interpretò il celebre film antifascista La lunga notte del '43 di Florestano Vancini. A 17 anni la pensava diversamente e si era arruolato volontario della Guardia nazionale repubblicana. Catturato, si finse affetto da malattia mentale ma l'ufficiale inglese lo spedì per punizione a Taranto e in Algeria e fu salvato solo dall'amnistia di Togliatti.

 Walter Chiari, che diventerà il famosissimo interprete di tante commedie ma anche gran mattatore del piccolo schermo, entrò nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese e collaborò con vignette satiriche al giornale del reparto. Dal palcoscenico, nel periodo postbellico, Chiari non risparmiava le allusioni. Per esempio, ironicamente, omaggiava «gli amici della prima fila e anche della Decima», con riferimento, ovviamente, alla Mas.

Ugo Tognazzi si prestò per far ridere le Brigate nere della Rsi, avendo ottenuto l'incarico di attore-intrattenitore delle feroci formazioni armate. A svagare musicalmente la Decima Mas contribuì Gorni Kramer, anche lui finito a Coltano: il direttore d'orchestra più amato dagli italiani collaborava dopo il settembre del 1943 anche alla satirica e fascista Radio Tevere, con il quartetto Cetra e il Trio Lescano, il quale in omaggio a Mussolini gorgheggiava Tornerai.

Marcello Mastroianni, che era un tecnico dell'Istituto geografico militare, fu invece aggregato contro la sua volontà alla Todt (l'organizzazione dei nazisti che costruiva vie di comunicazione e opere difensive). Giorgio Albertazzi, grande istrione del teatro italiano, indossò la tenuta della Guardia nazionale repubblicana «per orgoglio nazionale»: fu assolto poi nel 1948 dall'accusa di aver partecipato all'esecuzione di un partigiano.

 Mauro De Mauro, giornalista che sparì mentre indagava sulla morte di Enrico Mattei, a Roma nel 1944 fu un collaboratore del crudele questore Pietro Caruso e poi fu al fianco di Borghese. Arrestato dagli americani a Milano, e trasferito a Coltano, riuscirà a fuggire.

Complicatissima e molto dibattuta la vicenda del premio Nobel per la Letteratura Dario Fo che si arruolò a Tradate a 17 anni: dopo parziali ammissioni e querele, venne provata la sua partecipazione alle operazioni del famigerato «Battaglione Azzurro».

 Ezra Pound, grande ammiratore di Hitler e Mussolini, recluso a Metato vicino a Camaiore in una gabbia con i vetri in terra per ferirgli i piedi, scriverà gli ermetici e suggestivi Canti pisani. L'armatore Achille Lauro, ex consigliere della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, detenuto nel campo umbro di Collesciopoli, girava nudo per protesta.

 […] L'elenco di chi si schierò con la Rsi potrebbe continuare con generali, corrispondenti di grandi testate e così via. Come mai, infine, Oliva ha cercato attraverso il suo viaggio nei «purgatori» di transito di capire le ragioni di chi ha raggiunto Mussolini al Nord?

 Nel dopoguerra, spiega Oliva, studioso che ama lo scavo e la rilettura dei documenti, molti storici hanno alimentato la convinzione che il fascismo in Italia fosse solo quello di Salò e che quindi nulla avevano da rimproverarsi tutti coloro che avevano inneggiato e condiviso la politica razzista e guerrafondaia del Duce fino al 25 luglio. Facendo suo il giudizio del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Oliva chiarisce che invece i ragazzi di Salò «furono giovani che fecero scelte diverse credendo di servire ugualmente l'onore della propria patria».

 Non c'è dubbio: ma la diversità tra i due contendenti nella guerra civile rimane: «Noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro invece sono dall'altra», sostenne Calvino, ex partigiano. […]

Il caso nella storia. Storia dei 12 docenti che non giurarono fedeltà al Duce. David Romoli su Il riformista il 24 Febbraio 2023

Furono 12 (secondo una stima ufficiale leggermente approssimata per difetto) su 1225. Il posto nelle università lo persero subito, quello nella memoria storica dell’Italia democratica è stato cancellato quasi altrettanto velocemente: non se li ricorda più quasi nessuno. Sono i professori che nel 1931 rifiutarono di ottemperare all’obbligo imposto dall’art. 18 del Regio Decreto n.1227, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 28 agosto: imponeva di giurare fedeltà al “Regime Fascista” pena il licenziamento. Lo aveva emanato il ministro per l’Educazione nazionale Balbino Giuliano, ma era stato pensato e deciso da Giovanni Gentile.

I 12 docenti che dissero no venivano da formazioni politiche e radici culturali diverse, anche se spicca una prevalenza di piemontesi, con 9 dissidenti, e una forte componente ebraica, con 5 docenti ribelli. L’ex ministro dell’Istruzione Francesco Ruffini ed Edoardo Ruffini Avondo, padre e figlio, insegnavano rispettivamente Diritto ecclesiastico e Storia del diritto. Edoardo, il più giovane del gruppo decise in contrasto con la sua indole: “Ho un’invincibile ripugnanza per il bel gesto. Se potessi scivolare via con un qualsiasi pretesto la cosa mi sarebbe più facile”. Ma il pretesto, anche se quasi tutti finsero di trovarlo, in realtà non c’era. Ruffini ne prese atto e si comportò di conseguenza.

Mario Carrara, assistente e genero di Lombroso aveva ereditato la cattedra di Antropologia criminale: di lì a poco sarebbe finito nel carcere di Torino, le Nuove, per il suo antifascismo. Gaetano De Sanctis, docente di Storia antica, spiegò che non poteva accettare una “menomazione della libertà interiore”. L’ultrasettantenne Bartolo Nigrisolo, Chirurgia, fu tassativo e sintetico: “Un giuramento simile non mi sento di farlo e non lo faccio”. Non si piegarono Vito Volterra, Fisica matematica; Ernesto Buonaiuti, Storia del cristianesimo; Lionello Venturi, Storia dell’arte; Piero Martinetti, Filosofia; Giorgio Levi della Vida, Lingue semitiche; Fabio Luzzatto, Filosofia del diritto; Giorgio Errera, Chimica. A questi 12 si devono aggiungere alcuni docenti la cui scelta è considerata dagli storici più incerta: Giuseppe Antonio Borgese, professore di Estetica, era in missione negli Usa e decise di non tornare in Italia proprio per evitare il giuramento.

Gli eredi sostengono che inviò una lettera a Mussolini per chiarire le ragioni del suo autoesilio e che la sua assenza dalla lista ufficiale dei dissidenti è dunque del tutto errata. Il grande economista Piero Sraffa si dimise dall’Università di Cagliari optando per Cambridge. Errico Presutti, docente di Diritto amministrativo e costituzionale a Napoli, apertamente antifascista, fu dichiarato “decaduto dalla cattedra” per non aver prestato il giuramento. Leone Ginzburg, che nel 1931 non era ancora titolare di cattedra, si unì ai 12, e perse il posto, nel 1934. Al chimico Michele Giua, padre di Lisa Foa, la carriera fu troncata nel 1933, quando decise di non iscriversi al Pnf.

Carrara promosse una raccolta di firme di protesta all’estero: aderirono 1300 intellettuali. Il regime se ne fregò. Francesco Ruffini si rivolse all’amico Albert Einstein, che scrisse al ministro della Giustizia Alfredo Rocco. La risposta fu delegata a un funzionario del ministero. “Il tedesco è eccellente ma la cosa resta un’idiozia da gente incolta”, commentò Einstein. Scrisse anche, inutilmente, Gaetano Salvemini, che aveva già lasciato l’insegnamento e il Paese e non nascose la delusione per l’esiguità del dissenso. Pio XI individuò un possibile compromesso per i docenti cattolici: avrebbero giurato ma con la riserva di non contraddire i princìpi cattolici. Su questa base il rettore della Cattolica di Milano padre Agostino Gemelli contrattò con il ministro Giuliano e con lo stesso Mussolini la deroga dall’obbligo per i docenti della Cattolica. Fu concessa a patto che agli stessi docenti fosse proposto di aderire volontariamente al giuramento. Giurarono tutti tranne 4 professori tra i quali Gemelli.

Alcuni docenti, come Concetto Marchesi, si piegarono con grande sofferenza solo dopo che il comunista Togliatti e il liberale Croce suggerirono di accettare il giuramento pur di non lasciare l’accademia completamente nelle mani dei fascisti. Marchesi, che aveva già annunciato il suo rifiuto, se lo rimangiò con sincera vergogna per disciplina di partito. Piero Calamandrei e Luigi Einaudi accolsero a loro volta l’invito di Togliatti e Croce per le stesse motivazioni. Molti giustificarono la scelta sottolineando che in fondo il giuramento non toccava le loro materie d’insegnamento. Gioele Solari, maestro di Norberto Bobbio, e Arturo Carlo Jemolo ammisero che lo facevano a malincuore e solo per motivi di portafoglio. Al ministro Valditara sarebbero piaciuti tutti, senza andare troppo per il sottile sulle motivazioni. Tutti tranne quei 12, o 15 che fossero, il cui ricordo è stato sbrigativamente messo da parte.

Gennaio 1944, Bari ospita il primo congresso antifascista. Il primo atto della riconquista della democrazia nell’Italia liberata. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2023.

«Oggi si apre il Congresso antifascista»: è il 28 gennaio 1944 e Bari si prepara ad ospitare la prima riunione dei Comitati di liberazione nazionale, il primo atto della riconquista della democrazia nell’Italia liberata. «Dopo ventidue anni i delegati di quei Partiti che già prima del 25 luglio lottavano contro il fascismo – del quale avevano minato le basi tenendo viva la fiamma della libertà con una segreta sistematica propaganda, che sarà sempre un titolo d’onore per il popolo italiano – si uniscono per discutere intorno alla sistemazione politica del Paese», si legge in prima pagina sul quotidiano.

Fortemente ostacolato da Badoglio e dalle forze monarchiche, che pur di comprometterne la riuscita diffondono false notizie su gravi disordini ed una possibile epidemia di tifo in città, il Congresso si svolge in un clima di stato d’assedio. Quella mattina l’intero isolato che circonda il Teatro Piccinni, dove si svolgono i lavori, è presidiato dalle forze di pubblica sicurezza. «Ai leaders dell’opinione pubblica, ai congressisti tutti, la Gazzetta del Mezzogiorno invia il suo saluto cordiale. Ancora una volta Bari, prescelta da storici eventi, si pone all’avanguardia della vita nazionale e segna vie e mete e forme e modi che saranno di orientamento nel futuro immediato e lontano, ai costruttori del nuovo Stato liberale», si legge in prima sul quotidiano.

In terza pagina, Tommaso Fiore, protagonista della lotta clandestina al fascismo, firma l’articolo «Don Benedetto e la religione della libertà»: dopo il saluto del giurista Michele Cifarelli, segretario del Comitato provinciale di liberazione di Bari e organizzatore del Congresso, sarà infatti Croce ad inaugurare i lavori, a cui parteciperanno altre eminenti personalità del mondo politico e culturale, tra cui Adolfo Omodeo, Vincenzo Arangio Ruiz e Carlo Sforza. «La parola del Maestro» è riportata integralmente nell’edizione della Gazzetta del 29 gennaio 1944, interamente dedicata al «primo Congresso antifascista dell’Europa liberata».

La priorità da affrontare è la questione istituzionale: i partiti di sinistra sono concordi nel mantenere una linea intransigente, contraria all’ipotesi di risolverla con l’allontanamento dal trono di Vittorio Emanuele III, una soluzione troppo «comoda» nei confronti della monarchia, e al differimento dell’Assemblea costituente a guerra finita. La mozione delle sinistre, però, viene fermamente rigettata dai liberali: «Fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato e, insomma, che così non possiamo respirare e vivere», è la conclusione del discorso di Croce.

Prevarrà, alla fine, la mozione più moderata, che include la formula dell’abdicazione immediata del re, responsabile delle sciagure del paese, e la formazione di un nuovo governo con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati al Congresso.

Si formerà, inoltre, su proposta degli azionisti, la «Giunta esecutiva permanente dell’Italia liberata», dotata degli stessi poteri del Cln romano e di cui sarà membro il pugliese Vincenzo Calace.

Sprezzante sarà, in seguito, il giudizio di Palmiro Togliatti, il quale definirà quello di Bari «un grande comizio antimonarchico» che aveva rischiato di porre lo scontro tra le forze antifasciste e il governo ad un punto di rottura.

Si trattò, però, a tutti gli effetti, della prima assemblea democratica dell’Europa liberata, in cui il re fu posto nella condizione di imputato in stato d’accusa, in virtù delle violazioni dello Statuto da lui commesse.

Si ottenne un risultato non marginale, di mediazione tra le forze antifasciste, che sancì la saldatura tra lotta armata dell’antifascismo settentrionale e la lotta politica dell’antifascismo meridionale.

Sebbene la questione istituzionale fu risolta soltanto due anni dopo, grazie alla presenza di Benedetto Croce e Carlo Sforza, personalità che godevano di grande considerazione da parte degli angloamericani, si riuscì ad esercitare una forte pressione sugli Alleati e grande eco ebbe il Congresso nella stampa estera.

Le stragi.

La ferocia della strage di Marzabotto. Così addestrarono i carnefici. DANIELE SUSINI, storico, su Il Domani il 28 settembre 2023

Il 29 settembre 1944 alle prime luci dell’alba iniziava il più grande massacro di civili compiuto in Italia e in tutta l’Europa occidentale dai nazifascisti. I responsabili venivano dalla 16. SS-Panzer-Grenadier-Division Reichsführer-SS, battaglione composto da una vecchia guardia formata a est e giovani reclute richiamate dalla propaganda di Goebbels

Il 29 settembre 1944 alle prime luci dell’alba iniziava il più grande massacro di civili compiuto in Italia e in tutta l’Europa occidentale dai nazifascisti: la strage di Marzabotto. Nel comprensorio di Monte Sole, nel primo appennino bolognese, tra il 29 settembre e il 5 ottobre vengono uccisi 770 civili: precisamente 217 bambini, 392 donne e 132 anziani, nei comuni di Grizzana Morandi, Marzabotto, Monzuno.

Se le vittime sono civili italiani, i carnefici furono le SS della 16. SS-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer-SS“ in particolare il battaglione SS-Panzer-Aufklärungs-Abteilung 16/16, specializzato nella guerriglia antipartigiana e i soldati della Wehrmacht del reggimento Grenadier 1059/362 Infanterie-Division. Ma non dimentichiamo mai che i combattenti tedeschi furono affiancati da altri italiani che in quel momento sostenevano l’occupante: questi erano fascisti locali che fungevano da guide sul territorio.

Dal sito ns-taeter-italien.org, che è un progetto di ricerca sui criminali che commisero le stragi in Italia, promosso dall’Università di Colonia e supervisionato dai professori Carlo Gentile e Udo Gümpel, così leggiamo: «La 16. SS-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer-SS” viene costituita nell’autunno del 1943, impiegando personale proveniente da unità preesistenti che avevano fatto esperienza sia di lotta antipartigiana sul fronte orientale, sia del servizio di guardia dei campi di concentramento. Gli ufficiali e i sottufficiali erano così addestrati all'uso della violenza estrema, ma impersonale, disciplinata. Il resto del suo personale erano reclute giovanissime, spesso fanatiche ma prive di esperienza di guerra e soldati arruolati tra le minoranze di lingua tedesca dell’Europa sud-orientale e alsaziani».

VECCHI E GIOVANI

Questa descrizione ci fa capire due cose, come venivano assemblati questo tipo di battaglioni, un misto tra spezzoni di “vecchia guardia”, formatesi militarmente nell’enorme girone dell’inferno che fu l’est Europa dopo l’invasione tedesca del ‘41 e “giovani reclute” richiamate alle armi dall’ossessiva propaganda guerrafondaia di Goebbels; una miscela esplosiva che provocherà sul suolo italiano migliaia e migliaia di morti.

A capo di questo manipolo di assassini fu messo il maggiore Walter Reder, anche lui un fanatico combattente, che rifiutò ruoli che l’avrebbero fatto stare dietro una scrivania, per rimanere sul fronte a guidare i propri commilitoni.

Reder iniziò la guerra sul fronte occidentale prima, per poi spostarsi sul fronte orientale, Lituania, Lettonia e ancora Ucraina, in battaglia a Char′kov perse la mano sinistra, neanche questo frenò la sua voglia di stare sulla linea del fronte. Lui è la sua unità saranno feroci protagonisti anche in altri grandi massacri italiani: a Bardine San Terenzo, Valla e Vinca.

La parabola italiana di Walter Reder, passata attraverso la condanna per ergastolo del 1951, termina nel 1985, quando il governo Craxi gli concesse la grazia contro il parere negativo delle vittime e dei famigliari. L’anno successivo sul giornate austriaco Die ganze Woche, Reder non solo dichiarò «Non ho bisogno di giustificarmi di niente» ma ritrattò anche la richiesta di perdono scritta agli abitanti di Marzabotto nel 1964, sostenendo che fu un’iniziativa del suo avvocato. Morì nel suo letto di Vienna nel 1991.

COMPORTAMENTI ITALIANI

Questa breve analisi ci fornisce lo spunto per intuire che se vogliamo capire il perché di queste stragi dobbiamo cambiare prospettiva, non più soffermarci esclusivamente sul periodo 8 settembre ‘43 – 25 aprile 45, ma ampliare cronologia e geografie.

a storiografia ha abbondantemente dimostrato che i carnefici che hanno operato in Italia si sono formati in altri luoghi, in uno specifico sistema di guerra, considerata totale: ogni persona abitante in un determinato luogo era considerata un essere inferiore – o addirittura una contrarazza come nel caso degli ebrei – quindi di nessun valore umano e un nemico da temere, anche se fosse un bambino in fasce.

Gli italiani dopo l’8 settembre subiscono una degradazione etnica: sono traditori e soldati incapaci di combattere, due caratteristiche che rompono quel patto di Blut und Ehre sangue e onore che sorregge l’identità ariana. Per i tedeschi gli italiani sono traditori impenitenti, essi fanno risalire questa loro caratteristica già alla prima guerra mondiale quando il nostro paese dichiarerà guerra alla Germania, ma anche nel 1939 quando Mussolini tradirà gli accordi sottoscritti con il “patto d’acciaio” non entrando in guerra affianco alla Germania.

Questi comportamenti italiani rinfocoleranno dolorosissimi sentimenti sepolti sotto la cenere del tempo: i tedeschi degli anni Quaranta, che sono spesso reduci del primo conflitto mondiale, sono ancora traumatizzati dall’esito di quella guerra vissuto come un enorme tradimento nei loro confronti, la famosa «pugnalata alle spalle». Questo, insieme all’ideologia maturata nelle guerra all’est peserà tantissimo sulle modalità di guerra messe in atto dai tedeschi in Italia.

LA STORIA DEL PICCOLO FRANCO

Ma la storia per essere ben compresa deve essere letta in maniera integrata, è quindi necessario incrociare il vissuto dei carnefici con quello delle vittime, questo affinché questi crimini non siano vissuti come mera esplosione irrazionale di violenza, ma come crimini premeditati e intesi come normale pratica di guerra. Per rappresentare queste vittime utilizzerò la storia di Franco Leoni Lautizzi, all’epoca un bambino di sei anni, e della sua famiglia.

Essi vivevano sul lato del Monte Sole che da verso il fiume Setta, ed è proprio da quella parte che iniziò il rastrellamento tedesco messo in atto per debellare le forze partigiani, o come disse il comandante della 2° compagnia, Albert Meier, dai Linksbazillen, «bacilli di sinistra», ovvero una malattia che andava eliminata dalla società.

Ma Franco raccontava che i tedeschi si tennero ben lontani dalla boscaglia perché la ritenevano infestata dai partigiani, loro rispondevano al fuoco, non erano vittime inermi come loro. Udite le prime raffiche di mitra dal fondovalle il padre Ettore si rifugiò subito nella boscaglia, mentre la madre Martina incinta prese i due figli Franco e Piero, e si nascose in in rifugio poco lontano da casa.

Ma il destino la tradì: dentro il rifugio si ruppero le acque costringendo lei, la nonna e Franco a tornare a casa per far nascere il bambino. La casa era in fiamme, i tedeschi li videro immediatamente, spararono subito, la nonna morì sul posto, la mamma rimase ferita a morte facendo da scudo con il proprio corpo a Franco, ma anche con questa protezione fu colpito 3 volte. Come ogni bambino avrebbe fatto, si accoccolò alla madre e si addormentò «in un unica macchia di sangue».

La sera fu recuperato da alcune persone che si erano rifugiate insieme a loro. Stette tra la vita e la morte per alcuni giorni, si salvò anche da una fucilazione interrotta all’ultimo momento grazie all’intervento inaspettato di una giornalista del Carlino che parlava tedesco. Suo padre dalla disperazione si consegnò ai tedeschi, morì fucilato dopo essere stato utilizzato come portatore delle casse di munizioni.

Franco e il fratellino Piero, rimasero soli al mondo, la famiglia sterminata nella strage, sopravvisse qualche zia e il nonno. Fu costretto a vivere in orfanotrofio e a subire altre violenze psicologiche. Da quel momento per circa 40 anni la vita di Franco fu un tormento, lui diceva «vivevo per odiare», non potevo ascoltare la lingua tedesca, fantasticavo nel cercare forme di vendetta nei confronti di chi mi aveva colpito così duramente.

Poi in Franco lentamente è cambiato tutto, ha capito che i tedeschi non erano tutti uguali e ha incominciato a fare pace con se stesso. Ha messo in pratica lo stesso principio di Liliana Segre, «Non dimentico, non perdono ma non odio», ha superato i demoni ed è diventato ambasciatore di pace nelle scuole con lo slogan «racconto la guerra per insegnare la pace».

Franco ci ha lasciati nel 2021 avendo a cuore il futuro d’Europa, che deve essere di pace e fratellanza tra i suoi e non odio, nel rispetto e nella memoria di quelle persone che sono perite in quella feroce guerra.

DANIELE SUSINI, storico. Direttore del Museo Linea Gotica Orientale di Montescudo Monte Colombo. È autore di La resistenza ebraica in Europa - Storie e percorsi, Donzelli Editore.

I liberatori/invasori.

Le marocchinate: quella storia dimenticata delle donne italiane violentate nel 1944. Silvano Olmi su culturaidentita.it il 13 Ottobre 2023

“L’hanno marocchinata”. Così un anziano, con gli occhi lucidi, mi racconta della violenza subita da una sua parente. Non dice violentata o stuprata, usa proprio il termine “marocchinata”. E questa parola, usata per la prima volta nel 1946, viene ancora oggi impiegata per indicare le donne italiane violentate dalle truppe coloniali francesi nel 1943-1944 e per definire quello che Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle marocchinate, descrive come “uno stupro di massa”. Perché furono migliaia le donne, ma anche gli uomini, che subirono le attenzioni morbose dei coloniali inquadrati nell’esercito francese. Si trattava in prevalenza di tunisini, algerini, marocchini e senegalesi, truppe che oltralpe utilizzarono per combattere la seconda guerra mondiale e sedersi al tavolo della pace dalla parte dei vincitori. Questa soldataglia si accanì sulla popolazione civile italiana compiendo ogni sorta di reati: furti, rapine, razzie, omicidi e tanti stupri. […]

I coloniali sfogarono la loro libidine non solo nelle case di tolleranza, ma anche sulle donne campane. Durante l’avanzata verso Nord i militari lasciarono dietro di loro una lunga scia di sangue e di dolore: Campania, Lazio (in particolare in Ciociaria) e Toscana. Si fermarono alle porte di Firenze perché vennero ritirati dal fronte italiano per essere utilizzati nello sbarco in Provenza. Le modalità degli stupri compiuti dai militari francesi erano quasi sempre le stesse. I coloniali agivano di notte, quasi sempre in gruppo. Entravano nelle case con la scusa di fare delle perquisizioni, rinchiudevano gli uomini in una stanza o li tenevano sotto la minaccia delle armi e poi, a turno, violentavano le povere donne. Quelle che si opponevano erano picchiate selvaggiamente, provocando loro fratture e invalidità fisiche permanenti. A essere sottoposte a violenza furono anche donne anziane o giovanissime. […]

Dopo la violenza molte donne impazziscono, alcune finiscono in manicomio, altre sono costrette a spendere soldi per le cure mediche. Oppure vengono emarginate dal contesto sociale, costrette a cambiare città e a sposare uomini di altri paesi. Infine, i magrebini lasciano alle loro vittime un altro pesante fardello: gravidanze indesiderate, aborti, terribili malattie infettive come scabbia, tubercolosi, blenorragia e sifilide, curate solo grazie all’uso della penicillina fornita dagli americani e all’intensa opera di medici e levatrici.

“L’hanno marocchinata, è stata marocchinata”. Questo il marchio che si portavano addosso le donne italiane nel 1944. Eppure queste pagine tragiche della nostra storia nazionale non si vogliono raccontare. Come ha scritto Marcello Veneziani nel marzo 2019, l’Italia ha rimosso i crimini dei “liberatori”. Invece occorre ricordare, perché gli stupri di guerra sono una triste realtà ancora oggi, mentre in giro per il mondo scoppiano conflitti come in Ucraina e la violenza carnale è ancora un’arma terribile impiegata contro l’inerme popolazione civile.

Il testo integrale di questo articolo è pubblicato su CulturaIdentità di ottobre, in edicola. Per leggerlo acquista la tua copia oppure abbonati, riceverai sulla tua email la copia digitale e quella cartacea a casa.

Nemici”, “invasori”, “strategia terroristica”. Così il ministro Musumeci riscrive con la penna nera la storia dello sbarco del ‘43. Marco Patucchi il 9 agosto 2023 su La Repubblica. 

Il fedelissimo di Giorgia Meloni, responsabile delle Politiche del mare, pubblica il libro “La Sicilia bombardata” (Rubettino) in cui racconta e rivisita l’invasione angloamericana nell’Isola 

L’osservazione arriva nelle ultime righe del libro: “I giovani hanno il diritto di conoscere per intero quelle pagine di storia, al di là del giudizio sull’esito che ha avuto la Seconda guerra mondiale. Perché riconoscere le atrocità commesse anche dalle Forze armate delle democrazie occidentali non significa rivedere il giudizio sul significato generale della guerra stessa e sulle responsabilità di quanti l’hanno generata.

Musumeci e la Sicilia 1940-43: quando la critica non è revisionismo. Carmelo Briguglio il 18 agosto 2023 su Il Secolo d'Italia.

Mi pare davvero un’exceptio quella che personalità, alla guida di istituzioni della Repubblica, si impegnino in opere di ricostruzione storica, ancorché con le migliori intenzioni. Ministro in carica, con un riconosciuto bagaglio politico e profilo morale, Nello Musumeci – indiscussa figura di governatore galantuomo in Sicilia – ha voluto saltare il limen che consiglierebbe di osservare questa regola aurea; ha snobbato i “consilia” in questa direzione e non ha temuto di mettere a rischio la propria biografia politica e intellettuale “di destra”; appartenenza che, nel trattare di Ventennio fascista e di Seconda delle due guerre globali che hanno insanguinato il Novecento, richiede cento cautele: una prudenza a cui l’autore ha voluto disobbedire trascinando nell’avventura anche il collega Gennaro Sangiuliano, che gli ha sottoscritto una inappuntabile e molto professionale prefazione.

Una ricerca storica senza nostalgismi e antiamericanismi

Ma, tant’è. Vediamo: cosa può avere indotto un uomo di governo titolare di una delega tanto impegnativa – la Protezione civile – ad avventurarsi su territori tanto minati? Solo un’analisi superficiale o interessata può assegnare “La Sicilia bombardata” (Rubbettino) di Musumeci al registro revisionista: sostenere che l’autore “riscrive con la penna nera la storia dello sbarco del ‘43” (Marco Patucchi, Repubblica, 9 agosto) è risposta non inaspettata dalla maggiore delle due “sorelle Agnelle” dell’informazione italiana, ma d’ordinanza. Un articolo molto estivo-riempitivo nel quale non mancano riconoscimenti all’autore del volume. Purtroppo l’obbligo di coerenza con la linea editoriale anti-Meloni, porta il pezzo a conclusioni “contras” poco convincenti persino per chi le ha firmate, il quale, invece di affidarsi alla struttura storiografica e ai contenuti dello studio – come é tentato di fare – finisce per cedere all’uso politico del “colore” di chi lo ha scritto. Eppure Musumeci, pur non essendo uno storico di professione, ha lavorato come se lo fosse. È questo il risultato complessivo della sua ricerca, compilata con metodo e rigore e per ciò dotata di fonti di prima mano, di un serio apparato bibliografico. Il che la rende difficilmente attaccabile nei contenuti. Enigma: perché Musumeci ha voluto scrivere un volume di questo tipo, nel bel mezzo di un impegno istituzionale che gli assorbe energie non da poco? Bella domanda. Prendo il toro per le corna: certo non per farne un’opera che vellichi istinti e refrain nostalgici. Intanto, perché lo esclude l’autore con dichiarazioni di chiusura. Musumeci non vuole affatto “rivedere il giudizio sul significato generale della guerra stessa e sulle responsabilità di quanti l’hanno generata” (p. 163); passatisti e negazionisti sono avvertiti. E anche le sempre allertate sentinelle “antifa”. Lo stesso vale per inveterati pacifisti e ostinati anti-americanisti: “qui non si mette in discussione il ruolo avuto in Italia dalle due Armate Alleate, agli ordini di Londra e Washington, e il conseguente epilogo con il ripristino della democrazia due Armate Alleate” (p.159). Ecco perché il quotidiano diretto da Molinari – che tira in ballo addirittura chi “era negli uffici della Casa Bianca durante il recente incontro tra Giorgia Meloni e Joe Biden” – deraglia dai binari di una valutazione, anche severa, ma di merito, in un sommario giudizio politico contra personam. E certo, la guerra é guerra: contro il governo, intendo.

La mancata difesa antiaerea della popolazione

A smentire l’intento revisionista, invece, sono diffuse e visibili in tutto il libro, tante considerazioni, a volte temperate, talvolta durissime e abrasive, ma tutte concorrenti a una critica netta nei confronti del regime fascista. L’azzardo bellicista mussoliniano è testimoniato – nel commento di Musumeci – in primis dalla rivelazione che “il primo ‘regolamento’ per la protezione antiaerea della popolazione civile sia stato approvato nel marzo del 1934, non si riesce a capire come per anni i vertici italiani abbiano potuto eludere il problema della difesa e della protezione del territorio, per poi essere costretti a porvi tardivo rimedio”. Tanto che l’autore mette in evidenza “le invidie e le gelosie dei dicasteri e dei vertici delle forze armate militarizzate, impegnati a parole nello sforzo comune della difesa della patria, ma, a fatti e come sempre, protesi solo a salvaguardare la gestione della propria fetta di potere”. (p. 35).

Come dire: alla responsabilità  della “conta delle vittime civili”, la quale “lambisce la paurosa cifra di diecimila morti”, è chiamato, insieme alle potenze alleate anglo-americane che le bombe le sganciavano, anche il regime, il quale, oltre a fare andare i treni in orario, avrebbe dovuto provvedere alle ben più vitali opere di difesa civile.

Il divorzio tra il regime e il popolo

Le pagine non eludono neppure i gravi disagi della popolazione, in particolare della povera gente, nel soddisfare il primo dei bisogni, quello di sfamarsi. Così la decisione “di affidare al Partito il compito di organizzare e gestire, durante la guerra, i servizi annonari, il controllo dei prezzi e dei consumi” è giudicata da Musumeci, senza perifrasi “una scelta infelice”. (p.38). E che intenzionalità  agiografica sarebbe quella che illumina il crescente disfacimento della fabbrica del consenso, del divorzio progressivo tra il popolo e regime? Una “pericolosa incrinatura tra il Partito fascista e il popolo”, il fallimento della “lotta contro l’accaparramento e il mercato nero, condotta dallo Stato e dagli organi del Pnf”, del “malessere nelle fasce popolari e nel sottoproletariato”, le “agitazioni promosse da gruppi di donne”, il dissenso della “piccola e media borghesia a reddito fisso” in crisi a causa della “caduta del potere d’acquisto” e della “penuria del mercato alimentare, che già nel secondo semestre dell’anno si rivela insufficiente, mentre il sistema distributivo appare fallimentare”: sono tinte fosche che l’autore non risparmia nella sua rievocazione; aggiungi il malcontento crescente soprattutto nel mondo agricolo, anche per l’inefficienza della “politica degli ammassi di grano, che grava in gran parte sui piccoli produttori”. E così anche gli scioperi degli operai causati – scrive Musumeci – da “ragioni di natura economica, determinate certo dai bombardamenti, ma esasperati da una serie di errori di valutazione commessi dalle autorità di governo (centrali e periferiche)”: l’apologetica è davvero lontana dalla teleologia del libro. Illuminante, in proposito, è lo “sciopero al cantiere navale di Palermo, del 7 febbraio del ’43” il quale “è il primo in Italia” e a cui “partecipano circa 1.300 operai ed è, dopo quello della Fiat, il più massiccio di tutta la stagione” (p. 65).

Nessun revisionismo: le efferatezze delle truppe hitleriane

Ho qualche conoscenza di lavori revisionisti, soprattutto di quelli composti nell’immediato dopoguerra: uno dei filoni più battuti é quello di svicolare dalle nefandezze di cui si macchiarono gli (ex) alleati tedeschi. Non sono poche, invece, le cronache della “Sicilia bombardata”, che riportano, senza veli, le efferatezze perpetrate dalle truppe hitleriane. Tra queste, l’autore si sofferma sulla “strage di Castiglione”, nel catanese, come rappresaglia su cittadini innocenti per un attacco subìto – caddero tre soldati tedeschi – del quale gli abitanti della città furono ritenuti responsabili: “prima di reclutare i civili per dare corso alla progettata ‘vendetta’ – scrive Musumeci – entrando in paese i tedeschi cominciano a sparare contro inermi cittadini che stanno sull’uscio di casa: è una strage! Sedici inermi castiglionesi rimangono uccisi all’istante, mentre una trentina di tedeschi avanza lungo l’abitato prelevando circa 200 ostaggi, che rinchiudono in un ovile. Solo la faticosa mediazione dell’arciprete e della madre superiora delle suore riesce a convincere l’ufficiale tedesco a recedere dal tragico proposito” che avrebbe aggiunto strage a strage (p. 108).

Al di là della terminologia – che va contestualizzata, sia nel periodo storico, sia nel glossario degli stessi documenti militari, persino odierni: “nemici, “invasori” e similia – i fatti riportati non omettono neppure “lo stato d’animo della maggioranza dei cittadini isolani, alla notizia dell’arrivo delle truppe angloamericane.

In molti centri abitati, il loro ingresso viene salutato con scene di esultanza, di gioia e persino di ovazioni” (p.115). Ora, non saprei se queste descrizioni siano il quadro o la cornice del libro; se tali “scene”, così dipinte, siano particolari o dettagli. Come spesso accade al critico d’arte, alcune interpretazioni si aggiungono, si intrecciano, innovano o si diversificano rispetto a quelle del creatore di un’opera. Musumeci – questo mi pare un dato neutrale – ha il merito di avere consegnato alla ricerca storica, uno studio che mancava, dotato di narrazione meticolosa dei bombardamenti alleati, città per città, talvolta paese per paese: è una cronaca non di semplice divulgazione, ma con dignità di historia, naturalmente limitata alla Sicilia; che tuttavia, con lo sbarco di 80 anni fa, recitò un ruolo di primo piano, come teatro di guerra europeo.

Orrori e stupri: pagine parallele col cinema neorealista

Il chronichon di Musumeci è verista, “spietato” nel riportare un vissuto popolare  – quello che toccò in sorte a tanta gente, ai suoi stessi genitori ai quali lo scritto è dedicato – di terrore e distruzione; e di privazioni, di fame, di ferite, di morte; di vita promiscua e assenza d’igiene negli improvvisati rifugi; di fughe, sfollamenti e arrangiatissimi “ospedali”; di animalità, di crudeltà, di “demoni” dostoevskjani con o senza divisa. Sono gli orrori della guerra; di tutte le guerre. Ognuna ha molto di comune con qualunque conflitto o reca un additivo aberrante che prima non c’era. Si fa notare, nelle pagine di Musumeci, un eterno ritorno di eventi e accadimenti che si ripetono; che abbiamo letto – vedasi il romanzo, che precede l’omonimo film,  “La Ciociara” (1957) di Alberto Moravia, (che fu nipote per parte di madre del segretario del Msi, Augusto de Marsanich) – e che, soprattutto, ci ha offerto, con straordinaria efficacia e pathos, il nostro cinema neorealista: le “immagini” mentali che sprigionano le pagine della “Sicilia bombardata” richiamano molto i fotogrammi che hanno caratterizzato e reso inimitabile il cinema italiano nel mondo. Lo storytelling di Musumeci é molto vicino alle immagini della “Ciociara” di Vittorio De Sica, interpretato da Sofia Loren o di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini con Anna Magnani. O anche all’emozione lancinante suscitata da pensieri e parole di Louis Ferdinand Celine nel suo “Viaggio al termine della notte: “Uno é vergine dell’Orrore, come lo é della voluttà…Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in una guerra, tutto quello che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini ? Adesso ero preso in questa fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo, verso il fuoco”: é lo stesso campionario di atrocità che ritrovate, tutte, nel reportage della “Sicilia bombardata”. E tra questi lo stupro delle donne: nel libro c’é molto del pugno nello stomaco che si riceve guardando le sequenze della violenza commessa dai soldati marocchini – i famigerati goumiers arruolati nell’esercito alleato francese – di cui è vittima Rosetta (Eleonora Brown) nella “Ciociara”. “Una pagina scomoda e perciò per troppo tempo rimasta all’oscuro, perché scritta da truppe aggregate alle Forze armate angloamericane” (p. 141), osserva Musumeci.

“Considerandole bottino di guerra i ‘marocchini’ – si legge nel libro – si sentono autorizzati a catturarle e, nel portarle via, si divertono a sghignazzare, apostrofandole volgarmente con un lessico triviale”. Numerosi stupri “vengono consumati soprattutto in casolari campestri” a danno di “donne scovate malgrado le precauzioni e la prudenza nel nascondersi”. Il fenomeno é così diffuso che, in alcuni casi, i responsabili vengono passati per le armi su ordine dei superiori, preoccupati per i possibili contraccolpi causati dal dilagare delle violenze. In altri, provvede la popolazione locale a farsi giustizia da sé, come a Capizzi, tra Messina ed Enna.

10 mila vittime delle bombe “alleate”: pagine agghiaccianti

Ma é soprattutto la contabilità delle vittime dei bombardamenti alleati e soprattutto la sua finalità che denuncia l’autore. Da Catania a Palermo, da Messina, a Trapani, ad Agrigento a Siracusa; fino ai 180 bombardieri che colpirono Marsala facendo 400 vittime in un solo giorno; laddove affiorano tra i primi cadaveri, “le mani di alcuni bambini, e ce ne erano tanti, del vicino asilo, abbracciati tra di loro, alcuni con un cucchiaino in mano ed altri che tenevano una mezza pagnotta, già freddi, con la paura impressa nei loro volti”: é una delle pagine più agghiaccianti del libro (p. 81). Ma non é certo l’unico caso: in realtà nessuna provincia siciliana venne risparmiata. Per arrivare a 10 mila vittime civili, ce ne sono voluti di ordigni. Morti scordati perché vittime dei “vincitori”. “Dimenticati” anche da parte delle comunità locali; non raramente anche dai parenti, dalle famiglie: la gente non vuole ricordare. Perché? “Una spiegazione la si può tentare – secondo Musumeci – dal punto di vista psicologico: la bomba che cade dal cielo è separata dal gesto che l’ha sganciata, il colpevole non si vede in faccia…il bombardamento diventa – per chi l’ha subito – una sorta di calamità” (p. 161). É così, con delle eccezioni: a Taormina le vittime dei bombardamenti alleati sono ricordate ogni anno con una cerimonia. Fu istituita, nel 1994, da Mario Bolognari, noto antropologo, sindaco di sinistra, che fece apporre pure una lapide commemorativa il 9 luglio del 1995, in occasione del 53^ anniversario della strage in cui morirono 93 persone in un solo giorno: erano in buona parte donne e bambini. Da allora, la rievocazione nella capitale del turismo siciliano, si fa ogni anno, insieme alla festa di San Pancrazio, patrono della città, indifferente alla composizione delle amministrazioni: una positiva singolarità. Quanto alla spiegazione dell’oblio diffuso, il meccanismo psicologico individuato dall’autore in chi ha subìto, non é lontano dalla realtà. Ma, gli fa da parallelo il paradigma mentale di chi colpisce. “La nuova conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva” e quindi “rendeva invisibili le sue vittime”, ha scritto Eric J. Hosbwam, uno dei più grandi storici del Novecento, nel suo “Il Secolo breve” (Rizzoli, Milano, 1997). Laggiù “al suolo sotto i bombardieri, non c’erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate, ma obiettivi”. pPertanto, si poteva “assai più facilmente sganciare tonnellate di esplosivo su Londra o su Berlino, o bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima”. Così, secondo lo studioso, di formazione marxista, le “più grandi crudeltà del nostro secolo sono state le crudeltà impersonali delle decisioni prese da lontano, nella routine del sistema operativo, soprattutto quando potevano essere giustificate come necessità operative sia pure incresciose”.

La questione dei crimini di guerra

Il che dà una risposta indiretta anche al quesito di Musumeci sull’”utilità” della “carneficina della popolazione siciliana”: la si può integrare con la risposta negativa che lo stesso Musumeci si dà, pur confermando “la tesi che tedeschi e angloamericani si sono ugualmente resi colpevoli di crimini contro la popolazione”.

É giusto definire “crimini” questi episodi e la loro “strategia”? Certamente sì, sul piano morale. Sul piano giuridico, non sarebbe stato possibile qualificare “crimini di guerra”, né “crimini contro l’umanità”, la “species” dei bombardamenti di cui, peraltro, anche l’Italia si rese responsabile (vedasi le “bombe” al gas lanciate dai nostra Aviazione in Africa; o quelle gettate su Tel Aviv e su altre città della Palestina). La questione si é posta, senza alcun esito concreto, persino in ordine agli “effetti collaterali” – così furono definiti le morti di numerosi civili provocati, insieme a uno scenario esteso di distruzione – dai “bombardamenti umanitari” portati a termine dalla Nato per costringere Slobodan Milošević a ritirarsi dal Kosovo; operazioni a cui partecipò nel 1999 l’Italia allora guidata da Massimo D’Alema.

Comunque, era e resta impensabile, che tali atti potessero essere qualificati “crimini”, da corti e tribunali delle potenze vincitrici: il che dà fondamento all’esergo del libro – una citazione di Arrigo Petacco –  “quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano storia!”.

Musumeci toglie il velo all’historically correct

Certo, la materia agitata da Musumeci, al di là del suo raggio d’azione, é incandescente e complessa; difficile però concludere, per la maggior parte dei casi, che gli autori dei “crimini” siano stati dei “criminali”: é un apparente ma realistico e significativo paradosso.  “La Sicilia bombardata”, negli anni 1940-43, lo fu con particolare veemenza non solo nelle strutture militari ma anche nei centri abitati – una delle questioni che l’indagine fa emergere – per “colpire e fiaccare il morale dei siciliani” e indurla a collaborare con gli occupanti, come sostiene Musumeci? Assolutamente sì. L’Isola fece le spese di una tecnica ordinaria, adottata quasi sempre dagli “occupanti”, ovunque; è sempre così: in tutte le guerre.

Ma Musumeci ha il merito di avere tolto il velo – molto politically correct, si potrebbe dire anche historically correct – che impediva di sapere e di conoscere la verità “integrale” su quanto accaduto in Sicilia 80 anni fa, ad opera degli alleati. Si potrebbe però anche affermare  – lo si deve – che i “crimini” perpetrati ai danni dei siciliani non sono dissimili da quelli di cui la storiografia accusa gli italiani nelle terre del proprio “Impero” soprattutto con i gas asfissianti: “…a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra.” (Hailè Selassiè alla Società delle Nazioni, il 30 giugno 1936); per vincere in Etiopia si richiedeva, secondo il generale Rodolfo Graziani, la necessità di “distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi… lo scopo si può raggiungere con l’impiego di tutti i mezzi di distruzione dell’aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti” (Del Boca). Come si vede, le modalità di occupazione si legano con una orribile reciprocità. Resta la necessità di dare una risposta al perché Musumeci abbia dato alle stampe questo libro. Ci provo.

Le ragioni dell’autore: il raffronto con le foibe

L’autore della “Sicilia bombardata”, pur nei panni di studioso, resta un politico.  E da politico é stato “mosso” , a mio parere, da tre motivazioni. La prima é quella di partecipare alla costruzione di una memoria e anche di una storia condivisa; rischiando di persona. Lo fa sul terreno che ben conosce che è la “sua” Isola. Sotto questo profilo, la “riscrittura” – io direi meglio, la rilettura – degli avvenimenti di quegli anni sono una pagina di verità storica che si aggiunge a quella negata delle foibe. Con una differenza: le foibe “nascondevano” corpi e ricordi negli abissi, metafora dei precipizi in cui fu gettata insieme ai corpi dei “nemici” e di innocenti, l’umanità dei colpevoli di tanto abietti delitti di massa; lì pochi “sapevano” e pochissimi “parlavano”; la “spietatezza” dei bombardamenti in Sicilia, non era nota nei dettagli – le diecimila vittime civili, fino allo studio di Musumeci non era dato di comune memoria storica, a parte di rapsodici e frammentati resoconti – ma era un vissuto di milioni di siciliani.

Quasi “al termine” – ma non credeteci – di un significativo percorso di vita pubblica, Musumeci ha scelto di consegnare col suo racconto storico un bene immateriale alla sua terra e alla comunità nazionale nella speranza che possa essere più durevole delle proprio “opus” politico; il quale é, per ciò – vale per tutti i politici – sempre transeunte, specie nel ricordo del popolo. É un tentativo di “lasciare” un quid di proprio: forse di consegnare se stesso oltre le frontiere della vicenda politica. La seconda coincide, per così dire, con lo “sguardo del Gattopardo”: Musumeci è stato governatore e resta uomo pubblico attaccato – per alcuni in modo eccessivo – alla propria terra. Nella ricerca c’è molta sentimentalità verso la sua gente; c’è “compassione” – nel suo etimo di soffrire insieme – ai “suoi” siciliani, alla propria comunità di cui fanno parte i vivi e anche i morti. Ma con la pre-comprensione – propria della cultura di destra – dei “limiti” umani del popolo: in particolare del “suo” popolo.

Lo “sguardo del Gattopardo” sui “liberatori”

Ci sono parole del libro – a proposito dell’arrivo dei “liberatori” – vicine al famoso colloquio del Principe di Salina con Aimone Chevalley di Monterzuolo, nel romanzo impareggiabile di Tomasi di Lampedusa. Quel “Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi…da duemilacinquecento anni siamo colonia” ha assonanza con la scrittura amara di Musumeci – citazione di un letterato locale – che sono “giorni in cui in molti intellettuali prevale un senso di smarrimento e di vergogna”: c’è tanta amarezza per un “popolo ritenuto incapace di avere una coscienza nazionale e che obbedisce solo alla logica della contingenza: “a chi mi dà pane gli dico padre”». (p. 117). È l’originale “resistenza”, tutta sicula, alle dominazioni straniere, alle stratificazioni culturali che hanno forgiato questo “carattere” collettivo e che il ministro-studioso ben conosce. E col quale, come tutti i politici che aspirano a intestarsi una “missione”, ha dovuto fare i conti; talvolta facendone le spese.

La verità condivisa e la contestazione” delle mezze verità

La terza – forse l’impulso più forte – è la “reazione” a una verità non vera, o non del tutto vera; carente, incompleta, molto parziale. Qui desidero fare una riflessione che forse dà il senso anche metastorico del libro: nel dopoguerra, nell’analizzare il percorso della seconda o terza generazione della destra italiana, specie a sinistra, si é fatta confusione tra il nostalgismo e la volontà – davvero genuina, quasi sempre – di ribellione a una storia conformista che tutti sapevano non fosse il reale accaduto: è la “rivolta in se”, l’essere “anti”, quella forma originale di “contestazione” del conformismo delle verità uniformi; non verificate o non veridiche – eppure esposte come tavole obbligatorie per tutti – che quella “leva” della “rive droite” rifiutava; non era l’idea di un impossibile ritorno al mussolinismo e nemmeno l’obiettivo di nasconderne gli orrori. Una  generazione politica che, negli anni, ha imparato e trasmesso saperi e tecniche a quelle successive; ha affinato e fatto affinare il lessico e le metodologie intellettuali; ha letto, analizzato, scritto alla pari con l’”adversam partem”: il libro di Musumeci é figlio di questa contro-cultura, espressione di quella civile ribellione a una storia imposta e accettata; ma che tutti sapevano essere macchiata da lacune, da omissioni, da mezze verità; a una veritas conformista, in definitiva. L’indicibile segreto delle foibe, conservato per mezzo secolo, é una lezione esemplare e orrenda; oggi è patrimonio del ricordo comune: é una lectio che può servire a fare accogliere con spirito critico, se si vuole, ma con la massima considerazione lo sforzo di Musumeci e la sua costruttiva ispirazione, oltre le tradizionali pietre di confine. “La verità resiste in quanto tale se non la si tormenta”, fa dire Frederich Dürrenmat  a Tiresia, nella sua “Morte della Pizia”. Ecco.

Il libro nero degli italiani nei gulag: il vero volto del comunismo di cui non si parla volentieri. Vittoria Belmonte il 18 agosto 2023 su Il Secolo d'Italia. 

Quanti sono gli italiani periti nei gulag in Unione sovietica? Una domanda che nessuno si pone più oggi, visto che la tendenza dominante è quella di rintracciare i fantasmi del fascismo (finito nel 1945). Salvo qualche voce isolata, come quella di Ernesto Galli della Loggia pochi giorni fa sul Corriere, a nessuno pare conveniente attardarsi sui danni del comunismo, sui suoi “errori ed orrori”, come direbbe qualcuno…

Galli della Loggia e la censura della parola “comunista”

Anzi, l’annotazione di Galli della Loggia sulla censura dell’aggettivo comunista accostato a qualche nefandezza (tipo i delitti delle Br) ha dato così fastidio che ancora ieri si leggevano repliche piccate, tipo quella apparsa sul Fatto nella quale si rivendicava al Pci di avere fatto i conti con i terroristi di casa propria mentre nel Msi ciò non sarebbe accaduto. Sorvolando, ad esempio, sulla richiesta di Almirante della pena di morte per i terroristi sia neri che rossi.

I conti col passato li fanno gli storici

Ma lasciamo la parola ai ricercatori e agli storici che hanno ancora la voglia e il coraggio di andare controcorrente e di svelare pagine oscurate sul comunismo e le sue vittime: ora abbiamo a disposizione uno studio approfondito e documentato sugli italiani nei gulag, (Il libro nero degli italiani nei gulag, Leg edizioni, pp. 573, euro 24) curato da Francesco Bigazzi e che raccoglie scritti di Dario Fertilio, Ugo Intini, Aldo G.Ricci, Elena Parkhomenko, Stefano Mensurati, Giovanni Di Girolamo, padre Fiorenzo Reati, Anatoli Razumov.

Le cifre di un orrore rimosso

Il numero delle vittime non è ancora definito in modo incontrovertibile ma alcune cifre sono certe: 822  comunisti e anarchici emigrati in Russia, 78 incarcerati durante le purghe staliniane, 1200-1500 deportati nel 1942 nei gulag del Kazakistan tra gli italiani di Crimea. E infine c’è il tragico capitolo dei circa 64mila prigionieri di guerra del Csir e dell’Armir, 40mila dei quali morti nei gulag.

Togliatti e le reticenze del Pci

Dati alla mano – sottolinea – Bigazzi – “possiamo dimostrare che le condanne a morte di antifascisti furono ben più numerose in Unione sovietica sotto Stalin che non in Italia sotto Mussolini“. Ci sono poi le responsabilità del Pci e di Palmiro Togliatti nel silenziare il dramma degli italiani inghiottiti nell’Arcipelago Gulag. Se ne occupa, nel libro, Ugo Intini che con l’Avanti promosse contro lo storico segretario comunista una campagna di verità che risale al 1988.  L’idea del nostro giornale – ha raccontato Intini nel 2012 – “nacque sulla scia della Perestroika avviata da Gorbaciov e la conseguente apertura degli archivi. Da quegli archivi saltarono fuori delle carte che riabilitarono la figura di Nikolaj Bucharin, condannato a morte nel ’38 da un tribunale staliniano con un coinvolgimento diretto del leader del Pci”.

Il dramma degli italiani di Crimea

Particolarmente crudele, infine, il dramma dei circa 2000 italiani della comunità di Kerc che a partire dal 1921 e fino alla fine degli anni Cinquanta vennero repressi perché sospettati di sabotare la rivoluzione in quanto stranieri. Un calvario che nel libro viene descritto da Stefano Mensurati ricorrendo a numerose testimonianze inedite.

In una fase politica in cui si parla molto, in termini di propaganda, di fare i conti con la propria storia, i saggi raccolti nel Libro nero degli italiani nei gulag aiutano  a capire quanta ipocrisia vi sia da parte della famiglia politica della sinistra che ha perennemente il dito puntato contro il nemico. Sono saggi che fanno ben capire, infatti, il ruolo attivo del gruppo togliattiano nel terrore staliniano e denunciano – osserva infine Bigazzi – i tentativi della dirigenza del Pci di continuare a coprire i misfatti di Stalin fino al crollo dell’Urss e la messa al bando del Pcus. Un atteggiamento oscurantista che, salvo alcune eccezioni, influenza la stragrande maggioranza degli eredi del Pci”.

Giacomo Matteotti.

Il destino del riformismo italiano. Matteotti, un uomo solo: un riformista inviso a destra e a sinistra. Riccardo Nencini Il Riformista il 9 Giugno 2023 

All’eroe, al martire, preferisco l’uomo. L’uomo di faccia a una scelta, l’uomo di fronte al destino di uomo. L’uomo che corre dove cova l’incendio per non abbandonare alla sorte i diseredati della sua terra, la provincia più povera d’Italia, la provincia dove il bracciante viene chiamato ‘instrumento vile’, meglio la vacca. L’uomo che, quasi alla cieca, combatte per la sua verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e, da lì, si sposta in ogni regione d’Italia per mettere in guardia dallo squadrismo agrario che ha ormai i connotati di squadra fascista.

Nel gennaio del 1921, dopo la prima interrogazione su omicidi e bastonature presentata a Montecitorio, viene rapito, seviziato e bandito da una squadraccia. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. L’uomo che crede profondamente in un’idea, a tal punto da mettere a rischio la vita. L’uomo che ama un’unica donna fin dal primo incontro all’Abetone, in Toscana, e affida alle lettere sentimenti e passioni perché da anni è un bastardo, un esule inseguito, braccato. L’uomo che abbraccia la vita proprio andando incontro alla morte perché se no non è vita, è rinuncia. L’uomo che lotta contro il ‘mussolinismo’ prima ancora che contro il fascismo, che capisce che Il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola e media borghesia privandola di risparmi e soprattutto del ruolo sociale che aveva prima della Grande Guerra.

L’antibolscevico che non crede nell’illusione della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia del Parlamento e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. L’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e a sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che nel pantheon della sinistra comunista non ha mai trovato diritto di cittadinanza.

Quando il cadavere di Giacomo viene scoperto, l’attacco più duro verrà proprio da Antonio Gramsci. Scriverà: “È morto il pellegrino del nulla” che nella vita politica ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, anzi: un socialfascista, l’epiteto usato contro Turati, contro Treves, contro Matteotti, contro i dirigenti riformisti della Cgl, a partire da Buozzi, dai vertici comunisti italiani. Giorni dopo, il comitato centrale del Pcd’I approva all’unanimità un documento che si conclude con una frase di fuoco: i nemici del proletariato sono Mussolini, Sturzo, Turati e Amendola. Tutti incredibilmente allo stesso livello. Perché? Perché i comunisti ritenevano, confidando nella linearità della storia e nella veridicità del marxismo, che il capitalismo fosse in crisi e dietro l’angolo vi fosse la rivoluzione imminente il cui sbocco finale era lo stato comunista. Dunque, chi immaginava accordi parlamentari allo scopo di defenestrare Il Duce altro non era che un traditore della classe operaia. I fatti smentiranno quell’analisi e obbligheranno Gramsci, dal carcere, a fare autocritica.

Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile opposizione politica al Duce e al fascismo e perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per avere raccolto le prove di una tangente di 30 milioni pagata dalla Sinclair Oil ad alti membri delle istituzioni oltre che ad Arnaldo, il fratello del capo. Ne avrebbe parlato alla Camera l’11 giugno 1924. Venne rapito e ucciso il giorno prima.

Un uomo solo, non un eroe lontano dal tempo. Un eretico, una voce fuori dal coro. Sarà per questo che non fu tanto amato, sarà per questo che lo ricordiamo. Riccardo Nencini

L'assassinio del socialista. L’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, il leader socialista ucciso da fascisti. Milizie armate ai seggi per impedire il voto, schede taroccate, minacce e violenze. Il 30 maggio ‘24 il leader del Psi denuncia in Aula il voto farsa. Ecco il discorso che lo portò alla morte per ordine del Duce. Redazione su L'Unità l'11 Giugno 2023

Il 30 maggio del 1924 Giacomo Matteotti, leader socialista, prese la parola nell’aula di Montecitorio e pronunciò un durissimo discorso di condanna del fascismo. Questo discorso gli costò la vita. Dieci giorni più tardi fu rapito accoltellato e ucciso da una squadraccia mandata da Mussolini. Pubblichiamo ampi stralci di quel formidabile discorso. Il presidente della Camera era il giurista Alfredo Rocco, che l’anno successivo diventò ministro della Giustizia.

Presidente.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.

Giacomo Matteotti.

Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… (Interruzioni).

Voci al centro: “Ed anche più!”

cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti – Proteste – Interruzioni alla destra e al centro) L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza, Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso.

Una voce a destra:

“E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?”

Roberto Farinacci.

Potevate fare la rivoluzione!

Maurizio Maraviglia.

Sarebbero stati due milioni di eroi!

Giacomo Matteotti.

A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata… (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di “Viva la milizia”)

Voci a destra: “Vi scotta la milizia!”

Giacomo Matteotti.

… esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra, rumori prolungati)

Voci: “Basta! Basta!”

Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.

Giacomo Matteotti.

Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. In aggiunta e in particolare… (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero… (Interruzioni, rumori)

Roberto Farinacci.

Erano i balilla!

Giacomo Matteotti.

È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori a destra e al centro)

Voce al centro: “Hanno votato i disertori per voi!”

Enrico Gonzales.

Spirito denaturato e rettificato!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali. (Interruzioni)

Paolo Greco.

Voi non rispettate la maggioranza e non avete diritto di essere rispettati.

Giacomo Matteotti.

La presentazione delle liste – dicevo – deve avvenire in ogni circoscrizione mediante un documento notarile a cui vanno apposte dalle trecento alle cinquecento firme. Ebbene, onorevoli colleghi, in sei circoscrizioni su quindici le operazioni notarili che si compiono privatamente nello studio di un notaio, fuori della vista pubblica e di quelle che voi chiamate “provocazioni”, sono state impedite con violenza. (Rumori vivissimi)

Voci dalla destra: “Non è vero, non è vero.”

Giacomo Matteotti.

Volete i singoli fatti? Eccoli: ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata… (Rumori)

Maurizio Maraviglia.

Non è vero. Lo inventa lei in questo momento.

Roberto Farinacci.

Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!

Giacomo Matteotti.

Fareste il vostro mestiere! A Melfi… A Genova (Rumori vivissimi) i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati

Voci: “Perché erano falsi.”

Giacomo Matteotti.

Se erano falsi, dovevate denunciarli ai magistrati!

Roberto Farinacci.

Perché non ha fatto i reclami alla Giunta delle elezioni?

Giacomo Matteotti.

Ci sono. Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumori. I fatti o sono veri o li dimostrate falsi. Non c’è offesa, non c’è ingiuria per nessuno in ciò che dico: c’è una descrizione di fatti.

Attilio Teruzzi.

Che non esistono!

Giacomo Matteotti.

Da parte degli onorevoli componenti della Giunta delle elezioni si protesta che alcuni di questi fatti non sono dedotti o documentati presso la Giunta delle elezioni. Ma voi sapete benissimo come una situazione e un regime di violenza non solo determinino i fatti stessi, ma impediscano spesse volte la denuncia e il reclamo formale. Voi sapete che persone, le quali hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto, sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso. Già nelle elezioni del 1921, quando ottenni da questa Camera l’annullamento per violenze di una prima elezione fascista, molti di coloro che attestarono i fatti davanti alla Giunta delle elezioni, furono chiamati alla sede fascista, furono loro mostrate le copie degli atti esistenti presso la Giunta delle elezioni illecitamente comunicate, facendo ad essi un vero e proprio processo privato perché avevano attestato il vero o firmato i documenti! In seguito al processo fascista essi furono boicottati dal lavoro o percossi. (Rumori, interruzioni)

Voci: a destra: “Lo provi.”

Giacomo Matteotti.

La stessa Giunta delle elezioni ricevette allora le prove del fatto. Ed è per questo, onorevoli colleghi, che noi spesso siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione. (Applausi all’estrema sinistra) In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.

Una voce al banco della giunta: “Dove furono impedite?”

Giacomo Matteotti.

A Melfi, a Iglesias, in Puglia… devo ripetere? Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile. Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona. (Interruzioni, rumori) Volete i fatti? La Camera ricorderà l’incidente occorso al collega Gonzales. L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)

Enrico Gonzales.

I fatti non sono improvvisati!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’onorevole Amendola, e che fu impedita… Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che “qualcuno di noi ha provocato” e come “in seguito a provocazioni” i fascisti “dovettero” legittimamente ritorcere l’offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)

Un’altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l’unica garanzia possibile, l’ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l’unico controllo, l’unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e l’onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall’opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c’è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni…

Una voce, a destra: “Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti!”

Giacomo Matteotti.

Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l’Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all’ordine del giorno dal Presidente del Consiglio per l’atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la “regola del tre”. Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente.

Voci: “No! No!”

Giacomo Matteotti.

Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio. (Vivi rumori interruzioni)

Presidente.

Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda!

Giacomo Matteotti.

Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l’oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all’estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera) Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno… (Rumori) per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza.

Voci a destra: “Accettiamo” (Vivi applausi a destra e al centro)

Giacomo Matteotti.

[…] Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra – Vivi rumori) Redazione - 11 Giugno 2023

99 anni il delitto. Cosa c’era davvero dietro il discorso di Matteotti che gli costò la vita. Dieci giorni prima di essere rapito e ucciso, il deputato e segretario del Partito socialista unitario aveva pronunciato alla Camera un discorso durissimo per denunciare irregolarità e violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile. David Romoli su L'Unità il 10 Giugno 2023 

Lo chiamavano “Tempesta” per il carattere focoso e indomabile. Quando fu rapito e ucciso, il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti aveva 39 anni ed era segretario del Partito socialista unificato, l’ala più moderata del Psi, quella che faceva capo a Filippo Turati, espulsa dal Partito socialista nell’ottobre del 1922. Dieci giorni prima aveva pronunciato alla Camera un discorso fiammeggiante, nel quale denunciava le irregolarità e le violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile 1924, le ultime prima che fosse instaurata la dittatura.

Era stato un atto d’accusa clamoroso che aveva suscitato massima ira tra i fascisti: nei resoconti parlamentari si contano più o meno 60 interruzioni, sempre più minacciose. Matteotti aveva lasciato la sua abitazione vicino a Lungotevere Arnaldo da Brescia nel pomeriggio, forse diretto verso la Camera, forse verso il fiume allora balneabile. Fu preso e caricato su una Lancia Lambda presa a nolo alle 16.30, sul lungotevere. Si difese, scalciò, ruppe con un calcio il vetro che divideva i sedili posteriori da quelli anteriori, riuscì a lanciare dal finestrino il tesserino di parlamentare. Fu accoltellato a morte nella colluttazione.

Uccidere il leader socialista non era nei progetti dei rapitori: non avevano usato alcuna prudenza, si erano fatti notare sulla stessa auto mentre preparavano il sequestro nei giorni precedenti, dopo il rapimento proseguirono col clacson premuto a tavoletta. Non avevano neppure gli strumenti necessari per seppellire il cadavere: dovettero scavare la fossa con il crick. I fascisti coinvolti nell’azione facevano parte di quella che si definiva “Ceka”, come la polizia segreta bolscevica in Russia. Nome pomposo e inadeguato: in realtà si trattava di gruppi di picchiatori e squadristi, quasi tutti ex arditi, senza una vera struttura, violenti ma dilettanteschi e indisciplinati. Quando il parlamentare rapito si difese misero mano al pugnale come erano abituati a fare sin dalla guerra.

Quanti fossero i “cekisti” coinvolti nell’azione non è mai stato accertato. Di sicuro c’erano Amerigo Dùmini, capo della squadra, 30 anni. E con lui Albino Volpi, squadrista particolarmente feroce, probabilmente l’accoltellatore, poi Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria alla guida. Quando si ritrovarono con il cadavere in macchina senza averlo preventivato si limitarono a girare per qualche ora aspettando il buio per poi seppellirlo in una radura vicino Sacrofano, in una fossa scavata con mezzi di fortuna destinata a essere scoperta solo mesi dopo, il 16 agosto.

Gli assassini tornarono a Roma intorno alle 22.30 e Dùmini si recò al Viminale con la stessa macchina nella quale era stato appena ucciso Matteotti. I referenti dei sedicenti “cekisti” erano pezzi grossissimi: Cesare Rossi, capo ufficio stampa di palazzo Chigi e uomo di fiducia di Mussolini, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, ma anche, meno direttamente coinvolti, Aldo Finzi, sottosegretario e ministro vicario degli Interni, di cui era titolare lo stesso Mussolini, destinato a essere fucilato vent’anni dopo alle Fosse Ardeatine, e il capo della polizia, l’ex quadrumviro Emilio De Bono. A procurare la macchina era stato Filippo Filippelli, direttore di un giornale di recente fondazione e affarista senza scrupoli.

Dùmini e Filippelli, nel cuore della notte del 10 giugno, nascosero la macchina in un garage, progettando di ripulirla e cancellare le tracce nei giorni seguenti. Non ne ebbero il tempo. La Lancia era stata notata mentre sorvegliava la casa di Matteotti nei giorni precedenti l’assassinio, il portiere di uno stabile aveva preso il numero della targa sospettando la preparazione di un furto. Il capo della Ceka fu arrestato il 12 giugno, due giorni dopo l’attentato, in partenza per Milano con nella valigia i pantaloni della vittima tagliati a pezzi e le parti della tappezzeria della Lancia macchiate di sangue. Nei giorni seguenti furono arrestati anche gli altri componenti della squadraccia.

Perché fu decisa l’azione punitiva nei confronti di Matteotti, sfociata poi nell’omicidio? Il deputato socialista aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni ma certamente non ci sperava neppure lui. Il 6 aprile si era votato, per la prima e ultima volta, con la legge Acerbo, approvata dal Parlamento l’anno precedente: garantiva un premio di maggioranza sproporzionato, due terzi dei seggi, a chi avesse superato il 25% dei consensi. Il listone nazionale di cui il Pnf era asse portante ottenne il 60,9% e altri seggi furono conquistati grazie a una lista civetta. Nel complesso, anche senza il premio, il listone sarebbe arrivato intorno ai due terzi dei seggi.

Le elezioni si erano effettivamente svolte in un clima minaccioso e violento che aveva sicuramente condizionato il voto, ma non c’è dubbio sul fatto che i fascisti avrebbero comunque vinto nettamente. Il rischio di una invalidazione delle elezioni era inesistente. Matteotti si accingeva a pronunciare un secondo discorso, denunciando la corruzione di alcuni elementi del governo: una storia di tangenti pagati dalla società americana Sinclair per assicurarsi le ricerche petrolifere in Italia. Alcuni storici ritengono che il vero motivo dell’omicidio sia questo ma è un’ipotesi poco convincente, sia per le dimensioni relativamente limitate dell’affare sia perché era un segreto noto già a molti.

Senza contare che, se l’obiettivo fosse stato eliminare l’uomo politico per impedirgli di denunciare il giro di tangenti, l’azione sarebbe stata meno sgangherata e improvvisata. Matteotti decise l’attacco frontale, consapevole dei rischi che ciò comportava, con l’intento di frenare quella che per lui era la deriva più pericolosa, la seduzione delle aree moderate, politiche e sociali, da parte del fascismo. Mirava probabilmente a contrastare proprio l’obiettivo che perseguiva Mussolini in quella fase. L’antifascismo del leader socialista era in un certo senso diverso dall’antifascismo maturato negli anni della dittatura, poi delle leggi razziali e della guerra.

Tutto questo, nel 1924, era di là da venire. Lo Stato liberale esisteva ancora, la sua occupazione da parte del fascismo era appena agli inizi. L’antifascismo di Giacomo Matteotti era quello di chi, prima della dittatura, aveva individuato l’uovo del serpente e prevedeva i tragici sviluppi a venire con una lucidità di cui difettavano anche grandissimi intellettuali come Benedetto Croce. Per impedire la conquista dei moderati da parte del fascismo Matteotti si era esposto così tanto. Per lo stesso motivo, rovesciato, il delitto costituì per Mussolini un problema enorme. La reazione popolare fu imprevista e altissima.

Nonostante nel Paese i morti si fossero contati a decine e centinaia negli anni dello squadrismo all’attacco, l’uccisione di un parlamentare dell’opposizione fu uno shock per gli italiani. La popolarità del fascismo precipitò, la campagna di stampa fu martellante e l’eco del delitto all’estero enorme. Per un momento sembrò che il fascismo fosse destinato a crollare. Era davvero così? Fu davvero un’ultima occasione, sprecata, per evitare la dittatura? Probabilmente no. L’indignazione popolare era reale e diffusa ma priva di sbocco politico.

Il 13 giugno Mussolini parlò alla Camera, negò ogni responsabilità, promise di fare giustizia. Subito dopo il presidente Rocco sospese i lavori sino a novembre. I partiti d’opposizione, nella stessa giornata, annunciarono la decisione di abbandonare l’aula. La scelta, definita poi “Aventino”, sarebbe stata confermata due settimane dopo quando i partiti d’opposizione annunciarono la decisione di non partecipare più ai lavori della Camera sino a che non fosse stata ripristinata la legalità e sciolta la Milizia fascista. Nella stessa giornata ci fu anche il solo sciopero generale dell’intera crisi: per soli 10 minuti.

La strategia dell’opposizione fu certamente inadeguata, debole e insufficiente, ma in ogni caso difficilmente la crisi avrebbe potuto concludersi con l’abbattimento del regime in formazione. Un tentativo di insurrezione sarebbe stato senza dubbio stroncato nel sangue e avrebbe legato ancor di più i moderati al fascismo. Per rovesciare il fascismo in Parlamento sarebbe stato necessario che tutti i non fascisti eletti nel listone e anche alcuni esponenti del fascismo più moderato si schierassero contro Mussolini, cosa che si verificò solo in minima parte. La caduta di Mussolini poteva essere provocata solo da un intervento imperioso e diretto del re. Gli aventiniani ci speravano, ma era una speranza del tutto vana e infondata.

Mussolini, del resto, reagì con l’abilità politica che gli aveva già fruttato l’ingresso a palazzo Chigi nel 1922. Mise subito alla porta Marinelli e Rossi. Quest’ultimo e Filippelli furono poi arrestati. Il capo del fascismo impose le dimissioni di Finzi agli Interni e abbandonò lui stesso il ministero lasciando il posto a Federzoni, nazionalista approdato al fascismo solo di recente, e operò un rimpasto di governo facendo entrare quattro esponenti della destra liberale o conservatrici ma non fascista. Mussolini contava soprattutto sul tempo, convinto che la tensione si sarebbe abbassata col passare dei mesi e vinse la scommessa.

Nel corso dell’estate non successe nulla e già questo fu un successo per il governo. Priva di prospettive politiche l’indignazione popolare, si attenuò, si riaccese per un attimo dopo il ritrovamento del cadavere del leader assassinato a metà agosto, poi si spense. Quando la Camera riaprì, il 12 novembre, Giolitti passò all’opposizione e si formò così un’opposizione non aventiniana alla quale si aggiunsero poi i comunisti, che abbandonarono l’Aventino per rientrare in aula. Gli altri partiti scelsero però di proseguire nella strategia aventiniana e anche la remota possibilità di dar corpo a una opposizione in aula che avrebbe potuto attrarre una parte dei deputati fascisti più moderati si perse così. Il vento era cambiato, Mussolini era uscito indenne dal momento più critico, neppure la pubblicazione dei memoriali dal carcere di Rossi e Filippelli, che lo chiamavano direttamente in causa, lo mise davvero in difficoltà.

A premere, ora, erano i duri del fascismo. Il 31 dicembre, 33 comandanti della Milizia si recarono a palazzo Chigi chiedendo di passare alla controffensiva cosa che peraltro Mussolini aveva già deciso di fare. Il 3 gennaio, in aula, Mussolini passò all’attacco: “Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione”. Quello storico discorso, nel quale il duce rivendicava tutto l’operato del fascismo, chiuse la crisi seguita al delitto Matteotti e spalancò le porte alla dittatura, che sarebbe stata formalizzata tra il 1925 e il 1926 con le leggi fascistissime.

I responsabili del delitto furono processati a Chieti, nel marzo 1926, per omicidio preterintenzionale. I mandanti furono tutti assolti e così Malacria e Viola. Dùmini, Volpi e Provenzano furono condannati a 5 anni e 11 mesi ma a tutti e tre furono subito condonati 4 anni per amnistia. Dùmini fu processato di nuovo nel 1947 e condannato all’ergastolo, commutato in una pena di trent’anni per l’amnistia Togliatti. Fu scarcerato nel 1953 per l’amnistia Pella e graziato nel 1956. Subito dopo la grazia si iscrisse al Movimento Sociale Italiano. David Romoli il 10 Giugno 2023

Matteotti riformista del futuro. Pubblicato martedì, 02 aprile 2019 da Corriere.it. Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere». A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti. Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17) Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando. Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione.  Giacomo Matteotti (1855-1924) È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce. Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica. Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento. Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali. Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità. Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli. Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.

Il racconto del segretario del partito socialista. Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte. Corrado Ocone su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo. Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza. Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui. Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano. Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti. Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto. Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale. Corrado Ocone

Complotti per il Potere. Mussolini, lo storico Petacco sul blog di Grillo: "Non fece uccidere Matteotti, fu un complotto contro Benito", scrive “Libero Quotidiano”. "Mussolini è estraneo al delitto Matteotti": a novant'anni dal delitto dello statista socialista, lo storico Arrigo Petacco, sul blog di Beppe Grillo, lancia nuove teorie sull'omicidio avvenuto nel 1924, che portò alla famosa "secessione sull'Aventino" e di cui Mussolini si professò responsabile il 3 gennaio dell'anno successivo, con un famoso discorso in Parlamento. La ricostruzione dei fatti - "Il fatto è questo", spiega Petacco: "Quel 10 giugno, Matteotti passeggia sul lungo Tevere, e all'improvviso arriva una macchina, una Lancia con tanto di targa che il portiere si affretta anche a registrare. Scendono giù 4 manigoldi, squadristi e lo caricano in macchina, non gli sparano, non lo ammazzano, lo caricano in macchina. Evidentemente è solo un rapimento, solo che durante il tragitto in macchina, il Matteotti cacciato addirittura a forza sotto il seggiolino posteriore della macchina, scalcia: era un uomo forte robusto e coraggioso, scalcia, smadonna, addirittura morde i polpacci di quelli che gli stanno seduti sopra, e alla fine uno dei quattro, con una mano, trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide". Questa la ricostruzione del delitto: e Mussolini? "Il Duce, in quel periodo, voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti". Alla fine furono proprio loro ad impedire l'apertura di Mussolini ai socialisti: "Lui fu, casomai, vittima di uno scontro tra la destra estremista fascista e la sinistra estremista sociale comunista, che volevano impedire a Mussolini di creare un governo moderato, perché Mussolini in quei giorni sognava ancora di avvicinare i socialisti moderati e fare un partito con loro". E quindi, secondo Petacco, "questo cadavere servì moltissimo alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che volevano impedire a Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura. Quindi Mussolini fu spinto a destra da chi voleva impedirgli il suo avvicinamento ai socialisti, e la situazione fu tale che, ad un certo punto, lui stesso fu costretto a proclamare la dittatura il 3 gennaio del 1925. Visto che non riusciva più a liberarsi di questa colpa, fece un discorso alla camera in cui disse che se i fascisti erano una massa di delinquenti, lui era il comandante di questa banda criminale". Sono almeno tre, secondo Petacco, le ipotesi sul movente dell'omicidio. "Matteotti venne ucciso perché si apprestava a rendere di pubblico dominio intrighi e traffici sporchi di autorevoli personaggi del governo, coperti da potenti coalizioni finanziarie. Oppure Matteotti venne ucciso perché era uno dei principali esponenti del partito socialista, al quale Mussolini meditava di rivolgersi affinché non impedisse la formazione di un nuovo governo basato sulla più stretta collaborazione con la Confederazione generale del lavoro e con le masse operaie. L’ultima per il coraggioso discorso in Parlamento, in cui accusava il fascismo di aver manipolato i risultati elettorali". Insomma, "Mussolini fu coinvolto involontariamente nel delitto Matteotti: lui non c’entrava affatto, non aveva nessun motivo per uccidere il capo dell’opposizione, che aveva battuto clamorosamente alle elezioni di un mese prima. Per il resto è tutta fantasia politica e strumentalizzata che ha praticamente falsato questa vicenda. Comunque il delitto Matteotti fu casuale, non era premeditato, questo è molto chiaro". Ci sono molte perplessità, da parte degli stessi attivisti del blog grillino, sull'intervista a Petacco. Da un "Ci stiamo autodistruggendo", firmato Dino, ad un "Io credo veramente che vi siate bevuti il cervello. Cose incredibili, una giornata in cui si deve solo riflettere e chiedersi come mai abbiamo perso, ve ne uscite con queste troiate: VERGOGNATEVI! C'era gente, tanta, che ha creduto in voi!". Ironico Fausto: "Grazie a questo post risolveremo tutti i problemi del paese. Stiamo proprio perdendo il senno". Ironico anche Bob: "Per la serie 'Caro amico ti scriiivooo, cosi ti distraggo un pò...'". Secondo tanti, l'attenzione di questo post è volta soltanto a spostare l'attenzione dal disastroso risultato delle elezioni regionali, come viene ribadito anche in questo post: "Ho il sospetto che si voglia parare in qualche parte, non sono un complottista, ma questo mi da addito a dei dubbi due o tre, visto l'importanza della giornata odierna... Me li tengo per me, vedremo i prossimi sviluppi, mi sa che qua si è allo sbando".

Claretta Petacci.

Estratto dell’articolo di Jacopo Fontaneto per La Stampa il 30 aprile 2023.

Pane e salame per l’ultimo pasto di Mussolini. Una colazione che, invece, Claretta Petacci giudicò “troppo pesante”, è così l’amante del duce chiese un pezzetto di polenta avanzata dalla sera precedente, latte e un po’ di caffè. Sarebbe stato l’ultimo pasto dell’era fascista, qualche ora prima che una scarica di mitra chiudesse per sempre il capitolo del ventennio nero davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Un epilogo che, quasi ottant’anni dopo, vede ancora molti punti oscuri sulle ultime ore di Mussolini e su chi o quanti, effettivamente, avessero preso parte all’esecuzione: ma questa è un'altra storia.

(...) Fatto è che i partigiani fermarono il convoglio tedesco già a Musso, in alto lago, accorgendosi quasi subito della presenza del duce: erano le 16 del pomeriggio del 27 aprile. 

A questo punto, i tempi fissati dall'orologio diventano importanti anche per il nostro marginale racconto gastronomico delle ultime ore di Mussolini: alle 18.30 i comandanti partigiani trasferirono il duce nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, appena sopra Dongo. Qui si ricongiunse nuovamente con la Petacci (che non era stata ovviamente fatta salire sul camion tedesco), qui i due consumarono l’ultima cena, che i militari della Guardia di Finanza fecero preparare dai gestori dell’osteria del paese, Giovanni Chiaroni e Teresa Mazzucchi. Il menu: pasta in bianco con un pezzetto di burro e capretto arrosto. Riguardo al primo piatto non sfugge la nemesi, pure involontaria, con i “maccheroni antifascisti” (sempre in bianco) preparati dai fratelli Cervi il 25 luglio di due anni prima a Campegine proprio per festeggiare la caduta del duce. Ovviamente a nessuno, tantomeno ai proprietari dell’osteria erano state date informazioni sui destinatari di quel pasto che, in ogni caso, avrebbero consumato in caserma! Il capretto arrosto, invece, è ancor oggi uno dei piatti più diffusi e identitari della Tremezzina, dove si allevano anche razze rare in via di estinzione come la capra di Livo originaria della valle del Liro. Niente vino, ma acqua e spuma.

Atmosfera tesa, si temevano colpi di mano per liberare il duce. Di fatto, nessuno sapeva dove metterlo, fino a che – sono le 3 di notte – venne portato con la Petacci a casa dei De Maria a Bonzanigo, frazione di Tremezzina: bendato, non viene riconosciuto dai due contadini, Giacomo e Maria (detta Lia) ai quali fu presentato dai partigiani come un soldato tedesco in fuga insieme alla donna: «Li tenete qui, fuori piove e non sappiamo dove portarli». 

(...)

Emergono particolari interessanti, in particolare sull'ultimo pasto del duce, colazione o pranzo? In realtà si sarebbe trattato di un late-breakfast, per dirla all'inglese: Mussolini e la Petacci, esausti, avrebbero dormito per buona parte della mattinata. Ignari della loro sorte imminente, il duce accettò il pane, il salame e un pezzetto di burro offerti dalla signora Lia, ma la Petacci avrebbe chiesto una colazione più leggera, con polenta e latte, ritenendo il salame “troppo pesante da mangiare al mattino”. Altro particolare, il caffè consumato dai due, mentre si è sempre scritto che Mussolini, per timore di essere avvelenato, non avesse accettato nessuna bevanda.

Altro particolare interessante è la segretezza, almeno iniziale, sull'identità dei due: all'arrivo a casa De Maria Mussolini venne tenuto bendato, ma la Petacci? Bè, era poco o nulla riconoscibile per i contadini di un borgo isolato di montagna in tempi in cui la televisione non esisteva ancora e in cui l'unica stampa di regime faceva ovviamente attenzione a non pubblicizzare affatto l'immagine dell'amante del duce. Mimetizzazione riuscita a tal punto che Giacomo De Maria, correndo voce che “doveva passare Mussolini in paese” era andato fino al borgo, ancora ignaro di avercelo in casa!

Il resto della storia resta avvolta ancora dal mistero delle più versioni raccontate: tutto termina, in ogni caso, con i corpi senza vita di Mussolini e della Petacci crivellati davanti al cancello di Giulino di Mezzegra. La brutta avventura del fascismo finiva così, dopo un'ultima fetta di salame e un cucchiaio di polenta e latte, sulla quinta di scena di un lago di Como dove, finalmente, non pioveva più.

Claretta Petacci, Mussolini, Carla Pertini: il «giallo» della spilla da balia a piazzale Loreto. Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023.

Sarebbe stata Carla Voltolina, futura moglie del presidente Pertini, assieme a un partigiano toscano a coprire con una spilla il corpo spogliato dell’amante di Mussolini. Una nuova versione della storia intorno a un piccolo gesto di pietà nel mezzo della «macelleria messicana»

Una spilla da balia infilata alla buona per fissare i lembi di una gonna e coprire le nudità del corpo di una donna senza vita: un piccolo gesto di pietà in mezzo a una selvaggia esposizione della morte. A Milano sono le dieci del mattino di domenica 29 aprile 1945. Il corpo appeso al traliccio di una pompa di benzina di piazzale Loreto è quello di Claretta Petacci, l’amante di Benito Mussolini . I loro corpi sono appesi per i piedi insieme a quelli di altri gerarchi in quella che Ferruccio Parri, allora vice-comandante del Cln Alta Italia, definì una «macelleria messicana».

Petacci indossa gli abiti con cui è stata uccisa il giorno prima: un tailleur nero e una camicetta di seta bianca che ora ha una grande macchia rossa di sangue rappreso al centro del petto. La gonna, per la gravità, le è scivolata giù sulle cosce e ha rivelato che non ha più le mutande. La nudità è solo una delle oscenità subite da quei corpi: e qualcuno vuole risparmiare l’ulteriore umiliazione all’unica donna della scena. Rimediando una spilla da balia, e coprendola, appunto.

Qualcuno chi?

Sul dettaglio della spilla da balia negli anni si è costruito un piccolo giallo storico: una testimonianza racconta un’altra versione dei fatti rispetto alla vulgata e introduce due nuovi protagonisti nell’evento che ha segnato la fine del fascismo: Carla Voltolina, allora staffetta partigiana e futura moglie di Sandro Pertini, e un partigiano della Brigata Garibaldi, Guglielmo Pacini, uno di quelli che, nelle foto dell’epoca, sono appollaiati sopra il traliccio della piazza e che hanno partecipato alla liberazione di Milano. Pacini è scomparso nel 2009 all’Isola d’Elba, dove viveva, e la sua testimonianza è stata sempre ritenuta attendibile dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (Anpi). Un anno prima della sua morte lo abbiamo incontrato per ascoltare dalla sua voce il racconto di quel giorno. Sarebbe stata Voltolina, ricorda lui, nel mezzo della confusione della piazza, a indicare il corpo di Petacci e urlare: «Vergogna, tiratela giù, copriamola, trovate una spilla!».

A quell’ordine Pacini decise di muoversi, istintivamente: «Presi due lembi della gonna della Petacci e li tenni fermi mentre Carla li univa con la spilla». E ogni volta che il vecchio partigiano lo raccontava, mimava il gesto con le mani, come capita quando si fa rivivere un ricordo ben impresso nella mente. Sarebbe stata, dunque, la stessa Voltolina a chiedere e poi a mettere la spilla.

I corpi di Mussolini, Petacci, Bombacci e Pavolini a Piazzale Loreto

Nelle ricostruzioni storiche ricorrenti, sulle quali molto è stato scritto e molto è stato romanzato, ad accorgersi delle nudità sarebbe stata una staffetta partigiana, nome di battaglia «Carla la bionda» che, assieme al prete partigiano don Giuseppe Pollarolo, avrebbe deciso di tirare giù dal traliccio il corpo di Petacci e di coprirlo. Dietro Carla si nasconderebbe Piera Barale, effettivamente presente in piazzale Loreto, mentre don Pollarolo era un prete al seguito delle brigate partigiane che venivano dalla Val d’Ossola e anche la sua presenza a Milano in quei giorni è confermata.

Forse la coincidenza del nome, Carla, ha fatto sì che venisse attribuita la responsabilità del gesto alla persona sbagliata? Non Piera Barale, dunque ma Carla Voltolina, pure lei giovane staffetta partigiana. Torinese, 24 anni, Voltolina ha scelto di entrare nella Resistenza, nelle formazioni Matteotti, sfidando l’opposizione dei genitori. I capi l’hanno mandata nella Milano ancora occupata dai fascisti, al seguito di Pertini, uno dei capi del Cln Alta Italia, quasi 50enne, che ha conosciuto le prigioni fasciste. I due si sarebbero sposati un anno dopo. Pacini, invece, è in piazzale Loreto perché fa parte della squadra partigiana che fa la guardia ai corpi di Mussolini, Petacci e degli altri 17 giustiziati, arrivati su un camion dal lago di Como a Milano.

«Quella domenica mattina i miei compagni e io eravamo nella caserma Ettore Muti di via Rovello, in attesa di ricevere disposizioni. A un certo punto arriva una squadra di compagni, stanchi e affamati: ci dicono di aver trasportato i corpi del duce e dei gerarchi in piazzale Loreto, nello stesso posto dopo erano stati trucidati 15 partigiani. Allora Pertini venne da noi e ci ordinò di andare a presidiare i corpi. Quando arrivammo erano ancora a terra, ma poco dopo fu deciso di appenderli al traliccio». Nella piazza si è, nel frattempo, radunata una folla enorme che sta infierendo sui cadaveri: chi tira calci, chi sputa. Qualcuno addirittura gli spara. Averli appesi serve a renderli visibili da lontano e allontanarli dalla furia della gente. «Salimmo sul traliccio, ma mi sentivo a disagio. Un po’ per la paura dei cecchini fascisti, un po’ per quello che stava succedendo. Per i nemici ci vuole rispetto, anche da morti. Anche se loro, i fascisti, non ne avevano avuta per noi. Ma quella era una folla impazzita. Non mi scorderò mai una donna vestita di nero: si avvicinò al corpo di Mussolini quando era ancora a terra e da sotto la gonna tirò fuori una rivoltella. Riuscì a sparargli tre colpi prima che uno dei nostri la fermasse. “Questo è per i tre figli che mi hai ammazzato in guerra”, disse», ricorda ancora Pacini. Una volta appesi i corpi le urla non si placano. Ci sono dita che indicano il corpo spogliato della Petacci, bocche che urlano «puttana». È in quel momento che, stando a quanto racconta il partigiano elbano, interviene Voltolina.

Claretta Petacci e Benito Mussolini

Pacini non ha mai sentito parlare di don Pollarolo: «Non lo conoscevo e non ricordo preti lì». Molto probabilmente, don Giuseppe, prete combattente, anche in questa circostanza non indossa l’abito talare e si confonde tra gli atri partigiani. Come sono andate davvero le cose? Forse, la testimonianza di Pacini non contraddice l’altra, ma aiuta a completare un quadro finora parziale. Rivelando che dietro il gesto della spilla ci sia stata un’impresa corale. Come ha spiegato, a suo tempo, anche Edgarda Ferri, autrice di «L’Alba che aspettavamo», libro che ricostruisce gli ultimi giorni della Milano fascista: «Ho raccolto la testimonianza della figlia di Piera Barale, che dice che sua madre fornì la spilla, ma so per certo che anche Voltolina era a Milano in quei giorni. Stava all’hotel Touring con Pertini. Quindi è plausibile che fosse in piazzale Loreto e che sia stata lei, magari assieme a don Pollarolo, a chiedere a gran voce una spilla per la Petacci e ad agire in prima persona: è in linea con il suo carattere che era generoso e passionale». Inoltre, spiega ancora Ferri, «non deve essere stata un’impresa facile rimediare una spilla da balia: era uno di quegli oggetti difficili da trovare durante una guerra». Insomma, è probabile che sia scattato una specie di passaparola tra i presenti - «Una spilla! Qualcuno trovi una spilla!» -, e che questa benedetta spilla sia passata di mano in mano. Da quelle di Barale a quelle di don Pollarolo, arrivando infine tra quelle di Voltolina e Pacini.

Dopo piazzale Loreto, Pacini rimane a Milano ancora qualche giorno. Poi, come tanti altri arrivati da lontano, chiede al comando di tornare a casa, a San Piero, all’Isola d’Elba. Ma quel mese in città resta e resterà impresso nella sua memoria per tutta la vita. Tanto che, quando si rivedeva nelle fotografie dell’epoca, in cima al traliccio, scuoteva la testa: «Mussolini avrebbe dovuto andare a processo davanti a tutto il mondo. Ma c’era stato troppo odio, troppa cattiveria...». Quando, alla fine degli anni 90, Voltolina, già vedova di Pertini, andò all’Isola d’Elba e fu ricevuta dal sindaco di Marina di Campo, Guglielmo Pacini, con lo stemma socialista appuntato sul risvolto della giacca, si avvicinò e si fece riconoscere: «Sono uno dei partigiani di Piazzale Loreto, quello che ha appuntato la spilla». Rispose lei: «E io ero quella che ti ha aiutato a farlo».

Sandro Pertini e Carla Voltolina negli anni 70

Voltolina è morta nel 2005 senza lasciare una testimonianza di questo, ultimo, atto di pietà. Non era tipo da vantarsi dei suoi gesti. Femminista, giornalista impegnata nel sociale, subito dopo l’elezione del marito a presidente della Repubblica, disse: «Non ho nessuna intenzione di seguirlo al Quirinale bardata come una Madonna». Uno stile di vita a cui si mantenne fedele sempre, continuando ad abitare nella casa di 35 metri quadrati a Fontana di Trevi e considerando le stanze del Quirinale l’ufficio di Sandro. Nel 1983, Pertini, a proposito di Petacci e della sua fine, disse: «La sua unica colpa è di aver amato un uomo». Di certo avrebbe potuto salvarsi. Secondo le ricostruzioni considerate ufficiali il comandante «Valerio», nome di battaglia del partigiano che, materialmente, eseguì la condanna a morte del Duce, prima di puntare il mitra le avrebbe detto: «Togliti se non vuoi morire con lui». Lei non lo fece: scelse di restare accanto a Mussolini di cui era la compagna segreta da 13 anni e di condividerne la sorte.

Probabilmente non è neppure del tutto vero che amare il Duce sia stata la sua unica colpa: una delle ultime biografie sulla figura di Petacci «Claretta l’hitleriana, storia della donna che non morì per amore di Mussolini» di Mirella Serri, smonta la leggenda della martire incolpevole e racconta di una donna cinica, che seppe approfittare della sua posizione di potere, tramò, chiese soldi e favori, addirittura fece affari con i beni confiscati agli ebrei e tenne rapporti riservati con i vertici del Reich a Berlino.

Nessuna di queste nefandezze, però, dà una giustificazione a quel finale: l’orrore di piazzale Loreto e lo scempio del suo corpo. Uno scempio a cui, una spilla da balia e la pietà di qualcuno, provarono a mettere una pezza.

Edda e Galeazzo.

Estratto dell'articolo di Stefano Lorenzetto per “Oggi” venerdì 25 agosto 2023.  

Il padre Benito Mussolini la definì «la figlia della miseria». Nacque il 1° settembre 1910. All’udire le urla della moglie Rachele Guidi durante il travaglio, e alla vista del sangue, colui che sarebbe diventato il capo del fascismo non resse l’emozione e svenne. Edda, la primogenita, fu partorita su un saccone riempito con i cartocci delle pannocchie di mais, in una camera dove di notte i genitori davano la caccia alle pulci, come il Duce avrebbe raccontato all’amante Claretta Petacci molti anni dopo. Sulla tomba, nel cimitero di Livorno, si legge «contessa Edda Ciano di Cortellazzo e di Buccari» e soltanto più sotto, alla quinta riga, «nata Mussolini». 

È sepolto lì anche il marito Galeazzo. Lei lo chiamava Gallo, per l’inesausta prestanza nelle conquiste femminili; lui, meno fantasioso, Deda.

Nel destino dei due uomini più importanti della sua vita, Edda Ciano Mussolini vide compiersi in meno di 16 mesi un dramma simmetrico, quasi  shakespeariano: il primo fucilato l’11 gennaio 1944 per ordine del secondo nella città di Romeo e Giulietta; il secondo ucciso dopo aver fatto condannare a morte il primo nel Processo di Verona. Figlia e padre, moglie e marito, genero e suocero uniti per sempre da «amore, odio e perdono», come recita il sottotitolo del saggio Sangue di famiglia (Edizioni Medicea Firenze), scritto da Maurizio Sessa, giornalista che per quasi la metà dei suoi 65 anni ha lavorato alla Nazione e ora ricostruisce in 654 pagine «una vicenda troppo romanzesca per essere romanzata».

(...) 

Un’anticonformista molto precoce, questa figlia.

«A 6 anni Edda voleva scappare di casa unendosi a una carovana di zingari. Di lei Mussolini ebbe a dire: “Sono riuscito a sottomettere l’Italia, ma non riuscirò mai a sottomettere mia figlia”. Quando divampavano le furiose litigate con donna Rachele, imponeva a Edda di assistervi in veste di giudice. Fu una delle prime a indossare i pantaloni e il bikini. Era nota per i suoi audaci décolleté. Fumava parecchio. Aveva una passione smodata per gli alcolici. Guidava l’auto in modo sconsiderato. Giocava d’azzardo, soprattutto a poker. A pagare i debiti accumulati al tavolo verde provvedevano Il Popolo d’Italia, fondato dal padre, oppure il marito». 

Come conobbe Galeazzo Ciano?

«Matrimonio combinato. Un ruolo decisivo lo ebbe Edvige, sorella del Duce, esperta in materia, la cui figlia Rosetta il 15 febbraio 1928 era convolata a nozze con il conte Pier Giovanni Ricci, grazie ai buoni uffici materni. Il ricevimento si svolse a Villa Torlonia. I Mussolini avevano un debole per i nobili». 

Però c’era un legame fra i Mussolini e i Ciano.

«Sì. Il conte Costanzo Ciano era fra i pochi autorizzati a dare del tu al dittatore. I due avevano in comune la mascella volitiva, tanto che a Livorno il padre di Galeazzo era soprannominato Ganascia. Il Duce lo aveva al proprio fianco il 31 ottobre 1926, quando a Bologna, nel quarto anniversario della nomina a presidente del Consiglio, sfuggì al colpo di pistola sparato da Anteo Zamboni, anarchico quindicenne, subito linciato dalla folla. Edda era lì e vide l’attentatore che veniva finito a coltellate dagli squadristi». 

Se ne sarà dispiaciuta?

«Chi può saperlo? Di sicuro nutriva una non celata ammirazione per Adolf Hitler e per il nazionalsocialismo, che considerava una forma avanzata del fascismo, più completa e più decisa».

Ciononostante il settimanale americano Time il 24 luglio 1939 le regalò addirittura la copertina.

«Penso che vi sia stato lo zampino di Elsa Maxwell, la giornalista che fece conoscere l’armatore Aristotele Onassis a Maria Callas dopo aver tentato invano per anni di sedurre la cantante, di cui si era invaghita. Edda ed Elsa si conobbero a Venezia a un pranzo con Barbara Hutton, l’ereditiera miliardaria che collezionò sei matrimoni, fra cui quelli con Porfirio Rubirosa e Cary Grant, e altrettanti divorzi. La figlia del Duce chiese a Maxwell come si trovasse nella città lagunare. Al che la più famosa pettegola di Hollywood rispose con un’allusione ai nazisti: “Oggi mi piace meno perché mi urta sentir parlare tanto  tedesco”. In quella colazione di sicuro l’americana si prese una cotta per Edda e quindi brigò per farla immortalare da Time». 

Edda sarebbe potuta diventare la regina d’Italia.

«Si vociferò del possibile matrimonio con il figlio di Vittorio Emanuele III, il principe Umberto II di Savoia, erede al trono. L’ipotesi fu subito stroncata dal re, che non avrebbe mai tollerato di avere il padre a capo del governo e la figlia come nuora». 

Com’è nato questo poderoso saggio?

«Dalla mia scoperta, presso un antiquario di Arezzo, di due lettere inedite di Edda Ciano, scritte nell’estate del 1947 da Capri e indirizzate a Eucardio Momigliano, un avvocato ebreo di Milano che nel 1919 aveva aderito ai Fasci di combattimento ma poi era diventato un acceso antifascista».

La figlia del Duce che si rivolge a un israelita per avere assistenza legale è già di per sé una notizia.

«Anche qui Edda andò controcorrente. Gli chiese un parere sui diritti riguardanti documenti riservati del marito, che aveva affidato a un medico della clinica di Ramiola, nel Parmense. Furono sequestrati dalle SS e scomparvero. Con essi, c’era una reliquia a lei molto cara: un notes su cui il padre teneva un diario dal fronte durante la Grande Guerra. Quel quadernetto, conservato nel taschino della divisa, nel 1917 aveva salvato la vita a Mussolini, vittima dello scoppio di un lanciabombe: fermò una scheggia all’altezza del cuore». 

Che casa di cura era quella di Ramiola?

«Per malattie nervose. Anche in Svizzera, dove Edda riparò con Marzio, il più piccolo dei tre figli, fu curata per disturbi mentali. Lo si deduce dal numero 18 del giornale Il Pubblico, uscito a Roma il 14 giugno 1945, che in prima pagina titolò “Sull’orlo della follia” e fece parlare uno psichiatra del manicomio elvetico: “Ella non sa di essere rosa dal tarlo”». 

Com’era il rapporto fra Edda e Galeazzo Ciano?

«Da studentessa, al Convitto del Poggio Imperiale, a Firenze, si era dichiarata favorevole al divorzio, lasciando allibito uno dei docenti. I due furono una coppia aperta, oggi si direbbe fluida. Lui frequentava prostitute d’alto bordo mentre era ambasciatore d’Italia in Cina. Lei, incline ai flirt, giunse vergine al matrimonio. La loro prima notte di nozze all’hotel Quisisana di Capri fu tempestosa».

Che accadde?

«A cena, Edda tentò di rinviare l’appuntamento con i doveri coniugali, ordinando piatti su piatti, fino a che il cameriere non la avvertì che alle 22.30 la cucina avrebbe chiuso. A quel punto si sentì perduta. In camera si asserragliò nel bagno e minacciò di buttarsi dai faraglioni se il marito l’avesse sfiorata». 

Con la madre ebbe rapporti tumultuosi.

«Donna Rachele fu la più accanita accusatrice di Galeazzo Ciano, imputato di tradimento già prima che egli votasse l’ordine del giorno con cui il 25 luglio 1943 fu deposto Mussolini. Lo testimoniò Eugen Dollmann, l’ufficiale delle SS che fungeva da interprete nei colloqui tra Hitler e Mussolini. Per la tragica fine del figlio, Carolina Pini Ciano, madre di Galeazzo, incolpò apertamente la consuocera. Il marito di Edda fu il capro espiatorio, immolato con Emilio De Bono, un vecchietto inerme di 77 anni, e altri tre comprimari. Invece i Dino Grandi e i Giuseppe Bottai la sfangarono. Quella del Processo di Verona fu una sentenza di morte grottesca, già scritta prima che venisse pronunciata». 

Come fa a sostenerlo?

«Subito dopo la fucilazione alla schiena, la Repubblica sociale italiana emise un francobollo che effigiava Ciano in divisa fascista, cancellato da una X rossa, con la scritta nera “Traditore giustiziato”. Un bollo non si stampa dalla sera alla mattina». 

Edda quando vide suo marito per l’ultima volta?

«Non lo vide. A Natale del 1943 si recò nel carcere degli Scalzi a Verona, dov’era detenuto, ma le impedirono d’incontrarlo. Il 10 gennaio, alla vigilia dell’esecuzione, scrisse una lettera al padre Benito. Lo chiamò Duce e si firmò Edda Ciano: si era tolta il cognome Mussolini. Della madre dirà: “Lei ha difeso il suo uomo, io ho difeso il mio”».

Edda Ciano Mussolini, la figlia prediletta del Duce tra amore, sangue e perdono. Personaggio tanto discusso e controverso, la primogenita di Mussolini fu "condannata" a vivere cinquant'anni di solitudine in perenne compagnia dei fantasmi del padre e del marito. Ne parliamo con Maurizio Sessa, autore del libro "Sangue di famiglia. Edda Ciano Mussolini: amore, odio e perdono" (Edizioni Medicea). Orlando Sacchelli il 14 Maggio 2023 su Il Giornale.

Perché un libro su Edda Ciano? Com’è nata l’idea del libro?

"Il perché è molto semplice: ho rinvenuto due lettere inedite della contessa e intuendone l'importanza storiografica ho poi deciso di muovermi alla scoperta di un personaggio tanto discusso e controverso. Mano a mano che consultavo fonti a stampa mi sono appassionato a una vicenda attorno alla quale si sono coagulate, incrostate nel tempo, tante e troppe leggende prive di riscontri fattuali. Ho cercato quindi, nei limiti delle mie possibilità, di rimettere un po' di ordine in una matassa quanto mai ingarbugliata, in quello che è un vero e proprio “giallo” storico".

Ci sono dei lati ancora oscuri sulla primogenita di Mussolini?

"Molti lati sono da illuminare e proprio per ciò che detto prima. La figlia del duce degli italiani, la primogentita “luce dei suoi occhi”, dopo l'incredibile ascesa al potere di Benito Mussolini e prima del matrimonio con il conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo, nella primavera del 1930, era già oggetto della curiosita del grande pubblico ed era attenzionata, per motivi facilmente comprensibili, dagli informatori confidenziali dei servizi di sicurezza nazionale. Difficile discernere il vero dalle esagerazioni involontarie e intenzionali. Spesso a proposito di Edda, incrociando queste fonti, di lei si legge tutto il meglio e poi subito dopo il suo esatto contrario. Un labirinto".

Quanto tempo ha impiegato per le ricerche e la scrittura?

"Dal ritrovamento delle lettere circa tre anni. Il lavoro più imponente è stato lo studio delle fonti. Ho consultato quasi trecento libri, carte d'archivio e anche documenti apppartenenti alla mia collezione privata. Una faticaccia. Ma, pur spossato, sono abbastanza soddisfatto del risultato perché credo di essermi mosso in base a un criterio metodologico scevro di pregiudizi, di giudizi di valore politici o ideologici". 

C’è un personaggio, legato alla vita di Edda Ciano, che l’ha colpita di più?

"Più personaggi mi hanno colpito, inevitabilmente. Per comprendere, o meglio, per cercare di comprendere la personalità di Edda è assolutamente necessario penetrare nel suo complesso ambiente familiare. Edda da bambina appare una sorta di “appendice” del padre, ma poi se ne discosta e addirittura si ribellerà. Come non parlare poi di Rachele Guidi, Donna Rachele, con la quale Edda ebbe un rapporto spesso conflittuale. E non si può certo tacere sul ruolo di Galeaazo Ciano, figlio di cotanto padre, Costanzo Ciano, eroe di guerra con d'Annunzio e dominus della citta di Livorno. Galeazzo, come è noto, conobbe un destino tragico: dopo aver votato contro il suocero nella fatale riunime del Gran Consiglio del Fascismo nella notte a cavallo tra il 24 e il 25 luglio del '43, fuggì in Germania e, ricondotto in Italia, venne processato e fucilato a Verona l'11 gennaio del '44 insieme ad altri quattro pezzi grossi del fascismo, tra cui il quadrumviro Emilio De Bono, accusati di alto tradimento. E ancora, come non parlare della madre di Galeazzo. E che dire dei tre figli di Edda e Galeazzo costretti a crescere senza il babbo? Nel libro si parla anche di Bruno Mussolini, morto in un incidente aereo nel cielo di Pisa, nonché di Vittorio, Romano e Anna Maria, i fratelli di Edda. Nel libro ci sono tutti: i Ciano e i Mussolini prima insieme appassionatamente, poi divisi e poi di nuovo riuniti dopo la tempesta della storia, Un libro di famiglia, a più voci, corale. La storia di due famiglie i cui destini si intracciano col il dramma di una guerra mondiale devastante per il nostro Paese".

Edda era davvero la figlia “preferita” del Duce?

"Direi di sì. Lei era orgogliosa di questo ruolo di prediletta, almeno fino alla morte cruenta del marito. Proprio nelle due lettere che ho ritrovato, Edda ricomincia a firmare con il doppio cognome. Nell'ultima lettera al padre, poco prima della fucilazione di suo marito, ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore presso la Santa Sede, Edda si era firmata intenzionalmente Edda Ciano, a segnare il suo distacco dal padre e dalla famiglia d'origine. Lentamente, a partire dal 1947, al rientro dalla Svizzera e dal confino a Lipari, Edda ferita nel fisico e nell'animo inizia il percorso di perdono del padre, del “Padreterno” che aveva incondizionatamente amato e poi violentemente odiato e ripiudiato".

Edda e Galeazzo Ciano in udienza dal Papa

Quali idee politiche aveva rispetto al padre?

"Si dichiarava la più fascista degli italiani, e ammirava Hitler, almeno fino alla eliminazione fisica di Galeazzo avvenuta sotto la regia di ufficiali tedeschi delle SS e di miliziani della Rsi. Edda non ne fece mai mistero della sua fede fascista, fino alla sua morte avvenuta nella primavera del 1995. Ma fu una fascista sui generis. Contravvenne, se lo poteva anche permettere, alla morale maschilista instaurata dal regime condotto da su padre. Sfidò la dottrina domestica del regime che voleva la donna angelo del focolare, massaia, madre e moglie esemplare, che doveva accettare anche le “corna” del marito. Deda e Gallo, i soprannomi di Edda e Galeazzo Ciano, non si dimentichi, costituirono, per stessa ammissione dell'interessata, una “coppia aperta” ante litteram. Furono la “meglio gioventù” del Littorio, nel bene e nel male. Ma si ritrovarono uniti per sempre nel momento culminante del loro infausto viaggio attraverso il fascismo".

A suo giudizio era una donna con una certa influenza sul marito e sul padre?

"Su tale questione molto si è scritto. A proposito e a sproposito. Edda sicuramente fu una sorta di ambasciatrice del fascismo nel mondo, se vogliamo la sua First Lady, ma da qui ad attribuirle un ruolo politico determinante ce ne corre parecchio. Edda e Galeazzo furono bersagliati dalle solite esagerazioni pettegolare del “Bar Sport Italia” sempre incline al pettegolezzo malevolo. Ma molte voci erano abilmente diffuse dai giornali dei paesi ostili all'Italia fascista per sminuire e ridicolizzare il ruolo di suo padre e di suo marito. Il padre sicuramente l'ascoltava, ma poi decideva lui. Questa diceria lo infastidiva parecchio, comunque. Il marito, invece, non dava molto credito alleopinioni politiche della moglie, come si può leggere nel suo celebre e tanto discussso “Diario” pubblicato subito dopo la fine della guerra".

Com’è noto Edda tentó disperatamente di salvare suo marito dalla fucilazione...

"Lottò come una leonessa ferita per salvare suo marito, che pure non era un campione di fedeltà coniugale, (ma anche Edda si concedeva i suoi flirt) e per sottrarre al plotone d'esecuzione il padre dei suoi tre figli: Fabrizio, Raimonda e Marzio. Edda che dimostrò sempre un amore smisurato per i gatti – il suo portafortuna era un gatto di peluche – tirò fuori le unghie, graffiò profondamente nell'animo di suo padre. Tra i due a Villa Feltrinelli di furono discussioni violentissime. Il duce ne rimase profondamente sconvolto. Una volta riparata in Svizzera, a un prete suo amico d'infanzia che tentò di farla riconciliare a distanza col padre, rispose che a suo padre restavano solo due alternative: dimettersi o suicidarsi..."

Dall’idea che si è fatto la fine tragica di Galeazzo avvenne solo per colmare la sete di vendetta del Duce per il tradimento subito o... c’è dell’altro?

Una domanda da un milione di dollari e anche più. E una questione tutta aperta che appassiona e continuerà ad appassionare, e soprattutto a dividere, gli storici di diversa impostazione ideologica. Mussolini, salvato dai paracadutisti di Hitler a Campo Imperatore, ormai deteneva un peso specifico decisionale molto vicino allo zero. Ma, forse, qualcosa avrebbe potuto tentare. Si trovò tra l'incudine di Hitler e von Ribbentrop, il ministro degli esteri del Terzo Reich, che reclamavano il pieno rispetto del Patto d'Acciaio, e il martello dei neofascisti nudi e puri di Salò, capeggiati dal fiorentino Alessandro Pavolini, un tempo amico e protetto di Galeazzo Ciano, che pretendevano una pena esemplare, un bagno di sangue che purificasse l'idea fascista sporcata dai traditori del 25 luglio".

Portava i pantaloni, fumava, giocava di azzardo... e altre cose “moderne”... che donna fu Edda Mussolini?

"Una donna molto avanti rispetto ai suoi tempi. Portava i pantaloni lunghi ma al mare, in Versilia come a Capri, indossava il bikini provocando sussurri e scandalo, e prendendosi pure qualche ceffone dal marito nel chiuso di una cabina dove eera stata condotta per indossare un costume più acconcio. Il vizio del gioco lo contrasse durante il suo soggiorno in Cina, quando il maritro era stato inviato come ambasciatore nel favoloso Paese delle Lanterne Rosse. Edda, quando era venuta a studiare a Firenze, nel prestigioso Educandato del Poggio Imperiale, dove qualche anno prima era stata educata al bon ton anche la giovinetta Maria Josè del Belgio, la futura Regina di Maggio, durante una lezione la figlia del Capo del Fascismo si era dichiarata favorevole al divorzio. Il suo professore era trasecolato facendole notare che suo Padre, Benito Mussolini duce degli italiani, era apertamente contario. Edda rispose che era affare di suo padre. Insomma, non disse “me ne frego”, ma il concetto era quello... Questo e molto altro ancora fu Edda Ciano Mussolini, una donna “condannata” dalla storie inestricabilmente intrecciate del suo Paese e della sua famiglia a vivere cinquant'anni di solitudine in perenne compagnia dei fantasmi del padre e del marito. Una tragedia, la sua, che si potrebbe dire fosse stata scritta da Eschilo e poi “riveduta e corretta” da Shakespeare. Edda Ciano Mussolini, per parafrasare all'incontrario Hitchcock, la donna che “mori due volte”...".

Sangue di famiglia. Edda Ciano Mussolini: amore, odio e perdono di Maurizio Sessa verrà presentato a Firenze martedì 16 maggio, alle 17, nella Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux (Palazzo Strozzi). Dopo il saluto di Riccardo Nencini, presidente del Gabinetto Vieusseux, Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini-Nuova Antologia, parlerà del libro con l'autore.

Estratto dell’articolo di Benedetta Marietti per “il Venerdì di Repubblica” il 2 maggio 2023.

La figlia del duce era donna con uso di mondo, si considerava una vera cosmopolita, d'altronde era stata in Sudamerica, a Stalino, vicino a Stalingrado, aveva visitato Africa e Asia per arrivare in Cina e stare tre anni a Shanghai, consorte di Galeazzo, il nostro console laggiù. 

Se la cavava con quattro lingue oltre all'italiano: "Parlo inglese e francese e sono in grado di comprendere spagnolo e tedesco"». Così il giornalista Enrico Mannucci descrive Edda Ciano nel libro a lei dedicato, dal titolo Morire è poco. L'esilio di Edda Ciano (Neri Pozza): una persona intraprendente e irrequieta, una delle donne più potenti d'Europa. 

Ma quando il 9 gennaio 1944 Edda Mussolini varca clandestinamente e sotto falso nome il confine italosvizzero, due giorni prima che il marito Galeazzo Ciano, ex ministro degli Esteri del governo fascista, sia fucilato, «a trentatré anni, è una donna stremata, cupa, quasi isterica, attraversa una delle fasi di pessimismo e autocommiserazione, per lei ormai frequenti quanto prima erano state quelle di esaltazione e sicumera».

È sola, in crisi, disgustata dal comportamento del padre, che ha dato il suo beneplacito all'uccisione di Galeazzo, e inseguita dai tedeschi che vorrebbero mettere le mani sui diari del marito. Attraverso documenti originali e lettere, l'autore ricostruisce in modo inedito i due anni passati in Svizzera dalla figlia del duce, prima in un convento a Ingenbohl, poi in una clinica psichiatrica a Monthey.

E racconta come, nonostante la depressione, sia riuscita a crearsi una rete di protezione efficace agli occhi delle autorità elvetiche, facendo riferimento al mondo finanziario e a forti legami internazionali, come quello con Virginia Agnelli. 

Grazie alla sua mediazione, Edda riuscirà a fare arrivare i diari agli Alleati, vendicando così la morte di Galeazzo (...)

«Quei due - Edda e Galeazzo Ciano», in un nuovo film la storia della coppia simbolo del Ventennio. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023

Venerdì 3 febbraio Rai 3 trasmetterà in prima serata il nuovo lavoro di Wilma Labate su Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, prodotto da Luce Cinecittà con la collaborazione di Rai Documentari

Il film di Wilma Labate

Lei, la figlia più amata del Capo del regime. Lui, brillante diplomatico, futuro delfino del Duce. Sono Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, raccontati dal nuovo film di Wilma Labate «Quei due - Edda e Galeazzo Ciano», prodotto da Luce Cinecittà con la collaborazione di Rai Documentari, in onda in prima serata su Rai 3 venerdì 3 febbraio. In «Quei due - Edda e Galeazzo Ciano» i due protagonisti si racconteranno senza pudore attraverso le parole originali contenute nei diari privati, nei discorsi pubblici di Galeazzo Ciano e nelle autobiografie di Edda Mussolini. Accompagneranno la storia della coppia le immagini dell'Archivio Luce, che mostrano anche momenti privati e familiari, e un racconto filmico contemporaneo girato negli studi di Cinecittà con Silvia D'Amico e Simone Liberati.

Chi è Edda Mussolini

Edda nasce a Forlì il 1º settembre 1910. È la prima figlia di Benito Mussolini e Rachele Guidi, che al tempo non erano sposati (per questo viene registrata nell'atto di nascita come figlia illegittima dal padre). «Sono riuscito a sottomettere l'Italia, ma non riuscirò mai a sottomettere mia figlia», ha detto una volta Benito Mussolini a proposito di Edda. Di personalità intraprendente e irrequieta, sfida spesso i costumi dell’epoca (ad esempio è una delle prime donne a portare i pantaloni, fuma e gioca d’azzardo).

Chi è Galeazzo Ciano

Nato il 18 marzo 1903 a Livorno Gian Galeazzo Ciano è figlio dell'ammiraglio Costanzo Ciano e di Carolina Pini. Lui, all’epoca giovane diplomatico, ed Edda convolano a nozze poco tempo dopo essersi conosciuti (Ciano le fa quasi per gioco la proposta in un cinema romano). È il 24 aprile 1930. In seguito alle nozze Gian Galeazzo, nominato console, e la moglie partono per Shanghai.

I tre figli

Dall’unione tra Edda e Gian Galeazzo nascono tre figli: Fabrizio (1931-2008), Raimonda (1933 - 1998) e Marzio (1937-1974). Nel frattempo Ciano inizia la sua rapida scalata all’interno del Regime: nel 1933 diventa capo ufficio stampa con il titolo di sottosegretario alla stampa e alla cultura, nel 1935 è ministro della Stampa e propaganda (il futuro MINCULPOP) e l’anno successivo Ministro degli affari esteri. Dal 1936 al 1943 è vicesegretario del Partito Nazionale Fascista.

Alto tradimento

Il 25 luglio 1943 Gian Galeazzo Ciano vota l'Ordine del giorno Grandi di sfiducia a Mussolini, che porta all'arresto del suocero e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio come Capo del Governo. Quando nei mesi successivi si costituirà la Repubblica Sociale Italiana Galeazzo Ciano sarà accusato di alto tradimento: viene processato (nel celebre processo di Verona, che si celebra tra l'8 e il 10 gennaio 1944) e condannato all'unanimità alla fucilazione.

La battaglia per salvare il marito

Dall’ottobre 1943 al gennaio 1944 Edda conduce una dura battaglia per salvare la vita del marito, arrivando a scontrarsi duramente anche con il padre. Inutilmente: l’11 gennaio 1944 Ciano viene fucilato al poligono di tiro di Verona. Alla moglie viene impedito di incontrarlo prima dell’esecuzione. «Credevo che mio padre fosse il superuomo - disse Edda al giornalista Gino De Sanctis del Corriere il 12 luglio 1946 -. Ora capisco che era un debole, senza carattere. E poi aveva qualcosa nell’animo che io non riesco a giudicare. Con me è stato crudele: mi ha promesso due volte solennemente che avrebbe salvato Galeazzo. Invece l’ha fatto uccidere, l’ha fatto uccidere lui. E Galeazzo era innocente. Galeazzo, il 25 luglio, aveva usato di un suo diritto legale ed aveva cercato di salvare l’Italia dall’estrema sventura».

Al confino

Dopo l'esecuzione Edda fugge in Svizzera. Torna in Italia, dietro richiesta del governo, quattro mesi dopo la fine della guerra, condannata a due anni di confino sull'isola di Lipari. Qui incontra il militante comunista Leonida Bongiorno, con cui vive un’intensa storia d’amore raccontata nel libro del giornalista Marcello Sorgi «Edda Ciano e il comunista. L'inconfessabile passione della figlia del Duce» (da cui è stata tratta la fiction del 2011 «Edda Ciano e il comunista»). In seguito all’amnistia promulgata da Palmiro Togliatti si ricongiunge con i figli. Morirà a Roma l'8 aprile 1995 a 84 anni e sarà sepolta a Livorno, nel Cimitero della Purificazione, accanto a suo marito Galeazzo.

Margherita Sarfatti.

La Sarfatti e il Duce geloso degli Usa. Il resoconto positivo del viaggio Oltreoceano del '34 acuì il distacco di Margherita dal regime. Claudio Siniscalchi il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Nel marzo 1934, quando si imbarca per raggiungere gli Stati Uniti, Margherita Grassini Sarfatti è una stella del firmamento fascista - un tempo luminosissima - prossima allo spegnimento. Fascista della primissima ora. Sansepolcrista e marcia su Roma. Madre del più giovane eroe della Grande Guerra. Legata sentimentalmente a Mussolini, sua consigliera e biografa ufficiale. Signora incontrastata delle arti. Propagandista internazionale della nuova Italia littoria. Giornalista, scrittrice e direttrice della testata più mussoliniana, Gerarchia.

Il conto alla rovescia è già iniziato. Il Duce l'ha messa alla porta dal Popolo d'Italia. All'esposizione allestita a Roma per il decennale della rivoluzione fascista non è stata chiamata a collaborare, né invitata all'inaugurazione. È stata rimossa dalla direzione di Gerarchia. Molti fanno finta di non riconoscerla, non la invitano, la criticano apertamente. Giunta in America tiene un'affollata conferenza alla Casa Italiana di New York. Tutti la vogliono incontrare. Gli abiti della sartoria parigina di Elsa Schiaparelli, indossati con grazia a ogni apparizione pubblica, seducono alla pari del suo inglese fluente. Il presidente Roosevelt e la moglie Eleanor la ricevono alla Casa Bianca. Tornata in Italia constata il proprio fallimento. Il potere nelle arti è sfumato. Mussolini ha perso ogni interesse per la «signora Sarfatti»: non la vuole più come amante, collaboratrice e consigliera.

Nel maggio '37 esce presso Mondadori il resoconto del viaggio: L'America, ricerca della felicità. Il saggio - ripubblicato da Liberilibri (pagg. 342, euro 24, con prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) - è stato scritto in inglese, nella speranza, rivelatasi vana, della pubblicazione americana (il suo Dux, uscito in inglese nel 1925 - in Italia apparve l'anno dopo - aveva riscosso successo e ammirazione). L'autrice si tiene alla larga da pregiudizi e luoghi comuni usuali dell'antiamericanismo fascista ed europeo. Osserva come l'America sia il prolungamento dell'Europa, il centro della civiltà bianca in Occidente. New York le appare il riflesso in grande di Londra. È una città traboccante di passato, poiché ci vivono etnie (e storie) diverse: europee, asiatiche, latino-americane. New York si identifica con i grattacieli, che hanno lo stesso significato avuto un tempo dalle cattedrali: «tutti gli edifici verticali furono sempre affermazioni d'impero. E quel che mi piace del grattacielo è proprio il carattere antieconomico, disinteressato, idealista e metafisico della sua enormità». La rivalità fra le grandi città su chi possiede i grattacieli più belli le ricorda la competizione, nel passato, tra Orvieto e Siena su chi avesse le cattedrali più belle. Nonostante gli evidenti squilibri, e la povertà diffusa, gli americani hanno costruito un mondo moderno della civiltà bianca, certamente ricco di contraddizioni, grandezze e storture. L'impressione è di vedere rivivere «una novella Roma irrequieta». Il patriottismo è «spontaneo quanto il nostro, sebbene più venato di sfumature, e insieme più enfatico di quanto non sia in talune vecchie nazioni di qua dell'acqua».

Nel 1835 l'America ebbe un visitatore di eccezione: Alexis de Tocqueville. La descrisse nei giusti termini, dandone un'immagine profetica. Un secolo dopo Margherita si sforza di indicare la stessa via. Sono cambiate tante cose dal viaggio di Tocqueville, ma l'America resta il Paese dove si può ricercare la felicità. L'interpretazione che è stata data recentemente, in sede storiografica, di L'America, ricerca della felicità, è duplice. Deve intendersi un punto di vista ortodosso, strettamente orientato al rispetto dell'ideologia (antiamericana) fascista. Oppure, dall'angolazione opposta, deve intendersi l'ammissione del fallimento della missione del fascismo. Non è nell'uno né l'altro. Margherita Sarfatti celebra la modernità americana. Ma non ha intenzione di stilare l'atto di morte della modernità fascista. Anche se il paragone è suggestivo, equiparare la profezia ottocentesca di Tocqueville sul declino della civiltà europea con quella novecentesca della Sarfatti sul declino della civiltà fascista, può avere un fondamento: ma estetico, metafisico, religioso. Non certo politico.

Nel '37 Margherita non poteva avvertire che l'Europa sarebbe diventata il teatro di una guerra mondiale, né che il mondo, dopo la guerra, si sarebbe americanizzato.

Rientrata in Italia, si reca da Mussolini per esporgli la sua valutazione in merito agli incontri avuti. Gli manifesta la propria favorevole considerazione sull'America. Mussolini, infastidito, taglia corto, ponendo fine alla discussione. L'uscita italiana di L'America, ricerca della felicità ebbe scarsa accoglienza. Nel '37 Margherita non ha smesso di credere nel fascismo. Al contrario: è il fascismo che ha smesso di credere in lei. Magari ha smesso di credere in Mussolini. E non perché stesse indirizzando il fascismo in una strada errata. Ma perché non è più lei a indicare - alle dipendenze, in parziale o in totale autonomia - il percorso da seguire. A un anno di distanza, la «regina della cultura» si vede costretta a una scelta drammatica. Deve abbandonare l'Italia.

Nel luglio del '38 sono state approvate le «leggi razziali». Margherita Grassini Sarfatti, nata ebrea nel 1880 a Venezia, successivamente convertitasi al cattolicesimo, femminista, socialista, nazionalista, interventista e fascista (sempre per convinzione, mai per convenienza), è un corpo estraneo. Il suo mondo è crollato. Emigra nell'America del Sud, perché quella del Nord si rifiuta di accoglierla. Il fascismo, spietatamente ha divorato uno dei suoi figli migliori.

Ritratto di Margherita Sarfatti. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Caro Aldo,

tra le tante amanti del Duce c’è stata Margherita Sarfatti. Di famiglia ebraica, Margherita fu critica dell’arte e figura di spicco dei salotti milanesi, incluso quello di Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Anche lei, come il Duce, all’inizio era socialista. Fu la musa ispiratrice di Mussolini, tanto da sostenere e finanziare la marcia su Roma. Verrà poi ripudiata dal Duce nel 1938 con le leggi razziali. La Sarfatti si schierò fortemente contro l’alleanza con Hitler. Fu forse quella che predisse meglio e prima di tutti la fine che avrebbe fatto Mussolini quando «perse la testa» dopo la vittoria in Etiopia e l’alleanza con i nazisti. Che italiana fu Margherita Sarfatti?

Flavio Maria Coticoni

Caro Flavio Maria,

Margherita Sarfatti fu senza dubbio u n personaggio eccezionale, e non sarebbe giusto appiattirla sul Duce. Anche se non avesse incontrato Mussolini, sarebbe comunque emersa come prima grande critica d’arte europea. Fu importante per i futuristi — Umberto Boccioni, Gino Severini —, Mario Sironi e ovviamente per il movimento da lei fondato, Novecento. E il bello è che a Mussolini i vari Achille Funi, Leonardo Dudreville, Ubaldo Oppi non piacevano («quelle manone, quei piedoni»). Contrariamente a quel che si pensa, il Duce non amava l’arte del suo tempo, neppure quella di pittori che lo adoravano. A casa aveva croste post-romantiche, quadri veristi, ritratti di stile accademico e passatista. Quando la Sarfatti vide la modestia della collezione del suo uomo, gli scrisse una lettera di fuoco: «Avresti potuto ricordarti che, quando si è a capo del governo, le proprie espansioni ammirative devono essere dettate da criteri meno personali e più severi». Insomma, Margherita era tra i pochissimi italiani che osavano contraddire il Duce. E lo fece su un tema ancora più importante: la politica estera. Il suo prestigio era tale che in America, dove scriveva su Time e Life, fu ricevuta dal presidente Roosevelt, che ovviamente conosceva il suo rapporto con Mussolini, e le affidò un messaggio per lui: «L’America non è nemica dell’Italia, purché non si getti tra le braccia di Hitler». La Sarfatti, figlia di una grande famiglia ebraica veneziana, i Grassini (Sarfatti era il nome del marito, anch’egli ebreo), detestava Hitler. Quando riferì il messaggio di Roosevelt al Duce, lui scrollò le spalle: «L’America non conta». È vero che la Sarfatti costruì il suo mito, con l’agiografia «Dux», long-seller internazionale. Ma pochi citano il libro scritto in esilio, intitolato «Mea culpa», «My fault» nell’edizione inglese. Il suo errore era stato appunto creare l’uomo che l’aveva distrutta. Margherita Sarfatti si salvò dalle leggi razziali e dalla persecuzione nazifascista fuggendo in Sud America; sua sorella morì ad Auschwitz. Nell’Italia del dopoguerra fu dimenticata, talora osteggiata. Indro Montanelli ha scritto di essersi trovato alla Biennale su un pullmino di critici d’arte, mal disposti verso la più grande di loro, per via dei suoi trascorsi politici. Lei scese. Montanelli le offrì il braccio, e scese con lei.

Come si crea un mito. Margherita Sarfatti, l’amante e confidente di Mussolini dopo l’omicidio Matteotti: suo il libro che ‘consacrò’ il dittatore. Riccardo Nencini su Il Riformista il 13 Agosto 2023 

Nel frangente di massimo rischio, quando Mussolini, a seguito del rapimento e dell’omicidio di Giacomo Matteotti, temette veramente di perdere il potere conquistato prima con la marcia su Roma poi con la vittoria nelle elezioni dell’aprile 1924, il maggiore alleato del Duce fu una donna, Margherita Sarfatti, storica dell’arte, sua amante e confidente, ideatrice della Biennale di Venezia, protettrice e musa di pittori e scultori che hanno fatto la storia dell’arte del primo Novecento italiano.

È Margherita che getta le basi del mito mussoliniano in Europa e negli Stati Uniti. Lo fa con un libro in lingua inglese – The life of Benito Mussolini – pubblicato nel 1925 in Gran Bretagna e l’anno successivo in Italia col titolo ‘Dux’. La biografia, autorizzata dal Duce in persona, venderà oltre un milione e mezzo di copie e verrà tradotta in diciotto lingue, giapponese e turco comprese.

Devi sapere che i sei mesi successivi all’assassinio di Matteotti furono un calvario per il capo del governo, attaccato sia dai duri e puri dello squadrismo provinciale guidati da Farinacci che dall’opposizione costituzionale aventiniana cui dal novembre si aggiunse Giolitti. Margherita si preoccupa di rafforzarne l’immagine all’estero, soprattutto in quei Paesi che all’inizio del secolo hanno assunto il ruolo di grandi potenze. Un’operazione intelligente, strategica, complicata, nella quale l’ebrea veneziana profonde risorse e relazioni di rilevanza vitale.

Dux è un’agiografia di Mussolini, un panegirico dell’uomo che ama profondamente dal 1912. Addirittura Margherita inventerà per lui antenati nobili.

‘Ancora oggi esiste in Bologna una via dei Mussolini, ed esisteva un arengo e una torre. Del casato, che certo venne dal mestiere di fabbricanti o venditori di finissimi lini provenienti da Mossul d’Asia…’

Il ritratto che dipinge del Duce non ha ombre, a tratti ha anche il merito di cogliere la verità di un carattere solitario, ambizioso, senza amici, pronto a sfidare ogni regola è ad usare ogni mezzo pur di conservare la guida dell’esecutivo. Il dittatore in potenza.

‘Il polemista, l’artista, l’uomo politico innamorato delle rischiose avventure spirituali, predilige gli effetti drastici…invasato da una grande idea, è intimamente intollerante di ogni opposizione. Bellissima cosa la tolleranza, ma l’uomo che nutre un grande piano, il costruttore vero non può non guardare con odio chiunque molesta, avversa la sua idea forza’.

Nondimeno la Sarfatti coglie un punto decisivo della storia del secolo. Lo fa nelle primissime pagine della biografia quando parla di Lenin e di Mussolini e del futuro del continente.

‘La guerra non era stata un avvenimento militare ma la scossa di assestamento di un ordine sociale instabile. E i veri eroi appaiono sul proscenio, gli artefici del nuovo ordine, Nicola Lenin e Benito Mussolini, rappresentanti di due mondi, l’elemento orientale e occidentale nella civiltà d’Europa’.

Uno sguardo lungo quando in pochi – il libro viene scritto a partire dall’agosto del 1924 su suggerimento di Prezzolini – avrebbero scommesso sulla tenuta del Duce e su un domani certo per la nascente Unione Sovietica.

La propaganda fece il resto, Margherita fu pian piano isolata e allontanata. Inizia il tempo di Claretta Petacci. Riccardo Nencini