Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
GLI STATISTI
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le carte segrete del Caso Moro.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ricordando il Divo.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Secessionisti.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Ricordando Craxi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Italiano per Antonomasia.
La Biografia.
Berlusconi e la Morte.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Berlusconi e la Salute.
Berlusconi e gli Affari.
Berlusconi e la Politica.
Berlusconi e lo Sport.
Berlusconi ed i Media.
Berlusconi e la Chiesa.
Berlusconi e la Cultura.
Berlusconi e la Gastronomia.
Berlusconi e gli Animali.
Berlusconi e la Famiglia.
Berlusconi e le Donne.
Berlusconi e la Giustizia.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Al tempo del Nazismo.
Al tempo del Fascismo.
INDICE QUINTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli eredi
del Duce.
GLI STATISTI
TERZA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Silvio Berlusconi, prima intervista dopo il ricovero: «È stata dura, ma ho sentito affetto. Ora rinnovo il partito». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2023.
Il leader di Forza Italia: «Ho sempre avuto fiducia. Il centro? C’è più spazio e lo presidiamo noi»
Si è affidato «al Cielo», ai medici, agli affetti più cari, a «mia moglie Marta, che ha superato sé stessa», all’amore del suo popolo e perfino all’affetto dei suoi avversari. Ma soprattutto alle sue forze, che sente di star ritrovando e che userà — assicura Silvio Berlusconi che torna per la prima volta a parlare dopo 45 giorni di ricovero al San Raffaele in cui si è temuto per la sua vita — per continuare a guidare Forza Italia. Il suo partito, del quale ci tiene a riconfermarsi leader assoluto, senza delfini o successori.
Continuerà il «rinnovamento» del suo movimento, annuncia il leader azzurro, senza «rottamazioni», come continuerà l’impegno a «presidiare il centro», senza rincorrere nessuno: Matteo Renzi, se vuole, venga «dalla nostra parte» ma non sarà Forza Italia a corteggiarlo. E guarda al futuro con ottimismo: gli italiani «si stanno rendendo conto» dell’«ingiustizia» da lui subita sul piano giudiziario per anni e «ci daranno fiducia».
Presidente, per prima cosa: come sta?
«Sto meglio, grazie. Devo ancora recuperare le forze, ma è solo questione di tempo».
È stata dura, c’è stata grandissima preoccupazione per le sue condizioni: ha avuto paura di non farcela?
«È stata dura, ma sono sempre stato fiducioso. Mi sono affidato, come in altri momenti difficili, all’aiuto del Cielo e alla professionalità dei medici e del personale sanitario del San Raffaele, che non finirò mai di ringraziare».
La sua Marta, i suoi figli, i suoi migliori amici: quanto sono stati importanti in un momento come questo? Cosa le hanno trasmesso?
«Marta ha superato sé stessa, mi è stata accanto con una cura e una dedizione senza eguali, spiegabili solo con il grande amore che ci lega. Molte volte ho dovuto pregarla io di riposarsi e di prendersi cura di sé, ma non mi ha lasciato neanche per un minuto. I miei figli, mio fratello, i miei amici mi sono stati anch’essi molto vicini, ogni giorno. Nei momenti difficili l’amore di una famiglia è davvero la cosa più importante. Ma vorrei dire una cosa in più».
Cosa?
«Ho percepito anche questa volta l’amicizia e l’affetto sincero, a tratti addirittura commovente, di molte persone, anche sconosciute. Tutti i leader politici, di maggioranza e di opposizione, mi hanno rivolto parole di augurio e di incoraggiamento, delle quali sono davvero molto grato. Ma poi c’è stato l’emozionante abbraccio del popolo azzurro, dei militanti e degli elettori di Forza Italia, che mi hanno sommerso di messaggi e di manifestazioni affettuose. Se ho superato bene questo momento difficile lo devo certamente anche a loro».
Lei è pronto a riprendere il suo lavoro, e come? Non ha avuto dubbi sul mostrare anche la sua sofferenza in video, non una scelta scontata.
«In verità non ho mai smesso di lavorare, anche dalla terapia intensiva ho tenuto i contatti con i dirigenti di Forza Italia dando indicazioni e suggerimenti sulla campagna elettorale per le Amministrative. A questo proposito, vorrei rivolgere un appello ai cittadini dei Comuni nei quali domenica e lunedì prossimi si va al ballottaggio: andate a votare, perché senza il voto la democrazia muore e muore il futuro dell’Italia, delle vostre città, dei vostri figli. Per quanto riguarda il futuro, abbiamo molte cose da fare e continuerò a farle, come sempre, alla guida di Forza Italia».
È vero che sta già pensando a una riorganizzazione del partito, anche in vista delle Europee?
«La storia di Forza Italia è quella di un continuo rinnovamento, dal 1994 ad oggi. Forza Italia è nata, oltre che per impedire ai comunisti di impadronirsi del governo della Nazione, anche per rinnovare profondamente la politica. Ma perché il rinnovamento sia credibile dobbiamo prima di tutto rinnovare noi stessi. Lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo, ovviamente senza rottamare nessuno».
È soddisfatto di come è stata gestita Forza Italia mentre lei era in ospedale? È un partito che sta imparando a camminare da solo?
«Forza Italia ha una classe dirigente nazionale e locale esperta e autorevole. Ma non sono e non saranno soli, perché io continuerò naturalmente ad esercitare appieno, come ho sempre fatto, le mie responsabilità di fondatore e di leader di Forza Italia».
Come sono oggi i rapporti con i suoi alleati? E che spazio ha Forza Italia?
«Sono assolutamente eccellenti. Giorgia Meloni e Matteo Salvini mi sono stati vicini in queste settimane come dei veri amici, a riprova del fatto che il rapporto fra noi non è solo politico, ma è fatto anche di un profondo legame personale. Questo non toglie, ovviamente, che Forza Italia abbia un suo ruolo specifico. Con il Partito democratico sempre più spostato a sinistra e il tramonto del cosiddetto Terzo polo, che è morto prima ancora di nascere, lo spazio al centro si allarga e Forza Italia lo presidia con coerenza, perché siamo gli unici davvero liberali, cristiani, garantisti, europeisti, atlantisti. Siamo l’unica espressione italiana del grande centro della politica europea, il Partito popolare».
È possibile un rapporto più stretto con Renzi?
«Renzi dice spesso cose giuste, ma fino a quando non ne trarrà le conseguenze politiche, scegliendo la nostra metà campo, non si potrà andare al di là di occasionali convergenze in Parlamento».
Intanto il governo va avanti: su cosa ci si deve concentrare adesso?
«Occorre continuare sulla strada che abbiamo imboccato nei primi mesi: stabilizzare il taglio del cuneo fiscale anche per far ripartire l’occupazione giovanile, realizzare la riforma fiscale procedendo verso la flat tax, continuare a lavorare per accrescere le pensioni minime fino ad arrivare a 1.000 euro entro la legislatura, porre mano alla riforma della giustizia secondo le linee indicate dal ministro Nordio».
Con una emergenza imprevista in Emilia-Romagna: che fare, come? L’Europa può dare una mano?
«Ogni aiuto dall’Europa è naturalmente prezioso. Da parte nostra l’impegno è totale, a partire dalla sospensione di tutti i pagamenti, le bollette, i mutui, gli adempimenti tributari e contributivi e poi l’attivazione del fondo di garanzia per le piccole imprese, aiuti per il pagamento dei canoni di affitto e altro ancora. Di fronte alle drammatiche immagini che ci vengono dalla Romagna nessuno sforzo è troppo grande per aiutare quelle popolazioni».
Lei crede nell’emergenza climatica o come alcuni a destra pensa che sia un allarme esagerato?
«Io credo a quanto dice la gran parte della comunità scientifica oltre che all’evidenza stessa dei fatti. Cambiamenti climatici sono in corso ed è ragionevole pensare che, per una parte significativa, dipendano dall’uomo. Quindi impegnarci per salvaguardare il Creato, il mondo intorno a noi, che sarà il nostro lascito alle generazioni future, è un dovere che non ha nulla a che fare con questioni ideologiche o di schieramento politico. Altra cosa è discutere sui mezzi più efficaci e sul loro costo economico e sociale. Un certo ambientalismo ha più a che fare con l’avversione per il nostro modello di civiltà che con la difesa dell’ambiente».
Da uomo della tv, cosa pensa della Rai che verrà? Serve più spazio a volti di centrodestra?
«Non mi è mai piaciuto porre la questione in questo modo. Serve garantire il pluralismo dando spazio alla professionalità, senza etichette di parte. È quello che il governo si è impegnato a fare».
Ma lei che futuro vede per Forza Italia?
«Per Forza Italia vedo una funzione sempre più importante, perché noi e solo noi siamo il centro liberale e cristiano, che è indispensabile in una democrazia europea ed è parte essenziale della coalizione di governo. Sul piano dei consensi siamo stati penalizzati negli anni scorsi dagli effetti di una persecuzione giudiziaria nei miei confronti basata sul nulla e conclusa con una serie di assoluzioni, ma che ci ha gravemente danneggiato sul piano dell’immagine. Credo che gli italiani se ne stiano progressivamente rendendo conto e che torneranno a darci una larga fiducia».
E come vede la strada che sta imboccando il nostro Paese, tra crescita imprevista ma anche problemi strutturali e gestionali cronici?
«L’Italia, il Paese che amo, ha un grande futuro, perché il nostro è un popolo straordinario, capace di veri miracoli. Ma abbiamo anche grandi problemi da risolvere, a cominciare da una povertà diffusa davvero inaccettabile e dalla difficoltà per i giovani a costruirsi un futuro. Dobbiamo riformare la giustizia, snellire la burocrazia, modernizzare le infrastrutture. Dobbiamo insomma rendere il nostro Paese attrattivo per chi lavora e per chi crea lavoro. Per il resto, siamo già il Paese più bello del mondo».
(Adnkronos il 19 maggio 2023) – Dai pompelmi all'acqua santa di San Francesco di Paola, fino alla Madonna della Neve con il lumino, passando per coppole e catenine: Silvio Berlusconi durante la lunghissima degenza al San Raffaele di Milano ha potuto contare anche su omaggi (sacri e profani) portati al capezzale da una 'corte dei miracoli' di supporter venuti da tutta Italia.
Non si sa quanto abbiano contribuito alla guarigione del Cav, ma sicuramente sono in tanti oggi a esultare per le sue dimissioni dall'ospedale, a 44 giorni dal ricovero in terapia intensiva per un'infezione polmonare in un quadro di leucemia mielomonocitica cronica.
Quando le condizioni dell'ex premier destavano ancora grande preoccupazione, una processione spontanea è iniziata fuori dal San Raffaele, dove il 7 aprile è spuntato lo striscione dei tifosi del Monza calcio: "Forza Silvio, Monza è con te", firmato dalla curva Davide Pieri.
Immancabili la 'pasionaria' Noelle, la consacrata che da trent'anni segue il leader azzurro nei momenti più duri, scovata con rosario tra le mani a pregare per lui tra le corsie dell'ospedale e il 'fedelissimo' Marco Macrì, arrivato a Milano dopo dieci ore di treno dal Salento e rimasto a presidiare l'ingresso del San Raffaele per un'intera settimana, Pasqua inclusa, fin quando non è stato costretto al rientro al lavoro a Roma.
E' stato Macrì, appostato con la sua vela 'Forza Silvio, il Salento è con te', a prendere in consegna i tanti doni arrivati da vicino e da lontano. ''Gli ho portato una coppola siciliana e tre pompelmi: uno rappresenta me, uno mio padre e uno Silvio'', che per noi ''è un cugino acquisito", raccontava il 7 aprile un supporter di Berlusconi, prima di consegnare tutto nelle mani del 'fedelissimo', che in appena 24 ore ha raccolto 35 lettere scritte a penna da militanti e fan di ogni età.
'Caro presidente Berlusconi - scriveva un 17enne del Milanese - ti seguo politicamente e moralmente da anni. Ho voluto lasciarti questa lettera per dirti che non sei solo: io sarò sempre con te con il cuore, con la mente, sono sicurissimo che anche questa volta ce la farai'' "In molti casi chi viene giudicato, è migliore di chi giudica", il passaggio di un altro biglietto indirizzato al Cav.
Tra i mittenti c'è anche chi ha tentato di consegnare la lettera direttamente nelle mani di Berlusconi: è il caso di Falco T. (si fa chiamare però 'il Tatuato'), che arrivato al San Raffaele incappucciato e con gli occhiali da sole, è entrato in ospedale diretto alla terapia intensiva, dove il leader di Arcore era ancora ricoverato. E non si è arreso di fronte all'impossibilità di accedere al reparto neanche Ettore Fragale, il 67enne arrivato da Cosenza in Flixbus a Pasquetta per consegnare a "zio Silvio" delle boccette di acqua santa di San Francesco di Paola e l'abitino per le grazie ricevute.
Non è riuscito a metterli nelle mani del presidente, ma ha dato il via - complice la ricorrenza pasquale - ai doni a tema religioso: e così davanti all'ingresso carrabile di via Olgettina 60, quello utilizzato dai parenti e dagli amici più stretti di Berlusconi per andare a fargli visita, Antonio, un operatore ecologico in pensione, ha fissato il quadro di una Madonna delle Neve con dei cerotti, che hanno 'miracolosamente' tenuto per oltre un mese, nonostante l'ondata di maltempo. Si è spento dopo pochi minuti, invece, il lumino acceso dal pensionato, che a opera completata ha detto ai cronisti:
"Speriamo che la Madonna lo salvi. Gli auguro ancora 240 mesi di buona vita''. Passando dal sacro al profano, nel mese e mezzo di ricovero i cronisti appostati fuori dal San Raffaele ne hanno viste di tutti i colori: dal passante che chiedeva 'avete mica visto Claudio Baglioni?', a 'Sasà re di Mykonos' con il suo cartello 'Forza Silvio', fino a John Travolta. O meglio, il sosia di 'Tú sí que vales' Stefano Bonesini.
Questo però non l'ha specificato quando, la sera di Pasqua, si è fatto largo tra i giornalisti e, con aria distinta, giacca e cravatta, ha suonato al citofono dell'ingresso di via Olgettina 60, chiedendo di Berlusconi. ''Chi è lei?'', ha chiesto l'addetto alla sicurezza. Risposta: ''John Travolta''. Poi il balletto, per dimostrare che oltre l'aspetto dell'attore americano ha anche tutte le doti. Un tributo per "Silvio, che mi è simpatico". Chissà se il Cav lo avrà apprezzato.
Le condizioni di Berlusconi, oggi. di Simona Ravizza, Sara Bettoni, Redazione Online su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
Silvio Berlusconi, 86 anni, è ricoverato da ieri in terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano: non sono stati ancora emessi bollettini medici, ma le condizioni sono ritenute gravi
• Silvio Berlusconi è ricoverato da mercoledì 5 aprile all’ospedale San Raffaele di Milano. Si trova in terapia intensiva, e le sue condizioni sono ritenute gravi, ancorché stabili.
• Il senatore di Forza Italia non è intubato, e nella giornata di ieri era vigile.
• Accanto all’ex premier c’è la sua compagna, Marta Fascina. Nel pomeriggio di ieri sono giunti al San Raffaele anche il fratello Paolo Berlusconi, i figli Marina, Barbara, Eleonora, Piersilvio e Luigi e la senatrice Licia Ronzulli: ma solo i familiari hanno potuto vedere il fondatore di Forza Italia.
• Nella giornata di ieri non sono stati emessi bollettini medici; non è chiaro se ne saranno diramati oggi.
Ore 06:51 - La notte più difficile
(Gianluca Mercuri) Quella che è appena trascorsa è stata forse la notte più difficile di Silvio Berlusconi. L’ex presidente del Consiglio è ricoverato da ieri al San Raffaele di Milano e le sue condizioni sono considerate gravi, come conferma il fatto che tutta la sua cerchia familiare e amicale si sia stretta attorno a lui nel giro di poche ore. A dare per ore il titolo ai siti è stata però una frase ottimista del fratello Paolo: «È stabile, è una roccia, ce la farà anche stavolta».
Il leader di Forza Italia è stato ricoverato in terapia intensiva, ma non intubato: il trasferimento nel reparto al piano sotterraneo della palazzina Q dell’ospedale milanese è servito a isolarlo in un ambiente protetto, mentre veniva curato con gli antibiotici.
Ma cos’ha Berlusconi?
Inizialmente si è parlato di problemi respiratori legati a una recidiva di polmonite. E già questo bastava al suo entourage a definire la situazione delicata, anche se non drammatica. Il quadro è complicato da varie patologie e dall’età, 86 anni e mezzo. Ma è un quadro che Simona Ravizza aggiorna con questa rivelazione:
«Silvio Berlusconi soffre di una grave patologia del sangue. La stessa che ha causato il ricovero precedente (dal 27 al 30 marzo): non solo, dunque, esami di routine, ma anche le cure del caso. I dolori che lo affliggono e la polmonite di questi ultimi giorni in realtà sono complicazioni che possono subentrare su un fisico già debilitato».
Un fisico debilitato negli ultimi anni da varie vicissitudini: l’operazione a cuore aperto dopo un malore causato da un’insufficienza aortica, nel giugno 2016, che portò il suo medico Alberto Zangrillo a dire che aveva «rischiato di morire»; la colica renale acuta dell’aprile 2019; il Covid e la polmonite bilaterale nel settembre 2020; i 24 giorni di ricovero nell’aprile 2021, con valori anomali legati a problemi immunitari; l’infezione alle vie urinarie nel gennaio 2022, mentre si candidava alla presidenza della Repubblica. Ma è da un quarto di secolo che Berlusconi si difende da mali di ogni tipo: dal cancro alla prostata nel 1997, rivelato tre anni dopo, all’attentato — con una statuetta del Duomo scagliatagli sul volto — di cui fu vittima nel 2009.
Berlusconi, il più importante politico italiano degli ultimi trent’anni nonché la personalità più divisiva, ieri ha ricevuto messaggi di auguri da tutto il mondo politico, tranne dai 5 Stelle e dalla sinistra radicale.
La sua ultima uscita pubblica è stata sul suo profilo Instagram, il 2 aprile, domenica delle Palme: «Per me è anche la festa di tutti i fiori. Io li amo tutti, ma più di tutti amo i tulipani, soprattutto per la varietà dei loro colori. E allora guardate cosa ho combinato: un prato, un grande prato tutto di tulipani a casa mia, vi piacciono? Allora cercherò di farvelo vedere meglio in televisione. Per ora vi tulipano, no scusate ho sbagliato; vi saluto e vi abbraccio tutti!».
Ore 07:11 - Il corpo di Berlusconi, continuo elemento di sfida: gli infortuni, gli interventi e la statuetta sul viso
(Tommaso Labate) Adesso che amici e avversari pregano perché venga fuori dalla terapia intensiva del San Raffaele col ghigno classico di chi l’ha scampata bella ancora una volta, regalando nuova gloria alla vecchia teoria del medico Umberto Scapagnini sulla straordinarietà di un sistema neuro-immunitario che lo renderebbe «tecnicamente immortale», adesso insomma si può aggiornare il calcolo delle parti del corpo di Silvio Berlusconi che hanno finora ricacciato all’indietro i colpi proibiti del malanno.
Una guerra politica, più che un affare di salute: nella storia italiana a cavallo tra i due millenni, insieme forse al solo Marco Pannella — che però si è sottoposto a un numero imprecisato di scioperi della fame, oltre che all’auto-somministrazione di un’ottantina di sigarette al giorno fino all’ultimo giorno — Silvio Berlusconi ha assistito da vivo a quello che altre personalità di primissimo piano della politica del Dopoguerra, da Aldo Moro a Enrico Berlinguer, hanno avuto solo da morti.
E cioè al fenomeno di un corpo che si trasforma in strumento di lotta politica, motore di consenso, inchiostro per pagine di giornali e per libri di storia, stampa su magliette e spillette, materiale da convegno, icona impermeabile all’incedere del tempo. Ore 07:07 - I figli in visita, con Confalonieri e il fratello Paolo
(Sara Bettoni) La famiglia di Silvio Berlusconi e le persone a lui care gli si stringono attorno, nel difficile momento del nuovo ricovero al San Raffaele di Milano. Non il primo, ma sicuramente uno di quelli considerati con più preoccupazione.
L’apprensione si misura dalla scelta di mantenere un grande riserbo e in quella di evitare di sbilanciarsi con bollettini ufficiali.
È stata Marta Fascina, deputata 33enne di Forza Italia e compagna di Berlusconi (solo un anno fa hanno celebrato a Villa Gernetto, a Lesmo, un matrimonio simbolico) ad accompagnarlo di corsa in via Olgettina ieri. Gli è stata accanto per tutta la giornata.
Nei corridoi della struttura sanitaria ha trascorso lunghe ore anche Fedele Confalonieri, amico di una vita.
Il fratello di Silvio, Paolo, è stato tra i primi ad arrivare in ospedale per seguire gli sviluppi della polmonite che ha colpito Berlusconi. L’unico a concedere poche parole ai giornalisti che per tutto il pomeriggio hanno affollato gli ingressi del San Raffaele. «È stabile, è una roccia. Il suo umore? Il nostro è buono» ha detto infilandosi in auto.
Tutti i figli dell’ex premier gli hanno fatto visita per manifestargli vicinanza: Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora. A loro si è aggiunto un poco più tardi anche Luigi.
Licia Ronzulli, capogruppo di Forza Italia in Senato — a cui da poco è stato tolto il coordinamento della Lombardia — ha voluto raggiungere l’ospedale una volta appreso delle sue condizioni. Ha preso un volo da Roma attorno alle 14, è arrivata al San Raffaele, ma l’accesso alla terapia intensiva è stato riservato solamente ai parenti e a Fascina.
Ore 07:16 - La malattia del sangue che ha colpito Berlusconi
(Simona Ravizza) Solo 10 giorni fa, lunedì 27 marzo, Silvio Berlusconi entra al San Raffaele nel tardo pomeriggio, e lo fa sulle sue gambe: per i beninformati sulle condizioni di salute dell’ex premier è un particolare importante che spinge a considerare il ricovero ormai quasi una routine alla voce «esami di controllo». Niente ambulanza, nessun elicottero come successo in passato.
Ma il sospetto che qualcosa non vada per il verso giusto arriva subito dopo.
Di ieri, ad appena una settimana di distanza dal rientro ad Arcore, il ritorno a sorpresa al San Raffaele intorno a mezzogiorno: anche stavolta l’ingresso è con l’auto privata e senza ambulanza. Poco dopo l’1 di pomeriggio la notizia che sorprende tutti: si è reso necessario l’ingresso in terapia intensiva, padiglione Q, piano - 1.
Le prime indiscrezioni parlano di problemi respiratori legati a una recidiva di polmonite. Chi ben conosce Silvio Berlusconi non nasconde che la situazione è delicata, anche se non viene definita drammatica.
La certezza che c’è qualcosa di ancora più grave arriva poco dopo: Silvio Berlusconi soffre di una grave patologia del sangue. La stessa che ha causato il ricovero precedente: non solo, dunque, esami di routine, ma anche le cure del caso.
I dolori che lo affliggono e la polmonite di questi ultimi giorni in realtà sono complicazioni che possono subentrare su un fisico già debilitato.
Poi la Pet, il prelievo del midollo, le cure. E forse la notte più complicata della vita.
Ore 07:32 - Così è scattato l’allarme, ieri
(Sara Bettoni) L’allarme scatta poco prima di mezzogiorno. Un malessere, il respiro affannoso, poi il viaggio in auto in tutta fretta verso via Olgettina insieme alla compagna Marta Fascina.
Il fondatore di Forza Italia si affida come di consueto alle cure di Alberto Zangrillo, suo medico personale e direttore della terapia intensiva.
Dopo una tac e gli esami del sangue, una volta accertata l’infezione polmonare, il primario decide di trasferirlo nel reparto al piano sotterraneo della palazzina Q.
Non viene intubato, ma si procede con gli antibiotici.
Il ricovero in terapia intensiva viene visto come una scelta precauzionale, per garantire al paziente un ambiente il più possibile protetto. Nessun bollettino medico ufficiale dal San Raffaele (qui i particolari sulla malattia dell’ex premier, una forma di leucemia).
È Antonio Tajani, ministro degli Esteri, ad accennare qualche dettaglio sullo stato di salute del leader attorno alle 14.
«Non era stato risolto il problema che riguardava una infezione, ma parla» dice a margine della riunione ministeriale Nato di Bruxelles.
Tantissimi i messaggi di sostegno, soprattutto dal mondo di centrodestra, che si susseguono col passare delle ore. La premier Giorgia Meloni twitta: «Un augurio sincero e affettuoso di pronta guarigione a Silvio Berlusconi, ricoverato al San Raffaele di Milano. Forza Silvio». Alle sue parole si accompagnano quelle di Ignazio La Russa, a nome suo e del Senato: un incoraggiamento rivolto al «senatore e amico». Proprio dai colleghi di Palazzo Madama scatta l’applauso al momento della chiamata a Berlusconi, che cade nel vuoto. Auguri di rapida guarigione anche dal presidente della Camera Lorenzo Fontana. Uguale supporto arriva da Anna Maria Bernini, ministra dell’Università e della Ricerca e vicecoordinatrice nazionale di Forza Italia: «Forza grandissimo presidente, siamo come sempre tutti al tuo fianco. Ti aspettiamo prestissimo con tutto l’entusiasmo e la carica che ogni giorno ci ispiri e ci insegni». Dal fronte leghista, il vicepremier e ministro Matteo Salvini pubblica sui social network uno scatto insieme a Berlusconi in Sardegna, corredato da una didascalia: «Forza Silvio, l’Italia ti aspetta!». Da Valditara a Crosetto, da Sangiuliano a Locatelli fino a Santanché e Fitto, il governo esprime solidarietà. Matteo Renzi (Italia viva) manda un «grande in bocca al lupo» a Berlusconi, durante la conferenza stampa in cui viene presentato come nuovo direttore del Riformista, mentre Carlo Calenda (Azione) lo definisce un «leone». Dal Pd il capogruppo Francesco Boccia coglie l’occasione di un intervento in Aula per inviare i propri auguri. Sostegno dai parlamentari Andrea Orlando e Debora Serracchiani.
Silenzio, invece, dagli esponenti del Movimento 5 Stelle.
Silvio Berlusconi da tempo “malato di leucemia mielomonocitica cronica”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2023
Al San Raffaele il fratello Paolo e i figli Luigi e Marina. Le condizioni di Silvio Berlusconi, oggi, e le ultime notizie sulla salute dell’ex premier, età: 86 anni, ricoverato da ieri in terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano per una polmonite, insorta in seguito a una leucemia.
“Il presidente Silvio Berlusconi è attualmente ricoverato in terapia intensiva per la cura di un’infezione polmonare. L’evento infettivo si inquadra nel contesto di una condizione ematologica cronica di cui è portatore da tempo: leucemia mielomonocitica cronica, di cui è stata accertata la persistente fase cronica e l’assenza di caratteristiche evolutive in leucemia acuta” secondo quanto riporta il bollettino diffuso dall’Ospedale San Raffaele di Milano, dove l’ex premier è ricoverato da ieri.
“La strategia terapeutica in atto prevede la cura dell’infezione polmonare, un trattamento specialistico citoriduttivo mirato a limitare gli effetti negativi dell’iperleucocitosi patologica e il ripristino delle condizioni cliniche preesistenti”, prosegue il bollettino firmato dal medico personale Alberto Zangrillo, direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapia intensiva del San Raffaele, e da Fabio Ciceri, primario delle Unità di Ematologia e Trapianto di midollo osseo e Oncoematologia.
La leucemia mieloide cronica (LMC) “è una malattia che si sviluppa nel midollo osseo e progredisce lentamente”, viene spiegato sul sito dell’Airc. “Il midollo osseo è un tessuto spugnoso“, dove “originano cellule immature, dette anche cellule staminali o blasti, da cui si sviluppano le cellule che costituiscono la parte corpuscolata del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine). Se nel percorso che porta le cellule staminali a diventare adulte subentrano errori e mutazioni, può avvenire una trasformazione maligna che dà origine alla LMC”.
Sia il fratello Paolo Berlusconi che la figlia maggiore del Cavaliere Marina, dopo essersi recati in ospedale questa mattina, sono tornati nel pomeriggio. In mattinata al San Raffaele era arrivato anche il figlio Luigi: i tre si sono trattenuti nel nosocomio per poco più di due ore.
A far visita all’ex premier nel pomeriggio anche il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri. “Oggi molto meglio di ieri – ha detto Confalonieri interpellato dai cronisti – Ci sono i medici. Stava dormendo. C’è preoccupazione però siamo più ottimisti“.
La prima notte in ospedale per Berlusconi è trascorsa senza particolari novità, avevano fatto sapere questa mattina fonti ospedaliere che in un primo momento avevano escluso la diffusione di un bollettino per la giornata di oggi. “Notte tranquilla, le condizioni sono stabili” ha dichiarato il vicepremier, ministro degli Esteri e numero due di Forza Italia, Antonio Tajani. “Ho parlato col professor Zangrillo che mi ha detto che le condizioni sono stabili – ha poi affermato intervenendo a “Start” su Sky TG24 – Lui chiama al telefono dirigenti del suo partito e questo significa che è vigile e dà indicazioni concrete”.
La telefonata ai vertici di Forza Italia
Da quanto si è appreso a seguito di una nota dell’Ufficio stampa di Forza Italia, Berlusconi questa mattina ha telefonato a Tajani, ha parlato con il capogruppo alla Camera Paolo Barelli, con il vice presidente del Senato Maurizio Gasparri e ha sentito gli altri dirigenti e vertici del partito. Ha rivolto un affettuoso saluto e ha raccomandato il massimo impegno in Parlamento, al governo e in Forza Italia perché “il Paese ha bisogno di noi!“. Tutti gli hanno assicurato che non mancheranno di essere più attenti, ligi e presenti nel seguire le sue indicazioni, in attesa che si ristabilisca presto e torni a essere il combattente di sempre, si apprende dalla nota.
“Il presidente Berlusconi mi ha chiamato questa mattina: ero con dei colleghi al telefono e vedevo l’insistenza di una telefonata. La cosa mi ha fatto molto piacere, mi ha detto che ha lavorato fino a ieri sera e che si è interessato dei lavori parlamentari e dell’impegno di Forza Italia per il sostegno al governo” ha detto Barelli. “Era impegnato – ha ribadito il presidente dei deputati azzurri – nel voler essere informato dei lavori parlamentari e dell’attività organizzativa del partito, come se niente fosse. Ovviamente è una persona ricoverata, risulta che sta reagendo alle cure in maniera significativa. Credo che questa telefonata faccia ben sperare“.
A margine del saluto ai dipendenti di Palazzo Madama per la Pasqua, Gasparri, a chi gli chiedeva della telefonata ricevuta questa mattina dal leader di Fi, ha risposto: “Berlusconi ha fatto delle telefonate stamattina, già mi sembra questo un segno di speranza, direi che l’ho sentito normale, anche se so bene il contesto, per questo ho evitato che facesse sforzi”. “Ci ha detto di agire, è stato commovente, anche perché ieri sera ci siamo addormentati tutti preoccupati“, ha aggiunto. “Il presidente c’è – ha sottolineato – ora tocca ai medici, immagino che la vicenda sia impegnativa, ma il solo fatto che lui abbia pensato di voler comunicare ti dà lo spirito del personaggio”. “Ora aspettiamo e vediamo – ha concluso – Capisco la sua volontà di dare un segnale“.
Casini: “Come tanti condivido apprensione familiari”
“Voglio abbracciare affettuosamente Silvio Berlusconi che conosco da tanti anni e con cui sono sempre rimasto, anche negli anni del più duro dissenso, in un rapporto di sincera amicizia. Come tanti italiani, condivido l’apprensione dei suoi familiari” scrive Pier Ferdinando Casini su Facebook.
Marina e Paolo tornati al San Raffaele
Sono ritornati alle 15 di oggi omeriggio all’ospedale San Raffaele di Milano Marina e Paolo Berlusconi, la figlia primogenita e il fratello di Silvio Berlusconi che si trova ricoverato da ieri in terapia intensiva nella struttura. I due sono arrivati con la stessa auto; per loro è la seconda visita odierna all’ex premier dopo quella di questa mattina.
“Auguri e in bocca al lupo a Silvio Berlusconi. Esprimo anche la gioia personale di aver visto ieri tutto il Senato applaudire quando Berlusconi è stato nominato durante il voto di fiducia” ha dichiarato Raffaella Paita Presidente del Gruppo Azione-Italia Viva al Senato a SkyTg24.
Berlusconi reagisce bene, leucemia è trattabile
Le condizioni di Silvio Berlusconi “registrano oggi un incoraggiante miglioramento rispetto a ieri. Sebbene la situazione imponga la massima prudenza, l’ex premier starebbe reagendo in modo positivo alla terapia antibiotica decisa per curare la polmonite insorta negli scorsi giorni“.
Lo apprende l’Ansa da fonti vicino al presidente. “La forma di leucemia cronica da cui è affetto da tempo – come riferiscono le stesse fonti – peraltro non sarebbe rara per soggetti della sua età e viene normalmente trattata con terapie poco invasive, consentendo una qualità della vita pressoché normale“.
“Siamo più sollevati, c’è un miglioramento. Siamo fiduciosi”. Così Paolo Berlusconi, ha commentato con i giornalisti uscendo dall’ospedale San Raffaele di Milano, dove ha fatto visita al fratello Silvio ricoverato da ieri. “Adesso sta riposando” ha concluso.
Alle 18 di oggi è arrivato al San Raffaele anche l’amministratore delegato del Monza, Adriano Galliani, per far visita all’ex premier Silvio Berlusconi. “Chi ci crede combatte, chi ci crede supera tutti gli ostacoli, chi ci crede è un vincente. Forza Presidente, ti aspettiamo presto”. Questo il messaggio inviato da tutti i calciatori del Monza, attraverso un video sui canali social del club, al presidente Silvio Berlusconi ricoverato all’ospedale San Raffaele.
Berlusconi, è Marta Fascina a gestire i contatti: il nuovo ruolo (con il benestare dei figli del Cavaliere) della “quasi moglie” di Silvio
Che il ruolo di Marta Fascina fosse in forte ascesa all’interno della famiglia Berlusconi si era capito già da tempo. Ma che improvvisamente potesse diventare così centrale, sia nella sfera privata che politica di Silvio Berlusconi, forse non se lo immaginava neanche lei stessa. Da quando l’ex premier è ricoverato nel reparto di terapia intensiva del San Raffaele, è la Fascina a tenere i rapporti con l’esterno, a dare informazioni sulle condizioni di salute del Cavaliere, ma anche a badare agli equilibri interni di Forza Italia. Con una delega pressochè totale.
Un ruolo ben visto e condiviso con i figli di Berlusconi, Piersilvio e Marina in particolar modo, che l’hanno in qualche modo eletta “first lady” di Arcore. Ma anche quello di Antonio Tajani e l’ala “governista” del partito. E così Marta Fascina si è ritrovata a gestire un’enorme mole di contatti, a raccogliere un’eredità pesantissima come può essere quella dei rapporti e contatti di Silvio Berlusconi.
La deputata trentatreenne originaria di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), cresciuta a Portici (Napoli), non è più la ragazzina riservata entrata in Forza Italia nel 2018. Non a caso nel partito crescono di numero (e di “peso” politico) le persone vicine alla Fascina, mentre il graduale allontanamento di Licia Ronzulli – anche ieri rimbalzata all’ingresso del San Raffaele – sta a manifestare la definitiva benedizione sul ruolo della fidanzata di Silvio Berlusconi. Che il Cavaliere chiama “moglie“. Redazione CdG 1947
Leucemia mielomonocitica cronica: cos'è la malattia che ha colpito Berlusconi. Giampiero Casoni su Notizie.it il 6 Aprile 2023
Leucemia mielomonocitica cronica: cos’è la malattia che avrebbe colpito Silvio Berlusconi anche se persone a lui vicine hanno detto che non risulta tale diagnosi. Sintomi, terapia e conoscenze attuale su una patologia che tende ad insorgere in età avanzata sono al centro dell’attenzione pubblica dopo il ricovero in terapia intensiva del leader di Forza Italia al San Raffaele di Milano.
Berlusconi ha la Leucemia mielomonocitica cronica
Premessa: in questa sede si analizza una diagnosi ufficiale. La Leucemia mielomonocitica cronica colpisce generalmente persone in età avanzata, in media intorno ai 70 anni. Non è fra le neoplasia sanguigne più aggressive ma “rappresenta comunque un grave problema di salute”. La forma leucemica di cui soffrirebbe Silvio Berlusconi, come comunicato oggi nel ‘bollettino’ diramato dall’ospedale San Raffale di Milano, è una malattia cronica che ha un rischio elevato di evoluzione clinica. Quale?
I dati Airc e le possibilità di terapia
Quello che si trasformi in una leucemia mieloide acuta, quella davvero pericolosa. I dati dell’Airc spiegano che si tratta di una patologia relativamente rara: in Italia colpisce circa 2 persone (2,4 per gli uomini e 1,8 per le donne) ogni 100.000. Il Riformista spiega che “si stimano quindi ogni anno circa 650 nuovi casi tra gli uomini e 500 tra le donne”. E le possibili cure? Una cura c’è e se ne era parlato a proposito del caso dello scrittore Alessandro Baricco: il trapianto di cellule staminali da un donatore.
Cos’è la leucemia mielomonocitica cronica? E la terapia citoriduttiva che sta facendo Berlusconi? Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
La leucemia mielomonocitica cronica che ha colpito Berlusconi è uno dei molti sotto tipi di tumori del sangue esistenti: ognuno richiede cure differenti. Oltre alla chemioterapia, esistono farmaci mirati, a bersaglio molecolare. Ecco i sintomi che possono insospettire
Silvio Berlusconi è ricoverato in terapia intensiva, al San Raffaele di Milano, a causa di una polmonite, conseguenza di una leucemia mielomonocitica cronica.La leucemia mielomonocitica cronica è una rara forma di leucemia, un tumore del sangue che colpisce le cellule staminali del midollo osseo, da cui «nascono» tutte le cellule del sangue (globuli rossi, bianchi e piastrine). In Italia si stimano circa 600 nuovi casi annui, ma non esistono numeri precisi. Si manifesta soprattutto attorno ai 70 anni, assai di rado può interessare persone più giovani. Come la maggior parte dei tumori del sangue, generalmente non dà sintomi specifici e viene per lo più scoperta attraverso esami del sangue di routine che presentano alcuni valori «sballati» (è sempre presente monocitosi, aumento dei monociti, che sono un tipo di globuli bianchi)
Come si arriva alla diagnosi di leucemia?
«L’ematologo procede con analisi del sangue specifiche, con l’agoaspirato midollare (per la biopsia), l’unica procedura che consente di avere una diagnosi certa – spiega Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) e direttore di Ematologia alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori (Int) di Milano -. Dagli esiti emergono informazioni utili a valutare, oltre alla cura, il tipo preciso di leucemia mielomonocitica cronica (ne esistono diversi sottotipi) lo stadio della malattia, i rischi per il paziente e, dunque, farsi un’idea della prognosi».
Quali sono le terapie?
«La maggior parte delle volte la leucemia mielomonocitica cronica evolve lentamente: il paziente può continuare le sue normali attività, ma fa dei controlli specifici - risponde Fabrizio Pane, Ordinario di Ematologia e direttore dell’Unità Operativa di Ematologia e Trapianti di Midollo all’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. In alcuni casi la malattia è così poco aggressiva che per molto tempo, anche anni, le persone non devono neppure sottoporsi a trattamenti. Oppure vengono prescritte cure per “bilanciare” le anomalie del sangue presenti nel singolo malato. In altri casi si inizia una terapia cosiddetta citoriduttiva (cioè quella prescritta a Berlusconi) che può essere con idrossurea con farmaci biologici ipometilanti (azacitidina oppure decitabina)».
Poi come si procede?
«Dipende. Se la malattia evolve in leucemia mieloide acuta si deve fronteggiare un tumore molto più aggressivo, con una prognosi spesso severa - risponde Corradini -. La strategia di cura per la mieloide acuta (la forma che aveva colpito l'ex calciatore Sinisa Mihajlovic) prevede cicli di chemioterapia ad alte dosi. Quando le condizioni del paziente lo consentono, si procede in seguito con un trapianto di cellule staminali, che è l’unico trattamento in grado di far sperare nella guarigione completa, ma che è molto complesso, pesante da tollerare e non può quindi essere eseguito in persone anziane (i 70 anni sono per lo più considerati l’età-limite) e con altre patologie».
Qual è la prognosi del paziente?
«In fase iperproliferativa (significa che la malattia sta procedendo rapidamente) la situazione è complessa - chiarisce Pane -. Ma si tratta di una situazione estremamente eterogenea, che varia da persona a persona, in base a diversi fattori, a partire dall’età e dalle condizioni generali di salute del singolo malato, oltre alla presenza di eventuali altre patologie diverse dal tumore. Se la cura prevista per la leucemia mielomonocitica cronica fa effetto, si può tenere sotto controllo la malattia anche per anni. Se invece la neoplasia “accelera” velocemente il suo decorso la situazione potrebbe degenerare in fretta».
Insomma, per valutare la situazione, bisogna conoscere bene molti aspetti e sapere con precisione tanti fattori relativi allo specifica neoplasia della singola persona. Esistono oltre 100 tipi diversi di tumori del sangue appartenenti a tre grandi macro-gruppi: leucemie, linfomi e mielomi. Per ognuno di questi ci sono poi decine di sottotipi differenti, che richiedono cure specifiche e che hanno una prognosi molto varia. Ogni anno sono circa 30mila gli italiani che si ammalano di una neoplasia ematologica. In alcuni casi il paziente non deve neppure fare dei trattamenti, ma soltanto controlli e convive con il tumore anche decenni. In altri, purtroppo, la malattia è talmente aggressiva che può provocare il decesso nel giro di pochi giorni.«Anche le leucemie possono manifestarsi in forma acuta (più grave e con un decorso aggressivo), ma la maggior parte in realtà tende ad avere un andamento molto “lento” o cronico» chiarisce Paolo Corradini.
Se è certo che, essendo i tumori patologie tipiche dell’invecchiamento, due terzi dei malati oncoematologici sono persone con più di 65 anni, molto più complicato è rispondere alla domanda: come si cura la leucemia? «Impossibile dare una risposta valida per tutti, la decisione viene presa innanzitutto in base al sottotipo di tumore in questione e poi considerando diversi fattori, a partire dall’età e dalle condizioni di salute generali del paziente» spiega Fabrizio Pane.
Quali sono i sintomi che devono insospettire?
«I segnali iniziali sono sempre piuttosto vaghi e poco specifici e potrebbero essere spia di molte altre patologie, non di rado simili a quelli di una brutta influenza) – conclude Corradini —. È però importante parlare con un medico in presenza di: febbre o febbricola (in particolare pomeridiana o notturna) e un senso di debolezza che perdurano senza cause apparenti per più di due settimane; dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono; perdita di appetito e dimagrimento improvviso e ingiustificato; emorragie sottocutanee (piccole chiazze rosse chiamate petecchie) e/o sanguinamenti delle mucose spontanei (epistassi e; sanguinamenti e ulcerazioni del cavo orale); gonfiore indolore di un linfonodo superficiale del collo, ascellare o inguinale. Possono essere presenti anche una sudorazione eccessiva, soprattutto di notte, che obbliga a cambiare gli indumenti e un prurito persistente diffuso su tutto il corpo».
Berlusconi, la leucemia cronica e l’insufficienza renale: le cure e le speranze della famiglia. Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023
Il leader di Forza Italia è in terapia intensiva ma la malattia è trattabile e i figli e il fratello si dicono «più sollevati». I problemi ai reni ora sotto controllo, l’azione per ridurre i globuli bianchi
Dopo i timori e il grande spavento, è il momento del cauto ottimismo. Perlomeno della speranza. È troppo presto per tirare un sospiro di sollievo, ma le condizioni di Silvio Berlusconi ricoverato dall’altroieri in Terapia intensiva al San Raffaele sono in leggero miglioramento. La diagnosi di leucemia cronica, scoperta oltre un anno fa, non è rara visti gli 86 anni compiuti. L’ex premier ora è sotto chemioterapia.
La lotta è contro i globuli bianchi alle stelle: il tentativo di farli scendere è affidato a una pastiglia, che non comporta effetti fastidiosi anche psicologicamente come la caduta dei capelli e la nausea. I forti dolori alla schiena che hanno afflitto il leader di Forza Italia negli ultimi tempi sono una delle conseguenze della malattia.
In questo contesto va inserito anche il ricovero di quattro giorni dal 27 al 30 marzo. E legati alla leucemia sono soprattutto i rischi di processi infiammatori che la grave patologia del sangue può scatenare a cascata. La polmonite è uno di questi: di qui la cura antibiotica che potrà dare a breve i primi effetti.
L’altro problema che ha fatto preoccupare è l’insufficienza renale, che ora appare sotto controllo. In chi ben conosce lo stato di salute del premier c’è la voglia di credere che anche stavolta il fondatore di Fininvest e di Mediaset darà prova della sua capacità di reagire, come già avvenuto in passato. Ma allo stesso tempo c’è la consapevolezza che non bisogna cadere in eccessi di ottimismo. Cautela, è la parola che ripete chi più gli sta vicino.
La leucemia, anche se in forma cronica, rende Berlusconi come gli altri malati un soggetto immunodepresso: in queste condizioni ogni minima complicazione può fare cambiare il quadro clinico da un momento all’altro. Il miglioramento delle sue condizioni viene, comunque, definito incoraggiante.
Silvio Berlusconi resta in terapia intensiva: impossibile al momento fare previsioni su quanto tempo dovrà restarci. È al padiglione Q, piano - 1, in un box isolato dal passaggio dei parenti degli altri malati. Al fianco del medico di fiducia Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione, da ieri esce allo scoperto anche Fabio Ciceri, primario di Ematologia, Trapianto di midollo osseo e Oncoematologia.
Nelle ultime settimane l’ex premier è stato sottoposto a Pet e prelievo del midollo, i tipici esami per arrivare alla diagnosi di leucemia. Nella giornata di ieri più volte scatta l’allarme: la vita di Berlusconi appare appesa a un filo. Sotto osservazione i movimenti dei figli: nel primo giorno di ricovero, l’altroieri 5 aprile, il loro arrivo tempestivo, uno dopo l’altro, a trovare il papà è il primo segnale che stavolta non si tratta dei controlli di routine a cui le cronache sulla salute di Berlusconi ci hanno abituato. E ieri il loro andirivieni viene interpretato a più riprese come la prova di un aggravarsi delle condizioni del leader di Forza Italia. Supposizioni smentite dalla realtà: anche a tarda sera le condizioni dell’ex premier non vengono definite drammatiche.
Del resto, Silvio Berlusconi ha sorpreso più volte. È il giugno 2016 quando dopo l’operazione a cuore aperto in seguito a un malore causato da un’insufficienza aortica Zangrillo dichiara: «Ha rischiato di morire, era davvero in condizioni severe, preoccupanti e ne era consapevole». E dopo il Covid del settembre 2020 è lo stesso Berlusconi ad ammettere: «Grazie al cielo e alla professionalità dei medici ho superato quella che considero la prova più pericolosa della mia vita». Nessuno può scommettere se sarà così anche stavolta. Quel che è certo è che la famiglia si consola pensando che Berlusconi sta reagendo bene e che il tipo di leucemia è trattabile. Lo spiega il fratello Paolo uscendo dall’ospedale: «Sta riposando. Siamo più sollevati, c’è un miglioramento. Abbiamo la consapevolezza che è curato nel migliore dei modi e quindi siamo fiduciosi».
Dagonews il 7 aprile 2023.
La diagnosi di leucemia mielomonocitica cronica su Silvio Berlusconi risale a due anni fa. La malattia è stata tenuta sotto controllo fino alla fine di marzo, quando l’aggravarsi dei problemi al sangue ha destato preoccupazione rendendo necessario il primo ricovero al San Raffaele.
In quell’occasione il Cav è stato sottoposto al primo ciclo di chemioterapia per contrastare questa particolare forma di leucemia.
Si tratta di una terapia molto pesante che ha debilitato l’organismo dell’ottantaseienne Silvio e portato alla polmonite bilaterale acuta. Le difficoltà respiratorie del Cav (“Mi manca l’aria”) lo hanno costretto a un secondo ricovero al San Raffaele. Berlusconi, arrivato in ospedale alle 5 del mattino, è stato sottoposto a un secondo ciclo di cure chemioterapiche. Il “vecchio leone” di Arcore starebbe reagendo positivamente alle cure. La situazione, per ora, resta stazionaria…
Estratto da open.online
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La chemioterapia
L’esperto spiega che la chemioterapia è la cura necessaria: «Si usa in genere la azacitidina, una terapia demitilante che si somministra per via sottocutanea per sette giorni al mese». Si deve poi somministrare periodicamente. L’obiettivo è portare alla guarigione il midollo osseo in tempi lunghi. Sperando che non dia tossicità. Invece in caso di leucemia acuta si usa il trattamento d’urto, quello per via endovenosa. Tra gli effetti collaterali Pagano spiega che il paziente può andare incontro all’aplasia post chemioterapica.
«Si tratta di un periodo di 15 giorni durante il quale non ha difese nei confronti delle infezioni perché i globuli bianchi sono molto bassi», aggiunge il dottore. «In queste condizioni si possono sviluppare infezioni di tipo batterico o fungino», fa sapere. E il paziente può rischiare una sofferenza cardiaca e un numero crescente di episodi emorragici. Tra cui il più pericoloso è quello cerebrale. Oltre al rischio di polmoniti e sepsi.
La pastiglia
Il Corriere della Sera invece scrive che Berlusconi sta assumendo la chemioterapia tramite una pastiglia. Che non comporta, dice, la nausea e la caduta dei capelli. I dolori alla schiena che hanno afflitto l’ex Cavaliere invece sono una delle conseguenze della malattia. E sono legati alla leucemia anche i rischi di processi infiammatori a cascata. Come la polmonite, curata con gli antibiotici e che dovrebbe avere i primi effetti a breve. (...)
Prognosi e diagnosi La particolarità della forma che ha colpito Silvio Berlusconi è che la malattia è caratterizzata dall’aumento di una particolare popolazione di globuli bianchi: i monociti. Il trattamento è richiesto quando le cellule cancerose aumentano così tanto da bloccare la produzione di globuli rossi, piastrine e globuli bianchi normali da parte del midollo osseo. La prognosi associata alle neoplasie del sangue sta migliorando significativamente in tutte le fasce d’età. Le immunoterapie, i farmaci a bersaglio molecolare e gli approcci intercellulari stanno modificando la storia clinica del trattamento dei tumori. Sebbene il tasso di successo sia ancora molto variabile, queste nuove prospettive fanno davvero ben sperare.
Zangrillo e Ciceri, i due medici di Berlusconi: il primario-amico e l’esperto di leucemia. Silvia Turin su Il Corriere della Sera l’8 Aprile 2023
Le due figure chiave: il primo lo segue da 30 anni, il secondo si occupa da sempre di leucemia
Due figure chiave dell’ospedale San Raffaele si occupano dei parametri vitali e della patologia per cui Silvio Berlusconi è ricoverato in terapia intensiva: sono Alberto Zangrillo e Fabio Ciceri.
Il primo è da 30 anni il medico personale del leader di Forza Italia, sempre vicino in tutti i momenti in cui c’è stato bisogno di intervenire, ma anche legato a Silvio ormai da un’amicizia profonda.
Il secondo è stato chiamato per affrontare le conseguenze della leucemia mielomonocitica cronica diagnosticata a Berlusconi e causa delle complicazioni in atto, in particolare modo la polmonite bilaterale e l’insufficienza renale.
Le ultime notizie sul ricovero di Silvio Berlusconi, in diretta
Ciceri si occupa da sempre del trattamento di leucemie acute, linfomi aggressivi, neoplasie mieloproliferative e anemie. Nel corso della sua carriera ha maturato competenze avanzate nel campo del trapianto di midollo. Da anni è impegnato nello sviluppo clinico di programmi di terapie avanzate (come la terapia genica e quella cellulare) nell’ambito oncologico e non.
Nato il 29 luglio 1964 a Milano, Fabio Ciceri è primario delle unità di Ematologia e trapianto di midollo osseo e dal 2022 direttore del Cancer center dell’Irccs ospedale San Raffaele. È ordinario di Ematologia all’università Vita-Salute San Raffaele, dove dirige la rispettiva scuola di specializzazione ed è presidente di Gitmo, Gruppo italiano di trapianto midollo osseo.
Appassionato di musica classica e opera, è attivo anche nel sociale. È impegnato da anni nella cooperazione internazionale in ambito medico sanitario con Aispo (Associazione italiana per la solidarietà tra i popoli), ong di cui è anche presidente.
Figura più nota al pubblico, anticonformista, corteggiato più volte dalla politica, Alberto Zangrillo ha sempre scelto la medicina dichiarando «sono nato medico e morirò medico». Attualmente è primario dell’unità operativa di Anestesia e rianimazione generale, cardio-toraco-vascolare e dell’area unica di Terapia intensiva cardiologica e cardiochirurgica. Per l’università Vita-Salute San Raffaele ricopre i ruoli di prorettore per le attività cliniche e professore ordinario di Anestesiologia e rianimazione.
La sua carriera medica è stata interamente dedicata alla rianimazione. Zangrillo ha lavorato tantissimo affinché la terapia intensiva fosse interpretata in modo multidisciplinare coinvolgendo di volta in volta le competenze utili al malato.
Tra i suoi successi clinici si ricorda il caso di un 14enne di Cuggiono, Michi, rimasto intrappolato nelle acque del Naviglio grande nel 2015 per 43 minuti (dopo il tuffo da un ponte) e rianimato con una tecnica «estrema» che ha permesso al ragazzo di risvegliarsi in buona salute dopo un mese.
Nato a Genova il 13 aprile del 1958, tifoso accanito del Genoa Calcio fin da bambino, da due anni ne è anche diventato il presidente. È stato insignito del titolo di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana e di Commendatore.
Estratto da open.online il 10 aprile 2023.
Sono state diverse le visite ricevute dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, […] ricoverato all’ospedale San Raffaele dopo le complicazioni di una polmonite e per proseguire la chemioterapia contro la leucemia mielomonocitica cronica.
A raggiungere nel pomeriggio di ieri, domenica 9 aprile, l’ex premier nel reparto di terapia intensiva, […] anche Orazio Fascina, padre di Marta Fascina, deputata di Forza Italia e compagna del Cavaliere. Orazio Fascina dal giorno del ricovero di Berlusconi non ha mai abbandonato la struttura sanitaria del capoluogo lombardo.
Il rapporto tra Marta e i suoi genitori – che sono divorziati da quando lei era ancora piccola: gli ultimi anni della sua adolescenza li ha vissuti con la madre e lo zio Antonio – sembra essere stato sempre molto disteso da quello che trapela dalle varie interviste.
La madre, Angela Della Morte, è un’ex insegnate da tempo in pensione che non ha mai posto vincoli alla storia della figlia con Silvio. Mentre il padre, Orazio Fascina, un cancelliere prima del Tribunale di Napoli, oggi di Salerno stando agli elenchi del Comune campano, nonostante abbia ottimi rapporti con la ex moglie e la deputata, pare, […] non fosse presente al ricevimento del 19 marzo scorso a Villa Gernetto, residenza di Lesmo (Monza e Brianza), durante la celebrazione del “matrimonio simbolico” (senza alcun valore legale e patrimoniale) tra la figlia, Marta Fascina, e Silvio Berlusconi. Anche se il nome di un “Orazio” era tra gli invitati.
«Una famiglia semplice», viene descritta dai residenti del quartiere dove la compagna del leader di Forza Italia ha vissuto dagli 8 anni (quando la famiglia si è trasferita da Porto Salvo, in Calabria a Napoli, nel comune di Portici) ai 18 anni, poi è andata a Roma a studiare alla Sapienza. […]
Dagospia il 25 Aprile 2023. SU TWITTER I COMMENTI ALLA VISITA DELLA MAMMA DI MARTA FASCINA, ANGELA DELLA MORTE, A BERLUSCONI
Selvaggia Lucarelli: Angela Della Morte fa visita al genero Berlusconi. Io avrei aspettato un attimo
-La signora Angela Della Morte al capezzale di Berlusconi. Manco in un cinepanettone
-Angela Della Morte, madre di Marta Fascina, fa visita al genero per la prima volta. Ci credo che Berlusconi non voleva vederla in ospedale
-- Per fortuna che Silvio non è scaramantico
-Ditelo che sta scrivendo tutto uno sceneggiatore geniale e malvagio
-Le battute su Angela Della Morte solo se sei Age o Scarpelli, altrimenti è prima media convinti di fare satira politica
-Angela Della Morte in ospedale? Secondo me una toccatina alle palle, Silvio se l’è data
-Queste cose non si fanno, proprio ora che si stava riprendendo…
Estratto da open.online il 25 Aprile 2023.
Dall’ingresso di via Olgettina 60 dell’ospedale San Raffaele di Milano, dove Silvio Berlusconi è ricoverato dal 5 aprile scorso per una polmonite come conseguenza di un indebolimento delle difese immunitarie per una leucemia mielomonocitica cronica di cui il Cavaliere soffre da due anni, esce una misteriosa donna bionda, con il viso coperto da grandi occhiali da sole. Secondo le voci che si rincorrono dalla corsia al capannello di giornalisti fuori dalla struttura, si tratterebbe di Angela, la mamma di Marta Fascina, che mai era apparsa accanto alla figlia.
E i fotografi non si fanno pregare: negli archivi non esistono immagini sue, e la signora, il cui cognome da nubile è Della Morte, non ha mai fatto uso di social. Mamma Fascina oggi è in pensione, ma per tutta la vita ha insegnato lingue alle superiori. Da anni è separata dal marito Orazio, anche lui in pensione, che era cancelliere al tribunale di Salerno.
Ma gli ex coniugi hanno mantenuto rapporti amichevoli, ed entrambi hanno condiviso la scelta della figlia di candidarsi con Berlusconi. Il video e le immagini girate all’uscita del San Raffaele fanno intravedere alla guida dell’auto un uomo con occhiali e mascherina, difficile da identificare con certezza ma assai simile a papà Fascina, che in queste settimane ha spesso fatto visita all’ex premier.
(...)
Orazio Fascina, il padre di Marta, al San Raffaele: chi è l’ex cancelliere che Berlusconi chiama «papà». Fulvio Bufi per corriere.it il 10 aprile 2023.
Lavorava al tribunale di Salerno, oggi è in pensione e in questi giorni vuole stare accanto alla figlia. Il forte legame con il leader di Forza Italia, con cui ha stretto una profonda amicizia
Nel ristretto giro di persone che hanno accesso al capezzale di Berlusconi al San Raffaele, dall’altro giorno c’è anche Orazio Fascina, il padre della compagna del leader di Forza Italia, Marta Fascina. Da quando è nato il legame tra Berlusconi e la giovane ex impiegata dell’ufficio stampa del Milan, entrata poi in Parlamento con FI, i familiari della Fascina hanno sempre mantenuto un profilo bassissimo. Mai una dichiarazione pubblica, un commento, una foto. Orazio pare non fosse nemmeno presente nel marzo 2022 alla simbolica cerimonia nuziale a Villa Gernetto, sebbene tra quanti ebbero accesso all’organizzazione della festa trapelò che nell’elenco degli invitati c'era qualcuno che si chiamava Orazio. Nessuna indiscrezione, però, sul cognome e quindi nessuna certezza se il padre della «sposa» abbia partecipato all’evento oppure no.
Che sia stato o meno quel giorno a Villa Gernetto, Orazio Fascina, così come la sua ex moglie Angela Della Morte, insegnante in pensione, ha comunque sempre condiviso e approvato la decisione della figlia di stringere una relazione con Silvio Berlusconi e poi di trasferirsi in pianta stabile ad Arcore, dove oggi risulta ufficialmente residente. Orazio, poi, è andato anche oltre la semplice approvazione del legame tra sua figlia e l’ex premier. Con lui ha stretto una profonda amicizia che in breve tempo si è consolidata al punto che oggi Berlusconi lo chiama affettuosamente «papà».
Nessuna sorpresa, quindi, tra quanti sono a conoscenza del rapporto tra i due, che oggi Orazio Fascina si sia temporaneamente trasferito a Milano. Anche per essere accanto a sua figlia che in questi giorni sta praticamente vivendo al San Raffaele. Del resto Orazio Fascina oggi non ha impegni di lavoro che possano impedirgli di spostarsi dove gli pare e per tutto il tempo che vuole. Nel 2019 è andato in pensione, dopo aver lavorato per molti anni come cancelliere al Tribunale di Salerno. Quella di dipendente dell’amministrazione giudiziaria è stata per lui una sorta di seconda vita professionale, iniziata quando la famiglia ritornò a Napoli (città di cui il padre di Fascina è originario) dalla Calabria, dove per un periodo Orazio e Angela decisero di trasferirsi stabilendosi a Melito Porto Salvo, la cittadina in provincia di Reggio dove c’erano già altri parenti e che compare come comune di nascita sui documenti di Marta Fascina, anche se lei la ricorda poco perché l’ha lasciata quando era poco più che una bambina.
A Melito suo padre aveva messo in piedi insieme con il fratello una agenzia di assicurazioni che divenne in breve una delle più quotate non solo della provincia di Reggio Calabria, e che ancora oggi è attiva e gestita con successo dai nipoti di Orazio. Poi la chiamata dal tribunale — difficile ricostruire oggi se in virtù di una domanda presentata prima del trasferimento a Melito Porto Salvo o di un concorso al quale Orazio decise di partecipare, alla ricerca di una occupazione stabile e più sicura — e il ritorno in Campania. Ma in quello stesso periodo arrivò anche la separazione dalla moglie. Orazio Fascina, infatti, non ha mai abitato a Portici, dove Marta è vissuta con la madre e dove ha frequentato le scuole superiori, diplomandosi al liceo classico. Il rapporto tra l’ex cancelliere e sua figlia (così come quello con Claudio, il figlio maschio), non ne ha però mai risentito. Normale, quindi, che ora le sia accanto.
Estratto da corriere.it il 24 aprile 2023.
Angela Della Morte, la madre di Marta Fascina, per la prima volta ha fatto visita al «genero» Silvio Berlusconi al San Raffaele. La donna è arrivata all'ospedale lunedì 24 aprile alle 12.15, nascondendosi dietro occhiali scuri e mascherina, ed è andata via intorno alle 13 uscendo da via Olgettina 60 a bordo di un'auto della scorta. Nessuna dichiarazione ai giornalisti.
Riservata, la signora Angela, come lo fu al «matrimonio» simbolico del 19 marzo 2022 tra l'ex premier e Marta a Villa Gernetto, a Lesmo (in Brianza, vicino ad Arcore), quando preferì restare defilata: «Non rilascio dichiarazioni, cosa dovrei dire? Siamo persone semplici», l'unica risposta. Introvabile anche sui social. Di lei si sa che ha insegnato lingue alle scuole superiori, e che ora è in pensione.
Una signora bionda di mezza età che vivrebbe a Portici, Napoli, con la madre anziana e il fratello. Le sue origini sono calabresi, e infatti Marta è nata a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria) il 9 gennaio 1990.
Ha un altro figlio, Claudio, che ha fatto la carriera militare. Da quanto Marta era piccola, è separata da Orazio Fascina, con cui avrebbe però mantenuto buoni rapporti. Marta, dagli 8 ai 18 anni, ha vissuto con la mamma, il fratello Claudio e lo zio Antonio a Portici (Napoli). Poi si è trasferita a Roma per gli studi alla Sapienza
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La prevalenza del twittarolo. Il ricovero di Berlusconi e la gara d’imbecillità nel Grande Indifferenziato Guia Soncini su L’Inkiesta l’8 Aprile 2023
Su Twitter in questi giorni c’era chi diceva che il leader di Forza Italia è peggio di Bin Laden e chi si felicitava per la sua imminente morte. Udite, udite, non c’è bisogno di dire al mondo le cose maleducate che direste ai vostri amici a cena, parola di cafona di gran classe
Mi piacerebbe inaugurare una modalità accogliente per quest’epoca di lettori analfabeti ai quali dopo due righe s’abbiocca la concentrazione. Una modalità in cui, nelle prime due righe, c’è il senso di tutto l’articolo (modalità che piacerebbe moltissimo anche ai seo che indicizzano gli articoli con criteri giustamente adeguati all’imbecillità dei lettori-non-lettori).
Secondo questa modalità, che non so però per quanti giorni avrò la pazienza di portare avanti (la mia capacità di ricordarmi dei buoni propositi è commisurata a quella dei lettori di capire gli articoli), le prime due righe di questo articolo dovrebbero essere: la civiltà è andata a meretrici quando abbiamo iniziato a chiamare le buone maniere «ipocrisia».
Oggi sono dieci anni dalla morte di Margaret Thatcher e, poiché la vita è sceneggiatrice, il ricovero di Silvio Berlusconi ha scatenato esattamente le stesse dinamiche. Thatcher muore nell’anno in cui compirebbe ottantotto anni; Berlusconi viene ricoverato nell’anno in cui ne compirà ottantasette. Per entrambi, la mia derelitta generazione mai uscita dall’assemblea d’istituto (e quelle successive, che sono persino peggio quanto a scarsezza dialettica e immaturità) ritiene di dover comunicare al mondo quant’è contenta della morte o quasi morte dell’avversario politico.
Che non è mica avversario politico, naturalmente: è incarnazione del male con un livello di complessità da cartoni animati (adesso mi diranno che i cartoni animati sono una sofisticatissima forma espressiva, tanto per completare il quadro della loro perpetua sedicennitudine).
La settimana in cui morì la Thatcher, scrissi su un blog che non esiste più del mio trovare buffo il fatto che i miei coetanei «vibrino di sdegno al ricordo delle politiche thatcheriane (quello che la psicanalisi definirebbe un falso ricordo, visto che le suddette politiche erano in essere quando loro ancora dovevano aspettare tre ore dopo mangiato prima di fare il bagno), empatizzino come fossero stati minatori in sciopero quando sono rigorosamente gente che è stata fuori corso fino a trentacinque anni e cui la mamma non ha mai smesso di passare la paghetta e, quel che è più esilarante, abbiano pronta la riduzione a un dittatore qualunque se obietti in tal senso: “Mica devi esser stato partigiano per disprezzare Hitler”».
Ieri, girando su Twitter, c’era uno che diceva che Berlusconi è stato peggio di Bin Laden, e io veramente non so da dove cominciare con questa gente che una volta non avrei incrociato e la cui imbecillità ora l’internet mi costringe a constatare quotidianamente – dandomi in cambio la pizza a domicilio, sì, ma a volte quasi penso che sarebbe meglio dover ricominciare a cucinare, se in cambio tornasse la civiltà della conversazione.
L’altroieri un’adulta di cui non faremo il nome ha scritto un tweet in cui si felicitava per l’imminente decesso di Berlusconi. È successo un putiferio francamente sproporzionato rispetto all’impatto culturale e di fama della signora, perché nel Grande Indifferenziato è tutto, appunto, uguale, e l’urgenza della signora di sentirsi spiritosa e di sinistra si specchia nell’urgenza degli altri di dirle «vergogna, puntesclamativo» come fossero tutti il Gabibbo.
In cui che la signora «ha pubblicato con Mondadori» viene puntesclamativato con l’enfasi che si userebbe se questo significasse qualcosa: viviamo in un posto in cui un libro l’ha pubblicato pure il mio portiere, non è che si possa dar retta a chiunque abbia pubblicato un libro come fosse Umberto Eco.
Una pletora di giornalisti televisivi ha rilanciato la foto del tweet (che l’autrice aveva nel frattempo cancellato), e io da due giorni mi chiedo: chi è più imbecille?
L’adulta che sente l’urgenza espressiva di dirsi felice perché muore uno che manco ha mai incontrato, o l’adulto che le risponde vergogna, non si augura la morte a nessuno, e quasi certamente venti minuti prima ha augurato la morte a uno che gli ha fregato il parcheggio?
L’adulta che prova qualcosa – qualunque cosa: sollievo, gioia, rivalsa – rispetto alla morte d’un tizio che ha vissuto a lungo e bene e ignaro della di lei esistenza, o l’adulto che si agita dicendo bisogna scrivere a Mondadori, devono sapere, devono stracciarle il contratto?
L’adulta che invece di dire agli amici «ahò, a me sta antipatico e son contenta se muore» lo dice – giacché qualche sortilegio ci ha convinti che dobbiamo dire in pubblico tutto tutto tutto quel che diremmo in privato, altrimenti siamo ipocriti – a decine di migliaia di sconosciuti? Gli sconosciuti che le dicono «vergogna, hai anche lavorato per Mediaset»? Gli sconosciuti che per difenderla dicono «eh ma come si fa a non aver lavorato per Berlusconi se hai lavorato nella cultura in questo paese»?
È una gara di imbecillità che avrebbe fatto scrivere a Fruttero&Lucentini un quarto volume della saga dei cretini, e il fatto che “La prevalenza del cretino” fosse uscito trentotto anni fa rende drammaticamente evidente che le dinamiche sociali sono ormai solo copie di mille riassunti (d’altra parte lo sono almeno dai tempi di Balzac, ma finché gli imbecilli non ci arrivavano in forma di notifica sul telefono lo notavamo meno).
Il ricatto «eh ma non si può non lavorare per Berlusconi» mi pare il più divertente, forse perché mi ricorda «eh ma se non l’avesse data a Harvey Weinstein la sua carriera sarebbe finita»: siamo l’epoca che ha deciso che per difendere una scelta sia necessario dire imbecillità indifendibili. Non finì la carriera di Sandro Veronesi quando smise di pubblicare con Mondadori, non finirono le carriere della Paltrow o della Jolie quando non vollero più avere a che fare con Weinstein: né a Hollywood né in Italia c’è mai stato un monopolio del mondo dello spettacolo o dell’editoria, checché ci abbiano raccontato retori pigri.
Se proprio si vuole difendere il proprio diritto a lavorare per un editore che si disprezza, mi pare che l’unico modo non imbecille sia quello di Paolo Rossi che, più di trent’anni fa, a obiezioni sofisticate quali «fai il comunista e poi prendi i soldi da Fininvest», rispondeva: non è chi te li dà, è come li spendi.
Ma, in generale, vale il fatto che non c’è bisogno di dire al mondo le cose maleducate che dici ai tuoi amici a cena. Giuro. Non è trasparenza: è cafonaggine. Ve lo dico da cafona d’un certo livello, ma da cafona abbastanza adulta da essere cafona per scelta, non per distrazione né per malintesa sincerità.
Non ho tuttavia ancora risposta alla domanda su quale sia la cretineria che prevale in questa gara serratissima, e non è solo perché, come diceva la canzone, risposta non c’è nelle parole. È perché, oggi come dieci anni fa, non ho capito di cosa esultino coloro che sentono che la loro vita migliorerà a Berlusconi morto. Fosse morto giovane. Fosse morto nel pieno del potere. Ma, se dovesse morire oggi, o quandunque morirà dopodomani, somiglierà parecchio alla morte della Thatcher ottantasettenne in un letto dell’hotel Ritz. Scusate se mi cito di nuovo, ma «si può sapere di cosa esulti? Della morte tout court? Ti è chiaro, sì, che non ne sei esentato? Che moriremo pure noi, non so se più giovani ma probabilmente alla pensione Miramare?».
Estratto da open.online il 7 aprile 2023.
Massimo Tartaglia è l’uomo che il 13 dicembre 2009 aggredì Silvio Berlusconi scagliandogli in faccia la statuina in ferro del Duomo. L’ex Cavaliere ne uscì sfigurato e pieno di sangue. accusato di lesioni pluriaggravate nei confronti dell’ex premier, Tartaglia era stato assolto dal gup Luisa Savoia nel giugno del 2010 perché totalmente incapace di intendere e volere.
[…] Mentre Berlusconi è malato, torna a parlare con l’edizione milanese di Repubblica. Dicendo in primo luogo che gli dispiace per la diagnosi: «Ho sentito che ha diverse patologie, una leucemia, la polmonite. Che deve fare la chemioterapia. Che è il secondo ricovero nel giro di pochi giorni».
Poi torna sulla sera dell’aggressione: «Sono passati tredici anni, quella sera io ero fuori, non stavo bene. Adesso mi dispiace per Berlusconi veramente. Non è un mio parente stretto, non voglio essere ipocrita nel dire che sto soffrendo eccetera. Non nascondo nemmeno che all’epoca avevo sviluppato una rabbia e un odio nei suoi confronti. Ma spero tanto che si riprenda. Prego con il cuore per lui».
Tartaglia racconta di aver scritto all’ex premier una lettera attraverso i suoi avvocati per chiedergli di perdonarlo: «Lo ha fatto. Non ha mai agito nei miei confronti. Avrebbe potuto chiedermi un risarcimento, avrebbe potuto rovinarmi…. E invece niente. Glielo riconosco». […]
Estratto da today.it il 6 aprile 2023.
Sono ore di apprensione per Silvio Berlusconi […]. […] Purtroppo in casi come questo, quando si parla di un personaggio molto importante e allo stesso tempo divisivo, non mancano parole irrispettose, che qualcuno non risparmia neanche davanti a una situazione così delicata. Quando però questo "qualcuno" è un personaggio noto, cadono le braccia.
Daniela Collu, conduttrice e scrittrice, ha pubblicato un tweet, poi prontamente rimosso: "La morte non si augura a nessunoahahahhaha pepepeppeppeppe zazueira zazueira" ha scritto, simulando virtualmente la nota canzone di quando parte il trenino alle feste. Un tweet vergognoso che il giornalista Massimo Falcioni ha ripubblicato, avendo fatto lo screen: "C'è chi cancella - ha aggiunto - e chi salva". E poi ancora: "Ride di una persona malata. Fa un tweet perculativo. Lo cancella. Blocca. Che elemento. Daniela Collu ha cancellato il suo tweet vergognoso. Neanche il coraggio di rivendicare le figure di merda".
Daniela Collu, infatti, dopo la mossa di Falcioni lo ha bloccato sul social, dove nei suoi confronti - adesso - si è scatenata una bufera. E qualcuno fa giustamente notare: "Si può contattare la Mondadori in qualche modo? Non è ammissibile pubblicare i libri di una persona del genere". Mondadori, che ha edito il nuovo libro di Collu, di cui Marina Berlusconi è presidente dal 2003.
Da liberoquotidiano.it il 6 aprile 2023.
"Se muore non mi dispiaccio certo. Quell’uomo lì merita il peggio": un tweet orribile quello scritto da Enrico Sola su Twitter a proposito di Silvio Berlusconi, ora ricoverato al San Raffaele di Milano.
Si tratta di un blogger che in passato ha scritto anche sul Post (l'ultimo articolo risale al 2018) e che rivendica tutt'ora questa collaborazione sul suo profilo Twitter. Ma questo non è l'unico tweet dedicato al Cav. Sola ha scritto anche: "Trump quasi in galera, Berlusconi quasi morto, la juve quasi in B. Stai a vedere che le preghiere funzionano. Quasi".
Quando un utente gli ha fatto notare che la sua uscita "non è bellissima", lui ha risposto: "È un’uscita sincera. Non ho problemi ad ammettere che sono uno dei tanti che sarà contento quando Berlusconi morirà. È uno dei pochi a cui ho augurato ogni male, date le vite rovinate e le morti che ha sulla coscienza. A partire da Carlo Giuliani. Senza ipocrisie". […]
Berlusconi, Frankie hi-nrg: "Io lo detesto, voi mi fate ribrezzo e schifo". Da liberoquotidiano.it il 6 aprile 2023.
Silvio Berlusconi ricoverato. E in gravi condizioni. […] Eppure in un momento così drammatico, si distinguono anche alcune bestie […] che si spendono in particolare sui social […] augurandogli pronta morte e assicurando di essere pronti a festeggiare in caso di dipartita.
Un orrore, becero e violento, contro il quale si è scatenato anche Matteo Salvini, definendo "penosi" questi personaggi, persone con "tare mentali". Ma il caso indigna non soltanto la politica. Per esempio, anche il celebre rapper Frankie hi-nrg ha voluto esprimere tutta la sua rabbia e il suo disappunto per questa incommentabile vicenda.
E lo ha fatto a sua volta su Twitter, laddove ha cinguettato: "Io tutti quelli che si dicono pronti a festeggiare, ridanciani e biricchini, senza citare il motivo di tanta incontenibile impazienza in queste ore, ecco, mi fanno tra il ribrezzo e lo schifo. E lo dico io, che lo detesto da sempre", scrive in modo rude, ma efficace. […]
Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 6 aprile 2023.
Svenimenti in diretta, operazioni tenute segrete e poi rivelate anni dopo, ricoveri sotto i riflettori delle telecamere. Silvio Berlusconi, il “potenzialmente immortale”, come arrivò a dire venti anni fa il suo medico di fiducia, Umberto Scapagnini, della sua salute ha fatto scena e retroscena. E ha sempre giocato con il suo corpo, colpito dalle malattie della vita, e cercato di farlo sembrare più giovane e forte rispetto all’età. L’immagine che ne è venuta fuori, così come lui voleva, è quella di un uomo che può superare tutto, rinvigorendo il mito del Berlusconi senza tempo.
Così il Paese, accanto alle donne che gli ruotavano intorno e ai tanti peones nominati ai vertici dello Stato, ha conosciuto negli anni anche i medici che ne hanno narrato le gesta, e che ne hanno curato la pelle: da Scapagnini appunto, che aveva trovato l’elisir di lunga vita berlusconiana, un intruglio con yogurt, oli e minerali naturali che arrivavano dalla Cina, ad Alberto Zangrillo, che in diverse occasioni lo ha fisicamente sorretto evitando rovinose cadute a terra.
(…)
L’uveite, il pacemaker, la statuetta sul viso: tutte le battaglie combattute sul corpo di Berlusconi. di Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
Nel 2018 la battuta: non sono mai riuscito a invecchiare perché ho sempre lavorato
Silvio Berlusconi colto da malore nel 2006 (in alto), colpito al volto da una statuetta nel 2009 (nel riquadro) e al Senato con gli occhiali nel 2013 per l'uveite (in basso)
Adesso che amici e avversari pregano perché venga fuori dalla terapia intensiva del San Raffaele col ghigno classico di chi l’ha scampata bella ancora una volta, regalando nuova gloria alla vecchia teoria del medico Umberto Scapagnini sulla straordinarietà di un sistema neuro-immunitario che lo renderebbe «tecnicamente immortale», adesso insomma si può aggiornare il calcolo delle parti del corpo di Silvio Berlusconi che hanno finora ricacciato all’indietro i colpi proibiti del malanno.
Una guerra politica, più che un affare di salute: nella storia italiana a cavallo tra i due millenni, insieme forse al solo Marco Pannella — che però si è sottoposto a un numero imprecisato di scioperi della fame, oltre che all’auto-somministrazione di un’ottantina di sigarette al giorno fino all’ultimo giorno — Silvio Berlusconi ha assistito da vivo a quello che altre personalità di primissimo piano della politica del Dopoguerra, da Aldo Moro a Enrico Berlinguer, hanno avuto solo da morti. E cioè al fenomeno di un corpo che si trasforma in strumento di lotta politica, motore di consenso, inchiostro per pagine di giornali e per libri di storia, stampa su magliette e spillette, materiale da convegno, icona impermeabile all’incedere del tempo.
Partendo dai piedi e finendo alla testa, il calcolo va per approssimazione: la prostata aggredita da un tumore nel 1997, le vie urinarie interessate da un’insidiosa infezione all’alba dell’elezione del presidente della Repubblica nel 2022, l’intestino occluso nel 2019, un frammento di menisco asportato nel 2006 ad Aversa, un femore contuso (inizialmente si pensava rotto) nel 2019 a Zagabria, un ginocchio maltrattato dall’artrosi nel 2014, il cuore a cui è stato impiantato un pacemaker nel 2006 e a cui è stata sostituita una valvola aortica dieci anni dopo perché «stavo per morire», i polmoni attaccati da un Covid «con una carica virale mai vista», gli zigomi e la mandibola colpiti dalla statuetta del Duomo lanciatagli contro da Massimo Tartaglia nel 2009, gli occhi tumefatti dall’uveite nel 2013.
Il corpo martoriato, che per altri sarebbe diventato quantomeno elemento di serena riflessione in vista di un onorevole ritiro dal proscenio, da un certo punto in poi per Berlusconi è diventato l’elemento di una nuova narrazione. L’uomo che con Fininvest rompeva il monopolio della Rai, che col Milan batteva il Real Madrid, che con Forza Italia sconfiggeva «i comunisti», s’è trasformato col tempo nel corpo ferito sì ma mai domo.
La prima volta che si dà del vecchietto è a 77 anni compiuti, la notte di San Silvestro del 2013, in un attimo di cedimento a una malinconia alimentata dalla condanna in via definitiva e dalla conseguente decadenza da senatore: «Sono un vecchietto ma non posso permettermi di finire la mia avventura umana, imprenditoriale, da uomo di sport e da uomo di Stato come un perdente». Quattro anni dopo, l’aggettivo «vecchietto» se l’è già rimangiato. Durante un viaggio in Molise per le Regionali del 2018 si ferma a discutere con alcuni anziani a Bagnoli del Trigno, provincia di Campobasso. «Io non sono riuscito a invecchiare perché ho sempre lavorato!», dice ad alta voce. Un pastore si fa avanti e gli fa: «Eh ma la vecchiaia arriva...». E il Cavaliere: «Arriva? Lei dice? Posso toccarmi le p...e?».
A tutti i malanni arrivati in seguito, il corpo e la testa di Berlusconi hanno risposto allo stesso modo, seguendo sempre una liturgia ogni volta più difficile da replicare: malattia, guarigione, convalescenza, la sorpresa per il primo intervento telefonico a un convegno periferico di Forza Italia, il sollievo generale per la prima foto postata sui social, l’attenzione collettiva per il primo ritorno in televisione, il tutto come se fosse la prima volta che succede, con la strana magia di quei film che hai visto e rivisto ma è come se fosse sempre la prima volta. Si piange a questo punto, si sorride poi. Una sceneggiatura che l’amico Vittorio Sgarbi, ieri, sfruttando l’imminenza del Venerdì Santo, ha colorito con un parallelo noto più o meno a tutti: «Stavolta Silvio ci sorprenderà domenica, che è il giorno di Pasqua». È vecchia la storia, in fondo, dell’autoconsacratosi «unto del Signore». Trent’anni dopo.
Berlusconi e gli Affari.
Eredità Berlusconi, il nodo sui marchi: dal cognome a «Rivoluzione Italia». Storia di Mario Gerevini e Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.
I marchi europei di proprietà personale di Silvio Berlusconi non erano una priorità nella successione. Ma adesso sono sul tavolo dei suoi eredi. «Che ne facciamo?», si staranno chiedendo i 5 figli che hanno appena chiuso l’iter della successione e riorganizzato l’assetto di Fininvest secondo le intese firmate a settembre. Per esempio «L’Italia che lavora» fino al 23 ottobre 2032 è una loro esclusiva e ci possono marchiare innumerevoli prodotti. Così CENTRODESTRA UNITO o GRANDEITALIA o altri, in maiuscolo o minuscolo. Non c’è, tuttavia, «Forza Italia» che è di proprietà diretta del partito. Il pacchetto di marchi passato ai figli per successione comprende, innanzitutto, il cognome di famiglia tutto maiuscolo «BERLUSCONI». I diritti d’uso del brand, però, sono limitati al solo comparto «Mutande», tra le centinaia di categorie commerciali possibili (profumeria, utensili, abbigliamento, giochi, carne, caffè, bevande ecc).
Il ricorso di Brenno Bianchi
Il motivo è che Brenno Bianchi, 32 anni, studioso di diritto (tesi di 378 pagine rintracciabile sul web), uomo fuori dagli schemi (dicono gli amici), contitolare a Milano della piccola casa editrice «Le lucerne», aveva presentato un ricorso per decadenza (l’ha scritto Il Fatto Quotidiano) all’Euipo, l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale. Al termine dell’iter ha ottenuto ragione quasi su tutto col timbro finale del 26 giugno scorso, due settimane dopo la morte dell’ex premier. Procedura per decadenza perché nessun prodotto con il marchio BERLUSCONI era stato realizzato. Tranne, forse, mutande. Il Cavaliere non si è opposto e alla fine, soccombendo, ha dovuto pagare le spese.
Il cognome in minuscolo
Ad oggi però Bianchi non risulta titolare del marchio BERLUSCONI né, probabilmente, avrebbe ottenuto il via libera dell’Euipo. Ma allora perché l’ha fatto? Gli telefoniamo: «L’idea era farmi notare e magari avere l’occasione di parlare 5 minuti con Berlusconi». Ci è riuscito? «No, anzi credo non se ne se ne sia nemmeno accorto». Archiviamo il caso Bianchi e passiamo al cognome minuscolo. Il marchio «berlusconi» se l’era invece accaparrato 10 anni fa, investendo 4.050 euro, un’azienda tedesca di information technology, la Netspeed di Monaco che poi però ha rinunciato a sfruttarlo e a confermarne la registrazione. Cosa resta dunque oggi nel portafoglio marchi ereditato dai figli? Quelli attivi spaziano da «Grande Italia» a «Centrodestra Unito» e «Centrodestra per la libertà» in varie declinazioni e poi «Altra Italia» che dà l’idea della voglia di cambiare che aveva Berlusconi, al punto che a 81 anni nel luglio 2018 registrò anche il marchio ben più aggressivo «Rivoluzione Italia».
Il marchio «Bunga Bunga»
Intanto la società inglese Italian Circus di due imprenditori dell’intrattenimento, Charles Gilken e Duncan Stirling, sfruttando l’eco mondiale di una vicenda di cronaca italiana con l’ex premier al centro, aveva registrato ovunque, Stati Uniti compresi, il marchio «Bunga Bunga». È nato così a Londra il nightclub Bunga Bunga, con arredi e orpelli «impreziositi» dai classici stereotipi sull’Italia, «un mix di karaoke, piste da ballo e pizze lunghe un metro», ha scritto il Guardian. Un successo, almeno all’inizio, e pare fosse frequentato anche dal principe Harry. Però ha chiuso definitivamente l’anno scorso.
Gli ossessionati: Il Fatto Quotidiano e Report continuano a fare “inchieste giornalistiche” su Silvio Berlusconi. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 24 Ottobre 2023
Dopo qualche settimana di silenzio, il Fatto Quotidiano e Report sono tornati nuovamente nei giorni scorsi sul loro argomento preferito: i rapporti di Silvio Berlusconi con Cosa nostra. Il Fatto, in particolare, ha rispolverato la storia dello stalliere di Arcore Vittorio Mangano che serviva a evitare i rapimenti e che era al soldo di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca e quindi dei fratelli Graviano. Report, invece, si è concentrato sui lasciti di Berlusconi a Marcello Dell’Utri che sarebbero la contropartita per le condanne patite ed il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto. Le ‘inchieste’ giornalistiche, va detto, non hanno svelato nulla che già non si sapesse. Un po’ come le indagini della Procura di Firenze sulle stragi mafiose del 1993. La Procura del capoluogo toscano, infatti, ha iscritto l’ex capo di Publitalia ed ex senatore azzurro nel registro degli indagati nell’ambito dell’ennesima inchiesta, la quinta per l’esattezza, sui mandanti esterni delle stragi a Milano, Roma e Firenze.
I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, titolari del fascicolo, hanno contestato a Dell’Utri il concorso in strage con i boss Giuseppe e Filippo Graviano e Gaspare Spatuzza. Secondo i Pm, Dell’Utri avrebbe agito per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico per agevolare l’attività di Cosa nostra e le stragi avevano lo scopo di indebolire il governo Ciampi, allora alla guida del Paese, ed avevano l’obiettivo di “diffondere il panico e la paura fra i cittadini in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi”. Tescaroli, fino ad oggi, non è mai riuscito a portare a processo Berlusconi e Dell’Utri, ed ha dovuto aprire e chiudere continuamente con archiviazioni sempre la stessa vicenda. L’ex senatore azzurro è poi anche indagato per trasferimento fraudolento di valori in concorso con la moglie Miranda Ratti, alla quale Berlusconi aveva bonificato somme di denaro, con la causale di prestito infruttifero, “al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione”. Dell’Utri, che ha riportato una condanna definitiva nel 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa, non avrebbe comunicato le “variazioni patrimoniali” circa i bonifici ricevuti direttamente Berlusconi per circa un milione di euro nell’arco di nove mesi fra il 2021 e il 2022.
I magistrati sospettano che questi flussi di denaro potrebbero costituire una ‘contropartita’, come puntualmente ricordato dai segugi di Report, per le condanne subite da Dell’Utri e per il suo silenzio nei processi penali. L’accordo stragista, descritto nell’imputazione, si fonderebbe proprio sui rapporti economici tra Giuseppe Graviano ed esponenti di Cosa nostra, da una parte, Dell’Utri e Berlusconi dall’altra. L’abitazione milanese di Dell’Utri era stata perquisita da parte degli uomini della Dia nei mesi scorsi. Nel decreto di sequestro erano stati riportati gli esiti di una consulenza tecnica “che individua ingressi di flussi finanziari nelle imprese riconducibili a Berlusconi, di cui Dell’Utri già all’epoca era referente e fidatocollaboratore, privi di paternità per 70 miliardi e 540 milioni di lire, nel periodo febbraio 1977 – dicembre 1980”.
Nulla di nuovo, dunque, che non sia stato abbondantemente esaminato dalle autorità giudiziarie che negli ultimi trent’anni si sono occupate dello stesso periodo storico ancora oggetto di indagine da parte dei magistrati fiorentini. “Anche la Corte d’Assise d’Appello di Palermo e la Corte di Cassazione hanno avuto modo di vagliare in modo critico la gran parte del materiale, che oggi appare “rivitalizzato” dalla Procura di Firenze, assolvendo Dell’Utri nel procedimento Trattativa”, aveva ricordato l’avvocato Francesco Centonze, difensore di Dell’Utri, sottolineando come questa nuova tesi accusatoria sia già “a prima vista del tutto incredibile e fantasiosa”. “Ciò che da subito deve stigmatizzato con forza è la singolare trasposizione mediatica – “a specchio” – di ogni iniziativa istruttoria della Procura di Firenze.
Atti e documenti coperti da segreto istruttorio continuano ad essere oggetto, in tempo reale, di illegittima rivelazione e di successiva pubblicazione su organi di stampa”, aveva quindi concluso il difensore, annunciando di aver presentato una denuncia e di cui si sconosce però l’esito. “È un’ipotesi giudiziaria, insieme irreale e surreale: tale ipotesi nel corso del tempo si è sempre inequivocabilmente dimostrata priva di qualsivoglia fondamento, ed è stata smentita dall’accertamento dei fatti che ha originato plurime archiviazioni”. Così, invece, in una nota l’avvocato Giorgio Perroni, legale di Berlusconi, che era stato indagato prima di morire nel medesimo procedimento. Sulla fuga di notizie che stanno caratterizzando l’inchiesta, con atti d’indagine fedelmente riportati dai soliti giornali era stata presentata una interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio da parte del deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, firmata anche da Tommaso Calderone e Annarita Patriarca La domanda da porsi, comunque, è quale possa l’interesse a raccontare sempre la stessa storia stranota. Misteri del ‘giornalismo’. Paolo Pandolfini
Il testamento. Report Rai PUNTATA DEL 22/10/2023 di Luca Bertazzoni
Collaborazione di Marzia Amico
L’inchiesta di Report su come è stato suddiviso il patrimonio di Silvio Berlusconi.
Il patrimonio ereditario di Silvio Berlusconi ammonta a circa 4 miliardi e mezzo di euro. L’inchiesta di Report racconta come è stato suddiviso fra gli eredi e quali sono i nuovi assetti societari delle aziende di proprietà del Cavaliere. Nel testamento di Berlusconi non c’è alcun riferimento ai 90 milioni di euro di debito di Forza Italia nei confronti del suo fondatore e il partito ha i conti in rosso. Analizzando i conti di Forza Italia, ci sono due fideiussioni di Silvio e Paolo Berlusconi per un totale di 7 milioni di euro: fideiussioni che sono state fatte anni dopo l’approvazione della norma del tetto di 100mila euro annui al finanziamento ai partiti. L’inchiesta si occupa anche dei lasciti del Cavaliere, in particolare quelli destinati alla compagna Marta Fascina e a Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Infine, il racconto di un altro “presunto” testamento che Silvio Berlusconi avrebbe lasciato a un imprenditore torinese residente in Colombia.
Le nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Da: Fabrizio Alfano Inviato: giovedì 19 ottobre 2023 20:18 A [CG]: Redazione Report Cc: Oggetto: R: Richiesta informazioni – Report, Rai3
Buonasera, riscontriamo la vostra richiesta, per comunicarvi quanto segue. In merito alla revoca della costituzione di parte civile nel processo penale c.d. ‘Ruby ter’, si richiama la nota già diramata lo scorso 13 febbraio, della quale si riportano integralmente i contenuti: “La Presidenza del Consiglio informa di avere in data odierna dato incarico all’Avvocatura dello Stato perché revochi la propria costituzione di parte civile nel processo penale c.d. 'Ruby ter' a carico - fra gli altri - del Sen. Silvio Berlusconi. La costituzione era stata disposta nel 2017 dal Governo Gentiloni, un Esecutivo a guida politica, in base a una scelta dettata da valutazioni sue proprie, in un momento storico in cui non erano ancora intervenute pronunce giudiziarie nella medesima vicenda. La formazione, avvenuta nell’ottobre 2022, di un nuovo Governo, espressione diretta della volontà popolare, determina una rivalutazione della scelta in origine operata. Ciò appare tanto più opportuno alla stregua delle assoluzioni che dapprima la Corte di Appello di Milano con sentenza del luglio 2014, divenuta irrevocabile, poi il Tribunale di Roma con sentenza del novembre 2022 hanno reso nei confronti del Sen. Berlusconi in segmenti della stessa vicenda”. Per completezza d’informazione si ricorda che, lo scorso 15 febbraio, è intervenuta l’ulteriore assoluzione dell’ex Sen. Silvio Berlusconi proprio nel procedimento ‘Ruby ter’, con sentenza emessa dal Tribunale di Milano, perché “il fatto non sussiste”: il che dà ragione a posteriori della scelta di non confermare la costituzione di parte civile. Assolutamente fantasiosa e priva di fondamento è la tesi dello scambio con la posizione del Presidente Berlusconi sull’Ucraina. Relativamente alla rimodulazione della cosiddetta “tassa sugli extra-profitti bancari”, il Governo ha preso atto della volontà emersa nel corso del dibattito parlamentare per la conversione del decretolegge approvato ad agosto. È stato quindi approvato un emendamento che ha ribadito l’intenzione iniziale del provvedimento, volto a ristabilire il corretto equilibrio nel rapporto tra banche e risparmiatori in un mercato sensibile come quello del credito. Con la norma approvata, le banche verseranno allo Stato un'imposta straordinaria sull’extraprofitto generato nel 2023, determinato sulla differenza fra gli interessi attivi e quelli passivi, confrontati con gli stessi dati del 2022. Tale imposta sarà destinata a finanziare il fondo di garanzia mutui prima casa e interventi finalizzati alla riduzione della pressione fiscale di famiglie e imprese. In alternativa, gli istituti di credito potranno costituire una riserva che servirà a consolidare il loro patrimonio, troppo spesso debole rispetto a fenomeni finanziari nazionali e internazionali. In questo modo si eviterà in futuro che il ripianamento delle perdite delle banche ricada sui cittadini. Sorprende che il rispetto per il contributo del Parlamento in sede di conversione sia considerato una retromarcia del Governo. Cordialmente, Fabrizio Alfano Capo Ufficio stampa e relazioni con i media
IL TESTAMENTO Di Luca Bertazzoni Collaborazione Marzia Amico Immagini Carlos Dias – Davide Fonda – Andrea Lilli – Marco Ronca Ricerca immagini Eva Georganopoulou – Alessia Pelagaggi Montaggio Igor Ceselli Grafica Giorgio Vallati
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO All’hotel Parco dei Principi di Roma va in scena il primo Consiglio Nazionale di Forza Italia dopo la morte del suo presidente e fondatore Silvio Berlusconi.
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Siamo resilienti, siamo forti e andiamo avanti.
LUCA BERTAZZONI Però è un tema questi 90 milioni…
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Ma qual è ‘sto tema?
LUCA BERTAZZONI I 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi.
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Ma quelli ce li hanno tutti i debiti, ragazzi hanno tolto il finanziamento pubblico ai partiti. La vita è bella perché ci sono i rischi, se va tutto bene non funziona.
LUCA BERTAZZONI Dei 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi ne avete discusso con la famiglia, c’è il rischio…
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Ce li stiamo dividendo, un po’ per uno.
LUCA BERTAZZONI È a rischio la sopravvivenza del partito.
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Arrivederci, buona giornata.
GILBERTO PICHETTO FRATIN - MINISTRO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA Non è una questione che riguarda il partito, riguarda la famiglia.
LUCA BERTAZZONI Eh, ho capito. Avete avuto rassicurazioni da parte della famiglia sotto questo punto di vista?
GILBERTO PICHETTO FRATIN - MINISTRO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA La valuteranno gli amministratori.
ANTONIO TAJANI - SEGRETARIO FORZA ITALIA Questo è il primo Consiglio Nazionale che si svolge senza la presenza del nostro leader Silvio Berlusconi, ma credo, credo che sia meglio dedicare a lui invece che un minuto di silenzio un minuto di applausi, vedo che l’applauso è partito spontaneo.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo i cinque minuti di applausi dedicati a Berlusconi, il congresso elegge all’unanimità Antonio Tajani segretario di Forza Italia. Ma la presenza della famiglia Berlusconi si fa comunque sentire.
ANTONIO TAJANI - SEGRETARIO FORZA ITALIA – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI “Grazie per l’appoggio e la vicinanza che avete sempre dato al nostro caro papà e grazie per tutto ciò che da oggi farete per continuare a far vivere gli ideali che hanno sempre contraddistinto il suo pensiero e le sue azioni”.
LUCA BERTAZZONI Volevo capire se avete parlato con la famiglia Berlusconi dei 90 milioni che il partito deve, è un tema importante: sono un sacco di soldi, se si è confrontato con loro…
ANTONIO TAJANI - SEGRETARIO FORZA ITALIA – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI Non abbiamo parlato di soldi, mi pare che il messaggio della famiglia sia chiaro, no?
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Se il messaggio di vicinanza è chiaro, rimane da capire quale sarà in futuro la strategia della famiglia nei confronti di un partito che finanziariamente è sempre stato tenuto in piedi da Silvio Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Che impressione ha avuto leggendo i bilanci di Forza Italia degli ultimi dieci anni?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Si vede il disastro economico, ma non poteva che essere così: è come una squadra di calcio un partito politico: non può che perdere.
LUCA BERTAZZONI Fosse stato un’azienda con questi squilibri sarebbe potuta rimanere in piedi o no?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO No. Assolutamente no. Nel tempo ha perso più di cento milioni di euro: molto semplicemente i soldi che mancavano ce li ha messi Berlusconi. D’altra parte, era il suo partito, no?
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Berlusconi usa questi cento milioni per saldare i debiti del partito con le banche, ma non fa lo stesso con gli altri creditori.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Nel momento in cui i creditori diversi dalle banche hanno chiesto di essere pagati, Forza Italia non ha pagato e allora i creditori hanno pignorato i soldi dei contributi pubblici. Chissà come l’ha presa Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Per uno come lui…
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Una società in perdita costante, patrimoni negativi, dipendenti licenziati, pignorata dai creditori…
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per cercare di mettere sotto controllo i conti del partito, Berlusconi affida il ruolo di tesoriere ad un suo fedelissimo, il senatore Alfredo Messina.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Io ho fatto tre legislature, ho fatto
LUCA BERTAZZONI Tre legislature non sono poche, eh, si è divertito in Parlamento?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Bah, insomma. Ho conosciuto gente simpatica, in teoria, sì, sì, no, no
LUCA BERTAZZONI Però lei è stato una vita con Berlusconi?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Trent’anni.
LUCA BERTAZZONI È stato Prodi a consigliarla a Berlusconi?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Sì, Berlusconi quando veniva a Roma andava sempre a trovare Prodi, faceva due chiacchiere così, no? Mi puoi consigliare un dirigente che rimetta a posto le cose? E Prodi ha fatto il mio nome, io ero ad Alitalia.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo la segnalazione di Prodi, Alfredo Messina entra nelle stanze del potere di tutte le principali aziende di Berlusconi: è prima direttore generale e poi amministratore delegato di Fininvest, vicepresidente del Gruppo Mediolanum, consigliere di Mediaset e membro del Cda di Mondadori. Insomma, di conti ne capisce.
LUCA BERTAZZONI C’è questo problema dei debiti: sono 90 milioni di euro nei confronti di Berlusconi.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Quando cessa il finanziamento pubblico, le banche chiedono a Forza Italia di rientrare e Forza Italia non è in grado di rientrare. Alla fine, lui ha pagato i debiti con le banche ed è diventato nostro creditore.
LUCA BERTAZZONI Ha fatto questo giro.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Al posto delle banche noi abbiamo scritto “Silvio Berlusconi”.
LUCA BERTAZZONI E come si fa ora?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Eh, come si fa? Lui non li chiede e io non glieli do evidentemente.
LUCA BERTAZZONI Questo in passato. E adesso la famiglia, secondo lei, la famiglia chiederà indietro questi soldi?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 La famiglia è diventata titolare di questo credito, ma non farà nulla per avere questi soldi.
LUCA BERTAZZONI Anche perché se li chiedessero indietro Forza Italia che fine farebbe?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Ma, avrebbe difficoltà, certamente, avrebbe difficoltà
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Avrebbe, quindi, le stesse difficoltà che hanno avuto tutti i partiti italiani. Eletto per la prima volta in Senato nel 1987 con il Pci, Ugo Sposetti è stato il tesoriere del partito che ha affrontato per oltre vent’anni Forza Italia.
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 La prima cartella di sottoscrizioni per il referendum del 1946.
LUCA BERTAZZONI E poi c’è il famoso “vota comunista”.
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 Vabbè, quello è la storia.
LUCA BERTAZZONI Lei quando nel 2001 diventa tesoriere che situazione trova?
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 Debiti accertati per 584 milioni.
LUCA BERTAZZONI Quindi una situazione tosta, quantomeno tosta.
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 Sì.
LUCA BERTAZZONI E dall’altra parte, diciamo, il vostro principale competitor come era messo?
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 C’era una fideiussione che Silvio Berlusconi aveva fatto a Forza Italia.
LUCA BERTAZZONI Essere esposti con le banche per 584 milioni di euro rispetto ad essere esposti con il presidente del partito…
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 La differenza è enorme, no, perché lì non devi trattare con nessuno.
LUCA BERTAZZONI Nel 2013 arriva l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 Hanno fatto una sciocchezza perché la democrazia costa.
LUCA BERTAZZONI E lei dice: “Si è lasciato la politica solo a chi ha grandi disponibilità finanziarie”.
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 Non c’è più politica, non c’è più democrazia.
LUCA BERTAZZONI Perché il partito poi diventa…
UGO SPOSETTI – TESORIERE DEMOCRATICI DI SINISTRA 2001 - 2007 …Succube di chi ti finanzia.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La sciocchezza di cui parla Sposetti è una legge del 2013 fatta del governo delle larghe intese, fra il Pd di Enrico Letta e Forza Italia, che sancisce l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e soprattutto pone un tetto alle donazioni dei privati.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Non si possono dare più di 100mila euro a testa e difatti tutte le mogli, i figli…
LUCA BERTAZZONI Hanno sempre contribuito con questa cifra.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Amici, società del gruppo: tutti hanno sempre messo un bel 100mila cadauno.
LUCA BERTAZZONI Perché quello è il tetto.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Sì, però fanno un milione, no. Questi hanno bisogno di ben più di un milione all’anno.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E per questo Forza Italia chiede agli eletti in Parlamento un contributo mensile di 900 euro.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 I singoli parlamentari pagano meno degli altri partiti e non pagano tutti.
LUCA BERTAZZONI Nell’ultimo bilancio che ha fatto prima di andar via ha scritto proprio questo, che uno dei problemi principali del buco di bilancio è il fatto che non pagano i parlamentari.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 E certamente, perché per pagare sono tutti quanti contrari.
LUCA BERTAZZONI E non gli diceva niente?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Io?
LUCA BERTAZZONI Eh, in quanto tesoriere.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 E cosa gli dicevo? Scrivevo lettere e telefonavo, insomma, certo.
LUCA BERTAZZONI La paga la quota mensile al partito?
CLAUDIO LOTITO - SENATORE FORZA ITALIA Certo, assolutamente sì.
LUCA BERTAZZONI Quant’è?
CLAUDIO LOTITO - SENATORE FORZA ITALIA La quota mensile sono 900 euro e qualcosa e 1000 euro la tessera e 20mila euro a fondo perduto.
LUCA BERTAZZONI E perché non la paga nessuno, quasi la metà dei deputati.
CLAUDIO LOTITO - SENATORE FORZA ITALIA E adesso metteremo la condizione la gente di far pagare.
LUCA BERTAZZONI Lei paga la quota mensile al partito?
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Eh, da sempre. Ma molto di più, magari fosse solo la quota mensile. Voi vi occupate degli interstizi, buongiorno, buon lavoro: esistiamo alla faccia vostra.
LUCA BERTAZZONI È un punto importante, i conti del partito sono…
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Esistiamo alla faccia vostra.
LUCA BERTAZZONI Ma io sono felicissimo per voi, però i buchi
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Siamo più forti di Report.
LICIA RONZULLI - SENATRICE FORZA ITALIA C’era una leggenda per cui le persone vicine a Berlusconi non pagavano. Io proprio per evitare, ho sempre pagato, sono sempre stata in regola.
LUCA BERTAZZONI Però non troviamo nessuno, tutti dicono che hanno pagato, qui quasi la metà degli eletti non ha pagato
LICIA RONZULLI - SENATRICE FORZA ITALIA Io rispondo per me.
LUCA BERTAZZONI Lei ha pagato?
GIORGIO MULE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA C’è a chi si allunga il naso
LUCA BERTAZZONI Qualcuno c’è quindi.
GIORGIO MULE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA Eh, qualcuno ci sarà.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Quello del mancato pagamento delle quote mensili al partito è un problema atavico per Forza Italia, tant’è che dopo due anni dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti le casse sono già vuote.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Forza Italia ha bisogno di liquidità, e quindi deve ricominciare ad accedere al credito bancario e Berlusconi gliela fa nuovamente una fideiussione di tre milioni, poi nel 2019 interviene anche il fratello con altri quattro milioni
LUCA BERTAZZONI Successivamente arriva Paolo Berlusconi, stesso meccanismo, quattro milioni di euro.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Ci troviamo a corto di soldi e quindi io vado da Paolo e gli dico: “Paolo, che facciamo qui?”. E allora lui si fa carico del problema e quindi garantisce, insomma, questa disponibilità in più. Anche gli altri figli danno i 100mila euro.
LUCA BERTAZZONI I figli danno i 100mila, il fratello ha dato quattro milioni però: è diverso.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Beh, è diverso perché uno è un imprenditore e gli altri, i figli, sono figli.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel 2016, con la legge sul tetto alle donazioni dei privati già in vigore, Berlusconi fa una fideiussione di tre milioni di euro a Forza Italia, e nel 2019 il fratello Paolo ne fa una da quattro.
LUCA BERTAZZONI Ma è legale questa cosa? Perché il tetto dei finanziamenti è chiaro, sono 100mila euro.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Sarebbe da studiare, no, perché Berlusconi non ha mai messo, non ha mai finanziato personalmente Forza Italia, ha garantito debiti di Forza Italia quindi c’è questa…
LUCA BERTAZZONI …sottile differenza…
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Sottile differenza che potrebbe essere giuridicamente interpretata, no.
LUCA BERTAZZONI È un modo un po’ furbo per…
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Non è furbo, lei lo chiama furbo ma non è furbo, no, perché furbo LUCA BERTAZZONI È stato in qualche modo aggirato con queste fideiussioni il tetto dei 100mila euro.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 No, sempre 100mila. Lui non ha mai versato un euro in più di quelli che doveva versare.
LUCA BERTAZZONI Però ha garantito fideiussioni per tre milioni di euro.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Questo sì, era quello che la legge consentiva di fare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La legge lo consentiva è quello che dice l’ex tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Ecco, nel corso degli anni Forza Italia ha accumulato debiti per oltre cento milioni di euro. Si è arrivati a un punto dove i creditori hanno addirittura chiesto il pignoramento. Non sappiamo chi, perché sui bilanci ci sono solo voci generiche, si parla di “banche e fornitori di servizi”. Ora, a garantire ci ha pensato sempre Silvio Berlusconi, che ha rilevato il debito con le banche di circa 90 milioni di euro che ora hanno ereditato i figli. Se chiedessero i soldi indietro, ecco, il partito crollerebbe. Anche perché, come ci ha confessato l’ex tesoriere Messina, insomma, gli eletti, la metà degli eletti in Forza Italia non contribuisce con la quota mensile di 900 euro al sostentamento del partito. Che cosa è successo? Nel 2013, con l’abolizione del finanziamento pubblico, si stabiliva per legge che un singolo donatore o una società non poteva superare una donazione di 100mila euro all’anno per un partito e nel 2016, invece, Berlusconi ha presentato una fideiussione per salvare Forza Italia di circa tre milioni di euro. Nel 2019, poi, la stessa cosa ha fatto il fratello, ben quattro milioni di euro. E dunque: hanno violato la legge sul finanziamento pubblico ai partiti? No, hanno, abbiamo chiesto alla Commissione che è garante, che controlla lo statuto, la trasparenza e i rendiconti dei partiti e ci hanno risposto che la fideiussione a garanzia dei partiti segue delle regole diverse rispetto alle donazioni singole o quelle delle società, non esistono, cioè, limiti. Solo nel caso in cui la garanzia venga escussa, cioè se le banche chiedono indietro i soldi, il garante non potrà fare ulteriori donazioni al partito negli anni successivi fino a quando non compenserà la cifra della fideiussione. In parole povere, non puoi superare i limiti di 100mila euro l’anno come donazione ma puoi fare da garante e ottenere milioni di euro dalle banche a un partito senza violare quella legge, la legge del 2013 che fu approvata con un governo di larghe intese, Pd e Pdl, però a beneficiarne è stato soprattutto Forza Italia perché aveva alle spalle le spalle larghe di Berlusconi e della sua famiglia. Certo è, però, che la ricaduta è che se tu hai dei debiti con le banche, non puoi consentire di approvare leggi che possono danneggiarle. E poi c’è anche chi ha quote di banche e incassa dei profitti di decine e decine di milioni.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 14 gennaio del 2022 i leader del centrodestra si ritrovano a Villa Grande, residenza romana di Silvio Berlusconi: quel giorno il Cavaliere è candidato formalmente alla Presidenza della Repubblica.
LUCA BERTAZZONI Quale è stato il ruolo della Fascina nella candidatura di Berlusconi a presidente della Repubblica?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA “Solo tu puoi fare il presidente della Repubblica, solo tu, Presidente, solo tu”. Tutti i giorni così: una goccia cinese e Berlusconi aveva iniziato a crederci, tant’è che ha passato la notte di Natale al telefono, chiamando i parlamentari alle 6 del mattino per dire: “Tu chi mi porti? Tu chi hai da portarmi?”. Capito?
LUCA BERTAZZONI Ma Berlusconi aveva i numeri per diventare Presidente della Repubblica?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Era una partita di poker. Noi avremmo dovuto insistere sul suo nome fino all’ottava, alla decima votazione e con il voto segreto forse ce l’avrebbe pure fatta perché Dell’Utri in quel periodo gli organizzava degli incontri segreti con i più improbabili parlamentari del Movimento Cinque Stelle.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Era partita la cosiddetta “operazione scoiattolo”, trovare voti che sostenessero la candidatura di Berlusconi al Quirinale. I protagonisti dietro le quinte erano Sgarbi, Dell’Utri e l’ex direttore dell’Avanti Valter Lavitola.
LUCA BERTAZZONI – INTERVISTA DEL 31/01/2022 Conti alla mano ce la potrebbe fare Berlusconi a diventare presidente della Repubblica, lei che, insomma, di conti parlamentari ne sa qualcosa?
VALTER LAVITOLA - DIRETTORE L’AVANTI 2003 – 2011 – INTERVISTA DEL 31/01/2022 Sì. Quel terreno fertile nel 2008 non c’era, lo abbiamo fatto diventare fertile.
LUCA BERTAZZONI – INTERVISTA DEL 31/01/2022 E adesso?
VALTER LAVITOLA - DIRETTORE L’AVANTI 2003 – 2011 – INTERVISTA DEL 31/01/2022 Adesso invece il terreno è fertilissimo. Il prossimo parlamento sarà dimezzato, il Movimento Cinque Stelle sarà più che dimezzato. Cosa c’è di male se c’è un po’ di autoconservazione con questi parlamentari che capiranno magari che il Presidente della Repubblica eletto grazie a loro potrà avere un occhio di riguardo per loro?
LUCA BERTAZZONI E poi che cos’è che ha fatto crollare la sua convinzione?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA C’è stata una pressione fortissima della figlia, di Letta e di Ghedini che, conoscendolo, era terrorizzato perché si incontrava con queste persone e cercava di convincerle dicendo: “Ti faccio assumere di qua, ti faccio assumere di là”. Stava diventando un gioco pericolosissimo.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E il gioco finisce. Silvio Berlusconi rinuncia al sogno di diventare presidente della Repubblica e pochi mesi dopo contribuisce alla caduta del governo, togliendo la fiducia a Mario Draghi.
LUCA BERTAZZONI Che ruolo ha avuto la Fascina sulla caduta del governo Draghi?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA La stessa cosa. Lei tutti i giorni gli diceva: “Deve cadere, deve cadere, deve cadere”.
LUCA BERTAZZONI Ma c’era una strategia dietro?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Strategia? Non c’era nessuna strategia. Erano sfizi di una donna convinta che Berlusconi sarebbe ridiventato di nuovo presidente del Consiglio. Era tutto un vedere lui di nuovo in pista per alimentare il suo ego già ipertrofico.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In realtà alle elezioni politiche trionfa Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio. Il giorno prima della formazione del nuovo governo di centro destra esce un audio di Silvio Berlusconi.
AUDIO SILVIO BERLUSCONI – 19/10/2022 Sapete come è avvenuta la cosa della Russia? Anche su questo vi prego, però, il massimo riserbo. Dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica e mettere un governo di persone perbene e di buon senso. Zelensky secondo me… Lasciamo perdere, non posso dire…
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Il gruppo di deputati di Forza Italia la riunione la fa alla Camera, Berlusconi parla e qualcuno, forse qualche ex anche di Forza Italia, lo registra.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’audio di Berlusconi viene consegnato nelle mani di un giornalista di La Presse, che lo pubblica, creando non pochi imbarazzi a Tajani, nuovo ministro degli Esteri in pectore.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA La Meloni era veramente fuori di sé, ma anche Marina si arrabbiò con il padre. Il problema è che la Fascina è una vera fan di Putin, e Paolo Berlusconi e lei avevano questi video della propaganda russa e li mostravano a tutti, anche a tavola.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A febbraio del 2023, mentre Giorgia Meloni è in viaggio per Kiev, Silvio Berlusconi rilascia un’intervista.
SILVIO BERLUSCONI – 12/02/2022 Io a parlare con Zelensky se fossi stato Presidente del Consiglio non ci sarei mai andato perché, come sapete, bastava che lui cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe avvenuto. Quindi io giudico molto, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA La Meloni dice a Marina che il padre doveva stare tranquillo, altrimenti lei non avrebbe ritirato la costituzione di parte civile del governo nel processo sulle escort a Bari e nel Ruby Ter.
LUCA BERTAZZONI E cosa comportava questo dal punto di vista processuale?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Beh, se Palazzo Chigi ritira la costituzione di parte civile non hai più contro il governo, no?
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E così nasce “il patto” fra Marina Berlusconi e Giorgia Meloni.
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT Il patto prevedeva sostanzialmente l’appoggio incondizionato di Forza Italia alla Meloni, alla premier, in cambio del fatto che non sarebbero stati toccati in nessun modo gli asset dell’impero berlusconiano. Eh, questa cosa degli extraprofitti invece va, come dire, ad intaccare.
MARINA BERLUSCONI - ASSEMBLEA CONFINDUSTRIA 15 SETTEMBRE 2023 Intanto non mi piace il termine extraprofitti, lo trovo fuorviante e anche demagogico. Chi stabilisce quando un profitto è extra e quando un profitto è normale?
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La norma che tocca gli interessi è quella approvata l’8 agosto scorso dal Consiglio dei ministri.
MATTEO SALVINI - MINISTRO INFRASTRUTTURE - CONFERENZA STAMPA CDM 8 AGOSTO 2023 Una norma di equità sociale, mi permetto di dire che è un prelievo sugli extraprofitti delle banche. Nel 2023 stiamo parlando, si può ipotizzare, di alcuni miliardi.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Il grosso degli utili Fininvest li ha ritratti negli ultimi anni soprattutto da una partecipazione di minoranza nella banca dei Doris, Mediolanum. Nel 2022 Fininvest, consolidato di gruppo, ha fatto 200 milioni, di cui 150 di Mediolanum. Se va avanti così rischia di fare 700 milioni di utile netto.
LUCA BERTAZZONI E qui però veniamo a un punto molto importante: la famosa tassa sugli extraprofitti che Marina Berlusconi non avrebbe preso benissimo per le cifre che sta dicendo lei.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO E ci credo perché se fa ‘sta tassa le portano via il 40% degli extraprofitti di Mediolanum. No? Rischiano di portarle via 50 0 100 milioni, voglio dire… Sono soldi, no!
MARINA BERLUSCONI - ASSEMBLEA CONFINDUSTRIA 15 SETTEMBRE 2023 Ho visto che sono stati anche sollevati dei dubbi di incostituzionalità, e mi auguro che il Parlamento possa modificare la norma rendendola più equilibrata.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Da Confindustria Marina indica la strada: la norma va cambiata. Forza Italia inizia la sua battaglia in Parlamento presentando emendamenti e alla fine passa la linea della famiglia Berlusconi. Il Governo mette un tetto alla tassa e permette alle banche di non pagare se utilizzano quei soldi per aumentare il loro patrimonio.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA È normale che Marina sia andata a Confindustria per dare una botta al governo sugli extraprofitti e noi dopo una settimana ritiriamo gli emendamenti? Nessuno dice niente, ti sembra normale?
LUCA BERTAZZONI Beh, però alla fine ha vinto Forza Italia perché di fatto la tassa sugli extraprofitti è stata depotenziata.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA La Meloni si è spaventata dopo le parole di Marina, dopo la resistenza del mondo bancario, a quel punto non poteva fare altrimenti.
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT Tajani si è trovato in mezzo, evidentemente la famiglia ha detto: “Ti abbiamo eletto a garante di questo patto”. Perché dobbiamo dire una cosa, no, la premessa è che Forza Italia è un asset della famiglia Berlusconi così come la Mondadori, Mediolanum.
LUCA BERTAZZONI Quanto peso ha ancora la famiglia Berlusconi, diciamo, nell’influenzare la linea del partito? Glielo chiedo in relazione alla tassa sugli extraprofitti.
ANTONIO TAJANI – SEGRETARIO FORZA ITALIA - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI La famiglia Berlusconi è la famiglia Berlusconi, la figlia, sono i figli del nostro fondatore ma le nostre scelte sono assolutamente autonome, siamo indipendenti. La tassa sugli extraprofitti è una tassa…
LUCA BERTAZZONI Che il governo aveva annunciato, poi è intervenuta Marina dicendo che non andava bene, no...
ANTONIO TAJANI – SEGRETARIO FORZA ITALIA - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI Se Marina Berlusconi condivide quello che dice Forza Italia noi siamo molto contenti.
LUCA BERTAZZONI Eh, perché hanno il 30% di Mediolanum, quindi erano direttamente interessati al provvedimento sugli extraprofitti, no, questo mi sembra evidente.
ANTONIO TAJANI – SEGRETARIO FORZA ITALIA - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI Tutte le banche italiane erano interessate, anche le piccole. Quindi siamo riusciti a tutelare le piccole banche, ma non è che, non siamo un partito azienda. La famiglia Berlusconi ha le sue idee…
LUCA BERTAZZONI E ha il 30% di Mediolanum.
ANTONIO TAJANI – SEGRETARIO FORZA ITALIA - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI Beh, ma quello è legittimo e giusto che lo dica, ma noi ci muoviamo per l’interesse nazionale, non per l’interesse di Mediolanum.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’8 agosto il governo annuncia una misura draconiana: le banche devono pagare una tassa sugli extraprofitti. È una norma di equità sociale, dice Salvini, recupereremo dei miliardi. Invece, il giorno dopo si bruciano nove miliardi di euro in borsa di azioni per quello che riguarda le banche. E poi, c’è un però: Marina Berlusconi attraverso la Fininvest detiene il 30% di Mediolanum, che è una banca, quella che ha portato, nel 2022, 150 milioni di euro nelle casse della Fininvest. E alla prima assemblea di Confindustria Marina Berlusconi chiede di modificare la norma. Ora, Marina Berlusconi, i suoi fratelli e lo zio Paolo sono i garanti di Forza Italia. Il governo fa marcia indietro, cambia la norma: pensava di recuperare tre miliardi di euro, ora, invece, saranno le banche che decideranno se pagarla o meno o se tenerla e gestirla all’interno delle loro casse. Poi, la nostra fonte ci ha rivelato come è uscito un audio riguardante Berlusconi: il giorno prima della formazione del governo, in una riunione alla Camera dei deputati di Forza Italia, qualcuno, un ex parlamentare o un parlamentare, ha registrato il discorso di Berlusconi oppure teneva semplicemente il telefono aperto perché qualcun altro, dall’esterno, lo potesse registrare. In quell’audio Berlusconi critica fortemente Zelensky, leader ucraino. E poi, dopo questo, ovviamente ha portato un grande imbarazzo in Forza Italia, un grande imbarazzo e anche irritazione all’interno del nascente governo e anche e soprattutto imbarazzo in quello che era il ministro degli Esteri in pectore, Tajani. Poi, dopo qualche tempo, Berlusconi rincara la dose: mentre la Meloni è in viaggio in Ucraina, dice pubblicamente: io, se fossi stato premier, non sarei andato a trovare Zelensky. Ecco, a quel punto la Meloni si irrita ancora di più, Marina Berlusconi teme per le sorti della sua azienda e là, secondo la nostra fonte, sarebbe nato un patto: Berlusconi avrebbe dovuto tenere una posizione più morbida, in cambio il governo avrebbe ritirato la partecipazione come parte civile all’interno dei procedimenti che vedevano coinvolto Berlusconi, il Ruby Ter e anche quello Escort Tarantini, un filone. Il governo su questo ci risponde su la revoca di costituzione di parte civile nel processo penale Ruby Ter si ricorda che era stata una scelta del governo Gentiloni nel 2017 in un contesto storico politico completamente diverso, quando ancora non erano intervenute pronunce giudiziarie. Ora, l’avvento nel 2022 del nuovo governo ha portato alla rivalutazione della scelta, che è apparsa opportuna anche in virtù delle varie assoluzioni. E giudica assolutamente fantasiosa e prova di fondamento la tesi dello scambio con la posizione del presidente Berlusconi sull’Ucraina. È comunque un fatto che poi la posizione di Berlusconi si è molto ammorbidita ed è anche un fatto che il governo ha ritirato anche la partecipazione come parte civile nel procedimento del filone Escort Tarantini a Bari che era ancora aperto, almeno fino alla morte del Cavaliere. Mentre invece, sulla norma extraprofitti bancari, il governo ci scrive che non c’è stata alcuna marcia indietro: con la norma approvata le banche verseranno l'imposta straordinaria sull’extraprofitto generato nel 2023, determinato sulla differenza fra gli interessi attivi e quelli passivi. L’imposta finanzierà il fondo di garanzia mutui prima casa, interventi per la riduzione della pressione fiscale di famiglie e imprese. In alternativa, gli istituti potranno costituire una riserva, che servirà a consolidare il loro patrimonio. In questo modo si eviterà in futuro che il ripianamento delle perdite delle banche possa ricadere sui cittadini. Ecco, ma quanto vale il patrimonio lasciato dal Cavaliere? Complessivamente quattro miliardi e mezzo di euro. Ha lasciato scritto tre testamenti, l’ultimo il 19 gennaio del 2022. Insomma, una grafologa per noi ha analizzato questo testamento: si è recata personalmente nello studio del notaio Roveda, era quel testamento che è stato portato a mano da Marta Fascina, dalla sua compagna. Ecco, che cosa c’è dentro? Che cosa ha rilevato? E poi, in fila tra gli eredi, c’è anche, è spuntato un colombiano.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le immagini del funerale di Silvio Berlusconi hanno fatto il giro del mondo. E quello che ha colpito di più è stata l’unità della famiglia. Ora i figli dovranno gestire l’impero economico creato dal padre.
LUCA BERTAZZONI Quanto vale il patrimonio di Berlusconi?
MARIO GEREVINI - GIORNALISTA ECONOMICO DEL CORRIERE DELLA SERA L’eredità di Berlusconi vale intorno ai 4, 4 miliardi e mezzo e bisogna considerare che nel patrimonio ereditario non c’è il 100% della Fininvest, ma il 61% che era di proprietà di Berlusconi. Il 61% cos’è, circa 2,8 miliardi, ed è quello del patrimonio Fininvest che è stato diviso fra i figli. Più una holding parallela che non dipende da Fininvest, che era al 100% di Silvio Berlusconi, la Dolce Drago, dove ci sono tutte le principali ville.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo la morte di Silvio Berlusconi il notaio Roveda ha svelato l’esistenza di tre testamenti scritti dal Cavaliere.
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Con il primo testamento del 2 ottobre 2006 Berlusconi ripartisce la propria eredità fra i cinque figli, lasciando la disponibile ai primi due, e cioè a Marina e Pier Silvio.
LUCA BERTAZZONI Il controllo del gruppo, quindi, diciamo, come è stato suddiviso?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Il 53% ce l’hanno i due figli maggiori e il 47% ce l’hanno i tre figli piccoli. È chiaro che c’è un problema cosiddetto di governance, no, nel senso che i maggiori devono gestire in armonia, no, Fininvest per forza.
LUCA BERTAZZONI Ma gli altri tre figli che cosa fanno?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Da quel che si vede le due figlie femmine non hanno grandi iniziative: la Barbara è socia delle holding, l’altra ha qualche società floreale, ma probabilmente sono hobbies. Mentre il figlio Luigi invece…
LUCA BERTAZZONI Ha diversificato. GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh, è lanciatissimo.
MARIO GEREVINI - GIORNALISTA ECONOMICO DEL CORRIERE DELLA SERA Luigi grazie anche ai dividendi Fininvest, ha diversificato le attività: molto nelle attività tecnologiche, FinTech, eccetera, eccetera, creando peraltro una holding con un patrimonio di oltre 400 milioni al di fuori della quota Fininvest, quindi con notevole capacità imprenditoriale.
LUCA BERTAZZONI Luigi ha investito anche nel mattone perché si è comprato quella che era la prima villa milanese di Berlusconi.
MARIO GEREVINI - GIORNALISTA ECONOMICO DEL CORRIERE DELLA SERA Sì, l’ha comprata da Fininvest, peraltro, facendo un mutuo come fanno tutti, però un mutuo che gli costa più di 50mila euro al mese.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Luigi Berlusconi ha speso circa 10 milioni di euro per i 1600 metri quadri di Villa Borletti, più altri sette per i lavori di ristrutturazione: l’intera cifra è stata finanziata con tre mutui diversi da Intesa San Paolo. Dal testamento del 2006 Berlusconi non ha mai modificato la suddivisione societaria dell’impero, ma nei due testamenti successivi ha disposto dei lasciti.
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Il secondo testamento è del 2020 e aggiunge un legato, è una somma di denaro pari a 100 milioni di euro al fratello Paolo.
LUCA BERTAZZONI E poi arriviamo al terzo testamento.
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Mentre i primi due erano stati consegnati fiduciariamente al notaio Roveda, il terzo era a mano della signora Marta Fascina e prevede sostanzialmente tre legati: uno di 100 milioni a favore sempre del fratello Paolo, un altro sempre di 100 milioni a favore della stessa Marta Fascina e uno di 30 milioni a favore di Marcello Dell’Utri.
LUCA BERTAZZONI Paolo Berlusconi è stato citato due volte, 100 milioni una volta e 100 l’altra: vuol dire che deve avere 200 milioni?
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Si sarebbe potuto fare anche su questo una controversia, si è deciso di non farla evidentemente con l’accordo di Paolo perché altrimenti li avrebbe chiesti e quindi ne prenderà solamente 100.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La grafologa Patrizia Giachin, perito del Tribunale di Modena, ha analizzato tutti e tre i testamenti di Berlusconi, e ha notato che la calligrafia dell’ultimo appare molto diversa rispetto ai precedenti.
PATRIZIA GIACHIN – PERITA GRAFOLOGA TRIBUNALE DI MODENA Questo testamento a differenza degli altri il ritmo è molto più rallentato, le ampiezze si fanno molto più contratte. Ci sono, in corrispondenza del tratto di avvio, delle circonvoluzioni e lì, in quel momento, Berlusconi faceva fatica a trovare l’appoggio per iniziare la scrittura. L’andamento del tracciato va su e giù, è altalenante.
LUCA BERTAZZONI È dovuto, probabilmente, alla particolare condizione del momento
PATRIZIA GIACHIN – PERITA GRAFOLOGA TRIBUNALE DI MODENA Sì. PARLAMENTARE FORZA ITALIA Prima di andare al San Raffaele, Berlusconi scrisse di suo pugno questa lettera su cui c’è molto mistero. Era già stato ricoverato, poi ho saputo che il dottor Zangrillo lo ha fatto tornare a casa, ma solo a patto che si sarebbe fatto ricoverare il giorno dopo.
LUCA BERTAZZONI E perché non ha inserito Luigi in quel testamento?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Bisognerebbe chiederlo a chi era presente. Posso immaginare che lui fosse molto agitato quella mattina del 19 gennaio, perché era proprio convinto che non sarebbe tornato più a casa, era convinto di morire.
LUCA BERTAZZONI Nel terzo testamento c’è la dicitura “se non dovessi tornare”. Questo può far sì che in qualche modo venga impugnato il testamento proprio perché lui poi è tornato dal San Raffaele?
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Questo avrebbe potuto essere un motivo di impugnazione. Così non è stato perché nell’accordo che hanno raggiunto gli eredi hanno tranquillamente considerato questo testamento come valido, ecco, a tutti gli effetti, anche se lui poi è tornato.
LUCA BERTAZZONI Le particolari condizioni di salute di Berlusconi possono aver, come dire, influenzato le sue volontà?
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Chi volesse contestare la capacità di un soggetto nel momento in cui ha scritto il testamento, deve essere lui che dimostra che il soggetto in quel momento non era in grado di intendere e di volere.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Un compito praticamente impossibile perché il testamento è stato reso noto solo un anno e mezzo dopo che Berlusconi lo ha scritto.
LUCA BERTAZZONI Perché quel testamento è rimasto un anno e mezzo nel cassetto e non è stato portato al notaio?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Questa è una domanda che dovete fare alla Fascina, ce l’aveva lei la lettera e lei l’ha portata brevi manu al notaio Roveda.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Fra le varie anomalie che emergono analizzando il testamento di Berlusconi si nota l’assenza del nome del figlio più piccolo Luigi e un errore di scrittura che riguarda Piersilvio.
PATRIZIA GIACHIN – PERITA GRAFOLOGA TRIBUNALE DI MODENA Sbagliare il nome del figlio è un po’ una stranezza perché fa parte di quelle parole che i genitori scrivono tutta la vita.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una parte importante dell’ultimo testamento di Berlusconi riguarda i lasciti, che sono oltretutto introdotti da un condizionale.
LUCA BERTAZZONI “Dovreste riservare” questi soldi a Dell’Utri, Fascina e Berlusconi: è un desiderio che gli eredi possono non realizzare o è un obbligo?
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Se c’è il disaccordo è il giudice che lo dice, nel nostro caso l’accordo prevede anche la conferma, quindi il dovreste è stato interpretato e letto come “dovete”.
LUCA BERTAZZONI Cosa ha notato lei?
PATRIZIA GIACHIN – PERITA GRAFOLOGA TRIBUNALE DI MODENA Ci sono le tre parole “milioni” che sono scritte con delle estensioni differenti, nell’ultima mancano addirittura delle lettere. Possiamo pensare che abbia fatto l’elenco, ha scritto Marta Fascina e Marcello Dell’Utri e poi dopo ha scritto i 100 e ha pensato…
LUCA BERTAZZONI La cifra da destinare.
PATRIZIA GIACHIN – PERITA GRAFOLOGA TRIBUNALE DI MODENA Esatto.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nonostante le tante anomalie presenti nel testamento di Berlusconi, i figli hanno trovato un accordo in tempi record.
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Loro hanno fatto a mio avviso una cosa estremamente saggia perché anche nella mia esperienza notarile un accordo anche non tanto buono è meglio di una causa.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma sugli equilibri raggiunti potrebbe pesare un altro presunto testamento che arriva direttamente dalla Colombia.
LUCA BERTAZZONI Tutto bene in Colombia?
MARCO DI NUNZIO – IMPRENDITORE Sì, tutto bene, tutto bene.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Marco Di Nunzio è un imprenditore torinese che da anni vive in Colombia e si occupa di cantieristica navale, oltre a essere consigliere del Comites, il comitato degli italiani all’estero.
LUCA BERTAZZONI Io ho questo pezzo di carta, questo testamento. Berlusconi sostanzialmente le lascia 20 milioni di euro per l’attività di Forza Italia in Colombia e sei a lei.
MARCO DI NUNZIO – IMPRENDITORE Sì, una volta che c’è la pubblicazione del testamento ufficiale vediamo di arrivare ad un accordo direttamente con la famiglia Berlusconi, sennò facciamo direttamente causa.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Oltre ai 26 milioni di euro per Di Nunzio, nel testamento colombiano ci sono tutte le imbarcazioni di proprietà di Silvio Berlusconi, le ville di Antigua ma soprattutto il 2% delle azioni Fininvest.
MARCO DI NUNZIO – IMPRENDITORE L’unica persona autorizzata è Pier Francesco.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Pier Francesco Corso è un giornalista romano che ci ha contattato poco dopo la morte di Berlusconi proponendosi come intermediario di Marco Di Nunzio, il presunto erede che vive in Colombia.
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Ciao Luca.
LUCA BERTAZZONI Come stai, tutto bene?
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Vieni, vieni. Mi hanno cercato perché sapevano che ero una persona corretta e perbene e che, insomma, ero abbastanza agganciato qui al mondo politico.
LUCA BERTAZZONI ‘Sto Marco Di Nunzio chi è?
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Era quello che gli organizzava praticamente i partiti civetta a Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I partiti civetta erano liste elettorali create ad arte da partiti o coalizioni per aggirare il meccanismo dello scorporo della vecchia legge elettorale. “Bunga bunga” era il nome della lista creata da Di Nunzio, che nel 2016 è stato condannato a Torino per firme falsificate.
LUCA BERTAZZONI Lui sostiene, no, che questo notaio ha registrato…
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Il notaio sotto la sua responsabilità civile e penale ha certificato la presenza di Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Il 21 settembre del 2021.
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Esatto.
LUCA BERTAZZONI L’unica risposta, diciamo, che hanno dato da Fininvest è che Berlusconi quel 21 settembre…
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Non hanno dato risposta, hanno detto semplicemente che Berlusconi era qui in Italia.
LUCA BERTAZZONI Era a Milano.
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Lì c’è praticamente la certificazione della dogana, praticamente la certificazione del notaio.
LUCA BERTAZZONI C’è un notaio che certifica la presenza di Berlusconi, però questo pezzo di carta è scritto tutto al computer e poi c’è una firma di Berlusconi che però potrebbe essere, diciamo, fatta da chiunque.
MARCO DI NUNZIO Abbiamo un sacco di documentazione, dai video alle carte di Antigua e tutto il resto, perché, è tutto documentato.
LUCA BERTAZZONI Perché uno potrebbe pensare che lei s’è buttato dentro questa cosa, come dire, per provare a sparigliare e a prenderci qualcosina.
MARCO DI NUNZIO No, no. Andiamo a fare una transazione a saldo e stralcio con la famiglia Berlusconi se arriviamo ad un accordo, sennò in caso andiamo alla causa.
LUCA BERTAZZONI Quando lei mi dice “un accordo” magari la chiudete a meno soldi, dico?
MARCO DI NUNZIO Purtroppo, conosciamo come sono le cause in Italia, possono durare anche 10 o 15 anni. È molto meglio a volte per il quieto vivere arrivare a una transazione a saldo e stralcio.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Meglio pochi, maledetti e subito. Altrimenti saltano fuori i presunti documenti colombiani, fra cui il contratto di noleggio intestato a Berlusconi di una barca dal nome “Eja, Eja, Alalà” e la testimonianza di Di Nunzio dei conti off-shore del Cavaliere in Svizzera con i quali, secondo l’imprenditore torinese, comprò le ville ad Antigua.
LUCA BERTAZZONI A te i documenti li ha fatti solo vedere, non ce li hai fisicamente questi documenti?
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Ho tutto. Ce li ho tutti quanti catalogati, messi a punto e tutti quanti organizzati come Dio comanda, per cui se dovessero dire picche allora a quel punto i documenti escono tutti fuori. Ovviamente però non lo mettere che sembra quasi un ricatto, insomma...
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E se la famiglia non dovesse pagare, magari qualche soldo si rimedia lo stesso.
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Senti, perché non negozi tu, visto che sei uno che gira dappertutto le esclusive? Se è una notizia si vende, che dici? Ce la vendiamo, ti becchi pure te un po’ di soldi.
LUCA BERTAZZONI No, io non faccio ‘ste cose.
PIER FRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Perché? È una cosa scorretta?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eh beh! Insomma, il messaggio che arriva dalla Colombia è chiaro: o la famiglia Berlusconi riconosce a Di Nunzio il pagamento di 26 milioni di euro, il possesso delle imbarcazioni, delle ville di Antigua, il 2% di Fininvest oppure usciranno documenti imbarazzanti. Quali? Per esempio, il noleggio di un’imbarcazione dal nome “Eja, Eja, Alalà”, e i conti offshore in Svizzera con i quali avrebbe acquistato le ville di Antigua. Ora, insomma, se non è un ricatto, poco ci manca. Qui c’è un notaio colombiano che giura che il 21 settembre del 2021 Berlusconi fosse a Bogotà e avesse lasciato questo testamento a Di Nunzio, ecco, quest’eredità, cioè all’uomo che aveva creato per lui le liste civetta, una delle quali, in occasione delle competizioni elettorali, una delle quali dal nome “Bunga Bunga”. Ricordiamo che nel 2016 Di Nunzio è stato condannato dal Tribunale di Torino per aver presentato delle firme falsificate. Però, oggi è consigliere dei Comites, cioè di quell’organismo che rappresenta gli italiani all’estero. Insomma, a noi questa storia colombiana non ci convince, lo diciamo chiaramente. Tuttavia, l’avvocato Di Nunzio ha depositato pochi giorni fa a Napoli il testamento nel quale diffida la famiglia Berlusconi a riconoscere l’inserimento nel possesso dei beni proprio di Di Nunzio. Da parte loro, invece, i legali degli eredi di Berlusconi ci rispondono che ritengono il testamento colombiano “assolutamente non veritiero e che davanti alla Procura della Repubblica di Milano è pendente un procedimento penale che farà certamente piena luce sulla vicenda”. Ora, mentre è certo, invece, che i figli del Cavaliere hanno chiesto di non pagare le tasse sulla quota di 423 milioni di euro, quota Fininvest, che hanno ereditato. Questo la legge lo consente, consente a chi eredita delle quote societarie di non pagare le tasse se poi deterrà il controllo per i prossimi cinque anni, cosa che i figli di Berlusconi hanno sottoscritto un mese fa circa all’interno di un patto parasociale. Chi dovrà, invece, pagare certamente le tasse, otto milioni di euro sul lascito di cento milioni, è Marta Fascina, questo perché tra i due non c’è alcun vincolo parentale, e a poco è servito celebrare il matrimonio simbolico il 19 marzo del 2022 a Villa Gernetto. Ora, insomma, ma come è arrivata Marta Fascina alla corte di Berlusconi?
ALBANO - CONVENTION FORZA ITALIA - PAESTUM 29/09/2023 Buonasera. “Felicità”…
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 29 settembre scorso, giorno in cui Berlusconi avrebbe compiuto 87 anni, Forza Italia ha celebrato il ricordo del suo fondatore a Paestum, in Campania.
LUCA BERTAZZONI Sottosegretario, colpisce un po’ l’assenza di Marta Fascina, volevo capire...
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI In che senso colpisce?
LUCA BERTAZZONI No, perché era un evento per ricordare Berlusconi, tutto qua.
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI È in una fase di lutto, di elaborazione del lutto per cui era noto che non ci sarebbe stata oggi.
ALESSANDRO SORTE – DEPUTATO - COORDINATORE FORZA ITALIA IN LOMBARDIA Il ruolo della Fascina è importantissimo per dare ulteriore slancio al partito. Ha un momento di difficoltà che dobbiamo rispettare, ma siamo sicuri che al più presto sarà con noi.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Marta Fascina non era né con il partito a Paestum né con la famiglia Berlusconi in Regione Lombardia.
BARBARA BERLUSCONI - IMPRENDITRICE - MILANO 19/09/2023 Desidero ringraziare soprattutto il presidente Attilio Fontana per aver deciso di intitolare il Belvedere di Palazzo Lombardia a mio padre, sono visibilmente commossa.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A parte questa apparizione allo stadio del Monza, non è mai comparsa in pubblico dal funerale di Berlusconi.
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT È una ragazza calabra che da piccola va a vivere in Campania. Le piace la politica, si è laureata in Filosofia, grande, diciamo, infatuazione per Forza Italia e per Silvio Berlusconi. Quindi il grande sogno dalla provincia è come arrivare a contattare il Cavaliere. Uno dei canali con cui arrivare era quello di mandare le fotografie, il book come si diceva, e qui viene buono Emilio Fede che le procura un colloquio con Berlusconi. Finisce che lei viene assunta all’ufficio stampa del Milan, poi c’è la vendita del Milan e bisogna trovare un altro posto dove mettere Marta Fascina e lì inizia la sua avventura in politica.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Marta Fascina viene candidata ed eletta nel 2018 nel collegio blindato di Portici in Campania.
MARTA FASCINA - DEPUTATA FORZA ITALIA - INTERVENTO ALLA CAMERA 6/12/2018 Sono lontani i tempi dei governi presieduti da Silvio Berlusconi in cui con le leggi di bilancio si eliminava l’Ici sulla prima casa, venivano eliminate le imposte sulle donazioni e sulle successioni, veniva costruito il termovalorizzatore di Acerra per risolvere a tempi record il problema rifiuti in Campania.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Due anni dopo l’avvento di Marta Fascina a Montecitorio inizia la crisi fra Silvio Berlusconi e Francesca Pascale.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Ad un certo punto il rapporto tra Berlusconi e la Pascale era diventato violento. Lui faceva fatica a vedere la famiglia perché ogni giorno c’era una sceneggiata di Francesca, la situazione era diventata insostenibile.
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT La Fascina appare come lo strumento ideale per sostituire sostanzialmente la Pascale.
LUCA BERTAZZONI E poi sono uscite le famose foto su Diva e Donna.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Eh sì, a marzo del 2020. Il presidente va in un resort in Svizzera e si porta dietro lei. La pubblicazione delle foto apre di fatto la crisi tra Pascale e Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Secondo lei l’uscita di queste foto è stata casuale?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Eh… Il sospetto è che la famiglia non fosse molto contenta della Pascale.
LUCA BERTAZZONI Cosa è cambiato con l’arrivo della Fascina ad Arcore?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Col senno di poi, dico che a Berlusconi giovava più la Pascale che la Fascina. Francesca aveva una personalità forte, bizzarra, ma non entrava mai nelle questioni politiche. Mentre la figura di Marta è diventata di colpo imponente.
LUCA BERTAZZONI Anche in ambito politico sta dicendo?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Soprattutto in politica, partecipava a tutti gli incontri di Berlusconi. Passava le ore del giorno a condizionarlo nelle relazioni con gli altri: “Lui è cattivo con te, non gli parlare più”, sempre così.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A gennaio del 2022 le condizioni di salute di Berlusconi sono preoccupanti e il Cavaliere viene ricoverato al San Raffaele.
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT Quando si sveglia la Fascina è lì accanto al letto e lui commosso le dice: “ti sposo”. E qui, evidentemente sì, suonano tutti i campanelli di allarme possibili.
LUCA BERTAZZONI Dentro la famiglia Berlusconi?
PAOLO MADRON - DIRETTORE LETTERA43.IT Beh, sì. Perché sposarla evidentemente vuol dire che Marta Fascina entra nella linea ereditaria. Allora con un’idea geniale si inventa questa storia del finto matrimonio.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Pochi mesi dopo il matrimonio simbolico, la Fascina non viene candidata a Portici come nella precedente legislatura, ma nel collegio di Marsala in Sicilia, storico feudo di Forza Italia.
VINCENZO SMALDORE - RESPONSABILE EDITORIALE OPENPOLIS Entrambe le volte sono stati scelti collegi super sicuri e questo fa sì che la deputata non abbia fatto neanche campagna elettorale né la prima né la seconda volta: era sicura dell’elezione.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A garantire l’elezione di Marta Fascina in Sicilia ci ha pensato Gianfranco Miccichè, l’artefice del famoso 61 a 0 di Forza Italia del 2001 e fino a pochi mesi fa coordinatore del partito nell’isola.
LUCA BERTAZZONI Fu Berlusconi a chiederle di candidare Marta Fascina nel collegio blindato di Marsala?
GIANFRANCO MICCICHE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2006 Ma che minchia di cosa inutile.
LUCA BERTAZZONI È una domanda legittima, siccome non era una candidata del territorio.
GIANFRANCO MICCICHE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2006 Chi me lo doveva chiedere Biden? Chi me glielo doveva dire?
LUCA BERTAZZONI Glielo ha chiesto Berlusconi? Però lei da siciliano, da coordinatore di Forza Italia in Sicilia non poteva dire mettiamoci uno del territorio piuttosto che la Fascina che non è mai neanche stata in Sicilia? Non se l’è sentita di chiederlo al Cavaliere?
GIANFRANCO MICCICHE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2006 Ripeto: stiamo parlando di cose inutili, era la moglie del presidente che mi ha chiesto una cosa e quindi non era possibile rispondere diversamente.
LUCA BERTAZZONI Quindi lei ha fatto quello che le ha chiesto Berlusconi.
GIANFRANCO MICCICHE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2006 Come sempre nella vita.
LUCA BERTAZZONI Una volta eletta cosa ha fatto in Parlamento?
VINCENZO SMALDORE - RESPONSABILE EDITORIALE OPENPOLIS La scorsa legislatura si è conclusa e lei è stata quasi sempre assente, ha fatto solo un 20-25% di presenze, due disegni di legge ha presentato ed entrambe le volte non sono neanche stati discussi, sono rimasti nei cassetti. Questa legislatura ha fatto ancora meno, questo è il tabulato ufficiale della Camera: Marta Antonia Fascina, eccola qua, è stata assente 3015 volte che è pari al 99,43%. Non c’è niente da aggiungere.
LUCA BERTAZZONI Quale è il ruolo della Fascina all’interno del partito?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Nessuno. Però ha fatto entrare in Parlamento tre suoi fedelissimi: Sorte, Benigni e Ferrante.
LUCA BERTAZZONI Lei è molto amico di Marta Fascina, ho letto che sua mamma era compagna di scuola della Fascina, lei pure è compagno...
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Sì, conosco da oltre vent’anni Marta, certo.
LUCA BERTAZZONI Lei come si avvicina alla politica, ho visto che lei faceva politica da ragazzo con la Fascina.
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Io milito in Forza Italia da circa 18-19 anni, credo che non c’è bisogno di aggiungere altro.
LUCA BERTAZZONI Dicono che lei sia stato eletto in quota Fascina, no, esiste anche la quota Fascina
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Sono stato eletto in quota Berlusconi, è il presidente Berlusconi che mi ha voluto candidare alle elezioni del 25 settembre e che mi ha messo in lista.
LUCA BERTAZZONI Ma in quanto amico di sua moglie?
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI In quanto mi ha conosciuto, ha conosciuto le mie qualità e competenze.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Ha ottenuto che Ferrante facesse il sottosegretario alle Infrastrutture, stiamo parlando di uno che ha incontrato Berlusconi due volte nella vita. Era compagno di liceo della Fascina e solo per quel motivo sta lì.
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Sono il più giovane sottosegretario, quindi
LUCA BERTAZZONI Eh, ma come mai sottosegretario un avvocato? Sottosegretario alle Infrastrutture?
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Ah, gli avvocati non possono? Quindi secondo lei solo gli ingegneri possono andare al ministero delle Infrastrutture?
LUCA BERTAZZONI Mi chiedevo, eh, tutto qua.
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Le posso dire che gli avvocati possono fare tutto.
LUCA BERTAZZONI Quindi lei sottosegretario chi gliel’ha offerto questo ruolo?
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI La nomina è del presidente del Consiglio controfirmata dal capo dello Stato.
LUCA BERTAZZONI Lei è diventato coordinatore regionale della Lombardia di Forza Italia al posto della Ronzulli, dico…
ALESSANDRO SORTE – DEPUTATO - COORDINATORE FORZA ITALIA IN LOMBARDIA Che è di là, tra l’altro.
LUCA BERTAZZONI Sì, l’abbiamo vista. Ma come è riuscito ad ottenere il posto della Ronzulli che è una figura fondamentale per il partito?
ALESSANDRO SORTE – DEPUTATO - COORDINATORE FORZA ITALIA IN LOMBARDIA Innanzitutto, una lunga gavetta e poi sono anche amico di Marta Fascina, cosa di cui vado orgoglioso.
LUCA BERTAZZONI Dopo la morte di Berlusconi, la Fascina non è praticamente mai più uscita da Arcore.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Sì, vive con l’uomo di scorta del presidente, si chiama Nino Battaglia. Lavora per i Servizi, è stato con Berlusconi per trent’anni, lo ha messo lì sotto la presidenza del Consiglio Gianni Letta.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E un invito a Marta Fascina a riprendere almeno la sua attività politica arriva anche da Paolo Berlusconi.
PAOLO BERLUSCONI - IMPRENDITORE - MONZA 26/09/2023 Dobbiamo essere sereni e addirittura felici perché abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, di amarlo e di viverlo. Basta con le lacrime: è un discorso che faccio anche a Marta, che è inconsolabile però dovrà avere la forza anche lei di tornare in Parlamento perché è un suo diritto, ma soprattutto un suo dovere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Già, il dovere. Insomma, anche Marta Fascina rientra nell’eredità di Berlusconi, che le ha lasciato cento milioni di euro. Però, per quello che riguarda il ruolo di parlamentare, quell’eredità l’ha lasciata sulle spalle degli italiani. E insomma, qual è la storia di una giovane calabrese, appassionata di politica che si sposta prima a Portici, poi arriva ad Arcore e finisce sullo scranno del parlamento a Montecitorio. Ecco, un viaggio che richiederebbe più rispetto per quei cittadini che l’hanno eletta in un collegio blindato, quello di Marsala, l’hanno eletta perché avevano fiducia in Berlusconi, così come aveva fiducia in Berlusconi il coordinatore di Forza Italia in Sicilia, Miccichè. Insomma, dice: è la moglie del presidente, me l’ha chiesto il presidente, io, come sempre nella mia vita, ho fatto quello che mi chiedeva Silvio Berlusconi. Dispiace, però, che l’onorevole Fascina non senta il dovere di rappresentare quei cittadini che l’hanno eletta in parlamento: il, oltre il 99% delle assenze. È un dato che, oltre il rispettabile, inconsolabile dolore che prova per la scomparsa di Berlusconi, è un dato che fa riflettere. È stata assente anche nei tre giorni a Paestum, dedicati proprio a Forza Italia dove, però, c’erano tre suoi fedelissimi, c’era Tullio Ferrante, sottosegretario alle Infrastrutture, Alessandro Sorte, coordinatore di Forza Italia in Lombardia, ha preso il posto di Licia Ronzulli, e poi Stefano Benigni, coordinatore nazionale di Forza Italia Giovani. Ecco, a proposito di fedelissimi, ce n’è uno, Dell’Utri, Marcello Dell’Utri, anche lui ha ottenuto un lascito da parte del Cavaliere, trenta milioni di euro, ma non è stato il solo.
LUCA BERTAZZONI Ragioniere Spinelli, buongiorno, sono Luca Bertazzoni, sono un giornalista della Rai, di Report. Come sta? La disturbavo semplicemente perché mi sto occupando del testamento di Berlusconi e lei è stato custode dei segreti finanziari del Cavaliere per 40 anni.
GIUSEPPE SPINELLI – EX RAGIONIERE DI SILVIO BERLUSCONI Non sono al corrente di niente perché hanno fatto tutto gli avvocati.
LUCA BERTAZZONI Certo. Secondo lei ci sono stati problemi, diciamo, sul lascito che ha fatto alla Fascina e a Dell’Utri, insomma… Lei è stato sentito a Firenze, no, nel processo sui soldi a Dell’Utri.
GIUSEPPE SPINELLI – EX RAGIONIERE DI SILVIO BERLUSCONI Ha letto i giornali o no?
MOGLIE GIUSEPPE SPINELLI Basta con queste storie, basta.
GIUSEPPE SPINELLI – EX RAGIONIERE DI SILVIO BERLUSCONI È quello che lei ha letto sui giornali.
LUCA BERTAZZONI Volevo solo capire, ho letto, insomma, lei in questi più 10 anni per volere di Berlusconi ha dato più di 30 milioni a Dell’Utri, volevo capire perché Berlusconi glieli dava.
GIUSEPPE SPINELLI – EX RAGIONIERE DI SILVIO BERLUSCONI L’ho detto, non lo ridico adesso, però se va a rileggere l’ho detto.
LUCA BERTAZZONI Sì, sì, però, insomma, siccome i Pm sostengono che questo potesse essere, diciamo, la ricompensa per il carcere che aveva fatto Dell’Utri e per il silenzio.
GIUSEPPE SPINELLI – EX RAGIONIERE DI SILVIO BERLUSCONI Quello che ho detto ai Pm lei lo sa meglio di me.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ai Pm di Firenze che indagano sulle stragi di mafia del 1993, Giuseppe Spinelli, ragioniere di Bresso e presidente delle quattro holding di Silvio Berlusconi che controllano Fininvest, ha raccontato i rapporti economici fra il Cavaliere e Marcello Dell’Utri: “Si trattava di richieste di aiuto da parte della moglie di Dell’Utri, dovevano pagare gli avvocati e altre spese: io mi limitavo a predisporre bonifici secondo le indicazioni del dottor Berlusconi”.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 La cassa di Berlusconi la seguiva Spinelli, bisogna fare un pagamento e ci pensa Spinelli. Povero Spinelli, ha passato i guai Spinelli, poveretto.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel 2012 il ragionier Spinelli e la moglie vengono sequestrati per una notte intera nella loro casa di Bresso. I rapitori chiedevano a Berlusconi 35 milioni di euro in cambio di documenti riguardanti il processo Lodo Mondadori. Sono stati poi condannati a più di otto anni di carcere per sequestro di persona. Ma se Spinelli era il mero esecutore dei bonifici, a predisporli spesso era l’ex Direttore Generale di Fininvest Alfredo Messina.
LUCA BERTAZZONI Lei il 4 dicembre del 2020 incontra alla Fininvest Dell’Utri insieme a Danilo Pellegrino, amministratore delegato di Fininvest. E poi successivamente ci sono tutta una serie di altri incontri in cui sostanzialmente si discute dei soldi che Berlusconi deve dare a Dell’Utri.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Dell’Utri ha fatto ingiustamente alcuni anni di carcere, Berlusconi è un uomo ricco, ha un amico in difficoltà e se ne occupa.
LUCA BERTAZZONI Ma perché se ne occupava lei di questi pagamenti?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Perché ero il direttore Generale della Fininvest, di cosa mi dovevo occupare?
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E quindi Messina nel 2019 si sarebbe anche occupato di disporre il pagamento dell’acquisto di una casa per la figlia di Dell’Utri e dei successivi lavori di ristrutturazione. Prezzo totale: due milioni e mezzo di euro. E poi c’è un’altra dimora, ben più costosa, che affaccia sul lago di Como: si chiama Villa Comalcione, 30 vani e 3000 metri quadri di giardino. Silvio Berlusconi l’ha acquistata da Dell’Utri nel 2012 al prezzo di 21 milioni di euro.
LUCA BERTAZZONI Berlusconi anche prima del lascito ha sempre dato un sacco di soldi a Dell’Utri.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Sempre però per amicizia. Gli ha comprato la villa sul lago di Como, gli ha pagato tutti gli avvocati, ha dato una specie di mantenimento pure alla moglie. Quindi secondo me ha fatto un calcolo: gli alimenti glieli ho già dati, gli lascio altri 30 milioni che gli serviranno ancora.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Marcello Dell’Utri evidentemente non basta la pensione da 18 mila euro al mese, e quindi a maggio del 2021 Giuseppe Spinelli manda una mail in cui chiede all’ex senatore gli estremi del suo iban perché Berlusconi aveva concordato un accreditamento mensile di 30mila euro in suo favore. Secondo i magistrati di Firenze, fra il 2011 e il 2021 il Cavaliere avrebbe versato a Dell’Utri più di 32 milioni di euro.
LUCA BERTAZZONI Però 32 milioni di euro sono tanti, no?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Eh, sono tanti. Lui aveva dei processi che francamente richiedevano ingenti spese di legali.
LUCA BERTAZZONI E perché doveva pagarli Berlusconi?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Anche i miei legali li paga la Fininvest.
LUCA BERTAZZONI Però Dell’Utri non è più in Fininvest da una vita.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Beh, questo non vuol dire che…
LUCA BERTAZZONI Quindi per sempre? Un vitalizio, anche gli avvocati pagati sono un vitalizio?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Non è che ce lo dimentichiamo, insomma, certo, questo non è possibile.
LUCA BERTAZZONI Però per questioni legate alla Fininvest.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Perché Dell’Utri a cosa era legato Dell’Utri?
LUCA BERTAZZONI Ha una condanna definitiva a sette anni, ha fatto anche il carcere, no, per concorso esterno in associazione mafiosa.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Ma parliamo di mafia? Lasciamo perdere.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Secondo la procura, Marcello Dell’Utri è stato il garante dell’accordo fra Berlusconi e Cosa Nostra dal 1974 al 1992 e per questo è stato condannato in Cassazione a sette anni. Nel 2019 ha finito di scontare la sua pena.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Quando Dell’Utri è uscito dal carcere, Berlusconi faceva pressioni su Ghedini: “facciamolo venire qui, incontriamolo di nascosto”, ma l’avvocato gli ha detto sempre di no.
LUCA BERTAZZONI Perché Ghedini osteggiava questo rapporto?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Per Niccolò, Dell’Utri era una fonte di guai e gliel’ha sempre tenuto lontano. Tant’è che Marcello ricomincia a entrare ad Arcore e a dormire lì solo quando Niccolò si ammala.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nelle carte della Procura di Firenze c’è una conversazione del luglio 2021 fra Marcello Dell’Utri e Alfredo Messina.
LUCA BERTAZZONI Dell’Utri le dice che “pagare i suoi difensori equivale a pagare anche la difesa di Berlusconi”.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Non me lo ricordo onestamente.
LUCA BERTAZZONI Però è un passaggio importante, no, come dire: “guarda che se mi difendo io difendo anche te”.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Beh, insomma sì, si può dire anche così certamente. Però insomma…
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Dell’Utri sta in carcere perché è nato in Sicilia, guardi, non ci sono altri motivi francamente, non ci sono altri motivi
LUCA BERTAZZONI Mangano, il famoso Mangano, se lo ricorda
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Ma vede, Mangano… Lei ricorda quel periodo quando venivano rapite persone? C’era il timore che rapissero anche i figli di Berlusconi. E allora credo che non fosse stata di Berlusconi l’idea di Mangano, ma fosse stata di Dell’Utri a proporre se si metteva una tutela particolare ed evitiamo di rapire qualche ragazzo.
LUCA BERTAZZONI Fino a due anni fa invece Mangano era lo stalliere che stava lì ad accudire i cavalli. È ben diversa la cosa, no?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Fu preso come stalliere, perché…
LUCA BERTAZZONI E poi? ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Certamente la presenza di Mangano poteva allontanare il pericolo di un rapimento.
LUCA BERTAZZONI Perché era un mafioso?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Non lo so se era mafioso.
LUCA BERTAZZONI E allora per cosa?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Non lo so.
LUCA BERTAZZONI Dottor Dell’Utri, buonasera, salve, sono Luca Bertazzoni di Report. Come sta? Ci siamo sentiti telefonicamente. Tutto bene?
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Tutto male.
LUCA BERTAZZONI Tutto male… La disturbavo semplicemente perché ci stiamo occupando del testamento di Berlusconi, abbiamo visto che nell’eredità lei, diciamo, ha ottenuto 30 milioni di euro e volevo capire se se l’aspettava.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Non ho nessuna voglia di parlare.
LUCA BERTAZZONI Come mai?
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Non ne ho nessuna voglia.
LUCA BERTAZZONI Però l’occasione è ghiotta, siamo qua, insomma…
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Eh, lo so. Siete venuti senza avvisare.
LUCA BERTAZZONI Lo so, abbiamo fatto un tentativo, dottore, solo se se l’aspettava o no.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Sentiamoci un’altra volta.
LUCA BERTAZZONI Ci sentiamo un’altra volta e poi mi dirà no, io già lo so.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Non lo so, può darsi che dirò di sì: lei mi chiami.
LUCA BERTAZZONI Va bene, la ringrazio. Ci sono delle persone che la vogliono salutare.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Ciao caro, come stai? È da tempo che non ci vediamo. Ciao caro. Solo che adesso mi prendi alla prendi alla sprovvista.
AMICO DI MARCELLO DELL’UTRI Avevamo solo questo desiderio, io sono venuto da Budapest.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Io avrei desiderio di prendere un caffè con voi.
AMICO DI MARCELLO DELL’UTRI Posso presentare mia moglie, è ungherese
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Certo, molto piacere. Lieto di conoscerla.
LUCA BERTAZZONI Con me no il caffè però invece?
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Certo, inviterò anche lei.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’invito per il caffè non è mai arrivato. Avremmo voluto chiedere a Dell’Utri perché il Cavaliere, oltre al lascito da trenta milioni di euro, gli avesse corrisposto nel tempo, dal 2011 al 2021, la cifra di 32 milioni 768mila 994 euro. È un pagamento che ha riscontrato la Procura di Firenze, che sta indagando sui mandanti occulti alle stragi del, delle stragi del 1993. L’ex tesoriere Messina, che è stato a lungo direttore generale della Fininvest, ci dice di aver disposto molti pagamenti a favore di Dell’Utri proprio per la sua militanza all’interno dell’azienda, pagamenti che erano dedicati alle spese legali. Ora, premesso che Dell’Utri è da tanto tempo che non lavorava più per l’azienda Fininvest, e premesso che quei processi nulla avevano a che fare con Fininvest, ma erano legati a questioni di mafia, quello che noi avremmo voluto sapere da Dell’Utri è che cosa intendeva dire quando, intercettato proprio con l’ex tesoriere Messina, ha detto: “Pagare i difensori di Dell’Utri è pagare anche la difesa di Berlusconi”. È proprio questa intercettazione che ha reso i magistrati sospettosi che quel pagamento fosse per compensare il silenzio con il quale Dell’Utri ha accettato la condanna per essere stato per 18 anni, fino al 1992, il garante di un patto fra Berlusconi e Cosa Nostra.
Zero in condotta. Report rai. PUNTATA DEL 29/10/2023 di Luca Bertazzoni
La settimana scorsa abbiamo mandato in onda una puntata sull’eredità di Berlusconi, quella economica e politica. E siamo stati sottoposti a una settimana di tiro incrociato.
Zero in condotta Di Luca Bertazzoni Collaborazione Marzia Amico Immagini Paolo Palermo – Marco Ronca Montaggio Igor Ceselli
ALESSANDRA MUSSOLINI – EURODEPUTATA FORZA ITALIA Siamo resilienti, siamo forti e andiamo avanti.
LUCA BERTAZZONI Però è un tema, questi 90 milioni...
ALESSANDRA MUSSOLINI – EURODEPUTATA FORZA ITALIA Ma qual è ‘sto tema?
LUCA BERTAZZONI Eh, i 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi.
ALESSANDRA MUSSOLINI – EURODEPUTATA FORZA ITALIA Ma quelli ce li hanno tutti i debiti, ragazzi hanno tolto il finanziamento pubblico ai partiti.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La scorsa settimana abbiamo raccontato del debito di 90 milioni di euro di Forza Italia nei confronti della famiglia Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Dei 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi ne avete discusso con la famiglia, c’è il rischio…
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA Ce li stiamo dividendo un po’ per uno.
LUCA BERTAZZONI È a rischio la sopravvivenza del partito…
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA Arrivederci, buona giornata.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Come ci ha raccontato lo storico tesoriere di Forza Italia Alfredo Messina, una delle voci più importanti del buco di bilancio è il mancato pagamento da parte degli eletti della quota mensile al partito.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 I singoli parlamentari pagano meno degli altri partiti e non pagano tutti perché per pagare sono tutti quanti contrari.
LICIA RONZULLI - SENATRICE FORZA ITALIA Io, proprio per evitare, ho sempre pagato, sono sempre stata in regola.
LUCA BERTAZZONI Però non troviamo nessuno, tutti dicono che hanno pagato qui quasi la metà degli eletti non ha pagato.
LICIA RONZULLI - SENATRICE FORZA ITALIA Io rispondo per me.
LUCA BERTAZZONI Lei ha pagato?
GIORGIO MULE’ - DEPUTATO FORZA ITALIA C’è a chi si allunga il naso
LUCA BERTAZZONI Ah!
LUCA BERTAZZONI La paga la quota mensile al partito?
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Eh, da sempre. Ma molto di più, magari fosse solo la quota mensile. Voi vi occupate degli interstizi, buongiorno, buon lavoro: esistiamo alla faccia vostra.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo diceva il senatore Gasparri prima della messa in onda di Report, ma subito dopo la puntata è intervenuto nella Commissione di Vigilanza Rai.
MAURIZIO GASPARRI – SENATORE FORZA ITALIA - AUDIZIONE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 Accadono cose gravissime perché Report domenica ha mandato in onda cose inaudite. Hanno mandato uno con scritto “parlamentare di Forza Italia” che era certamente un figurante, per cui noi abbiamo fatto ricorso a tutti i metodi per vedere chi poteva essere, in carica o ex.
BARBARA FLORIDIA - SENATRICE MOVIMENTO CINQUE STELLE – PRESIDENTE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 Però senatore Gasparri…
MAURIZIO GASPARRI – SENATORE FORZA ITALIA - AUDIZIONE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 No, mi faccia finire sull’ordine dei lavori. Ho diritto a parlare… E quindi sto dicendo che io trovo sconcertante la condotta cialtronesca, un uso criminale della televisione con i figuranti che vogliamo sapere se sono stati pagati, spacciandoli per parlamentari.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Vogliamo rassicurare il senatore Gasparri sul fatto che nessuno è stato pagato, mentre il giornalista Gasparri dovrebbe apprezzare il modo in cui abbiamo tutelato la nostra fonte. Il ministro Tajani, anche lui giornalista, è invece intervenuto a Sky con dei preziosi consigli.
ANTONIO TAJANI - SEGRETARIO FORZA ITALIA – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI - SKYTG24 24/10/2023 Un buon giornalista non dice mai “la fonte è anonima”. Un buon giornalista è in grado di dimostrare quello che dice e se, quando la fonte è anonima, la fonte non è credibile. Quindi, voto in giornalismo a Report zero, lo dico da vecchio giornalista. Io ho visto la partita, non ho visto Report, però poi sono andato a riguardarmi alcune cose dopo e insomma da un punto di vista giornalistico veramente un prodotto scadente quindi qualche lezione di giornalismo dovrebbero prenderla.
LUCA BERTAZZONI Ministro… Qui possiamo andare però scusi, eh, qui possiamo stare. Ministro, intanto volevamo ringraziarla per la lezione di giornalismo che ci ha fatto, ma volevamo capire che cosa avremmo detto di sbagliato, piano però, piano eh
LUCA BERTAZZONI Quale è il ruolo della Fascina all’interno del partito?
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Nessuno. Però ha fatto entrare in parlamento tre suoi fedelissimi: Sorte, Benigni e Ferrante.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il racconto della fonte di Forza Italia è stato verificato ed è stato confermato dai diretti interessati.
LUCA BERTAZZONI Lei è molto amico di Marta Fascina, ho letto che sua mamma era compagna di scuola della Fascina, lei pure è compagno…
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Sì, conosco da oltre vent’anni Marta, certo.
PARLAMENTARE FORZA ITALIA Ha ottenuto che Ferrante facesse il sottosegretario alle Infrastrutture, stiamo parlando di uno che ha incontrato Berlusconi due volte nella vita. Era compagno di liceo della Fascina e solo per quel motivo sta lì.
LUCA BERTAZZONI Dicono che lei sia stato eletto in quota Fascina, no, esiste anche la quota Fascina…
TULLIO FERRANTE - SOTTOSEGRETARIO ALLE INFRASTRUTTURE E ALLE MOBILITA’ SOSTENIBILI Sono stato eletto in quota Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Come è riuscito a ottenere il posto della Ronzulli che è una figura fondamentale per il partito?
ALESSANDRO SORTE – DEPUTATO - COORDINATORE FORZA ITALIA IN LOMBARDIA Be, innanzitutto una lunga gavetta, e poi sono anche amico di Marta Fascina, cosa di cui vado orgoglioso.
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA - AUDIZIONE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 La mia richiesta è anche di esprimere intanto la nostra indignazione nei confronti della Rai e di Report e di tutti quelli che... Quindi, invece di riunirci su amenità, chi è il vicecaporedattore di Poggibonsi, noi dobbiamo riunirci per parlare di queste gravi violazioni diffamatorie, un uso criminale del mezzo televisivo da parte di Report e di Ranucci.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo il fuoco di fila di Forza Italia contro Report, l’unico parlamentare che ci parla è il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli.
LUCA BERTAZZONI Buonasera onorevole.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Ci consegniamo.
LUCA BERTAZZONI No, consegniamo addirittura? Siccome ha parlato di aggressione a Forza Italia a urne aperte, volevo capire che cosa abbiamo detto di non vero, intanto
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Di non vero? Avete fatto una trasmissione, a parte, voglio dire, andate magari a chiederlo a qualcun altro e non a me che magari sono di parte, però avete fatto…
LUCA BERTAZZONI Beh, ha fatto una nota e per questo vengo da lei
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Mi stavi aspettando per questo motivo? Prendi appuntamento, no? Comunque io parlo, non scappo. Non sono come quelli che dicono: “no, ma ho da fare qualcosa”. Allora, avete fatto una trasmissione di circa 50 minuti dove non si è capito quale era il problema. Avete fatto intervenire uno specialista in riciclaggio quando poi alla fine correttamente è stato detto: “No, ma non c’è nessun riciclaggio” perché le norme permettono, prevedono…
LUCA BERTAZZONI Non abbiamo parlato di riciclaggio, abbiamo parlato del buco di 90 milioni di Forza Italia che è un dato di fatto, no
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Il tizio che parlava di, il tecnico di riciclaggio che stava a fa?
LUCA BERTAZZONI Analizzava i bilanci, non parlava, le assicuro.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Perfetto. Eh vabbè, i buffi, i buffi ce li hai te, ce li ho io.
LUCA BERTAZZONI No, io non ho nessun buffo.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA E che ne so? Magari, beato te!
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Gian Gaetano Bellavia ha analizzato i conti di Forza Italia e non ha mai utilizzato la parola riciclaggio.
LUCA BERTAZZONI Che impressione ha avuto leggendo i bilanci di Forza Italia degli ultimi dieci anni?
GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Si vede il disastro economico, ma non poteva che essere così: è come una squadra di calcio, no, un partito politico, non può che perdere. Nel tempo ha perso più di cento milioni di euro, molto semplicemente i soldi che mancavano ce li ha messi Berlusconi. D’altra parte, era il suo partito, no?
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Poi l’altro argomento: avete fatto ‘sta mascherona dietro che non si capisce chi è, che era un attore? Non era un attore? Che ha detto? Che cosa non ha detto? Quindi in realtà 50 minuti di fuffa.
LUCA BERTAZZONI Abbiamo tutelato una fonte che è un parlamentare di Forza Italia.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Ma lo dici tu, io non lo so.
LUCA BERTAZZONI Eh, lo so, ci abbiamo parlato noi evidentemente.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Affari vostri, secondo noi è una fuffa, secondo noi era un attore vostro, magari tuo fratello, tua zia
LUCA BERTAZZONI Le fonti si tutelano. Siccome ha detto delle cose molto precise quindi che cosa contestate, non ho capito
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Che è tutta fuffa.
LUCA BERTAZZONI Tutta fuffa. Abbiamo parlato dell’eredità di Berlusconi, i buchi del partito sono un dato di fatto, i lasciti che ha fatto
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA I buchi del partito, vabe, sono normali, sono regolari. Ci sono delle illegalità? No, e a voi che vi frega?
LUCA BERTAZZONI Certo, è una notizia che il partito più indebitato d’Italia è Forza Italia.
PAOLO BARELLI – DEPUTATO E CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Ma magari, non lo so se è il più indebitato.
LUCA BERTAZZONI Sì, è così.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Vabbè, comunque fuffa.
LUCA BERTAZZONI No, è un dato di fatto.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Continuate a fare fuffa. Fuffa, fuffa. Televisione libera, Rai è un’emittente libera, voi potete fare quello che vi pare, continuate a fare quello che vi pare.
LUCA BERTAZZONI Però poi ci convocate in Commissione.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA E quale è il problema, oh? Democrazia
LUCA BERTAZZONI Noi non abbiamo niente da nascondere.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA E allora quale è il problema?
LUCA BERTAZZONI Perché avete alzato un polverone ancor prima di vedere la trasmissione.
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA Ma pensa ai polveroni tuoi, perché pensi ai polveroni degli altri?
LUCA BERTAZZONI Ma quali sono i polveroni miei?
PAOLO BARELLI - DEPUTATO - CAPOGRUPPO FORZA ITALIA E che ne so? I polveroni… Vai in Commissione di Vigilanza e dirai che tu sei fico, è tutto a posto, trasmissione meravigliosa. Quale è il problema?
MAURIZIO GASPARRI – SENATORE FORZA ITALIA - AUDIZIONE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 Ha mandato in onda una vicenda di un’eredità di Berlusconi in Colombia che loro stessi hanno detto “sembra non attendibile” dopo che dieci minuti ne hanno parlato.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Abbiamo raccontato la storia del presunto testamento colombiano che vorrebbe capitalizzare Marco Di Nunzio, l’uomo che per conto di Berlusconi creava le cosiddette liste civetta.
LUCA BERTAZZONI Tutto bene in Colombia?
MARCO DI NUNZIO - IMPRENDITORE Sì, sì, tutto bene, tutto bene.
LUCA BERTAZZONI Io ho questo pezzo di carta, questo testamento. C’è una firma di Berlusconi che però potrebbe essere, diciamo, fatta da chiunque.
MARCO DI NUNZIO - IMPRENDITORE Abbiamo un sacco di documentazione, dai video alle case di Antigua e tutto il resto perché c’è, è tutto documentato
LUCA BERTAZZONI No, perché uno potrebbe pensare che lei si è buttato dentro questa cosa, come dire, per provare a sparigliare e a prenderci qualcosina.
MARCO DI NUNZIO - IMPRENDITORE No, no, no. Andiamo a fare una transazione a saldo e stralcio con la famiglia Berlusconi se arriviamo ad un accordo.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Del presunto testamento lasciato da Berlusconi ai colombiani Report ha fatto emergere tutte le ombre.
PIERFRANCESCO CORSO - GIORNALISTA Se dovessero dire “picche” allora a quel punto i documenti escono tutti fuori. Ovviamente però non lo mettere perché sembra quasi un ricatto, insomma
MAURIZIO GASPARRI – SENATORE FORZA ITALIA - AUDIZIONE COMMISSIONE DI VIGILANZA SERVIZI RADIOTELEVISIVI 24/10/2023 Dobbiamo parlare di un uso criminale del mezzo televisivo da parte di Ranucci, di Report e dei dirigenti che l’autorizzano. Non è il circo Barnum la Rai, deve rispettare anche le decisioni recenti del governo che ha confermato canoni, finanziamenti e quant’altro. Non è giornalismo, quello di Ranucci e di Report è una militanza politica quindi noi vogliamo che ci sia un’audizione rapida convocata dall’ufficio di Presidenza sullo sconcio di Report: il Direttore Generale, l’Amministratore Delegato, il Responsabile degli Approfondimenti, Ranucci.
LUCA BERTAZZONI Senatore…
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Prendiamo un appuntamento.
LUCA BERTAZZONI Buonasera senatore, un secondo, siccome è stato molto pesante…
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA Deve prendere un appuntamento.
LUCA BERTAZZONI Siccome è stato molto pesante con Report, volevo capire in base a cosa diceva, ha detto queste cose, senatore.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’appuntamento, poi, ce l’ha dato in commissione di vigilanza parlamentare, dove siamo stati convocati. Premetto che neppure in quella sede riveleremo mai il nome del parlamentare di Forza Italia che ci ha dato quelle informazioni: la legge lo consente, tutela le fonti, Gasparri dovrebbe saperlo perché oltre a essere un parlamentare è anche un giornalista. Ed è, oltre che un diritto, anche un dovere nei confronti della fonte che si è fidata. E poi, premettiamo anche che non abbiamo mai pagato una fonte in trent’anni di storia di Report.
Fenomenologia di Gasparri, dal Puffo Brontolone alla carota: «Se mi provocano, io reagisco». Roberto Gressi su Il Corriere della Sera giovedì 9 novembre 2023.
Tra affondi, querele e provocazioni: le mille baruffe del senatore
Macché, non si pente. E quindi, tantomeno promette di non farlo più. Fenomenologia della carota. Avvistata nelle Gallie, ma forse originaria della Turchia, o dell’Afghanistan, o della Cina. Ma anche gli antichi egizi pare che conoscessero la carota viola. Simbolo di furberia e menzogna, «vendere carote per raperonzoli», i capelli rosso carota associati a persone maliziose, bizzarre, addirittura malvagie. Rosso Malpelo, che nella novella di Verga è disprezzato. Pel di Carota, che nel romanzo di Renard si fa sornione e bugiardo per autodifesa. Il bastone e la carota. Lo sketch di Ficarra e Picone, dove anche per la gestualità il «conto carota» proposto dalle banche assume un significato inequivocabile. Fa eccezione la tradizione araba, dove la carota è simbolo di bontà, favorisce la salute della bocca e un alito fresco. Unica cosa che pareva certa, finora, è che tale pianta non fosse originaria dell’orto di Palazzo Madama.
Finora. Che Maurizio senatore Gasparri ha ritenuto di agitarla, insieme a una bottiglietta di brandy, alla volta di Sigfrido Ranucci, audito in Commissione di vigilanza Rai su Report, in quel di San Macuto. Stupore, sconcerto, la presidente della commissione, Barbara Floridia, che lo richiama: «Senatore, manteniamo il livello».
Gasparri, al telefono, contrattacca subito, che chi mena per primo mena due volte. «Me li sono trovati lì fuori, una trentina, a gridarmi buffone. C’era pure il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, Guido D’Ubaldo. E sul sito di Report anonimi che mi minacciavano, ti veniamo a prendere con il passamontagna, ho fatto un esposto ai carabinieri».
Ma lei, senatore, sotto San Macuto c’era andato già «armato», con tanto di carota e bottiglietta di brandy. «Che c’entra, mica era un pugnale. Avevo chiesto a un mio collaboratore di procurarmeli, non so dove li ha presi. Volevo dire a Ranucci che è un pauroso, che si porta la scorta, eccoti la carota coniglio». E il brandy? la bottiglietta era pure un po’ vuota... «Sì, me ne sono accorto, Stock 84, ma era sigillata, giuro, volevo offrirgli un cordiale, perché si facesse coraggio. E comunque se ne sono viste di cose, in Parlamento». C’è anche chi ha agitato il cappio. «Ma la carota mica è un cappio! Serviva a irridere».
Macché, niente da fare, non si pente. «Ma come no, ho dato dei monnezzari al sito di una radio e mi sono pure scusato!». Ma lei è anche tweet dipendente, negli anni duecentomila cinguettii. A Zoro: «Sopravvive pur non avendo capito che la vasca serve per lavarsi, pratica a lui ignota, e non per coltivare piantine». Era la replica a una puntura di spillo perché si era esibito in un «chiesimo» al posto di chiedemmo. «Ma quello era un tweet di una collaboratrice dello staff, non mio, si è pure dimessa». A Riccardo Puglisi ha scritto «Ignorante, presuntuoso, fa vomitare», e si è preso pure una querela. «Chissà che fine avrà fatto, la querela, sapeste quante ne scrivono a me. Su mia moglie, a mia figlia, sui miei genitori morti». Sulle volontarie Vanessa e Greta ha dettato: «Sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo». «Ma quello era un retweet!». Ancora: «Nasce il preservativo marchio Coop, beh con tutte le teste di c. che ci sono a sinistra sarà un boom di vendite». «Ma quello è un fake! Mi hanno pure fotomontato un libro al contrario per dire che Gasparri fa finta di leggere».
Ma poi: «Fa piacere mandare a fare... gli inglesi, boriosi e coglioni». «Ma siete amanti delle antichità! Quello era dopo una partita. Ebbene sì, sono colpevole di tifare per l’Italia». Se l’è presa pure con tal Puffo Brontolone. «E dai!». Ma sempre cercando, senatore, eccone un altro: «Impietoso paragone tra orrenda Merkel e giovani argentine inquadrate poco fa». La replica: «Ma insomma, questa è archeologia!».
Si basta, fermiamoci qui, che un punto bisogna metterlo. Anche se ci sarebbero ancora la Cina, la Crimea, Jim Morrison, mamme, figlie e sorelle che fanno il «mestiere più antico del modo».
Non sarebbe il caso che anche lei, senatore, si fermasse? «Ma guardi che lei ha tirato fuori cose vecchie e stravecchie, di recente mi sono molto moderato. Certo, poi se mi insultano io rispondo».
Insomma, qualche piccola concessione. Ma poi, per difendere Nunzia De Girolamo finita nel ciclone per come ha condotto l’intervista alla ragazza violentata a Palermo, scrive: «Manderò carote e cordiale anche ad altri».
Niente da fare. Franti. Incorreggibile.
La Repubblica, il Fatto Quotidiano e Domani in testa. I rapporti economici fra Berlusconi e Dell’Utri: l’ossessione estiva di alcuni quotidiani. I rapporti economici fra Berlusconi e Dell’Utri non sono una novità essendo stati oggetto di centinaia di approfondimenti giudiziari. Ma, colpa dell’estate e della tradizionale mancanza di notizie, lascia interdetti l’attenzione a dir poco morbosa di alcuni giornali, Repubblica, Fatto e Domani in testa, sull’indagine della Procura di Firenze circa i rapporti fra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri a proposito delle stragi di mafia del 1993. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 23 Agosto 2023
Sarà l’estate e quindi, a parte la novità di quest’anno rappresentata dal feroce granchio blu, la tradizionale mancanza di notizie, ma l’attenzione a dir poco morbosa di alcuni giornali, Repubblica, Fatto e Domani in testa, sull’indagine della Procura di Firenze circa i rapporti fra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri a proposito delle stragi di mafia del 1993 non può non lasciare interdetti.
Lunedì scorso Repubblica e Fatto sono tornati ancora una volta sull’argomento pubblicando due articoli “fotocopia” in cui si citavano passi dell’interrogatorio del ragioniere Giuseppe Spinelli, l’uomo che per oltre 40 anni ha curato l’amministrazione dell’ex premier. Il ragioniere era stato sentito due anni fa, per la precisione il 15 novembre del 2021, proprio sui rapporti economici fra Berlusconi e Dell’Utri. Spinelli, in particolare, aveva confermato che Berlusconi versò diverse decine di migliaia di euro nel corso degli anni a Dell’Utri e che questi soldi non erano stati mai restituiti. Ieri, invece, per non essere da meno il quotidiano di Carlo De Benedetti ha riportato la testimonianza, sempre a Firenze, dell’ex fidanzato di Marina Berlusconi, Giulio Tassera, interrogato lo scorso giugno per riscontrare le dichiarazioni di Salvatore Baiardo, il gelataio di Omegna che in passato era stato condannato per aver favorito la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ex boss del quartiere Brancaccio di Palermo.
Per la cronaca, il verbale di Spinelli era stato depositato dalla Procura di Firenze al Tribunale del riesame per il ricorso presentato da Dell’Utri contro la perquisizione effettuata nella sua casa milanese il mese scorso dagli agenti della Direzione investigativa antimafia. Quello di Tassera, invece, per il ricorso contro la decisione di non applicare la custodia cautelare a Baiardo richiesta dai Pm per calunnia.
I rapporti economici fra Berlusconi e Dell’Utri non sono una novità essendo stati oggetto di centinaia di approfondimenti giudiziari. Nel 2014 la prima sezione penale della Cassazione, estensore della sentenza Margherita Cassano, attuale primo presidente, aveva messo un punto fermo a tal proposito, escludendo profili di rilevanza penale a carico di Berlusconi. Le dazioni di denaro, in altre parole, erano state ampiamente accertate ma non avevano determinato alcuna contestazione formale. Nonostante ciò, per i Pm di Firenze Dell’Utri continuerebbe ad essere “portatore di un profilo particolarmente adatto per alimentare intese stragiste, in ruolo di trait d’union fra Berlusconi e la criminalità mafiosa dal 1974 al 1992”, il quale con le conoscenze mafiose ha poi alimentato “la nascita di Forza Italia”.
Il teorema accusatorio prevede poi Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, al soldo di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca e quindi dei fratelli Graviano. I soldi dati negli anni da Berlusconi a Dell’Utri sarebbero, allora, la contropartita per “le condanne patite ed il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto”. È la quinta volta, va detto, che si apre un fascicolo per dimostrare il contatto fra Graviano, il mafioso stragista, e Berlusconi, il mandante delle stragi.
Secondo gli aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli ed il Pm Lorenzo Gestri, le stragi avevano lo scopo di indebolire il governo Ciampi, in quel momento alla guida del Paese, ed avevano l’obiettivo di “diffondere il panico e la paura fra i cittadini in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Sul Riformista del 27 giugno è stato ricordato che il procedimento sulle stragi del 1993 della Procura di Firenze aveva raccolto parti di “Sistemi criminali”, l’indagine condotta dagli ex Pm palermitani Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato e archiviata nel 2000.
In quella indagine si ipotizzava la presenza di personaggi esterni alla mafia che avrebbero poi partecipato agli attentati, un “terzo Livello” composto da massoni, imprenditori, piduisti, e mafiosi per i quali l’avvio delle stragi era finalizzato a destabilizzare la vita democratica nel Paese. La sentenza definita del processo Trattativa Stato-mafia, però, aveva messo una pietra tombale sul ruolo di Dell’Utri come colui che avrebbe veicolato la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi. Secondo la tesi dei Pm fiorentini, l’ex presidente del Consiglio sarebbe invece arrivato al governo proprio grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra.
Una contraddizione, dunque, con la teoria della Trattativa. Durante le stragi del 1992-93, infatti, Berlusconi non aveva ancora fondato Forza Italia e con le sue televisioni appoggiava i Pm milanesi di Mani pulite. L’ipotetico sostegno al primo governo Berlusconi era emerso durante il processo Borsellino Ter. Sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella avevano parlato di un consistente apporto di voti fornito da Cosa nostra a Forza Italia in occasione delle elezioni politiche del 1994. Appoggio che sarebbe stato offerto nella prospettiva di ottenere modifiche legislative, mai però realizzate, nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa. Nessuno dei tre mafiosi aveva comunque fatto riferimento a contatti tra Cosa nostra e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Sarebbe molto meglio, vista la situazione, concentrarsi sul granchio blu e non rincorre i fantasmi. Paolo Pandolfini
Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per repubblica.it lunedì 21 agosto 2023.
“Sono 43 anni che lavoro per il dottor Silvio Berlusconi. All’inizio seguivo le cose tipiche della famiglia, mi sono occupato dell’amministrazione spicciola come gli acquisti, le spese, il personale domestico, ed avevo un ufficio ad Arcore; successivamente mi sono spostato a Milano 2, ed ho continuato ad occuparmi dell’amministrazione della famiglia, ma ho iniziato a curare anche alcune società”.
Il ragionier Giuseppe Spinelli, 82 anni, è l’uomo che custodisce i segreti finanziari di Silvio Berlusconi e fino alla scomparsa del Cavaliere ha avuto le chiavi delle holding di famiglia. Ha seguito la sua amministrazione personale, è presidente dell’Immobiliare Idra, proprietaria degli immobili di famiglia; presiede le quattro Holding di proprietà di Silvio Berlusconi, ed è amministratore delegato delle due Holding di proprietà di Marina e Piersilvio.
Il rapporto tra Berlusconi e Dell’Utri
Seduto davanti ai magistrati di Firenze nell’inchiesta sulle stragi del 1993 in cui è indagato Marcello Dell’Utri (fino alla morte lo è stato anche Silvio Berlusconi), il 15 novembre 2021 da testimone descrive il rapporto col Cavaliere e con Dell’Utri. Risponde alle domande e spiega i movimenti bancari, le operazioni immobiliari, le donazioni in favore di amici e parenti. Il verbale è depositato agli atti e nella disponibilità delle parti.
"Ho conosciuto il dottor Dell’Utri nel periodo in cui avevo l’ufficio ad Arcore; non ho mai avuto rapporti diretti con lui; ricordo che alla fine degli anni ‘80 Berlusconi fece una serie di donazioni notarili a varie persone, tra cui Dell’Utri, Bernasconi, Confalonieri e il cugino Foscale; erano donazioni in favore dei principali responsabili che avevano procurato lo sviluppo di Fininvest.
Dopo le donazioni, fui incaricato da Berlusconi di effettuare bonifici in favore di Dell’Utri, con la causale prestito infruttifero, ma i prestiti non sono mai stati restituiti. Dell’Utri ha lavorato per società riconducibili a Berlusconi dagli inizi degli anni ‘80 fino alla metà degli anni ‘90”. Spinelli spiega che fra lui e Berlusconi “c’era un rapporto fiduciario” e dice di aver conosciuto Dell’Utri “quando Pubblitalia è nata nell’80” e ricorda che la prima volta si sono incrociati ad Arcore “come poteva capitare di arrivare mentre i politici se ne andavano, ecco, qualcosa del genere, ho incrociato Dell’Utri come ho incrociato anche altre persone”.
Secondo Spinelli per riconoscere ad alcuni manager il lavoro che avevano fatto di far espandere la Fininvest “ha voluto ringraziarli” facendo donazioni che riguardavano Dell’Utri, Confalonieri, Bernasconi, Foscale e il fratello Paolo Berlusconi, “poi ha aggiunto anche qualche cugina che non c’entrava niente col lavoro, perché è sempre stato molto generoso”.
Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli chiede spiegazioni sulle operazioni dal 2011 al 2021, che hanno movimentato 32 milioni e 700mila euro a favore di Dell’Utri. “Erano richieste di aiuto che la moglie di Dell’Utri ha fatto. La signora Ratti doveva pagare gli avvocati, c’erano le spese e non avendo più nessun lavoro… era una richiesta di aiuto fatta direttamente a Berlusconi”. Sui conti correnti utilizzati Spinelli ha qualche incertezza: “Alcuni conti sono cambiati a causa del divorzio con la signora Veronica, perché a un certo punto c’era la Montepaschi… bloccato i conti e allora abbiamo dovuto aprire conti nuovi in quel periodo, è per quello che rischio di fare confusione".
L’amicizia tra Ratti e Veronica
Il ragioniere spiega l’amicizia fra Ratti e Miriam Bartolini, la “signora Veronica” che possedeva una villa in Sardegna, e ritorna su altri bonifici: “A Foscale proprio come gratitudine per quello che ha fatto quando era uno dei responsabili di Fininvest, e suo fratello perché è suo fratello.
Ricordo che il papà del dottor Berlusconi quando ha iniziato con Milano Due, che doveva comprare, aveva dato tutta la sua liquidazione, tutto quello che poteva e gli ha detto: ‘Ricordati sempre che hai un fratello e una sorella’, che purtroppo è morta. Ecco, lui è ligio e anche dopo cinquant’anni e anche di più, quando ha bisogno, il fratello è il fratello insomma”, dice Spinelli. Quindi persone diverse dalla cerchia familiare che ricevono somme di denaro, come Dell’Utri, non ce ne sono? “A me non vengono in mente”, e descrive il loro rapporto come “un’amicizia fraterna”.
“I giornali mi hanno dipinto come se fossi il factotum del dottor Berlusconi”, si lamenta il ragioniere, “grazie a questo mi sono trovato in casa anche dei delinquenti, perché pensavano che io potessi andare in banca a prelevare quello che volevano”. Ma in quarant’anni al fianco di Berlusconi non gli ha mai rappresentato che poteva ricevere un danno d’immagine dando così tante somme di denaro a Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa? “Questi argomenti non li tocco con lui. Sono il classico ragioniere… la mia preoccupazione è non fargli spendere più del necessario, ma se lui mi dice: ‘Fai un bonifico di tot’, non batto ciglio. Ho puntato soprattutto sulla mia onestà nei suoi confronti, di essere trasparente, prudente, senza entrare mai nel merito, se non mi veniva richiesto”.
Ha saputo che nella villa di Arcore ha vissuto il pregiudicato Vittorio Mangano? “Sì, questo l’ho saputo dai giornali. Quando sono arrivato non c’era più”. Spinelli dice di non conoscere il modo con il quale veniva pagato Mangano, perché chi amministrava prima di lui i conti non ha lasciato una contabilità in ordine.
(...)
Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it - Estratto il 20 giugno 2023.
Analisi su grandezze e nefandezze di un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo.
All’Espresso, controllato dalla CIR, controllata dalla Cofide, controllata dalla holding di famiglia di Carlo De Benedetti, andarono Repubblica e una quindicina di quotidiani locali.
Grazie alla guerriglia di Caracciolo e Passera, De Benedetti si trovò in mano un gioiello che era anche un bazooka politico. Se ne servì in più modi. Il giornale fu decisivo nella caduta di Berlusconi.
Come primo atto da nuovo proprietario, De Benedetti licenziò da direttore dell’Espresso Giovanni Valentini, che aveva retto la Resistenza a Berlusconi come un vero capo partigiano.
Mi ordinò anche di non comprare da Scalfari e Caracciolo le rotative che avevo clandestinamente comprato per fare uscire, in caso di sconfitta, un nuovo giornale (Scalfari non era molto ottimista circa la forza del suo solo nome come elemento di vendita del nuovo giornale: contro le 600 mila di Repubblica ne prevedeva al massimo 240 mila).
Disobbedii a De Benedetti, come altre volte. Scalfari, forse il più grande giornalista italiano del secolo, volle anche gli interessi.
Spietato con i concorrenti, Berlusconi era grande e generoso con i suoi fedeli. Se eri dei suoi, ti colmava di doni, inclusi gli appartamenti. Ricordo la gioia di Amedeo Massari, quando scoprì che Berlusconi gli aveva regalato una casa. E credo che non sia stato il solo, nell’inner circle, a essere così beneficato.
Ma credo che anche grande parte dei dipendenti non potesse lamentarsi di Berlusconi e della sua larghezza col denaro.
Sfido. Tra ricavi stellari e stretto controllo degli sprechi, Mediaset arrivava a margini sopra il 30%, fatturato in rapporto ai costi. Poteva permettersi di essere generoso.
Ma c’era qualcosa di più, un senso di fedeltà e lealtà con i suoi uomini (donne credo solo un paio) che ha trattenuto attorno ai figli e alle aziende il massimo del patrimonio professionale accumulato in mezzo secolo di lavoro.
La storia di Berlusconi ha inizio negli anni ’50-’60, quando, appena laureato, mette su un complessino con il suo compagno di scuola (e ancor oggi al vertice di Mediaset) e intrattiene i passeggeri sugli ultimi transatlantici e sulle prime navi da crociera. Ho letto in alcuni coccodrilli un tono snobistico da parte di giornalisti di oggi nel riferirsi a questi esordi. Snobismo da figli di papà. All’epoca molti giovani di buone speranze trovavano in quella delle band una divertente attività per guadagnare un po’ di soldi in vacanza. Per me bambino erano un mito.
L’Italia era in pieno boom. Milano, capitale morale ed economica, era satura di immigrati, non solo contadini dalla Padania e dal Veneto ma anche giovani diplomati e laureati figli della guerra, emergenti dei nuovi ceti medi, per i quali vivere in centro era troppo costoso e anche soffocante.
Berlusconi fu tra i primi a capire e, ispirandosi ai modelli inglesi e americani delle città satelliti, inventò Milano 2. Erano anni di inflazione galoppante, sopra il 25%, le banche i soldi non li davano nemmeno alla Fiat, figuratevi se imprestavano milioni di allora a un baldo giovanotto trentenne con grandi idee e poco più. Questo dà credibilità alla ipotesi che Berlusconi sia stato messo in contatto con qualcuno in Sicilia che i soldi li aveva ma non erano, come si dice oggi, tracciabili.
Questo è un lampo di quel dark side di Berlusconi che ci ha tormentato in questi anni. Penso che le varie rivelazioni dei vari pentiti abbiano contribuito a inquinare il racconto, spostando convenientemente i tempi e dirottando l’attenzione sulle stragi mancate degli anni ’80 invece che sugli esordi.
Anche la presenza dello “stalliere” Mangano ad Arcore per me è più legata ai fondi neri costituiti da Berlusconi ai Caraibi con la cresta sull’acquisto dei film americani, probabilmente senza dirlo agli azionisti impresentabili, che non a paure di rapimenti o stragi.
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Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it - Estratto il 20 giugno 2023.
Analisi su grandezze e nefandezze di un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Mentre Berlusconi costruisce Milano 2, in Italia il monopolio Rai si sgretola. Siamo nei primi anni ’70. Ancora nel 1960 la Corte Costituzionale aveva confermato l’esclusiva Rai con l’argomento della scarsità delle frequenze disponibili in Italia, negando al Tempo di Renato Angiolillo la possibilità di mandare in onda Tempo Tv. Stesso argomento per le radio.
La tesi era che chiunque può fare un giornale, in quanto basta una rotativa, mentre le frequenze disponibili in Italia erano contate. Argomento un po’ fallace, visto che per fare il Corriere della Sera o Repubblica da zero ci vuole qualche milione o miliardo.
Poi però succede che in Inghilterra esordiscono le prime radio private e sfidano il monopolio della BBC: la mitica Radio Luxembourg, che trasmetteva da una nave ancorata in acque extraterritoriali, poi Capital Radio. Intanto volano le tv private regionali consorziate in Itv: il modello vede i costi coperti della pubblicità, mentre la BBC è finanziata dal canone e non trasmette spot pubblicitari.
In Italia rompe il muro Tele Biella, una tv via cavo. Sfrutta il fatto che la Tv via cavo non era inclusa nei divieti della legge italiana. Seguono feroci polemiche politiche fino a quando la Corte Costituzionale apre al futuro, riconoscendo il diritto di esistere non solo per le tv via cavo, ma anche alle trasmissioni via etere, limitatamente all’ambito locale.
Restava il macigno del limitato numero di frequenze disponibili in Italia che sarebbe stato rimosso col passaggio al digitale, 40 anni dopo durante i quali fu una costante della Corte Costituzionale. E fu anche alla base della Legge Mammì del 1990 (quella per la cui rapida approvazione rinunciarono alla poltrona di ministro Mattarella e gli altri del gruppo di Ciriaco De Mita: fatto talmente eccezionale da essere ricordato nei libri di scuola; ma in Italia pochissimi conservano memoria, tra loro era Berlusconi).
La legge Mammì, basandosi sulla scarsità delle frequenze, stabilì che Rai3 di Rai e Italia1 di Mediaset non fossero più trasmesse via etere da terra bensì per via satellitare. Ciò avrebbe ridotto di un terzo il bacino di spot della offerta pubblicitaria di Berlusconi, per il quale invece la interfunzionalità delle tre reti, con tutti i possibili giochi di pacchetti e orari, era un dogma come la Trinità per i cristiani.
Come chiunque giunto a maturità prima del nuovo secolo può avere constatato, Rai3 e Rete4 sul satellite non ci sono mai andate.
Berlusconi è stato fuori legge per vent’anni e nessuno se ne è accorto o ha voluto accorgersene. Nemmeno i tanto feroci comunisti, sempre con la testa da un’altra parte, sempre complici nel gioco della Rai.
Anche la Corte dimostrò una fantastica tolleranza per Berlusconi. Ci fu un momento, una ventina di anni fa, in cui Berlusconi prese ad attaccare la Corte Costituzionale. Mi chiesi perché. Conclusi che si trattava di un attacco preventivo, forse aveva avuto sentore di un imminente richiamo all’ordine, e attaccava per primo.
Finalmente un passaggio di Rai al digitale terrestre un po’ arronzato e ancora imperfetto dissolse l’incubo.
Erano passati trent’anni dall’inizio della avventura e aveva avuto inizio la fase calante.
Ma allora, negli anni ‘80, era la ouverture di una marcia trionfale.
Il genio di Berlusconi si scatena. Fa incetta di tv locali e di frequenze (ben consigliato da Adriano Galliani in questa mossa decisiva), mentre aggira la legge che limita le emissioni all’ambito locale con un semplice, quasi banale stratagemma. Registra i programmi, manda le cassette in tutta Italia facendole mettere in onda con pochi minuti di intervallo fra le varie emittenti.
Così la legge era formalmente rispettata ma agli inserzionisti era garantita una quasi contemporaneità, condizione indispensabile per l’efficacia degli spot e la loro coerenza con le caratteristiche dei profili delle ricerche.
Ma un pretore non accettò la soluzione e bloccò Canale 5. Ne seguì una pantomima politica. Bettino Craxi, grande amico di Berlusconi e come lui ossessionato dai comunisti che poi alla fine ne decretarono la fine, ricattò il primo ministro Andreotti minacciando la crisi di governo se non fosse stato permesso a Berlusconi di trasmettere. Fu il liberi tutti. (Il decreto fu dichiarato incostituzionale 10 anni dopo e sostituito dalla Legge Mammì del 1990 di cui dico sopra. In quei 10 anni Berlusconi costruì il suo impero).
Così due editori della carta stampata si misero all’opera, Mondadori con Rete4 e Rusconi con Italia1. Fu una catastrofe. Rusconi si ritirò dalla tv nel giro di pochi mesi, cedendo la rete allo stesso Berlusconi.
Mondadori quasi fallì. L’azienda fu salvata con una operazione di ingegneria finanziaria architettata dalla Mediobanca di Enrico Cuccia. A controllare la casa editrice fu costituita una holding, Amef, il cui capitale era diviso fra i discendenti del fondatore Arnoldo Mondadori, Berlusconi e il suo arcinemico Carlo De Benedetti. Erano le premesse per la guerra di Segrate, scoppiata a fine anni ’80 fra i due tycoon.
Nel procedere Berlusconi si prese Rete 4. Se non l’avesse fatto, la Mondadori sarebbe affondata.
Hai voglia a dire che Berlusconi li ha stesi tutti con l’inganno e si è preso le loro tv a prezzo di saldo. La verità è che è stato il più bravo di tutti, nel bene come nel male.
Nel bene si registra l’incetta di film americani fatta da Berlusconi, lasciando ai concorrenti ben poco da mostrare. Quando si presentarono a Hollywood, festanti come in una gita aziendale, trovarono terra bruciata.
Con quei film Berlusconi rivoluzionò usi e costumi della tv in Italia. Fino al suo avvento, la Rai monocanale trasmetteva un solo film l a settimana, scelto con criteri anche di qualità e valori cultuali da un bravo critico genovese, Claudio G. Fava. Dovevano inoltre essere trascorsi 2 anni dal passaggio in sala. Con Berlusconi furono film di ogni tipo a ogni ora dall’alba a notte fonda, un trionfo.
Nel processo fu scardinato anche il sistema di distribuzione: Molto meno gente andava al cinema, la tv glielo portava in casa. Ci sono proprietari di sale che ancora girano gli occhi al cielo al solo nome di Berlusconi. Il quale entrò poi nel settore, comprando parecchie sale, forse un po’ con intenzioni risarcitorie.
Dalla lista del male ricordo solo un racconto che circolava negli anni ’80.
Riguarda la pubblicità ed è esemplare della astuzia di Berlusconi, sempre in azione.
Raccontavano, nei secondi anni ‘80, di un episodio della concorrenza fra Canale5 e Rete4.
Publitalia, la rete costruita da Marcello Dell’Utri, vendeva la pubblicità di Canale5. Berlusconi era il venditore principe, pranzo e cena con potenziali clienti, contratti basati sul principio: mi paghi in funzione dell’aumento del tuo fatturato.
Soprattutto però, l’argomento vincente erano i prezzi bassissimi se confrontati con quelli di Rai e della carta stampata. Su entrambi i rivali pesava lo scarcity value, il valore dato dalla limitatezza dell’offerta. Per Rai era conseguenza dei forti limiti imposti all’affollamento, gli editori dovevano considerare, oltre agli ingenti costi da coprire, anche il costo di carta e stampa delle pagine pubblicitarie aggiuntive.
La tv commerciale non aveva costi aggiuntivi, anzi. Dovendo riempire le 24 ore, più pubblicità c’era meno film e programmi servivano. Lato ricavi, una lira era ed è meglio di zero. Gli spettatori erano felici e tolleranti. In alternativa a una Rai che ti infliggeva l’Orlando Furioso in versione Luca Ronconi, qui avevi gratis i film del momento e più avanti Drive In.
La pubblicità su Rete4 era venduta dagli stessi uomini e donne che vendevano Panorama e Grazia. Logiche di costi e prezzi opposte.
L’allora capo di Mondadori, Mario Formenton, dopo tante proteste, arrivò a un accordo. I prezzi sarebbero stati bloccati senza sconti. Era venerdì. L’accordo entrava in vigore lunedì. Quelli di Mondadori partirono per il week end, Berlusconi e i suoi si misero pancia a terra e riempirono i carnet ordini. Quando con la nuova settimana i concorrenti iniziarono a vendere, scoprirono che non c’erano più budget disponibili.
Concludo con un altro fatto determinante nella sua romanzesca carriera. Coincide con il suo ingresso in politica, la discesa in campo.
A quel tempo l’Italia era sconvolta dalla tormenta nota come Mani Pulite. Un gruppetto di magistrati della Procura della Repubblica di Milano aggredì la classe politica ed economica italiane con una serie di arresti per corruzione e tangenti.
Avevano il pieno sostegno della gente, esasperata dalla virulenza dei potenti.
Il risultato non è stato granché, anzi penso che avere spettacolarizzato inchieste e processi (incluse dirette tv) ha fatto solo danni. Guardate come si sono comportati i tedeschi con Helmut Kohl per rendervi conto: anche questo ha pesato nella differente evoluzione dei due Paesi. L’Italia non è il Paese più corrotto del mondo. Altri che si vestono di ipocrita moralismo nel giudicarci sono peggio. Noi però ce l’abbiamo messa tutta per coprirci di ignominia.
Ricordo con un brivido quel momento in cui i pm di Milano sfidarono i vertici dello Stato in diretta tv all’ora di pranzo. In Francia sarebbe arrivata la gendarmeria, da noi fu un tripudio.
Il 1989 fu in tutto il mondo un anno di crisi economica. In Italia, in fase di riassestamento dopo un decennio di crescita, la crisi durò più a lungo e Berlusconi rischiò di esserne travolto. Si era allargato troppo. Oltre al blitz su Mondadori pesava l’attuazione di un altro grandioso disegno. Lo sentii raccontare dallo stesso Berlusconi in un momento di umiltà in una delle riunioni del lunedì.
L’idea era semplice. Avendo ottenuto la completa copertura della Penisola con le frequenze di Canale5, appariva logico l’abbinamento spot- supermercati. In tal modo gli italiani guardavano Canale5, vedevano la pubblicità e alla Standa, nel frattempo annessa al nascente impero, trovavano i prodotti da acquistare.
Non andò così perché la Standa non copriva l’Italia con la facilità delle frequenze. E anche perché nel frattempo arrivò la recessione di cui sopra.
Fu una altra occasione per Berlusconi per mostrare la sua capacità di sopravvivenza e oltre.
Si era arrivati al punto che a Milano ti dicevano che Berlusconi era ormai spacciato. Si parlava di debiti oltre i 7 mila miliardi di lire, tre miliardi e mezzo di oggi. Enrico Cuccia, il gran maestro della grande imprenditoria italiana, con la sua Mediobanca architetto della rinascita industriale del dopoguerra, si diceva che a Berlusconi non rispondeva nemmeno al telefono.
Berlusconi fondò Forza Italia, con l’aiuto organizzativo di Dell’Utri e la ossatura della rete di Publitalia, aggregò fascisti e Lega, fenomeno nato dalla ribellione del Nord alla redistribuzione di risorse in eccessivo favore del Sud. Vinse le elezioni e diventò presidente del Consiglio.
Allora Cuccia prese il treno e si presentò a Palazzo Chigi di persona, senza bisogno di telefono.
Cuccia inventò Mediaset, costrinse Berlusconi a subire le regole della Borsa e dei soci di minoranza e lo salvò dalla bancarotta.
E ora? Sono un reporter e non mi sento in grado di fare previsioni.
Lo scenario è molto cambiato dai miei tempi. I giornali vendono sempre meno copie (ma contano sempre molto), internet ha sconvolto gli usi di lettura e la pubblicità. Il modello della tv di Berlusconi è saltato dall’arrivo del satellite ed è stato sconvolto da Netflix e replicanti.
Unica sopravvissuta mi sembra la Mondadori. Sotto la guida di Ernesto Mauri si è focalizzata sulla vocazione originaria della editoria libraria. Mi pare con risultati positivi.
(ANSA il 12 giugno 2023) - Mfe in forte rialzo in Borsa a Piazza Affari dopo la notizia della morte di Silvio Berlusconi. Le azioni B con dieci diritti di voto salgono del 5,4% a 0,72 euro e il titolo A con un diritto di voto guadagna il 5,6% a quota 0,49 euro. Avanza anche Mondadori che registra un rialzo dello 0,9% a 1,97 euro.
Il credo impreditoriale. Berlusconi portò in azienda il modello leninista. È stato un illusionista capace di coniugare rigidi dettami imprenditoriali e creatività, edonismo e difesa dei valori tradizionali. Un venditore di sogni di massa. Paolo Persichetti su L'Unità il 13 Giugno 2023
Fin dal momento della sua entrata diretta in politica, nel lontano 1994, il dispositivo Berlusconi ha agito come un grande diversivo, un potentissimo magnete capace di captare su di sé passioni contrapposte. Una sorta d’incantesimo che ha permesso al padrone della televisione commerciale di collocarsi da subito al centro della scena scompaginando gli schieramenti, rimescolando le carte, sparigliando il tavolo da gioco.
Forse solo riconoscendo questa sua irresistibile capacità illusionistica si può riuscire a spiegare anche l’essenza contraddittoria, quella combinazione di contrari che è l’antiberlusconismo. Solo in questo modo si riesce a comprendere perché personaggi della destra storica, come Indro Montanelli o populisti di destra come Antonio Di Pietro siano diventati dei paladini del popolo della sinistra, oppure un damerino reazionario come Marco Travaglio, abbia potuto ispirare prima le correnti giustizialiste della sinistra, dai girotondi al popolo viola, e poi i Cinque stelle.
Sicuramente Berlusconi ha saputo intercettare e interpretare a modo suo quel nuovo spirito del capitalismo descritto da Luc Boltansky e Éve Chiappello in un volume pubblicato da Gallimard nel 2000 e arrivato in Italia solo nel 2014 con Mimesis. Versione italiana di quella nuova etica della valorizzazione del capitale che, secondo i due sociologi, dopo l’originaria fase puritana e la successiva età della programmazione e della razionalità fordista, ha trovato nuova fonte d’ispirazione e legittimazione in una parte delle critiche rivolte al modo di produzione capitalista durante la contestazione degli anni Settanta.
La critica al taylorismo fordista, all’alienazione seriale del lavoro, ai rapporti di società rigidi e gerarchizzati e alla società dello spettacolo, sono state assorbite e metabolizzate fino a fare della creatività e della flessibilità i tratti salienti del nuovo sistema dell’economia dei flussi, del valore aggiunto, del lavoro immateriale incamerato nel prodotto finito. Inventiva, piacere e pazzia – sempre secondo l’analisi di Boltansky e Chiappello – sono diventati ingredienti del successo capitalista molto più dei costipati valori del lavoro, della preghiera e del risparmio che ispiravano gli albori del capitalismo ma anche quella sorta di calvinismo del valore lavoro di cui era intriso il togliattismo.
Se l’immaginazione non è mai arrivata al potere, sicuramente ha trovato posto in piazza Affari. Dimostrazione della capacità dinamica e innovativa dell’«imprenditoria deviante», secondo una categoria forgiata dalla sociologia criminale. L’ambivalenza del comportamento berlusconiano, condotta all’interno e all’esterno dell’ordine stabilito, ha permesso di condurre esperimenti, d’esplorare possibilità anche illegittime. Risorsa necessaria affinché l’iniziativa economica innovativa potesse avere luogo. In questo modo l’uomo di Arcore ha mantenuto «una distinta leggerezza che ha consentito alle sue imprese, in maniera weberiana, di levarsi al di là del bene e del male», come ha scritto Vincenzo Ruggiero in, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore, Milano 2005.
Il patron della pubblicità con le sue televisioni è stato il volto italiano di questa rivoluzione del capitale. Con la sua abilità nel produrre ideologia è riuscito a sintetizzare anche interessi e spinte sociali diverse ma accomunate da un’ipertrofica rapacità individualista. Venditore di sogni e d’illusioni, spacciatore di marche, dealer di un mondo ridotto al dominio del logo e delle sue imitazioni. Divenuto sistema-mondo, occupata la società, a Berlusconi mancava solo la politica. Non la politica vera. Quella l’aveva sempre fatta, come una volta vantò in una intervista. La sua rete commerciale non era altro che un partito di tipo leninista. L’unico rimasto. Il partito dei professionisti della pubblicità.
Una struttura di quadri selezionati, radicati nel territorio e nei distretti economici, con rapporti diffusi e alleanze con le corporazioni, le organizzazioni di categoria e gli imprenditori legali e illegali. Un vero modello d’organizzazione bolscevica della borghesia. E difatti, alla fine del 1993, in pochi mesi riuscì a farne la struttura portante di Forza Italia per lanciare l’attacco alla cittadella della politica istituzionale, all’occupazione della macchina statale.
Grazie a una scientifica attività lobbistica e alle protezioni ottenute da settori influenti della politica, più che alla capacità di stare sul mercato, ha potuto costruire negli anni Ottanta la sua posizione dominante nel settore delle televisioni commerciali e della raccolta pubblicitaria. Ma a spianare la strada al suo ingresso diretto nel mondo dei palazzi romani è stato il tracollo del sistema politico dei partiti provocato dalle inchieste giudiziarie.
Quando sulle ceneri della Prima Repubblica rivaleggiavano ormai forme contrapposte di populismo, Berlusconi è riuscito a sconvolgere la scena politica del paese sradicando la tradizione dei partiti di massa già in crisi e imponendo il proprio modello anche ai suoi avversari. In grado di miscelare elementi elitari e plebiscitari, premoderni e ipermoderni, quello berlusconiano è apparso un modello di populismo dove vecchio e nuovo s’integravano. Sorretto dal ritorno all’affermazione della leadership carismatica e provvidenziale, nella quale il potere patrimoniale sostituisce la vecchia legittimità paternalista-patriarcale, il paradigma berlusconiano ha accompagnato l’elogio dell’imprenditorialità diffusa dentro la quale riescono a convivere anche forme arcaiche e bestiali di taylorismo.
Il sogno e l’inganno di milioni di piccole imprese, nuova configurazione di un rapporto lavorativo che occulta dietro il mito dell’imprenditorialità individuale le gerarchie di un nuovo modello di sfruttamento. Illusione di un facile accesso al ceto medio e all’arricchimento personale modellato con i valori profusi dalle televisioni commerciali, tra gossip, cronaca nera, veline e reality show.
Esaltazione retorica e sognatrice dell’autoaffermazione individuale, della proprietà (tanto più quando questa è insignificante e si riduce ad un’abitazione o un’automobile acquistata contraendo mutui bancari pluridecennali o alla conversione dei propri risparmi in bond e partecipazioni in titoli finanziari). Ideologia che riesce a far convivere con un mirabile gioco di prestigio temi legati alla riscoperta dei valori morali, come patria, famiglia e presunta etica della vita (ostilità verso l’aborto e l’uso delle staminali), insieme a una sorta di sfrenato “edonismo proprietario”, di ’68 dei padroni (il “bunga bunga”).
«Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza. Tutto ciò come è stato possibile?
Quando la società dei lavoratori e dei cittadini volontari è messa fuori gioco, ha risposto Mario Tronti: «la politica diventa il monopolio dei magistrati, dei grandi comunicatori, della finanza, delle lobby, dei salotti. Cessa di essere la sede in cui i progetti di società si affrontano e confrontano e diventa il luogo dell’indifferenza, uno spazio indistinto dove l’apparenza prevale sul contenuto, l’estetica s’impone sulla sostanza». Per questo l’antiberlusconiano giustizialista non solo non si è rivelato efficace ma si è addirittura dimostrato dannoso riverberandosi unicamente come riflesso subalterno del suo acerrimo nemico spianando la strada al governo della destra fascista. Paolo Persichetti 13 Giugno 2023
Estratto dell’articolo di Francesco Spini per “La Stampa” il 13 giugno 2023.
«E adesso?». La notizia della scomparsa di Silvio Berlusconi corre veloce nelle sale operative, i telefoni degli analisti si fanno roventi, tempestati dalle domande dei gestori dei fondi internazionali che si interrogano sul futuro.
Di Fininvest, certo, ma soprattutto di quella Mediaset (di cui la famiglia controlla il 50%) che da un anno e mezzo ha cambiato nome in Mfe-MediaforEurope, sede, ad Amsterdam, e vocazione: non più confinata a Cologno Monzese ma protesa verso un polo europeo delle tv in chiaro.
«E i figli, venderanno?». La domanda rimbalza, i titoli in Borsa decollano. Le azioni tipo B, la "B" di Berlusconi, quelle che contano per comandare (10 diritti di voto per ciascun titolo) in mezzora toccano un rialzo del 10%.
Qualcuno immagina grandi manovre, finché un comunicato marchiato Fininvest, della famiglia insomma, raffredda gli entusiasmi: evoca il patrimonio del Cavaliere […] E tale patrimonio – si sottolinea – resterà alla base di tutte le nostre attività, che proseguiranno in una linea di assoluta continuità sotto ogni aspetto».
Traduzione: non si vende. E basta questo per raffreddare chi, nella speculazione, stava gettando il cuore ben oltre l'ostacolo
[…] il mercato, in ogni caso, disegna scenari, compila ipotesi. La più scontata di queste è già lì, appollaiata in Mfe con il 23,6% dei diritti di voto. Si chiama Vivendi, ovvero Vincent Bolloré, il rider bretone con cui Berlusconi nel 2016 si era accordato per fare una grande alleanza che invece si rivelò un pantano: tra un tentativo di scalata (di cui la famiglia non ha mai perdonato il tempismo, visto che cominciò durante una degenza del Cavaliere), guerre legali, scontri all'ultimo voto.
Due anni fa la pace ha avviato una discesa dei francesi dal 29,9% raggiunto, discesa che si è però interrotta, visti i corsi non favorevoli del titolo. Un nemico carissimo, insomma, che oggi rende onore al Cav: «Il suo fascino e la sua energia rimarranno nella memoria di tutti», recita la nota che arriva da Parigi. Torneranno alleati? […] Bolloré non farà la prima mossa.
La seconda congettura porta in Germania, dove Mfe ha spostato il primo carrarmatino del suo risiko delle tv: ha comprato poco meno del 30% di ProsiebenSat1. Una combinazione sull'asse Cologno-Monaco […] creerebbe un colosso con soci i Berlusconi, i francesi e i cechi di Ppf, saliti al 15% del gruppo tedesco.
Terza suggestione: la vendita a gruppi internazionali. I pretendenti negli anni non sono mancati. Tutti ricordano il doppio tentativo di Rupert Murdoch negli Anni 90. E anche oggi un gruppo presente in Italia, Spagna e Germania può destare interesse: Discovery si dice abbia bussato alla porta di Pier Silvio Berlusconi, ad di Mfe, ricevendo un «no, grazie». Varrà in futuro?
Per ora va registrato il mantra di famiglia: «Assoluta continuità». E questo dovrà valere per tutto l'impero Berlusconi, uno scrigno che vale una fortuna: 6 miliardi di euro, calcola Forbes, circa 4,9 solo di patrimonio di Finivest la holding a capo della catena.
Un portafoglio che spazia dalle tv, alle radio (105, 101, Monte Carlo), dala pubblicità (Publitalia 80), alle produzioni (TaoDue), all'editoria con Mondadori. E ancora il calcio col Monza. Il teatro Manzoni, salotto di Milano, la flotta di tre aeroplani e un elicottero, gli immobili, in parte anche fuori con le società Dolcedrago e Idra, con le ville San Martino e Certosa.
Poi c'è il gioiello Banca Mediolanum […] di cui Fininvest ha il 30%: quota che da sola vale 1,8 miliardi. Senza più il Cavaliere […] la Bce non opporrà più nulla e il Biscione non dovrà più scendere sotto il 10%. Resta da capire come si suddividerà adesso l'impero.
C'è curiosità, ad esempio, su quello che sarà il lascito all'ultima compagna, Marta Fascina. Soldi e case, si scommette. Non le aziende. Marina e Pier Silvio, figli della prima moglie Carla Dall'Oglio, hanno già il 15,3%, il 7,65% di Fininvest ciascuno tramite le Holding Italiana Quarta e Quinta. Barbara, Eleonora e Luigi, frutto delle nozze con Veronica Lario, hanno insieme il 21,42% nella H14, di cui ha ognuno un terzo. Oltre a un 2% di azioni proprie, il restante 61,3% circa era nella disponibilità di Berlusconi, tramite altre quattro casseforti.
Una divisione paritaria sposterebbe l'asse della maggioranza a favore dei figli di secondo letto, ma con la quota disponibile (un quarto) Berlusconi potrebbe aver sistemato le cose, con compensazioni, anche con gli accordi in occasione dei suoi divorzi. Difficilmente poi la governance del Biscione sarà lasciata al caso. La guida di Fininvest (così come di Mondadori) saldamente nelle mani di Marina, quanto il timone di Mfe a Pier Silvio non appaiono in discussione. Appuntatevi la linea strategica: «Assoluta continuità».
Estratto dell’articolo di Mario Gerevini per corriere.it il 13 giugno 2023.
[…] Intestata direttamente all’ex premier c’è innanzitutto Villa San Martino ad Arcore, sua residenza da quasi 50 anni: 3.500 metri quadrati, acquistata dal Cavaliere negli anni Settanta dalla ventitreenne Anna Maria Casati Stampa (titolare della proprietà dopo l’omicidio della madre e il suicidio del padre), assistita nella transazione dall’avvocato Cesare Previti.
A 6 km di distanza, sempre nei pressi del Parco e dell’Autodromo di Monza, si trova Villa Belvedere (Macherio), comprata all’asta nel 1988 dalla Provincia di Milano. Lì a Macherio ha vissuto a lungo l’ex moglie Miriam Bartolini (alias Veronica Lario) prima del divorzio.
Uno dei rifugi preferiti da Berlusconi fuori dalla Brianza è Villa Campari sul Lago Maggiore, a Lesa […]: 30 stanze, splendido parco, erba pettinatissima e porticciolo privato. La villa fu fatta costruire alla fine dell’800 dal patriota risorgimentale e senatore del Regno d’Italia Cesare Correnti, che morì proprio tra quelle mura nel 1888.
Poi l’allora Villa Correnti venne acquisita dalla famiglia del famoso bitter che la ribattezzò Villa Campari. Berlusconi l’ha aggiunta alla sua collezione nel 2008. «Sono andato su Internet e ho comprato una casa a Cala Francese, si chiama Due Palme. Anch’io diventerò lampedusano». Nel marzo 2011, atterrato a Lampedusa assediata dagli sbarchi, l’allora premier tra le varie promesse (campo da golf «indispensabile» e casinò sull’isola) annunciava il suo nuovo affare immobiliare. Il prezzo? Top secret anche se la villa, stile anni Settanta, realizzata da un aristocratico siciliano, era offerta su internet a 1,5 milioni (250 metri quadrati, otto posti letto, ampio giardino).
All’inizio di agosto il leader della Lega Matteo Salvini è stato ospite qualche giorno in Villa Due Palme. Ad Antigua, nei Caraibi, Berlusconi ha altre due proprietà immobiliari. Intestate direttamente a lui sono anche una vecchia Audi A6 di 17 anni e tre imbarcazioni: lo yacht Magnum 70 «Sweet Dragon» del 1990, il «San Maurizio» del 1977 e la barca a vela «Principessa Vai Via» del 1965. Il resto del portafoglio berlusconiano sono partecipazioni in società e dunque è lì dentro che bisogna andare a vedere cosa c’è. Ecco allora il ramo numero due, quello delle società prettamente immobiliari.
Le ville della Dolcedrago
A spanne si può calcolare che più di mezzo miliardo di patrimonio sia gestito sotto l’ombrello della Dolcedrago, una holding di partecipazioni in società quasi esclusivamente immobiliari: Essebi Real Estate, Immobiliare Dueville, Brianzadue e la big del gruppetto l’Immobiliare Idra. A presidiare questo prezioso e riservato “territorio” è quello che potremmo chiamare il team «operazioni riservate».
Ovvero i fidatissimi professionisti con base a Segrate che si occupano degli affari personali del Cavaliere: Giuseppe Spinelli (81 anni), Salvatore Sciascia (80), Giuseppino Scabini (75) e il «ragazzo» Marco Sirtori (57). Berlusconi possiede il 99,5% della Dolcedrago, le briciole sono di Pier Silvio e Marina Berlusconi, figli avuti nel primo matrimonio con Carla Dall’Oglio, di quattro anni più giovane. Parentesi familiare: Marina ha una splendida villa a Châteauneuf-de-grasse, nell’entroterra della Costa Azzurra tra Antibes e Cannes e la madre è titolare di una piccola quota. Nel marzo 2020, con la prima ondata di Covid, il padre si rifugiò proprio lì per diverse settimane.
La Lampara di Cannes
A Cannes, e qui torniamo nel portafoglio della Dolcedrago, un’altra lussuosa villa è stata teatro di un intreccio familiare. Villa «La Lampara» è un gioiello da 500 metri quadrati più 2mila di giardino con piscina e vista mare. Fu costruita dal marchese George De Cueves, marito di Margaret Rockefeller e poi è passata di mano più volte. Era finita sulle pagine dei giornali anni fa per lo sfogo di Antonia Costanzo, l’ex moglie di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, che acquistò la villa nel 2007 con un prestito milionario di Mps e l’incoraggiamento – lei disse - di Silvio Berlusconi che gli mandò anche i suoi giardinieri a sistemare il parco.
Lui, secondo quanto fu scritto, fece da garante fino a oltre 8 milioni. Poi le rate e il debito furono «dimenticate» per anni. Una «distrazione» che costrinse la banca nel 2015 a chiedere (e ottenere) dal Tribunale un decreto ingiuntivo contro i beni della signora Costanzo.
Alla fine Berlusconi subentrò nel debito e rimborsò Mps diventando egli stesso creditore dell’ex cognata con annessi pignoramenti e connesse ipoteche. Poi il cerchio si è chiuso: una delle società immobiliari che fanno capo alla Dolcedrago del leader di Forza Italia ha acquistato «La Lampara» per 3,55 milioni. Prezzo presumibilmente al lordo dei debiti e anche degli oneri di ristrutturazione. Oggi la villa è in vendita. Il suo valore di bilancio, che non vuol dire di mercato, è di 8,1 milioni.
Villa Certosa
Il gioiello della corona, però, è indiscutibilmente Villa Certosa in Sardegna a Porto Rotondo, Il buen retiro nel cuore della Costa Smeralda. E’ stata acquistata negli anni Settanta, poi completamente ricostruita e ampliata. Ai tempi di Berlusconi premier era classificata come «sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio».
Di qui sono passati ospiti illustri, dal russo Vladimir Putin a George W. Bush. Una perizia tecnica del gennaio 2021 indicava un valore di 259.373.950 euro. Documento assolutamente attendibile perché è firmato da Francesco Magnano, geometra di fiducia del cavaliere.
Villa Certosa difficilmente potrà essere divisa tra tutti i figli anche se lo spazio non manca: 68 vani, 181 metri quadrati solo di autorimessa e altri 174 di posti auto. Poi - scorrendo le carte della perizia - 4 bungalow di cui 2 accatastati A/2 (abitazioni civili), così come due immobili denominati Cactus e Ibiscus, il teatro, la torre fronte teatro, la serra, la palestra, la talassoterapia, 297 mq di orto medicinale. Isolata nell’elenco una voce: «La Palappa». Che cos’è? Non è specificato ma dovrebbe essere una specie di capanna tropicale. Palapa è un termine spagnolo di origine Maya che indica una dimora senza pareti con un tetto di paglia fatto di foglie di palma essiccate.
Quella di Berlusconi ha tre «p» e una rendita catastale di 361 euro. Il tutto è immerso in un parco di 580.477 metri quadrati (un campo da calcio è circa 7mila mq). Anche se il prezzo di mercato potrebbe essere superiore a quello della perizia, già così la reggia di Porto Rotondo si colloca tra le ville più costose in assoluto. Per fare un paragone, nel 2019 a Cap-Ferrat in Costa Azzurra la Campari ha venduto per 200 milioni Villa Les Cèdres, appartenuta al re del Belgio e poi ai fondatori del marchio Grand Marnier e a lungo considerata la residenza più cara al mondo.
L’acquirente, si è saputo a distanza di tempo, è stato il miliardario ucraino Rinat Akhmetov. Ma le classifiche sono più che altro curiosità perché si tratta di pezzi unici che sfuggono a valutazioni attendibili. Nel 2009 si parlò di un’ offerta dagli Emirati Arabi per Villa Certosa da 450 milioni di dollari, l’anno successivo secondo la stampa spagnola era quasi fatta con un imprenditore iberico per 400 milioni di euro, e poi nel 2015 sarebbe stato lo stesso Cavaliere a mostrare le bellezze della residenza al figlio del re d’Arabia: la richiesta pare fosse 500 milioni. Mai nulla di scritto, mai alcuna conferma.
Le altre proprietà immobiliari
Frugando nell’arcipelago Dolcedrago si individuano anche altre «16 unità immobiliari» nel milanese che, terreni compresi, sono iscritte a un valore di 16 milioni. E fin qui le proprietà sono al 100% della Dolcedrago, ovvero Silvio.
Poi però c’è il caso unico della società Brianzadue dove l’architetto Ivo Redaelli (40%) divide con Berlusconi (60%) un portafoglio immobiliare da una trentina di milioni dove spicca Villa Sottocasa di Vimercate (Monza), edificata alla fine del XVIII secolo e acquistata nel 2018 per 2,5 milioni ma da ristrutturare profondamente. Poco distante, a Lesmo, un’altra splendida proprietà è finita nel portafoglio del Cavaliere: Villa Gernetto, dove spesso vengono organizzati incontri istituzionali.
Proprio lì di fronte l’ex moglie Veronica Lario ha comprato Villa Sada, storica residenza della famiglia fondatrice della Simmenthal (poi venduta alla Bolton). A Roma Berlusconi ha acquistato nel 2001 e poi ristrutturato Villa Zeffirelli sull’Appia Antica che negli ultimi anni era diventata il suo quartier generale romano. Ma l’anima del costruttore e immobiliarista che fu, si intuisce dal portafoglio «varie ed eventuali»: terreni a Olbia e in Brianza, decine di immobili tra Roma e il milanese e soprattutto i 116 posti auto nel Centro Direzionale di Milano Due a Segrate, dove tutto è cominciato con la Edilnord negli anni Settanta.
Estratto dell’articolo di Mario Gerevini per corriere.it il 13 giugno 2023.
[…] quale è il valore di tutte le proprietà e dei conti in banca che il Cavaliere lascia in eredità? A 4 miliardi ci si arriva con stime abbastanza attendibili e conservative. Vediamo che cosa c’è, dunque, nel portafoglio dell’ex premier, dettagli compresi.
Le proprietà di Berlusconi
Le superville: dalla Certosa di Porto Rotondo, valutata 259 milioni, alla “Lampara” di Cannes della ex cognata. I 116 box auto parzialmente sfitti. I 170mila euro di guadagno al giorno (calcolati sugli ultimi 2.000 giorni) grazie alle attività della Fininvest. Una vecchia Audi A6 del 2006 e i diritti su un centinaio di storiche pellicole tra cui «Peppone-Don Camillo» e «I Tre giorni del Condor».
L’immobile a Porto Rotondo che fu del fondatore di Playmen e ora «incorporato» nel complesso di Villa Certosa. Il Cinema Fiamma a Roma venduto per 3,1 milioni l’anno scorso a una fondazione emanazione del ministro della Cultura. Si capisce da questi esempi che l’impero ha mille derivate.
Le dichiarazioni al Parlamento sono piuttosto generiche (per tutti, non solo per il cavaliere). Ci dicono quello che era il suo reddito record (50 milioni nel 2021 e 18 milioni nel 2022) presumibilmente realizzato in gran parte con i dividendi che risalgono da Fininvest. Ma è una sorta di fotografia dal satellite, sfuggono i particolari e le operazioni più recenti.
Mentre a quasi 86 anni (29 settembre) riscendeva nella mischia elettorale, nel suo conto in banca arrivavano, appunto, 93,7 milioni di euro sotto forma di dividendo e altri 63 milioni sono rientrati ad Arcore da un prestito erogato a una società controllata, tanto per dire un paio di particolari che insieme fanno 156 milioni.
I tre rami dell’impero del Cavaliere
Possiamo dividere l’impero in tre grandi rami. Il primo, quello privatissimo delle case di residenza (Arcore, Macherio ecc ), fa capo a Silvio Berlusconi in persona e potrebbe avere un valore indicativo di 100-150 milioni. Il secondo ramo, quello personale delle ville da vacanza (Porto Rotondo, Cannes ecc) e altri investimenti immobiliari, ha un valore stimabile in 500 milioni ed è gestito da decenni da quattro professionisti di assoluta fiducia attraverso una serie di società che fanno capo alla holding immobiliare Dolcedrago.
Siamo a quota 650 milioni. E fin qui i 5 figli non toccano palla o quasi. Il terzo ramo, l’unico che non brucia cassa ma ne produce in gran quantità, è la Fininvest, la gallina dai dividendi d’oro con le sue partecipazioni in Mediaset, Mondadori, Mediolanum ecc; controllata al 61% dal fondatore con il resto diviso equamente tra i cinque figli. Qui la quota attribuibile al fondatore, sulla base del patrimonio netto Fininvest 2021 (4,9 miliardi), è quasi 3 miliardi. Quindi considerando anche liquidità, opere d’arte e altri investimenti non noti si arriva rapidamente ai 4 miliardi, come minimo.
[…] Dove le due generazioni della famiglia si compattano è proprio nel capitale Fininvest, il motore dell’impero. Lì dentro ex mogli e compagne non sono mai entrate, solo Silvio e i figli. Una volta, molti anni fa, anche il fratello Paolo, poi uscito. Era l’epoca delle 22 nebbiose holding, schermate da fiduciarie.
Oggi la struttura di controllo è totalmente italiana e alla luce del sole. La presidente da molti anni è Marina Berlusconi e il consiglio di amministrazione è un mix di famiglia e manager, tra cui i fedelissimi Adriano Galliani e Salvatore Sciascia. Certamente il fondatore ha pianificato nel dettaglio gli equilibri futuri.
Marina e Pier Silvio hanno il 7,65% a testa attraverso le loro holding personali mentre Barbara, Luigi ed Eleonora hanno raccolto le loro quote (21,4%) in una società comune. Fininvest ha attività immobiliari, controlla la società Alba che gestisce i jet e gli elicotteri, il Monza calcio, il Teatro Manzoni ma soprattutto detiene partecipazioni rilevanti nelle tre società quotate MediaForEurope-Mediaset (50%) la cui sede legale è stata trasferita in Olanda nel 2021, Banca Mediolanum (30%) e Mondadori (53%). Dalle prime due arriva, sotto forma di cedole, gran parte della benzina che alimenta il «sistema». Ecco perché è qui che si gioca la vera partita dell’eredità. Nel 2021 Fininvest ha fatturato 3,8 miliardi con 360 milioni di utile. […]
Estratto dell’articolo di Marco Belpoliti per doppiozero.it il 13 giugno 2023.
Ha scritto Maurice Blanchot che è solo nella morte che il defunto comincia a rassomigliare a sé stesso, sino ad arrivare ad affermare che “il cadavere è la propria immagine”. I vivi sarebbero del tutto privi di somiglianza. Eppure, se c’è stato un uomo che ha costruito da vivo la propria somiglianza, questo è stato Silvio Berlusconi. Per lui l’immagine era tutto, così ha lungamente modellato il proprio corpo per essere l’immagine più perfetta di sé.
Con una intuizione formidabile ha compreso che doveva in ogni caso e in ogni momento avere quella immagine che si legava per lui all’essere un Capo, sia che fosse il proprietario di una società immobiliare come di una televisione commerciale, il fondatore di un partito personale come il Presidente del Consiglio dell’Italia.
Avere un’immagine è necessario se si è, o si vuole essere, un capo, senza immagine non c’è il Capo. Italo Calvino l’aveva scritto in anni non sospetti, quando ancora nessuno avrebbe immaginato che dopo il corpo del Duce avremmo avuto il corpo di Berlusconi […]. Parlando a memoria dei copricapi di Benito Mussolini, […] lo scrittore ligure riconosceva l’importanza dell’uso del corpo e in specifico l’immagine del corpo per costruire un leader politico.
Una lezione che Berlusconi aveva ben chiara sin dagli anni Sessanta quando si faceva fotografare da Alberto Roveri negli uffici della Edilnord in posa da uomo d’affari: capello lungo, nonostante l’incipiente calvizie, e le mani incrociate l’una sopra l’altra in segno di forza.
Il sorriso era già stampato sul suo viso, un sorriso che partiva più dagli occhi che non dalle labbra, perché è stato con lo sguardo che Silvio ha comunicato prima di tutto sé stesso e ha sedotto i propri interlocutori.
Prima della parola viene l’immagine, quella fotografica, per quanto Sua Emittenza con le parole ci sapesse fare da perfetto pubblicitario di sé stesso: “bisogna avere il sole in tasca”, diceva ai suoi venditori. E infatti è stato col corpo che ha comunicato sé stesso a un paese abbacinato da questo uomo piccolo, decisamente bruttino, con due orecchie grandi coperte, fin che ha potuto, dai capelli, anche quelli persi ma ripiantati sul capo, poiché i capelli sono stati per lui il segno di un potere, così da non potervi mai rinunciare al prezzo di una chirurgia estetica che l’aveva reso negli ultimi due decenni della sua vita una sorta di mummia inespressiva dal colorito brunito.
Il corpo del capo
L'essere in vita è stato il senso stesso del suo essere: a qualunque costo e in qualsiasi modo, sino a questo giorno in cui non ha potuto rimandare l’incontro con la fissità di sé, quella che inseguiva da sempre in immagine e che alla fine l’ha raggiunto nello stato finale che per tutti è la morte.
La spiegazione del fascino esercitato da questo uomo di cultura media, di media altezza, di media intelligenza, ma dotato di una formidabile ambizione che confina con l’astuzia, da un lato, e con la spregiudicatezza, dall’altro, e che è tutt’uno con il cinismo, un cinismo senza confini se non quelli posti dalla sua stessa esistenza condotta sempre ignorando i limiti imposti dall’essere un uomo in carne e ossa, che l’immagine ogni volta trapassa col suo potere di alterare il rapporto con la realtà.
Le immagini sono quanto di più permanente ci sia, perché il loro potere agisce nella mente di chi le ha osservate ben al di là della loro stessa presenza. Si chiama immaginario, e dell’immaginario sociale e politico italiano negli ultimi trent’anni Silvio Berlusconi è stato il padrone: l’uomo delle apparenze.
[…] Il potere si esercita attraverso l’immagine come sanno le religioni iconiche, il cattolicesimo in primis, mentre nel mondo aniconico del protestantesimo, e prima ancora dell’ebraismo seppur diversamente, a governare i singoli e le nazioni è altro: il potere, il denaro, l’idea d’un dio terribile che certifica il destino di ciascuno in forme imperscrutabili.
Berlusconi, il più cattolico dei politici italiani, ben più dei democristiani che lo hanno preceduto nella costruzione del miracolo italiano. Silvio era un uomo degli anni Sessanta che ha saputo inventare gli Ottanta senza dover pagare pegno alla Chiesa o al potere religioso, perché la sua religione è stata quella della televisione e del consumo di immagini, premessa indispensabile per il consumo degli oggetti e delle cose.
La televisione possiede un potere captativo irrefrenabile, la televisione come intrattenimento, come incultura, come “Colpo grosso” e le altre innumerevoli trasmissioni che Silvio e la sua corte di immaginatori ha saputo creare e far prosperare: “l’immaginazione al potere”, era scritto sui muri del Maggio parigino del 1968.
[…] Berlusconi considerava sé stesso un gigante, non aveva il minimo dubbio, sia che facesse deviare il decollo degli aerei su Milano 2 per costruire la sua città ideale del neocapitalismo, sia che convincesse Bettino Craxi a consegnargli le chiavi della televisione commerciale su scala italiana. Era convinto che il potere di persuasione è superiore alla realtà stessa, e che questa la si può modellare così come ha fatto col proprio corpo. Il Corpo, poi, è diventato lui stesso il dio della contemporaneità con tutto quello che comporta.
Così l’ex imprenditore edile si è presentato all’appuntamento con la Storia forte dell’assenza di giudizio dei suoi simili e con la convinzione che l’immagine che stava costruendo di sé sarebbe stata più forte e potente di qualsiasi altra forza in campo.
Una cosa di sicuro ha compreso seppure in modo intuitivo, mai profondo: la natura biopsichica dell’Italia, il paese della mamma, dell’eterno femminino, dell’immaturità, della credenza e dell’illusione. Una natura profondamente radicata nel nostro paesaggio, nel clima, nella forma stessa dell’Italia, lo Stivale che Berlusconi ha indossato senza colpo ferire, come se nessuno potesse arrestarne l’irresistibile ascesa.
Se nel Medioevo esisteva la credenza taumaturgica dei Re di Francia, capaci di guarire dalle scrofole la pelle dei sudditi, nella modernità, nel capitalismo, non può funzionare in modo analogo il tocco del Re Mida di Arcore e delle sue televisioni: il sogno di diventare belli e ricchi nel corso di una notte soltanto?
[…] Certo, c’era stato Mussolini con la sua politica dell’immagine, ma quella era una dittatura custodita dalla polizia segreta con carcerazione, confino e assassinio politico. Berlusconi è stato un uomo dei tempi nuovi, così nuovi che lui stesso non è stato sempre in grado di anticiparli e dirigerli. Tanto quanto è stato innovativo nella comunicazione, tanto è stato anche un uomo del passato. Forse proprio in questa commistione di futuro e passato, sta il segreto della sua durata nel tempo. […]
Cosa dire ora che il corpo del Capo ha cessato di vivere? Che era già un corpo morto? E non perché alimentato e conservato oltre sé stesso nella lotta con la malattia. Non è questo il tema principale che la scomparsa di Berlusconi ci pone.
Nella società postmoderna nulla più scompare a causa della fine o della morte, ha scritto Jean Baudrillard, piuttosto “per proliferazione, contaminazione, saturazione e trasparenza”.
La morte, che pure batte implacabile alle porte, è stata da sempre esclusa dall’ordine dell’immaginario di Silvio Berlusconi. Morte e scomparsa sono due modalità diverse di “cessare d’essere”, ha scritto Zygmunt Bauman parlando della politica dell’immortalità del contemporaneo. Berlusconi è entrato nel regno warholiano della ripetizione: “Nel mondo in cui lo scomparire ha sostituito il morire, l’immortalità si dissolve nella malinconia della presenza, nella monotonia dell’interminabile ripetizione”. Il corpo del Capo resterà presso di noi nonostante che Silvio abbia preso congedo. Era proprio quello che voleva diventando Immagine.
Il compagno di scuola: “Con i compiti in classe Berlusconi accumulò un tesoro”. Rita Cavallaro su L'Identità il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi e i suoi anni di studio al Sant’Ambrogio, l’istituto dei Salesiani in via Copernico, a Milano, dove frequentò la scuola media e il ginnasio. E il racconto di Giulio Colombo, un ex compagno di classe che ricorda così il giovane Silvio:
“Direi che era un ragazzo di un’intelligenza inquieta, uno che non indugiava sulle cose più del necessario e subito passava a altri interessi. Faceva i compiti in un baleno, e poi aiutava i vicini di banco, ma pretendeva in cambio caramelle, oggettini, di preferenza 20 o 50 lire… se il compito non prendeva almeno la sufficienza, restituiva il compenso… una volta lo trovai a contare il suo “tesoro” di spiccioli dentro un portamonete che gli avevo dato per avermi risolto un problema di matematica, e lui lamentò che quello era un periodo di magra. Gli “affari” migliori, disse, li aveva fatti con le recite in casa: per vederlo nella parte protagonista, genitori, parenti e amici avevano dovuto pagare il biglietto di ingresso.”
Insomma, Berlusconi aveva già inventato il “soddisfatti o rimborsati”.
Estratto dell’articolo di Marigia Mangano per 24plus.ilsole24ore.com il 12 giugno 2023.
«C'è la compattezza più assoluta della mia famiglia su un punto molto preciso: non abbiamo alcuna intenzione di lasciare che qualcuno provi a ridimensionare il nostro ruolo di imprenditori».
Qualche anno fa Silvio Berlusconi, subito dopo l'ingresso e la successiva ascesa del finanziere bretone Vincent Bolloré in Mediaset, chiarì un punto assai delicato: ad Arcore non c'erano spaccature. Nell'impero, del resto, ha sempre comandato il Cavaliere. Ne aveva il controllo con oltre il 60% di Fininvest a lui intestato, e prendeva le decisioni più importanti in piena autonomia.
Cosa succede ora? Sarà una successione industriale o finanziaria quella che coinvolgerà la famiglia Berlusconi? In futuro i cinque figli, Marina, Piersilvio, nati dal primo matrimonio, e Barbara, Eleonora e Luigi, figli della storia con Veronica Lario, si divideranno le aziende o il patrimonio?
Con quasi 4 miliardi di fatturato registrati nel 2021 e profitti per 360 milioni che hanno garantito un dividendo “famigliare” di 150 milioni, Fininvest rappresenta una delle realtà imprenditoriali più importanti in Italia.
La holding ha il controllo di Mfe (ex Mediaset) con il 50%, è presente nell'editoria con il 53,3% di Mondadori, partecipa al 30% Mediolanum, detiene il 100% del Teatro Manzoni e, dopo la cessione del Milan, possiede il Monza calcio. Fuori da Fininvest, ma sempre parte dell'impero costruito dalla dinastia di Arcore, c'è poi il patrimonio immobiliare, gran parte del quale è custodito nella società Dolcedrago, di proprietà esclusiva del Cavaliere.
L'assetto di controllo di Fininvest
Nell'impero Berlusconi, il debutto di Luigi, Eleonora e Barbara, i tre figli più giovani di Silvio Berlusconi, nati dal matrimonio con Veronica Lario, risale al 2005. La Fininvest, nata alla fine degli anni ‘70 e per decenni di proprietà esclusiva dell'ex presidente del Consiglio, è stata per molto tempo controllata attraverso 22 “scatole”.
Nel corso degli scorsi anni sono state avviate una serie di semplificazioni e ne sono rimaste solo sette: Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava di proprietà personale del premier (oltre il 60% della Fininvest); la Quarta che fa capo a Marina; la Quinta di Piersilvio; la Quattordicesima suddivisa tra i tre figli più piccoli e recentemente oggetto di una scissione per separare la partecipazione della holding dal resto delle attività.
Per quest’ultima, il passaggio di proprietà risale a metà del 2005 e ha garantito a ciascuno di loro di diventare proprietario del 7% della Finivest, come Piersilvio e Marina. […] Se si guarda però agli equilibri, se Marina e Piersilvio Berlusconi hanno una quota del 7,65% a testa che insieme fa 15,3%, i figli di secondo letto, Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, possono contare sul 21,4%. […]
Il sistema delle holding […] ha sempre garantito ricchi profitti alla famiglia Berlusconi. Ma la prassi, almeno negli ultimi anni, è sempre stata quella di “accumulare” gli utili per gran parte a riserva.
L'ultimo esercizio […] non ha fatto eccezione. I bilanci al 30 settembre 2022 si sono chiusi tutti in utile grazie principalmente al dividendo da circa 150 milioni staccato in estate da Fininvest. Le quattro società con sede a Segrate di proprietà del Cavaliere hanno totalizzato circa 98 milioni di profitti, un ammontare in linea quindi con la quota di competenza (63%) dell’assegno complessivo che Fininvest ha appunto “girato” al suo fondatore e ai cinque figli.
La gran parte di questi profitti è stata posta a riserva straordinaria mentre la Holding Italiana Seconda ha deciso, per scelta del suo socio unico Silvio Berlusconi, di distribuire l’intero utile oltre a 500mila euro di riserve per un totale di 24,2 milioni.
Copione simile per la Quarta di Marina Berlusconi (presidente di Mondadori e di Fininvest), la Quinta di Pier Silvio (vicepresidente esecutivo e a.d. di MediaForEurope) - con il 7,6% ciascuno - e la Quattordicesima di Barbara, Eleonora e Luigi con il 21,8% circa.
[…] Gli equilibri famigliari in Fininvest reggeranno l'uscita di scena di Silvio Berlusconi? Il punto più delicato sarà capire in che modo decideranno di muoversi gli eredi del Cavaliere e soprattutto in quali proporzioni sarà redistribuito il pacchetto di controllo finora nelle mani del fondatore. Senza dimenticare che ci sono alcune partite aperte assai delicate, il cui esito probabilmente sarà segnato dalla scomparsa dell'ex premier. Prima fra tutte Mediaset, oggi diventata Mfe, e due anni fa oggetto del grande accordo con i francesi di Vivendi ancora non perfezionato.
Una pace che è andata a interrompere cinque anni di scontri con la “promessa” non appena le condizioni di mercato saranno favorevoli dell'uscita di Vivendi dal capitale del gruppo. Oggi Fininvest può contare sul 50% di Mfe, mentre Vivendi ha un 4,5% diretto e il 19,19% trasferito nel 2018 a Simon Fiduciaria, il trust del gruppo Ersel, che in base al patto verrà progressivamente venduto in 5 anni, a tranche di circa il 4% ogni anno. Finora però, a distanza di due anni da quell'armistizio, Vivendi è rimasta salda al suo posto.
[…] L'uscita di scena del Cavaliere spianerà forse la strada per un ridimensionamento di Fininvest nel capitale di Mfe a favore del gruppo transalpino? Difficile dirlo.
Ma se dovesse succedere è evidente che sembra profilarsi più una successione finanziaria nel futuro di Arcore, con la famiglia meno «socio imprenditore» e più «azionista», e con una holding sempre più ricca. La partita Mediaset, ad ogni modo, rappresenta ora la priorità. […] Ma non è chiaro se ci sia la stessa visione comune sul futuro industriale del gruppo.
Perché se Marina e Piersilvio hanno già dimostrato in passato di essere decisi a mantenere saldo il controllo della famiglia nella vecchia Mediaset, posizioni meno rigide avrebbero fatto trapelare gli altri figli di Silvio Berlusconi che vedrebbero in questa complessa partita non solo criticità, ma anche opportunità. Due correnti di pensiero che in futuro potrebbero misurarsi anche con i rispettivi pesi azionari in Fininvest. Anche perché si tratterà di capire cosa in Fininvest è strategico o no, incluse Mediolanum, Mondadori e gli asset immobiliari e finanziari.
L'impero economico di Silvio Berlusconi, da Mediaset al calcio. Con un fatturato delle società controllate o fortemente partecipate superiore ai 5 miliardi di euro e circa 20mila dipendenti totali, il gruppo che fa riferimento alla Fininvest fondata da Silvio Berlusconi è una delle maggiori realtà imprenditoriali italiane e si pone tra i protagonisti internazionali della comunicazione, dell’intrattenimento e della finanza. MASSIMO LAPENDA su la Gazzetta del Mezzogiorno il 13 GIUGNO 2023
Con un fatturato delle società controllate o fortemente partecipate superiore ai 5 miliardi di euro e circa 20mila dipendenti totali, il gruppo che fa riferimento alla Fininvest fondata da Silvio Berlusconi è una delle maggiori realtà imprenditoriali italiane e si pone tra i protagonisti internazionali della comunicazione, dell’intrattenimento e della finanza.
La galassia di Berlusconi, già prima dell’ingresso in politica del Cavaliere, aveva il suo cuore in Fininvest, controllata con un sistema di 7 holding di cui quattro sono riconducibili a Silvio Berlusconi con una quota complessiva del 61,21%. Nelle altre 3 holding ha fatto entrare con una quota ciascuno i cinque figli: Marina e Piersilvio con il 7,65% rispettivamente nelle holding IV e V; Barbara, Luigi ed Eleonora con una quota complessiva del 21,42% nella holding XIV. Nel suo portafoglio figurano le partecipazioni nelle tre quotate Mfe (47,9%), Mondadori (53,3%), Banca Mediolanum (30%), ed altri investimenti tra cui il Teatro Manzoni (100%). La storica quota del 2% in Mediobanca è invece stata ceduta nel maggio 2021, raccolta soprattutto da Delfin.
La gran parte del patrimonio immobiliare, incluse le residenze più famose è invece custodito nella società Dolcedrago, di proprietà esclusiva del Cavaliere. Nel 1994 all’interno di Fininvest c'erano già il Milan, Mondadori e le televisioni. Nel 1995 nacque la società di distribuzione cinematografica Medusa, nel 1996 Mediaset, in cui confluirono le tv e Publitalia, venne quotata in borsa, seguita a ruota da Mediolanum, società di risparmio gestito di cui è comproprietaria la famiglia Doris.
MEDIASET: il gruppo vede al vertice Pier Silvio Berlusconi come A.d. e Fedele Confalonieri come presidente: è quotato alla Borsa di Milano dal 1996. Nel novembre del 2021 l’assemblea ha approvato definitivamente la trasformazione in MediaforEurope, trasferendo la sede legale ma non fiscale in Olanda. I conti del 2022 non sono ancora stati approvati, ma nel 2021 Mediaset-Mfe ha registrato ricavi netti per 2,9 miliardi, in crescita dell’11% rispetto al 2020, con un utile netto di 374 milioni, in aumento del 169% rispetto all’anno precedente e circa il doppio del 2019 pre-Covid.
Mediaset opera in Italia attraverso due concessionarie pubblicitarie televisive, entrambe controllate al 100%: Publitalia '80 (tv free) e Digitalia '08 (tv pay). In Spagna l'attività di raccolta pubblicitaria è affidata a Publiespana. Per le attività pubblicitarie all’estero c'è Publieurope, società con sede a Londra. Le attività online del Gruppo sono gestite da Mediamond, concessionaria costituita pariteticamente con Mondadori. Mfe, inoltre, possiede il 40% di 2i Towers, controllante di Ei Towers, ed è salita fino al 29,9% del gruppo media tedesco Prosieben.
MONDADORI: al vertice del gruppo Marina Berlusconi (presidente) e Antonio Porro (amministratore delegato). Si tratta del maggiore editore di libri e magazine in Italia e possiede inoltre uno dei più estesi network di librerie sul territorio nazionale. Il gruppo ha registrato nel 2022 ricavi netti a 903 milioni, in crescita del'11,8% rispetto all’anno precedente, e un utile di 52 milioni, il miglior risultato netto degli ultimi 15 anni. L’anno scorso Mondadori era tornata a distribuire il dividendo dopo 10 anni di assenza della cedola per gli azionisti. Oltre 600 i punti vendita in gestione diretta e in franchising con le insegne. A questi canali si aggiunge il sito mondadoristore.it per l’attività di e-commerce, in un sistema multipiattaforma di presidio di tutti i canali di vendita.
BANCA MEDIOLANUM: controllata da Fininvest e dal gruppo Doris, è leader del mercato finanziario italiano con oltre un milione di clienti. L’anno scorso ha registrato un utile netto di 521 milioni, ottenendo buoni risultati nonostante la forte correzione dei mercati. E anche questa volta non ha deluso gli azionisti, a partire appunto dalle famiglie Doris e Berlusconi, distribuendo nel complesso 369 milioni di dividendi. E le previsioni economiche del gruppo per il 2023 sono nettamente migliori dei risultati dell’anno scorso.
TEATRO MANZONI: un’ampia proposta di spettacoli ha contrassegnato le stagioni del Teatro Manzoni fin da quando, nel marzo 1978, Silvio Berlusconi aveva preso l’impegno di preservare la storica sala dalla minacciata trasformazione in un supermarket, affidandone la direzione a un appassionato di teatro come Luigi Foscale.
IL CALCIO: il gruppo Fininvest è ancora presente anche nel mondo del calcio. Nell’aprile del 2017, dopo 30 anni dall’acquisto del pacchetto di maggioranza, il gruppo ha ceduto il Milan ad una cordata cinese, che poi l’ha ceduta al fondo Elliott. Nel settembre 2018 Silvio Berlusconi intraprese una nuova avventura calcistica con l’acquisizione del 100% della Società Sportiva Monza 1912.
L’IMPERO. Il patrimonio di Berlusconi: Fininvest, Mediaset, Mondadori, ville, super yacht. di Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
Il patrimonio di Silvio Berlusconi
Il patrimonio di Silvio Berlusconi è la fotografia della sua vita da imprenditore: immobili e grandi aziende create da zero (Mediaset e Mediolanum con Ennio Doris). Poi ci ha aggiunto Mondadori e negli anni la passione sportiva, prima con il Milan e ora con il Monza. La Fininvest con i suoi 4,9 miliardi di patrimonio netto (2021, ultimo bilancio reso noto) e i dividendi distribuiti alla famiglia (150 milioni l’anno scorso) è l’architrave. Berlusconi ha il 61%, il resto è in mano ai 5 figli. Ma quale è il valore di tutte le proprietà e dei conti in banca che il Cavaliere lascia in eredità? A 4 miliardi ci si arriva con stime abbastanza attendibili e conservative. Vediamo che cosa c’è, dunque, nel portafoglio dell’ex premier, dettagli compresi.
Le proprietà di Berlusconi
Le superville: dalla Certosa di Porto Rotondo, valutata 259 milioni, alla “Lampara” di Cannes della ex cognata. I 116 box auto parzialmente sfitti. I 170mila euro di guadagno al giorno (calcolati sugli ultimi 2.000 giorni) grazie alle attività della Fininvest. Una vecchia Audi A6 del 2006 e i diritti su un centinaio di storiche pellicole tra cui «Peppone-Don Camillo» e «I Tre giorni del Condor». L’immobile a Porto Rotondo che fu del fondatore di Playmen e ora «incorporato» nel complesso di Villa Certosa. Il Cinema Fiamma a Roma venduto per 3,1 milioni l’anno scorso a una fondazione emanazione del ministro della Cultura. Si capisce da questi esempi che l’impero ha mille derivate. Le dichiarazioni al Parlamento sono piuttosto generiche (per tutti, non solo per il cavaliere). Ci dicono quello che era il suo reddito record (50 milioni nel 2021 e 18 milioni nel 2022) presumibilmente realizzato in gran parte con i dividendi che risalgono da Fininvest. Ma è una sorta di fotografia dal satellite, sfuggono i particolari e le operazioni più recenti. Mentre a quasi 86 anni (29 settembre) riscendeva nella mischia elettorale, nel suo conto in banca arrivavano, appunto, 93,7 milioni di euro sotto forma di dividendo e altri 63 milioni sono rientrati ad Arcore da un prestito erogato a una società controllata, tanto per dire un paio di particolari che insieme fanno 156 milioni.
I tre rami dell’impero del Cavaliere
Possiamo dividere l’impero in tre grandi rami. Il primo, quello privatissimo delle case di residenza (Arcore, Macherio ecc ), fa capo a Silvio Berlusconi in persona e potrebbe avere un valore indicativo di 100-150 milioni. Il secondo ramo, quello personale delle ville da vacanza (Porto Rotondo, Cannes ecc) e altri investimenti immobiliari, ha un valore stimabile in 500 milioni ed è gestito da decenni da quattro professionisti di assoluta fiducia attraverso una serie di società che fanno capo alla holding immobiliare Dolcedrago. Siamo a quota 650 milioni. E fin qui i 5 figli non toccano palla o quasi. Il terzo ramo, l’unico che non brucia cassa ma ne produce in gran quantità, è la Fininvest, la gallina dai dividendi d’oro con le sue partecipazioni in Mediaset, Mondadori, Mediolanum ecc; controllata al 61% dal fondatore con il resto diviso equamente tra i cinque figli. Qui la quota attribuibile al fondatore, sulla base del patrimonio netto Fininvest 2021 (4,9 miliardi), è quasi 3 miliardi. Quindi considerando anche liquidità, opere d’arte e altri investimenti non noti si arriva rapidamente ai 4 miliardi, come minimo.
Fininvest: «Assoluta continuità»
«Con profondo dolore e sincera partecipazione la Fininvest ricorda - in una nota - il proprio fondatore, Silvio Berlusconi. La sua forza creativa, il suo genio imprenditoriale, la costante correttezza dei comportamenti, la straordinaria umanità sono sempre stati patrimonio inalienabile della società, come delle aziende del gruppo. E tale patrimonio resterà alla base di tutte le nostre attività, che proseguiranno in una linea di assoluta continuità sotto ogni aspetto».
La cassaforte Fininvest
Dove le due generazioni della famiglia si compattano è proprio nel capitale Fininvest, il motore dell’impero. Lì dentro ex mogli e compagne non sono mai entrate, solo Silvio e i figli. Una volta, molti anni fa, anche il fratello Paolo, poi uscito. Era l’epoca delle 22 nebbiose holding, schermate da fiduciarie. Oggi la struttura di controllo è totalmente italiana e alla luce del sole. La presidente da molti anni è Marina Berlusconi e il consiglio di amministrazione è un mix di famiglia e manager, tra cui i fedelissimi Adriano Galliani e Salvatore Sciascia. Certamente il fondatore ha pianificato nel dettaglio gli equilibri futuri. Marina e Pier Silvio hanno il 7,65% a testa attraverso le loro holding personali mentre Barbara, Luigi ed Eleonora hanno raccolto le loro quote (21,4%) in una società comune. Fininvest ha attività immobiliari, controlla la società Alba che gestisce i jet e gli elicotteri, il Monza calcio, il Teatro Manzoni ma soprattutto detiene partecipazioni rilevanti nelle tre società quotate MediaForEurope-Mediaset (50%) la cui sede legale è stata trasferita in Olanda nel 2021, Banca Mediolanum (30%) e Mondadori (53%). Dalle prime due arriva, sotto forma di cedole, gran parte della benzina che alimenta il «sistema». Ecco perché è qui che si gioca la vera partita del’eredità. Nel 2021 Fininvest ha fatturato 3,8 miliardi con 360 milioni di utile.
Il patrimonio di Silvio
Intestata direttamente all’ex premier c’è innanzitutto Villa San Martino ad Arcore, sua residenza da quasi 50 anni: 3.500 metri quadrati, acquistata dal Cavaliere negli anni Settanta dalla ventitreenne Anna Maria Casati Stampa (titolare della proprietà dopo l’omicidio della madre e il suicidio del padre), assistita nella transazione dall’avvocato Cesare Previti. A 6 km di distanza, sempre nei pressi del Parco e dell’Autodromo di Monza, si trova Villa Belvedere (Macherio), comprata all’asta nel 1988 dalla Provincia di Milano. Lì a Macherio ha vissuto a lungo l’ex moglie Miriam Bartolini (alias Veronica Lario) prima del divorzio. Uno dei rifugi preferiti da Berlusconi fuori dalla Brianza è Villa Campari sul Lago Maggiore, a Lesa, poco distante dalla casa che fu di Mike Bongiorno: 30 stanze, splendido parco, erba pettinatissima e porticciolo privato. La villa fu fatta costruire alla fine dell’800 dal patriota risorgimentale e senatore del Regno d’Italia Cesare Correnti, che morì proprio tra quelle mura nel 1888. Poi l’allora Villa Correnti venne acquisita dalla famiglia del famoso bitter che la ribattezzò Villa Campari. Berlusconi l’ha aggiunta alla sua collezione nel 2008. «Sono andato su Internet e ho comprato una casa a Cala Francese, si chiama Due Palme. Anch’io diventerò lampedusano». Nel marzo 2011, atterrato a Lampedusa assediata dagli sbarchi, l’allora premier tra le varie promesse (campo da golf «indispensabile» e casinò sull’isola) annunciava il suo nuovo affare immobiliare. Il prezzo? Top secret anche se la villa, stile anni Settanta, realizzata da un aristocratico siciliano, era offerta su internet a 1,5 milioni (250 metri quadrati, otto posti letto, ampio giardino). All’inizio di agosto il leader della Lega Matteo Salvini è stato ospite qualche giorno in Villa Due Palme. Ad Antigua, nei Caraibi, Berlusconi ha altre due proprietà immobiliari. Intestate direttamente a lui sono anche una vecchia Audi A6 di 17 anni e tre imbarcazioni: lo yacht Magnum 70 «Sweet Dragon» del 1990, il «San Maurizio» del 1977 e la barca a vela «Principessa Vai Via» del 1965. Il resto del portafoglio berlusconiano sono partecipazioni in società e dunque è lì dentro che bisogna andare a vedere cosa c’è. Ecco allora il ramo numero due, quello delle società prettamente immobiliari.
Le ville della Dolcedrago
A spanne si può calcolare che più di mezzo miliardo di patrimonio sia gestito sotto l’ombrello della Dolcedrago, una holding di partecipazioni in società quasi esclusivamente immobiliari: Essebi Real Estate, Immobiliare Dueville, Brianzadue e la big del gruppetto l’Immobiliare Idra. A presidiare questo prezioso e riservato “territorio” è quello che potremmo chiamare il team «operazioni riservate». Ovvero i fidatissimi professionisti con base a Segrate che si occupano degli affari personali del Cavaliere: Giuseppe Spinelli (81 anni), Salvatore Sciascia (80), Giuseppino Scabini (75) e il «ragazzo» Marco Sirtori (57). Berlusconi possiede il 99,5% della Dolcedrago, le briciole sono di Pier Silvio e Marina Berlusconi, figli avuti nel primo matrimonio con Carla Dall’Oglio, di quattro anni più giovane. Parentesi familiare: Marina ha una splendida villa a Châteauneuf-de-grasse, nell’entroterra della Costa Azzurra tra Antibes e Cannes e la madre è titolare di una piccola quota. Nel marzo 2020, con la prima ondata di Covid, il padre si rifugiò proprio lì per diverse settimane.
La Lampara di Cannes
A Cannes, e qui torniamo nel portafoglio della Dolcedrago, un’altra lussuosa villa è stata teatro di un intreccio familiare. Villa «La Lampara» è un gioiello da 500 metri quadrati più 2mila di giardino con piscina e vista mare. Fu costruita dal marchese George De Cueves, marito di Margaret Rockefeller e poi è passata di mano più volte. Era finita sulle pagine dei giornali anni fa per lo sfogo di Antonia Costanzo, l’ex moglie di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, che acquistò la villa nel 2007 con un prestito milionario di Mps e l’incoraggiamento – lei disse - di Silvio Berlusconi che gli mandò anche i suoi giardinieri a sistemare il parco. Lui, secondo quanto fu scritto, fece da garante fino a oltre 8 milioni. Poi le rate e il debito furono «dimenticate» per anni. Una «distrazione» che costrinse la banca nel 2015 a chiedere (e ottenere) dal Tribunale un decreto ingiuntivo contro i beni della signora Costanzo. Alla fine Berlusconi subentrò nel debito e rimborsò Mps diventando egli stesso creditore dell’ex cognata con annessi pignoramenti e connesse ipoteche. Poi il cerchio si è chiuso: una delle società immobiliari che fanno capo alla Dolcedrago del leader di Forza Italia ha acquistato «La Lampara» per 3,55 milioni. Prezzo presumibilmente al lordo dei debiti e anche degli oneri di ristrutturazione. Oggi la villa è in vendita. Il suo valore di bilancio, che non vuol dire di mercato, è di 8,1 milioni.
Villa Certosa
Il gioiello della corona, però, è indiscutibilmente Villa Certosa in Sardegna a Porto Rotondo, Il buen retiro nel cuore della Costa Smeralda. E’ stata acquistata negli anni Settanta, poi completamente ricostruita e ampliata. Ai tempi di Berlusconi premier era classificata come «sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio». Di qui sono passati ospiti illustri, dal russo Vladimir Putin a George W. Bush. Una perizia tecnica del gennaio 2021 indicava un valore di 259.373.950 euro. Documento assolutamente attendibile perché è firmato da Francesco Magnano, geometra di fiducia del cavaliere. Villa Certosa difficilmente potrà essere divisa tra tutti i figli anche se lo spazio non manca: 68 vani, 181 metri quadrati solo di autorimessa e altri 174 di posti auto. Poi - scorrendo le carte della perizia - 4 bungalow di cui 2 accatastati A/2 (abitazioni civili), così come due immobili denominati Cactus e Ibiscus, il teatro, la torre fronte teatro, la serra, la palestra, la talassoterapia, 297 mq di orto medicinale. Isolata nell’elenco una voce: «La Palappa». Che cos’è? Non è specificato ma dovrebbe essere una specie di capanna tropicale. Palapa è un termine spagnolo di origine Maya che indica una dimora senza pareti con un tetto di paglia fatto di foglie di palma essiccate. Quella di Berlusconi ha tre «p» e una rendita catastale di 361 euro. Il tutto è immerso in un parco di 580.477 metri quadrati (un campo da calcio è circa 7mila mq). Anche se il prezzo di mercato potrebbe essere superiore a quello della perizia, già così la reggia di Porto Rotondo si colloca tra le ville più costose in assoluto. Per fare un paragone, nel 2019 a Cap-Ferrat in Costa Azzurra la Campari ha venduto per 200 milioni Villa Les Cèdres, appartenuta al re del Belgio e poi ai fondatori del marchio Grand Marnier e a lungo considerata la residenza più cara al mondo. L’acquirente, si è saputo a distanza di tempo, è stato il miliardario ucraino Rinat Akhmetov. Ma le classifiche sono più che altro curiosità perché si tratta di pezzi unici che sfuggono a valutazioni attendibili. Nel 2009 si parlò di un’ offerta dagli Emirati Arabi per Villa Certosa da 450 milioni di dollari, l’anno successivo secondo la stampa spagnola era quasi fatta con un imprenditore iberico per 400 milioni di euro, e poi nel 2015 sarebbe stato lo stesso Cavaliere a mostrare le bellezze della residenza al figlio del re d’Arabia: la richiesta pare fosse 500 milioni. Mai nulla di scritto, mai alcuna conferma.
Le altre proprietà immobiliari
Frugando nell’arcipelago Dolcedrago si individuano anche altre «16 unità immobiliari» nel milanese che, terreni compresi, sono iscritte a un valore di 16 milioni. E fin qui le proprietà sono al 100% della Dolcedrago, ovvero Silvio. Poi però c’è il caso unico della società Brianzadue dove l’architetto Ivo Redaelli (40%) divide con Berlusconi (60%) un portafoglio immobiliare da una trentina di milioni dove spicca Villa Sottocasa di Vimercate (Monza), edificata alla fine del XVIII secolo e acquistata nel 2018 per 2,5 milioni ma da ristrutturare profondamente. Poco distante, a Lesmo, un’altra splendida proprietà è finita nel portafoglio del Cavaliere: Villa Gernetto, dove spesso vengono organizzati incontri istituzionali. Proprio lì di fronte l’ex moglie Veronica Lario ha comprato Villa Sada, storica residenza della famiglia fondatrice della Simmenthal (poi venduta alla Bolton). A Roma Berlusconi ha acquistato nel 2001 e poi ristrutturato Villa Zeffirelli sull’Appia Antica che negli ultimi anni era diventata il suo quartier generale romano. Ma l’anima del costruttore e immobiliarista che fu, si intuisce dal portafoglio «varie ed eventuali»: terreni a Olbia e in Brianza, decine di immobili tra Roma e il milanese e soprattutto i 116 posti auto nel Centro Direzionale di Milano Due a Segrate, dove tutto è cominciato con la Edilnord negli anni Settanta.
Silvio Berlusconi, affari e politica insieme: il futuro di Mediaset cambierà di nuovo l’Italia. Dopo la morte del Cavaliere, i figli devono scegliere se continuare a gestire l’impero o assicurarsi una serena esistenza da milionari. Ma è impensabile che la famiglia vada avanti rinunciando al partito (e al governo). Carlo Tecce su L'Espresso il 12 Giugno 2023
Il finanziere bretone Vincent Bolloré non è chiamato a caso «requin». Lo squalo s’è avventato con ferocia predatoria su Mediaset e Telecom e su altri salotti ben più ovattati d’Italia. E se la rete unica di Telecom è ancora un enigma avvolto in un mistero poiché il primo azionista Vivendi di Bolloré pratica un ferreo ostruzionismo per tutelarsi, il duello con Mediaset s’è risolto un paio di anni fa. La pace fu siglata dopo un colloquio fra Vincent e il vecchio amico-nemico Silvio Berlusconi. I loro ragazzi, cioè i figli, non s’erano capiti. È toccato ai papà.
Vivendi aveva tentato una scalata a Mediaset rastrellando azioni fino a sfiorare il trenta per cento, il sistema Italia l’aveva respinta (determinante fu l’intervento governativo in Telecom) e per troppo tempo i francesi hanno bloccato l’espansione europea del Biscione, che oggi si chiama MediaForEurope (Mfe), sede legale olandese ad Amsterdam, scatola con le partecipazioni più rilevanti da Mediaset Espana alla concessionaria Publitalia ’80, sostanzioso investimento nella tedesca ProSibenSat (peraltro lievitato a maggio al 28,8%). Oggi Vivendi detiene ancora una quota totale – inclusa quella affidata alla fiduciaria Simon – sopra il ventitré per cento, l’accordo prevede che entro il ‘26 si riduca e rimanga un 4,6 vendibile a qualsiasi prezzo.
Il controllo di Mediaset traslocata in Olanda è blindato. La prospettiva è un gruppo europeo che fabbrica contenuti per un pubblico generalista e si avvale di economie di scala per competere in un settore globalizzato. Gran parte del merito è di Silvio. Questa opzione – sfruttare il carisma e l’influenza politica del fondatore per risolvere garbugli – non è più valida per la famiglia. Le volontà testamentarie diranno quale e quante famiglie per un uomo che ha avuto una quasi moglie, due mogli, cinque figli, sedici nipoti, un pronipote appena nato. Oggi Marina ha il partito per il tramite di Gianni Letta e la guida di Fininvest (Mondadori), Pier Silvio ha le televisioni e il progetto europeo, invece i figli di Veronica Lario (Barbara, Eleonora e Luigi), più giovani, non sono coinvolti.
Marina e Pier Silvio vogliono emulare il padre e proseguire la carriera di imprenditori; Barbara, Eleonora e Luigi potrebbero rinunciare al controllo di Fininvest e godersi una serena esistenza di «cassettisti», nessuna decisione, nessuna magagna, nessun pericolo, soltanto dividendi.
Il futuro di Mediaset senza Berlusconi non spaventa la Borsa che si prepara alle grandi manovre: i titoli di MediaForEurope a Milano e di ProSibenSat a Francoforte sono in crescita. Il mercato è pronto per il post Berlusconi. A L’Espresso risulta che Bolloré e Berlusconi, siglato il primo patto, ne abbozzarono un altro: Mediaset è invendibile, ma se si dovesse vendere, il compratore sarebbe Vivendi.
È presto per stabilire cosa ne sarà di Mediaset o di Forza Italia o del rapporto tra i figli di Berlusconi e la politica nazionale. Certamente, però, Mediaset potrebbe diventare una televisione normale, non così direttamente implicata in un conflitto di interessi non degno di un regime democratico, e contaminare i programmi delle rivali. Lo stesso ruolo di Vivendi in Telecom è strettamente legato al ruolo di Vivendi in Mediaset.
Affari e politica per i Berlusconi si mescolano ancora assieme. È impensabile che la famiglia si tenga Mediaset e molli Forza Italia e viceversa. Tutto. O niente.
Fininvest e la nascita di un impero ora affidato ai figli. L’avventura di uno dei più grandi gruppi italiani: la tv e la finanza, il boom negli anni ’80 e la conquista della Mondadori. La crescita all’estero e il rapporto con Mediobanca. Marcello Zacché il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Ricostruire il percorso societario e finanziario di Silvio Berlusconi equivale a scrivere un racconto unico, che trova ben pochi eguali nella storia del capitalismo italiano. È un sogno americano senza esserein America. È il boom economico che si moltiplica nel tempo. È l’Italia in cui viviamo pensata con mezzo secolo di anticipo sui tempi. E, d’altra parte, è da qui che bisogna partire. È dal Berlusconi imprenditore che nascono tutti gli altri Berlusconi, dalmilanista, al politico. Berlusconi è stato prima di tutto un imprenditore, un «animal spirit» allo stato puro, istintivamente lanciato verso la costruzione di qualcosa di nuovo senza la paura di fallire, allontanata proprio come «ogni uomo positivo respinge l’idea della morte», per citare le parole che John Maynard Keynes utilizza per descrivere le immagini dell’impresa individuale quale motore dell’intera economia. E quindi del benessere di tutta la collettività. Certo, alle capacità imprenditoriali innate serve aggiungere anche quel tanto dimalizia e abilità nelle relazioni senza le quali non si può farela differenza. Eil Cavaliere avevamaturato tutto questo. Riavvolgendoil nastro dallafine, bisogna andare aMilano, al numero tre di via Paleocapa, nella neo rinascimentale Casa Sardi. È la sede storica del gruppo Fininvest.
La holding oggi presieduta da Marina Berlusconi. Tutto inizia 45 anni fa, nel 1978, quando Fininvest è stata fondata come una srl, poi trasformata in spa nel 1982. Le facevano capo i primi progetti del Berlusconi costruttore, che negli anni Settanta siinventa prima Milano 2 a Segrate e poi Milano 3 a Basiglio. Ma la fondazione di Fininvest corrisponde alla prima diversificazione, quella neimedia, conla nascita di Telemilano (inizialmente un circuito interno via cavo) che, affiancata da Publitalia ’80 e Reteitalia, costituiscono l’embrione di Canale 5. Nel 79 Berlusconi entra anche nel Giornale allora diretto da Indro Montanelli, e nell’82 fonda, con Ennio Doris, Programma Italia, primo passaggio verso quello che è oggi il gruppo bancario Mediolanum. Nell’82 Fininvest rileva dal gruppo Rusconi il circuito tv Italia1, e due anni dopo arriva il controllo di Retequattro, che Mondadori cede in toto l’anno successivo. Sono questi gli anni della nascita della televisione commerciale, che Berlusconi avvia anche attraverso la dura battaglia politica per le concessioni della «diretta» nazionale, che permette a Fininvest di trasformarei circuiti tv locali nei tre canali generalisti che oggi conosciamo.
Gli Ottanta sono anche gli anni della crescita smisurata del gruppo, che da una parte pompa ricavi dalla pubblicità, dall’altra investe e si indebita con le banche per entrare in tanti nuovi business, portando a casa prima il braccio della grande distribuzione, rilevando la Standa dalla Montedison nel 1988 per 681 miliardi di lire, e i supermercati brianzoli (SB) per altri 300miliardi, poi le sale cinematografiche Cannon per 60 miliardi. Nel 1986 arriva l’acquisto del Milan, preso dal fallimento di Giussy Farina, mentre il decennio si chiude con l’operazioneforse più clamorosa:la conquista del gruppo Mondadori dalla Cir di Carlo De Benedetti, conclusa solo nel 1991, dopo dispute legali e un arbitrato, a fronte dell’esclusione del gruppo Espresso-Repubblica dal perimetro. Venti anni più tardi, una causa civile condannerà Fininvest a rimborsare alla Cir 491 milioni di euro.
La Fininvest di fine secolo, cresciuta così in fretta, si trova di fronte al problema del debito e al pressimg delle banche creditrici. Berlusconi, assistito dalla Mediobanca di Enrico Cuccia, risolve il problema con le prime cessioni della sua storia imprenditoriale, liberandosi via via della grande distribuzione e poi collocando sul mercato quote rilevanti del capitale di Mediolanum, della Mondadori nel 1994 e delle attività televisive nel 1996, conferite nella newco Mediaset. E da quel momento Fininvest diventa una holding che, nel primo decennio del nuovo secolo, mette in portafoglio anche un investimento bancario, con l’ingresso nel capitale di Unicredit, successivamente trasformato in una quota del 2% in Mediobanca, la banca d’affari al centro di ogni equilibrio finanziario nazionale. Partecipazione rivenduta nel 2021. L’assetto di fine secolo scorso resta sostanzialmente stabile, salvo le diverse operazioni effettuate all’interno delle controllate, tra le quali spiccano l’espansione di Mediaset in Spagna e la focalizzazione di Mondadori sui libri (anche grazie all’acquisto dei marchi Rizzoli).
Mentre nello sport, Fininvest cede il Milan nel 2017 per poi rilevare il controllo del Monza. Oggi Fininvest ha nel suo portafoglio le partecipazioni nelle tre quotate Mfe-Mediaset (47,9%), Mondadori (53,3%), Banca Mediolanum (30%), il 100% del Teatro Manzoni e del Monza Calcio. La gran parte del patrimonio immobiliare, incluse le residenze più famose del Cavaliere in tutta Italia e all’estero, è invece custodito nella società Dolcedrago, di proprietà esclusiva di Berlusconi. Naturalmente, dalla primavera del ’94, con l’ingresso dell’ex premier in politica, Berlusconi ha lasciato ogni sua carica nel gruppo Fininvest, le cui società, holding compresa, sono state guidate negli ultimi 30 anni da fedelissimi come Fedele Confalonieri, manager importanti nel momento delle quotazioni sul mercato quali Franco Tatò o Ubaldo Livolsi, poi dai figli Marina e Pier Silvio, al comando ormai da anni. Ma è sempre Berlusconi ad avere il controllo del capitale della holding di via Paleocapa, controllata a sua volta con un sistema di 7 holding di cui quattro sono riconducibili a Silvio Berlusconi con una quota complessiva del 61,21%. Nelle altre 3 holding ha fatto entrare con una quota ciascuno i cinque figli: Marina e Pier Silvio con il 7,65% rispettivamente nelle holding IV e V; Barbara, Luigi ed Eleonora con una quota complessiva del 21,42% nella holding XIV. Un assetto che fa perno sull’unità della famiglia come garanzia di stabilità del gruppo. Ma questa è un’altra storia, che inizia solo adesso.
Silvio Berlusconi, si apre il nodo della successione: l'impero tra finanza, tv, editoria e calcio. Il Tempo il 12 giugno 2023
Tre chilometri di case tra il San Raffaele e Parco Lambro, a nord-est dalla città del Duomo. È Milano 2, quartiere residenziale costruito alla fine degli anni '60 da Edilnord e punto di partenza della scalata imprenditoriale di Silvio Berlusconi. Il Cav - figlio di un funzionario di banca - inizia proprio dal mattone, con Centro Edilnord, Milano 2, Milano 3 e il Girasole. In poco tempo, diventa il primo operatore del settore e inizia ad allargare il proprio raggio d'azione, diversificando le attività, e raggruppandole, nel corso degli anni, sotto l'ombrello largo di Fininvest, costituita nel 1978, sotto la sua presidenza. Dall'edilizia, Berlusconi approda alla televisione, rilevando e trasformando la tv via cavo di Milano 2 nella prima televisione commerciale nazionale alternativa al servizio pubblico. Sono gli anni '80, e nasce così Canale 5, (a cui si affianca Publitalia), a cui seguono a ruota altre due reti, Italia 1 e Rete4. Si costruisce così un network di reti Tv capace di dare filo da torcere alla Rai, che nel 1995 confluirono in Mediaset, nata per riorganizzare le attività televisive di Fininvest.
Sempre negli anni '80, vede la luce il gruppo Mediolanum, quando Ennio Doris e la Fininvest fondano Programma Italia, una rete di agenti assicurativi. Nel 1984 vengono acquisite le compagnie assicurative Mediolanum Vita e Mediolanum Assicurazione e l'anno dopo viene creata Gestione Fondi Fininvest. Nel 1994, tutte queste società vennero incorporate alla neonata Mediolanum e nel 1997, il gruppo entra nel settore bancario trasformando Programma Italia in Banca Mediolanum. Negli anni '90 Berlusconi si prende anche una fetta importante del mondo dell'editoria, conquistando la maggioranza della Arnoldo Mondadori e aprendo quella che passa alle cronache come la 'Guerra di Segrate', lo scontro giudiziario-finanziario tra Berlusconi e Carlo De Benedetti per il possesso della Mondadori, che portò il Cav ad affrontare un processo per corruzione nel 2000 (accusa da cui viene prosciolto nel 2001, per "intervenuta prescrizione"). Berlusconi, comunque, ne esce vittorioso ed entra negli anni ‘90 come il primo editore italiano nel settore libri e periodici, oltre a essere presente nella grande distribuzione (con la proprietà del gruppo Standa, poi ceduto). Infine, lo sport: nel 1986 Berlusconi diventa proprietario - e anche presidente - della squadra di calcio A. C. Milan, da cui si congeda nel 2017 dopo averla venduta ad un fondo Usa. Ma il commiato dalla serie A dura poco, perché già nel 2018 Fininvest torna in campo prendendosi il Monza.
Una galassia di società, quella che faceva capo al Cavaliere, quasi sterminata. Dalle televisioni di Mediaset, ora internazionalizzata in Mfe-MediaForEurope, fino ai libri della Mondadori, passando per il calcio e arrivando fino al 30% di Banca Mediolanum detenuto dalla holding di famiglia, fino al teatro Manzoni di Milano. In cima a tutto Fininvest, la finanziaria - intanto passata nel 2005 sotto la guida di Marina Berlusconi. Silvio Berlusconi con le Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava controllava circa il 60%. La Holding Italiana Quarta (7,65% di Fininvest), fa capo a Marina Berlusconi. La Holding Italiana Quinta è di Pier Silvio Berlusconi (ai vertici di Mfe-MediaForEurope) che, come quella della sorella, ha il 7,65% di Fininvest. L'azionariato di Fininvest è completato da un’altra società, la Quattordicesima dei figli di Silvio Berlusconi, Barbara, Eleonora e Luigi, con il 21% circa.
GLI SCENARI DELLA SUCCESSIONE
Ora che il Cavaliere non c'è più, si aprono gli scenari sull’assetto di controllo. Piazza Affari attende trepidante notizie sulla successione, fra ipotesi giornalistiche di vendita di Mfe, la questione della proprietà delle azioni, il rischio scalate. Il mercato punta i fari poi sul secondo socio, cioè Vivendi con circa il 23% ( anche tramite Simon fiduciaria, riconducibile al gruppo francese). Sullo sfondo l'appeal speculativo del titolo, come ha denotato l'andamento diverso dei due tipi di azioni di Mfe che sono collegate ai diritti di voto in assemblea. Quelle di tipo A, che garantiscono un diritto di voto per ciascun titolo, mercoledì 5 aprile, sono cresciute meno di quelle di tipo B, che ne garantiscono dieci. Mfe - Mediaforeurope è la holding di uno dei maggiori poli radiotelevisivi pan-europei. Nata nel 2021, ha sede legale ad Amsterdam (Paesi Bassi) e sedi fiscali in Italia e Spagna, dove si svolgono le attività operative. È quotata alle Borse di Milano e Madrid. Mfe è controllata in modo 'blindato' da parte di Fininvest, che ne detiene oltre il 48%.
Conosciuto fino al 2021 come Gruppo Mediaset, Mfe ha come core business la tv commerciale generalista. In Italia, Mediaset è editore di tre reti: Canale 5, Italia 1 e Retequattro. In Spagna controlla Telecinco e Cuatro. In Germania è il primo azionista del polo tv ProsiebenSat1. Il Gruppo Mondadori nei libri è un leader storico in Italia, con una quota di mercato pari al 23,7% nel trade, nel quale opera con alcune delle maggiori case editrici e marchi del Paese, tra cui Mondadori, Einaudi, Piemme, Rizzoli, BUR, Sperling & Kupfer, Frassinelli, Fabbri Editori, Rizzoli Lizard e Mondadori Electa. Il Gruppo Mondadori è leader nei libri scolastici e opera nella vendita diretta al cliente attraverso Mondadori Retail, alla quale fanno capo oltre 500 punti vendita. Il Gruppo Mediolanum, controllato al 40% dalla famiglia Doris, vede Fininvest possedere una partecipazione del 30%. E ora tutti gli occhi sono puntati sui nodi della successione e su nuovi possibili assetti della galassia Berlusconi, dalla tv alla finanza, passando dal mattone.
Estratto dell’articolo di Francesco Spini per lastampa.it il 12 giugno 2023.
Le televisioni di Mediaset, oggi divenuta Mfe-MediaforEurope, ancor prima il mattone, e poi l'editoria con la Mondadori. Il grande calcio con il Milan, ceduto il 13 aprile 2017, poi il Monza, per non perdere l'abitudine. Un tempo ci fu la “casa degli italiani”, la Standa, venduta nel ’98.
Ci sono ancora il teatro Manzoni di Milano, poi polizze e fondi con la Mediolanum dell’amico Ennio Doris, scomparso sul finire del 2021. E ancora il cinema di Medusa, le produzioni di Taodue, le radio, gli studi tv, quindi gli investimenti nei fondi di private equity. La fotografia di un impero.
L'impero di Silvio Berlusconi. Una ricchezza considerevole, un patrimonio stimato in oltre 6 miliardi di euro. Frutto di un business diversificato che, tra alti e bassi, ha riversato alla famiglia, in particolare tramite Fininvest, una media di poco meno di 90 milioni di dividendi all'anno.
Berlusconi parte da via Volturno, quando il milanese quartiere Isola era ancora periferia, e diventa il terzo Paperone italiano (dopo Ferrero e Armani), il numero 352 nel mondo, nella classifica di Forbes.
L'avvio dell'avventura è nel mattone, dove ad aiutarlo c'è Carlo Rasini, a capo dell'omonima banca dove il papà di Silvio lavora prima come impiegato, poi come procuratore. Sono gli anni del boom economico e il futuro Cavaliere si butta nell’immobiliare, con la Edilnord, quella che costruisce Milano 2, a Segrate, con cui Berlusconi comincia fare i soldi veri, a cui negli Anni 80 seguirà Milano 3, nella vicina Basiglio.
[…] Il 7 settembre del 1978, poi, è una data storica: dagli studi di Segrate, parte la grande avventura della tv commerciale, quello che cambierà per sempre il costume degli italiani.
Contemporaneamente Berlusconi coltiva anche interessi finanziari grazie all’amicizia, scoccata di un giovedì, nella primavera del 1981 con Ennio Doris con cui, al 50%, fonda Programma Italia, poi Mediolanum infine Banca Mediolanum, di cui Fininvest ha il 30% e che il Cavaliere difende coi denti quando, in seguito alla condanna per frode fiscale, Bankitalia chiede di scendere al di sotto del 10% per i perduti requisiti di onorabilità. […]
Nel 2007 Berlusconi fa un ulteriore passo nella Milano della finanza e mette un piede anche in Mediobanca dove arriva fino al 2%, legame che si scioglierà nel 2021[…].
Riavvolgiamo un poco il nastro. Arriva il 1994 e la famosa “discesa in campo”, l’impegno in politica. Il Cavaliere ora ha altri orizzonti. Nel business entrano così in campo gli eredi. I due figli di primo letto, avuti con Carla Elvira Dall’Oglio, Pier Silvio e Marina occupano i posti di primo piano.
Marina […] assume le redini della Fininvest, divenuta la cassaforte di famiglia, e di Mondadori. Pier Silvio Berlusconi, invece, accanto a Confalonieri prima come vicepresidente poi anche come ad, va alla guida delle tv.
A entrambi fa capo il 7,6% di Fininvest. Attraverso la Holding Italia Quattordicesima i figli avuti con Veronica Lario - di cui Barbara, Eleonora e Luigi hanno il 31,33% ciascuno – hanno il 21,4%.
Luigi Berlusconi trasforma questa holding in un family office da cui investe in start-up e progetti innovativi. La quota del Cavaliere di Fininvest, mantenuta fino alla fine, era del 61%. Gli interrogativi per il futuro sono tanti: come cambieranno gli assetti alla guida della galassia? Resteranno i Berlusconi a capo dell'ex Mediaset? Già negli ultimi anni, col patriarca concentrato sulla politica, Mfe – oggi controllata col 48,27% dei diritti di voto - ha cercato nuove vie per il futuro. In un certo senso per reinventarsi.
Parte l’avventura della diversificazione nella pay tv, con Mediaset Premium, che chiude sotto il peso della concorrenza di Sky e dei faraonici diritti tv del calcio. Finché nel 2016 Silvio Berlusconi stringe un accordo con il raider bretone Vincent Bolloré. Nell’aprile di quell’anno i due gruppi siglano un accordo di collaborazione industriale secondo cui, a fronte di uno scambio azionario reciproco del 3,5% i francesi si impegnano a rilevare Premium e ad avviare una collaborazione nei contenuti.
Sembra l’inizio di una nuova era per le televisioni del Cavaliere, una soluzione anche per la successione, secondo molti osservatori. Si rivelerà un Vietnam. All’inizio dell’estate di quello stesso anno, infatti, Bolloré cambia idea, sostenendo che i conti sulla pay tv non tornano. Ne esce una guerra legale che sfocia anche in uno scontro finanziario perché Bolloré, per forzare la mano, avvia una scalata a Mediaset che si ferma appena sotto la soglia dell’Opa obbligatoria, al 29,9%. Lo scontro si fa durissimo. La famiglia Berlusconi chiede danni per 3 miliardi ai francesi, l’Agcom interviene e, in virtù della Legge Gasparri, costringe i francesi a girare il 19,9% in una trust (Simon Fiduciaria) e a tenere solo poco più del 9%.
Nel frattempo, Mediaset cambia strategia, e punta sull’Europa per creare Mfe-Mediaforeurope, un polo delle tv generaliste in chiaro, con sede ad Amsterdam in Olanda, in cui aggregare Mediaset Italia e España altri operatori e creare economie di scala. Vivendi, però si mette di traverso, e […] avvia un’aspra battaglia legale nelle corti di mezza Europa per mandare tutto a monte.
I giudici italiani danno ragione a Mediaset, Spagna e Olanda risultano invece fatali per il progetto. La Corte di Giustizia europea mette la ciliegina sulla torta, sconfessando i paletti della Legge Gasparri. La tv italiana ritorna nel far west, i Berlusconi si trovano costretti, per non restare incatenati, a riaprire un dialogo con i francesi di Vivendi con cui trovano l’accordo in extremis che li vede vendere subito il 5% e impegnarsi a quasi azzerare le quote entro il 2026.
Oggi, in ogni caso, Vivendi è il secondo azionista di Mfe, con il 23,35% dei diritti di voto. Con la fine del lungo braccio di ferro con Parigi, il Biscione riprende la via dell’Europa. Per inaugurare la nuova era, compra il 29,9% di una tv tedesca, ProsiebenSat1, prova, senza successo, a comprare una tv in Francia, M6, guarda alla Gran Bretagna (Channel 4), fonde in Mfe la spagnola Mediaset España, pensa all'espansione in Portogallo. Ma la scomparsa del fondatore […] apre la prospettiva di nuovi assetti e la Borsa cinicamente lo sottolinea facendo volare del 5% le azioni di Mfe di Tipo B, quelle che contano, che portano appunto la B di Berlusconi.
La morte di Berlusconi. Ora la battaglia tra i figli per il 61% della cassaforte in mano al Cavaliere. Luca Piana su La Repubblica il 13 Giugno 2023
La successione. Il primo round si terrà durante la prossima assemblea di Fininvest, quando verranno suddivise le azioni tra gli eredi
La riunione è convocata per gli ultimi giorni di giugno, come ogni anno. E come sempre dovrà compiere un passo importante: nominare il nuovo consiglio di amministrazione, che resterà in carica per soli dodici mesi.
La differenza rispetto al passato è sostanziale: l’assemblea della Fininvest sarà la prima dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, che fino all’ultimo non aveva mai rinunciato alla maggioranza assoluta della holding dove sono custodite le partecipazioni del gruppo che aveva fondato.
Un anno fa – era il 29 giugno – al momento opportuno aveva preso la parola il fidato ragionier Giuseppe Spinelli, che in rappresentanza delle società personali dell’ex premier aveva indicato una lista di nove consiglieri più Marina Berlusconi, confermata come da copione alla presidenza, la carica dove l’aveva voluta il papà.
Un Cda eletto all'unanimità
Tutti i soci avevano votato il consiglio, eletto all’unanimità dai soci, senza contrari o astenuti: Silvio, Marina e Pier Silvio - i due figli della prima moglie, che di Fininvest possiedono il 7,65% ciascuno - nonché la H14, come si chiama ora la vecchia Holding Quattordicesima, dove si trova il 21,42% che era stato assegnato ai tre figli della seconda moglie, Barbara, Eleonora e Luigi.
L’imminente assemblea di Fininvest sarà dunque il primo appuntamento dove verranno messi alla prova gli assetti futuri del gruppo. Rispetto a un anno fa è mancato anche un altro consigliere, l’avvocato Niccolò Ghedini, quindi è possibile che qualche ritocco fosse già in programma.
Bisognerà ora vedere se la scomparsa di Berlusconi determinerà un rinvio dell’assemblea e come, nel frattempo, verrà redistribuito il 61,2% del capitale che aveva mantenuto, posseduto attraverso quattro holding quasi gemelle, la Prima, la Seconda, la Terza e l’Ottava.
La maggioranza assoluta
Se le quote venissero semplicemente divise per testa tra i cinque figli, i tre avuti con Veronica Lario si ritroverebbero tutti insieme la maggioranza assoluta del capitale (il 58%), lasciando in minoranza i due fratelli maggiori.
Un esito che sarebbe in contraddizione con il fatto che Berlusconi da sempre aveva designato Marina alla guida di Fininvest e di Mondadori, così come Pier Silvio a quella di Mediaset, che da quando si è trasferita ad Amsterdam è stata ribattezza Mfe-MediaForEurope, con l’obiettivo di farne un gruppo di respiro europeo.
Berlusconi tuttavia non aveva mai voluto anticipare le sue decisioni sulla redistribuzione delle quote né confermato che avesse affidato la questione all’avvocato Michele Carpinelli dello studio Chiomenti, uno dei suoi legali di fiducia. Per cui occorrerà attendere che si alzi il velo sul testamento.
Mondadori, Mediolanum
Fininvest è al centro di un reticolo societario che vede quote azionarie di rilievo in tre società quotate in Borsa, il 53% della casa editrice Mondadori, il 48% delle televisioni Mfe, il 30% di Banca Mediolanum. Tutte insieme valgono oltre 2,9 miliardi, con la parte del leone (1,8 miliardi) che spetta alla società del risparmio gestito.
Qui la scomparsa di Berlusconi potrebbe avere un effetto diretto: a causa di una vecchia condanna penale dell’ex premier e alla conseguente perdita dei requisiti di onorabilità, Fininvest avrebbe dovuto ridurre la partecipazione sotto il 10%.
Il procedimento non si era ancora esaurito (si aspettava una sentenza definitiva della Corte di giustizia dell’Ue) ma ora l’ordinanza perde ogni ragione e gli eredi di Berlusconi se vorranno potranno conservare la presenza nella società guidata da Massimo Doris, che a sua volta ha raccolto il testimone del papà Ennio, scomparso nel 2021.
Il bilancio del 2021
Oltre alle quotate Fininvest detiene altre partecipazioni, più difficili da valutare. L’ultimo bilancio disponibile è il 2021 e qualcosa potrebbe essere cambiato.
Ci sono diverse immobiliari, che ricadono sotto la sub holding Fininvest Real Estate & Services, compresa la dimora brianzola di Villa Gernetto. Sempre alla stessa società fa capo anche la Alba Servizi Aerotrasporti, che governa la flotta di velivoli aziendali, con un elicottero e tre jet.
Sempre sotto Fininvest si trova anche il 100% del Monza Calcio, la squadra della nuova avventura nel pallone dopo la cessione del Milan, venduto nel 2017, nonché investimenti in società protagoniste della finanza digitale, come il 6,8% di Soldo e il 2% di Satispay. Tutte insieme queste attività sono iscritte nel bilancio Fininvest per 350 milioni.
La Costa Smeralda
Non tutto però ricade sotto Fininvest. Berlusconi aveva mantenuto fuori dal gruppo una serie di società immobiliari: in particolare la Idra, dove sono custodite alcune delle case di famiglia più note, da Arcore a Villa Certosa, in Costa Smeralda. I “gioielli” di Idra sono iscritti in bilancio per 426 milioni, una cifra che porta a quasi 3,7 miliardi la stima del patrimonio che Berlusconi lascia agli eredi.
Silvio Berlusconi e il suo impero immobiliare: da Arcore a Porto Rotondo passando da Antigua. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2023
Sogno, leggenda o realtà. Silvio Berlusconi si è spento questa mattina dopo quattro giorni di ricovero all’ospedale San Raffaele di Milano. Uomo straordinario e controverso, nel bene e nel male ha fatto la storia dell’Italia dalla politica, all’imprenditorialità, dalle donne alla televisione. Berlusconi è stato anche proprietario di moltissime case da favola. Location enormi, giardini principeschi e stanze segrete. Sono svariati i luoghi simbolo che hanno caratterizzato il percorso, non solo politico, del leader di Forza Italia, che di case ne ha abitate tante e, da imprenditore edile, ne ha costruite di più: a partire da quelle a Segrate, nel quartiere che sarà noto come Milano 2.
Villa San Martino ad Arcore
La prima dimora che viene alla mente è senza dubbio la storica residenza brianzola di Arcore, Villa San Martino. Realizzata dai marchesi Casati Stampa nel XVIII secolo, venne venduta nel 1973 da un’erede, Anna Maria Casati Stampa di Soncino, all’allora imprenditore Berlusconi, tramite l’ex pro-tutore della donna, l’avvocato Cesare Previti. La villa, negli anni, è stata oggetto di numerosi interventi di ristrutturazione, è circondata da un parco immenso, contiene una preziosa pinacoteca e una biblioteca di diecimila volumi. Ed è proprio nel parco di Villa San Martino che Berlusconi ha fatto costruire un discusso mausoleo dall’artista Pietro Cascella, intitolato ‘La volta celeste’, che difficilmente, però, potrà ospitare le spoglie del Cavaliere. La legge, al momento, lo vieta.
Villa Certosa a Porto Rotondo
Altro luogo simbolo è sicuramente Villa Certosa, a Porto Rotondo. La residenza estiva di Berlusconi ha goduto di enorme popolarità negli anni ruggenti del Cav, quando in Sardegna ospitava personaggi famosi e leader politici potenti come il presidente russo Vladimir Putin. Iconica, in particolare, l’immagine in cui il Silvio nazionale, con tanto di bandana, fu immortalato in compagnia dell’allora premier britannico Tony Blair e della moglie Cherie.
I luoghi simbolo di Roma
Diversi anche a Roma i luoghi diventati simbolo della politica del centrodestra. Dopo la prima sede di Forza Italia, in via dell’Anima, e prima dell’ultima residenza romana – Villa Grande sull’Appia antica, a lungo offerta in comodato d’uso a Franco Zeffirelli – per anni Berlusconi ha usufruito di Palazzo Grazioli, a due passi da piazza Venezia. Il Cavaliere prese in affitto il secondo piano dell’edificio (pare per 40mila euro al mese) e lo trasformò nel quartier generale di Forza Italia e dell’intero centrodestra, chiudendo la sede di partito in via dell’Anima.
Le dimore meno famose
Altre dimore sono salite meno frequentemente alla ribalta, da Villa Due Palme a Lampedusa a Villa Comalcione sul lago di Como, da Villa Gernetto a Lesmo (che dovrebbe accogliere l’Università del pensiero liberale) alle ville di Antigua, da Villa Maria a Rogoredo di Casatenovo a Villa Campari sul lago Maggiore (a lungo proprietà del politico e patriota dell’800 Cesare Correnti).
Più note sono invece la villa di via Rovani a Milano e Villa Belvedere a Macherio, quest’ultima a lungo residenza dell’ex moglie Veronica Lario. Resta infine scolpita nella memoria la villa Blue Horizon, alle Bermuda, anche grazie a un’immagine che fece il giro del mondo: Berlusconi che fa jogging con Letta, Confalonieri, Dell’Utri, Galliani e Bernasconi. Tutti a correre dietro al capo e tutti in calzoncini bianchi: l’allenamento quotidiano voluto da Berlusconi per tenere i suoi uomini in forma.
Estratto dell’articolo di corriere.it l'11 giugno 2023.
Villa Maria, la lussuosa dimora che Silvio Berlusconi aveva acquistato nel 2015 a Rogoredo di Casatenovo, nel cuore della Brianza non lontano da Arcore, per l’allora fidanzata Francesca Pascale, venne venduta nel luglio 2022. Un affare conclusosi assai rapidamente, pochi giorni dopo che la tenuta venne messa sul mercato, con la mediazione di Lionard spa.
Il particolare che ancora non era ancora emerso era il nome dell’acquirente (rivelato oggi da Il Fatto): Lavinia Eleonoire Jacobs, nipote di Klaus Jacobs, il re (svizzero) del cioccolato scomparso del 2008. L’imprenditore, che Forbes, annovera tra i più grandi del settore, tra le sue varie operazioni di successo vantava la produzione del «Toblerone”, la barra di cioccolato e croccante famosa in tutto il mondo e oggi di proprietà di una multinazionale.
Di Villa Maria continua però a non essere noto il prezzo di questa ultima vendita. Estesa su 1.140 metri quadrati, circondata da un parco di 40 mila, Villa Maria era stata in precedenza la dimora dell’ex calciatore e imprenditore Valentino Giambelli, noto per essere stato (proprio come Berlusconi) il presidente del Monza Calcio. Acquistata nel 2015 per 2,5 milioni di euro era stata oggetto di importanti interventi di ampliamento e ristrutturazione con un investimento di 29 milioni di euro. […]
Estratto dell’articolo di Franco Bechis per open.online l'8 giugno 2023.
Ci sono voluti quasi 40 anni, ma alla fine Silvio Berlusconi ha messo ko tutti i pastori sardi che gli avevano occupato i terreni di proprietà in Sardegna fra Murta Maria e Capo Ceraso. Dove dal 1984 aveva in mente di realizzare un grande villaggio turistico nominato “Costa Turchese”. Ed è proprio dal bilancio 2022 della società omonima- la Costa Turchese spa – che arriva la buona novella per il Cavaliere. Anche l’ultima causa intentata dal signor Calvisi è stata respinta definitivamente intimando al pastore e alle sue greggi di lasciare i terreni della società con sentenza ora passata in giudicato.
L’occupazione delle terre e l’incubo Murgia
Era da decenni che Berlusconi con la sua società, che più volte ha cambiato nome negli anni, combatteva una guerra durissima contro i pastori sardi. L’imprenditore aveva presentato all’inizio un suo progetto di urbanizzazione di quelle terre, pensando di costruire il più grande villaggio vacanze della Sardegna. Ma amministratori locali e le varie leggi regionali hanno reso impossibile la costruzione e nell’attesa molti pastori hanno occupato quei terreni con le loro greggi. Successivamente hanno richiesto al tribunale di Tempio Pausania l’assegnazione della proprietà degli stessi per usucapione.
Uno di loro era diventato l’incubo di Berlusconi: Paolo Murgia.
(...) che rivendicò l’usucapione presentando una serie infinita di cause, che il pastore all’inizio vinse sentendosi poi così forte da rifiutare il tentativo di transazione economica avanzato dagli uomini del Cavaliere.
L’usucapione e la discesa in campo di Galliani
Di fronte a quella situazione Berlusconi decise un paio di anni fa di inviare nella sua Costa Turchese spa uno dei manager più fidati e combattivi che aveva: Adriano Galliani. E non ho avuto torto. Perché con lui alla guida i pastori hanno dovuto capitolare. E la società ha protetto i terreni con robuste recinzioni e riscritto il progetto da presentare al comune di Olbia. Una prima versione cercava di recuperare almeno una parte della grandeur originaria (una lottizzazione di 2 milioni di metri cubi). Cercando di sfruttare il Piano casa della Regione Sardegna. Che però è stato impugnato dal governo di Mario Draghi sollevando con successo conflitto con la Corte Costituzionale che ha cassato le norme regionali.
Il progetto minimal
Al comune di Olbia la Costa Turchese di Galliani ha quindi ripresentato un progetto minimal che è stato inserito fra molte difficoltà nel piano di urbanizzazione. 140 mila metri cubi di costruzione rinunciando al villaggio e proponendo due alberghi per 933 posti letto, uno a Murta Maria e l’altro poco prima di Capo Ceraso. Il via libera definitivo non è ancora arrivato, perché la Regione ha chiesto di rivederne alcuni punti. Ma almeno i terreni non vengono più occupati dai pastori. E dopo 40 anni la speranza di Berlusconi di portare a casa il suo sogno di una “Milano2” sarda è ancora viva. Anche se la Costa Turchese fin qui ha investito solo in parcelle di avvocati e in consulenze tecniche per riscrivere più volte il piano di costruzione. E anche nel 2022 ha chiuso il bilancio in perdita per 613 mila euro.
A quanto ammonta il patrimonio personale netto in euro di Silvio Berlusconi. A quanto ammonta il patrimonio personale netto in euro di Silvio Berlusconi tra Fininvest, Mediaset, immobili e politica. Giampiero Casoni su Notizie.it il 7 Aprile 2023
A quanto ammonta il patrimonio personale netto in euro di Silvio Berlusconi? I mezzi a disposizione di quello che è stato indicato come il terzo uomo più ricco d’Italia sono immensi e rimandano ad una cifra da sogno. A voler considerare auto, case di lusso, la Fininvest e lo stipendio politico, c’è da fare conti molto laboriosi. Attenzione: in base ad una recentissima classifica di Forbes sui miliardari italiani 2023 Silvio Berlusconi è stato indicato come il terzo uomo più ricco d’Italia.
Il patrimonio personale di Silvio Berlusconi
Si, ma in concreto a quanto ammonta il suo patrimonio? Fra aziende di famiglia che gestisce e beni vari il patrimonio di Silvio Berlusconi è enorme. Fininvest ad esempio, che possiede Mediaset, aveva dichiarato nel 2021 un fatturato pari a 3.817,9 milioni di euro con un incremento di 358,8 milioni di Euro. Si tratta di un +10,4% rispetto ai 3.459,1 milioni di Euro del 2020. Ma il Cav è stato proprietario del Milan tramite il Gruppo Fininvest dal 1986 al 2017.
Fininvest, Mediaset, politica e immobili
In quegli anni i rossoneri fecero sfaceli non solo con le vittorie, ma anche con gli utili. A voler considerare tutte le proprietà, le varie aziende di famiglia, e i relativi introiti politici, Silvio Berlusconi è al 352esimo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo. Con quanto? La cifra ammonta a 6,9 miliardi di dollari, circa 6,3 miliardi di euro, malgrado una perdita di 0,2 miliardi rispetto allo scorso anno.
Estratto dell’articolo di Claudio Bozza per corriere.it il 3 giugno 2023.
Silvio Berlusconi, dopo le dimissioni dal lungo ricovero al San Raffaele , ha depositato in Senato la sua ultima dichiarazione dei redditi. Il leader di Forza Italia si conferma saldamente il politico più ricco d’Italia. L’ultimo imponibile lordo è di circa 18 milioni di euro (tra denaro, azioni ville e auto). Un record confermato nonostante il Cavaliere abbia incassato 32 milioni in meno rispetto all’anno precedente, quando raggiunse «quota 50 milioni» . Presumibilmente, ha pesato il mancato incasso di utili a causa della crisi provocata dalla pandemia.
Analizzando l’ultima dichiarazione dei redditi, quella relativa al periodo di imposta 2021 e consegnata nel 2022, si scopre che l’ex premier ha percepito per l’esattezza 17 milioni 697 mila 119 euro. […]
Nel documento, escludendo le centinaia di immobili […], figurano anche alcune proprietà dirette del Cavaliere: 5 appartamenti e 2 box auto a Milano; tre ville (Antigua, Lampedusa e a Lesa, sul lago Maggiore). Figurano anche tre imbarcazioni: la San Maurizio (1977); la Principessa Vai via (1965) e la Magnum 70 (1990). Segue poi un lungo elenco dei pacchetti azionari posseduti tra le numerose società della famiglia Berlusconi.
Berlusconi è sempre stato al top della classifica dei più facoltosi nelle aule parlamentari. […] Nel 2019 lo «stipendio» del numero uno di Forza Italia è rimasto sostanzialmente invariato, pari a 48 milioni (riferito al 2018). È diminuito nel periodo d’imposta successivo, arrivando ai 47 milioni incassati nel 2020 da eurodeputato, con un ammanco di poco più di 500mila euro rispetto all’esercizio precedente, come certificato dalla dichiarazione dei redditi, firmata il 20 gennaio 2021.
Anticipazione da “Oggi” il 27 aprile 2023.
Il letto di ragazzo di Silvio Berlusconi? Un divano nel soggiorno con vista sulle bandiere rosse del Partito Comunista milanese, la cui sede era nella stessa via Volturno, a Milano. L’imprenditore e politico che ha cambiato l’Italia viveva con papa Luigi, mamma Rosa, la sorella Maria Antonietta e il fratello Paolo in appartamento di tre stanze con cucina e bagno nel quartiere piccolo borghese dell’Isola a Milano.
OGGI, in edicola da giovedì 27 aprile, è entrato per la prima volta nella casa dove la famiglia del futuro presidente del Consiglio ha abitato tra gli anni Trenta e Sessanta. L’arredamento è stato sostituito, ma la struttura dell’abitazione che ha visto crescere Berlusconi è rimasta immutata. Quel salotto, raccontata e mostrata da OGGI, è stata la sua cameretta da letto dai 13 anni in poi. Nel racconto fotografico si mostra la disposizione della casa, immutata nel tempo.
La porta d’ingresso di casa Berlusconi è l’unica, nel piccolo pianerottolo. E da lì si esce sul corridoio lungo da cui si accede, a sinistra, alle stanze che si affacciano su via Volturno: la camera di Maria Antonietta e Paolo, con il balconcino in pietra, quella di papà Luigi e mamma Rosa, con una finestra alta e larga.
A destra si trovano invece il bagno lungo e stretto e la cucina, abitabile, ma in cui in cinque si faceva sicuramente un po’ fatica a sedersi a tavola. Silvio è tornato qui, nella sua strada di ragazzo, l’ultima volta nel 2016, alla vigilia dell’ottantesimo compleanno e dopo un periodo difficile per l’operazione al cuore appena subita. Ma non volle salire a rivedere l’appartamento.
Mamma Rosa, Mike Tyson e il cavallo bianco: nel regno di Silvio Berlusconi. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2023.
Due mogli, una fidanzata e una «quasi» consorte, pranzi di Natale sempre tutti insieme (qualsiasi cosa fosse accaduta), i lunedì con Bossi, due mancati sequestri di persona: il dietro le quinte della saga italiana più creativa di sempre. L’entusiasmo di Francis Ford Coppola, ospite a Villa San Martino: «Abbiamo parlato tutto il giorno di Micene»
Una storica foto della famiglia Berlusconi (2005): da sinistra Eleonora Berlusconi, Piersilvio, Marina, Silvio Berlusconi, Barbara e Luigi, il figlio più giovane
«E questo è il cavallo della pubblicità», diceva il giovanissimo Piersilvio senza il benché minimo cedimento alla vanteria, al contrario, come se fosse la cosa più normale del mondo avere nel giardino di casa il cavallo più amato dai bambini italiani degli Anni 70 del secolo scorso, quello della pubblicità del bagnoschiuma. Tra i suoi coetanei, ovviamente, non ce n’era uno che non gli credesse.
Se il secondogenito iniziava le visite guidate alla villa partendo dalle stalle, il papà, Silvio, negli Anni 90 avrebbe prediletto la sosta al sacrario firmato dallo scultore Pietro Cascella, con il colonnato in marmo bianco delle Alpi Apuane, l’accesso alla cripta, i loculi in parte pre-assegnati (Indro Montanelli rifiutò cortesemente l’offerta con la citazione passata alla storia, “Domine, non sum dignus”) e i due interruttori con cui il padrone di casa sorprendeva di volta in volta gli amici. Premuto il primo, si azionava un sistema di luci soffuse; col secondo, partiva l’Ave Maria di Schubert.
Oltre il cancello di Villa San Martino
Ad Arcore, oltre il cancello di Villa San Martino, nascoste e per un certo numero di anni addirittura sepolte da carte poi diventate cronaca giudiziaria, ci sono le tonnellate di pagine dell’unico romanzo italiano che ha toccato, spesso contemporaneamente, i più disparati ambiti della vita pubblica al massimo dei livelli: la politica, le istituzioni, l’economia, la finanza, il cinema, la televisione, lo sport, il giornalismo.
È la saga dei Berlusconi, ramo Silvio ovviamente, e delle diramazioni genealogiche che hanno preso il largo da matrimoni iniziati come un libro di favole per adolescenti (Marina e Piersilvio sono figli di Carla Dall’Oglio, sposata nel 1965: faceva la commessa in un negozio del centro di Milano, Berlusconi l’aveva incrociata dalle parti della Stazione Centrale, se n’era innamorato e un giorno aveva seguito con la macchina l’autobus su cui era appena salita) oppure come una storia newyorkese (Barbara, Eleonora e Luigi sono figli di Veronica Lario, conosciuta all’inizio degli Anni 80 al Teatro Manzoni dopo una replica del Magnifico Cornuto , lei divideva il palco con Enrico Maria Salerno, Berlusconi si era presentato alla serata con l’annunciatrice Fabrizia Carminati, che alla fine del primo atto gli aveva consigliato di rimediare un mazzo di rose e di presentarsi nei camerino per fare i complimenti alla Lario); ad arricchire i capitoli sentimentali, un divorzio consensuale (da Carla), uno burrascoso (da Veronica), un fidanzamento accreditato (Francesca Pascale) fino a nozze non ufficiali ma come se lo fossero (Marta Fascina).
Mamma Rosa
I momenti più felici sono stati quelli in cui, ad Arcore, c’era la donna che Silvio Berlusconi ha venerato di più: sua mamma, Rosa Bossi. La presenza o meno sulla scena di Mamma Rosa scandiva come un metronomo perfetto il calendario della casa. Protagonista la domenica, consacrata dal pranzo familiare che iniziava molto presto nei giorni in cui il Milan giocava in casa, perché poi bisognava avere il tempo di raggiungere San Siro in elicottero; defilata il lunedì, il giorno dedicato alla riunione col gotha delle aziende.
Il lunedì berlusconiano ha subìto nel corso degli anni due cambiamenti: il tempo dedicato al patrimonio è stato man mano eroso dalle riunioni con gli avvocati, Niccolò Ghedini su tutti, per fare il punto sulle inchieste e sui processi; e poi c’è stato il sodalizio politico e umano con Umberto Bossi, che una volta ricostruito il rapporto con Berlusconi dopo il ribaltone del Natale 1994 ha preso a frequentare Villa San Martino tutti i lunedì sera, seguendo una tradizione azzurro-leghista che il padrone di casa ha provato poi a estendere a Matteo Salvini, senza lo stesso successo.
LE ROTTURE CON FUNARI E VILLAGGIO: IL PRIMO SI LICENZIÒ VIA FAX, IL SECONDO FUGGÌ IN CORSICA DOPO UNA LITIGATA CON IL CAVALIERE
Le perplessità di Umberto Bossi
Fu di un lunedì sera, anno 2001, che Bossi espresse a Berlusconi le perplessità sulla squadra di governo che l’altro stava mettendo in piedi dopo la vittoria alle elezioni del 13 maggio. «Umberto, domani ti presento questo professor Pera, sarà un ottimo ministro della Giustizia». Fu il giorno dopo, coi favori della luce, che l’allora leader della Lega — con qualche leggero cedimento al turpiloquio che lasciò di sasso il diretto interessato — chiese e ottenne che il professor Pera lasciasse il ministero della Giustizia a un ingegnere, il leghista Castelli, e andasse a fare il presidente del Senato.
Mamma Rosa e l’epoca dei governi Berlusconi sono due capitoli che si sono chiusi molto velocemente, nell’arco di tre anni. La prima è scomparsa nel 2008, a 97 anni; la seconda è finita nell’autunno nel 2011, col passaggio della campanella nelle mani di Mario Monti. Diversi testimoni oculari, nel corso degli ultimi anni, hanno giurato che le ceneri dell’adorata mamma non riposano nel mausoleo di Cascella bensì in un’urna che il Cavaliere ha voluto tenere il più possibile vicina a sé, in camera da letto.
Personaggi e caratteri diversi
La forza del romanzo di Arcore sta nella varietà dei personaggi. E nel fatto che nessuno, fondamentalmente, somigli così tanto a un altro da risultare un doppione.
Marina Berlusconi, la primogenita, sin da ragazza ha cominciato a seguire il padre a lavoro, trascorrendo l’adolescenza a parlare con i manager della Fininvest; Piersilvio, il secondo, ha avuto una giovinezza decisamente più esuberante e si è scoperto uomo-azienda solo dopo i ventun anni, quando era già papà di una bimba; Barbara è stata una specie di portabandiera dei figli di secondo letto, è stata l’unica ad aver sperimentato le attenzioni dei paparazzi, ha avuto un ruolo di prim’attrice nell’asset mediaticamente più esposto (il Milan), compensando da sola la ritrosia della sorella Eleonora per il business e quella dei fratello Luigi per attenzioni dei media.
Il termometro della pace casalinga, da sempre, sono stati i segnaposto dei pranzi di Natale, che li hanno visti a ranghi completi anche nei momenti più drammatici.
DURANTE LE RIUNIONI DI FAMIGLIA IL FRATELLO PAOLO AMA MOSTRARE LA SUA PASSIONE SEGRETA, LA MAGIA E I GIOCHI DI PRESTIGIO
Le riunioni familiari sono state da sempre l’occasione per Paolo Berlusconi, fratello minore di Silvio e storico editore de Il Giornale , di deliziare la vasta platea di figli, nipoti e pronipoti con la sua piccola passione coltivata in gran segreto: quella per giochi di prestigio e i numeri di magia.
L’ossessione per il controllo degli accessi diretti all’attenzione di Silvio Berlusconi — l’agenda degli appuntamenti, la lista delle telefonate, le richieste di appuntamenti — è stato un tema da sempre. Anche prima che i «cerchi magici», con Maria Rosaria Rossi prima e Licia Ronzulli dopo, s’intestassero ruoli quasi creati ad hoc e poi utilizzati anche per finalità di potere personale.
A inquinare il rapporto poi sfociato in un divorzio clamoroso tra Gianfranco Funari e Fininvest, per esempio, contribuì il fatto che il primo, che guadagnava cinque miliardi l’anno, non sopportava mediazioni nel rapporto tra sé e il Cavaliere. E quando nel 1992 le cose cominciarono a non andare più bene, mentre conduceva il programma Mezzogiorno italiano , il popolare presentatore televisivo romano iniziò a mandare dei fax che venivano sputati fuori dall’apparecchio della villa in uso esclusivo al padrone di casa, di cui aveva un numero diretto. L’ultimo di questi iniziava così, con una ripetizione che denotava la foga rabbiosa del mittente: «Caro dottore, mi sento abbandonato, non ho abbastanza contatti con il vertice Fininvest. E sento dirigenti del gruppo che mi criticano. Ho chiesto più studi e più troupes inutilmente. Così, caro dottore, la sollevo dall’impegno contrattuale che mi lega alla Fininvest».
La «regola della casa»
Divorzi e matrimoni sono stati una regola della casa anche fuori dal diritto familiare.
Paolo Villaggio ne è stato un esempio. «Berlusconi mi ha cercato quando era appena agli inizi. Gli chiesi 200 milioni perché ne avevo bisogno per pagare le tasse e lui, senza colpo ferire, con una telefonata mi procurò un bonifico bancario», raccontò il comico trent’anni fa.
Poi iniziarono i guai.
«Quando poi era ormai diventato quello che è adesso, voleva farmi fare la ballerina di fila. Allora sono andato ad Arcore, gli ho mostrato un contratto ma lui ha risposto che bastavano le strette di mano. E quindi sono scappato in Corsica perché non volevo fare Risatissima , lui mi ha fatto causa ma tutto è finito a tarallucci e vino». Nella divertita versione di Berlusconi, consegnata al Giornale il giorno dopo la morte di Villaggio, il comico chiuse la vicenda entrando nel salone di Villa San Martino e dicendo, con la voce di Fantozzi, “sire, pietà!”.
La sceneggiatura di un poliziesco
La genesi dell’epopea berlusconiana nella residenza di Arcore sembra la sceneggiatura di un poliziesco all’italiana.
La proprietà era passata al Cavaliere dalla giovanissima Anna Maria Casati Stampa dopo che il padre di lei, Camillo, si era reso protagonista dell’omicidio-suicidio passato alla storia come il Delitto di via Puccini, a Roma.
Il pro-tutore della ragazza era l’avvocato Cesare Previti, poi diventato esponente di Forza Italia e ministro della Difesa prima che due condanne definitive (Imi-Sir e Lodo Mondadori) lo inchiodassero all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Berlusconi entra nella villa nel 1974. La notte di Sant’Ambrogio, al ricevimento che inaugura l’epoca dei nuovi inquilini, sono ospiti — tra gli altri — il principe Luigi d’Angerio di Sant’Agata ed Eugenio Perfetti, il re delle chewing-gum. Entrambi sono nel mirino dell’anonima sequestri, due bande armate che li aspettano nella notte brianzola.
D’Angerio viene catturato e bendato ma riesce a fuggire perché l’auto dei malviventi finisce contro un’aiuola spartitraffico; il commando che deve sequestrare Perfetti viene invece neutralizzato dalle forze dell’ordine prima dell’azione. I due episodi arricchiranno, negli anni a venire, i faldoni delle tante informative sullo stalliere Vittorio Mangano.
La boxe e la giornata con Coppola
Francis Ford Coppola, regista del Padrino , trascorre una giornata intera a Villa San Martino il 12 settembre del 1988. Uscirà dalla residenza dichiarandosi estasiato dalla chiacchierata con Berlusconi: «Abbiamo tantissimi interessi in comune. Abbiamo parlato tutto il giorno di Micene, di letteratura latina e dell’arte nel Rinascimento».
Nella palestra della casa, all’inizio degli Anni 90, un giorno Mike Tyson ha incrociato i guantoni con Piersilvio Berlusconi, appassionato di boxe, mentre il Cavaliere e Don King, al piano di sopra, discutevano di affari. Tutti si aspettavano che Iron Mike, finita la visita ad Arcore, si recasse a Milano 2 per registrare un’intervista per Canale 5. Ma Tyson disse che non aveva voglia. E così si salutarono là, al cancello.
Chi guida l’impero di Arcore Storia di una dinastia italiana. Adolfo Spezzaferro su L’Identità l’8 Aprile 2023
L’impero finanziario di Silvio Berlusconi è l’impero di famiglia. Mentre si leggono sempre più retroscena secondo cui la primogenita del Cavaliere intenderebbe occuparsi anche di Forza Italia, quando non potrà più farlo il padre, una cosa è certa: Marina, tra i figli è quella che più somiglia al capofamiglia. Per attitudine e per fiuto per gli affari. E, quando sarà, saprà di certo esercitare il suo potere per spartire la torta di famiglia.
Torta davvero immensa, oltre che multistrato. Lievitata nei decenni. Berlusconi, da costruttore edile dagli anni ‘70, è riuscito a erigere un impero mediatico, sportivo e finanziario come mai prima di lui in Italia. Secondo Forbes, il Cavaliere ha un patrimonio da 6,8 miliardi di dollari: il terzo uomo più ricco d’Italia. Un ammontare enormemente cresciuto nei decenni, grazie all’incremento dei valori di Borsa delle società controllate. Per dare un ordine di grandezza: Berlusconi – e successivamente i suoi figli – hanno incassato cedole pari a 2,5 miliardi di euro. Una media di 85 milioni l’anno per trent’anni. Una ricchezza costruita prima con la Edilnord (che ha dato vita alle famose Milano 2 e poi Milano 3) e proseguita con Fininvest, la finanziaria costituita nel lontano 1978 e che ha sotto di sé i gioielli di famiglia. Stiamo parlando di Mediaset con la relativa raccolta pubblicitaria, Mediolanum, Mondadori, il Milan che ha vinto tutto (fino all’aprile del 2017) e oggi il Monza, portato in Serie A.
Questa però è soltanto una parte dell’impero. Ci sono infatti le holding personali di controllo, distribuite dal 2005 tra i due rami della famiglia: da una parte i figli Marina e Pier Silvio, dall’altra Luigi, Barbara e Eleonora, nati dal secondo matrimonio. Le Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava fanno capo al 100% al Cavaliere e tutte insieme posseggono il 61,2% della capogruppo. Poi ci sono le quote di Marina e Pier Silvio, pari al 7,65% ciascuna, raggruppate nelle Holding Italiana Quarta (Marina) e Quinta (Pier Silvio). Ai figli più giovani del Cavaliere Barbara, Eleonora, Luigi in quote proporzionali è andata la Holding Italiana Quattordicesima, che detiene il 21,42% della Fininvest.
Nel 2021, Fininvest vanta un attivo di 8,7 miliardi, ricavi per 3,8 miliardi con un patrimonio netto di gruppo di tre miliardi. Poi c’è Mediolanum, il gruppo bancario della famiglia Doris di cui Fininvest controlla il 30%. A bilancio vale appena 116 milioni ma sul mercato quella quota capitalizza 1,9 miliardi.
Nel 2022 i Berlusconi hanno già attinto alle riserve delle singole holding: il leader di Forza Italia ha preso liquidità per quasi 90 milioni, mentre Pier Silvio ha attinto 51 milioni dalla sua cassaforte e Marina 29 milioni. A conti fatti, dalla sua discesa in politica ad oggi, fanno 1,5 miliardi intascati direttamente dal Cavaliere. Il resto è in mano ai cinque figli. Poi c’è il patrimonio. Le quattro holding personali del Cavaliere hanno in carico il 61% di Fininvest al costo storico di 237 milioni di euro. Ma il capitale netto del Biscione è di 1,59 miliardi: una ricchezza inespressa di almeno sette volte.
Poi ci sono diverse immobiliari, che ricadono in parte sotto la Fininvest Real Estate & Services. Sotto cui si trova per esempio Villa Gernetto, nota anche perché vi svolge i ritiri il Monza. In questa sub-holding, oltre alle ville e agli sviluppi immobiliari, si ritrova anche Alba Servizi Aerotrasporti, la società che gestisce la flotta aziendale. Oltre all’elicottero Agusta classe 2006, ci sono tre jet, due dei quali entrati in esercizio in tempi recenti: un Gulfstream G550 del 2018 e un Hawker 800 XP di meno di due anni fa.
Berlusconi ha poi conservato al di fuori della capogruppo altre proprietà, custodite attraverso la holding immobiliare Dolcedrago, la cui controllata Immobiliare Idra gestisce alcune delle case di famiglia, compresa Villa Certosa, in Costa Smeralda. Il patrimonio immobiliare della Idra è iscritto a bilancio per 426 milioni.
IL PATRIMONIO DI FAMIGLIA. Berlusconi, 80 milioni per Marina e Pier Silvio: il maxi dividendo dalle casseforti di famiglia. Mario Gerevini su il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2023
Marina e Pier Silvio Berlusconi si sono fatti un «regalo» da 80 milioni di euro. Piersilvio ha prelevato 51 milioni dalla sua cassaforte e Marina 29 milioni dalla società che controlla. Hanno fatto cassa per esigenze personali? Una fonte vicina alla famiglia fa sapere che non c’è stato un incasso di dividendo ma la decisione di deliberare la distribuzione di utili pregressi unicamente per obiettivi di razionalizzazione e ottimizzazione finanziaria.
Le holding di famiglia
L’operazione, per la sua rilevanza, non ha paragoni recenti nel perimetro degli eredi Berlusconi ma di sicuro il patrimonio delle holding di famiglia ha ampio margine per sostenere dividendi straordinari come quelli che si sono attribuiti i due figli maggiori del proprietario della Fininvest e leader di Forza Italia. La manovra finanziaria emerge tra le righe dei bilanci al 30 settembre 2022, da poco depositati, della Holding Italiana Quarta (Marina) e della Holding Italiana Quinta (Pier Silvio), ognuna titolate del 7,65% di Fininvest.
Le riserve extra
Con i dividendi distribuiti negli anni proprio dalla capofila "industriale", a cui fanno capo il controllo o partecipazioni rilevanti in Mediaset-Mfe, Mondadori, Mediolanum, Monza ecc, le holding di famiglia hanno irrobustito le riserve. E infatti nella società personale di Pier Silvio i 51 milioni sono stati prelevati dalla riserva straordinaria di 175 milioni mentre Marina ha pescato i 29 milioni dai 71 disponibili. Intanto Piersilvio, dopo l’incasso sul suo conto dei 51 milioni extra, ha mandato a riserva l’utile 2022 di 12,6 milioni e lo stesso Marina con i 11,6 milioni di risultato netto della sua finanziaria.
I 90 milioni di Silvio
Le Holding Italiana possedute da Silvio Berlusconi (61,3% complessivo di Fininvest) hanno anche loro archiviato il bilancio al 30 settembre 2022 con risultati positivi come era nelle attese dopo il cedolone da 150 milioni distribuito dal Biscione a valere sui 360 milioni di utile 2021. La H1, per esempio, ha realizzato 29 milioni di utile (20 nel 2021) e distribuito nel 2022 16 milioni al leader di Forza Italia, la H2 11,7 milioni il risultato e altrettanti girati al Cavaliere come la H8 con i suoi 32 milioni di utile. Quindi alla fine Il patron del gruppo ha incassato circa 90 milioni. E cosa fanno gli altri tre figli, Barbara, Eleonora e Luigi riuniti nella H14 (21,4% di Fininvest)? Lo sapremo in tarda primavera, loro chiudono il bilancio al 31/12.
Berlusconi, tra quote azionarie e politica. La famiglia (senza guerre) davanti alla malattia del leader. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera l’8 Aprile 2023
Il futuro delle aziende e il ruolo dei cinque figli, ma anche di Fascina
Quanto è difficile la malattia di un leader. Quanta esposizione crudele e ineluttabile, quando in gioco non c’è solo la sofferenza personale e quella dei propri cari, ma anche la sorte di un impero economico, quella di un partito e di un governo, alleanze e relazioni internazionali, con la ragione di Stato che rivendica la sua parte. Silvio Berlusconi, quando fu operato al cuore e subì una terrificante convalescenza, confessò a pochi intimi di aver pensato alla morte, come fine del supplizio. Reazione umana che non gli impedisce ora di combattere, con tutte le sue forze e con buone speranze, la nuova battaglia. Né si stupisce del volare alto dello stormo degli avvoltoi garbati, che assistono mesti, chi trovando il modo di dire che gli era stata promessa una spilla di Trifari, chi un dipinto di de Chirico, chi qualche centinaio di migliaia di voti.
È in questo quadro, dalle tinte variabili, che l’anziano leader scopre, o ha la conferma, di avere una famiglia. Per interesse, in qualche modo non c’è dubbio, visto che parliamo del terzo uomo più ricco d’Italia, stando a Forbes, con più o meno sette miliardi di euro, e del trecentosettantottesimo Paperone del mondo. Senza trascurare che i soldi non solo si contano, ma si pesano, e il potere politico di relazione che li accompagna è incommensurabile. Ma il cordone di protezione familiare che intorno a lui si è stretto parla anche di altro, e cioè di un futuro comune, fatto di prospettive e di affetti profondi, e della speranza, non abituale nelle grandi famiglie, che il Fondatore abbia ancora anni da condividere con loro. E però. È certamente una situazione complessa quella che si è aperta. Non ci sono notizie certe che esista uno scritto o un qualcosa che prefiguri gli assetti futuri del gruppo. Del resto, è proprio del Cavaliere far strage di Delfini in politica e non prevedere, anche nel privato, un Dopo, almeno non pubblicamente. Tanti anni fa, a una vigilia elettorale, partecipò a un forum al Corriere. All’ingresso, in strada, subì una quasi aggressione, e poi affrontò domande anche brutali. Nulla turbò il suo buon umore, se non quando gli fu chiesto, era argomento di cronaca di quei giorni, se lui avrebbe donato i suoi organi. Si adombrò, cupo, e Paolo Bonaiuti sussurrò, inquieto: «Ma vi pare il modo?».
I cinque futuri eredi sono frutto di due matrimoni, finiti con un divorzio. Marina e Pier Silvio sono figli di Carla Elvira Lucia Dall’Oglio, Barbara, Eleonora e Luigi di Veronica Lario. I primi due, 56 e 53 anni, sono nati quando il padre costruiva il suo percorso, gli altri tre, nell’ordine, hanno 38, 36 e 34 anni. L’età non registra solo una differenza anagrafica, ma anche una partecipazione qualitativamente diversa alla crescita imprenditoriale della famiglia, pur invece paritaria sul fronte degli affetti. Marina è presidente di Fininvest, con il controllo del 7,65% delle azioni, guida Mondadori e siede nei consigli di amministrazione di Mediaset e Mediobanca. Pier Silvio è amministratore delegato e vicepresidente esecutivo del gruppo Mediaset e come la sorella possiede il 7,65% delle azioni Fininvest. Barbara siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest ed è amministratrice delegata di Holding italiana quattordicesima (H14), che controlla il 21,42 % di Fininvest. Il capitale di H14 è diviso in parti uguali tra Barbara, Eleonora e Luigi. Eleonora è quella con il ruolo più defilato, non siede in alcun consiglio di amministrazione. Luigi, il più piccolo, fa parte del consiglio di amministrazione di Fininvest e di banca Mediolanum, è amministratore unico della holding B cinque e presidente del consiglio di amministrazione di H14. Marta Fascina, come è noto, non è sposata, ma il suo ruolo di moglie, come l’ha definita Berlusconi nell’intervista a Paola Di Caro sul Corriere, potrebbe renderla partecipe del destino politico ma anche aziendale.
Persone diverse, madri diverse, situazioni diverse. Ce ne sarebbe abbastanza, gli esempi sono innumerevoli, per una guerra dei Roses moltiplicata per diecimila. Ma non è questa la strada che ha scelto la famiglia, che sta invece affrontando unita la tempesta. C’è poi il fronte strettamente politico, dove il ruolo di Silvio Berlusconi appare insostituibile, più che su altre barricate. Anche lì l’intervento della famiglia è stato fondamentale, accompagnando il leader nella scelta di raddrizzare la barra, nel frenare le ambizioni di chi pretendeva di pilotarlo, di controllarne l’agenda, di selezionare addirittura con chi dovesse parlare.
Insieme al Cavaliere e con l’aiuto di Marta Fascina, i figli hanno restituito il timone ad Antonio Tajani e ai consigli di Gianni Letta, che per un po’ era stato costretto ad assistere da lontano all’azione di dilettanti allo sbaraglio che portavano Forza Italia a sbattere. Naturalmente ci si interroga su che cosa sarà del movimento fondato dal Cavaliere e che ha saputo federare il centrodestra, oggi al governo con Giorgia Meloni. Le donne hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella famiglia di Berlusconi, a cominciare dalla madre, e dalla sorella. Difficile sfuggire alla suggestione che un domani possa essere Marina a portare avanti il testimone, l’unica tra i suoi figli ad avere talento per la politica. Ma, oltre ai suoi personali dinieghi, fa al momento fede il pensiero del padre, che a torto o a ragione ritiene di aver pagato un prezzo molto alto per il suo impegno e non vorrebbe per lei la stessa sorte.
Estratto dell’articolo di Fabrizio Massaro e Fabio Pavesi per “Milano Finanza” il 7 aprile 2023.
Da trent’anni ci sono due Silvio Berlusconi in Italia. C’è l’uomo politico che dalla discesa in campo sulle rovine di Tangentopoli permea di sé, nel bene e nel male, la scena politica italiana: quattro volte presidente del Consiglio tra il 1994 e il 2011, fondatore del centrodestra italiano, ha percorso per intero la lunga epopea della Seconda Repubblica. […]
E c’è il Berlusconi delle origini, l’imprenditore, Sua Emittenza, come veniva chiamato agli inizi dell’avventura televisiva, poi diventato il Cavaliere. O semplicemente “il Dottore”, come lo chiamano i suoi manager.
Da costruttore edile dagli anni 70, è riuscito a costruire un impero mediatico e finanziario come mai prima di lui in Italia, ingigantitosi in parallelo al ruolo di leader politico. Così è diventato uno degli uomini più ricchi del pianeta e, naturalmente, d’Italia. Nel ristretto club dei miliardari di Forbes la famiglia Berlusconi è accreditata di 6,8 miliardi di patrimonio […]
[…] Secondo quanto calcolato da MF-Milano Finanza sulla base dei dati di bilancio rielaborati dalle ricerche di R&S di Mediobanca, Berlusconi - e da un certo momento, anche i suoi figli - ha incassato cedole pari a 2,5 miliardi di euro. Una media di 85 milioni l’anno per trent’anni.
Una ricchezza iniziata proprio con il mattone con la Edilnord con la quale ha creato dal nulla Milano 2 e poi Milano 3 e proseguita con Fininvest, la finanziaria costituita nel lontano 1978 e che ha sotto di sé i gioielli di famiglia: oltre al mattone, Mediaset con la relativa raccolta pubblicitaria, Mediolanum, la Mondadori, il Milan e ora - una volta ceduta la squadra tanto amata - al Monza calcio […]
[…] Sopra Fininvest ci sono le holding personali di controllo di Silvio. Dapprima intestate solo a lui, poi a partire dal 2005 oggetto di un riassetto che, in vista della successione ereditaria, le ha distribuite tra i due rami successori: i figli Marina e Piersilvio da una parte, i figli Luigi, Barbara e Eleonora avuti dal secondo matrimonio dall’altra.
In origine le scatole di controllo della Fininvest erano 38, poi ridotte a 22, tutte denominate Holding Italiana, Prima, Seconda e via così […]
[…] Solo dal 2005 l’assetto viene razionalizzato scendendo da 22 scatole societarie alle attuali 7. Quelle che tuttora governano l’impero Fininvest. Le Holding italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava fanno capo al 100% al Cavaliere e tutte insieme posseggono il 61,2% della capogruppo.
Poi ci sono le quote di Marina e Piersilvio, pari al 7,65% ciascuna, raggruppate nelle Holding italiana Quarta (Marina) e Quinta (Piersilvio). Ai figli più giovani del Cavaliere Barbara, Eleonora, Luigi in quote proporzionali è andata la Holding Italiana Quattordicesima, che detiene il 21,42% della Fininvest. E’ nelle varie holding che affluiscono i dividendi staccati dalla Fininvest.
E dire che al momento della discesa in campo, nel 1993, Fininvest non era messa bene, Faceva utili per 11 miliardi di lire, equivalenti al cambio lira-euro attualizzato pari a poco più di 9 milioni di euro. Aveva un capitale netto per soli 1.450 miliardi di lire ed era piena di debiti, oltre 4 , 4 miliardi di lire tre volte il patrimonio netto.
Ma soli quattro anni dopo, in seguito alla quotazione in borsa di Mediaset e di Mediolanum che nel 1996 avevano salvato il gruppo, la situazione finanziaria patrimoniale si era invertita: nel 1997 Fininvest si ritrova con debiti finanziari pari circa l’’80% del capitale netto e con utili cumulati tra il ’95 e il ’98 per 1.500 miliardi di vecchie lire. La progressione è evidente.
Al cambio di passo del secolo, nel 2001, Fininvest si presenta con una redditività importante. Gli utili pre-tasse viaggiano al 10% dei ricavi. E il capitale netto si attesta a 2,74 miliardi di euro con un debito finanziario a 2,5 miliardi. Sempre meno leva e profittabilità più che buona.
Gli anni successivi confermeranno il trend che vediamo oggi. Del resto Fininvest poggia da anni su solide basi. Nel 2021 il Biscione vantava un attivo di 8,7 miliardi, ricavi per 3,8 miliardi con un patrimonio netto di gruppo di 3 miliardi, una redditività netta a due cifre sui ricavi (360 milioni l’utile) e un debito finanziario a un terzo del valore dell’equity.
Eppure la vecchia Mediaset pur resistendo sulla marginalità ha perso ricavi. Dal 2015 il gruppo televisivo ha lasciato sul terreno oltre un quarto del fatturato. Per Fininvest la voce tv comincia a farsi dura, dato che Mfe è oggi a bilancio a un valore di carico di 1 miliardo mentre in borsa la quota di Fininvest vale meno di 700 milioni.
Meglio, molto meglio, Mediolanum, il gruppo bancario della famiglia Doris di cui Fininvest controlla il 30%. A bilancio vale appena 116 milioni ma sul mercato quella quota capitalizza 1,9 miliardi di euro. Qui, al contrario di Mfe c’è una plusvalenza virtuale di quasi 20 volte.
Queste due macchine da soldi non potevano non far affluire ricche cedole alla famiglia e alle sette holding personali. Con metodo, tra l’altro. Un metodo certosino e non casuale. Da sempre la finanziaria di via Paleocapa stacca mediamente dividendi per un livello pari al 2-3% dei ricavi del gruppo. In media fanno appunto 85 milioni di euro l’anno.
Una media certo, dato che ci sono anni in cui il dividendo non viene erogato e però recuperato negli anni successivi con la distribuzione di riserve. Per esempio quando nel 2016 chiuse in perdita a causa della guerra con i francesi di Vivendi per la questione su Mediaset Premium e poi per la cessione del Milan. Un rosso recuperato l’anno successivo.
Il gruppo televisivo non ha ancora approvato i conti 2022 con la relativa cedola; lo hanno fatto invece la banca e la casa editrice. La prima staccherà a Fininvest 111 milioni, la seconda 15 milioni. Ma se si guarda solo al 2021, Fininvest ha reso molto bene: oltre 360 milioni di profitti netti e la cedola alla famiglia di 150 milioni, dei quali poco più di 90 milioni al Cavaliere. Marina e Piersilvio hanno incassato 11,7 milioni a testa. Mentre ai tre figli Barbara, Eleonora e Luigi sono finiti complessivamente 32,7 milioni.
Nel frattempo, in attesa delle cedole dell’anno appena concluso, nel 2022 i Berlusconi hanno già attinto alle riserve […]
In trent’anni quindi, dei 2,5 miliardi di dividendi totali, nelle holding personali di Silvio Berlusconi è finita una quota di circa il 61%. In denaro fanno 1,5 miliardi intascati direttamente dal Cavaliere a partire dalla sua discesa in politica. Il resto è in mano ai cinque figli.
Poi c’è il patrimonio. Le quattro holding personali del Cavaliere hanno in carico il 61% di Fininvest al costo storico di 237 milioni di euro. Ma il capitale netto di Fininvest è di 1,59 miliardi: una plusvalenza implicita di almeno 7 volte.
Berlusconi e la Politica.
(ANSA martedì 28 novembre 2023) - La Corte di Cassazione ha confermato oggi la condanna a 5 anni 6 mesi per l'ex senatore e ex banchiere Denis Verdini per bancarotta fraudolenta nel fallimento della Società Toscana di Edizioni che pubblicava il Giornale della Toscana.
Confermate anche le condanne degli altri imputati, 5 anni all'ex deputato di Forza Italia Massimo Parisi, 3 anni ciascuno a Girolamo Strozzi Majorca, Pierluigi Picerno e Gianluca Biagiotti in qualità di amministratori della Ste in varie fasi.
Il procuratore generale della Cassazione aveva chiesto l'annullamento della sentenza della corte di appello di Firenze nel maggio 2022 ma i giudici hanno dichiarato inammissibili i ricorsi presentati dagli imputati.
Denis Verdini sta già scontando alla detenzione domiciliare, per motivi di salute, nella sua abitazione di Firenze, una precedente condanna definitiva a 6 anni 6 mesi per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino, la banca di cui è stato presidente 20 anni.
Lirio Abbate per "la Repubblica" - Estratti mercoledì 29 novembre 2023.
È un banchiere in bancarotta, che ha sempre avuto il pallino della politica. L’ex senatore Denis Verdini, 72 anni, toscano, a furia di fare affari però è finito prima in carcere — e poi ai domiciliari — per due crac milionari. Proprio ieri la Cassazione gli ha confermato la seconda condanna, cinque anni e mezzo per il fallimento della Ste, che pubblicava “Il giornale della Toscana”, e non gli era andata meglio con il Credito cooperativo.
La politica, invece, l’ex parlamentare ha sempre continuato a gestirla, a suggerire strategie e intrecci di vari colori. E in famiglia vanta ancor oggi un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, compagno di sua figlia. Nei corridoi della Lega non si fa mistero del fatto che, in più di un’occasione, sia stato proprio il banchiere a suggerire alcune mosse politiche al leader del Carroccio, a cominciare dalla svolta moderata del “Capitano”.
Va detto che l’ex senatore Verdini, nonostante i suoi guai giudiziari, in questi anni ha sempre guardato avanti, a quel che sarebbe venuto dopo Berlusconi, al quale pure si era molto legato. È stato proprio Verdini a consigliare all’ex Cavaliere di benedire, come successore, il genero Matteo. L’investitura è arrivata puntuale in occasione delle finte nozze con Marta Fascina, quando — in favore di telecamere e cellulari — Berlusconi ha abbracciato calorosamente Matteo Salvini, dicendo che era l’unico amico politico di cui si poteva fidare. Senza però calcolare chi Salvini aveva accanto in coalizione: Giorgia Meloni. Questa variabile, Verdini non l’aveva presa in considerazione. Lui però è stato uno che non si è mai posto limiti.
D’altronde avrebbe voluto avere un ruolo anche nell’elezione del Capo dello Stato: autorizzato dai giudici, mentre era ai domiciliari, ad andare a Roma due volte alla settimana per alcune cure, dal suo quartier generale in via della Scrofa faceva all’epoca diverse telefonate amichevoli agli amici del centrodestra, suggerendo manovre. Ed è proprio grazie ai buoni collegamenti con la Lega che il banchiere è riuscito a far avere un posto in Parlamento anche ad Antonio Angelucci, sottraendolo a Forza Italia. Angelucci è un imprenditore della sanità privata e dell’editoria che muove molti capitali, e finanzia anche la Lega. Lui e Verdini sono legati in complessi intrecci, alla cui base ci sono movimenti di denaro.
Qualche anno fa la Banca d’Italia, dopo aver commissariato il Credito cooperativo fiorentino di cui Verdini era presidente (crac per il quale il banchiere è finito ai domiciliari), ha imposto a lui e a sua moglie, Maria Simonetta Fossombroni, di coprire il buco e ripianare il “rosso” di oltre nove milioni di euro. A salvare l’allora coordinatore del Pdl è stato proprio Angelucci.
(...) I rapporti con Dell’Utri sono sempre stati molto stretti, come pure quelli fra le loro mogli. C’è per esempio una conversazione intercettata dalla Dia di Firenze, nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi che coinvolge proprio Dell’Utri, in cui si racconta come le due famiglie fossero in collegamento e condividessero strategie, soprattutto in tema di denaro. Gli investigatori intercettano Miranda Ratti, moglie di Dell’Utri. La donna, si legge negli atti, «ritiene di essere portatrice, e titolare, di veri e propri diritti economici verso Berlusconi », per cui, parlando con Simonetta Fossombroni, la moglie di Verdini, insiste nel far capire «che il debito verso di loro è ancora aperto ».
E afferma: «È un fatto di principio; l’obiettivo va portato fino in fondo, io non mollo». Alla base c’è «una storia nostra». Secondo la Dia in queste parole di Ratti c’è «la consapevolezza che tutte le loro richieste, assecondate da Berlusconi, trovano fondamento in una sorta di risarcimento di quanto hanno patito nel tempo per colpa sua, per averlo, probabilmente, coperto». Gli investigatori di Firenze scrivono: «In quest’ottica scatta il ricatto».
La moglie di Dell’Utri si lamenta con quella di Verdini che Berlusconi sta ormai pagando chiunque mentre non ha ancora pagato i loro avvocati. La conclusione cui le due donne giungono è «certamente indicativa di cosa possa stare alla base delle continue dazioni economiche, e tramite cosa continuare ad ottenerle». «E, ma se uno non lo ricatta figlia mia...», dice infatti Simonetta Fossombroni, e Miranda Ratti le risponde: «È quello il punto». Il punto del patatrac di Verdini.
Il caso del senatore. Caso Gasparri, la legge dà ragione al senatore ma impone anche trasparenza…La legge 441 dà ragione al senatore, che non ha dichiarato di essere presidente di una società di cybersecurity. Ma il Codice di condotta del ‘22 impone trasparenza. Salvatore Curreri su L'Unità il 2 Dicembre 2023
La vicenda riguardante il sen. Gasparri, accusato da una nota trasmissione televisiva di non aver dichiarato una carica ricoperta in una società privata, costituisce un’utile occasione per fare un po’ di chiarezza sugli obblighi di trasparenza cui il parlamentare è soggetto.
Chiarezza peraltro imposta dalla delicatezza e complessità della materia. Come accennato, la vicenda in questione riguarda – a quanto pare – la carica di Presidente di una società di cybersicurezza che il sen. Gasparri sostiene non fosse suo obbligo includere tra le dichiarazioni che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 441/1982, i parlamentari devono rendere circa le loro attività finanziarie e patrimoniali.
In effetti, in base a tale disposizione, ogni parlamentare deve, tra l’altro, comunicare alla propria camera “l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società”. Nel caso specifico, il fatto che la legge si riferisca non alla mera titolarità di cariche amministrative ma all’esercizio di funzioni induce ad escludere l’obbligo di dichiarazione qualora il parlamentare non svolga funzioni amministrative all’interno della società.
Questo sembra essere il caso in questione se è vero, come sostiene il senatore, che egli ricopra la carica di Presidente di tale società senza compiti gestionali o operativi. Ad ogni modo, in caso di omessa dichiarazione sono previste solo sanzioni disciplinari interne (dalla censura fino all’interdizione dai lavori) e la sanzione morale dell’annuncio in Aula della sua inadempienza. È evidente che quest’ultima sanzione ha funzione prevalentemente preventiva, così da dissuadere il parlamentare dall’omettere comunicazioni che potrebbero esporlo alla pubblica riprovazione.
Ma ogni senatore, oltre a dichiarare le proprie attività finanziarie e patrimoniali, deve comunque dichiarare ogni incarico o ufficio ricoperto, retribuito o gratuito, esistente all’atto dell’accettazione della candidatura o assunta in corso di legislatura. Ciò al fine di permettere al Senato, tramite la Giunta delle elezioni e delle immunità, di valutarne la compatibilità con l’esercizio del mandato parlamentare.
Peraltro la Giunta, indipendentemente da quanto comunicato dai senatori, può in ogni caso svolgere accertamenti sulle cariche e sugli uffici ricoperti di cui comunque abbia avuto notizia, come nel caso in questione, divenuto ormai di dominio pubblico.
Ai fini della verifica di cause d’incompatibilità, non spetta dunque al singolo senatore decidere quali cariche ricoperte dichiarare, non foss’altro perché nessuno è buon giudice di sé stesso.
Piuttosto egli deve dichiarare ogni carica così da permettere alla camera d’appartenenza di valutare se essa sia incompatibile con il libero esercizio del suo mandato parlamentare. Se così non fosse, e se dunque la carica fosse dichiarata incompatibile, il parlamentare è chiamato a scegliere espressamente quale tra le due mantenere; altrimenti, egli potrebbe essere dichiarato decaduto dal mandato dall’Assemblea.
Di tali due comunicazioni e delle loro diverse finalità si trova oggi riscontro nel Codice di condotta dei senatori che il Consiglio di Presidenza del Senato ha approvato il 26 aprile 2022. Tale Codice, infatti, nello stabilire “principi e norme di condotta ai quali i Senatori devono attenersi nell’esercizio del mandato parlamentare”, impone ai senatori sia di dichiarare le attività patrimoniali e finanziarie e i finanziamenti ricevuti, sia tutte le cariche e gli uffici ricoperti a qualsiasi titolo, retribuiti e gratuiti, compilando un apposito foglio-notizie.
Sull’osservanza di tali obblighi – inclusi quelli di trasparenza – vigila il Consiglio di Presidenza del Senato (di cui lo stesso Gasparri faceva parte fino a pochi giorni fa) che, su richiesta del Presidente, svolge gli accertamenti istruttori necessari, in contraddittorio con il senatore interessato.
Al loro esito – fatto salvo l’obbligo di denuncia in presenza d’ipotesi di reato (art. 331 c.p.p.) – il Presidente potrebbe proporre al Consiglio dei Presidenza l’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti del senatore interessato qualora fossero emersi fatti di particolare gravità in grado di determinare una alterazione del principio della libertà di mandato ovvero di compromettere il prestigio del Senato.
Ai sensi della normativa vigente, dunque, la carica societaria ricoperta dal senatore Gasparri, se non denunciata a fini di trasparenza in quanto non comportante lo svolgimento di funzioni operative, avrebbe comunque dovuto essere comunicata sia ai medesimi fini di trasparenza sulla base di quanto previsto dal Codice di condotta dei senatori, sia ai fini dell’accertamento di eventuali incompatibilità alla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentare, così da permettere a tale organo di valutare se essa abbia potuto incidere così negativamente sul libero esercizio del mandato parlamentare fino al punto da proporre la decadenza del senatore che non vi abbia espressamente rinunciato.
Tutto ciò al netto dei noti dubbi che si nutrono da tempo circa l’effettiva imparzialità del giudizio di un’assemblea – per sua natura politica – circa la regolarità del procedimento elettorale e la sussistenza di cause d’incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità dei propri membri. Dubbi alimentati da non commendevoli precedenti in cui, sulla base della massima giolittiana per cui le leggi s’interpretano per gli amici e si applicano per i nemici, alla fine la ragione della forza ha prevalso sulla forza della ragione.
Salvatore Curreri 2 Dicembre 2023
L’inchiesta di Report sul ruolo «omesso». Gasparri reagisce: tutto trasparente. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023.
Il capogruppo al Senato di Forza Italia accusato di non aver segnalato la presidenza in una società di cybersicurezza. «Ma non ho ruoli operativi»
«Sembrava Striscia la notizia...». Maurizio Gasparri a caldo, ieri sera un minuto dopo la messa in onda della puntata di Report che gli ha dedicato la prima parte di un’inchiesta che avrà un seguito nelle prossime settimane, cerca di derubricare le accuse che i giornalisti guidati da Sigfrido Ranucci gli hanno rivolto. Al neo capogruppo di Forza Italia al Senato i reporter contestano di non aver segnalato di essere il presidente di una società di cyber security (la Cyberealm) che si avvale di manager e collaboratori che hanno rapporti con i servizi segreti di Paesi stranieri (Israele in particolare).
Secondo l’inchiesta giornalistica, Gasparri avrebbe tenuto relazioni istituzionali per l’assegnazione di commesse tenendo all’oscuro la sua Camera di appartenenza. Secca la risposta: «Cyberealm non ha stipulato contratti con nessuno in Italia o altrove, né ha commesse di alcun genere». Al rilievo sulla mancata comunicazione al Senato del ruolo ricoperto, il parlamentare di Forza Italia risponde che l’incarico «non comporta alcuna attività di gestione. Per questa ragione si è ritenuto che non rientri in quei casi di “funzione di amministratore o di sindaco di società” che vanno segnalati al Senato secondo la legge 441/1982».
Per i giornalisti di Report , invece, la mancata segnalazione del ruolo di presidente di Cyberealm violerebbe un obbligo di trasparenza che per il regolamento del Senato potrebbe comportare un provvedimento disciplinare o addirittura la decadenza. «Peccato che a giudicare sarebbe stato il consiglio di presidenza di Palazzo Madama — ha osservato in trasmissione Ranucci — di cui fino a pochi giorni fa Gasparri faceva parte» (e anche questo avrebbe spinto allo «scambio» con Licia Ronzulli tra guida del gruppo parlamentare e vicepresidenza del Senato).
Report ha ricostruito le attività della società di sicurezza informatica e chiama in causa figure che hanno intessuto rapporti con i servizi segreti israeliani o che hanno avuto problemi con la giustizia americana. «Gasparri ha chiesto la mia audizione davanti alla commissione di Vigilanza Rai — ha spiegato Ranucci — accusandoci di aver confezionato un’inchiesta per vendetta, ma lui ne conosceva l’esistenza già da venti giorni. Ci ha accusato e denigrato solo perché abbiamo scoperto i suoi interessi privati».
Gasparri conclude sottolineando che le attività della società «non hanno alcuna relazione con attività politiche di alcun tipo, né hanno interferito con decisioni politiche passate o recenti». Ma la vicecapogruppo M5S a Montecitorio Vittoria Baldino va all’attacco: «Qui siamo di fronte al solito utilizzo distorto delle istituzioni, che vengono piegate ad interessi personali e particolari». La richiesta, anche di Bonelli (Avs), è di lasciare la Vigilanza Rai, la replica è un secco no.
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” mercoledì 29 novembre 2023.
Destinare il 3% del valore di ogni opera del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che preveda l’acquisizione di un elemento digitale alla cybersicurezza, aumentando i volumi di affari delle imprese del settore. Ma non solo: la Rai dovrà occuparsi di educare i cittadini alla cultura cibernetica. A febbraio 2023 e poi sei mesi dopo, il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che dal giugno del 2021 presiede la società Cyberealm Srl senza dichiararlo al Senato, ha presentato due emendamenti sulla cybersicurezza, principale business dell’azienda.
Il primo è stato bocciato dal governo che ne aveva chiesto il ritiro, mentre il secondo è stato assorbito nel nuovo contratto di Servizio Rai approvato dalla commissione parlamentare di Vigilanza.
Proposte parlamentari che dimostrerebbero l’attenzione del senatore azzurro per il settore della sicurezza informatica, aumentando la pressione sul potenziale conflitto d’interessi non dichiarato di Gasparri e scoperto domenica dalla trasmissione d’inchiesta di Rai3, Report.
Il primo emendamento firmato da Gasparri insieme ai colleghi di partito Adriano Paroli e Dario Damiani è stato presentato in commissione Bilancio del Senato al decreto del 24 febbraio 2023 sull’attuazione del Pnrr.
La norma, proposta anche dagli altri partiti di maggioranza perché richiesta dalle aziende del settore, prevedeva di legare le opere del Pnrr alla cybersicurezza e aumentare il volume di affari delle imprese che vendono prodotti e software legati alla sicurezza cibernetica.
[…] Gasparri proponeva che per qualsiasi opera del Pnrr che comportasse l’acquisizione o la “messa in funzione” di un elemento digitale, si introducesse una sorta di “quota cyber”: almeno il 3% delle risorse dovevano essere spese per l’acquisizione di beni e servizi “atti a garantire, o a incrementare la sicurezza cibernetica degli elementi digitali”.
In sostanza, le imprese vincitrici di appalti del Pnrr avrebbero garantito un investimento cospicuo sulla sicurezza informatica, aumentando quindi il volume di affari delle aziende del settore che vendono prodotti o software cyber, proprio come la società presieduta Gasparri e le sue partecipate.
Per attuare questa norma sarebbe stata l’agenzia per la Cybersicurezza [...] a fare da consulente e nei bandi sarebbero stati inseriti meccanismi di “premialità” per le “proposte o per le offerte, che contemplino l’uso di tecnologie di cybersicurezza nazionali o europee”. Dopo il parere negativo del governo, le aziende della sicurezza informatica hanno protestato con articoli sui siti specializzati come cybersecurityitalia.it.
Il secondo emendamento, invece, è più recente e rispetto a quello sul Pnrr è andato a buon fine: a settembre Gasparri ha firmato una proposta di Forza Italia al contratto di Servizio Rai, […] che imponeva all’azienda di “intensificare la frequenza e di migliorare il collocamento nei palinsesti” di programmi relativi “all’educazione e alla cultura informatica, alla disciplina giuridica del web, alla cybersicurezza e alla sostenibilità digitale”. Emendamento, firmato anche dai colleghi azzurri, su cui la maggioranza ha dato parere favorevole […] . Insomma, la tv di Stato dovrà aumentare i programmi legati alla cybersicurezza.
Il 3 agosto 2021, invece, Gasparri era intervenuto in dichiarazione di voto finale nella discussione al Senato per approvare la legge che istituiva l’agenzia sulla Cybersicurezza. “Un’occasione da non perdere – diceva Gasparri – perché il Pnrr investe anche nella sicurezza tecnologica, nella modernizzazione delle reti e quindi anche nella cybersecurity”. Una passione che ha portato il senatore a presentare gli emendamenti due anni più tardi.
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” venerdì 1 dicembre 2023.
Negli ultimi due anni il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha partecipato a quattro convegni che riguardavano i temi della cybersicurezza nella sua veste di vicepresidente del Senato. E lo ha fatto continuando a non dichiarare di aver assunto, dal 17 giugno 2021, la presidenza della Cyberealm, la società che si occupa proprio di sicurezza informatica. In ognuno di questi eventi è stato presentato come vicepresidente del Senato e spesso attraverso la formula dei saluti istituzionali.
Dopo i due emendamenti […] sul tema della cybersicurezza, anche la partecipazione di Gasparri ai convegni dimostrerebbe l’attenzione del senatore azzurro per il settore della sicurezza informatica, aumentando la pressione sul potenziale conflitto d’interessi non dichiarato […] e scoperto domenica dalla trasmissione d’inchiesta di Rai3, Report. Tanto più che a questi convegni avevano partecipato alcune delle principali imprese del settore cyber.
Il primo […] in ordine di tempo risale al 30 giugno 2021, tredici giorni dopo la nomina a presidente di Cyberealm. L’evento era stato organizzato da Federsicurezza, azienda che si occupa della sicurezza della Vigilanza e Privata e in parte anche di intelligence, con l’obiettivo di incontrare le istituzioni.
Tra i partecipanti c’era anche l’allora presidente del Copasir […] Adolfo Urso. In quell’occasione, Gasparri era intervenuto come senatore per sostituire l’esponente del Copasir di Forza Italia, Elio Vito, spiegando di “conoscere bene il settore” […].
Il secondo incontro è del 2 febbraio scorso: a Palazzo Giustiniani era stata presentata l’indagine dell’istituto Piepoli sul tema dei cyber risk e del progetto “Giovani Ambasciatori per la cittadinanza digitale contro cyberbullismo e cyber risk”. L’incontro era stato organizzato da Moige (Movimento Italiano Genitori) e nel suo intervento Gasparri aveva ribadito l’importanza dell’educazione all’uso dei social ma anche ribadendo l’attenzione sui rischi cyber.
A marzo, un mese dopo, Gasparri viene invitato alla Cybersec 2023, uno degli eventi più importanti del settore organizzati dal quotidiano online cybersecurityitalia.it a cui partecipano le maggiori istituzioni e imprese della cybersicurezza. Il titolo dell’evento è “Nuovi domini, guerre ibride e cooperazione” e l’esponente di Forza Italia viene invitato al panel “Pnrr, prevenzione e Partnership pubblico-privato”.
[…] A maggio di quest’anno, poi, il senatore di Forza Italia ha organizzato a Palazzo Madama un incontro sul tema delle telecomunicazioni e in particolare della telefonia dal titolo “Piange il telefono, dal caso Blu alla crisi Tim”. Un argomento legato solo in parte alla cybersicurezza ma che viene inserito nel più ampio comparto della Rete unica e degli asset strategici italiani.
Evento che viene descritto così. L’azzurro invitato a parlare di intelligence dal sito affaritaliani.it: “Rete unica, Gasparri ruba la scena a Urso e Butti”. Ovvero i due ministri che hanno la delega al digitale.
Negli ultimi mesi, poi, il vicepresidente del Senato era stato invitato ad altri due eventi legati alla sicurezza informatica – la presentazione del rapporto Censis sul valore della cybersecurity in Italia e il premio Mosca organizzato dalla Società di intelligence italiana – ma non risulta la sua partecipazione. Nei volantini di entrambi i convegni, però, Gasparri era stato presentato unicamente come vicepresidente del Senato. […]
Spy game. Report Rai PUNTATA DEL 26/11/2023
Un'anteprima dell’inchiesta sugli interessi nella cybersicurezza del Senatore Gasparri
Le anticipazioni dell’inchiesta di Report sulle attività private nella cybersicurezza del senatore Maurizio Gasparri sono già diventate un caso nazionale. Nelle scorse settimane Gasparri si è scagliato ripetutamente contro Report, agitando la famosa carota in Commissione di Vigilanza Rai, quando però era già a conoscenza del servizio su di lui.
SPY GAME Di Carlo Tecce e Lorenzo Vendemiale Immagini Cristiano Forti, Carlos Dias, Paco Sannino, Dario D’India, Chiara D’ambros Montaggio Marcelo Lippi
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Dal 2001 al 2005 Maurizio Gasparri è stato ministro delle Comunicazioni nel governo Berlusconi. Proprio in quegli anni, lo Stato cede un suo asset strategico, l’azienda Telit. Telit nasce a Trieste nel 1986, per opera di un gruppo di esperti militari. All’inizio produceva telefoni portatili, poi si è specializzata nella ricerca e nella tecnologia wireless. Nel 2003, quando Gasparri è ministro viene acquistata dalla israeliana Dai Telecom, guidata da Oozi Cats
CARLO TECCE Lei, finito il mandato di ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi, entrò nel cda di Telit.
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Per qualche tempo. Restiamo sulle domande che dobbiamo fare, questa domanda non era prevista.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Alle domande non previste, anche se di interesse pubblico visto il suo ruolo, preferisce non rispondere. Ma è proprio in Telit che Gasparri stringe i rapporti con le persone che oggi lo hanno voluto in Cyberealm, una scatola societaria che detiene quote di altre aziende, specializzate nel campo della sicurezza informatica e della difesa contro gli attacchi hacker.
CARLO TECCE E chi l'ha introdotta in questa società? Chi l'ha nominata?
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Conosco le persone che animano questa società da decenni, quindi hanno ritenuto che la mia competenza potesse essere utile per ruoli appunto di consulenza
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Nel verbale di nomina risulta, tra gli altri poteri conferiti, anche quello di curare e gestire i rapporti istituzionali.
LORENZO VENDEMIALE Dovrebbe curare i rapporti istituzionali per Cyberealm con le istituzioni di cui fa parte.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Così è scritto nel verbale di nomina.
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Nessun ruolo operativo. Il presidente dà dei pareri, dei consigli su quelle che possono essere le scelte strategiche.
CARLO TECCE Gasparri presidente che ha rapporti con Gasparri senatore
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Con chiunque si occupi di cose che possono interessare a questo gruppo
CARLO TECCE Relazioni anche con la politica
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Potrebbe capitare. Adesso non ricordo incontri con dei politici, però è chiaro che si parla con chiunque
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Gasparri non li nomina, immaginiamo perché i suoi compagni d’avventura non sono degli imprenditori qualsiasi. Il titolare della società è l’italoisraeliano Leone Ouazana, che è stato a lungo direttore delle relazioni istituzionali di Telit e che oggi svolge attività di interesse nazionale nel suo Paese.
LEONE OUAZANA – PROPRIETARIO DI CYBEREALM Eccomi, ci siamo, ci siamo. Intanto vi ringrazio, mi presento: sono Leone Ouazana. Dunque premessa, come le ho anticipato, io faccio attività abbastanza sensibile e delicata qui in Israele. Io adesso mi vedete, io adesso rientro dentro, continuo in vocale.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il titolare della società di cui Gasparri è presidente rientra nella War Room, in quanto sta gestendo attività sensibili nell’ambito del conflitto israelo palestinese
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Ma Report ha scoperto che dietro Cyberealm si nasconderebbe anche un altro discusso imprenditore israeliano, molto legato a Ouazana. Si tratta di Oozi Cats, ex n.1 di Telit fino al 2017, quando viene travolto da uno scandalo: emerge che all’inizio degli Anni Novanta, quando viveva negli Stati Uniti sotto un’altra identità, Cats era finito sotto indagine dell’Fbi per una frode da 5 milioni di dollari su mutui di immobili dal valore gonfiato. Dopo lo scandalo americano, Cats viene cacciato da Telit. Sparisce dai radar. Riemerge dal nulla a Viterbo, alla fine del 2022, quando tenta di acquistare la Viterbese.
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO La trattativa è stata brevissima. si è arenata perché non è stato raggiunto un accordo economico
LORENZO VENDEMIALE Ovviamente voi vi siete incontrati.
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO Sì sì ci siamo incontrati 3 o 4 volte.
LORENZO VENDEMIALE Lui parla italiano?
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO No no, parlavamo inglese. C'era una persona pure lui di religione ebraica che parlava italiano.
LORENZO VENDEMIALE E si ricorda come si chiamava
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO sì sì Leone.
LORENZO VENDEMIALE Leone Ouazana
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO Io adesso non ricordo il cognome, non ricordo sinceramente… Sì, penso che fosse lui
LORENZO VENDEMIALE Ah, vede, com'è piccolo il mondo… Politica? In questa trattativa ci sono mai stati contatti politici.
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO No, no. C'è un vabbè poi glielo dico poi lo dico magari in separata sede..no no no no non glielo dico… vabbè, diciamo che un minimo di contatto con la politica… cioè nel senso loro si vantavano di avere rapporti politici.
LORENZO VENDEMIALE ah sì. con chi?
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO e non glielo posso dire
LORENZO VENDEMIALE Gasparri?
MARCO ARTURO ROMANO – PRESIDENTE A.S. VITERBESE CALCIO Se lei lo sa, se lo dice vuol dire che lo sa
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Adesso Report scopre che Oozi Cats sarebbe di nuovo attivo in Italia, come rappresentante occulto della società Cyberealm, in un incontro ufficiale all’Agenzia delle Dogane favorito dallo stesso Gasparri.
FONTE AGENZIA DELLE DOGANE A luglio la società Cyberealm ci ha chiesto un appuntamento. Volevano presentarci un particolare software informatico che catalogava le merci. Poi l’affare non si è concluso perché il programma non ci ha convinto, sia per le funzioni e soprattutto per il costo
CARLO TECCE Chi ha partecipato all’incontro?
FONTE AGENZIA DELLE DOGANE Alla segreteria del direttore Alesse sono stati registrati due nomi: un certo Arik Ben Haim, mai sentito primo. E Oozi Cats
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO L’altro rappresentante di Cyberleam è Arik Ben Haim: in Italia nessuno sa chi sia, ma Report è riuscita a ricostruire la sua identità. Si tratta di un ex dirigente al vertice dei servizi segreti israeliani, che in pensione si è dedicato all’attività imprenditoriale. Ora è stato richiamato dal governo e proprio in questi giorni è coinvolto nella gestione del conflitto contro Hamas.
LORENZO VENDEMIALE Ministro Report, buonasera
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Che è successo.
LORENZO VENDEMIALE Volevo sapere che cosa pensa del caso di Gasparri e della società di cybersicurezza
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Uh, mamma mia! E che cosa penso!
LORENZO VENDEMIALE Lei però è ministro degli esteri… lei trova normale che … 1.53 un vicepresidente del Senato abbia legami con una società attorno a cui ci sono persone vicini ai servizi di un altro Paese?
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Non mi pare sia vietato dalla legge
LORENZO VENDEMIALE Ma lei lo trova normale, cioè lei è contento che un membro del suo partito abbia questo genere di relazioni
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Non è che io devo essere contento o non contento…
LORENZO VENDEMIALE Lei lo sapeva, voi lo sapevate? Almeno nel partito ve lo aveva dichiarato?
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Uno fa le domande, non è mica un interrogatorio
LORENZO VENDEMIALE ma non mi ha risposto
CARLO TECCE Senatore, lei sapeva che Cyberealm ha uomini legati ai servizi segreti di un paese straniero?
CARLO TECCE Lo sapeva quando li introduceva nelle istituzioni italiane?
CARLO TECCE Senatore, un’ultima domanda: Cyberleam ha rapporti con i servizi segreti?
CARLO TECCE Senatore, solo una domanda, la domanda è semplice. Quando lei ha introdotto Cyberleam nelle istituzioni sapeva che dentro e attorno a Cyberleam ci sono rappresenti o collaboratori di servizi di intelligence straniera?
MAURIZIO GASPARRI Sto parlando di cose private con un amico. C’è la privacy lo sa? Sto parlando con lui di fatti miei.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Gasparri è presidente di una società che ha direttamente o indirettamente relazioni con lo Stato. Ma questa carica non l’ha dichiarata al parlamento
CARLO TECCE Nella dichiarazione sulla situazione patrimoniale del Senato questa carica non è menzionata
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO La legge prevede che siano da indicare funzioni di amministratore o di sindaco. Io non sono né sindaco né svolgo funzioni di amministratore.
CARLO TECCE qui lei cita che è membro del Cda della Fondazione Alleanza Nazionale. Potrebbe anche citare che è membro del cda...
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Sì perché è un incarico politico... si potrà anche citare, però non ha...
CARLO TECCE Ma poi non succede nulla perché le leggi sono più che permissive
MAURIZIO GASPARRI – CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Guardi ne stiamo parlando in televisione e quindi non c'è nulla da nascondere
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Ora il capogruppo del Movimento 5 stelle, Stefano Patuanelli, vuole portare il caso in Senato, di cui Maurizio Gasparri è stato vicepresidente fino alla settimana scorsa. Senza questo passo indietro, sarebbe stato membro del Consiglio di presidenza che valuta la condotta dei parlamentari, e quindi anche la sua. Mentre la giunta per le elezioni valuta l’eventuale incompatibilità tra le cariche. In compenso, Gasparri ora è diventato capogruppo di Forza Italia, e rimane in Vigilanza Rai dove si è spesso lamentato delle inchieste di Report fino ad arrivare a una convocazione il 7 novembre scorso. Quando però era già a conoscenza da circa 20 giorni della nostra inchiesta su di lui
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA guardi, vuole un po’ di cordiale? Non si preoccupi, non si scomponga. C’ho anche la carota se qualcuno c’ha paura della Commissione di vigilanza
CARLO TECCE Senatore lascia la Vigilanza Rai?
MAURIZIO GASPARRI Quando mai! Non lascerò mai la Vigilanza.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Andremo all’origine della carota. Il senatore ci ha convocato in Commissione di Vigilanza Rai il 7 novembre scorso quando già sapeva da oltre 20 giorni che noi stavamo realizzando un’inchiesta su di lui. Sapeva che avevamo scoperto che era presidente di una società di Cybersecurity e che i collaboratori di questa società chiari e anche occulti erano in qualche modo legati ai servizi segreti di un Paese straniero. Tuttavia in commissione di Vigilanza ci ha attaccato, ha denigrato Report, e il giorno successivo ha in qualche modo denunciato la rai per dei commenti che sono stati messi sui nostri social contro di lui. Poi il giorno successivo h anche detto sempre in commissione di vigilanza che Report stava realizzando un servizio per vendetta per l’audizione. Cosa che non è vera, lo sapeva benissimo erano oltre 20 giorni che stavamo realizzando questa inchiesta. E poi ha usato l’istituto dell’interrogazione parlamentare si è rivolto al ministro della Giustizia Nordio sollecitando a inviare gli spettori presso le procure che stavano indagando sul sottoscritto e su Report. Il Senatore Gasparri si è dimesso dal ruolo di vicepresidente del senato, in questi giorni è stato nominato capogruppo di Forza Italia, è stata una scelta opportuna perché il senatore Gasparri in qualità di vicepresidente del Senato sarebbe entrato nel consiglio di presidenza che avrebbe dovuto giudicare il comportamento del senatore Gasparri. Lui dice io ho un ruolo come presidente in questa società che non è operativo e quindi non è incompatibile. Però intanto avrebbe dovuto comunicarlo per legge. E poi i regolamenti dicono altro, che proprio per mancata trasparenza ci sono delle sanzioni che possono andare dal provvedimento disciplinare alla decadenza, solo che dovrebbero giudicare gli stessi componenti della sua maggioranza. Poi ci sarebbe una gravità sostanziale. Il senatore Gasparri è nelle commissioni Esteri e Difesa oltre che in quella sulla Vigilanza Rai, e svolge un ruolo di rappresentante di relazioni istituzionali in una società che fa cyber security, dove operano dei collaboratori in chiaro e anche occulti legati agli apparati di sicurezza di un Paese straniero. E questa società opera direttamente e indirettamente con la Pubblica amministrazione, con lo Stato. Tutto questo è normale? Ce lo chiediamo e lo chiediamo al Parlamento. Report tornerà con un’altra inchiesta rivelando ulteriori dettagli
Carote e spyware. Report Rai PUNTATA DEL 03/12/2023
di Lorenzo Vendemiale e Carlo Tecce
L'inchiesta integrale sugli interessi privati del Senatore Gasparri nella cybersicurezza.
Dopo le anticipazioni degli scorsi giorni,
l'inchiesta integrale di Report sugli interessi privati del Senatore Maurizio
Gasparri nella cybersicurezza. Report ha scoperto che Gasparri, da
vicepresidente del Senato prima e ora da capogruppo di Forza Italia, è stato ed
è ancora presidente anche di Cyberealm, una società specializzata nella
sicurezza informatica. Ma chi c’è davvero dietro Cyberealm? E qual è il ruolo,
mai dichiarato al Parlamento, di Maurizio Gasparri? Dall’inchiesta emerge che
l’azienda, in cui operano rappresentanti ufficiali e occulti vicini ad apparati
stranieri, ha rapporti diretti e indiretti con le nostre istituzioni.
- La nota Atlantica Cyber Security a Report
- La nota di Deloitte smentisce Atlantica Cyber Security
- La nota Atlantica Cyber Security a Report
Queste sono le risposte del gruppo Atlantica alle nostre domande arrivate in redazione venerdì 1 dicembre 2023. 1. Atlantica Digital e Atlantica Cyber Security, acquistate da un veicolo riconducibile a un gruppo francese, hanno notificato a Palazzo Chigi, come previsto dalla normativa sul Golden Power, le operazioni societarie concluse nel 2022 riguardanti anche l’acquisto del 25% di Cyberealm in Atlantica Cyber Security? Sì 2. Il 25% di Cyberealm è stato pagato 1,2 milioni di euro nel giugno 2022, due mesi dopo che le stesse azioni, in altre operazioni, erano state valutate 25.000 euro. Perché l’acquirente SM4, proprietaria di Atlantica, ha ritenuto di valorizzare così tanto quella quota? Premettiamo che i soci di Atlantica Cyber Security per creare il SOC e avviare la società hanno versato in proporzione oltre al capitale di 100.000 € un importo di circa 1 milione di €. A titolo di finanziamento soci. Nel considerare la plusvalenza dell’operazione va quindi considerato l’intero investimento. Il ritorno di 48 volte evocato nella precedente trasmissione non è corretto perché il ritorno reale è di poco più del doppio. Evidenziamo inoltre che la società Atlantica Cyber Security è stata valutata da uno dei principali advisor mondiali sulla base dei valori di mercato per aziende simili, e su modelli ampiamente riconosciuti dal mondo finanziario e dai fondi di private equity per le startup tecnologiche early-stage (ad alto potenziale di crescita). Ad esempio, Cyberoo, CY4Gate, Sababa, società quotate, di piccole dimensioni, e attive nel segmento della cybersecurity in Italia, hanno una capitalizzazione di borsa che esprime multipli del fatturato fino a 10x, di EBITDA (marginalità operativa) in alcuni casi (Sababa) fino a 35x, e addirittura (Cyberoo) 95x gli utili. La precedente operazione fatta al valore nominale tra i soci di Atlantica Digital non è una cessione ma una ridistribuzione delle quote tra gli stessi soci e quindi non paragonabile. 3. Quali strutture/conoscenze Cyberealm ha conferito in Atlantica Cyber Security e quali servizi fornisce? Cyberealm non ha conferito nessuna struttura né conoscenza ad a Atlantica Cyber Security e non fornisce nessun servizio. 4. Il Security Operation Center (Soc) di Atlantica Cyber Security è già operativo? Ha già clienti? Quale è stato il contributo tecnologico e/o finanziario di Cyberealm e di C4gate del gruppo Elettronica spa? Il SOC di Atlantica è operativo dal 2020 e ovviamente ha dei clienti. Cyberealm come già detto non ha dato nessun contributo tecnologico a Atlantica Cyber Security. Ha partecipato, come detto in precedenza, in proporzione al finanziamento soci di circa 1.000.000 € in Atlantica Cyber Security. CY4Gate è un fornitore/partner tecnologico di Atlantica Cyber Security . 5. Qual è il ruolo di Atlantica Cyber Security nella gara Consip CIG 8884642E81 vinta dal raggruppamento Deloitte-Ye? Nessun ruolo. Atlantica non ha partecipato alla gara 6. Come è nata la collaborazione col raggruppamento Deloitte-Ey? Corrisponde al vero che è stata l’azienda Atlantica Cyber Security a proporre alle due multinazionali di partecipare alla gara mettendo a disposizione le sue capacità nel settore? Non c’è nessuna collaborazione con il raggruppamento Deloitte-EY. Certamente due multinazionali di quel calibro non hanno bisogno di una piccola società per partecipare ad una gara di diverse decine di milioni di €. Le capacità di Atlantica ed i suoi servizi sono a disposizione di tutti gli operatori del settore che desiderano acquistarle secondo un modello ampiamente diffuso nelle società digitali. 7. In merito alla gara Consip, quali software fornisce Atlantica Cyber Security? Ci risulta che fin qui il servizio, identificato con CIG 8884642E81, sia stato fornito alle Regioni Puglia, Friuli, Veneto, al ministero del Turismo, all’agenzia Agid, alla Polizia di Stato. Ci sono altre pubbliche amministrazioni che hanno aderito? Ripetiamo; Atlantica Cyber Security non ha mai fornito nessun sotware in merito alla gara Consip. 8. Come mai il ruolo di Atlantica Cyber Security non è stato segnalato a Consip? Atlantica non ha mai avuto nessun ruolo nella gara Consip 9. Gli amministratori e i dirigenti di Atlantica Cyber Security e la stessa azienda sono dotati di Nulla osta sicurezza (Nos)? La società e il gruppo non lavorano su progetti che implicano la trattazione di informazioni classificate “riservatissimo” o superiore.
- La nota di Deloitte smentisce Atlantica Cyber Security
Gentilissimi, vi contattiamo dalla redazione di Report, il programma di Rai3, perché nella prossima puntata di domenica 2 dicembre ci occuperemo di cyber sicurezza e anche dei servizi di penetration test. A questo proposito, vi scriviamo perché avremmo bisogno di alcune informazioni in merito alla gara Consip – lotto 2 vinta dalla vostra azienda Deloitte in raggruppamento con EY. In particolare, la società Atlantica Cyber Security (p.i. 15806171003), di cui ci occuperemo diffusamente nel nostro servizio, nel suo bilancio 2022 scrive che “la società, avendo proposto al raggruppamento Deloitte-EY di rispondere al lotto 2 della convenzione, questo ha generato l'assegnazione di una nuova convenzione CONSIP SPC Cloud, sul tema dei Vulnerability Assessment e Penetration Test. La soluzione adottata dalla Atlantica Cyber Security, ha ridotto notevolmente il costo di questi servizi. Il raggruppamento è risultato vincente e il valore stimato in questo lotto per questa attività è di circa 7milioni di euro su 3 anni. Il raggruppamento utilizzerà il nostro servizio per rispondere alle PAL che faranno richiesta”. Vorremmo quindi sapere dalla vostra azienda: - Qual è il ruolo di atlantica cyber security nella gara Consip CIG 8884642E81 vinta dal raggruppamento Deloitte-EY? - Come è nata questa collaborazione? Corrisponde al vero che è stata l’azienda Atlantica Cyber Security a proporvi di partecipare alla gara? - Quale software fornisce Atlantica? - Come mai il ruolo di Atlantica non è segnalato a Consip nell’offerta tecnica? - A quali amministrazioni pubbliche è stato fin qui erogato il servizio? Per esigenze di produzione, vi chiediamo di rispondere entro e non oltre le ore 18 di oggi, giovedì 30 novembre. Per qualsiasi motivo potete contattare direttamente l’autore del servizio, Lorenzo Vendemiale, al numero xxxxxxx Certi di una vostra collaborazione, cordiali saluti, Redazione Report -Rai3 Gentilissimi, facciamo seguito alla vostra richiesta in calce per segnalare, anzitutto, che Deloitte Risk Advisory S.r.l. S.B. apprende soltanto adesso del passaggio da voi riportato e contenuto nel bilancio 2022 della società in questione. In relazione a tale circostanza evidenziamo che Deloitte Risk Advisory S.r.l. S.B. svolgerà le dovute valutazioni al fine di tutelare i propri interessi. Rispetto alla gara in oggetto si precisa inoltre che, il Raggruppamento Temporaneo di Imprese (RTI) composto da Deloitte Risk Advisory S.r.l. S.B. (in veste di Mandataria) - EY Advisory S.p.A. e Teleco S.r.l. (in veste di Mandanti) ha sottomesso la propria offerta in data 7/10/2021. La gara è stata aggiudicata al Raggruppamento da CONSIP in via non efficace in data 26/01/2022 ed in via definitiva in data 16/03/2022. La società Atlantica Cyber Security non ha rivestito alcun ruolo né in sede preliminare di costituzione del RTI, né in sede di elaborazione della proposta, né nell’esecuzione dei contratti afferenti alla gara stessa. Per completezza segnaliamo che la società Atlantica Cyber Security ha contattato Deloitte Risk Advisory S.r.l. S.B. (quale Mandataria del RTI) nel mese di maggio 2022 al fine di proporre i propri servizi professionali, al pari di altri operatori del settore, con la finalità di supportare l’RTI nell’esecuzione dei servizi di cui alla Gara. A seguito degli approfondimenti svolti, non si è dato seguito ad alcuna collaborazione con la medesima. Cordiali saluti, Barbara Tagliaferri
CAROTE E SPYWARE. Report Rai Di Lorenzo Vendemiale e Carlo Tecce Immagini di Cristiano Forti, Carlos Dias, Fabio Martinelli, Dario D’india, Paco Sannino, Chiara D’ambros Ricerca immagini Tiziana Battisti Montaggio Marcelo Lippi, Raffaella Paris Grafiche Giorgio Vallati
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il 7 novembre il senatore Gasparri ci convoca in Vigilanza Rai. Il pretesto è l'inchiesta di Report sull’eredità di Berlusconi andata in onda qualche giorno prima. Ma poi in commissione denigra il lavoro di Report.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Guardi, vuole un po’ di cordiale? Non si preoccupi, non si scomponga. C’ho anche la carota se qualcuno c’ha paura della Commissione di vigilanza. LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Non soddisfatto il giorno dopo annuncia di aver denunciato Report e la Rai, per alcuni commenti violenti apparsi sui nostri social. Poi il 15 novembre annuncia in Vigilanza che Report sta realizzando un’inchiesta su di lui per vendicarsi dell’audizione in cui aveva mostrato la carota.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Credo anche che il mio partito e Fratelli d’Italia nella trasmissione di Report sono in testa come spazio. io ho anche una puntata di denigrazione nei giorni prossimi da parte di Ranucci; quindi, avrò una puntata personale giustamente per vendetta perché poi l'uso del servizio pubblico per vendetta è un privilegio che hanno i Ranucci della situazione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che dice non corrisponde al vero. Il senatore Gasparri, all’epoca di questa dichiarazione era vicepresidente del senato, è membro della commissione di Vigilanza Rai, membro della commissione difesa ed esteri, sapeva un mese prima, oltre un mese prima della convocazione in commissione di vigilanza Rai, quando ci ha mostrato la carota che Report stava realizzando un’inchiesta su di lui. Ecco, questo documento del 27 settembre dove mandiamo le domande a Gasparri, lo prova e quindi non può parlare di un’inchiesta realizzata per vendetta. Cosa ha scoperto Report? Che Gasparri è presidente dal 2021 di una società che si occupa di cybersecurity e, intorno a questa società ruotano dei personaggi in chiaro e anche occulti che sono legati agli apparati di sicurezza di un paese straniero, Israele in particolare. E che cosa fa Gasparri per queste persone, per questa società? Fa il lobbista, stasera mostreremo il documento che prova questa attività, cioè cerca di favorire gli incontri tra enti pubblici direttamente o anche indirettamente con questi personaggi che hanno tra i loro prodotti anche dei software di spionaggio molto invasivi. Ora Gasparri avrebbe dovuto comunicare al senato questa sua attività di lobby già dal 2021. Avrebbe dovuto dirlo alla giunta delle elezioni. Particolare non trascurabile però è che il presidente della giunta del 2021 era Gasparri stesso. Ecco, per questo, questo suo ruolo è rimasto nell’ombra fino a quando Report l’ha scoperto. I nostri Lorenzo Vendemiale e Carlo Tecce.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Dal 2001 al 2005 Maurizio Gasparri è stato ministro delle Comunicazioni nel governo Berlusconi. Proprio in quegli anni, lo Stato cede un suo asset strategico, l’azienda Telit
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Telit nasce a Trieste nel 1986, per opera di un gruppo di esperti militari. All’inizio produceva telefoni portatili, poi si è specializzata nella ricerca e nella tecnologia wireless. Nel 2003, quando Gasparri è ministro, smette di essere italiana: piena di debiti, viene acquistata dalla israeliana Dai Telecom, guidata da Oozi Cats, e si quota alla Borsa di Londra. Ed è qui che, terminato il mandato da ministro, Gasparri diventa consigliere della nuova Telit.
CARLO TECCE Lei, finito il mandato di ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi, entrò nel cda di Telit
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Per qualche tempo. Restiamo sulle domande che dobbiamo fare, questa domanda non era prevista.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Alle domande non previste, anche se di interesse pubblico visto il suo ruolo, preferisce non rispondere. Ma è proprio in Telit che Gasparri stringe i rapporti con le persone che oggi lo hanno voluto alla presidenza di Cyberealm, una scatola societaria che detiene quote di altre aziende, specializzate nel campo della sicurezza informatica e della difesa contro gli attacchi hacker
CARLO TECCE E chi l'ha introdotta in questa società? Chi l'ha nominata?
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Conosco le persone che animano questa società da decenni, li ho conosciuti per come lavorano nel settore delle telecomunicazioni già vent'anni fa, quando ero ministro; quindi, hanno ritenuto che la mia competenza potesse essere utile per ruoli appunto di consulenza.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Gasparri non li nomina, immaginiamo perché i suoi compagni d’avventura non sono degli imprenditori qualsiasi. Il titolare della società è l’italo israeliano Leone Ouazana, che è stato a lungo direttore delle relazioni istituzionali di Telit e che oggi svolge attività di interesse nazionale nel suo Paese. Al punto che, quando lo raggiungiamo telefonicamente, si trova in Israele e non può nemmeno apparire in video, se non per pochi secondi.
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM Eccomi, ci siamo, ci siamo. Intanto vi ringrazio, mi presento: sono Leone Ouazana. premessa, come le ho anticipato, io faccio attività abbastanza sensibile e delicata qui in Israele. Io adesso mi vedete, io adesso rientro dentro, continuo in vocale.
LORENZO VENDEMIALE Non riesce a tenere due minuti il video?
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM No, no, no. Non sono autorizzato.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il titolare della società di cui Gasparri è presidente rientra nella War Room, sta gestendo attività sensibili nell’ambito del conflitto israelo palestinese. Ma Report ha scoperto che dietro Cyberealm si nasconderebbe anche un altro discusso imprenditore israeliano, molto legato a Ouazana. Si tratta di Oozi Cats, ex n.1 di Telit fino al 2017, quando viene travolto da uno scandalo: emerge che all’inizio degli Anni Novanta, quando viveva negli Stati Uniti con un’altra identità, Cats era finito sotto indagine dell’Fbi per una frode da 5 milioni di dollari su mutui di immobili dal valore gonfiato. A rivelare la storia in Italia è il giornalista Stefano Feltri.
CARLO TECCE Oozi Cats o Uzi Kaz, qual è la storia di questo controverso imprenditore israeliano?
STEFANO FELTRI - GIORNALISTA Uzi Katz era un imprenditore attivo nel settore immobiliare negli Stati Uniti, sposato con una certa Ruth che poi finisce nei guai con la giustizia americana. Lo cercano per delle presunte frodi sui mutui su cui si compravano una casa poi un'altra e lucrava sulle differenze dei mutui e l'ultima informazione per la giustizia americana sono del ‘99 in cui lui risultava un fuggitivo. Poi riappare un certo Oozi Cats, scritto con due “o”, in Europa, attivo nel settore delle telecomunicazioni, anche lui è sposato con una certa Ruth. Il primo Uzi Katz era sparito, ma in realtà come abbiamo rivelato sul Fatto Quotidiano nel 2017 erano la stessa persona, ma Oozi Cats aveva tenuto nascosto questo suo passato problematico e quindi quando l'abbiamo rivelato la sua seconda carriera è finita.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Dopo lo scandalo americano, Cats viene cacciato da Telit. Sparisce dai radar. Riemerge dal nulla a Viterbo, alla fine del 2022, quando tenta di acquistare la Viterbese, la squadra dove per alcuni mesi ha anche giocato suo figlio calciatore. Anche qui, è accompagnato da un certo Leone…
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE La trattativa è stata brevissima. si è arenata perché non è stato raggiunto un accordo economico.
LORENZO VENDEMIALE Ovviamente voi vi siete incontrati.
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE Sì, sì ci siamo incontrati 3 o 4 volte. c'era una persona che parlava italiano.
LORENZO VENDEMIALE E si ricorda come si chiamava.
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE Sì, sì Leone. LORENZO VENDEMIALE Leone Ouazana.
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE Io adesso non ricordo il cognome, non ricordo sinceramente… Sì, penso che fosse lui.
LORENZO VENDEMIALE Ah, vede, com'è piccolo il mondo… Politica? ci sono mai stati contatti politici.
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE No, no. C'è un vabbè poi glielo dico poi lo dico magari in separata sede...no no no no non glielo dico… loro si vantavano di avere rapporti politici.
LORENZO VENDEMIALE Ah, sì? con chi?
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE E non glielo posso dire.
LORENZO VENDEMIALE Gasparri?
MARCO ARTURO ROMANO - PRESIDENTE U.S. VITERBESE Se lei lo sa, se lo dice vuol dire che lo sa.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Adesso Report scopre che Oozi Cats sarebbe di nuovo attivo in Italia, come rappresentante occulto della società Cyberealm, in un incontro ufficiale all’Agenzia delle Dogane, favorito dallo stesso Gasparri.
FONTE AGENZIA DELLE DOGANE A luglio la società Cyberealm ci ha chiesto un appuntamento. Volevano presentarci un particolare software informatico che catalogava le merci. Poi l’affare non si è concluso perché il programma non ci ha convinto, sia per le funzioni e soprattutto per il costo.
CARLO TECCE Chi ha partecipato all’incontro?
FONTE AGENZIA DELLE DOGANE Sono stati registrati due nomi: un certo Arik Ben Haim, mai sentito primo. E Oozi Cats. LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO L’altro rappresentante di Cyberealm è Arik Ben Haim: in Italia nessuno sa chi sia, ma Report è riuscita a ricostruire la sua identità. Si tratta di un ex dirigente al vertice dei servizi segreti israeliani, che in pensione si è dedicato all’attività imprenditoriale. Ora è stato richiamato dal governo e proprio in questi giorni è coinvolto nella gestione del conflitto contro Hamas. Anche Leone Ouazana conferma la sua presenza, smentendo però quella di Oozi Cats.
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM Io sono andato con Arik Ben Haim, Oozi Cats non è mai venuto all'Agenzia delle Dogane. Oozi Cats è un amico esterno e non ha nessun ruolo e nessuna attività con noi. Ho presentato un'azienda israeliana che fa un'attività particolare per il mondo delle dogane. Non è andata a nessun fine, non è andata da nessuna parte, quindi…
LORENZO VENDEMIALE Posso chiederle quale società israeliana.
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM No, perché le aziende di cyber sicurezza israeliane sono abbastanza riservate
LORENZO VENDEMIALE Ci era stato detto anche che quell'incontro era stato anticipato da una chiamata introduttiva del senatore Gasparri.
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM Questo io non glielo posso dire perché io non seguo le telefonate introduttive.
LORENZO VENDEMIALE Come mai lei ha scelto il senatore Gasparri come presidente della società? Che cosa fa lui per voi?
LEONE OUAZANA - PROPRIETARIO DI CYBEREALM Lui in realtà mi aiuta a capire lo scenario italiano nel settore della sicurezza.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Cioè Gasparri è anche membro della commissione difesa ed esteri e aiuta un soggetto straniero legato ai servizi israeliani a capire lo scenario della sicurezza del nostro Paese. Gasparri è anche il presidente di una società che manda un uomo vicino al Mossad a presentare software israeliani alla nostra Pubblica amministrazione. Dietro l’ombra ingombrante del discusso Oozi Cats
CARLO TECCE Il tema è quello dell’altra volta, il suo incarico in Cyberealm.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Ho già risposto.
CARLO TECCE Dobbiamo integrarlo.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Ho già risposto
CARLO TECCE Abbiamo una novità.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Mi dica la novità.
CARLO TECCE Volevo sapere di Oozi Cats.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Qual è il problema?
CARLO TECCE Lei conosce Oozi Cats.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Si certo, conosco tanta gente.
CARLO TECCE Lui lavora per Cyberealm, no?
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO È un imprenditore.
CARLO TECCE Quindi collabora anche con voi?
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Mah, le mie collaborazioni sono molto episodiche e molto occasionali.
CARLO TECCE Ma che ruolo ha in Cyberealm Oozi Cats.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO È un imprenditore, questo lo deve chiedere a Cats.
CARLO TECCE Ma si ricorda che Cats fu costretto a dimettersi da Telit perché si scoprì che lui aveva cambiato identità.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Questo non è un problema che riguarda me, chiedete a Cats della sua identità, non è un problema che riguarda me.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO E noi lo abbiamo chiesto anche a Oozi Cats.
OOZI CATS - IMPRENDITORE Si sono inventati una storia su qualcosa accaduta 30 anni fa per farmi fuori!
LORENZO VENDEMIALE Sta dicendo che non era lei la persona coinvolta nell’inchiesta?
OOZI CATS - IMPRENDITORE No, no, la persona ero io, e ci fu un’indagine, ma fu chiusa senza nessun addebito a mio carico. Prima e dopo sono andato decine di volte negli Stati Uniti, non sono mai stato un ricercato.
LORENZO VENDEMIALE Che cosa ci faceva lo scorso luglio alle Dogane per conto di Cyberealm?
OOZI CATS - IMPRENDITORE non sono mai stato all’Agenzia delle Dogane in tutta la mia vita. Questo è un fatto e non può essere messo in dubbio. Leone Ouazana è un mio amico, come Gasparri, ma non sono coinvolto nella società.
LORENZO VENDEMIALE Eppure, il suo nome è stato registrato, insieme a un altro, quello di Arik Ben Haim
OOZI CATS - IMPRENDITORE Ho già risposto. Per quanto riguarda Ben Haim, lo conosco molto bene, l’ho presentato io a Leone Ouazana, non so che cosa faccia per loro.
LORENZO VENDEMIALE Non è inopportuno che il vicepresidente del Senato italiano sia a capo di una società che manda un ex agente dei servizi segreti a presentare software israeliani alle nostre istituzioni.
OOZI CATS - IMPRENDITORE Trovo il vostro punto di vista un po’ ingenuo: se sei il presidente di una compagnia che si occupa di cybersicurezza e fai anche parte del governo italiano, dovresti essere molto interessato ad ascoltare l’opinione di una persona come Arik Ben Haim…
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Interessati forse, preoccupati certamente. Il perché lo spiega bene proprio un Gasparri d’annata. A gennaio 2016 il senatore criticava la possibile nomina di Marco Carrai, imprenditore del giglio magico di Renzi, a capo dell’Agenzia per la Cyber Security.
MAURIZIO GASPARRI - DA L’ARIA CHE TIRA DEL 19.01.2016 Renzi, dicci che questa cosa non è vera, perché mettere l’amichetto tuo a gestire tutti i flussi di notizie, perché uno che si occupa della sicurezza informatica poi può dire ‘non funziona, mi fai vedere in quel file che c’è’,.
CARLO TECCE Senatore, lei sapeva che Cyberealm ha uomini legati ai servizi segreti di un paese straniero? Lo sapeva quando li introduceva nelle istituzioni italiane?
CARLO TECCE Senatore, la domanda è solo sui servizi segreti: Cyberealm ha rapporti con i servizi segreti?
CARLO TECCE Senatore, solo una domanda, la domanda è semplice. Quando lei ha introdotto Cyberealm nelle istituzioni sapeva che dentro e attorno a Cyberealm ci sono rappresentanti o collaboratori di servizi di intelligence straniera?
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Sto parlando di cose private con un amico. C’è la privacy lo sa? Sto parlando con lui di fatti miei.
LORENZO VENDEMIALE Ministro Report, buonasera.
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Che è successo.
LORENZO VENDEMIALE Volevo sapere che cosa pensa del caso di Gasparri e della società di cybersicurezza.
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Uh, mamma mia! E che cosa penso!
LORENZO VENDEMIALE Lei però è ministro degli esteri…lei trova normale che …un vicepresidente del Senato abbia legami con una società attorno a cui ci sono persone vicini ai servizi di un altro Paese?
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Non mi pare sia vietato dalla legge.
LORENZO VENDEMIALE Ma lei lo trova normale, cioè lei è contento che un membro del suo partito abbia questo tipo di relazioni.
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Non è che io devo essere contento o non contento…
LORENZO VENDEMIALE Lei lo sapeva, voi lo sapevate? Almeno nel partito ve lo aveva dichiarato?
ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI ESTERI E SEGRETARIO DI FORZA ITALIA Uno fa le domande, non è mica un interrogatorio.
LORENZO VENDEMIALE Ma non mi ha risposto. LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il fatto che Gasparri faccia attività di lobby per uomini legati all’intelligence straniera ha allertato il Copasir, che stavolta dovrebbe valutare se il comportamento di un parlamentare mette a rischio la sicurezza nazionale.
CARLO TECCE La società di Gasparri, i suoi legami con i Paesi stranieri, sono materia da Copasir?
ETTORE ROSATO - SEGRETARIO COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA Qualsiasi materia del Copasir, non è oggetto di discussione pubblica. Qualsiasi cosa fa il Copasir, qualsiasi cosa, non ne parliamo mai, nessuno di noi, per regola. Che facciamo o non facciamo una cosa, neanche quello diciamo
CARLO TECCE Il pensiero lo metterete.
ETTORE ROSATO - SEGRETARIO COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA Non diciamo neanche i pensieri, proprio fuori dal nostro radar.
CARLO TECCE Gasparri le sembra plausibile che possa essere presidente di una società che si occupa di cyber security.
ETTORE ROSATO - SEGRETARIO COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA Le regole sono chiare, non le scriviamo qui adesso
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Ma cosa fa Gasparri per questa società intorno a cui ruotano collaboratori ufficiali e occulti, legati ad apparati di sicurezza stranieri?
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Nel verbale di nomina risulta, tra gli altri poteri conferiti, anche quello di curare e gestire i rapporti istituzionali.
LORENZO VENDEMIALE Dovrebbe curare i rapporti istituzionali per Cyberealm con le istituzioni di cui fa parte.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Così è scritto nel verbale di nomina.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Nessun ruolo operativo. Il presidente dà dei pareri, dei consigli su quelle che possono essere le scelte strategiche.
CARLO TECCE Gasparri presidente che ha rapporti con Gasparri senatore.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Con chiunque si occupi di cose che possono interessare a questo gruppo.
CARLO TECCE Relazioni anche con la politica.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Potrebbe capitare. Adesso non ricordo incontri con dei politici, però è chiaro che si parla con chiunque.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Gasparri avrebbe dovuto comunicare la carica di presidente di questa società al parlamento, ma fino al giorno della nostra intervista aveva dichiarato solo la sua presenza come membro del cda della fondazione di Alleanza Nazionale.
CARLO TECCE Nella dichiarazione sulla situazione patrimoniale del Senato questa carica non è menzionata.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO La legge prevede che siano da indicare funzioni di amministratore o di sindaco. Io non sono né sindaco né svolgo funzioni di amministratore.
CARLO TECCE qui lei cita che è membro del Cda della Fondazione Alleanza Nazionale. Potrebbe anche citare che è membro del cda...
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Sì perché è un incarico politico... si potrà anche citare, però non ha...
CARLO TECCE Ma poi non succede nulla perché le leggi sono più che permissive.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Guardi ne stiamo parlando in televisione e quindi non c'è nulla da nascondere.
SALVATORE CURRERI - PROFESSORE ORDINARIO DIRITTO COSTITUZIONALE UNIVERSITA’ DI ENNA per valutare le situazioni di incompatibilità il parlamentare è tenuto a dichiarare ogni incarico o ufficio ricoperto a qualunque titolo. E questo per permettere alla Giunta delle elezioni di valutare eventuali situazioni di incompatibilità. Non può egli valutare cosa dichiarare e cosa no, non foss'altro perché nessuno è buon giudice di sé stesso. In caso di omissione, certamente c'è una violazione all'articolo 18 del Regolamento per la verifica dei poteri, e una violazione all'articolo due del Codice di condotta dei senatori.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Sulla presunta incompatibilità nel 2021 avrebbe dovuto esprimersi la Giunta per le elezioni, che però della carica non è mai stata informata: il presidente all’epoca era proprio Gasparri.
ETTORE LICHERI - SENATORE M5S - da L’aria che tira del 28.11.2023 Gasparri non poteva mettere la società dentro quell’elenco perché Gasparri faceva e fa lobbysmo, Gasparri è un lobbysta e non potendo mettere quell’azienda ovviamente ha dovuto superare, bypassare quel passaggio. Se avesse segnalato questa cosa ovviamente avremmo, come ha fatto Report, notato che tra i compiti c’era quello di essere referente per gli affari istituzionali, cioè il lobbysta. È scritto, Report non si è inventato nulla
SALVATORE CURRERI - PROFESSORE ORDINARIO DIRITTO COSTITUZIONALE UNIVERSITA’ DI ENNA Sono incompatibili tutte quelle situazioni che metterebbero in difficoltà, in conflitto di interessi, il parlamentare, il quale potrebbe essere condizionato nelle sue scelte dal fatto di avere legami, ad esempio, di carattere economico attraverso queste società. Il parlamentare che viene colto questa situazione di incompatibilità a questo punto deve optare tra le due cariche. Qualora non lo facesse l'assemblea ne può pronunciare la decadenza. Quindi è una sanzione molto grave.
DALL’ASSEMBLEA DEL SENATO DEL 29.11.2023 ETTORE LICHERI - SENATORE M5S Ma di che cosa ha paura?
GIAN MARCO CENTINAIO – VICEPRESIDENTE DEL SENATO Caro senatore, lei sta parlando con un senatore che non ha proprio paura di niente. E proprio per questo motivo ora le tolgo la parola
STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO DEL M5S IN SENATO Mai in questa aula si è concordato l’argomento dell’ordine dei lavori. Per questo motivo sull’ordine dei lavori io le anticipo che il Movimento 5 stelle abbandona quest’aula, perché riteniamo che non si possa non dare la parola sull’ordine dei lavori a un senatore che lo richieda.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Gasparri ha comunicato tardivamente il suo incarico con una lettera al presidente Larussa e la Giunta per le elezioni ha aperto un’istruttoria
WALTER VERINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Come volevamo, dopo l’inchiesta di Report la giunta delle elezioni si è mossa per fare chiarezza. è interesse delle istituzioni, della trasparenza ma pensiamo anche dello stesso Gasparri.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Senza nessuno che sapesse della sua possibile incompatibilità, nel frattempo Gasparri ha anche partecipato come vicepresidente del senato, in veste istituzionale, al congresso internazionale di cybersecurity, dove ha annunciato investimenti pubblici in un settore in cui lui stesso ha interessi privati.
LUIGI GAROFALO - DA CYBERSEC2023 DEL 1.3.2023 Il senatore Gasparri ci ha inviato una lettera. Vi ringrazio quindi per l’invito. Questo è un tema fondamentale, dice Gasparri, per il nostro Paese, la digitalizzazione della Pa rappresenta una delle principali sfide individuate dalle strategie di ripresa delineate del Pnrr.
LORENZO VENDEMIALE Ora magari viene fuori che la carica è incompatibile. Però intanto sono passati due anni. E adesso che si fa adesso?
SALVATORE CURRERI - PROFESSORE ORDINARIO DIRITTO COSTITUZIONALE UNIVERSITA’ DI ENNA questo certamente è un vulnus che potrebbe essere oggetto di sanzione di carattere disciplinare. In tutto questo poi la valutazione è rimessa sostanzialmente alla maggioranza. Lei capisce che i presupposti di imparzialità sul giudizio vengono meno. D’altra parte, siamo in un Paese in cui la legge si interpreta per gli amici e si applica per i nemici.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E saranno gli amici della maggioranza alleata di Gasparri a interpretare la legge; vedremo come. Però cosa è successo dopo la nostra puntata? Che Gasparri ha scritto una lettera al vecchio amico del Fronte della Gioventù, presidente del Senato, Ignazio La Russa nella quale ammette insomma la sua presenza in Cyberealm come presidente, scusandosi anche del ritardo. Insomma, un modo un po’ irrituale per ammettere che non aveva comunicato la sua presunta incompatibilità. Il presidente La Russa ha girato la lettera alla Giunta delle Elezioni, presidente Franceschini, PD, che ha incaricato un comitato perché appurasse un’eventuale incompatibilità. Se questa venisse confermata, ci troveremmo di fronte a un caso più unico che raro nella storia della nostra Repubblica perché si tratterebbe di un senatore che ha operato per circa due anni con una grave irregolarità. Però poi la Giunta delle Elezioni dovrà giudicare se incompatibile, anche dovrà decidere qual è la sanzione che può essere una sanzione economica, una sospensione, ma può arrivare fino alla decadenza. Ora però questo ovviamente va di pari passo anche con un altro procedimento che è disciplinare del quale deve occuparsi il Consiglio di Presidenza, cioè quel consiglio formato da tutti i vicepresidenti del Senato del quale avrebbe fatto parte anche Gasparri se non si fosse dimesso poco tempo fa; gli è stato tolto l’imbarazzo di dover giudicare sé stesso. Però, insomma, alla fine Gasparri è presidente di questa società che si occupa di cybersecurity, la Cyberealm. Intorno a questa società ruotano, come abbiamo detto, dei personaggi occulti e in chiaro che sono legati agli apparati di sicurezza di paesi stranieri. Uno di questi occulti che gira è Oozi Cats. Oozi Cats è stato coinvolto in un’inchiesta dell’Fbi su una presunta frode. Lui dice: è stato creato apposta questo caso per farmi fuori da Telit. E allora c’è da chiedersi come mai se è stato fatto fuori da Telit, può girare liberamente qui da noi invece in maniera occulta per fare gli interessi di questa società di cui Gasparri è presidente. E poi abbiamo visto che in maniera occulta opera anche Arik Ben Haim che è un ex dirigente dei servizi di sicurezza israeliani, che è stato richiamato in questi giorni proprio per gestire la fase calda della guerra tra Israele e Palestina. Come anche Ouazana, Leone Ouazana, trovato al telefono proprio nella war-room, mentre era impegnato, a suo dire, in operazioni delicate, sensibili. E lui ci ha dato una risposta, insomma, quella che ci ha sorpreso di più. Gli abbiamo chiesto: ma perché avete scelto come presidente della società proprio Gasparri? Perché, ci spiega lo scenario della sicurezza del vostro Paese, cioè dell’Italia. Ecco. Ci chiediamo se è una cosa normale che un membro della Commissione Difesa ed Esteri, spieghi lo scenario della sicurezza del nostro Paese a uno che è legato agli apparati di sicurezza di un paese straniero. La Cyberealm è una società che è sostanzialmente una scatola vuota; possiede delle quote di un’altra società, l’Atlantica Cyber Security ed è socia di un’altra società, grande, importante nel campo della sicurezza informatica che è Atlantica Digital. Quali sono i prodotti che cerca di piazzare Cyberealm? E in che modo?
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Cyberealm, la società presieduta da Gasparri, è legata a doppio filo con Israele, patria della cybersecurity. Una delle sue attività è proprio introdurre in Italia le tecnologie più avanzate di alcune aziende israeliane. Grazie anche ai colleghi di StartMag, Report è entrato in possesso di una vecchia presentazione di Cyberealm inviata ad alcune compagnie di telecomunicazioni europee, in cui si vedono alcuni dei prodotti proposti dall’azienda. Fra questi, c’è anche Achille, un trojan con veri e propri compiti di spionaggio, molto simile al software-spia Pegaus, diventato tristemente famoso per l’utilizzo nell’omicidio Khashoggi.
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE La cosa che colpisce nella lista di prodotti è che spaziamo da prodotti di monitoraggio o comunque di sicurezza difensiva, con invece soluzioni di intelligence.
LORENZO VENDEMIALE Cioè 007 per intenderci.
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE Sì, praticamente soluzioni d'attacco.
LORENZO VENDEMIALE Attacco vero e proprio?
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE In una slide possiamo anche trovare dei tool hardware per intercettazione massiva che sono attività di fatto vietate.
LORENZO VENDEMIALE Ma a chi possono servire questi software?
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE Ah, usualmente si utilizzano in teatri di conflitto, alcune tipologie di tecnologia sono nella categoria della guerra elettronica. abbiamo anche dei casi purtroppo nella storia in cui queste soluzioni sono state utilizzate ad esempio nell'omicidio del giornalista Khashoggi.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Ma l’attività principale dichiarata da Cyberealm è il possesso delle quote di un’altra società chiamata Atlantica Cyber Security, grazie a cui è protagonista di un affare clamoroso. Nel 2021 Cyberealm chiude il bilancio in rosso di 13mila euro: in pancia ha il 49% di Atlantica Cyber Security, che a sua volta ha perso mezzo milione. Tuttavia, nel 2022 riesce a vendere il 25% delle quote al gruppo francese Smart4, realizzando un incredibile guadagno: la stessa quantità di azioni pochi mesi prima era stata venduta a 25.000€, ma Cyberealm incassa la bellezza di 1,2 milioni.
CARLO TECCE Cosa c'è di anomalo in questa operazione.
STEFANO FELTRI - GIORNALISTA Che la società di cui è presidente Gasparri vende le sue quote di Atlantica Cyber Security a un valore 48 volte superiore a quello a cui quote della stessa azienda erano state scambiate pochi mesi prima. Quindi due possibilità: o è cambiato qualcosa in quell'arco temporale così breve che ha fatto rivedere così drasticamente il valore dell'azienda? Oppure uno dei due soggetti ha fatto un affare a logiche non di mercato?
CARLO TECCE Che fine fanno questi soldi? 1,2 milioni?
STEFANO FELTRI - GIORNALISTA Beh, si capisce che è una plusvalenza un po' inattesa, perché subito la Cyberealm si attribuisce un dividendo non previsto straordinario. Quindi 400.000€ vanno al socio principale, Leone Ouazana.
LORENZO VENDEMIALE Li vale questi soldi questa società?
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Guardando i bilanci no, ha avuto perdite nei due anni precedenti, anche abbastanza consistenti.
LORENZO VENDEMIALE quindi o la valutazione è…
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Esuberante!
LORENZO VENDEMIALE Oppure evidentemente questa società ha dentro un progetto importante.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Presumibilmente sì.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Atlantica Cyber Security ha realizzato un SOC di ultima generazione: si tratta di una infrastruttura informatica all’avanguardia, con tecnologia israeliana. Praticamente un centro di vigilanza digitale, specializzato in ambito industriale. Recentemente è stato potenziato con un accordo di collaborazione con Cy4gate, società del gruppo Elettronica, attivo nel settore difesa e partecipata dall’azienda pubblica Leonardo. E a proposito di legami con lo Stato, l’azienda di cui la società di Gasparri è azionista avrebbe voluto anche inserirsi in una gara pubblica Consip, per fornire delicati servizi di sicurezza informatica alla Pubblica amministrazione.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA E REVISORE LEGALE Dopo la chiusura dell'esercizio viene riportato il fatto che è stata vinta o hanno partecipato o hanno proposto i propri servizi a un raggruppamento di imprese all'interno di una gara Consip che dovrebbe dare un fatturato di almeno 7 milioni di euro nei prossimi tre anni.
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE In gergo tecnico si parla di Vulnerability assessment e penetration testing. Cosa sono queste attività: in sostanza è fingere un attacco per comprendere le eventuali vulnerabilità e poi per poi andare a portarne una soluzione.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO E quanto è delicata e sensibile questo tipo di attività?
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE Si viene a contatto con informazioni altamente sensibili anche perché...
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Cioè per esempio?
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE Ad esempio le credenziali degli utenti.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Le password.
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE le password, le mail sono le cose più semplici. È chiaro che se io vado ad attaccare un soggetto mi porto a casa il suo patrimonio informativo, i documenti riservati, aspetti strategici o altro nel caso delle pubbliche amministrazioni.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Nel suo bilancio, Atlantica Cyber sostiene addirittura di aver dato lei l’idea di partecipare alla gara Consip a Deloitte e Ernest&Young, il raggruppamento poi risultato vincitore. Deloitte però pur confermando i contatti, specifica di non aver dato alcun seguito alla collaborazione. e minaccia addirittura di denunciarli.
FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBER INTELLIGENCE non è chiaro il legame che vi sia tra atlantica sarebbe Security e Deloitte per quanto riguarda la gara Consip. un'azienda che offre servizi di monitoraggio e controllo per la pubblica amministrazione non dovrebbe avere delle correlazioni con prodotti di natura offensiva, dunque di Intelligence
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Cyberealm condivide la proprietà di Atlantica Cyber Security con il colosso informatico Atlantica Digital. L’azienda di cui è presidente Gasparri, dunque, non ha quote in Atlantica Digital, ma ne è di fatto socia nella realizzazione del Soc, sotto il controllo dei francesi di Smart4. Un altro legame indiretto con il pubblico. Tra le più importanti aziende del settore, Atlantica Digital lavora da anni per infrastrutture strategiche dello Stato. Tra gli appalti più recenti risultano 6,9 milioni di euro da Sogei, l’occhio telematico dello Stato, 132mila euro dall’Arma dei Carabinieri, circa mezzo milione dalla stessa Rai. Rappresentante del gruppo Atlantica è Carlo Torino, una vecchia conoscenza di Report.
STEFANO FELTRI - GIORNALISTA È un imprenditore di relazioni di consulenza dalla provincia di Portici, che poi spunta qua e là in vicende legate alla politica italiana e internazionale di massimo livello. lo troviamo legato a Renzi e al business delle conferenze internazionali di Renzi. Viene citato in un'inchiesta poi archiviata. E poi adesso appare in questa intricata rete di affari intorno alla cyber security tra Italia e Francia, tra politica italiana con Gasparri e affari di massimo livello sul fronte francese.
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO È da Portici, in provincia di Napoli, che parte l’epopea di Carlo Torino, 37 anni, esperienze in Barclays e Goldman Sachs, una “superstar degli affari pubblici”, come lo definisce il suo capo, Cyril Roger. Proprio in questo palazzo, dove ha sede l’azienda di famiglia che vende scarpe all’ingrosso, nel 2020 una società di Carlo Torino aveva ricevuto un bonifico di 75.000 euro dall’ex portavoce di Donald Trump, per retribuire una conferenza di Matteo Renzi negli Emirati Arabi. Di lui e di questa vicenda, poi archiviata dalla magistratura, Report si era già occupata in passato.
DA REPORT DELL’11.5.2021 MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA I soldi non fanno un giro strano. Quando ci sono le conferenze, ci sono in alcuni casi dei soggetti che le organizzano. Non c'è niente di strano
DANILO PROCACCIANTI Dico: perché non pagano direttamente lei?
MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Ma gliel’ho appena spiegato, faccia uno sforzo, faccia uno sforzo per ascoltare.
DANILO PROCACCIANTI Tra l'altro questa società, questa società era nata da sei giorni dopo che lei aveva chiuso la sua che si occupava proprio di questo, la Digistart.
MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA Scusi qual è la domanda? Lei mi domanda: tu hai preso 30. Quanti erano?
DANILO PROCACCIANTI 33 mila circa.
MATTEO RENZI - LEADER ITALIA VIVA 33 mila euro, benissimo. Questi soldi sono trasparenti? Sì. Sono tracciati? Sì
LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Tre anni dopo, Carlo Torino ricompare come regista nell’operazione di acquisto di Atlantica: c’è proprio la sua firma nell’atto di compravendita fra Cyberealm e SM4, con cui il gruppo francese compra il 25% delle quote di Atlantica Cyber alla cifra di 1,2 milioni, facendo la fortuna della società presieduta da Gasparri
CARLO TECCE l’avevamo lasciata con le conferenze di Matteo Renzi. Ora la ritroviamo vicino a Maurizio Gasparri. Com’è possibile?
CARLO TORINO - RAPPRESENTANTE GRUPPO ATLANTICA non ho mai conosciuto il senatore Gasparri e quindi temo che il mio contributo possa essere francamente pari a zero.
CARLO TECCE Voi però siete di fatto soci della sua società, di Cyberealm.
CARLO TORINO - RAPPRESENTANTE GRUPPO ATLANTICA Loro sono degli azionisti di minoranza. Ho conosciuto il rappresentante legale di Cyberealm, il dottor Ouazana, che mi sembra una persona di altissimo spessore.
CARLO TECCE Come mai avete valutato così tanto le loro azioni di Atlantica Cyber Security?
CARLO TORINO - RAPPRESENTANTE GRUPPO ATLANTICA essendo Atlantica Cyber Security una start up, Lei deve attribuire un valore futuro che le tecnologie di Atlantica Cyber Security, che è una straordinaria tecnologia nella quale il nostro gruppo crede.
CARLO TECCE Lei si è occupato di questa…?
MAURIZIO GASPARRI - SENATORE FORZA ITALIA No, sono stato informato, non mi sono affatto occupato. A cosa avvenute mi hanno informato di questa che non è materia che compete la mia funzione.
CARLO TECCE E ha un compenso per questa sua attività?
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Mi è stato dato un compenso una tantum che c'è nella dichiarazione dei redditi per il tempo che ho impiegato. è stato un rimborso spese molto limitato.
CARLO TECCE Quindi hanno fatto un affare a prenderla come presidente? Beh, costa poco, le cose vanno bene.
MAURIZIO GASPARRI - CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA AL SENATO Probabilmente sì. Anche Report farebbe un affare, perché sono molto più competente di voi, so più cose e sono anche più corretto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È così poco indulgente nei confronti degli altri, quanto lo è invece nei confronti di sé stesso. Per essere corretto fino in fondo avrebbe dovuto denunciare al Senato la sua attività di lobbista per questa società di cui è presidente è che si occupa di cyber security. E inoltre ruotano attorno a questa società Oozi Cats, Ouazama, e Arik Ben Haim che sono legati agli apparati di sicurezza di paesi stranieri e che Gasparri ha favorito in qualche modo nell’incontro con le Dogane, per piazzare i loro software. Ma generalmente che tipo di prodotto vendono? Ci viene in aiuto un vecchio catalogo: dall’archivio spunta il nome di un software: Achille che è un trojan che serve proprio per lo spionaggio, in tutto simile Pegasus, noto tristemente per aver spiato il giornalista Kashoggi che è stato poi ucciso. La Cyberealm, di cui Gasparri è presidente, è una scatola vuota ed è azionista di Atlantica Cyber Security che vanta tra le sue realizzazioni il SOC, un centro anti hacker dove immaginiamo una sala dove ci sono gli hacker buoni che devono contrastare quelli cattivi. Chi sono gli hacker buoni? Intanto sono i prodotti israeliani proprio della Cyberealm realizzati poi in collaborazione con quelli americani e anche in collaborazione con CY4GATE una società del gruppo Elettronica partecipata anche da Leonardo. Report ha scoperto che sia Cyberealm che Atlantica Cyber Security non sono in possesso del nulla osta di sicurezza che è essenziale se vuoi lavorare con aziende strategiche per lo Stato. Loro hanno risposto che al momento non ce ne è bisogno. Però c’è anche un’altra anomalia che è avvenuta nel giugno del 2022 quando Cyberealm, la società presieduta da Gasparri, vende il 25% delle azioni di Atlantica Cyber Security e le vende a un gruppo francese. La regia è di Carlo Torino, cioè dell’uomo che incassava i soldi delle conferenze arabe di Matteo Renzi. L’anomalia qual è? Che l’equivalente di quelle quote era stato venduto due mesi prima al valore di 25 mila euro, mentre qui il gruppo francese le acquista da Cyberealm al valore di un milione e due. Perché è stato possibile generare una così ricca plusvalenza? Intanto perché nella pancia di Atlantica Cyber Security c’è il SOC e poi perché a un certo punto loro scrivono nel bilancio semestrale, giugno del 2022 che hanno in pancia delle commesse con delle multinazionali che si sono aggiudicate la gara Consip, cioè con la pubblica amministrazione. E in particolare fanno i nomi di Deloitte ed Ernst&Young. Peccato che le due multinazionali ci che con Atlantica Cyber Security non hanno alcun tipo di rapporto. E allora in base a quali elementi hanno questo nei loro bilanci? È una comunicazione falsa? È un punto di domanda. Ora i rapporti tra Gasparri e gli israeliani di Telit risalgono a vecchia data, al 2006 quando appunto questi imprenditori acquistano Telit. E già nel 2006 contribuiscono danno un contributo elettorale attraverso una società svizzera; parliamo di circa 20 mila euro e poi nel 2013 anche di 25 mila euro. Ora nel 2021 hanno nominato Gasparri presidente della loro società con un mandato ben preciso dal quale si evince la sua attività di lobbista. E c’è scritto che, come presidente, deve “vigilare sull’andamento della società, curare e gestire i rapporti istituzionali con enti pubblici e privati, con le imprese operanti nei settori di interesse delle società, comprese le società partecipate”, come per esempio Atlantica Cyber Security, “collegate a investitori istituzionali. Deve valutare e verificare il potenziale interesse di operatori pubblici e privati per acquisizioni di tali servizi e deve curare e gestire i rapporti” anche “con gli organi di informazione”. Quindi gli toccano anche le nostre interviste, le interviste con Report.
(ANSA martedì 28 novembre 2023) - Report ha diffuso sui social una clip con nuovi contenuti dell'inchiesta relativa a Maurizio Gasparri e alla Cyberealm, la società che si occupa di sicurezza informatica di cui il capogruppo di FI al Senato è presidente.
Stando alla ricostruzione del programma - che tornerà sul caso domenica prossima su Rai3 - nel 2022 la società presieduta da Gasparri chiude il bilancio con un guadagno record di oltre 800mila euro. Merito della trattativa conclusa con SM4, gruppo francese che nel 2022 compra parte delle quote che Cyberealm ha in Atlantica Cyber Security, una società che si occupa di sofisticati sistemi di sicurezza informatica.
Un'operazione, secondo Report, anomala perché azioni della stessa società erano state vendute solo pochi mesi prima a un valore 48 volte inferiore. Sotto l'atto di compravendita - sostiene il programma - la firma di Carlo Torino, rappresentante del gruppo Atlantica, di cui Report si era già occupato in passato: è lo stesso imprenditore sui cui conti nel 2020 erano transitati i soldi per pagare una conferenza di Matteo Renzi negli Emirati Arabi.
Nel filmato anche un frammento dell'intervista a Gasparri. "No, sono stato informato, non mi sono affatto occupato. A cose avvenute mi hanno informato di questa che non è materia che compete la mia funzione", risponde l'ex ministro alla domanda del giornalista Carlo Tecce. "Non conosce questo fondo francese?", gli viene chiesto.
"Non mi occupo di questi aspetti, non rientrano in quelle che sono le mie competenze", la replica di Gasparri. E sul nome di Carlo Torino dice: "Non so niente". Nel 2020 una società di Torino - si ricorda nella clip - aveva ricevuto un bonifico di 75mila euro dall'ex portavoce di Donald Trump, per retribuire una conferenza di Renzi negli Emirati Arabi. Di lui e di questa vicenda, poi archiviata dalla magistratura, Report si era già occupata in passato.
Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” martedì 28 novembre 2023.
Dice Maurizio Gasparri che la società di cui è presidente dal giugno 2021, Cyberealm Srl, non ha appalti pubblici. È vero. Gli appalti Consip per la sicurezza informatica e quelli con Rai, Esercito e Carabinieri li hanno Atlantica Cyber Security e Atlantica Digital, entrambe con sede in via Barberini a Roma.
La prima è tuttora partecipata da Cyberealm al 24%: è la società operativa nella protezione dalle incursioni informatiche. Il 20 giugno 2022, però, Cyberealm ha ceduto il 25% di Atlantica Cyber Security al gruppo Smart4 Engineering, guidato dal francese Cyril Roger e dall’italiano Carlo Torino, che ne ha acquisito così la quota di controllo.
Roger è stato a capo di Altran, gruppo di consulenza ingegneristica oggi passato a Capgemini, che lavora tra gli altri per industrie della difesa e dell’aerospazio in Francia e altrove. Torino invece viene da Portici (Napoli), ha lavorato per Goldman Sachs ed è noto alle cronache per aver fatto da intermediario per una conferenza di Matteo Renzi ad Abu Dhabi.
Un pagamento di 33 mila euro, transitato su un conto di Torino prima di arrivare a Renzi, è anche finito in un’indagine giudiziaria, che però è stato archiviata. Il gruppo Sm4 l'ha pagato bene quel 25% di Atlantica Cyber Security. A Cyberealm, rappresentata dall'amministratore delegato italo-israeliano Leone Ouazana, sono andati 1,2 milioni di euro […]
Appena due mesi prima il 25% della stessa società era stato frazionato tra i soci Pierre Levy e altri al suo valore nominale di appena 25 mila euro. In due mesi, […] il valore si è moltiplicato per 48, senza che almeno apparentemente fosse accaduto nulla che lo giustifichi.
A bilancio vale un utile di 800 mila euro, al netto di un dividendo di 400 mila, per la società presieduta da Gasparri. Negli anni precedenti, 2020 e 2021, aveva registrato perdite, come del resto Atlantica Cyber Security.
“È una start up”, ha detto Torino a Report, quindi Sm4 ha pagato “il valore futuro”. Peraltro Cyberealm resta tuttora socia dell’azienda rappresentata da Roger e Torino con il 24% di Atlantica Cyber Security. La quale, ha scritto Domani, ha anche una partnership con Elettronica, società partecipata al 31% dal gruppo pubblico Leonardo, ex Finmeccanica.
Gasparri sostiene di non sapere granché della vendita a Sm4 delle quote di Atlantica Cyber Security: “A cose avvenute mi hanno informato di questa che non è materia che compete la mia funzione”, ha dichiarato a Report, confermando la linea che nega qualsiasi “ruolo operativo” in Cyberealm.
Vedremo quale sarà la valutazione del Senato, al quale Gasparri in oltre due anni non ha mai ritenuto di comunicare nulla nello stato patrimoniale. Intanto però, da quando nel giugno 2021 ha assunto la presidenza della società, esercita la sua delega a “curare e gestire i rapporti istituzionali con enti pubblici e privati”, come si legge nella relativa delibera.
[…] È stato lui, ad esempio, a favorire lo scorso luglio l’appuntamento all’agenzia delle Dogane per i due rappresentanti di una società partecipata che proponeva l’acquisto di un software […], affare poi non concluso. Uno dei due si chiama Arik Ben Haim ed è legato agli apparati di sicurezza israeliani. Come lo stesso Ouzana del resto […]. E come un altro misterioso personaggio di questa storia, Oozi Cats, a lungo a capo della società italiana Telit: fabbricava telefonini, era un asset strategico pubblico che fu venduto nel 2004 al gruppo israeliano Dai Telecom di Cats, quando Gasparri era ministro delle Telecomunicazioni del governo Berlusconi-2. Poi, per qualche hanno, è stato anche nel cda di Telit.
Le reazioni alle anticipazioni dell'inchiesta di Report sulle attività private nella cybersicurezza del senatore Maurizio Gasparri. Report Rai 26 novembre 2023
Dopo le anticipazioni dell’inchiesta di Report sulle attività private nella cybersicurezza del senatore Maurizio Gasparri si sono espressi alcuni parlamentari:
Per il membro della commissione di vigilanza Rai Angelo Bonelli: "Desta profonda preoccupazione il silenzio sulla vicenda del senatore Maurizio Gasparri, componente della commissione di Vigilanza Rai, ex primo vicepresidente del Senato e oggi capogruppo di Forza Italia. Secondo quanto spiegato dall'inchiesta di Report in onda stasera, il senatore Gasparri é presidente della società Cyberealm srl, ma non lo ha mai comunicato, come previsto dal regolamento del Senato e dalle norme di legge. Il suo é l'incarico di presidente di una società legata alla sicurezza informatica, composta anche da ex membri dei servizi segreti israeliani. Apprendiamo quindi che lo stesso Gasparri, utilizzando il suo ruolo istituzionale, ha chiesto e ottenuto un appuntamento con l'agenzia delle Dogane per la Cyberealm srl per vendere software.. Apprendiamo anche che la Cyberealm ha ottenuto commesse anche da aziende e organi dello Stato."
Per Vittoria Baldino vicecapogruppo M5S a Montecitorio: "La domanda che sorge spontanea è: quali sono gli interessi che persegue il senatore e lobbista Gasparri, quelli generali, del Paese, o quelli particolari, della società che rappresenta, in un settore, peraltro, più che strategico per gli interessi nazionali, come quello della sicurezza informatica? Quello che vedo, già ad occhio nudo, è un enorme, gigantesco, conflitto di interesse che è un'anomalia, ma nel nostro Paese è normale perché non esiste una seria legge sul Conflitto di interesse - spiega -. Ma la cosa più inquietante di tutte sta nei presunti interessi esteri che si inseriscono in questa vicenda, avendo il senatore lobbista procacciato appuntamenti di affari con la nostra agenzia delle dogane a un ex agente dei servizi segreti israeliani. Quindi, di chi fa gli interessi il senatore lobbista Gasparri, dello Stato, della società di cui è presidente e rappresentante di interesse o di imprenditori ed ex 007 israeliani con cui tratta in ragione del suo incarico, mai comunicato agli uffici del Senato nonostante il regolamento glielo chiedesse?".
"La vicenda del senatore Gasparri, dopo le notizie apprese dalla nuova puntata di Report, merita senz’altro un chiarimento urgente. Per questo pensiamo sia opportuno, a questo punto, che l’Ufficio di Presidenza del Senato si esprima: è necessario capire se siamo di fronte ad un caso di mancata comunicazione da parte del sen. Gasparri o se ci sia stata la volontà di non fornire le dovute informazioni al Senato. Lo diciamo senza particolare spirito polemico: fare chiarezza è interesse delle istituzioni, del confronto politico e - ci permettiamo - dello stesso sen. Gasparri”. Così il senatore Walter Verini, membro dem della commissione Giustizia a Palazzo Madama e capogruppo Pd in commissione Antimafia.
“Dall’inchiesta di Report e da fonti di stampa emergerebbe che sarebbero diversi gli enti pubblici che negli anni avrebbero intrattenuto rapporti ed elargito appalti e commesse a società riconducibili a Maurizio Gasparri, nella sua qualità di presidente della società Cyberealm. Tra queste potrebbe esserci la Rai, il che assume particolare rilevanza soprattutto alla luce del fatto che Gasparri è membro della commissione di vigilanza ed è il principale promotore della convocazione di Sigfrido Ranucci. Se l’ipotesi fosse confermata ci troveremmo di fronte a un possibile conflitto di interessi che non può passare in secondo piano. Per questo abbiamo presentato una interrogazione in vigilanza, volta a sapere dalla Rai se l’azienda o società del Gruppo Rai abbiano mai affidato alla Cyberealm o a società della sua orbita l’espletamento di servizi e, se si, con quale modalità sia stata scelta, quale durata ha o ha avuto il rapporto contrattuale, quali servizi ha espletato e a fronte di quale corrispettivo. Siamo stati i primi, quasi nel silenzio generale, a rilevare l’incompatibilità di Maurizio Gasparri con il suo ruolo in vigilanza. Continueremo ad andare a fondo di questa questione, anche sollevando la questione nell'ufficio di presidenza di domani, perché le istituzioni non possono essere piegate all’uso e al consumo di un politico che usa la commissione per i suoi show e ha una situazione opaca su cui avrebbe il dovere di fornire tutti i chiarimenti del caso”. Così gli esponenti M5S in commissione di vigilanza RAI.
"Sul caso Gasparri ci sono tanti punti oscuri, evidenziati dall'inchiesta di Report, ma una cosa è certa: il neocapogruppo di Forza Italia ha omesso di comunicare il suo ruolo di presidente di una società che si occupa di cybersicurezza, la Cyberealm. Su questo Gasparri non può fare finta di nulla, visto che secondo la legge i parlamentari 'non possono ricoprire cariche né esercitare funzioni di amministratore, presidente... in associazioni o enti che gestiscano servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della pubblica Amministrazione, o ai quali lo Stato contribuisca in via ordinaria, direttamente o indirettamente'". A rilevarlo è il capogruppo M5s al Senato, Stefano Patuanelli. "Per questo - anticipa - abbiamo scritto al presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, Dario Franceschini, affinché si attivi subito il giudizio di compatibilità tra il mandato parlamentare e le cariche ricoperte dal Senatore Gasparri, omesse in sede di dichiarazione".
"Abbiamo inviato una lettera al presidente della Giunta per le elezioni del Senato perché valuti la violazione da parte del senatore Gasparri del regolamento del Senato che impone di dichiarare ogni carica ricoperta anche a titolo gratuito. Gasparri non ha dichiarato il suo ruolo nella società Cyberealm perché sapeva che altrimenti sarebbe risultato un lobbista il che è incompatibile con la carica di senatore, tanto più se membro della commissione Difesa. Se lo avesse fatto sarebbe emerso subito il suo ruolo di referente per gli affari istituzionali, cioè la sua attività di lobbying, un'attività che non può esser fatta da un senatore, da un parlamentare". Lo ha dichiarato il senatore del M5s Ettore Licheri nel corso della trasmissione "L'aria che tira" su La7.
"Se, come appare oramai chiaro,risulta che Gasparri non ha adeguatamente informato il Senato circa i suoi ruoli e incarichi in enti e società, di ciò dovrà necessariamente e rapidamente essere interessata la Giunta delle elezioni, che dovrà valutare eventuali profili di incompatibilità con il ruolo di senatore. Domani, insieme alla collega Rossomando, solleveremo la questione in Giunta". CosìAlfredo Bazoli, capogruppo Pd nella Giunta delle elezioni a Palazzo Madama
Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per “La Repubblica” mercoledì 8 novembre 2023.
Se le mura dei palazzi hanno un’anima e i loro ricordi un qualche effetto sugli individui, una tempesta emotiva attende i giornalisti dell’Associazione della stampa estera, circa 300 iscritti, che fra un paio di mesi andranno a lavorare al piano nobile di Palazzo Grazioli, la cui denominazione e la cui spaziosa memoria sono indissolubilmente legate al periodo aureo del berlusconismo.
Lavori di ristrutturazione quasi compiuti; trasloco in itinere; affitto a carico (da sempre) del governo italiano, più o meno 5 mila euro al mese; escluso purtroppo dall’affitto il locale al piano terra dove, con scranni in miniatura, era insediato il cosiddetto “parlamentino”. [...]
Per cui sarebbe bello che i nuovi arrivati, da tutto il mondo, trovassero nelle varie stanze delle illuminanti targhe: qui Putin lanciò la palletta a Dudù; qui Berlusconi fece ostensione dell’improbabile cimicione; qui il ministro La Russa battezzò uno dei brani dei premiati autori Silvione-Apicella; qui consumavano pizzette e champagne le benemerite dell’ordine presidenziale delle farfalle; da qui vennero fatti defluire i presenti la notte dell’abdicazione, 12 novembre 2011, con la folla pericolosamente assiepata davanti al portone, per paura di un saccheggio.
Palazzo romano polveroso e appena un po’ tetro: meno bello del vicino Palazzo Bonaparte e a due passi dal fatidico Palazzo Venezia, dove lavorava (e non solo) il duce. Conclamata reggia di Sua Maestà il Cavaliere, ma a seconda dei momenti anche sede del governo ombra e dimora della corte in esilio, comunque con bandiere al balcone, gatta egizia sul cornicione (dietro la finestra della fida segretaria Marinella) e indiscutibile rilievo nella storia politica italiana.
Perché mai come in queste stanze ha avuto luogo la compiuta privatizzazione del potere, con il che assai più che a Palazzo Chigi nella sua propria casa il sovrano convocava, nutriva, incontrava, si proteggeva e si dilettava; d’altra parte era fermamente convinto di incarnare il Popolo e quindi lo Stato – e tuttora è aperta la questione se fosse un salto della post-politica, una regressione a regimi pre-democratici o magari tutte e due le cose. […]
Dentro, l’arredamento richiamava la catastrofe estetica e casalinga del berlusconismo in un caotico ammucchiarsi di obelischi, arazzi, ninnoli, bei quadri che convivevano con evidentissime croste e coppe del Milan. Una porta scorrevole separava, per modo di dire, il pubblico dal privato. E su questo scivolosissimo confine i giornalisti stranieri non potranno fare a meno di ricordare anche l’epopea orgiastica di palazzo Grazioli: il reclutamento massivo di escort sull’asse Roma-Bari, il severo dress code (tubino nero, eccetera) di cui si fece garante Giampi Tarantini, la sua auto dai vetri abbrunati.
Fino al sancta sanctorum dell’erotica di palazzo: il lettone di Putin, che in realtà a dar retta a un incrocio di testimonianze (Vespa-Ape regina) non esisterebbe proprio, era un giaciglio king size che il Cavaliere si era fatto costruire sulla base di un quadro, questo sì regalato dall’autocrate russo.
Di quella stagione, unico documento resta la formidabile foto-ricordo che alcune ragazzette pugliesi si fecero diciamo pure nel cesso: perché la storia è fatta di cose nobili e basse, il potere consuma le une e le altre – e gli spasmi dopo tutto ci appartengono.
Estratto dell’articolo di Antonio Polito per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 dicembre 2023.
Che cosa c’è dietro il nuovo «dottor Letta»? Che cosa l’ha spinto a dire in pubblico […] che la riforma costituzionale del governo avrebbe l’evidente effetto di limitare i poteri del presidente della Repubblica […]? Da giorni noi giornalisti ci interroghiamo, al solito, su che cosa ci sia dietro. […] Secondo me la risposta era già contenuta nell’ultimo libro di Bruno Vespa: «Conosco Gianni dal 1963 — scrive l’autore —. Per trent’anni gli ho chiesto un colloquio per i miei libri, invano. Questa volta, finalmente...». E che cosa racconta Letta nell’intervista a Vespa?
Che quando Berlusconi sperava di essere candidato al Quirinale, e lui gli diceva in privato che non aveva alcuna chance, molti intorno al Cavaliere bisbigliavano che lo facesse perché sul Colle voleva andarci lui. Allora, in una riunione dello stato maggiore berlusconiano, Letta prese la parola per chiedere al leader di non fare mai più il suo nome, perché non avrebbe mai accettato una candidatura «nemmeno se me la proponessi tu: non vorrei che un giorno, anche lontano, tu potessi pensare, anche solo per un istante, che avesse ragione chi ti diceva che lavoravo per me e non per te».
Ecco che cosa è cambiato: la scomparsa di Berlusconi ha liberato il «dottor Letta» da questo obbligo di lealtà personale. Che non gli ha impedito di dire in privato che cosa pensava, ma mai in pubblico, per non danneggiarlo. Gianni Letta ora può dire ciò che pensa. Non è la famiglia Berlusconi che parla per bocca sua, come qualcuno sospetta, e nemmeno una corrente di Forza Italia che manovra contro la premier. È […] la sua ambizione trentennale: trasformarsi in uomo delle istituzioni, non più di parte.
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “La Repubblica” mercoledì 4 ottobre 2023.
È il novembre del 2011. Silvio Berlusconi è stato dimissionato. Al suo posto è arrivato il professor Mario Monti […] I due si vedono a pranzo, insieme a Gianni Letta ed Angelino Alfano. Berlusconi - ha rivelato ieri Monti al Senato, commemorando Giorgio Napolitano - in quell’occasione gli disse di prendere in toto la sua squadra di ministri, tranne uno: «Mi citò un ministro. Ma io fui in grado di rassicurarlo, dicendogli che il capo dello Stato mi aveva già dato il suo chiaro indirizzo, ovvero che avrei dovuto assumere io quel ministero ad interim».
Chi è quel ministro che Berlusconi non voleva più vedere al governo? Giulio Tremonti, pare. Era stato lui il ministro dell’economia fino a quel momento. E non andava più d’accordo con il Cavaliere. Al punto che Tremonti, ricordano i berlusconiani più fedeli, nell’ultimo vertice estero, a Cannes, il 6 novembre, volle tenersi lontano dal premier, non comparirgli vicino nelle foto di rito. Secondo questa vulgata Tremonti sperava di farlo lui il premier. Circolava voce che Napolitano glielo avesse promesso, o forse era stata messa in giro ad arte, vai a sapere. Poi, tre giorni dopo Cannes, il 9 novembre, Napolitano nominò Monti senatore a vita. Il 12 Berlusconi si dimise.
Quel cambio al vertice del 2011 è per i berlusconiani semplicemente «il complotto». Dell’Europa, dei poteri forti, di Napolitano. Dimenticano lo spread a 600. […] Berlusconi a Cannes la minimizzò: «Quale crisi, non li vedete i ristoranti pieni?». Tre mesi prima, ad agosto, la Bce aveva imposto il pareggio di bilancio entro il 2012. A luglio Tremonti aveva lanciato un allarme angosciato: «Il debito ci divora. Siamo come il Titanic». […] Ieri Monti ha provato a difendere l’immagine di Silvio Berlusconi. «Non fu vittima, ma protagonista di quella fase».
[…] «l’allora premier mi incoraggiò a superare le difficoltà che ancora sussistevano alla formazione del governo e con generoso trasporto mi offrì la sua squadra: caro Monti, deve diventare presidente del Consiglio, mi rendo conto che non sono più in grado in queste condizioni politiche e finanziarie di gestire, ma tutti sono eccellenti ministri. Tutti glieli offro, tranne uno». […]
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per “Il Fatto Quotidiano” il 3 ottobre 2023.
Quasi un terzo dei parlamentari di Forza Italia non è in regola con il pagamento delle quote mensili al partito. Sono 16 eletti su 61, 11 deputati e 5 senatori, secondo una lista che circola nel partito e che Il Fatto ha letto.
Tra questi anche nomi noti che hanno una visibilità pubblica e con incarichi rilevanti nel partito: c’è la vice capogruppo alla Camera, Deborah Bergamini, la deputata campana Annarita Patriarca, ma anche il senatore Mario Occhiuto, fino alla ministra per le Riforme, Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Quello dei cosiddetti “morosi” è diventato un tema di stretta attualità in Forza Italia. Dopo la morte di Silvio Berlusconi (che in tutti questi anni ha sostenuto generosamente il partito), la famiglia in questi giorni ha fatto sapere che sarà sanato il debito pregresso di Forza Italia ma, come ha detto sabato il fratello di Silvio, Paolo, per il futuro dovranno essere parlamentari, dirigenti e consiglieri regionali a sostenere il partito autonomamente. In occasione del ricordo di Silvio Berlusconi a Paestum, il presidente del partito, Antonio Tajani, ha fatto approvare una modifica allo Statuto che prevede che gli eletti che non pagano la quota mensile al partito decadranno da tutte le cariche. Quella che è stata ribattezzata la “stretta sui morosi” di Forza Italia.
Secondo le regole interne, i candidati in Parlamento devono al partito 10 mila euro per un seggio nel maggioritario e 30 nel proporzionale. A questi si aggiungono i 900 euro mensili una volta eletti alla Camera o al Senato per contribuire alle finanze del partito. In un anno –- da settembre 2022 a settembre 2023 – i 62 parlamentari eletti di Forza Italia avrebbero dovuto sborsare 11.700 euro a testa. Peccato che quasi un terzo (16, il 26%) non lo abbia fatto.
I deputati che non sono in regola con i pagamenti – secondo una lista che circola nel partito incrociata con le banche dati del Parlamento – sono 12. Tra i più conosciuti c’è la vice capogruppo Deborah Bergamini che ha pagato tutte le quote fino a fine 2022 (compresi i 10 mila euro per il seggio, più 8.200 a settembre) ma non nei primi nove mesi del 2023: secondo due dirigenti azzurri, Bergamini per mesi ha polemizzato con il gruppo dirigente del partito fino a che non ha ottenuto un posto da vice capogruppo a Montecitorio.
Poi Annarita Patriarca, componente della commissione Salute, il cui ultimo bonifico da 2 mila euro risale al giugno 2022. Anche Francesco Maria Rubano, vicecoordinatore in Campania e sindaco di Puglianello (Benevento), non avrebbe pagato nemmeno una quota. Tra chi non ha mai pagato c’è anche Andrea Orsini, molto vicino a Marta Fascina. [...]
Infine c’è la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati: quest’ultima ad agosto scorso aveva saldato i debiti pregressi con il partito versando 27 mila euro tutti in una soluzione, ma da allora ha pagato solo la quota di 900 euro a settembre 2022 e altri 8.100 ad aprile. In questo modo Casellati avrebbe quasi ripagato la candidatura nel maggioritario in Veneto.
[…] Le casse sono in rosso. Il partito ha un debito monstre di 92 milioni e, per quanto la famiglia Berlusconi possa continuare a garantire per il partito, difficilmente potrà sostenerlo per la campagna elettorale delle Europee: la legge Spazzacorrotti di Alfonso Bonafede impone un finanziamento massimo a persona di 100 mila euro.[…]
Lara Comi (Fi) condannata a quattro anni e due mesi: corruzione e truffa. Il Domani il 02 ottobre 2023
La sentenza sull’eurodeputata di Forza Italia nel processo “Mensa dei poveri” su un sistema di tangenti in Lombardia. Su 62 indagati i giudici hanno inflitto 11 condanne
L'eurodeputata di Forza Italia, Lara Comi, è stata condannata dai giudici del tribunale di Milano a quattro anni e due mesi nel processo “Mensa dei poveri”, un sistema di mazzette, appalti, nomine pilotate e finanziamenti illeciti in Lombardia, che vedeva al centro l'ex coordinatore di Fi a Varese Nino Caianiello, presunto "burattinaio del sistema" che ha patteggiato l'anno scorso 4 anni e 10 mesi.
Difesa dall'avvocato Gian Piero Biancolella, Lara Comi era finita ai domiciliari (poi revocati) nel novembre del 2019 per corruzione, false fatture e truffa ai danni dell'Europarlamento per circa 500mila euro per i corsi di formazione dei dipendenti di Afol, agenzia per la formazione, orientamento e lavoro. Per l’europarlamentare il pm Stefano Civardi ha chiesto una riduzione di pena da 5 anni e mezzo a 4 anni e 2 mesi per la derubricazione del reato di corruzione: l'aggravante di aver commesso il fatto in qualità di pubblico ufficiale andava riqualificata in incaricato di pubblico servizio. I giudici hanno di fatto accolto la tesi accusatoria.
Su 62 imputati, il giudice ha inflitto 11 condanne e ha disposto 51 assoluzioni. Oltre a Lara Comi che risponde di corruzione di incaricato di pubblico servizio e di un episodio di truffa - quest'ultimo in concorso con l'allora suo assistente all'europarlamento Daniele Aliverti (ha preso 1 anno e 4 mesi) - i giudici hanno condannato l'imprenditore Daniele D'Alfonso a 6 anni e mezzo di carcere, Giuseppe Zingale, ex dg di Afol Metropolitana, a 2 anni, Maria Teresa Bergamaschi, legale civilista ligure e amica di Comi, a 6 mesi, - entrambi in concorso con l'esponente politica azzurra - l'ex parlamentare di Fi Diego Sozzani a 1 anno e 1 mese, Carmine Gorrasi, ex consigliere comunale di Busto Arsizio (Varese) ed ex segretario provinciale di Forza Italia, a 2 anni e Giuseppe Ferrari a 2 anni e mezzo di reclusione.
Per tutti, tranne che per Lara Comi, la pena è sospesa. Per l'eurodeputata sono state inoltre disposte, oltre alla confisca di 28,7 mila euro, anche l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, pena accessoria decisa anche per Bergamaschi, Zingale e Sozzani.
Tra gli assolti ci sono l'ex vicecoordinatore lombardo di Fi Pietro Tatarella, l’ex consigliere regionale Fabio Altitonante (ora sindaco di un comune in Abruzzo), il patron della catena dei supermercati Tigros Paolo Orrigoni con la stessa società. Assolto, in linea con la richiesta della Procura, anche Andrea Cassani, ex sindaco di Gallarate (Varese).
«Una sentenza incomprensibile, che lascia perplessi. È caduto tutto l'impianto accusatorio tranne le accuse alla mia assistita che non sono riscontrate da alcun elemento», è il commento dell’avvocato Gian Piero Biancolella.
Smacco ai pm di Milano: quasi 50 assoluzioni. Undici condanne, quarantasei assoluzioni: è sconfortante per la procura della Repubblica di Milano il bilancio del processo terminato ieri per la cosiddetta inchiesta "Mensa dei poveri". Luca Fazzo il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Undici condanne, quarantasei assoluzioni: è sconfortante per la procura della Repubblica di Milano il bilancio del processo terminato ieri per la cosiddetta inchiesta «Mensa dei poveri», come era stato ribattezzato il ristorante sotto la sede della Regione Lombardia frequentato dal Gotha della politica locale. Tra le poche condanne ottenute dalla Procura, spiccano i quattro anni e due mesi inflitti a Lara Comi(foto), eurodeputata di Forza Italia, accusata di corruzione e di truffa all'Unione Europea per l'assunzione di un collaboratore. «Una sentenza incomprensibile, la definisce il suo legale Gian Piero Biancolella. Condanna anche per l'ex deputato azzurro Diego Sozzani, ma dimezzata rispetto alle richieste della Procura: un anno con la condizionale.
Per il resto fioccano le assoluzioni anche per politici per cui i pm Silvia Bonardi e Stefano Civardi avevano avuto richieste di condanna pesanti: Pietro Tatarella, ex consigliere comunale a Milano, era stato candidato a sette anni di carcere con giudizi quasi infamanti, viene riconosciuto del tutto innocente, «il fatto non sussiste». Stessa formula per l'assoluzione di Fabio Altitonante, ex consigliere regionale azzurro, per cui i pm avevano chiesto tre anni e tre mesi di carcere. E stessa sorte per altri quarantaquattro imputati - politici di secondo piano, manager pubblici, imprenditori - che erano stati indicati come i partecipi di un sistema di corruzione e di finanziamenti illeciti che pervadeva la politica lombarda. O meglio, un solo partito: Forza Italia.
Invece tutto, nella sentenza, si riduce ai fatti contestati a Sozzani e alla Comi. Per il primo, una modesta violazione alla legge sul finanziamento dei partiti. Per la seconda, due episodi che con la Lombardia hanno poco a che fare, le assunzioni di due collaboratori a Strasburgo avvenute secondo i giudici a prezzi gonfiati. «Sono stupita della sentenza di condanna. Tutti gli elementi emersi nel corso del dibattimento militavano per una pronuncia assolutoria», dice l'eurodeputata. «È quindi evidente che impugneremo una sentenza che ribadisco ritengo ingiusta e lotterò in ogni sede per dimostrare la mia innocenza».
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per repubblica.it sabato 30 settembre 2023.
Siamo ripiombati nel 1994. Nella sala ristorante parte l’inno di Forza Italia. Anche i camerieri lo canticchiano con discrezione. Per forza. È come una canzone che affiora alla radio e ti ricorda i tuoi vent’anni.
Nella sala convegni sono stipati in tremila. Ventenni vestiti come a un matrimonio, con la spilletta del partito attaccata alla giacca. Sventolio frenetico di bandiere del partito. Come allora, quando c’era lui.
[...] La signora meridionale che scandisce “Silvio, Silvio” è un altro tuffo nel passato. Un tizio urla: “Forza zio Silvio”. “Perché zio?”, chiede la signora al marito. Un altro, come allo stadio: “Silvio con noi!”. Tutti, anche sui social, gli fanno gli auguri, per il compleanno. Ma Silvio non c’è più. Aleggia però il suo fantasma.
Benvenuti alla convention di Forza Italia a Paestum. Il lancio della campagna per le Europee di Antonio Tajani.
Operazione nostalgia. Kermesse di ras. Memorial. Fedele Confalonieri se ne è lamentato: “Ma non potevano farla a Milano?”. Così la famiglia è rimasta a casa, inaugurando il Belvedere al Pirellone.
Ma i cinque figli hanno mandato una lettera (“siamo al vostro fianco”), che Tajani ha letto con molto trasporto. Tajani ha bisogno dello scudo del casato, il nome Berlusconi finirà nel simbolo, la famiglia non si capisce se è contenta. Paolo Berlusconi ha escluso un ingresso in politica: “Abbiamo già dato”. Tajani dovrà saper navigare in mare aperto. Intanto si è presentato col pulloverino blu, proprio quello che indossava lui.
Nemmeno Marta Fascina si è vista. È sempre in lutto ad Arcore. Però è tornata a postare sui social, ricordando il suo compagno con parole sobrie: “Leader indiscusso, illuminato statista, straordinario imprenditore, re della comunicazione, uomo buono generoso giusto”. E di leggende rosa sono ammantati i discorsi di quelli che si succedono sul palco. Augusto Minzolini: “Berlusconi mi manca”. Antonio Tajani: “È stato il miglior ministro degli Esteri di sempre”. Chi ha organizzato tutto, il ras regionale Fulvio Martusciello, gira soddisfatto per l’albergo hollywoodiano (il buffet, senza il dolce, costa 40 euro) che ospita l’evento, con una maglietta bianca con la scritta “Berlusconi day”.
Vuole la maglietta o la borraccia come gadget?”, ti accolgono all’ingresso. File di telecamere per intervistare l’artista Eugenio Lenzi, che ha portato le sue sculture raffiguranti “il grande Silvio”, in una è col cane Dudù. “Ma chiste chi è?” chiede un militante di Avellino. Un’altra che suscita slanci impensabili è Alessandra Mussolini. No, non sta con Giorgia Meloni. Indossa pure lei la maglietta del memorial e un’esponente di Azzurro Donna sgomita per farsi un selfie. Questa mania dei selfie sta sfuggendo di mano. Bisogna averne uno, non importa con chi. Selfie per tutti. “Avete tre giorni di tempo per farveli!”, perde la pazienza Maurizio Gasparri.
Ah, se ci fosse ancora lui! L’attore Giancarlo Giannini - “un uomo libero” lo elogia Tajani - legge il discorso filo atlantico e anticomunista che il Cavaliere recitò al congresso americano nel marzo 2006. “Avete visto che attualità? Memorabile!”, commenta il segretario. “Forza Italia sarà la grande protagonista della politica italiana, e protagonista in Europa”, assicura il leader, che domani cambierà lo statuto per consentire l’elezione di quattro vicesegretari, un posto toccherà a Schifani. Decisa anche la decadenza da ogni incarico per chi non paga i 900 euro di quota, Forza Italia detiene storicamente il record di inadempienti, tanto pagava sempre “zio Silvio”. Tra un intervento e l’altro Tajani motiva, comizia, racconta di sé, ma a pomeriggio inoltrato i più hanno ammainato le bandiere. Va bene tutto, ma alla lunga anche cantare «Meno male che Silvio c’è» stanca. Meloni e Salvini si litigano le estreme, i moderati sceglieranno Forza Italia? Il centro in Italia è come il tesoro di Indiana Jones, nessuno ha capito dove sia.
Anche Adriano Galliani è rimasto a Milano, con la scusa che deve fare campagna elettorale a Monza. Provano a fargli raccontare le gesta del grande Milan, in un duetto con Gasparri, ma il collegamento video traballa, a un certo punto salta la linea, Galliani non sembra particolarmente dispiaciuto. Chiude Al Bano. Con Rita Dalla Chiesa cantano “Felicità”. “È un bicchiere di vino con un panino, la felicitaaa”. C’è pure Katia Ricciarelli. È l’Italia della lira. “E ora spostiamoci in zona piscina”, dice Tajani. Bum bum. I fuochi di artificio illuminano la notte di Paestum. Come alle feste del santo patrono nei paesi del Sud. Santo Silvio
I cinque figli di Berlusconi salvano i conti di Forza Italia. Pier Francesco Borgia il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.
I 90 milioni di debito del partito assicurati dalle fideiussioni degli eredi. Stretta sui parlamentari in ritardo con i pagamenti
Celebrare Berlusconi ma al tempo stesso avviare la nuova stagione di Forza Italia, quella in cui il movimento deve imparare a camminare (e correre) sulle proprie gambe. A Paestum i due volti di Forza Italia: quella che il 29 settembre, compleanno dell'ex premier, celebrerà la figura del fondatore di Forza Italia e quella del Consiglio nazionale convocato proprio nell'ultima giornata della trasferta campana (primo ottobre). Un Consiglio durante il quale si discuterà anche di un'importante modifica dello statuto, con l'inserimento di una norma che stabilisca la decadenza dagli incarichi di partito per i consiglieri regionali e parlamentari che non sono in regola con le quote mensili da versare nelle casse del partito.
La fine del finanziamento pubblico dei partiti e la morte di Berlusconi rendono necessaria un'amministrazione della struttura politica molto più rigorosa. I quasi cento milioni di debiti accumulati da Forza Italia sono comunque garantiti dalle fideiussioni assicurate dagli eredi del fondatore del partito. Si è più volte ipotizzata la discesa in campo di uno dei figli del Cavaliere (Marina? Piersilvio?). Le voci sono state poi smentite dai diretti interessati che però hanno assicurato la vicinanza al partito. La figlia Marina ha usato parole nette sul ruolo di Antonio Tajani. Nella sua trasferta romana di metà settembre per partecipare all'assemblea di Confindustria non ha lasciato margine di ambiguità sul supporto che la famiglia garantirà al partito. «Stimo molto Antonio Tajani che sta guidando il partito in una fase di transizione con forte senso di responsabilità - ha ribadito la presidente di Fininvest - noi abbiamo sempre dichiarato che rimarremo vicini al partito. È una questione di amore e di rispetto nei confronti del nostro papà».
Il partito, però, deve iniziare a correre sulle proprie gambe. Da qui il giro di vite sulle quote da versare. «D'altronde - spiega un dirigente azzurro - versare le quote di adesione non è un fatto puramente economico. Serve anche per sottolineare che si è parte attiva di una squadra che si vuole vedere vincere».
A Paestum troverà spazio anche uno stand per la campagna del 2 x mille. «Finora non ha reso granché - ammettono dal partito - ma questo è dovuto anche al fatto che lo stesso Berlusconi non dava molto peso a questa forma di finanziamento». Ora che l'ex premier non c'è più bisogna fare di necessità virtù. Ecco quindi l'idea di dedicare proprio un ufficio alla campagna promozionale per la raccolta dei fondi attraverso il 2 x mille.
La «stretta» contro gli inadempienti (si tratta di rate mensili di 900 euro e di una quota una tantum per la candidatura in un collegio plurinominale) verrà sanzionato con la decadenza dagli incarichi di partito come stabilisce la norma che sarà introdotta nello statuto.
Intanto prosegue l'organizzazione del Berlusconi day di Paestum. Per la kermesse promossa dal coordinatore regionale in Campania, Fulvio Martusciello, verranno schierati quattrocento giovani e duecento rappresentanti di Azzurro donna. Saranno tre giorni di dibattiti con al centro il voto per le europee. Prevista la partecipazione di oltre tremila militanti azzurri e simpatizzanti. Il programma della manifestazione, che ha già fatto registrare il tutto esaurito delle strutture ricettive, è ancora da svelare. «Sarà il segretario Tajani ad annunciare l'agenda - dice Martusciello - agli incontri e alle tavole rotonde previste interverranno, oltre a ministri, esponenti di governo e dirigenti politici di Forza Italia, manager di imprese ed esponenti dell'associazionismo».
Estratto dell'articolo di Marco Palombi per “il Fatto quotidiano” giovedì 24 agosto 2023.
[…] la nuova puntata delle memorie di Nicolas Sarkozy, Le temp des combats, nella parte in cui il condannato per corruzione e traffico di influenza francese parla del pregiudicato per frode fiscale italiano e, segnatamente, di come lui e Angela Merkel – a margine del G20 a Cannes del 3 novembre del 2011, l’autunno dello spread – decisero “di convocare Berlusconi” (sic) per dirgli che doveva dimettersi.
Niente di nuovo, ma è la prima volta che la scena viene descritta da uno dei partecipanti: “Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro.
Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico… L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou (ex premier greco, nda) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami… I mercati hanno capito che noi auspicavamo le sue dimissioni. È stato crudele, ma necessario”.
Com’è noto, il fu Cavaliere si dimise nove giorni dopo. Ora, a parte che fino a che non ha parlato la Bce (luglio 2012) lo tsunami non si era fermato affatto e dunque non era Berlusconi il premio di rischio, come d’altronde non lo era Papandreou, ma non suona un po’ inquietante che i leader di due Paesi pensino di poter “sacrificare” il capo del governo di un Paese terzo, democraticamente indicato a quel ruolo, sulla base di loro (legittime ancorché fallaci) convinzioni?
E non è ancor più inquietante che pensino di poterlo raccontare in pubblico spiegando agli elettori di quel Paese quale ridicola sciarada sia ormai la “sovranità popolare”? Ma soprattutto: ve lo immaginate un premier italiano che dice a un presidente francese che si deve dimettere? Ah no?
La prefazione di Silvio Berlusconi al libro “Berlusconi deve cadere”, di Renato Brunetta (Il Giornale, maggio 2014)
Il sangue è il mio. Il complotto era contro di me. Contro l’Italia, contro la sovranità del popolo italiano che mi aveva scelto con il voto per essere il capo del suo governo. Nel leggere la parola “sangue” ho pensato per un attimo che si fosse trattato proprio di eliminarmi fisicamente. Sarebbe interessante a questo punto sapere i particolari del “piano”.
Obama disse comunque di no, di qualunque cosa si trattasse, come conferma anche un’inchiesta del Financial Times, uscita anch’essa a maggio 2014, che gli fa pronunciare le parole: «I think Silvio is right», penso che Silvio abbia ragione. Grazie. Lo penso ancora.
Avevo ed ho ragione. Non è con l’austerità, non è schiacciando il tallone sul collo della gente che si esce dalla crisi. Soprattutto, il bene della democrazia non è negoziabile, a nessun costo.
Quella volta Obama per due volte disse di no. E il complotto non riuscì. Ma il golpe fu soltanto rimandato. Dovevo essere punito, e con me il popolo italiano che mi aveva scelto.
Era successo che in quell’estate-autunno del 2011, mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fondo monetario internazionale. Non intendevo – anche se lasciato solo dal capo dello Stato – rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale.
Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread.
Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave. Lo prova il fatto che, come ha riconosciuto nell’autunno 2013 il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, la morsa dello spread non si è allentata con l’austerità imposta dal governo Monti, ma solo quando a luglio 2012 Draghi ha promesso che avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per difendere l’euro. Perché queste due parole non sono state pronunciate prima che l’Italia adottasse le riforme di Monti, ingiuste e rabberciate?
Questi ulteriori elementi di prova confermano in modo indiscutibile l’intuizione che il professor Renato Brunetta mi espose sin da allora, e che documenta con una narrazione stringente in queste pagine: e che cioè l’Italia sia stata oggetto, attraverso lo spread e ricatti finanziari di ogni genere, ad un “grande imbroglio” e che Mario Monti fosse il terminale di interessi che poco avevano a che fare con l’interesse nazionale.
I primi mesi del 2014 hanno visto la fioritura di una serie di testimonianze convergenti.
Sin dal giugno del 2011, quando ancora lo spread era ai minimi, Mario Monti era già stato oggetto di un profetico sondaggio da parte del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, così che si tenesse pronto al gran salto a Palazzo Chigi.
Lo ha confessato lo stesso Monti ad Alan Friedman, e lo hanno confermato al medesimo giornalista americano Carlo De Benedetti e Romano Prodi. Addirittura Corrado Passera – si viene a sapere – aveva confezionato un programma economico ad uso di Mario Monti sin da quell’estate. Già nel novembre del 2013, l’ex premier spagnolo Luis Zapatero, nel suo libro Il Dilemma, aveva raccontato che Monti era stato di fatto nominato premier durante il G20 di Cannes da Merkel, Sarkozy, dai burocrati di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale.
La stessa cosa venne confermata poi da Lorenzo Bini Smaghi, allora alla BCE, nel suo libro Morire d’austerità. Brunetta racconta i fatti del 2011 con dovizia di particolari inediti, ma va oltre. E documenta come il colpo di Stato, non pienamente portato a compimento con Monti, abbia poi trovato il suo coronamento con la mia estromissione dal Senato e con la mia incandidabilità per 6 anni. Un’infamia perseguita sulla base di una legge ambigua, applicata retroattivamente a seguito di una condanna infondata e ingiusta (e che sono sicuro sarà capovolta dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo e dalla revisione del processo).
Come si vede gli elementi sono troppi per fingere non sia accaduto nulla di anomalo, e che la democrazia italiana abbia avuto un andamento ligio alla Costituzione. Sono stupefatto che, dinanzi a questa sequenza di avvenimenti per lo meno strana, nessuna procura abbia – almeno nel momento in cui scrivo queste righe – aperto alcun fascicolo con scritto sopra “Estate - autunno 2011: Attentato alla Costituzione”.
Quello che è successo è davvero troppo grave per non determinare conseguenze giudiziarie, perché, oltre ad aver colpito il sottoscritto, ha causato due fatti gravissimi: la sospensione della democrazia nel nostro Paese e l’accettazione supina da parte dei governi venuti dopo il mio delle politiche imposte dall’Europa che hanno prodotto per tanti italiani disoccupazione, tasse, impoverimento e disperazione. Si sta ora discutendo di riforme istituzionali. Direi però che la prima riforma deve essere il ripristino della democrazia. Da quel 2011 in Italia non ci sono più presidenti del Consiglio e governi eletti dai cittadini. La prima riforma dunque deve essere quella di riconoscere la verità e di rimediare ai torti che l’Italia ha subito.
La verità di Sarkozy. «Io e Angela Merkel chiedemmo a Silvio di dimettersi». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2023.
Cannes, 3 novembre 2011, vertice del G20. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel cercano di convincere Silvio Berlusconi «a lasciare la guida del governo». Cosa che poi avverrà pochi giorni dopo, il 12 novembre. Sarkozy aveva già raccontato questo passaggio cruciale. Ma non nei termini e con i particolari ripresi nel suo libro, «Le temps des combats», il tempo delle battaglie, in uscita oggi in Francia, per l’editore Frayard.
L’ex presidente si dice «rattristato per la scomparsa di Berlusconi», poi ricostruisce gli eventi, partendo dal 26 aprile 2011, quando arriva a Roma per un bilaterale franco-italiano. In quell’occasione si mescolano i giudizi su Berlusconi e su Mario Draghi. Scrive Sarkozy: «Le nostre relazioni avevano iniziato a peggiorare. Berlusconi stava diventando la caricatura di se stesso. L’imprenditore brillante, l’uomo politico dall’energia indomabile, non era più che un lontano ricordo. Il triste episodio del “Bunga-Bunga” aveva annunciato una fine poco gloriosa...Ho approfittato di quel viaggio romano per sostenere la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea… Draghi era competente, aperto e simpatico… La sua lunga collaborazione con Goldman Sachs ci avrebbe garantito un approccio più “americano” che “tedesco”. Aspetto decisivo ai miei occhi».
Sarkozy ricorda la micidiale crisi finanziaria, alimentata dalla sfiducia delle Borse. L’allarme in Europa era generale. In questo clima si arriva a novembre, al G20 di Cannes. Anche il presidente americano Barack Obama e il leader cinese Hu Jintao «erano molto preoccupati».
Il summit si era occupato del collasso greco, ma, nota Sarkozy, «a questo punto si trattava di salvare la terza economia dell’eurozona: l’Italia». I tassi di interesse sul debito pubblico avevano raggiunto il 6,4%, un livello considerato insostenibile.
«Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto». Il premier italiano «cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante».
L’incontro diventò sempre più aspro, nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera «con qualche battuta delle sue», che Sarkozy giudicò «completamente fuori luogo».
Epilogo drammatico: «Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro. Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico...L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreu (all’epoca premier greco) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami...I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario».
Fi insorge contro il libro di Sarkozy. Storia di Matteo Marcelli su Avvenire martedì 22 agosto 2023.
Forza Italia insorge contro le rivelazioni dell’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, colpevole di aver infangato la memoria dell’amato fondatore con la sua recente autobiografia, Le temps des combats, da due giorni disponibile nelle librerie d’oltralpe. In effetti il ritratto di Silvio Berlusconi che ne esce fuori non è dei migliori. In particolare per quanto riguarda il racconto di quel terribile 2011, l’anno della caduta più fragorosa dell’ex premier. Sarkò scrive di un Cav. ormai diventato «la caricatura di se stesso», rievoca la triste vicenda del “bunga-bunga”, e rivela un particolare scottante sulla fine del governo italiano dell’epoca: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto», lui «cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto era abbastanza delirante». Poi le parole più dure: «Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico…L’ora era grave. È stato crudele, ma necessario».
Davvero troppo per gli azzurri, per giunta a soli due mesi dalla scomparsa del “presidente per sempre”. «Berlusconi rispetto a Sarkozy ha saputo resistere sulla scena più a lungo, molto più apprezzato e rispettato – è la replica di Maurizio Gasparri –. Sarkozy riversa in questi suoi scritti il livore di un politico fallito». Per Licia Ronzulli invece il libro dell’ex inquilino dlel’Eliseo non è la prova «che la caduta del governo Berlusconi fu il risultato di un complotto internazionale contro l'Italia e gli italiani, di cui egli fu protagonista per sua stessa ammissione, con ben note complicità nel nostro Paese, anche di alto livello». «Sono scritti da chi ha vissuto una parabola discendente fino a scomparire del tutto – chiosa caustico il capogruppo di Forza Italia al Parlamento europeo, Fulvio Martusciello –, ed ora con il libro punta a sbarcare il lunario».
Sarkozy, la reazione di Forza Italia al libro: "Livore di un politico fallito". Il Tempo il 22 agosto 2023
Come era prevedibile la biografia dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha scatenato il dibattito anche in Italia vista l’ammissione del suo ruolo nel "complotto" che portò alla caduta del governo Berlusconi. Da Forza Italia non si sono fatte attendere le reazioni. Licia Ronzulli, presidente dei senatori forzisti, si è chiesta se «Sarkozy avrà dedicato spazio anche alle beghe giudiziarie che lo riguardano tuttora. Invece di denigrare e offendere un grande leader come il presidente Berlusconi che oggi non è più fra noi e non può difendersi».
Maurizio Gasparri, senatore di FI, ha dichiarato: «Sarkozy riversa in questi suoi scritti il livore di un politico fallito, sconfitto sul piano del consenso e sul piano morale. Con queste sue ricostruzioni conferma il suo scarso valore. Aveva illuso tanti, è un fallimento clamoroso».
Per Maria Tripodi, sottosegretario agli Esteri, in una nota ha scritto: «Ci sono leader che rimangono nella storia, altri di cui si dimentica a volte persino il nome. Il signor Sarkozy è probabilmente in cerca di gloria postuma, riscrive gli eventi in maniera grossolana e approssimativa, al limite dell’insulto».
Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto dà una testimonianza di quei giorni convulsi: «Ero ministro in quel governo, considero quella una brutta pagina, non penso che altri governi possano incidere o determinare la caduta di un governo sovrano eletto dal proprio Paese a prescindere non va bene». Anche Maurizio Lupi c’era in quel governo 2011. «Ero vicepresidente della Camera, quella notte eravamo tutti col presidente Berlusconi a Palazzo Grazioli quando prese la decisione di dimettersi; lo avevamo detto: c’era un clima internazionale che spingeva in quella direzione e oggi quelle rivelazioni confermano ovviamente quanto dicevamo noi in quel momento».
Per Tullio Ferrante, deputato di Forza Italia e sottosegretario alle Infrastrutture, «occorre qualche precisazione». Va chiarito «che le sue dimissioni (Berlusconi) non furono dettate dai poco diplomatici ed eleganti sorrisini suoi e della cancelliera Merkel o da presunte opere di convincimento dagli stessi esercitate, ma da un gesto di concordia nazionale che Silvio Berlusconi fu costretto a fare a fronte di un ampio blocco istituzionale, politico, economico/finanziario, mediatico che, non avendolo sconfitto nelle urne, provò a farlo con una manovra spericolata, aiutato da pericolosi speculatori con la minatoria leva dello spread, che si concluse con un poco onorevole governo tecnico».
La vera storia del golpe che fermò Berlusconi nel 2011. Davide Vecchi su Il Tempo il 23 agosto 2023
Per descrivere la catena di eventi che nel 2011 portarono alla caduta del governo Berlusconi c’è un pamphlet scritto nel 1931 da Curzio Malaparte che calza a pennello, perché spiega lucidamente la tecnica di prendere il potere: con la nomina-lampo a senatore a vita, Monti poté infatti legittimarsi come espressione dello stesso Parlamento in cui era stato paracadutato da Napolitano, e così il massimo tempio della sovranità popolare divenne complice del disegno quirinalizio, accettando il fatto compiuto e legalizzandolo formalmente. Il tutto giustificato dallo «stato di necessità».
Se non fu un golpe nel senso tradizionale del termine, con i militari nelle piazze, si trattò comunque di un colpo di Stato moderno di cui la storia è colma, ma nella democraticissima Europa non era mai accaduto che un governo eletto – traballante ma mai sfiduciato dalle Camere - fosse destituito così, attraverso una congiura combinata tra attori interni ed ingerenze straniere: dal punto di vista costituzionale, una cosa gravissima.
Sono le rivelazioni contenute nel nuovo libro di Nicolas Sarkozy, "Le temps des combats", a confermare che la congiura ci fu, con l’Italia condannata a seguire il destino della Grecia attraverso una studiata combinazione di manovre politiche e di tempeste finanziarie, attraverso l’uso sapiente degli spread, per imporre ai due Paesi l’austerità a trazione franco-tedesca. Ma mentre il governo socialista di Atene aveva truccato i conti dello Stato, in tre anni e mezzo il governo Berlusconi aveva varato quattro manovre finanziarie per un impatto complessivo sui conti pubblici, nel periodo 2008-2014, di 265 miliardi, con l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, come attestato dalle considerazioni finali di Bankitalia del 31 maggio: «La gestione della crisi è stata prudente, il pareggio di bilancio appropriato, la correzione richiesta all’Italia inferiore rispetto a quella necessaria per altri Paesi». E lo stesso tipo di considerazioni positive ci fu a fine luglio 2011, nel consiglio dei capi di Stato e di governo europei. Ma una settimana dopo arrivò la lettera-diktat della Bce che ordinava al governo italiano di varare, per decreto, una manovra bis da 65 miliardi che si sommava a quella da 80 miliardi decisa appena un mese prima. Com’era possibile che un grande Paese come l’Italia (too big to fail) fosse precipitato nel giro di pochi giorni in una crisi così profonda?
Eppure Sarkozy accomuna incredibilmente la situazione dei due Paesi: «L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami [...]I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario». E ancora: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto», cercando di convincerlo «a lasciare la guida del governo». In realtà, i governi affidati nelle mani di due tecnocrati non abbassarono affatto la febbre degli spread, e la crisi sarebbe stata superata solo nel 2012 col famoso "Whatever it takes" della Bce di Draghi.
La ricostruzione di quei mesi è nota, con il Quirinale sempre più interventista nella politica parlamentare, e con una serie impressionante di anomalie: le consultazioni continue al Colle, le lettere e i richiami della Bce e della Commissione europea scritti da manine italiane, l’attacco speculativo ai titoli Mediaset, la frettolosa vendita di sette miliardi di titoli di Stato da parte di Deutsche Bank, le risatine della Merkel e di Sarkozy diffuse e amplificate dai media italiani e stranieri.
Fu poi il Wall Street Journal a scrivere che la cancelliera Merkel «incoraggiò gentilmente» Napolitano «a cambiare il primo ministro se Berlusconi non fosse riuscito a cambiare l’Italia». Tesi poi confermata dall’ex segretario al Tesoro americano Tim Geithner, il quale, nel suo libro di memorie, rivelò di quando «alcuni funzionari europei» chiesero senza successo all’amministrazione Obama di impegnarsi per far uscire Berlusconi di scena. Nel frattempo sul Corriere della Sera usciva un editoriale intitolato "Il podestà straniero" scritto da Mario Monti che censurava l’incapacità del governo di prendere serie decisioni. Un’autocandidatura a premier già di fatto concordata col Quirinale prima ancora che esplodesse lo spread.
Ma il golpe strisciante aveva radici più lontane, ed era stato sventato nel dicembre precedente quando Fini dopo la scissione con Fli tentò la spallata al governo fallita grazie ai Responsabili, e chi frequentava i Palazzi conosceva bene la sintonia fra il Quirinale e il presidente della Camera. Il quale, come altri, non vedeva l’ora di disarcionare Berlusconi nell’illusione di prenderne il posto, senza sapere che Napolitano aveva in mente la svolta tecnica.
Lo sparo di Sarajevo fu il voto sul rendiconto dello Stato, nel quale la maggioranza si fermò a 308 voti, con Berlusconi che annotò su un foglietto gli «otto traditori». Ma i malpancisti erano molti di più dentro Forza Italia, e gli echi del vertice di Cannes del 3 novembre, solo qualche giorno prima, avevano alimentato le fibrillazioni.
A livello internazionale l’immagine di Berlusconi era stata compromessa dai gossip personali, ma anche dalle fregole di qualche suo ministro che ne diceva peste e corna nei consessi oltre confine.
A Palazzo Grazioli il clima era di massima allerta, con lo stato maggiore del partito riunito quasi in permanenza. Quando Napolitano chiamò Berlusconi per informarlo della volontà di nominare Monti senatore a vita, non tutti compresero subito che quello era il segnale della fine. Si alzò però una voce concitata che disse: «Presidente, cosa ci stai dicendo, capisci che questo è il primo passo per farti fuori? Il Colle ti sta chiedendo di accettare un senatore a vita nominato in 48 ore, il Ppe che è casa nostra lo sta benedicendo, questo è un golpe vero e proprio». Berlusconi era molto provato, ma non voleva assolutamente mollare: Napolitano aveva chiesto un nuovo voto sul rendiconto, una verifica parlamentare della maggioranza insomma, ma nessuno era in grado di garantire al premier – che chiedeva se ci fossero numeri certi alla Camera – il rientro nei ranghi dei malpancisti. Da fuori la spinta di Merkel e Sarkozy era fortissima, come quella delle agenzie di rating e dei mercati finanziari. Nel cerchio ristretto berlusconiano cominciava a farsi spazio la rassegnazione e serpeggiavano i dubbi: ma i nostri all’Europarlamento cosa fanno? Chi tiene i contatti col Partito Popolare non si è accorto di nulla, non ha visto che Doll sta orchestrando il complotto? Gli sono passati gli aeroplani sopra la testa? Anche se Berlusconi aveva assicurato a tutti di aver risposto colpo su colpo a Merkel e Sarkozy, Gianni Letta era il più preoccupato di tutti per l’atteggiamento ostile della strana coppia che comandava l’Europa che ormai riteneva il Cavaliere «imbarazzante». Mentre Brunetta rumoreggiava chiedendo di rispondere in modo durissimo alla lettera della Bce.
Alla fine Berlusconi gettò la spugna e si dimise: «Era successo – avrebbe rivelato anni dopo - che in quell’estate-autunno 2011 mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Merkel e Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fmi. Non intendevo - anche se lasciato solo dal capo dello Stato - rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread. Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave».
Eccola la vera storia. Una storia da tecnica di colpo di Stato, in cui ebbero un ruolo cancellerie, poteri forti, avversari politici ma anche amici che si voltarono dall’altra parte.
Sarkozy, la prova del golpe anti-Cav: "Così lo abbiamo fatto dimettere". Roberto Tortora su Libero Quotidiano il 22 agosto 2023
Per Nicolas Sarkozy è “Il Tempo delle Battaglie”, il che non significa che ritorna a candidarsi alla presidenza della Francia, bensì che esce il suo nuovo libro, edito da Frayard, che s’intitola appunto “Le temps des combats”. E sono tante le rivelazioni in esso contenute, una su tutte che riguarda l’Italia e Silvio Berlusconi, recentemente scomparso. Cannes, 3 novembre 2011, vertice del G20: l’ex-premier francese e Angela Merkel cercano di convincere Silvio Berlusconi "a lasciare la guida del governo". Cosa che poi avverrà pochi giorni dopo, il 12 novembre. Sarkozy racconta l’evolversi della vicenda, a partire dal 26 Aprile 2011, quando arriva a Roma per un bilaterale franco-italiano: “Le nostre relazioni avevano iniziato a peggiorare. Berlusconi stava diventando la caricatura di se stesso. L’imprenditore brillante, l’uomo politico dall’energia indomabile, non era più che un lontano ricordo. Il triste episodio del “Bunga-Bunga” – racconta Sarkozy - aveva annunciato una fine poco gloriosa...Ho approfittato di quel viaggio romano per sostenere la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea… Draghi era competente, aperto e simpatico… La sua lunga collaborazione con Goldman Sachs ci avrebbe garantito un approccio più “americano” che “tedesco”. Aspetto decisivo ai miei occhi”.
Sarkozy ricorda la micidiale crisi finanziaria e l’allarme in Europa era generale. Anche il presidente americano Barack Obama e il leader cinese Hu Jintao erano preoccupati. Il G20 di Cannes si era occupato del collasso greco, ma, sempre su rivelazioni del marito di Carla Bruni, “a questo punto si trattava di salvare la terza economia dell’eurozona: l’Italia”. Da lì, l’iniziativa con l’ex-cancelliera tedesca su Berlusconi: “Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto. Il premier italiano cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante. L’incontro diventò sempre più aspro – racconta Sarkozy - nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera con qualche battuta delle sue, completamente fuori luogo”.
Fino all’epilogo drammatico: “Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro. Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico...L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreu (all’epoca premier greco) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami...I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario”. Se questa non è la prova di un golpe...
Estratto dell’articolo di Mauro Zanon per “Libero Quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.
A Parigi non si parla d’altro in questa estate che volge al termine: Le Temps des combats (Fayard), il nuovo libro di Nicolas Sarkozy, opera fiume di 592 pagine dove l’ex presidente della Repubblica francese ripercorre i suoi anni all’Eliseo (2007-2012), distribuendo voti, giudizi e cattiverie ai leader politici che ha incrociato […]
Il volume, corredato da una raccolta di fotografie pubbliche e private dell’ex inquilino dell’Eliseo, è il terzo tomo dei suoi mémoires, dopo Passions e Le Temps des tempêtes, ed è ricco di aneddoti saporiti. Come quel terribile pranzo all’Eliseo con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, con cui non era d’accordo su nulla, sotto lo sguardo costernato dei diplomatici francesi.
O come le sue sbuffate ripetute verso Angela Merkel, di cui critica la «pusillanimità» e l’avversione al rischio. «Accettava di seguire, ma era soltanto una perdita di energia e di tempo», scrive Sarkozy, che con la cancelliera si era reso protagonista di uno degli episodi più infelici del suo mandato, le risatine su Berlusconi e l’affidabilità del suo governo. […]
Nel novembre 2020, l’ex presidente americano Barack Obama aveva emesso un giudizio sprezzante contro il suo omologo francese, definendolo «un galletto che gonfia il petto» e niente più, paragonandolo a «un personaggio uscito da un quadro di Toulouse-Lautrec».
Sarkozy, […]evidentemente ancora risentito dal comportamento obamiano, ha definito il premio Nobel per la pace 2009 un tipo «freddo, introverso e che manifesta uno scarso interesse verso tutti quelli che lo attorniano», e descritto nel dettaglio il loro rapporto a mezze tinte, rievocando tra gli altri l’episodio della designazione del danese Anders Fogh Rasmussen come nuovo segretario generale della Nato.
La decisione di nominare Rasmussen, all’epoca, rischiò di saltare a causa della Turchia, indispettita dalla pubblicazione delle caricature di Maometto sul Jyllands-Posten in Danimarca. «Quell’episodio mi ha aiutato ad aprire gli occhi sull’importanza che gli americani davano alla Turchia, e fino a che punto erano pronti ad aiutare il loro amico (Recep Tayyip Erdogan, ndr).
Barack Obama era disposto a cedere o quantomeno... a lasciar passare un po’ di tempo. Io e Angela Merkel ci siamo opposti con un fronte unito fino a tarda notte perché eravamo certi che fosse una questione di civiltà dalla portata simbolica. Né lei né io eravamo disposti a cedere alla minaccia. Rinunciare a quella nomina significava accettare il diktat delle fatwa. Il campo della ragione ebbe la meglio», scrive Sarkozy nelle sue memorie.
Secondo l’ex presidente francese, le relazioni con Obama, che già non erano eccellenti, si degradarono dopo quell’episodio. «Da quel giorno, i miei rapporti con Obama non furono più gli stessi. Facevo fatica a perdonargli una tale mancanza di convinzione su un tema così grave», afferma Sarkò.
Condannato in appello a tre annidi prigione per corruzione e abuso d’ufficio lo scorso maggio, fatto senza precedenti per un presidente della Repubblica francese, Sarkozy si è espresso anche sulla guerra in Ucraina, dicendo che la Francia sbaglia a consegnare «armi a flusso continuo a uno dei belligeranti» e prendendo di mira «le posture di convenienza» di quelli che invitano a sostenere l’Ucraina «fino alla fine».
«È ragionevole fare la guerra senza farla e portare avanti un conflitto senza preoccuparsi di precisare quali sono gli obiettivi che si cerca di raggiungere?», si interroga Sarkò, giudicando illusorio qualsiasi passo indietro sul piano territoriale, che si tratti della Crimea e del Donbass.
[…] E Marine Le Pen? «Ha fatto molti progressi e conosce meglio i suoi dossier», ma secondo Sarkozy soffre ancora di una «mancanza di cultura».
Berlusconi, "chi e perché mi ha fatto fuori". L'atto di accusa del 2014. Silvio Berlusconi su Libero Quotidiano il 24 agosto 2023
Pubblichiamo la prefazione di Silvio Berlusconi al libro di Renato Brunetta Berlusconi deve cadere (Il Giornale, maggio 2014) nel quale racconta i momenti che hanno preceduto le sue dimissioni da premier nel 2011.
Il sangue è il mio. Il complotto era contro di me. Contro l’Italia, contro la sovranità del popolo italiano che mi aveva scelto con il voto per essere il capo del suo governo. Nel leggere la parola “sangue” ho pensato per un attimo che si fosse trattato proprio di eliminarmi fisicamente. Sarebbe interessante a questo punto sapere i particolari del “piano”. Obama disse comunque di no, di qualunque cosa si trattasse, come conferma anche un’inchiesta del Financial Times, uscita anch’essa a maggio 2014, che gli fa pronunciare le parole: «I think Silvio is right», penso che Silvio abbia ragione. Grazie. Lo penso ancora. Avevo ed ho ragione. Non è con l’austerità, non è schiacciando il tallone sul collo della gente che si esce dalla crisi. Soprattutto, il bene della democrazia non è negoziabile, a nessun costo. Quella volta Obama per due volte disse di no. E il complotto non riuscì. Ma il golpe fu soltanto rimandato. Dovevo essere punito, e con me il popolo italiano che mi aveva scelto.
NO ALL’AUSTERITÀ
Era successo che in quell’estate-autunno del 2011, mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fondo monetario internazionale. Non intendevo – anche se lasciato solo dal capo dello Stato – rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread. Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave. Lo prova il fatto che, come ha riconosciuto nell’autunno 2013 il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, la morsa dello spread non si è allentata con l’austerità imposta dal governo Monti, ma solo quando a luglio 2012 Draghi ha promesso che avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per difendere l’euro. Perché queste due parole non sono state pronunciate prima che l’Italia adottasse le riforme di Monti, ingiuste e rabberciate?
Questi ulteriori elementi di prova confermano in modo indiscutibile l’intuizione che il professor Renato Brunetta mi espose sin da allora, e che documenta con una narrazione stringente in queste pagine: e che cioè l’Italia sia stata oggetto, attraverso lo spread e ricatti finanziari di ogni genere, ad un “grande imbroglio” e che Mario Monti fosse il terminale di interessi che poco avevano a che fare con l’interesse nazionale. I primi mesi del 2014 hanno visto la fioritura di una serie di testimonianze convergenti. Sin dal giugno del 2011, quando ancora lo spread era ai minimi, Mario Monti era già stato oggetto di un profetico sondaggio da parte del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, così che si tenesse pronto al gran salto a Palazzo Chigi.
I SONDAGGI DEL COLLE
Lo ha confessato lo stesso Monti ad Alan Friedman, e lo hanno confermato al medesimo giornalista americano Carlo De Benedetti e Romano Prodi. Addirittura Corrado Passera – si viene a sapere – aveva confezionato un programma economico ad uso di Mario Monti sin da quell’estate. Già nel novembre del 2013, l’ex premier spagnolo Luis Zapatero, nel suo libro Il Dilemma, aveva raccontato che Monti era stato di fatto nominato premier durante il G20 di Cannes da Merkel, Sarkozy, dai burocrati di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. La stessa cosa venne confermata poi da Lorenzo Bini Smaghi, allora alla BCE, nel suo libro Morire d’austerità. Brunetta racconta i fatti del 2011 con dovizia di particolari inediti, ma va oltre. E documenta come il colpo di Stato, non pienamente portato a compimento con Monti, abbia poi trovato il suo coronamento con la mia estromissione dal Senato e con la mia incandidabilità per 6 anni. Un’infamia perseguita sulla base di una legge ambigua, applicata retroattivamente a seguito di una condanna infondata e ingiusta (e che sono sicuro sarà capovolta dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo e dalla revisione del processo). Come si vede gli elementi sono troppi per fingere non sia accaduto nulla di anomalo, e che la democrazia italiana abbia avuto un andamento ligio alla Costituzione. Sono stupefatto che, dinanzi a questa sequenza di avvenimenti per lo meno strana, nessuna procura abbia – almeno nel momento in cui scrivo queste righe – aperto alcun fascicolo con scritto sopra “Estate - autunno 2011: Attentato alla Costituzione”. Quello che è successo è davvero troppo grave per non determinare conseguenze giudiziarie, perché, oltre ad aver colpito il sottoscritto, ha causato due fatti gravissimi: la sospensione della democrazia nel nostro Paese e l’accettazione supina da parte dei governi venuti dopo il mio delle politiche imposte dall’Europa che hanno prodotto per tanti italiani disoccupazione, tasse, impoverimento e disperazione. Si sta ora discutendo di riforme istituzionali. Direi però che la prima riforma deve essere il ripristino della democrazia. Da quel 2011 in Italia non ci sono più presidenti del Consiglio e governi eletti dai cittadini. La prima riforma dunque deve essere quella di riconoscere la verità e di rimediare ai torti che l’Italia ha subito.
Tradimenti e lezioni. In questo Paese il libro di un generale ha scandalizzato molti benpensanti, ma se c'è un libro che dovrebbe turbare tutti gli italiani, o almeno quelli animati da un minimo di patriottismo (e non credo di sconfinare nella retorica), sono le memorie dell'ex presidente francese, Nicolas Sarkozy. Augusto Minzolini il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
In questo Paese il libro di un generale ha scandalizzato molti benpensanti, ma se c'è un libro che dovrebbe turbare tutti gli italiani, o almeno quelli animati da un minimo di patriottismo (e non credo di sconfinare nella retorica), sono le memorie dell'ex presidente francese, Nicolas Sarkozy. L'illustre personaggio, che prese soldi da Gheddafi e scatenò una guerra per non restituirli, regalandoci quella terra di nessuno che è la Libia di oggi, racconta come se fosse il comportamento più lecito del mondo che al G20 di Cannes del novembre 2011 lui e la Merkel «convocarono» l'allora premier Silvio Berlusconi per chiedergli di «dimettersi» visto che, secondo entrambi, il problema della crisi sui mercati «era lui». Naturalmente uno degli argomenti, scrive Sarkozy, fu la vicenda del «bunga bunga», per la quale il Cav - qui la memoria dell'ex presidente fa cilecca, forse per via del braccialetto elettronico a cui la giustizia francese lo ha sottoposto - poi fu assolto.
Sarkò e la Merkel dovrebbero vergognarsi, visto che quello è stato il momento più basso toccato dall'Unione. Anzi, è l'emblema del motivo per cui l'Europa stenta a decollare: la totale assenza di solidarietà (a parte la breve parentesi del Covid). Unita, in quell'occasione, ad una concezione della democrazia e del rispetto della volontà popolare da brivido: è come se oggi la Meloni e il cancelliere Scholz convocassero Macron al prossimo G7 in Puglia per intimargli di dimettersi per sedare le rivolte sociali in Francia.
Colpiscono la superficialità e la tracotanza con cui Sarkozy rivendica pubblicamente quella scelta, specie se si tiene conto che in quei giorni, quando i due, il gatto e la volpe, chiesero per vie traverse al presidente Usa Barack Obama di unirsi al complotto, ricevettero un «no» scandalizzato e categorico: «Non possiamo avere il sangue di Berlusconi sulle nostre mani». Una concezione diversa della democrazia. Del resto, al tempo, mentre a Washington si predicava la politica dello sviluppo per uscire dalla crisi, in Europa, grazie a Berlino e Parigi, si praticava il credo del rigore. Anzi, addirittura si individuarono due capri espiatori, la Grecia e l'Italia. Al punto che i tedeschi sponsorizzarono quella specie di «viceré» che fu Mario Monti per imporre la loro linea. E pensare che se il whatever it takes di Draghi fosse stato messo in atto un anno prima, l'Europa non avrebbe pagato, com'è avvenuto, cara la crisi. Una dimostrazione dei limiti della classe dirigente della Ue.
Ma le rivelazioni di Sarkò mettono sotto i riflettori anche i limiti della sinistra italiana, che all'epoca assunse il ruolo di quinta colonna del complotto (vedi l'inquilino del Quirinale di quegli anni), mettendo in atto una campagna di delegittimazione del governo e di Berlusconi. L'apoteosi di quel limite della sinistra che il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, lamenta ancora oggi per il tipo di opposizione praticata nei confronti del governo Meloni: «La fatica ad abbracciare il patriottismo». Ormai stiamo parlando di storia, ma quelle vicende vanno ricordate per rispetto al personaggio Berlusconi, perché da lì partì il suo calvario. E con un occhio anche al presente, per evitare che quell'attentato alla democrazia e quello sfregio alla volontà popolare si ripetano.
La via obbligata verso la Francia. Marco Gervasoni il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.
Poniamoci subito un interrogativo scomodo. Siamo sicuri che, quel che accadde nell'autunno 2011, raccontato dal libro di memorie di Nicolas Sarkozy, non potrebbe succedere ancora? Cioè che il presidente francese e il cancelliere tedesco non domandino più a un premier italiano di lasciare? La formula, usata dall'ex presidente francese, «chiedemmo a Berlusconi di dimettersi», è infatti diplomatica; è molto probabile che Francia e Germania imposero al Cavaliere di rimettere l'incarico. Naturalmente, essi si permisero una tale forzatura, perché sapevano che la maggioranza era stata pesantemente falcidiata dall'azione del presidente della Camera, Gianfranco Fini. E perché la zona euro era sull'orlo del collasso. Si tratta, quindi, di un fatto assai grave, ma la cui eccezionalità farebbe pensare che non possa mai più accadere. E invece, su questo, non saremmo del tutto certi. Per una serie di ragioni. La prima, per come si è costituita storicamente l'Europa: in essa l'Italia, nonostante la sua importanza e il suo essere tra i fondatori nel 1957, riveste un ruolo di secondo piano. Giocano fattori storici: abbiamo perso la seconda guerra mondiale, come la Germania, certo, che però ha saputo costruire un sistema paese coeso e inattaccabile, sul piano dei fondamentali economici e finanziari: l'Italia invece, dopo la breve parentesi degli anni Cinquanta e Sessanta, è riprecipitata nella maledizione storica del debito pubblico e della eterna conflittualità interna. La seconda, per fattori geopolitici: Germania e Francia costituiscono spazialmente il centro dell'Europa, quello che confina idealmente da un lato con il blocco atlantico inglese e poi anglo americano e ad est con quello eurasiatico, costituito da Russia e, nel XX secolo, Cina. L'Italia insomma, già nell'Ottocento, nonostante i sogni e, a volte, i deliri di grandezza imperiali della classe politica post risorgimentale, è sempre rimasta una media potenza. Tutto questo per dire che la storia, la geografia e l'economia, ci rendono un attore debole all'interno della Ue, e soprattutto »continuamente attaccabile per via dell'abnorme debito pubblico. Un attore che, per forza di cose, ha dovuto aggiornare nella Ue la pratica dei cosiddetti giri di valzer della diplomazia dei primi decenni post unitari: a volte ballando con la Germania, a volte con la Francia. Quando prevale l'asse franco-tedesco, come si vide nell'autunno 2011, per noi sono dolori. Ora, di fronte alla nuova versione del «patto di stabilità», l'unica possibilità che il nostro paese ha di non essere stritolato, è quello di ballare questo giro con la Francia di Macron. È questo il senso del Patto dell'Eliseo, voluto dal presidente della Repubblica e da Mario Draghi, proprio perché consci che solo uno stretto rapporto con Parigi consentirebbe all'Italia di non finire nelle maglie dell'austerità tedesca.
La Francia non ha ovviamente i nostri stessi problemi, non cade sulle sue spalle lo stesso nostro debito pubblico ma, per citare il primo ministro di Sarkozy, Fillon, è pure «uno Stato in fallimento», come egli ammise candidamente da Matignon proprio nel novembre 2011. E più volte l'attuale ministro della Economia, Le Maire, anch'egli ex uomo di Sarko, ha mosso critiche al nuovo patto di stabilità sub specie tedesca e nordica. Insomma, questa è una porta stretta, ma l'unica da cui però passare.
"Quella grave interferenza che trovò complici interni". Il ministro degli Esteri e leader Fi: «Molte imprecisioni nel racconto di Sarkozy, irrispettoso verso Berlusconi». Gabriele Barberis il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
«Oggi mi sono dedicato alla famiglia a Fiuggi», confida Antonio Tajani tra la presentazione del libro di Andrea Riccardi a Fondi e la trasferta odierna in Emilia Romagna per partecipare al Meeting di Rimini e poi visitare le zone alluvionate a Forlì. Ma per il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia la giornata di relax è stata guastata dalle memorie velenose dell'ex presidente francese Sarkozy, che si è vantato di avere fatto cadere il governo Berlusconi nel 2011. Tajani all'epoca era commissario Ue all'Industria e già uno dei maggiorenti del Ppe. È una vicenda che ha vissuto da protagonista delle relazioni internazionali e che desidera ricostruire in questa intervista al Giornale.
La confessione tardiva del vostro ex alleato gollista è una ricostruzione molto velenosa nei confronti di Berlusconi. Quali sentimenti suscita in lei quasi dodici anni dopo?
«Mi pare ci siano due fatti gravi. Il primo: in democrazia un Paese non può interferire nella vita di un altro, per lo più amico e alleato, per modificarne il governo. Che diritto aveva Sarkozy di fare dimettere il presidente del Consiglio italiano? Fu un'operazione scorretta e illegittima. Come seconda conseguenza, fare cadere un esecutivo riconducibile al Ppe ha significato aprire le porte agli avversari in Italia».
E nel merito della narrazione di Sarkozy come controbatte? Andò veramente così?
«Ci sono molte imprecisioni. Sarkozy non racconta che in quell'incontro c'era anche il presidente Usa Obama che invece difese Berlusconi, dicendo che non si sarebbe sporcato con il suo sangue. Anche il passaggio sul debito pubblico italiano è scorretto: non si ricorda che il valore del patrimonio privato italiano era superiore all'esposizione e che c'erano i soldi nelle banche. Quindi non c'era quell'emergenza usata come operazione politica contro il Paese. È la dimostrazione che aveva ragione Berlusconi, che oltretutto rifiutò i 40 miliardi proposti dal Fmi paragonandoli a un'elemosina. Anche in quell'occasione lui tutelò il proprio Paese, ma forse per Sarkozy quell'Italia contava troppo sulla scena internazionale. Sono sbagliati pure i riferimenti a Draghi: era Berlusconi a volerlo capo della Bce e non lui, oltre a ad altre incongruenze sulle date dei fatti narrati».
La foto di Sarkozy e Merkel che deridono il presidente del Consiglio italiano resta nella storia del Paese. L'ex presidente francese coinvolge pienamente nella defenestrazione di Berlusconi anche l'ex cancelliera tedesca. Ebbero un ruolo paritario in quel golpe contro l'Italia?
«Più Sarkozy di Merkel. C'era la questione libica legata anche agli interessi petroliferi: la Francia contava molto poco e mal sopportava la presenza italiana in Nord Africa».
Lei ha avuto negli anni molte occasioni per parlare in privato con la Merkel. Quale fu la sua versione dei fatti?
«Berlusconi ricucì i rapporti con Merkel, ma con Sarkozy non ci furono più contatti. Ero presente all'incontro tra Berlusconi e Merkel al congresso Ppe di Malta del 2017, dove l'ex cancelliera tedesca capì quanto fossero importanti l'Italia e Forza Italia. Infatti lei con si arrivò al chiarimento».
La caduta del 2011 resta una ferita aperta. Ci furono quinte colonne italiane, non solo a sinistra, che remarono contro il Paese soltanto per sovvertire il voto degli elettori a favore del centrodestra?
«Sicuramente ci furono complici interni tra chi tramava contro Berlusconi, oltre a parecchi settori della vita pubblica che interloquivano con altri. La sua personalità forte dava fastidio a molti. E così, non riuscendo a batterlo alle urne, trovarono altri modi per spodestarlo, prima da presidente del Consiglio e poi dal Senato».
Fervono le trattative per le alleanze nel centrodestra europeo per le elezioni del 2024. Potranno ancora pesare i veleni interni del passato o la vicenda del 2011 è un capitolo chiuso?
«Vicenda chiusa e legata solo a quel momento. Sarkozy non ha più rilievo in Francia e in Europa, problema superato. Restano purtroppo i modi non rispettoso di rivolgersi a un grande protagonista che è stato anche invitato a intervenire al congresso Usa».
Oggi sono ancora ipotizzabili manovre internazionali così invasive da mettere a rischio il governo Meloni?
«Mi auguro che questo non accada mai più, è contro ogni fondamento democratico il voler interferire nella vita di altri Paesi. Di tutta la vicenda, resta l'occasione per ricordare come Berlusconi abbia sempre difeso in ogni modo l'interesse nazionale dell'Italia».
Sarkozy ammette il golpe morbido contro Berlusconi nel 2011: “fu crudele ma necessario”. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 23 Agosto 2023
L’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, nel suo ultimo libro “Il tempo delle battaglie”, ha confermato ciò che molti osservatori politici sostenevano da tempo: la caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011 fu ordita dall’asse franco-tedesco per imporre l’austerità all’Italia, utilizzando l’arma finanziaria come strumento, in particolare la leva dello spread e la relativa crisi dei debiti pubblici. In altre parole, si è trattato di colpo di stato mascherato, in quanto difficile da classificare come tale. È stato, infatti, utilizzato l’espediente della necessità di evitare un presunto fallimento per destituire un governo democraticamente eletto e sostituirlo con un governo tecnico. Parallelamente al golpe finanziario italiano, fu portato avanti anche quello in Grecia, che comportò la caduta del premier socialista Giorgos Papandreu. Tuttavia, come ha indirettamente ammesso Sarkozy, furono proprio le manovre di Francia e Germania ad agitare i mercati portando all’aumento dello spread e alle pressioni politiche per far dimettere Berlusconi: «L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami […] I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario», scrive l’ex presidente francese nel suo libro.
Il contesto era quello della crisi dei debiti sovrani seguita alla recessione economica del 2008: privi di un prestatore di ultima istanza che garantisse i titoli del debito pubblico – nell’impianto economico-finanziario comunitario la BCE non svolge questo ruolo se non in casi di emergenza come avvenuto durante il periodo pandemico con il Pandemic Emergence Purchase Program – gli Stati si sono trovati esposti alle speculazioni degli investitori internazionali – i famigerati “mercati” – che possono influenzare il tasso di interesse sui titoli sovrani attraverso, ad esempio, il credit default swap, swap che ha la funzione di trasferire il rischio di credito, aumentando il differenziale con i bond tedeschi. Le intenzioni dichiarate da Sarkozy erano quelle di evitare un peggioramento dei conti pubblici e il conseguente presunto default. Tuttavia, furono proprio le operazioni messe in atto dalla Deutsche Bank e dalla BCE – dietro la regia dell’asse franco-tedesco – a decretare l’aumento del differenziale con i titoli di stato tedeschi (il cosiddetto spread): il 30 giugno 2011 la Banca centrale tedesca mise in vendita scientemente 8 miliardi di euro di titoli di Stato italiani su 9 che ne aveva in portafoglio scatenando il panico tra gli investitori che chiesero così rendimenti più alti facendo lievitare lo spread. Successivamente, ad agosto la BCE annunciò che per supportare i titoli di Stato italiani, il governo di Roma doveva approvare una nuova manovra che soddisfacesse le richieste degli organismi internazionali. Ciò, nonostante pochi mesi prima, Bruxelles avesse approvato la finanziaria stilata dal governo italiano.
L’intento della manovra ordita ai danni dell’allora governo italiano era quello di imporre un regime di austerità all’Italia non tanto per abbassare il debito pubblico e contenere l’aumento dello spread – cosa che non avvenne fino al celebre “Wathever it takes” di Mario Draghi – quanto per rallentare lo sviluppo economico della penisola e iniziare a smantellarne lo Stato sociale. Berlusconi era particolarmente inviso agli ambienti comunitari non solo perché contrario a una politica di eccessivo rigore e più propenso ad una politica economica espansiva, ma anche perché si era rivelato critico nei confronti dell’intervento in Libia, sostenuto innanzitutto proprio dall’Eliseo. Nel suo libro autobiografico, “Il dilemma”, l’ex premier spagnolo José Luiz Zapatero ha parlato di un’offensiva contro l’Italia premeditata e «condotta per terra, aria e mare». Sarkozy, invece, nel suo ultimo libro, raccontando l’ultimo incontro col Cavaliere a Cannes, lo descrive come «patetico e delirante»: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto. Il premier italiano cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante. L’incontro diventò sempre più aspro nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera con qualche battuta delle sue, completamente fuori luogo».
Gli artefici della “strategia” franco-tedesca a livello comunitario furono l’allora governatrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde e il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, entrambi francesi: quest’ultimo in piena fase di crisi dei debiti procedette a due incauti rialzi del tasso di sconto, che crebbe dall’1% all’1,50%, nell’estate 2011; la Lagarde, invece, propose a Roma di accettare una linea di credito forzosa da 80 miliardi di euro che avrebbe messo Roma sotto il controllo della Troika costituita da Ue, Fmi e Bce. In seguito al rifiuto del Cavaliere, vennero messe in atto le manovre finanziarie che portarono alla crisi dello spread: il governo di Berlusconi cadde il 16 novembre 2011, cinque giorni dopo quello di Papandreou.
La classe politica italiana non fece quadrato contro l’attacco di Stati stranieri, ma approfittò per regolare i conti interni in una logica che affligge da sempre la storia d’Italia, anche con la complicità dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il tutto fu favorito dall’architettura finanziaria europea nella quale gli Stati sono esposti alle speculazioni finanziarie. La crisi dello spread, infatti, si risolse solo con l’intervento della BCE disposto dall’allora governatore Mario Draghi: «Ho un messaggio chiaro da darvi: nell’ambito del nostro mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza» furono le ormai celebri parole di Draghi. Da quel momento, con la copertura della BCE, i tassi d’interesse sui titoli scesero velocemente.
Il golpe finanziario del 2011, ammesso dallo stesso Sarkozy, è l’esempio più nitido di come la finanza sia in grado di avere il sopravvento sugli Stati portando alla destituzione di governi legittimi scelti dai cittadini, spazzando via così i processi e la stessa sostanza della democrazia, messa a rischio non tanto da presunti governi autoritari, bensì dalla logica dei mercati e della speculazione finanziaria, con la complicità delle lotte di potere interne agli Stati dell’Unione europea. [di Giorgia Audiello]
"Ubriaco", "Utile idiota". Quando tra Prodi e Berlusconi furono scintille in tv. Il faccia a faccia televisivo del 3 aprile 2006 fu l'ultimo confronto politico italiano in pieno bipolarismo centrodestra-centrosinistra: ma da Vespa fu tutt'altro che un confronto serenissimo. Lorenzo Grossi il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.
I grandi affezionati al bipolarismo puro, inevitabilmente, non possono che provare molta nostalgia per le ultime elezioni Politiche che storicamente hanno espresso in maniera netta solo due campi sovrapposti: quelle del 2006. Diciassette anni fa, infatti, non poteva esserci minimamente una terza alternativa: o si stava con il centrodestra di Silvio Berlusconi oppure con il centrosinistra di Romano Prodi. Del resto, sommando poi le percentuali ottenute nei seggi dalle due coalizioni il 9 e 10 aprile di quell'anno, i due arriveranno a totalizzare il 99,55% dei voti validi (49,81 per il Professore e 49,74 per il Cavaliere).
Le regole di quel talk-show
Dal punto di vista mediatico questo dualismo venne plasticamente rappresentato dal faccia a faccia andato in onda il 3 aprile 2006, in prima serata. Rai1 propone uno Speciale chiamato "Elezioni 2006, leader a confronto". Si tratta del "match" di ritorno tra Berlusconi e Prodi dopo quello del precedente 14 marzo condotto da Clemente Mimun. A sei giorni dal voto, ora tocca a Bruno Vespa il ruolo di "arbitro" tra i due candidati premier, che devono rispondere alle domande poste dai giornalisti Marcello Sorgi e Roberto Napoletano. Le regole sono molto stringenti: i quesiti (uguali sia per il leader della Casa delle Libertà sia per quello dell'Unione) devono durare al massimo trenta secondi, mentre le risposte non possono andare oltre i due minuti e mezzo - senza potere essere interrotti - con tre repliche possibili ciascuno di un minuto.
Da Prodi a Vendola: gli omaggi a Berlusconi dai suoi "nemici"
Si parte alle 21.15 e si conclude alle 22.48. Quella trasmissione passerà alla storia per la promessa in diretta dell'abolizione dell'Ici fatta da Berlusconi nel suo appello conclusivo. Tutto si svolge regolarmente, tra botte e risposte anche puntute. Si parla di pena di morte (era appena stato ucciso il piccolo Tommaso Onofri, di 17 mesi, alle porte di Parma), di giustizia, di fisco, di scuola, di aborto. Poi, però, ecco la scintilla che per qualche secondo sconquassa tutto il precisissimo percorso del confronto. Dopo un'ora esatta di dibattito, Napoletano chiede ai due contendenti per la vittoria che cosa intendevano fare per i giovani e per il Sud. Berlusconi snocciola alcune cifre riguardanti gli investimenti fatti nel Mezzogiorno dal suo governo uscente (2001-2006), ma Prodi non ci sta non appena prende la parola.
Prodi punge Berlusconi
"A me sembra che il presidente del Consiglio si affidi ai numeri un po' come gli ubriachi si aggrappano ai lampioni". Il leader di Forza Italia rompe le regole dei tempi scanditi e va sopra la voce dell'ex presidente della Commissione Ue: "Grazie, Professore", bisbiglia ironicamente in sottofondo, poi alza la voce: "Dell'ubriaco se lo può tenere per lei. Caso mai è lei che parla da ubriaco, non il sottoscritto - sostiene con vigore il capo del governo in carica all'epoca -. Rispetti il presidente del Consiglio. Questo non lo accetto. Vespa, faccia il moderatore e lo moderi!", è l'invito al conduttore di Porta a Porta. Dopo l'interruzione subita, Prodi precisa che la sua frase altro non era che una citazione di George Bernard Shaw: "Spesso ci si attacca ai numeri come gli ubriachi si attaccano ai lampioni, non per farsi illuminare ma per farsi sostenere. Non mi sembra un insulto di nessun tipo". In realtà si scoprirà che quella frase venne scritta da Andrew Lang e non da Shaw. Ma Berlusconi rende subito dopo pan per focaccia per rispondere agli attacchi del suo avversario politico.
Da Prodi a Conte. Onore delle armi dagli avversari di una vita intera
"Mi chiedo se lui non si vergogna davvero di svolgere oggi lui il ruolo che fu definitivo storicamente di 'utile idiota'. Ovvero di colui che i partiti comunisti delle democrazie proletarie mettevano là a capo dei contadini per far finta che il governo non fosse del Partito Comunista. Lui - sottolinea - in questo momento presta la sua faccia di curato bonario a una realtà della sinistra che è composta dal 70% da attuali o ex comunisti. I quali comanderanno e che lo rottameranno di nuovo nel momento in cui riterranno che sia loro conveniente farlo". In effetti, due anni scarsi dopo la vittoria della sinistra, Romano Prodi verrà defenestrato da Palazzo Chigi proprio da coloro che lo sostenerono nella primavera del 2006. Gli era già capitato dieci anni prima, a opera di Bertinotti, ma la "testardaggine" del Professore non permise di consigliargli vie alternative all'inevitabile debacle.
Silvio Berlusconi trionfa alle urne, così inizia la Seconda Repubblica. Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 aprile 2023.
«Berlusconi trionfa e prenota il governo»: si legge in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 29 marzo 1994. Dopo due infiammate giornate elettorali, finalmente i dati ufficiali sono diffusi. «Il polo della Libertà ha raggiunto la maggioranza assoluta alle Camere. Sconfitta la sinistra, il centro (con Segni e Martinazzoli) conferma la scelta dell’opposizione. Per Fini, leader di Alleanza nazionale, Berlusconi sarà il prossimo capo del governo», si specifica nel pezzo d’apertura. Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti, già messo a dura prova dalle conseguenze dell’inchiesta «Tangentopoli». È in vigore il nuovo sistema elettorale, il «Mattarellum», approvato dopo l’esito del referendum di un anno prima, che ha abrogato il proporzionale.
Al voto si sfidano, così, nuovi schieramenti: i partiti di sinistra si raccolgono nella formazione dei Progressisti, guidata dal Pds di Occhetto; il Polo delle Libertà è invece costituito dal neonato partito dell’imprenditore Silvio Berlusconi, dalla Lega nord e da Alleanza nazionale. Al centro restano il Partito popolare italiano, evoluzione della vecchia Democrazia cristiana, e altre piccole formazioni liberaldemocratiche. Il leader di Forza Italia, si legge sulla «Gazzetta», ha aspettato quasi l’una di notte per pronunciare il suo discorso della vittoria: costituitosi solo tre mesi prima, Fi è diventato il primo partito del Paese: «Per gioire aspetta i dati definitivi. Esorta i suoi alla prudenza, nella sala del Jolly Hotel di Roma gremita fino all’inverosimile. Ma negli occhi di Silvio Berlusconi brilla una furtiva lacrima mentre afferma che, comunque, il Polo delle Libertà un risultato già l’ha raggiunto: “consegnare il Paese ad un futuro di democrazia”».
Il giorno prima il Cavaliere si è recato a votare in una sezione del Ghetto di Roma, «in segno di solidarietà con la Comunità ebraica». Lì, però, l’accoglienza è stata a suon di urla: «Fascista!». «Se me lo avesse chiesto gli avrei detto che forse era meglio astenersi da questa manifestazione: un gesto demagogico, dettato dal desiderio di fare breccia», ha commentato Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche. Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia, ha insinuato che la contestazione sia stata organizzata dal Pds.
C’è un altro aspetto innovativo nel voto del 1994: «Mai come stavolta la televisione l’ha fatta da padrone, con quasi tutte le emittenti pubbliche e private impegnate in una maratona elettorale tuttora in corso», scrive in quarta pagina Oscar Iarussi. È stato naturalmente Enrico Mentana su Canale 5 ad anticipare tutti, annunciando i dati dei primi exit-poll. «Un gran circo sotto i riflettori bollenti, un barnum dell’informazione-spettacolo con Emilio Fede che rimbrotta i suoi inviati». Importante è stato anche il ruolo delle emittenti locali, specifica Iarussi: «In particolare di Antenna Sud che, consorziata con altre private di Puglia, ha cominciato a fornire dati dalle Prefetture e interviste ad alcuni colleghi del settore politico».
«Il vento di destra soffia forte anche nelle nostre regioni» scrive Michele Cristallo. È solo l’inizio della complessa e tormentata «seconda Repubblica». Il 1° aprile 1923 sulla «Gazzetta di Puglia» grande spazio è riservato alla critica teatrale e cinematografica. Al Petruzzelli è andata in scena la compagnia Tumiati, accolta con entusiasmo dal pubblico barese, con la La cena delle beffe di Sem Benelli. Al Margherita è stato proiettato Dolores, «uno dei pochi film spagnuoli oggi in Italia». Enorme il concorso di pubblico al cinema Umberto per Max Linder toreador – film muto del 1913, che riscuote ancora in quei mesi un notevole successo – e al cinema Cavour per la pellicola Kim, Kip e Kop, i vincitori della morte, «meravigliosamente interpretata dal noto artista Lionel Buffalo». È il cinema, insomma, già nel 1923, ad appassionare i baresi più di ogni altra forma d’arte: cento anni dopo, alcune di quelle stesse sale ospiteranno un Festival cinematografico internazionale, il Bifest, giunto alla 14esima edizione.
Il liberalismo di Berlusconi è stato vita e azione. Silvio Berlusconi: il Cavaliere liberale di lotta non di governo. La promessa della “rivoluzione liberale” è stata mantenuta? Berlusconi è stato più bravo nella conquista del consenso in campagna elettorale che alla guida dell’Esecutivo. Vittorio Ferla su Il Riformista il 18 Giugno 2023
Lo stop all’abuso d’ufficio e la stretta sulle intercettazioni promossi dal governo riaprono il dibattito sulle riforme liberali della giustizia. Il vicepremier Antonio Tajani ha dedicato il pacchetto di misure alla memoria di Silvio Berlusconi. Si riapre così un’annosa domanda: la promessa della “rivoluzione liberale”, con cui il Cav esordì sul palcoscenico della politica, è stata mantenuta?
In realtà, il liberalismo di Berlusconi non è mai stato pensiero né progetto, bensì vita e azione. Facile trovare i segni dell’innovazione liberale nei successi dell’imprenditore più che nell’opera dell’uomo di governo. A lui si deve una delle più profonde svolte liberali della storia d’Italia: la rottura del monopolio pubblico sull’informazione, con l’apertura della concorrenza laddove esistevano soltanto i tg controllati dai partiti. La stessa innovazione che porta nello sport, quando con il Milan supera schemi consolidati e internazionalizza il calcio italiano. Così, nel 1994, il Cavaliere ha titoli sufficienti per collegare la sua “discesa in campo” in politica alla promessa di una “rivoluzione liberale”.
Berlusconi plana sulle macerie della “prima” Repubblica con un linguaggio seduttivo, coinvolgente, moderno. Non c’è ideologia alla base di questa epifania, bensì vitalismo ed energia propri di una società civile che conquista il suo spazio, in un paese dominato da riti politici distanti e inaccessibili e da un intervento pubblico omnipervasivo, gestito per decenni dal consociativismo dei partiti tradizionali. Berlusconi rifiuta il dirigismo statale, i lacci e laccioli dell’amministrazione, il fisco oppressivo, la spesa pubblica indiscriminata. Raccogliendo con almeno dieci anni di ritardo il messaggio di trasformazione del liberismo anglosassone di Ronald Reagan e Margaret Tatcher, il Cav riabilita quell’idea liberale che in Italia non ha mai attecchito per via dell’eredità storica di culture politiche tradizionalmente illiberali: la fascista, la comunista e la cattolica. Con lui, il termine “liberale” torna ad essere positivo. Perfino il centrosinistra è costretto a modernizzarsi e a inseguirlo sullo stesso terreno, facendo tesoro della lezione anglosassone di Clinton e Blair.
Viceversa, il Berlusconi di governo rinnega i suoi esordi. Diversi anni a Palazzo Chigi trascorrono senza una seria riforma liberale del fisco, della scuola, delle pensioni, della giustizia, della Pa. I governi di centrodestra mettono il loro carico su una spesa pubblica scriteriata e corporativa. La lettera che nel 2011 la Bce recapita a Silvio Berlusconi, allora premier riluttante, chiede all’Italia un vero e proprio programma liberale di governo per “accrescere il potenziale di crescita”, “assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche” e migliorare il rendimento delle amministrazioni: liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, contrattazione salariale al livello d’impresa, norme sul licenziamento e politiche attive per il lavoro, tagli di spesa pubblica, uso di indicatori di performance nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione. Sappiamo com’è finita. Per evitare il definitivo tracollo dell’economia nazionale, Berlusconi è costretto a dimettersi, chiudendo un ciclo di governo nefasto. Ha tradito la sua promessa di rivoluzione liberale, consegnando il paese a stagnazione e declino di cui ancora soffriamo gli effetti.
C’è qualcuno in grado di raccogliere oggi quella speranza di liberalismo ancora così attuale? Sarebbe già tanto se la destra italiana al governo riuscisse a far evolvere le sue radici populiste e sovraniste in una prospettiva nazional-conservatrice di impronta europea. Ma è difficile immaginare che da quel mondo nutrito di statalismo e corporativismo possa emergere una proposta limpidamente liberale. Le stesse perplessità valgono per l’attuale Pd, preda di una confusa deriva socialpopulista corbyniana che non ha nulla in comune con il Manifesto del Lingotto né con una visione liberalprogressista del futuro del paese. In questo sentiero stretto per i riformisti – ovunque siano collocati – c’è ancora parecchio lavoro da fare. Vittorio Ferla
Berlusconi e il berlusconismo. Silvio Berlusconi amava spiegare la politica con degli schemi tracciati con la penna su un foglio di carta bianco. Augusto Minzolini il 16 Giugno 2023 su Il Giornale.
Silvio Berlusconi amava spiegare la politica con degli schemi tracciati con la penna su un foglio di carta bianco. In uno degli ultimi colloqui che ho avuto con lui descrisse così gli scenari futuri: «Giuseppe Conte in fondo è un buon uomo. Mi ha detto che fino alle Europee andrà da solo, ma poi in un modo o nell'altro dovrà allearsi con il Pd. A quel punto, mettendo insieme quei mondi e tutto il resto, la differenza tra il centrodestra e il centrosinistra sarà di 2, 3 punti al massimo. Bisognerebbe portare da questa parte Renzi, ma è pazzariello. Per cui l'unica strada è rafforzare Forza Italia, aumentare i suoi voti, portarla almeno a due cifre...».
Il Cavaliere diceva di non essere un politico, ma in realtà era diventato un luminare della materia. Guardava sempre più lontano degli altri. Partiamo da un dato per parlare del dopo Berlusconi: il personaggio è inimitabile perché era la somma delle esperienze di una vita eccezionale. Non ci sarà mai un altro Berlusconi. Resta però la sua intuizione politica, quella è ancora valida, anzi c'è chi punta ad esportarla in Europa: un partito che rappresenta un segmento elettorale moderato che guarda a destra, di ispirazione liberale e cristiana, con forti radici europeiste sul solco dei popolari europei, appunto Forza Italia, che si allea con la destra per governare il Paese. Non è poco. Anche perché adesso Forza Italia è indispensabile al centrodestra per imporsi.
Ora, però, la creatura del Cavaliere si trova ad un bivio. La premiership di Giorgia Meloni non è in discussione. Come pure il governo e le alleanze sono punti fermi. Ma in un'Italia senza Berlusconi quale formula può garantire al centrodestra di durare? C'è stata l'ipotesi del partito unico, di un partito Repubblicano, conservatore o qualsivoglia. O ancora c'è la possibilità di una dispersione dei parlamentari di Forza Italia o nelle file di Fratelli d'Italia o della Lega, o in entrambe. In realtà si tratterebbe di un errore per gli azzurri, ma anche per Meloni e Salvini: resterebbe, infatti, sguarnita quell'area moderata, al centro della geografia politica. C'è il rischio che lo spazio di Forza Italia sia preso da altri (Renzi e Calenda sono in agguato). Al contrario, gli alleati dovrebbero garantire e preservare Forza Italia, lasciandola a presidiare quella fascia di elettori.
Contemporaneamente, gli azzurri dovrebbero trasformarsi da seguaci di Berlusconi in interpreti del berlusconismo. Sfida non da poco. Che presuppone un'unità vera del partito. E ancora l'attitudine a dare un senso e un futuro al berlusconismo senza Berlusconi. È già successo in passato con altri statisti che hanno caratterizzato la fase storica di un Paese. Forse il paragone più vicino è quello con il generale De Gaulle: morì De Gaulle, ma non il gollismo. Tutt'altro. La sua visione e il suo elettorato furono rappresentati poi per decenni da personaggi come Pompidou, Chaban-Delmas, Chirac e quell'antipatico di Sarkozy. Il gollismo ha avuto un peso fondamentale nella storia della Francia. Un partito nato da una personalità eccezionale, moderato, con una forte impronta nazionalista e con gli occhi puntati a destra. Insomma, ci sono tante affinità con Forza Italia. Certo il progetto è ambizioso, perché il vuoto lasciato dal Cavaliere è enorme. Ma nella vita nulla è semplice. Basta crederci. È stata la prima lezione di Berlusconi.
Estratto dell'articolo di Giovanni Orsina per “La Stampa” il 15 Giugno 2023.
Non c'è stata, negli ultimi cinquant'anni della nostra vicenda nazionale, una personalità che abbia inciso così a fondo nella carne del Paese come Silvio Berlusconi. E anche se allarghiamo lo sguardo al di là delle Alpi, ai nostri tempi non troviamo molte altre figure storiche che abbiano avuto un impatto paragonabile.
[…]
Se dovessi condensare in una sola battuta il valore storico della vicenda umana di Berlusconi, direi che ha impersonato meglio di chiunque altro in Italia, ma forse perfino nel mondo, lo spirito dell'ultimo quarto del ventesimo secolo.
Come secolo del primato della politica, segnato dai totalitarismi ma anche dal keynesismo e dal welfare state, il Novecento comincia a concludersi nella seconda metà degli anni '60 col presentarsi e il fallimento dell'ultima esplosione di politica, la contestazione studentesca e operaia.
Nel decennio successivo si apre una fase storica ben diversa, che potremmo dire post novecentesca, segnata per un verso dal rifiuto più o meno radicale della politica, e per un altro dalla fiducia ottimistica nella capacità del mercato e della società civile di produrre spontaneamente ordine e progresso.
Questa fase si consoliderà nel corso degli anni '80 e giungerà al suo punto culminante dopo il crollo del comunismo. Sul terreno internazionale il suo spirito si è incarnato soprattutto in Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Da noi, in Berlusconi.
Diversamente da Thatcher e Reagan, a quello spirito Berlusconi ha dato sostanza già da imprenditore. Prima come costruttore di un'interpretazione italiana delle "gated communities": comunità urbane protette e compiute in se stesse, quasi piccoli stati nello Stato capaci di offrire a chi li abitava servizi pubblici esclusivi sostitutivi o ulteriori rispetto a quelli, ritenuti insufficienti, forniti dalle istituzioni. E poi, soprattutto, come tycoon televisivo.
[…] Non possiamo dimenticare insomma quanto gli anni '80 siano stati un figlio irregolare delle aspirazioni rivoluzionarie degli anni '70. È in questo terreno che ha affondato le sue radici la poderosa spinta libertaria e, a suo modo, egualitaria che ha caratterizzato il berlusconismo politico.
Una spinta che la cultura progressista, altrettanto robustamente radicata nel moralismo, non è mai stata in grado di comprendere. Quella cultura non si è nemmeno avvicinata a capire quanto profondamente democratico fosse il berlusconismo, e per questo non gli è riuscita a prendere le misure e, dallo scontro, è uscita spesso con le ossa rotte.
Nel 1994 Berlusconi ha saputo riempire col suo messaggio individualistico, libertario, vitalistico e sostanzialmente antipolitico l'immenso spazio politico che avevano aperto i magistrati di Mani pulite.
Fare politica con un messaggio antipolitico può sembrare una contraddizione in termini. Ma è una contraddizione che segna tutti gli anni '80, e non soltanto in Italia. Proprio in virtù della sua biografia d'imprenditore, poi, Berlusconi era perfetto per maneggiare quell'antinomia senza farsene intrappolare.
Infine, la cospicua parte destra dell'elettorato italiano sembrava fatta apposta per apprezzare il progetto proprio nella sua ambivalenza: militante abbastanza da partecipare alla vita pubblica, ma pure sufficientemente diffidente della politica e dello Stato da dare il proprio voto a un leader che prometteva di ridimensionare questo e quella.
La rivoluzione liberale – il risvolto costruttivo delle emozioni per lo più negative che ho illustrato finora – non si è mai materializzata, com'è ben noto. Berlusconi non era Thatcher, l'Italia non era il Regno Unito, gli anni '90 non erano gli '80. Soprattutto, quando Berlusconi è arrivato a governare stabilmente il Paese, nel 2001, il clima storico si era ormai profondamente modificato.
Con la svolta del secolo l'ottimismo e la fiducia negli spiriti vitali della società italiana hanno cominciato a lasciar spazio a un pessimismo crescente e al senso che la Penisola fosse entrata in una fase decadente. Come detto, Berlusconi incarnava lo spirito fiducioso dell'ultimo quarto del Novecento – con l'atmosfera cupa dell'inizio del ventunesimo non aveva più molto a che vedere.
Certo, si è schierato al fianco di George W. Bush nella guerra al terrore, ha collaborato con la Conferenza episcopale del cardinal Ruini negli scontri biopolitici di quegli anni. Ma erano conflitti, in definitiva, che avevano ben poco a che vedere con la sostanza spensieratamente, caoticamente, inclusivamente libertaria del berlusconismo.
Era molto più nelle sue corde, semmai, lo spirito di Pratica di Mare, la promozione dell'incontro fra Russia e Stati Uniti: il Cavaliere era uomo di giochi a somma positiva, di transazioni felici e remunerative, non di lotte di religione. Perfino quando faceva l'anticomunista.
[…] Fra il 2011 e il 2013 la crisi del debito sovrano, il governo Monti e il successo elettorale del Movimento 5 stelle hanno fatto a pezzi il sistema politico bipolare che il Cavaliere aveva saputo costruire intorno a sé. Dotato di risorse straordinarie – vitalità, determinazione, televisioni, soldi –, Berlusconi è rimasto un protagonista della vita pubblica italiana per dieci anni ancora. La sua stagione era finita, però, e nella posizione centrale che aveva occupato fino ad allora nel sistema politico si sono avvicendati altri: Renzi, Grillo, Salvini, Meloni.
Il nuovo clima storico ha richiesto allora una nuova destra. Che è riuscita infine a prender forma in maniera ragionevolmente stabile, anche se ci son voluti quasi dieci anni. Nell'articolo che ha pubblicato ieri sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni ha detto con grande chiarezza che cosa questa nuova destra voglia ereditare da Berlusconi.
Nel ricordare il suo predecessore, la presidente del Consiglio si è soffermata in particolare su due punti: Berlusconi l'outsider, innanzitutto, l'italiano qualunque che ha fatto fortuna ma non ha perduto la capacità di mettersi in comunicazione empatica con gli altri italiani qualunque; e poi Berlusconi il fondatore del centro destra in uno schema politico bipolare.
Sono i due punti cruciali: se tiene unito il suo popolo, molto più compatto e facile da maneggiare del dirimpettaio progressista, e alla testa di quel popolo mette un leader che senta di appartenergli profondamente, non se ne presuma migliore e non pretenda di educarlo, la nuova destra può andare lontano. […]
Qui, però, il suo desiderio di mettersi in continuità col Cavaliere deve fare i conti col radicale mutamento di clima degli ultimi trent'anni. Oggi difendere l'interesse nazionale significa ridare centralità alla politica. Non solo: proprio a quegli aspetti della politica – i duri conflitti di interesse, la competizione ultimativa per le risorse, il potere, la violenza – che negli anni '80 e '90 si sperava fossero stati esorcizzati per sempre.
L'umanità sta giocando una difficilissima e pericolosissima partita di ripoliticizzazione, la nuova destra dovrà capire molto velocemente come affrontarla, e in questo l'eredità berlusconiana non potrà esserle di nessun aiuto. Ieri abbiamo celebrato il funerale dell'Italia felice, vitale, espansiva, spensierata che il Cavaliere ha cantato come imprenditore e come politico. Mi consenta il lettore di rimpiangerla.
Quel disgusto delle regole spacciato per libertà. GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei su Il Domani il 13 giugno 2023
La libertà tanto vantata da Berlusconi consisteva quasi esclusivamente nell’assenza di regole, comunque, nell’evitare i controlli.
Lo Stato, poiché l’Italia non è solo una emozione, è fatto da cittadini che, anche se non si identificano pienamente nella Costituzione, sanno che la loro vita si svolge in quei confini e che deve tenere conto delle relazioni con gli altri cittadini e con lo stesso Stato.
Non riesco a capire come una persona condannata per frode fiscale, appunto ai danni dello Stato, possa essere onorata con funerali di Stato.
GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei. Professore emerito di Scienza politica all'Università di Bologna, dal 2005 è socio dell'Accademia dei Lincei.
Tutte bugie del Cavaliere sulla rivoluzione liberale (che non ha mai realizzato). MASSIMO TADDEI, economista, Il Domani il 13 giugno 2023
Silvio Berlusconi ha costruito la sua carriera politica sulla rivoluzione liberale.
Nelle sue politiche, però, c’è molto poco di liberale, a partire dal mancato taglio di tasse e spesa pubblica
L’unica vera politica per le imprese è stato il silenzio assenso sull’evasione.
MASSIMO TADDEI, economista. Responsabile editoriale di Pillole di economia, startup di divulgazione economica dentro e fuori dai social. Giornalista economico, collabora con Domani, Pagella Politica, Linkiesta e lavoce.info, di cui è stato Editor e responsabile del desk editoriale fino al 2022. È stato anche caporedattore a Torcha, new media di informazione generalista. Ha ottenuto una laurea in economia e commercio all’Università di Genova e un Double degree Master in Economics alle Università di Pavia e di Hohenheim (Stoccarda).
(ANSA il 13 giugno 2023) Il fondatore di Forza Italia "ha avuto giuste intuizioni, ma è stato tradito dal suo solipsismo". Questa l'analisi tracciata dal co-fondatore del partito Giuliano Urbani. "Mi colpì subito il fatto che, almeno a parole, voleva fare un partito liberale di massa", ricorda in un'intervista a La Repubblica l'ex ministro azzurro parlando di Silvio Berlusconi. "Promettemmo una serie di novità legislative e funzionali. Gli italiani ci seguirono". "Solo che il progetto fu subito annacquato, condizionato dalle esigenze degli alleati: Bossi voleva la secessione, Fini era a quei tempi l'espressione di una Destra post-fascista", precisa Urbani.
Il suo giudizio su quel che è diventato il partito è "negativo". "FI non è mai stata un partito e solo in parte un movimento politico, è stata poco più di un comitato elettorale". Secondo Urbani, "l'errore strategico è stato quello di non creare un partito contendibile, in democrazia non ha senso. E di non lavorare mai per una successione all'altezza". "Ha spesso preferito maggiordomi a collaboratori in grado di succedergli", aggiunge. Un futuro per Forza Italia? "Francamente non ne vedo", ammette l'ex forzista. "Gli elettori di Forza Italia sono già con Giorgia Meloni, abile nel porsi come leader moderata. Oggi è l'unica alternativa al centrosinistra che non ha una guida aggregante".
«Il populismo delle toghe e i timori di Fini fermarono la rivoluzione giudiziaria di Silvio». Intervista a Gaetano Pecorella, avvocato di Berlusconi e “padre” della legge sull’inappellabilità delle sentenze. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 giugno 2023
Gaetano Pecorella è stato avvocato di Silvio Berlusconi, deputato di Forza Italia in diverse legislature e Presidente dell’Unione Camere Penali. Con lui facciamo un bilancio della storia e dell’attività di Berlusconi in merito alla giustizia.
Che ricordo ha di Berlusconi come persona?
Il ricordo è quello di una persona con la voglia di cambiare il mondo e innovare e con un grande amore per la libertà, come principio alla base della società. Questa è stata tra le ragioni per cui entrai nel partito.
Lei è stato anche avvocato del Cavaliere. Come lui ha vissuto tutti gli anni dei processi?
Un uomo dalla straordinaria memoria: pur senza leggere gli atti bastava una riunione affinché ricordasse tutto e per questo era un ottimo collaboratore per la linea di difesa. Non si è mai trovato in difficoltà nei processi: ha sempre combattuto come ha fatto in politica e per la sua salute.
Qualcuno sostiene che diverse leggi in materia di giustizia non le abbia portate a termine per non inimicarsi i magistrati.
Non mi ha mai detto “lasciamo perdere questa riforma perché non piace ai pubblici ministeri”. Tanto è vero che è stata approvata la legge con il mio nome, relativa all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, che certamente non piaceva ai pm. Ancora oggi, anche tra i magistrati, c’è chi rimpiange che sia stata ritenuta incostituzionale. Berlusconi non calcolava le reazioni che una legge avrebbe suscitato nei magistrati, bensì quelle dell’opinione pubblica.
L’Anm nei confronti di Berlusconi ha scritto negli anni comunicati durissimi.
C’è stata una lotta politica che non è accettabile in democrazia tra il Parlamento e la magistratura. Quest’ultima dovrebbe limitarsi ad applicare le leggi che fanno Camera e Senato. Si dice che Berlusconi sia stato il primo populista. Io, invece, credo che in quegli anni i veri populisti furono i magistrati che lo attaccavano.
Ma perché Berlusconi non è riuscito a portare a termine la sua ‘epocale riforma della giustizia’ nonostante sia stato premier in quattro Governi?
Credo che sulla giustizia avessero idee molto diverse Forza Italia, la Lega e Alleanza nazionale. Il problema era interno, non esterno. Fu probabilmente un mancato accordo con le altre forze di maggioranza a bloccare certe riforme. Sicuramente la separazione delle carriere rappresentava da sempre per lui un obiettivo da perseguire ma su questo lo stesso Fini era perplesso, guardando ai rapporti con i magistrati.
A proposito di separazione delle carriere, Berlusconi disse agli elettori “non andate a votare, la riforma la faccio io”, in occasione del referendum del Partito radicale e dell'Unione Camere Penali sulla separazione delle carriere del 2000. Non è in contraddizione con quanto da lei affermato poco fa?
Confermo che disse quelle parole. Vi erano però altri quesiti non condivisi da Forza Italia: diventava un po' difficile, come messaggio, dire sì ad un quesito e no ad un altro. E poi presentò una riforma costituzionale che prevedeva la separazione delle carriere che però non fu portata avanti perché il governo cadde e arrivò Monti. E comunque in politica non si può fare tutto quello che si ritiene giusto fare, perché ci sono situazioni in cui mancano i numeri e rischi di far saltare la legislatura.
Quindi tra gli alleati di Governo, Forza Italia era la più garantista?
Le radici della Lega e di Alleanza nazionale erano molto diverse dalle nostre.
Secondo molti la colpa principale di Berlusconi è stato quella di aver declinato il garantismo solo con riferimento alle regole processuali (e nemmeno sempre), mentre poi i suoi Governi praticavano il contrario nel campo del diritto sostanziale agitando lo spettro della "sicurezza percepita" (la Bossi-Fini sull'immigrazione, la legge ex Cirielli su recidiva e prescrizione e la Fini-Giovanardi sulle droghe, solo per citarne alcune). Tutto questo stona col garantismo.
Dobbiamo prima metterci d’accordo sul significato di garantismo. Per esempio negli Stati Uniti la legge sostanziale è molto severa al contrario di quella processuale molto garantista, secondo il principio di offrire all’imputato tutte le possibilità per difendersi, dopo di che se si dimostra la sua colpevolezza lì si arriva addirittura alla pena di morte. Non credo però che Berlusconi avesse in mente questo modello. Penso semplicemente che la legge processuale ti consente di essere garantista non creando contrasti forti nel Paese, mentre quella sostanziale è la legge con la quale si dovrebbe dare un senso di sicurezza e questo di certo non lo puoi garantire abbassando le pene. Poi le leggi che lei citava portano il nome di persone non di Forza Italia, tranne Giovanardi.
Però Berlusconi era a capo del Governo e poi non credo che lei, quale ex presidente dell’Unione Camere Penali, possa essere d’accordo con quel tipo di pensiero rispetto all’esecuzione penale.
Certo, non posso essere d’accordo. Io non sono mai stato a favore delle pene severe. Un conto però è lo studioso di diritto, l’avvocato che concepisce il diritto secondo le regole di giustizia, altro conto è il politico che deve dar conto delle sue scelte anche con gli alleati e il Paese. Se avesse parlato di amnistia o depenalizzazione avrebbe rischiato di perdere voti.
Berlusconi è ricordato anche per le leggi ad personam e “salva amici”.
Le leggi ad personam, è inutile negarlo, ci sono state. Il problema è se erano buone o cattive leggi. Ho visto una trasmissione in cui Travaglio ha sostenuto che ci sono state 60 leggi ad personam e che tuttavia non furono più cambiate neanche dai Governi di centro-sinistra. L’unica legge che fu dichiarata incostituzionale fu quella sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione perché toccava i poteri del pm. Ma le altre alla fine nessuno le modificò, quindi forse non erano così sbagliate come le dipingevano.
Negli anni alcune leggi in materia di giustizia non sono state fatte, motivando che sarebbero andate a favorire Berlusconi. Ora con la sua morte le cose cambiano?
Troveranno sempre una ragione per non approvarle. Fino ad ora, poi, non ho visto il Governo presentare riforme garantiste, certo non lo sono quella sui rave party e l’immigrazione. Ma in fondo cosa ci si può aspettare da un Governo che affonda le sue radici storiche nel fascismo e nel sovranismo? Per quanto Forza Italia sia dell’idea di fare leggi garantiste, rappresenta comunque una minoranza che conta pochissimo.
Che fine farà ora Forza Italia?
Secondo me avrà un periodo di sviluppo, come è successo con la morte di Berlinguer e Togliatti. Poi, non essendoci soggetti all’interno del partito che possano essere dei leader, non rimarrà in piedi.
Qual è l’eredità che lascia Berlusconi al Paese?
La politica della tolleranza e della libertà della persona, della politica che distinguere le condotte immorali da quelle illegali, insomma il liberalismo storico.
Perché Berlusconi non ha cambiato l’Italia: il conflitto d’interessi e le riforme mancate con l’arrivo dell’Euro. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 13 Giugno 2023
Nel “Si&No” del Riformista spazio al ricordo di Silvio Berlusconi, scomparso nelle scorse ore. La domanda la centro del dibattito è la seguente: “Ha cambiato l’Italia in meglio?”. Interpellati il giornalista Paolo Guzzanti, secondo cui l’ex premier “ha trasformato politica e società, era un conservatore che amava il progresso“, e il costituzionalista Stefano Ceccanti. “Fu l’immobilismo a produrre un’innovazione sbagliata” sostiene.
Qui l’editoriale di Ceccanti:
Alla fine, in un giudizio estremamente sintetico, possiamo dire che il Berlusconi politico non ha migliorato l’Italia, ma questo giudizio negativo non assolve molti altri attori che avrebbero potuto e dovuto contribuire a esiti migliori. Il sistema politico italiano era già pronto almeno dal 1989 col venir meno definitivo della Guerra Fredda ad approdare alla normalità europea di due schieramenti principali che si alternano senza traumi alla guida del Governo. Le componenti moderate dei partiti di Governo avrebbero potuto dar vita a un normale centrodestra italiano legato al Ppe. Vari i leaders possibili a partire da Mario Segni. Ciò però avrebbe significato la fisiologica divisione in due di quel partito anomalo che era la Dc italiana, effetto dell’anomalia di una sinistra ad egemonia comunista, le cui componenti progressiste minoritarie avrebbero dovuto sin da allora porsi il problema della costruzione dello schieramento alternativo.
Il Psi avrebbe dovuto per questo rinunciare alla sua comoda posizione di ago della bilancia che gli dava un potere sproporzionato rispetto ai voti. Il Pci superare la logica difensiva e identitaria in cui era caduto dopo la fine della solidarietà nazionale. Ma erano tempi di logiche difensive, del blocco all’innovazione costituito dal cosiddetto Caf (Craxi Andreotti Forlani). I due modernizzatori degli anni’ 80, De Mita e Craxi, pur di eliminare il rivale, si erano arresi alla palude delle componenti moderate della Dc che preferivano tirare a campare, cercando persino di ostacolare l’unificazione tedesca. Difficilmente dalle paludi prolungate nasce un’innovazione razionale. Quella che fu tentata dal basso col movimento referendario da sola poteva fare relativamente poco.
L’ultima occasione di un polo democratico ante litteram fu perduta col Governo Ciampi, con l’uscita repentina dei ministri del Pds dal Governo, che bloccò una convergenza che se fosse durata avrebbe portato anche ad un’alleanza democratica alle successive e non troppo frettolose elezioni politiche. In quel momento, vedendo il vuoto politico nello schieramento opposto, la divisione tra centro e sinistra, illusi di poter vincere alleandosi solo dopo in Parlamento, le elezioni a rotta di collo, e interpretando le leggi elettorali meglio di coloro che le avevano scritte, nacque il Berlusconi politico, da una costola del suo impero economico. Proprio questa genesi avvelenò il nuovo bipolarismo a livello nazionale, a differenza di quello pacifico che si era sperimentato per i sindaci anche incrociandosi con iniziative talora anomale del potere giudiziario.
Il conflitto di interessi, questa anomalia del potere economico che diventa politico, generò un partito e un polo personali e, all’opposto, la tentazione di descrivere questo avversario anomalo come un nemico contro cui allearsi solo in negativo. Un conflitto con esiti contraddittori: per un verso non permetteva mai davvero a Berlusconi di creare problemi irresolubili al sistema, come nelle dimissioni che capì di dover dare col via libera a Monti, ma che non consentiva neanche di stabilizzare il sistema rinunciando a possibili rendite di posizione, impedendo così una successione regolata alla guida del centrodestra. Oltre, ovviamente ai legami ingiustificabili con Putin anche dopo le prove provate della sua inaffidabilità e aggressività. Quello che resta l’errore maggiore e mai perdonabile, oltre all’errore minore ma non irrilevante di aver sprecato il dividendo dell’euro nella legislatura 2001-2006 senza reali riforme. I suoi limiti pertanto sono decisamente maggiori dei pochi aspetti positivi, ma i suoi sono anche i limiti di molti altri che hanno giocato per l’immobilismo invece che per l’innovazione razionale, per la demonizzazione invece del riformismo.
Saremo in grado di non ripetere questi errori in questa nuova fase dove soprattutto nei gruppi di opposizione continua a prevalere una coazione a ripetere di facile demonizzazione dell’avversario ora che dall’altra parte non c’è più neanche l’argomento vero ma parziale del conflitto di interesse? Anche perché, pur nato male, con quei difetti, il bipolarismo resta. Pur con una diversa leader il polo di centrodestra si vive sempre come tale. In questo senso un’eredità politica di Berlusconi resta. Per avere un bipolarismo civile e competitivo occorre creare una vera alternativa di governo per il dopo Berlusconi, non per il prima. Non è stato comunque una parentesi.
Stefano Ceccanti
DAGOREPORT - postato l'11 giugno giugno 2023
Il secondo ricovero dell’ottuagenario Silvio Berlusconi ha riattivato scosse di terremoto non solo in Forza Italia ma sull’intero quadro politico. Pur nanizzato all’8 per cento, il partito dell’ex Satrapo di Arcore è determinante negli equilibri della maggioranza del governo.
Soprattutto dopo la tornata delle nomine delle partecipate di Stato e della Rai, dove Meloni ha fatto asse, attraverso Gianni Letta, con Forza Italia (vedi, tra l’altro, la direzione del Tg2 a Preziosi) per attuare il suo nuovo piano di conquista del potere: spegnere la fiamma del passato e spostare Fratelli d’Italia verso un centro conservatore spingendo a forza di schiaffi e sgambetti Matteo Salvini a destra (ultimo ceffone: la porta chiusa all’ingresso della Lega nel gruppo Ecr dei conservatori europei di cui è presidente).
L’attuale quadro politico potrebbe nei prossimi mesi saltare in aria, se il Cav dovesse definitivamente ritirarsi a vita privata o nella Casa del Signore (speriamo di no ovviamente). Fuori il Cavaliere dalle mille resurrezioni, cosa resterà del suo partito? Un vibratore, come quel birichino di Natangelo ha svignettato sul “Fatto”?
Già adesso, con il patriarca che non ha più la forza di governare, assistiamo a quel mistero gaudioso di Marta Fascina, sbocciata geisha e trasformatosi in Grimilde, che si muove felpata per appropriarsi di Forza Italia.
Anche se Marina e Piersilvio, che hanno il simbolo del partito e lo mantengono economicamente in vita, restano guardinghi e non siano del tutto convinti della fascinizzazione in corso. Ma basta solo l’idea dell’apertura del testamento dell’uomo che ha cambiato i connotati all’Italia e dintorni per agghiacciare il sangue non solo alla famiglia allargata (oltre ai cinque figli, spunterà anche Marta Fascina nell’asse ereditario?), ma anche di quel covo di serpi che è diventata Forza Italia, dove tutti sospettano l’uno dell’altro.
Infatti, se non fosse intervenuto l’attuale ricovero di Berlusconi, ad Arcore erano stati convocati a pranzo per il weekend i ministri forzisti del governo per annunciare, con la scusa di un piano di rilancio, la riorganizzazione del partito secondo Marta Fascina: tre nuovi coordinatori nazionali (nord, centro, sud) che avrebbero demansionato Antonio Tajani e taglio netto di quelle frange che resistono capitanate dai ribelli Ronzulli e Mulè.
Ad opporsi al piano della “moglie morganatica” di Silvio e della sua task force con cui controlla Forza Italia (gli ex ronzulliani Alessandro Sorte e Stefano Benigni, ma in primis c’è il sottosegretario Tullio Ferrante, latitante al Ministero delle Infrastrutture perché impegnatissimo in Parlamento a sorvegliare le agitate truppe forziste), si muovono Tajani e l’ottuagenario Letta, con il primo che negli ultimi tempi si è un po’ demelonizzato dopo che la Sora Giorgia l’ha usato per avere un rapporto con il suo amico Manfred Weber, presidente del PPE, e una volta ottenuto ha gettato l’ex monarchico nel cestino.
Dato che l’ego espanso da Highlander di Berlusconi ha sempre cannibalizzato delfini e successori, Forza Italia ha altissime possibilità di finire polverizzata nel Mausoleo di Arcore. E con parte dei transfughi sparsi tra Fratelli d’Italia e Lega, la maggioranza del governo subirebbe un mezzo terremoto, visto il duello quotidiano che vede Meloni e Salvini sfanculanti e contrapposti.
A quel punto il tavolo, con due gambe, non regge più e la Ducetta sarebbe costretta a pensarci due volte prima di prendere il manganello e sbatterlo in testa a Salvini, come fa tutti i giorni. E qualche anima pia dovrebbe anche ricordare alla Piccola Fiammiferaia del Colle Oppio dell’imprevedibilità politica del capataz del Carroccio: chi mai avrebbe immaginato un governo Lega-M5S? Eppure è avvenuto...
Se il rapporto dei rampolli di Silvio con l’ultima compagna di Papi è, diciamo, guardingo e riflessivo, quello della viscerale e fumantina Giorgia Meloni con Marta, donna fredda, sempre nascosta dietro le quinte (a parte circolo magico, nessuno conosce la sua voce), praticamente non esiste.
Raccontano gli addetti ai livori della stizza della Ducetta quando venne convocata da Berlusconi a Villa Grande insieme a Salvini per decidere di uscire dal governo Draghi e si ritrovò con la boccoluta Marta che teneva la mano di Silvio: “Ahò, se lo sapevo, portavo anch’io Andrea”, avrebbe sogghignato, roteando gli occhioni in direzione della Gatta di Marmo.
Al lento declino di Berlusconi si accompagna la nuova scommessa di Giorgia, che da Draghetta iniziale, prudente e cauta, ha deciso di calzare l’elmetto della Ducetta ed è partita all’assalto dei mulini a vento.
Dal Pnrr al Mes, dal Quirinale alla Corte dei Conti, dalla “maggioranza Ursula” ai dispetti di Macron, Meloni non guarda più in faccia nessuno, senza riflettere che di colpo il rubinetto di aiuti al nostro indebitatissimo Paese potrebbe chiudersi (vedi l’intervista eloquente di Giuliano Amato su “Repubblica”). A quel punto, può succedere di tutto, anche il formarsi di una nuova e inedita maggioranza grazie alla salvifica e sempiterna formula “Per il bene dell’Italia”.
Silvio Berlusconi, uomo libero e liberale, che ha fatto la storia degli ultimi 40 anni di questo Paese. Soglio Silvio su Panorama il 12 Giugno 2023
Imprenditore, politico, presidente di una squadra di calcio, amato, odiato, pluriprocessato e condannato. Comunque sia, un protagonista assoluto della vita e della storia d'Italia Andrea
Un dio o un demone; un genio o un burlone; un politico lungimirante o un uomo mai sazio di potere; un imprenditore illuminato o una figura al centro di chissà quali loschi affari. Silvio Berlusconi è stato tutto questo e forse molto di più. Un uomo che di sicuro ha diviso l'Italia come pochi altri ma che è stato attore protagonista di un trentennio tanto da dare vita con la sua discesa in campo ad una nuova fase politica, la Seconda Repubblica. Se c'è una cosa che lega tutte le mille vite di Silvio Berlusconi è di sicuro la passione. È questa che lo guida, giovane rampante, a creare dal nulla un'azienda come Mediaset, comprendendo prima degli altri (e meglio di molti altri) la forza della televisione privata e commerciale in un mondo dove nessuno prima di lui osava sfidare il monopolio della Rai. In azienda è sempre stato Padre a volte anche padrone ma rispettoso come pochi suoi pari dei dipendenti che, soprattutto agli esordi, conosceva uno per uno. Che l'editoria fosse un pallino lo dimostra anche la battaglia per la conquista di Mondadori, strappata dalle mani del rivale di sempre, De Benedetti, a colpi di centinaia di milioni con una battaglia legale durata un decennio.
È sempre la passione, questa volta per la maglia rossonera, che lo porta a diventare proprietario e presidente del Milan che con lui dopo anni bui il club diventa il più titolato al mondo. È lui agli inizi tra lo scetticismo generale ad affidare la squadra ad un allenatore semi sconosciuto, Arrigo Sacchi, che inventerà un nuovo modello di calcio. È però sempre Berlusconi a capire che sono i grandi giocatori (e uomini) a portare alla vittoria. E di questi si circonda fino al declino finanziario, agli anni difficili della sua presidenza fino alla cessione ad un imprenditore cinese, tra mille domande ancora oggi senza risposta. C'è poi la passione, o forse in questo caso proprio l'amore, per il suo paese dietro la scelta di entrare in politica. "L'Italia è il paese che amo...", comincia così il discorso di fondazione di Forza Italia, un partito capace in pochi mesi di arrivare al trionfo elettorale, contro ogni logica ed ogni previsione. Più volte Presidente del Consiglio, ma tante volte anche abbandonato dai suoi alleati. Dato per finito politicamente parlando, ma in grado di risorgere mettendosi in gioco, in prima persona. Con un solo limite: non aver mai trovato un delfino, qualcuno a cui lasciare il testimone del suo lavoro. Un po' per i limiti di chi lo circondava un po' perché forse Berlusconi il ruolo di leader non l'ha mai voluto lasciare per davvero. Sembrerà strano ma è sempre per passione, per la sua voglia di libertà e liberismo, che combatte come un leone nelle decine e decine di battaglie giudiziarie che lo trasportano da un tribunale all'altro. Innegabile che la sua discesa in campo lo trasformi in un bersaglio per le procure di diverse città d'Italia. Subisce processi ed accuse di ogni tipo fino alla condanna definitiva per evasione fiscale. Che però non lo elimina dalla vita imprenditoriale e politica. Innegabile anche la passione per la compagnia, le feste e le belle donne. Certe sue notti e le "cene eleganti" oltre ad essere oggetto di un processo sono state occasione per conoscere, grazie a numerose intercettazioni, il dietro le quinte di una persona che se tanto ha faticato e lavorato altrettanto ha voluto anche godersi la vita. Imperdibili le sue barzellette, le canzoni (con o senza Apicella), i momenti di svago. Altrettanto forte il legame con la sua famiglia, soprattutto verso la madre, vera figura centrale della sua vita. Ma anche per i figli, avuti da mogli poi madri diverse (Berlusconi si è sposato due volte e, dopo Veronica Lario ha avuto un paio di giovani compagne). Una vita piena, troppo piena per la stragrande maggioranza degli esseri umani normali, non per lui, instancabile, uomo che dormiva (davvero) poche ore al giorno, che chiamava assistenti e uomini fidati ad ogni ora del giorno e della notte. Uomo che pretendeva il massimo da se stesso, in primis, ma anche da chi voleva e doveva stargli accanto. L'unica cosa che davvero lo ha ferito è l'odio che gli avversari politici e una parte del paese aveva nei suoi confronti. Non l'ha mai capito, non l'ha mai accettato. All'orizzonte oggi non si vede un altro Berlusconi. Già questo ci racconta molto della sua grandezza.
Yasmin Inangiray per l’ANSA il 12 giugno 2023.
In bianco. Di corsa, andamento lento sotto il sole delle Bermuda. Era il 1995 e lo scatto divenne subito iconico: Silvio Berlusconi e il suo primo cerchio magico, speciale, unico e inimitabile: a fare jogging con lui c'erano Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Carlo Bernasconi, Gianni Letta e Marcello Dell'Utri. Un gruppo di collaboratori divenuti nei decenni amici, confidenti, compagni di azienda e di politica. Inseparabili, inseparati.
Nei 28 anni successivi attorno ad Arcore si sono avvicendati altri gruppi di fedelissimi. Ognuno capace di scalzare il precedente, spesso senza chiedere il permesso. Perché i tre decenni di potere berlusconiano sono anche storia di cerchi magici e di battaglie intestine per il controllo dell'accesso al Capo.
In principio, dunque, erano quelli delle Bermuda. Amici che sono rimasti al fianco del leader, nonostante tutto, fino alla fine. A volte messi in disparte, a volte inascoltati, ma alla fine sempre capaci di sussurrare consigli decisivi all'orecchio del Cavaliere.
Gli anni di governo, quelli dei trionfi elettorali e dell'Italia berlusconiana gestita dalla centrale romana di comando a Palazzo Grazioli, furono amministrati anche da dirigenti capaci di accompagnare a lungo la parabola di Berlusconi: Paolo Bonaiuti alla comunicazione, la fedelissima segretaria Marinella Brambilla (Marinella e basta, per il mondo di Forza Italia), e poi Sandro Bondi, Paolo Romani, Antonio Martino, Claudio Scajola, Fabrizio Cicchitto, Denis Verdini, mastini azzurri e consiglieri sempre presenti nelle residenze del capo. Così come i due consiglieri ombra, Sestino Giacomoni e Valentino Valentini. Ma anche, Miti Simonetto e Roberto Gasparotti plenipotenziari nella promozione dell'immagine del Cav.
Fa parte poi della cerchia ristretta del "dottore" (come lo chiamavano i collaboratori più fedeli) anche Niccolò Ghedini, scomparso nel 2022 e fino alla fine avvocato personale di Berlusconi. Vengono tutti scalzati nell'era d'oro di Maria Rosaria Rossi, protagonista tra il 2006 e il 2008 di una rapidissima ascesa che la porta prima in Parlamento e poi stabilmente al fianco del Presidente a Palazzo Grazioli fino al 2016.
E' lei che cura l'agenda di appuntamenti di Berlusconi e ne filtra gli incontri. Sarà soprannominata "la badante" dai suoi avversari. Sono gli anni in cui diventa celebre Francesca Pascale, compagna per un decennio del Cavaliere dopo il divorzio da Veronica Lario. Assieme alla parlamentare Deborah Bergamini, che gestisce la comunicazione, sostituiscono Marinella e Bonaiuti, allontanano Gianni Letta, mettono ai margini tutti i vertici di Fi.
Anche loro, però, finiscono per dover cedere il passo. Dopo un difficile intervento al cuore, nell'estate del 2016, è Licia Ronzulli a diventare l'ombra del leader di Fi. Gestisce per sei anni ogni sospiro di Berlusconi. Ne è amica e consigliera, con il pieno consenso di Marina Berlusconi. Da sempre è la primogenita del Cavaliere ad avere l'ultima parola su chi può far parte del cerchio magico attorno al padre. Con Ronzulli si stringe il sodalizio politico tra il leader azzurro e Matteo Salvini.
Nel frattempo, Pascale rompe con Berlusconi: la nuova fidanzata è Marta Fascina, giovane deputata che ha accompagnato l'ex premier negli ultimi anni di vita. Ed è proprio Fascina a prendere il pieno controllo del berlusconismo insieme ad Antonio Tajani, colonna storica di Forza Italia sin dagli albori quando già nel 1994 sostituì Jas Gawronsky come portavoce. A Ronzulli tolgono la guida del partito in Lombardia mentre Alessandro Cattaneo è costretto a lasciare la presidenza del gruppo alla Camera. Si impone la linea dialogante con Giorgia Meloni. E' l'ultimo cerchio magico, l'ultimo fugace cambio di epoca. Incapace comunque di scalzare nell'immaginario quella foto alle Bermuda, tutti in bianco dalla testa ai piedi. Tranne Berlusconi, scarpe da tennis scure a guidare un gruppo di amici che avrebbe gestito il Paese per tre decadi.
Dagospia venerdì 24 novembre 2023.Licia Ronzulli è stata eletta vicepresidente del Senato con 102 voti favorevoli, 50 schede bianche, 5 nulle e 6 ad altri nomi.
Il voto è avvenuto a scrutinio segreto, con i senatori chiamati uno alla volta a passare attraverso i cosiddetti catafalchi per esprimere la loro preferenza in aula.
Presenti 164 senatori e 163 votanti. La senatrice di Forza Italia, fino a lunedì capogruppo degli azzurri al Senato, è subentrata a Maurizio Gasparri che contemporaneamente si è dimesso dal ruolo di vicepresidente del Senato, in una 'staffetta' proposta da FI.
Filippo Ceccarelli per “La Repubblica” - 4 OTTOBRE 2022
Ogni futuro presidente del Consiglio ha il diritto di sognare il suo Governo Perfetto sapendo benissimo che dovrà fare concessioni e giungere a compromessi. Fu così che Prodi di malavoglia dovette prendersi Mastella alla Giustizia, così come Draghi, per carità di patria, accettò di tenersi Di Maio agli Esteri. Ma a riprova che certe istintive idiosincrasie sono più che giustificate, ecco che proprio Mastella affondò il secondo governo dell'Ulivo, così come Di Maio, con la sua improvvida scissione, ha dato il via alla crisi dell'esecutivo di salvezza nazionale.
Se non altro in nome di questi infausti precedenti Giorgia Meloni ha una ragione in più per dire no e poi no a Licia Ronzulli. O meglio, in mancanza di contatti diretti, tutto lascia credere che in queste ore stia cercando disperatamente di convincere il Cavaliere a risparmiarle tale richiesta, che invece da Arcore si fa ogni giorno più pressante e ultimativa.
Nella prosaica quotidianità del totoministri sembra un caso come tanti altri, e in qualche modo c'entra anche il fatto che Ronzulli rappresenta l'ala più filo-Salvini della Lega, il che dopo la caduta di Draghi la portò a reagire a brutto muso nei riguardi della rivale governista lombarda Gelmini: «Vai a piagnucolare da un'altra parte e prenditi uno Xanax»; là dove l'improperio psico-farmacologico rivela un indubbio caratterino.
Ma dietro il braccio di ferro sulla poltrona s' intravede qualcosa che fa pensare a un'inedita inconciliabilità fra la concezione del potere del tardo berlusconismo cortigiano e quella dell'imminente premier della destra-destra, che proviene da un'antica militanza di sezione e di strada; seppur favorita e promossa in giovanissima età da Gianfranco Fini, Meloni ha piena e consapevole coscienza di essersi fatta strada da sola; e adesso pretende che il suo governo rispecchi almeno un certo criterio di selezione.
Ciò detto, nell'universo pedagogico del Cavaliere Ronzulli è esattamente quella che deve essere, vale a dire una donna il cui destino lui stesso ha forgiato secondo le sue generose prerogative e infallibili necessità: abbastanza giovane, graziosa, bel sorriso, svelta, simpatica, visually satisfying e adorante. In questo senso, come per altre carriere, la scuola quadri della Real Casa coincide con il mondo delle fiabe per cui Licia, provetta fisioterapista, è giunta al cospetto del sovrano in occasione di uno dei diversi "tagliandi", ossia interventi di chirurgia estetica, e di molto aiuto gli è stata dopo il duro colpo della statuina del Duomo scagliatagli fra guancia e denti nel 2009.
Dopo di che, perseguendo un suo particolare progetto di rinnovamento estetizzante della classe politica al femminile, Silvione l'ha fatta eleggere a Strasburgo: vedi la celebre e astuta foto di lei che votava allattando in aula uscita dopo una singolare testimonianza a proposito di idoletti della fertilità accolti a girotavola durante le cene a villa San Martino. In seguito l'ha richiamata nel ruolo di ciambellana di corte addetta alla sua regale persona, nonché depositaria della magica agenda.
Si trattava in realtà del medesimo ruolo di general manager del berlusconismo svolto per qualche anno dall'onorevole Mariarosaria Rossi in abbinata con la favorita del momento, Francesca Pascale. Anche in quel caso i giornalisti, con quel filo di mala creanza che pure insaporisce e in fondo riscatta la sbobba del day by day, utilizzavano di norma il titolo di "badante", trasmesso a Ronzulli che tuttora lo esercita affettuosamente e in armonia con l'onorevole Marta Fascina, per la quale ad esempio si è spesa organizzando le quasi o finte nozze.
Per tornare alla politica, che pure con tali faccende di riffa o di raffa finisce ormai per identificarsi, nei giorni concitati del Quirinale tra Ronzulli e Meloni qualcosa di storto deve essersi verificato, anche se al dunque un impiccio secondario. È sulla scelta e sul potere dei ministri che si mettono alla prova l'alleanza e la convivenza - e un no prima ancora di cominciare è già un no che vale per il futuro.
(…)
Berlusconi, il Cavaliere che non volle eredi, lascia Forza Italia senza guida
Silvio Berlusconi morto all'età di 86 anni dopo una lunga malattia
Da Alfano a Toti, passando per Carfagna, fino a Tajani e Fascina. È lunga la lista dei delfini mai diventati leader. Il patrimonio politico incustodito di Silvio. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 13 giugno 2023
«Non ci sarà più Forza Italia. Muore con Silvio». La previsione di Gianfranco Miccichè - ministro, vice ministro e più volte sottosegretario nei tre governi Berlusconi - a poche ore dalla scomparsa del Cavaliere può sembrare amara e fuori luogo nel momento del cordoglio. Ma è sincera e verosimile. «È un fatto scontato», dice lo storico esponente azzurro. «Il nostro non è un partito da congresso per sapere chi prende la direzione del partito. Assisteremo alla lite su chi è proprietario del simbolo, a chi non lo è», aggiunge Miccichè.
Sì, perché Forza Italia non può esistere senza il suo leader, il suo inventore, il suo padrone. Silvio Berlusconi è sempre stato allergico alla condivisione del potere all’interno della sua creatura e alla formazione di una classe decidente capace di camminare su gambe autonome. Anche quando ha allevato delfini, fino a designarli segretari di partito (del Pdl in questo caso), come con Angelino Alfano, ha sempre finito per trasformarli in trote per assenza di «quid». Già il «quid», quello che in Forza Italia, e forse in generale tra la classe politica, solo Berlusconi riusciva a sfoggiare. Così, negli anni, la lista dei possibili eredi alla guida del partito si è allungata alla stessa velocità con cui venivano stracciati i nomi che la componevano. Dal già citato Alfano a Giovanni Toti, passando per Mara Carfagna e svariate meteore. Fino ad arrivare ad Antonio Tajani - attuale coordinatore unico di Fi dal curriculum politico importante ma dal carisma poco dirompente - su cui in pochi sembrano pronti a scommettere per il futuro. Così come appare improbabile che a raccogliere lo scettro del comando possa essere l’onorevole Marta Fascina, ultima compagna di Berlusconi, che in pochi mesi è stata in grado di acquisire pezzi di potere azzurro e di mettere all’angolo esponenti di spicco di quello che fu il cerchio magico di Silvio. Del resto, prima di lei, era già successo a Francesca Pascale, ex fidanzata del Cav, di venire descritta come suggeritrice di svolte, sussurratrice di alleanze e dettatrice di prese di posizione.
La verità è che Berlusconi ha sempre deciso da solo, capace come pochi di annusare in anticipo l’orientamento degli italiani e i cambiamenti verso i quali andava il Paese. Forza Italia non può avere eredi, il berlusconismo però sì. E sono tanti a contendersi, soprattutto fuori dal partito, quel patrimonio rimasto adesso incustodito.
Il più interessato, dai tempi del patto del Nazareno, è senza dubbio Matteo Renzi, il primo a commentare ieri sui social la scomparsa dell’uomo che più di ogni altro ha segnato gli ultimi 30 anni di vita politica del Paese. «In queste ore porto con me i ricordi dei nostri incontri, dei tanti consigli, dei nostri accordi, dei nostri scontri», ha scritto su Facebook il leader di Italia viva. «Ma soprattutto di una telefonata in cui Silvio, non il Presidente, mi ha fatto scendere una lacrima parlando della mamma. Ci mancherai Pres, che la terra ti sia lieve». Non è un mistero che tra i due ci fosse del feeling naturale. Probabilmente un sentimento di reciproca simpatia figlio di uno stile comune - spregiudicato, populista e coraggioso - e di una visione pragmatica della politica, quella che permise a Berlusconi di varcare per la prima volta le soglie della sede dem per stringere un patto storico col nemico di sempre. Un rottamatore e un self made man che ha ridisegnato le geografie politiche del Paese. Ed è in nome di questa somiglianza che Renzi ha sempre provato ad ammaliare l’elettorato azzurro che col Cav in vita, però, ha puntualmente voltato le spalle all’ex segretario del Pd anche una volta uscito dalle mura del Nazareno, ritenendolo troppo poco affidabile. Senza Berlusconi a tenere le redini del comando tutto potrà rimescolarsi e ognuno proverà a giocarsi le sue carte nella variegata galassia centrista.
Ma volendo lasciare in pace la figlia Marina, più volte citata a sproposito negli anni come legittima erede politica in ordine dinastico, la più accreditata a prendere il posto del fondatore del centrodestra sembra una donna apparentemente lontana anni luce dalla narrazione antipolitica che è stata il marchio di fabbrica del leader: Giorgia Meloni. Figlia di una sezione di partito, a differenza di Silvio l’imprenditore “venuto dal nulla”, si è mostrata capace di tenere insieme una coalizione destinata a implodere dopo l’inatteso exploit elettorale del suo partito, Fdi, fino a poco tempo fa il soldato più piccolo di una corazzata guidata da Fi. Nonostante tra la premier e il Cav non sia mai scattata la scintilla in tanti anni di lavoro fianco a fianco, Meloni sembra aver imparato da Berlusconi la lezione più importante: mettere insieme ciò che per gli altri è inconciliabile. Così fece il “Berlusca” con Lega e Msi nel 1994, così prova a fare oggi da protagonista la nuova leader del centrodestra in Europa: costruire un’impensabile alleanza tra Popolari e Conservatori per stravolgere gli equilibri a Bruxelles. Per cogliere l’eredità di Silvio non bisogna stare necessariamente al centro, ma essere al centro dei processi.
L’ex premier è morto all’ospedale San Raffaele di Milano il 12 giugno. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi è stato quattro volte presidente del Consiglio in Italia. Soprannominato Il Cavaliere, il nome deriva dall'onorificenza ricevuta nel 1977 per l'ordine al merito del lavoro, alla quale ha rinunciato nel 2014 dopo una condanna penale. La sua 'discesa in campo' è avvenuta con un celebre discorso nel 1994, anno in cui fonda Forza Italia e il partito vince le elezioni. Forza Italia è poi confluita nel Popolo delle Libertà, ed è stata rifondata nel 2013. Tra il '96 e il 2001 Berlusconi guida l'opposizione a governi di centrosinistra. Nel 2001 è di nuovo presidente del Consiglio e firma il famoso 'Contratto con gli italiani' a Porta a Porta. E' di nuovo premier, poi, tra il 2008 e il 2011, anno in cui Berlusconi si dimette. Fino al 2013 è in carica come premier Mario Monti. In quell'anno il PdL entra in un governo di larghe intese ma nello stesso anno rifonda Forza Italia e passa all'opposizione. Nel 2019 viene eletto come europarlamentare. Nel 2022 la coalizione di centrodestra annuncia di volerlo come presidente della Repubblica, ma l'elezione non avviene. Nelle elezioni dello stesso anno diventa senatore.
1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma dell'Espresso. Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Camilla Cederna su L'Espresso il 12 maggio 2014.
Gli albori dell’ascesa di Silvio Berlusconi descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto.
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche.
Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”.
Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo.
Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni.
Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella).
«II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
Il Grande Fratello incassettato. Giampaolo Pansa su L'Espresso il 10 gennaio 2022.
Con un messaggio in videocassetta inviato a tutti i telegiornali, Berlusconi annuncia la “discesa in campo”, il suo ingresso in politica: nove minuti e venticinque secondi registrati nella villa di Arcore e preparati secondo le tecniche del marketing politico. Il neonato partito, Forza Italia, è in buona parte affidato a uomini provenienti da Fininvest e Publitalia, le aziende di Berlusconi
«MI SCAPPA LA PIPÌ! MI SCAAAPPAAA LA PIIPIII!...». Comincia con questa marcetta il mio Berlusconi-Day (mercoledì 26 gennaio 1994), ovverosia il giorno del Grande Sbarco di Sua Emittenza in terra d'Italia, un'Italia da liberare dai rossi brutti sporchi e cattivi, un'Italia da miracolare, e poi da bere e da mangiare. Controlliamo gli orologi: sono le 13,40 o giù di lì. Su Canale 5, il pupazzo parlante della Fininvest, l'onorevole Vittorio Sgarbi, ha appena concluso il proprio delirio quotidiano. E mentre la sua risata nevrotica si dissolve nell'etere, ecco esplodere la marcetta: «Mi scappa la pipiii…». La pipì scappante è il Partito popolare dell'avvocato Martinazzoli. E, difatti, ecco la faccia di Mino innestata su un corpaccio di dinosauro. Stacco, si cambia scena e attore.
Adesso tocca a Silvio Berlusconi in persona. Aitante, sportivo, fasciato in una supertuta da saper-ginnastica, ai piedi due enormi scarpe da jogging. Il Super-Uomo in Tuta balza dall'elicottero con mosse da ghepardo. Poi ne fa scendere due bimbetti, due Berluschini piccini picciò. Avanti, per mano, lungo un prato perfetto, tagliato con rasoio bilama. Verso dove? Ma che domanda, verso l’Italia. Sì, “Forza Italia”, ti libereremo! Lo spot è un tormentone che ci avvolge, turbinoso-ossessionante, per la milionesima volta. Ormai l’abbiamo ingoiato, digerito e risputato. Anzi, ce l'hanno ficcato così in profondità nella nostra zucca di italiani refrattari che - accidenti! - lo sappiamo a memoria.
Ecco Roma. Poi una folla che avanza tranquilla. Torino. Giovanotti e ragazze in bicicletta. Innamorati. Venezia. Mare. Di nuovo Roma. Operai. Napoli. Pisa. Un italiano perfetto elegante al telefono. Di nuovo folla. Piazza. Faraglioni di Capri. Bologna la rossa (ancora per poco). Vesuvio. Firenze. Ragazzi felici. Milano. Duomo di Milano. Madonnina sul Duomo di Milano. Monte Bianco. Computer. Trattori al lavoro sulla buona terra che va difesa dai neocomunisti. Parchi. Saldatore in officina. Lanterna di Genova più porto con relative navi. Nonni & nipoti. Ancora ragazzi. Famigliola felice nel soggiorno con tv, il cuore della casa… Su, cantiamo insieme. Su, marciamo insieme. Su, entriamo insieme nel futuro che dobbiamo costruire insieme. Forza Italia! E, signori italiani, venghino, venghino, nel Polo delle Libertà. Che poi è il Luna Park di Arcore (Milano). Con le sue donne barbute. Con i suoi predicatori folli. Con i suoi giocolieri abituati a tutti i giochi. Vedrete Giuliano Ferrara strepitante nel girello di Radio Londra. Ed Emilio Fede che prega. Ed Enrico Mentana che canta “Liberooo! Io sono libero!”. E Funari che sghignazza contro tutto e tutti. E Davide Mengacci che, armato di telecamere, gira le piazze d'Italia per rivelarci una verità prima d'ora nascosta: siamo un popolo di ardimentosi fessi, capaci di gridare, sobillati dal sciur Mengacci, le più fenomenali imbecillità.
Vedi, caro amico che aspetti come me l’ora X del Berlusconi-Day, quanto siamo stati preveggenti nella nostra battaglia contro il Cavaliere? Ma sì, diciamolo con il candore dei semplici: abbiamo visto giusto prima di tanti cervelloni italici. E quel che abbiamo visto, l’abbiamo gridato senza che nessuno dei nostri Illustrissimi Superiori ce l’ordinasse: né l’ingegner De Benedetti Carlo, né il dottor Scalfari Eugenio, né i capi segreti della nota lobby editorial-finanziaria, altrimenti detta Partito Irresponsabile dei Nemici di Berlusconi. Non c’era mai piaciuto, il Cavaliere. E con il passar degli anni ci era piaciuto sempre di meno. Ci appariva come un alieno dentro un’astronave, sospesa minacciosa sopra i cieli d'Italia. Ma adesso l'astronave è in procinto di atterrare. E l’Alieno di Arcore ce l'avremo, finalmente, davanti a noi.
L'astronave atterra alle 17,30 dentro l’astroporto più protetto, il Tg4 di Fede. “Forza Italia per noi!”: adesso godetevi l’Alieno Incassettato e il suo messaggio siderale, ma soprattutto solitario, senza contraddittori, senza domande. Mio Dio, quant’è orribile il Berlusconi nel suo primo giorno da capo-partito. Meglio, molto meglio, più umano, più vivo il Berlusca delle ultime apparizioni dall'astronave. Quello col maglione e le coppe del Milan sullo sfondo. Persino quello che, davanti alla stampa estera raccolta a Roma, inveiva al limite dell'infarto contro il comunismo che aveva fatto milioni di morti. Il Berlusca Incassettato, invece, è lui a sembrare un morto. E forse il Silvio in carne ed ossa è davvero defunto. Assassinato dal suo gemello Fedele Confalonieri, contrario alla seconda vita del Cavaliere. E dopo l’Assassinio, Fedele l’ha sepolto nel Mausoleo di Arcore. Così, adesso, quel che la cassetta ci trasmette è soltanto un corpo imbalsamato e reso semovente-concionante da qualche trucco televisivo. Oppure è un sosia. Un attore scelto con maniacale perfidia da Confalonieri per atterrire gli italiani e renderli refrattari al piano di Forza Italia. Sennò perché mandare in video quel replicante torvo, dalla fissità quasi robotica, i tratti tirati e smagriti da un chirurgo plastico cresciuto alla scuola del dottor Frankenstein? E le mani? Mani come artigli. La sinistra a serrare la destra in una morsa ferrea, quasi ad impedirle scatti innaturali e incontrollabili. Un Cavaliere da horror-film: questo ci svela la cassetta del Berlusconi-Day. Con un effetto tragicamente moltiplicato dalle repliche su tutte le reti pubbliche & private. Un'ossessione. Un incubo sempre ritornante. Un fantasma mummioso che risulta impossibile scacciare.
E se fai lo zapping col telecomando, la mummia robotica ti sì avvinghia addosso, sprizzando da ogni canale. E con un ringhio ti spiega che, come San Francesco, ha rinunciato alle pompe e agli averi. E che adesso, povero e ignudo, combatterà i comunisti. E che dopo averli vinti, regalerà all'Italia un nuovo miracolo: economico, politico e televisivo. È il Grande Fratello orwelliano di 1984? Peggio: è la Grande Mummia di questo 1994 pronto alla dittatura della tv. Una mummia capace di gridarci che lui, l'Horror Berlusca, viene dal nulla. E non porta per niente le piaghe, le tare, i vizi della partitocrazia che l'ha costruito e ingrassato. Al punto da fargli urlacchiare, spudorato-minaccioso: «Non voglio vivere in un paese governato da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare». Piacerà agli italiani la Mummia Robotica che giura e spergiura di venire soltanto dal futuro? E se può dirlo. Se l'Italia è quella che il furbastro Mengacci, nella sua “mezz'ora dello scemo”, va disseppellendo tra fiere e mercati, può anche essere. E a questo mira la liturgia messa in scena dalle reti Fininvest. Il più chiesastico è Fede. Lui non dirige un telegiornale: celebra ogni dì una funzione religiosa. E nel Berlusconi-Day prega, a mani giunte, più estatico che mai: «Arcore è una località vicino a Milano diventata famosa. Qui c’è il quartier generale…».
Poi biascica, virtuoso, al telecronista appostato sul limitare della villa-sacrario: «Ma Silvio Berlusconi c'è o non c'è?». E il chierico-reporter risponde salmodiando: «È un piccolo mistero. Non si sa dove sia, il cavalier Berlusconi…». Allora, monsignor Fede prosegue nella messa cantata. E gorgoglia che è una messa del tutto normale: «Se Giovanni Agnelli avesse deciso di entrare in politica, avremmo fatto la stessa cosa. Anzi, un cicinino di più». Sul Tg5, invece, Mentana-Mitraglia pensa alla propria faccia. E canta: sono libero, libero, liberooo! Diciamo grazie al Berlusconi editore. Lui sì che è buono! Lui sì che è liberal! Ci ha lasciato fare il tigì in assoluta autonomia. E così faremo nei secoli dei secoli. Facciano tutti come noi! Questo sia l'impegno di tutti! Che non si ripeta, mai più, l'orrore delle altre campagne elettorali». «Ve le ricordate le campagne precedenti in tv?», strilla, impavido, l'ex mitraglista craxiano, «Teleforlani, Telecraxi, Telekabul». Oggi ci siamo noi, campioni della tv imparziale che più imparziale non si può. «E ve lo dimostreremo alle 22.30, nel nostro speciale. Con un'incursione - senza preavviso! - nelle sedi di Forza Italia».
La notte scende sul Berlusconi-Day fra estenuanti dibattiti sul perché e sul percome la Mummia Robotica sia indispensabile alla salvezza d'Italia. Poi, alle 22,30, arcipuntuale, ecco il commando di “Mitraglia” irrompere nella centrale itala-forzista di Milano. «Possiamo entrare?», chiede, giulebboso, Andrea Pamparana. «Perché no? Se vi manda l'Ingegnere di Ivrea, siete i benvenuti. Se vi manda Berlusconi, ci farete il santo piacere di lasciarvi perquisire…». Che rassicurante profumo di soldi, nei lindi uffici forzisti. Centralini intasati dalla folla di aspiranti salvatori d’Italia. Computer per schedare la marea di supporter. Toh, l’organizzatore del partito berlusconiano, Codignoni Angelo: naso pendulo, occhioni golosamente umidi, il tricolore all'occhiello. «Ci paghiamo tutto noi», giura il Nasone Forzista, «aderire costa una miseria!».
Ecco due forzisti della prima ora, un professar Padroni e un architetto De Caro. Cantano: «Siamo tutti entusiasti del nuovo corso!». E quella testa da naziskin chi è? Ma come, è Gianni Pilo, il sondaggista della Diakron. Lui le elezioni le ha già vinte: «Siamo al 16 per cento in tutta Italia. E con un consenso potenziale ancora più ampio». Si passa ad un ginecologo di Tradate. Poi ad un venditore di auto in Varese. «Ma come? Ha avuto il tupè di aderire a Forza Italia proprio nella tana del lupo leghista?» E lui: «Si, perché mi è piaciuta subito l’idea liberal-democratica del Dottore». Idea che ha trovato un guerriero, lo spaesato generale in pensione Luigi Caligaris. E anche dei ripetitori imparziali. “Mitraglia” ci mostra Andrea Monti, direttore di “Panorama”, e il suo assistente romano, Pino Buongiorno: «Prepariamo le domande per l'intervista al Dottore! E Pino mi accompagnerà in questa avventura!».
Per il momento eccovi, in anteprima, la vignetta di Forattini. «Meglio la tivù spazzatura che la spazzatura di Stato» strillano Berlusconi e Bossi armati di scope. E nel cassonetto dell'immondizia chi si vede? Occhetto e Martinazzoli, naturalmente. Andrà così? La campagna elettorale avrà questo look da gentiluomini? È possibile. Sì, addosso ai neocomunisti. Trinariciuti. Trimammelluti. Frontagni. Col cervello all'ammasso. «In cabina elettorale Dio ti vede, Occhetto no». Ma potrebbe anche andare tutto al contrario.
La Mummia Robotica ci ha fatto un grande regalo: ci ha dato un avversario da battere. Fino a ieri, Silvio Berlusconi l’avevamo visto da lontano, ben protetto dalle mura della fortezza Fininvest. Ma adesso è sceso tra noi. Tra i tartari che non vogliono finire berlusconizzati. Che errore, Sua Emittenza! Potrà capitarle di essere sbranato. Pacificamente, s’intende. Da milioni di voti contrari. Dunque, si prepari a perdere, o impopolare miliardario di Amore. Ha presente il suo amichetto Bettino Craxi? Temo che a lei andrà peggio. Molto peggio.
Silvio Berlusconi, gigante gentile che ha superato De Gasperi e Agnelli. Il ritratto di Bisignani. Luigi Bisignani su Il Tempo il 13 giugno 2023
Caro direttore, UN GIGANTE. Morto il Cavaliere, impossibile che ne nasca un altro. Insieme ad Alcide De Gasperi e Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi è stato l’italiano più influente del Dopoguerra. Ma, a differenza di De Gasperi e Agnelli, il primo politico, il secondo imprenditore, Silvio ha fatto di più, in quanto ha rivestito entrambi i ruoli.
Talvolta superando perfino il fascino magnetico dell’Avvocato che, per anni, era stato il suo mito. Per tutta la vita il Cav. ha vissuto con due sindromi che solo in rarissimi casi, spesso geniali, combaciano: era euforico ed ossessivo al tempo stesso. Euforico perché si lanciava in sfide continue nella convinzione di poter raggiungere qualsiasi traguardo, senza paura, gettando il cuore oltre l’ostacolo, anche a costo di farsi male. Ossessivo perché preparava ogni mossa con maniacale precisione e calcolo. Affermare che ha trasformato la società italiana con l’avvento della tv commerciale è perfino riduttivo. Ha costruito un modello nuovo di abitazioni, anticipando di decenni l’ambientalismo di maniera, ha reso il calcio italiano uno show business innovativo, seducendo accaniti tifosi del Milan persino dalla lontana Cina, ed è l’unico al mondo ad aver messo in piedi in venti giorni un partito politico, che poi è andato subito al governo. Pur con le sue mille contraddizioni, nessuno dei suoi troppi detrattori e pubblici ministeri che lo hanno perseguito potranno mai togliergli questi incredibili successi, così come la soddisfazione di essere ancora oggi il presidente del Consiglio che ha governato più a lungo l’Italia.
Lo incontrai la prima volta nel 1977. Avevo ventiquattro anni ed ero capo ufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati, lui quasi quarantenne, già importante immobiliarista milanese, che stava per diventare il più giovane cavaliere del lavoro della Repubblica Italiana. A presentarmelo, in un attico di via Vittoria a Roma, Roberto Gervaso, allora pupillo di Indro Montanelli e scrittore affermato. Me lo volle far incontrare per avere conferma che tutto l’iter della pratica fosse andato a buon fine. Di Berlusconi la prima cosa che colpiva era il sorriso disarmante e l’empatia immediata, di quelle da farti sentire di conoscerlo da sempre. Una sera a casa di Giampaolo Cresci, allora delfino di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei, mitico direttore generale della Rai, sempre con il ministro Stammati e l’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga, ci trovammo a cena con il neo Cavaliere sprizzante gioia da tutti i pori per questo riconoscimento che lo elevava tra i grandi imprenditori italiani. Incurante della presenza di Fanfani e di Bernabei, che avevano inventato la Rai, per tutto il tempo Berlusconi si lanciò a raccontare come il suo progetto di tv commerciale avrebbe soppiantato la tv di Stato. Rammento, come se fosse oggi, le poche parole che mi disse Stammati mentre scendevamo in ascensore dal bell’attico della Collina Fleming: «Chisto, o è no’ pazzo o è no’ genio».
Così come mai dimenticherò la telefonata stupita di mia madre quando mi avvertì che erano state recapitate a casa delle bottigliette di Coca Cola. Quando al telefono le chiesi cosa ci fosse da meravigliarsi, mi disse: «Gigio, non delle bottigliette di Coca Cola, un intero camioncino!», di quelli che andavano di moda al tempo, con decine di cassette impilate. Un semplice biglietto di accompagnamento: «Grazie, Silvio». Spiegai a mamma l’arcano. Fedele Confalonieri, già allora braccio destro del neo Cavaliere, in una precedente occasione mi aveva fatto dono di una confezione di champagne francese e, nel ringraziarlo, gli dissi garbatamente che ero astemio. Ecco, in tutta la vita Berlusconi ha sempre voluto incantare i suoi interlocutori con gesti spettacolari. Era irrefrenabile la sua gioia di stupire.
E Berlusconi, allora, siamo nella metà degli anni ’80, non pensava proprio di «scendere in campo» in politica, pur avendo in animo di trasformare l’Italia in una società liberale e moderna. Diventato poi un precursore della televisione commerciale, mi è capitato di partecipare ad alcune riunioni in cui si parlava dell’acquisto del Milan o di Rete4, la sua terza tv. Insieme ad altri interlocutori presenti, dicevamo che sarebbe stata una follia acquistare una squadra di calcio perché, dopo le prime fiammate di entusiasmo, i tifosi gli avrebbero girato le spalle, e inoltre non c’era motivo di avere una terza rete, visto che possedeva già Canale 5 e Italia 1. Non ci diede retta, convinto com’era delle sue idee e del suo progetto visionario. Ebbe ragione: triplicò le entrate.
Il Biscione in quegli anni dominava il mercato della raccolta pubblicitaria del piccolo schermo, facendo così anche la fortuna di molte aziende che vi investivano. Curioso e costantemente concentrato, ad ogni incontro prendeva appunti su tutto, a ciascuno dei suoi ospiti dedicava un’attenzione ad hoc, senza tralasciare alcun particolare sull’eventuale pranzo o cena, sulla scelta dei fiori e sulle abitudini dei suoi commensali. Era un padrone di casa squisito che conquistava anche coloro che avevano preconcetti nei suoi confronti.
Così fu anche nel caso di Raul Gardini, quando lo andò a trovare a Ravenna per farsi vendere la Standa. Raul lo ricevette solo per gentilezza, giurando che mai gliel’avrebbe venduta. Il contadino sapeva essere ruvido e sferzante, ma il Cavaliere alla fine lo «espugnò». Il pirata Gardini poi, durante una loro camminata nelle vie di Ravenna, rimase stupito dal gran numero di gente comune che lo avvicinava con affetto e ammirazione, con una parola, una battuta o un sorriso contraccambiava sempre il saluto. Già allora, infatti, ancora prima di entrare in politica, grazie alle vittorie del Milan e alla popolarità delle sue tv, era un personaggio. Sapeva essere galante, con migliaia e migliaia di rose fatte recapitare a presentatrici e soubrette che dalla Rai sarebbero passate in Mediaset; generoso, soprattutto con chi si trovava in difficoltà.
Nella prima fase di Mani pulite, quando ancora non era stato messo sotto i riflettori, con tutte le sue televisioni che acclamavano il pool, seppe essere molto affettuoso con la famiglia Ferruzzi. Mi disse, mentre eravamo all’aeroporto di Ciampino: «Comunque di’ ad Arturo e Carlo che tutte le case che ho in giro per il mondo sono a loro disposizione». Fino ad allora, sulla politica Berlusconi aveva lo stesso pensiero di Enrico Mattei: un taxi sul quale salire, pagare la corsa e poi scendere. Ne diffidava e voleva starne lontano. Durante le crisi di governo, ricordo che la sua maggiore preoccupazione era chi sarebbe diventato titolare del ministero delle Comunicazioni, dove a tutti i costi non voleva che andasse uno dei democristiani della sinistra Dc, i vari Sergio Mattarella, Carlo Fracanzani, Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi ma più di tutti, Guido Bodrato, perché li considerava da sempre dei nemici per il suo progetto di una televisione liberale e commerciale. Con un’unica eccezione: «Italia domanda» su Canale 5, che aveva affidato a Gianni Letta nel suo primo incarico nel regno di Arcore, trasmissione alla quale riservatamente collaboravo. E, pur di evitare un ministro della sinistra democristiana, si trovò a puntare su Oscar Mammì, repubblicano, che poi non a caso fece la famosa Legge sulle telecomunicazioni, a cui si aggiunse, anni dopo, quella di Maurizio Gasparri, rimasto nel tempo uno dei più fedeli alleati di Berlusconi.
In quello che lui stesso definiva il «teatrino della politica» della prima Repubblica, i due capisaldi del mondo di Silvio erano Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, a cui deve parte del suo successo di tycoon.
Tra i politici che hanno fatto la storia d’Italia, Silvio Berlusconi aveva una venerazione per Alcide De Gasperi, ritenendolo il vero e unico argine contro i comunisti. Ed è proprio seguendo il suo esempio, per la deriva che aveva assunto Mani pulite ed il legame tra procura di Milano e Partito Comunista, che decise contro tutto e contro tutti, di scendere in campo, con Indro Montanelli direttore del suo Il Giornale, che gli preconizzava, giustamente, che l’avrebbero fatto a pezzi. In extremis, tentò in ogni modo di rimettere in piedi i cocci della politica che l’inchiesta aveva spazzato via, ore di colloquio con quelli che sembravano i leader emergenti del momento, Mariotto Segni in testa. Infine, ruppe gli indugi e fondò Forza Italia. Un miracolo che ha mandato in tilt la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sponsorizzata da Carlo De Benedetti, il grande rivale di Silvio Berlusconi, il quale, nonostante il plotone mediatico-legale che gli ha schierato contro per tanti anni, non ha potuto altro che soccombere, rifugiandosi nelle sue ville in Svizzera ed in Spagna.
Silvio è l’italiano che non hai mai abbandonato l’Italia, che ha pagato con le sue aziende più tasse di tutti, che ha dato lavoro a milioni di persone nei diversi campi di attività, che è stato perseguitato con 488 perquisizioni, una trentina di processi e il sequestro di oltre due milioni di pagine documentali, finite con un’unica e sola barbarica condanna a cui aveva fatto ricorso. Quest’anno ha peraltro assistito al beffardo contrappasso della condanna di Nicolas Sarkozy che, anni prima, lo aveva deriso pubblicamente insieme alla Merkel.
Durante gli anni dei suoi governi, Berlusconi, piaccia o no, ha riportato il Paese al centro della scena mondiale, allacciando rapporti personali inimmaginabili per un leader europeo. Dai presidenti degli Stati Uniti a Putin fino a Erdogan e Gheddafi. Di Erdogan è stato testimone di nozze del figlio, Putin è andato a trovarlo nella sua dacia quando era ristretto nei movimenti per motivi giudiziari. Con Gheddafi, che durante quegli anni veniva più a Roma che a Bengasi, aveva raggiunto una confidenza inimmaginabile. Tanto che Berlusconi non perdeva occasione per elogiare la Guardia Amazzone tutta al femminile che il Colonnello si portava nelle trasferte, il reparto militare d’élite per la sua sicurezza, e a volte finivano perfino a parlare di punturine afrodisiache.
Aveva fascino anche quando coinvolgeva gli ospiti nel tour del parco di villa Certosa in Sardegna, riconoscendo ad una ad una le piante, fino a stupirli, di notte, con il vulcano che illuminava le serate di festa. L’intimità con i leader del mondo ha portato l’Italia a Pratica di mare a far stringere le mani a Putin con Bush, in pieno accordo con gli alleati dell’Occidente, mettendo così fine alla guerra fredda. Berlusconi fu il primo a capire che abbandonare Gheddafi al suo destino avrebbe destabilizzato l’intera area del Mediterraneo.
Ma il ruolo dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per assecondare l’Eliseo, che da sempre aveva osteggiato la discesa in campo della tv commerciale in Francia, fu nefasto. Quello del Quirinale è stato il grande vulnus della leadership berlusconiana. Al Colle non solo non ci è mai arrivato, ma ha sempre dovuto soccombere davanti ai vari Presidenti, con Oscar Luigi Scalfaro in testa, che l’hanno combattuto da dentro le istituzioni. Certamente, lui ci ha messo anche del suo quando, morta la mamma Rosa che adorava, si è lasciato prendere dalla gioia di vivere senza tener conto che la magistratura militante aveva trasformato la sua villa di Arcore e le sue residenze romane in un «cimiciaio» pieno di telecamere e microfoni per esporre la sua vita privata al pubblico ludibrio. Sicuramente un eccesso, ma come diceva Andreotti parlando di quelle vicende, mai in Francia nessuno si sarebbe permesso di guardare dal buco della serratura la vita privata di Giscard d’Estaing o di François Mitterand, altrimenti se ne sarebbero viste delle belle.
Per assurdo, la gazzarra attorno alla vita privata di Berlusconi ne ha fatto, in tante parti del mondo, un mito. Ricordo quando una notte arrivai con la mia famiglia in un ostello a tremila metri di altezza a Machu Picchu, in Perù, e ci venne ad aprire un campesino assonnato. Quando capì che eravamo italiani, iniziò un balletto forsennato, cantando ammirato «Bunga Bunga» e «Silvio, Silvio».
Se una critica si può fare agli anni di governo di Berlusconi, è quella che gli piaceva più essere presidente del Consiglio che fare il presidente del Consiglio, attività che aveva delegato completamente al suo infaticabile e prezioso Gianni Letta che, da solo, doveva tenere a bada Quirinale, Vaticano, alleati e opposizione. Con un premier distratto, forse, da troppe debolezze e dal desiderio di occuparsi principalmente di politica estera, dove a volte, per esuberanza, si è imbattuto in gaffe, ma anche in simpatici siparietti inaspettati come, ad esempio, quello in cui agitando la mano e ad alta voce chiamava Obama, davanti alla Regina Elisabetta.
La sua più grave mancanza, certamente quella di non aver mai voluto crescere un delfino che portasse avanti con autorevolezza Forza Italia, la sua creatura nella quale ha investito centinaia e centinaia di milioni di euro. Ha bruciato tutti i possibili coordinatori scatenando all’interno del partito una guerra tra correnti sotterranee che si affrontavano di nascosto a colpi bassi per poi accucciarsi di fronte a Silvio, che li blandiva, raccontando a ciascuno di loro una versione diversa o promettendo incarichi che mai sarebbero arrivati. Oltre alle barzellette, il racconto delle bugie, una sua qualità straordinaria, anche perché non sembravano mai bugie, ma convinzioni granitiche. Capitò anche a me una volta, quando andai a ricordargli un episodio, per lui importantissimo in quel momento. Prendendomi il braccio con quelle sue mani sempre curate, mi redarguì: «Questo non me l’hai mai detto, Luigino». Certo invece di avergliene parlato, gli risposi con un aneddoto che tanti anni prima mi aveva rivelato Tommaso Morlino, allora presidente del Senato, per un caso analogo che gli era successo con Aldo Moro, suo capo corrente e indiscusso punto di riferimento: quando vai da una persona molto più importante di te, di quell’incontro ricordi ogni dettaglio, quando aspetti, quando sei lì, memorizzando qualsiasi interruzione. Berlusconi, imbarazzato con il suo sorriso disarmante, si limitò a replicare: «Effettivamente devo tenerne conto». Lo conoscevo da anni e non potevo prendermela.
L’ultimo Berlusconi è stato un nonno malinconico. Devastato da mille acciacchi fisici, incupito dall’ossessione per la persecuzione giudiziaria e dai rapporti con le sue donne e con il cerchio magico che, ad ogni nuovo «giro», lo ha allontanato da quel mondo che, per anni, gli è stato attorno e che lui coltivava sempre con una parola, un gesto di solidarietà, una telefonata. È finito accerchiato da poche persone che hanno approfittato della sua indole generosa isolandolo, seppure fossero gli ultimi arrivati alla sua corte. L’ultima giravolta, dopo il finto matrimonio con Marta Fascina organizzato da Licia Ronzulli, il grande rovesciamento di carte. Con la Ronzulli che viene esautorata e la Fascina che prende il comando del partito, forte di un’alleanza con la primogenita Marina che di fatto ne è la vera erede. Nessuno come lui è stato così divisivo in Italia, tanto amato quanto osteggiato. La sua morte, uno shock per un intero Paese che è cresciuto attraverso i suoi trionfi e le sue sconfitte. Una cosa è certa: non ci sarà mai più un Cavaliere come lui, forse con qualche macchia, ma di certo senza paura. E con ogni probabilità, il suo impero, così come quello degli Agnelli, finirà all’estero, a pezzi, cosa che non avrebbe mai voluto. Silvio, ci mancherai. Tanto.
Silvio Berlusconi, genio visionario capace di conquistare chiunque. Davide Vecchi su Il Tempo il 13 giugno 2023
Nessuno potrà mai descrivere Silvio Berlusconi. È stato tutto e il contrario di tutto. Ha incarnato il Paese. Nel bene e nel male. La sua personalità era talmente complessa, la sua plusdotazione intellettiva così sorprendente da permettergli di riuscire a conquistare chiunque. Quindi ciascuno può limitarsi a ricordare solo ciò che Berlusconi gli ha mostrato per conquistarne la fiducia, l’amicizia o più semplicemente l’approvazione di un istante.
Credo che il tratto distintivo del Cavaliere sia stato proprio il fermo convincimento di poter piacere a tutti. Di conquistare tutti. La sua capacità di infondere negli altri il fervore per le proprie idee tanto poi da spingerli a perseguirle, sostenerle, difenderle fino a realizzarle con lui. Solo così si spiega la sterminata sequela di successi. Nell’imprenditoria, nell’editoria, nello sport, nella politica: sapeva farsi amare e farsi seguire anche in imprese inizialmente apparentemente folli. Era un genio. E, come i pochi uomini che come lui hanno fatto la storia, era un visionario. Sapeva scegliersi i collaboratori e aveva un rispetto assoluto di ciascuno. Parlava con tutti e si occupava di tutti.
Ricordo un collega del Tg5. A poco più di quarant’anni scoprì di avere un brutto malore. Berlusconi lo seppe e si prodigò affinché avesse le migliori cure possibili, lo mandò in una clinica in Svizzera e mise a disposizione dei familiari l’elicottero per poterlo raggiungere. Non era un amico né un uomo della prima linea ma era uno delle centinaia di giornalisti dipendenti Mediaset. Storie di umanità e generosità simili ce ne sarebbero centinaia. Sapeva che la sua ricchezza economica prima e il consenso politico poi dipendevano anche dal contributo dell’ultimo degli uscieri. E aveva la medesima attenzione per tutti. E quando incrociava qualcuno che non sembrava amarlo tentava di convincerlo fosse in errore. Riteneva di poter convertire anche i suoi più fervidi detrattori. Per questo accettò di andare in trasmissione da Michele Santoro accettando il confronto con Marco Travaglio. Era convinto di riuscire a far cambiare idea a entrambi. Ma quando capì che ogni suo sforzo sarebbe stato inutile ha cambiato le sorti di quella trasmissione con uno dei suoi colpi di teatro ironici: pulire la sedia su cui era seduto l’allora editorialista del Fatto Quotidiano. E questa è l’unica immagine che si ricordi di quella serata.
Mesi dopo mi capitò di incontrarlo su un Frecciarossa. Rimanemmo soli per l’intero tragitto da Roma a Milano. E per tre ore tentò di convincere me, che all’epoca del Fatto ero inviato, a organizzare una riunione con l’intera redazione alla quale lui avrebbe voluto parlare: «Mi basta un’ora, in un’ora tutti capirebbero chi sono realmente».
Sbaglia chi sostiene, come ha fatto ieri Elly Schlein, che con la morte di Berlusconi si chiuda un’epoca. Significa non averne minimamente compreso la portata storica. Il Cavaliere ha modificato l’ordinario, creando uno straordinario. Ha aperto una nuova era, rivoluzionando la comunicazione, la tv, la politica. È persino riuscito a sconfiggere la magistratura, in un Paese nel quale le procure hanno condizionato pesantemente la politica. Lui ne ha accettato i procedimenti ma combattendo sempre per difendere il suo operato, le sue scelte. Credendo, forse, di poter convincere anche loro. Come sempre, come con tutti. Piaccia o no, del resto, ciò che Berlusconi ha realizzato lo ha realizzato grazie al sostegno di amici, conoscenti, elettori. Ha conquistato molti. Tentando di conquistare tutti. Nessuno potrà mai sostituirlo o esserne erede. E nessuno potrà mai ingabbiarlo in una descrizione, perché era un genio. Semplicemente un genio visionario.
Qual è l’eredità politica di Berlusconi. Ha sdoganato la destra e recuperato la cultura liberale. Il liberal-conservatorismo di governo nasce qui. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 13 Giugno 2023
Con la morte Silvio Berlusconi abbandona definitivamente il palcoscenico della politica ed entra in quello della storia. Come è noto il giudizio storico non ha il compito né di assolvere né di condannare. E spesso è impietoso: personalità che erano state considerate centrali nella vita del proprio tempo, presto sono dimenticate o considerate “minori”. Già oggi si può dire che questo non accadrà per il Cavaliere di Arcore: la sua traccia sulla politica e sulla società italiana resterà indelebile perché ha rivoluzionato la prima ed ha capito come pochi le nuove esigenze e bisogni che emergevano in seno alla seconda.
Negli anni Ottanta ha interpretato la voglia diffusa di “riflusso”, cioè di alleggerimento di quella cappa di piombo che la cultura catto-comunista (e di un certo azionismo) aveva negli anni impresso al nostro Paese. Da qui il suo impegno nelle televisioni. Nel decennio successivo si è invece posto il compito di laicizzare e democratizzare la vita politica italiana, di avvicinarla al parlare e al sentire comune, di corrispondere a quel processo di individualizzazione che era proprio della società occidentale. Si è rivolto così direttamente ai ceti vivi, imprenditoriali e alla larga classe media che portava avanti il Paese ma si sentiva vessata da uno Stato inefficiente e prepotente.
La sua intuizione fu quella di fermare la “gioiosa macchina da guerra” messa su dagli ex comunisti con una strategia culturale e politica il cui successo dimostrò la sua straordinaria capacità di visione. Dal primo punto di vista, egli ebbe l’intuizione geniale di recuperare una cultura politica che in Italia era stata significativa ma minoritaria, schiacciata dal catto-comunismo imperante: quella liberale.
Politicamente, Berlusconi, capendo subito la logica del maggioritario, sdoganò la destra e ne avviò quella trasformazione in un moderno partito conservatore che oggi le permette di governare. Smascherò così tutte le ambiguità, le ipocrisie, i conformismi, di una sinistra che invece quella conversione liberale e democratica non l’ha saputa fare. E che anzi trovò nel giustizialismo illiberale la sua nuova valvola di sfogo. Il liberal-conservatorismo di governo a cui siamo infine approdati nasce da qui. Onoreremo l’eredità di Berlusconi tenendo viva e rafforzando ancora di più la componente liberale di questa virtuosa sintesi. Corrado Ocone, 13 giugno 2023
Da ilfattoquotidiano.it il 12 giugno 2023.
Era il 6 maggio del 2023, alla convention di Forza Italia era atteso un messaggio di Silvio Berlusconi, che non poteva partecipare alla riunione per via dei problemi di salute. Così, dallo schermo, era stato trasmesso un video-tributo che ripercorreva le fase salienti della carriera politica dell’ex presidente del Consiglio. Oggi Berlusconi è morto, era ricoverato da venerdì.
“Io sarò con voi”. Il testamento politico di Silvio Berlusconi su Nicolaporro.it il 13 Giugno 2023
Eccomi, sono qui per voi, per la prima volta dopo un mese con giacca e camicia. Qualche notte fa, qui a San Raffaele, mi sono svegliato improvvisamente, con una domanda in testa che non riuscivo a mandare via: ma come mai sono qui? Ma che ci faccio qui? Per cosa sto combattendo io qui? Vicino a me vegliava la mia Marta. Anche a lei posi la stessa domanda: perché siamo qui? E lei mi disse: siamo qui perché hai lavorato tanto, forse troppo, ti stai impegnando molto perché per salvare la nostra democrazia e la nostra libertà.
E quindi voglio ricordare anche a voi quello che ho pensato e passato, anche se so che il farlo mi emazionerà davvero. Molti di voi conoscono alcuni aspetti di questa nostra storia, con qualcuno li abbiamo condivisi, ma ci sono altri aspetti che non ho mai raccontato prima. In ogni caso è importante rivederli, perché lì sono le nostre radici, lì sono le ragioni forti per le quali siamo ancora in campo. Lì c’è il grande futuro che ci aspetta e per il quale stiamo lavorando con passione.
Tutto ebbe inizio quando i sondaggisti delle mie tv, in quel giugno del 1993, parteciparono a una mia riunione e interrogati da me sulle elezioni che erano vicine, affermarono con sicurezza che avrebbero vinto i comunisti. “Ma no, non è possibile”, risposi d’impeto io, “non hanno mai vinto, c’è sicuramente una soluzione per continuare a non farli vincere”. Risposta in coro: “Sì, ma ce n’è una sola, un nuovo partito più forte dei comunisti”.
Lo chiamavano ancora “il partito comunista”, anche se aveva cambiato nome, perché erano sempre loro con gli stessi leader, gli stessi metodi, gli stessi programmi. “Ma se fino ad ora hanno vinto i partiti moderati, perché tutto può cambiare?”, chiesi. Mi risposero: “Perché sono cambiate le regole elettorali e perché Tangentopoli e Mani Pulite hanno fatto fuori tutti i leader del pentapartito e i loro successori non sono purtroppo all’altezza della situazione”. Questo risposero. Io allora mi prendo una settimana e vado a conoscerli tutti uno a uno. I sondagisti avevano ragione. Li convocai di nuovo. “Avete ragione – dissi – Ma allora cosa possiamo fare per non far diventare l’Italia un paese comunista?”. Risposero: “L’unica via è fondare un nuovo partito che sappia contrastare la sinistra”. “Ma – dissi – c’è qualcuno in grado di farlo?”. Si guardano, si sorridono, puntano il dito su di me. “Solo lei, Presidente, perché lei con il suo Milan è diventato il simbolo della vittoria. E poi perché è amato dagli italiani a cui ha regalato la televisione privata, un film ogni giorno alle 10.30 per le signore che stanno a casa a spolverare i mobili e a preparare il pranzo per i figli che tornano da scuola e alla sera dopo cena uno spettacolo per tutte le nostre famiglie che così stanno a casa tutti insieme per godersi la sua tv”.
Io rimasi assolutamente impressionato ma poi continuai a riflettere e cominciai a discutere della situazione con tanti amici: con Gianni Baget Bozzo, con Antonio Martino, con Giuliano Urbani, con Giuliano Ferrara e tanti altri ancora. Ancora e sempre più ci convincevamo tutti che la decisione indispensabile era proprio quella di fondare un nuovo movimento politico in grado di contrastare la sinistra. Dunque, questo era il problema: scendere in campo o lasciare che l’Italia diventasse un paese comunista. E io senti consolidarsi sempre più forte in me un autentico dovere, quello di farlo, quello di salvare l’Italia, il paese che amo e il paese che tutti noi amiamo.
Anche per scegliere il nome del nuovo partito ho preso il spunto, devo ammettere, da Forza Milan, il nome Forza Italia che conteneva e contiene già in sé il programma del nuovo partito. Il nome di Forza Italia è già scritta alla sua missione politica, che è quella di realizzare nel nostro paese le condizioni sociali, politiche, economiche, affinché ciascuno di noi possa sentirsi libero di costruire per se stesso e per i propri figli un futuro di crescita, un futuro di benessere, un futuro di libertà. E alla fine io e tutti gli amici che volevano essere fondatori del nuovo partito fummo d’accordo su tutte le reti televisive per comunicare pubblicamente la nostra discesa in campo.
La sera prima dell’intervento in tv, io feci venire ad Arcore, al mio tavolone di famiglia, la mia mamma, il mio fratello, i miei figli più grandi, i miei amici più cari, i miei più bravi dirigenti. Quando furono arrivati tutti, li invitai a sedersi a tavola. E qualcuno domandò: “Ma Presidente, come mai questo invito di cui non sappiamo la motivazione per di più in un giorno di lavoro?”. Infatti non era mai successo prima, ci eravamo sempre ritrovati insieme soltanto nei giorni di festa. E allora io risposi: “Mangiatevi il primo giro di risotto e poi ve lo dico”. Temevo che a stomaco vuoto si prendessero un’ulcera per quello che avrei detto loro. Dopo il risotto mi alzai e annunciai che li avevo convocati per renderli edotti del fatto che l’indomani mattina avrei dato le dimissioni da Presidente e Amministratore Delegato di tutte le società che avevo fondato e che alla sera in televisione, in prime time, avrei annunciato che scendevo in politica con un nuovo partito avversario della sinistra che si sarebbe chiamato Forza Italia.
Non vi dico quel che successe, un subbuglio, una rivoluzione, un vero disastro. Tutti, nessuno escluso, anche alzandosi in piedi a voce alta, manifestarono il loro dissenso, la loro opposizione, le loro paure. “Te ne faranno di tutti i colori”, “ti faranno tantissimi processi”, “ti manderanno in galera”, “ti chiuderanno le televisioni” e via dicendo. Di questo passo finimmo a mezzanotte e mezza. Tutti tornarono a casa, io salii le scale andando in camera mia, mi buttai sul mio letto con la giacca ancora indosso, le scarpe ai piedi e la testa più che in subbglio, in fiamme. Ma la mia mamma, tornando a casa sua a Milano con Lino, il mio autisto di fiducia, ebbe l’avventura di passare nella via in cui avevamo abitato per molto tempo mio papà, lei, la mia sorella Antonietta, il mio fratellino Paolo e io. E lei la chiamava la casa della felicità. Disse al mio autista: “Nino fermati, fermati per favore”. Scese dall’automobile e rimase per alcuni minuti a guardare il balcone della casa nella quale avevamo abitato per tanto tempo tutti insieme felicemente. Poi risalì in auto e disse a Nino: “Per favore Nino riportami ad Arcore”.
Arrivati ad Arcore salì le scale che portavano alla mia camera e entrò da me, si appoggiò ad una delle colonne del mio letto, lo ricordo davvero come se fosse ieri, e mi disse: “Anche io sono molto preoccupata, sono preoccupatissima per quello che ti faranno perché te ne faranno di tutti i colori”. Poi si fermò guardandomi con gli occhi lucidi: “Sona passato a Milano davanti alla nostra casa della felicità e mi è venuto in mente un pensiero, un’idea che mi ha davvero colpito e convinto che se tu, sentendo così forte il dovere di scendere in campo per te, per i tuoi figli, per l’Italia, non trovassi dentro di te anche il coraggio di farlo, non saresti quel ragazzo, quell’uomo che tuo padre ed io abbiamo creduto di educare”. Mi alzai dal letto, la presi tra le braccia, piangemmo per qualche minuto insieme e poi l’accompagnai a dormire in una stanza vicina alla mia.
La sua rivoluzione liberale. Silvio Berlusconi è stato l’unico leader che ha avuto la destra italiana nel dopoguerra. Il fondatore di Forza Italia ha avuto la forza di spostare l'opinione pubblica italiana da posizioni socialiste a liberiste. L'antiberlusconismo ha combattuto contro la persona, non contro le idee, favorendo una opposizione giudiziaria. Piero Sansonetti su L'Unità il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi è stato un grande leader della destra italiana. L’unico leader che la destra ha avuto dopo la caduta del fascismo. È stato l’unico che ha dato forza alla destra, l’ha portata al governo, ne ha sdoganato la parte più presentabile. Con un disegno politico? Questa è la questione: quale era il suo disegno e se è riuscito a realizzarlo. Io credo che lui avesse un disegno molto semplice che è il motivo per cui sono sempre stato contro Berlusconi. La sua idea era quella di cancellare quel moto “cattocomunista” culturale, politico di massa che aveva portato l’Italia su posizioni di sinistra, vicine all’idea socialista e che aveva portato a riforme molto importanti, soprattutto negli anni ‘70 con lo statuto dei lavoratori, il divorzio, quella sanitaria, quella psichiatrica, dell’aborto, dei patti agrari, dell’equo canone. Una stagione di grande riformismo guidata dal Partito Comunista, che era fortissimo, e da una parte della Democrazia Cristiana e una parte significativa del Partito Socialista. Era passata una grande stagione delle riforme, anche del senso comune, che si era spostato moltissimo a sinistra.
Quando è che il senso comune si sposta da una parte all’altra dello schieramento politico e delle idee culturali? Quando si sposta tutto il senso comune. Un Paese come l’Italia è più a sinistra non solo se la sua sinistra è più forte, ma se la sua destra si sposta sulle posizioni della sinistra. E’ quello che era successo negli anni ’70. Contro questo è venuto fuori Silvio Berlusconi, che ha provato a cancellare questa idea e a riportare l’Italia da una idea a forte dominanza socialista a liberale. Questa era la rivoluzione liberale di cui parlava. Più una rivoluzione del senso comune che delle leggi e delle istituzioni.
Gli è riuscita? Io credo di sì, l’Italia si è spostata a destra, ha assunto posizioni molto più moderate, il “cattocomunismo” è minoritario. Una persona come Papa Bergoglio è molto isolata poiché l’Italia è diventato un Paese su posizioni liberali e non socialiste. Anche la sinistra italiana si è spostata su posizioni liberali piuttosto che socialiste. Berlusconi è riuscito a realizzare questa operazione e a mantenere su di sé la possibilità di essere un punto di equilibrio. Ha governato l’Italia a lungo da posizioni di destra, cosa per cui mi sono sempre opposto poiché il berlusconismo che era una politica di destra, ma l’antiberlusconismo è stato quello giudiziario che non si è mai opposto al berlusconismo ma a Berlusconi. Si è opposto alla persona, non all’idea del berlusconismo. La sinistra invece di fare lotta politica ha fatto lotta giudiziaria e Berlusconi fu perseguitato subendo cento processi, vincendone 99. Il centesimo l’avrebbe vinto alla Corte Europea se non fosse morto, ma questa è una delle grandi ingiustizie che provoca la morte poiché non potrà assistere alla sua assoluzione definitiva. Ha vinto nelle aule dei tribunali contro la persecuzione della magistratura e l’antiberlusconismo si è trovato con il nulla in mano. Pensate se si fosse dovuto confrontare con una opposizione vera e non quella di tipo giudiziario.
Berlusconi è stato uno statista, uno dei pochi della seconda repubblica, un liberale. Ha guidato una destra ragionevole che non ha niente a che fare con quella reazionaria che ha preso il potere in Italia. È stato perseguitato dalla magistratura e da chi come me si è sempre opposto alle sue idee è stato un avversario robustissimo, di grande livello. Un abbraccio ai cinque figli: Marina, Piersilvio, Barbara, Eleonora e Luigi, i cinque figli del presidente Berlusconi. Un abbraccio speciale al fratello Paolo che ho conosciuto personalmente e che credo avesse un amore formidabile per Silvio. Un abbraccio alla moglie, l’onorevole Fascina, e poi avremo molto tempo per discutere seriamente su cosa è stato il berlusconismo, un fenomeno che ha attraversato 30 anni di vita dell’Italia. Piero Sansonetti 12 Giugno 2023
Alfa e omega. Il berlusconismo non può sopravvivere a Berlusconi. Mario Lavia su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023.
La morte del fondatore di Forza Italia chiude un trentennio ancora da studiare, anche se il suo partito era ormai finito da tempo e sempre meno rilevante in questa destra
E adesso. Adesso niente: il berlusconismo non può sopravvivere a Silvio Berlusconi. Infatti i berlusconiani, un paio di generazioni di dirigenti politici, non reggeranno, rifluiranno tra le onde di un melonismo che per quanto incerto pare ingoiare tutto. “Berlusconiano” altro non voleva dire che imitare più o meno fedelmente le movenze del Cavaliere, politiche e mondane, al massimo l’adesione a un’idea veloce della vita e della lotta politica, con tutte le giravolte necessarie, ma è come per Napoleone, “bonapartista” era solo lui.
Lascia, Berlusconi, un trentennio ancora da studiare, c’è materia per decenni di corsi universitari, un uomo che ha fatto tutto e che al tempo stesso ha concluso improvvisamente la sua incredibile avventura terrena con un che di incompiuto, di storicamente irrisolto: dov’è l’Italia liberale promessa, dove sono le riforme, dove sono la ricchezza e il lavoro per tutti.
In queste ore non si sa neppure bene cosa scrivere di un uomo che per tutti gli italiani è stato l’alfa e l’omega della politica e non solo della politica, nel bene e nel male, amato e odiato, ma che certo ha segnato almeno per un momento le giornate di tutti per trent’anni, o forse meno, perché diciamo la verità Forza Italia, cioè il berlusconismo politico, è finita da tempo, ma comunque è rimasto tanto, dal Milan a Mediaset, e ogni santo giorno c’è stato qualcosa che rimandava a lui, foss’anche invisibile e rinchiuso nella magione di Arcore come Fabrizio del Dongo nella torre di Parma e non più quello sfavillante di Antigua, Villa Certosa, palazzo Grazioli, l’uomo dei danè che aveva scalato tutto lo scalabile, il Vincente per definizione.
Cosa resterà di questi anni Novanta? E delle successive, tendenzialmente declinanti, gesta dei Duemila e oltre? Insomma, c’è un’eredità politica (su quell’altra eredità, quella vera, si apre ora una Dinasty infinita) di Silvio Berlusconi? Cambierà in qualcosa la politica italiana, e come? Sono domande che è facile porsi e difficili a svolgersi ma – facciamola corta – non cambierà molto. Ma quella che già si sente da subito è l’assenza di Silvio Berlusconi. Anche nell’ultimo atto, è stato imprevedibile, veloce. Ed è un bel modo di morire, per uno come lui.
Così fondò Forza Italia e divenne premier. Ma Berlusconi si emozionava solo per il calcio. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
L’avventura politica del leader di Forza Italia. Ha avuto carta bianca e non ha conosciuto rivali, anche quando gli si sono parati davanti. In molti hanno provato a sostituirlo: Fini, Tremonti, Casini. Ma il Cavaliere ha sempre avuto dalla sua il rapporto con gli elettori
Silvio Berlusconi era un pazzo. D’altronde così venne giudicato quando prese una televisione in un sottoscala e disse che avrebbe fatto concorrenza alla Rai, quando acquistò una squadra di calcio sull’orlo del fallimento e promise che avrebbe vinto scudetti e coppe dei Campioni, quando fondò un partito e scommise che sarebbe entrato a palazzo Chigi . Fu più difficile mettere insieme undici giocatori in campo che mettere d’accordo undici milioni di elettori nelle urne. Infatti gli italiani presero a votarlo nel ’94 quando videro che in otto anni era riuscito a portare il Milan sul tetto del mondo e Canale 5 in vetta agli ascolti. Perché Berlusconi considerava il calcio e il business cose troppo serie per essere equiparate alla politica, riteneva che per avere successo in quei campi non bastassero un appello al «Paese che amo» o un annuncio dal predellino di un’auto.
Va dunque rovesciata la tesi che abbia usato il calcio e la tv come arma del consenso, semmai il consenso è stato la conseguenza dei suoi successi nello sport e nell’impresa. Successi che in politica non riuscì ad eguagliare, sebbene abbia acquisito un ruolo nella storia che nessun altro può vantare. Perché negli anni della Seconda Repubblica il Cavaliere è stato il protagonista del bipolarismo al punto da averlo rappresentato per intero: fu il motivo di quanti si schierarono con lui e la ragione di quanti si schierarono contro di lui. Una caratteristica che lo distingue da ogni altra personalità dell’era repubblicana, al punto che si definisce ventennio berlusconiano il periodo durante il quale lui governò meno dei suoi rivali. Berlusconi fu talmente divisivo da essere stato unificante, riempiendo di sé le biografie dei suoi avversari: da Carlo De Benedetti a Romano Prodi, da Oscar Luigi Scalfaro ad Antonio Di Pietro.
Teatrale nei gesti, nelle battute e persino nelle vicissitudini, ha segnato un’epoca con le sue bandane, i suoi malori, i suoi amori, i suoi scontri efferati contro quei «coglioni» che votavano a sinistra, contro le «toghe rosse» che non lo lasciavano governare. Esponeva sé stesso, ostentando in pubblico la ferita inferta da chi gli aveva scagliato contro una statuetta del Duomo di Milano, cercando la legittimazione dell’establishment che - in Italia e in Europa - lo vedeva come un intruso, raccogliendo voti durante le campagne elettorali e dissipandoli poi nella gestione di governo. Ebbe una funzione persino nella sfera culturale, perché diede voce a quella parte del Paese e della sua intelligenza costretta al silenzio dalla «dittatura della parola», che nel dopoguerra aveva imposto la propria legge decidendo chi fossero i buoni e chi i cattivi, chi fosse un «democratico» e chi un «fascista». È forse l’aspetto più clamoroso della «rivoluzione berlusconiana», che ruppe un sistema talmente incistato da non essere stato ancora sradicato. Eppure Berlusconi non ne ha mai parlato, come ne fosse disinteressato, accreditando così la tesi che la «rupture» culturale — prodotta anche attraverso il linguaggio delle sue televisioni — sia stato per lui solo uno strumento per vincere la sfida con la sinistra. Resta però il fatto che, liberando quel pezzo d’Italia, Berlusconi ha finito per liberare l’Italia intera, siccome il conflitto ha costretto infine le due Italie a parlarsi. E alla lunga a riconoscersi.
Tanto basterebbe per capire cos’è stato il «ventennio» berlusconiano, specchio di un’Italia contraddittoria, solidale e cinica, generosa e truffaldina, innocente e colpevole. Ma al di là del verdetto morale e delle sentenze processuali, c’è un aspetto politico della sua vicenda di piazza e di palazzo che attende il giudizio della storia. E che ruota attorno a un interrogativo: come mai sopra questa pietra angolare non è edificato nulla? Perché il campo di cui è stato fondatore appare destinato a tramontare con lui? Di Berlusconi vanno separate la sua esperienza di governo e quella di leader di partito. Da presidente del Consiglio non è riuscito a realizzare la «rivoluzione liberale»: la riforma del fisco e la riforma della giustizia hanno rappresentato i pilastri del suo disegno, l’eterna promessa di un nuovo miracolo italiano mai realizzato.
A sua discolpa Berlusconi ha sempre sostenuto che la congiuntura economica, gli avversi giochi di potere interni e internazionali, e persino l’ostilità degli alleati gli abbiano impedito di realizzare il suo disegno. Ma non c’è dubbio che lo scontro con la «magistratura politicizzata» e la sequenza di leggi ad personam, all’ombra del conflitto d’interessi, tolsero energie alla sua azione di governo. Il leader di partito invece ha avuto carta bianca e non ha conosciuto rivali, anche quando gli si sono parati davanti: da Gianfranco Fini a Giulio Tremonti, passando per Pierferdinando Casini, in molti hanno provato a sostituirlo. Ma il Cavaliere ha sempre avuto dalla sua il rapporto con gli elettori. Rapporto che iniziò a calare in concomitanza con la fine del suo ultimo progetto: il Popolo della libertà, intuizione con la quale mirava a competere con il neonato Pd ma soprattutto si proponeva di abbattere l’ultimo steccato. A destra. La caduta del muro tra Forza Italia e An sembrava spianare la strada alla strutturazione di un vero e proprio partito interclassista, realizzando la promessa che Berlusconi aveva fatto ai suoi elettori: «Lascerò in eredità agli italiani il più grande partito moderato della storia».
Dopo la sentenza di condanna per il caso Mediaset e la sua successiva estromissione dal Senato, Berlusconi decise invece di chiudere il Popolo della libertà. Fu un atto proprietario. A decretare il tramonto politico del Cavaliere non furono la sua estromissione dal Senato e i servizi sociali a Cesano Boscone, bensì la volontà di porre fine a una stagione che era insieme una visione. E tutto si consumò a causa di un equivoco che si poggiava su un dilemma: chi avrebbe dovuto essere il suo erede politico? In realtà il compito di Berlusconi non era trovare un erede. Era lasciare un’eredità. Berlusconi non aveva eredi: lo hanno dimostrato i fatti. Ma gli elettori berlusconiani si attendevano un’eredità e così non fu. Perciò iniziò il declino, perché l’uomo che aveva inventato l’opinione di centrodestra l’aveva lasciata orfana. Matteo Salvini ha tentato, senza successo, di sostituirlo. Ora ci prova Giorgia Meloni, si vedrà con quali risultati.
In ogni caso per il Cavaliere la politica non è mai stata una priorità quanto un’arma difensiva. Berlusconi non pianse quella sera di metà novembre del 2011, quando — tra due ali di folla che lo dileggiavano — salì al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio. Si commosse invece quella mattina di metà agosto del 2004 nella sua villa in Sardegna, dopo aver visto uno speciale di Milan channel sui suoi primi diciotto anni da presidente del club. È vero che fece valutare il peso specifico di uno scudetto sulle percentuali del partito, ma il meccanismo di immedesimazione con le vittorie del Milan è nettamente superiore a qualsiasi altro successo dei suoi asset. Nell’immaginario del Cavaliere, infatti, la discesa in campo non avviene il 26 gennaio del ’94 ma il 18 luglio dell’86, quando atterra con l’elicottero all’Arena di Milano per la presentazione della sua squadra.
E lui, che si è sbarazzato senza tanti complimenti di delfini e di nomi di partiti, faticò a staccarsi dal suo club. Il Milan è stato per il Cavaliere un esercizio di stile e di comando, oltre che un formidabile strumento diplomatico. Al punto che durante l’intervallo di una gara internazionale chiamò Adriano Galliani per ordinare ai suoi talenti di non infierire sugli avversari turchi: «Evitiamo di urtare la suscettibilità di Erdogan». Nel calcio ha vinto come nessun altro. In politica ha vinto come nessun altro. Ma il suo rammarico è che la politica ha nociuto alla sua immagine calcistica, perché nessuno ha voluto accostarlo — come avrebbe meritato — a Santiago Bernabeu, che pure tenne stretti rapporti con Francisco Franco mentre dominava in Europa con il suo Real Madrid. Eppure Berlusconi superò Bernabeu, è stato il presidente di club più titolato della storia mondiale del pallone. L’uomo dei record si è sempre attorniato di una squadra. L’ultima che gli è rimasta, quella del Biscione, vanta ancora la stessa formazione: Fedele Confalonieri, Gianni Letta... Sono i testimoni di un tempo che di fatto ha già passato le consegne ai figli del Cavaliere.
La vera impresa di Silvio Berlusconi. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
Ricchissimo, prese il voto dei poveri; milanese, sbancò in Sicilia: così l’ex premier fece sì che la maggioranza degli italiani si identificasse in lui. Non cercando di cambiarli, ma condividendone l’insofferenza per le regole e la profonda sfiducia verso la politica
La vera impresa di Berlusconi — morto oggi a 86 anni — non fu fondare le tv private o un partito che in tre mesi divenne il primo d’Italia. Quella fu semmai la conseguenza.
La vera impresa di Berlusconi fu far sì che la maggioranza degli italiani si identificasse in lui.
Era milanese, e nel 2001 vinse 61 collegi su 61 in Sicilia. Era enormemente ricco, e prese il voto dei poveri. Una volta gli chiesero cosa se ne facesse di sette ville in Sardegna. Rispose: «Ho cinque figli, credo che l’ambizione di ogni padre italiano sia di lasciare a ogni figlio una casa a Milano e una al mare». Come se residenze tra le più belle del Mediterraneo valessero un bilocale in un paese della Riviera ligure o romagnola.
Eppure l’italiano medio gli credette; e non perché – come recita una delle sue massime più celebri - fosse come un ragazzino di dodici anni che a scuola non era neppure nei primi banchi. Gli credette perché in Berlusconi ritrovava cose che sentiva proprie: la diffidenza verso la sinistra, lo Stato, il fisco, la magistratura, i partiti. E l’establishment, di cui Berlusconi, nonostante la sua ricchezza e il suo successo, non faceva parte, almeno all’inizio.
Qualcuno ha fatto notare che i massimi interessi del Cavaliere, come fu chiamato, coincidevano con quelli della maggioranza degli italiani: il calcio e le donne. Lui stesso raccontava che il più bel complimento della sua vita gliel’avesse fatto un tifoso milanista, mettendo insieme entrambe le cose: «Silvio, sei una gran bella figa!».
Però la spiegazione del suo successo non è ovviamente tutta qui. Con la maggioranza degli italiani, Berlusconi ha condiviso la profonda sfiducia verso la politica. Verso i governi, qualunque fossero: «Altri si disperano quando ci sono le crisi, per me è il periodo in cui sono più libero».
Nello stesso tempo, degli italiani Berlusconi ha rappresentato anche l’irrequietezza, l’energia, l’insofferenza per le regole – «la sinistra sa parlare solo di quelle» -, la capacità di trasformarsi in imprenditori.
Altri leader — ovviamente Mussolini, ma non soltanto lui — volevano cambiare gli italiani. A Berlusconi gli italiani piacevano così come sono.
Ci ha assecondati, invitando a rivendicare in pubblico quel che con i democristiani si faceva di nascosto in privato; e assecondandoci ci ha cambiati più di quanto abbia fatto in vent’anni il regime, quello vero.
La sinistra, come d’abitudine, non ci capì nulla. Fin dal duello tv del 1994, in cui il leader del Pds Achille Occhetto tirò fuori alcune foto del Giornale di cui pochi si erano accorti – «io non vado in barca con i mafiosi!» – e lui sorrise: «Beato lei che ha tempo di andare in barca, io ho troppo da lavorare!».
Ovviamente Berlusconi possedeva una barca molto più bella di quella di Occhetto; ma non si candidava a leader della classe operaia. E comunque in quelle elezioni il collegio di Mirafiori fu vinto da Forza Italia, che candidava Alessandro Meluzzi (poi autoproclamatosi primate, eparca e metropolita della Chiesa ortodossa autocefala con il nome di Alessandro I) contro il segretario torinese del Pds, che era Sergio Chiamparino. Ovviamente gli operai della Fiat non avevano votato per Meluzzi; avevano votato per Berlusconi.
Non si era potuto candidare a Milano per il veto di Bossi, ed era «sceso in campo» nel collegio di Roma centro. La sinistra gli contrappose uno stimato economista, Luigi Spaventa. Lui disse: «Cosa vuole questo Spaventa? Prima vinca due Coppe dei Campioni, poi si confronti con me!». Gli si sarebbe potuto obiettare che Churchill, non avendo vinto neppure una Conference, non avrebbe potuto fare politica. Ma di Churchill a sinistra non ce n’erano, Berlusconi vinse il collegio, le elezioni e pure la sua terza Champions, 4-0 al Barcellona, proprio la sera in cui otteneva la fiducia in Senato. Gli mancavano tre seggi; si trovarono tre democristiani disposti a uscire dall’aula.
Silvio Berlusconi è morto: ha cambiato la politica e l’Italia
In realtà, pur presentandosi come l’anti-politica, Berlusconi alla sua maniera faceva politica da molto tempo. Fin dagli anni Settanta. Come ha raccontato l’uomo che lo conosceva meglio, Fedele Confalonieri, «Silvio aiutò il Giornale di Montanelli, all’inizio lasciando le azioni ai fondatori. Aiutò don Giussani e i giovani ciellini, che all’università prendevano un sacco di botte dagli estremisti di sinistra. Su richiesta di Tognoli, rilanciò il teatro Manzoni, cominciando con l’Amleto di Lavia nella versione lunga quattro ore, dicendo ai milanesi: basta coprifuoco, ricominciate a uscire la sera. E poi il Milan. E le tv».
In tv gli italiani, stanchi della lottizzazione Rai – il primo canale ai democristiani, il secondo ai socialisti, il terzo ai comunisti -, trovarono Raimondo Vianello, che era stato a Salò, e Mike Bongiorno, che era stato nelle carceri fasciste, e li sentirono dire la stessa cosa: «Finalmente ho trovato un uomo in cui credere». E credettero. Indro Montanelli si chiamò fuori. Arrivò Vittorio Feltri.
Non è difficile prevedere cosa accadrà ora.
Chi attaccava Berlusconi ne denuncerà l’esaltazione postuma.
Chi lo sosteneva leggerà qualsiasi critica come sacrilego affronto.
Di sicuro, nel bene e nel male, nessuna personalità italiana ha lasciato un’impronta così profonda negli ultimi quarant’anni.
A parole aveva individuato molti eredi, quasi tutti improbabili. Ovviamente non poteva averne nessuno; anche perché in fondo non ne voleva. Ma anche quando è iniziato il suo lungo declino, non è venuto il turno della sinistra. Sono arrivati prima Salvini, poi la Meloni.
Un "self made man", la sua discesa in campo rivoluzionò l'Italia. Stefano Zurlo il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Adesso, adesso che se n’è andato, ritornano le due domande semplici che Alan Friedman pone all’inizio della monumentale biografia del Cavaliere, My way, e che danno la misura smisurata di Silvio Berlusconi: «Come ha fatto questo self made man uscito da un quartiere popolare di Milano a diventare miliardario, magnate europeo dei media e, vincendo tre volte le elezioni, primo ministro? Come è riuscito un ex cantante sentimentale a dominare il destino della sua nazione per più di vent’anni?».
Sì, perché in gioventù il poliedrico Silvio suonava la chitarra e cantava canzoni francesi per i passeggeri della Costa Crociere, a dimostrare un talento inesauribile e una volontà di ferro nel non restare imprigionato nella casella che la sorte gli aveva assegnato.
Silvio Berlusconi nasce a Milano, all’Isola, allora quartiere popolare e oggi alla moda, il 29 settembre 1936. Il padre Luigi è partito come impiegato di un piccolo istituto di credito, la Banca Rasini, e poi è salito fino alla carica di direttore. La mamma Rosa, la venerata mamma Rosa, è segretaria di direzione alla Pirelli. Una famiglia come tante nella Milano degli ultimi anni del fascismo e poi della guerra, segnati dalla diaspora: Luigi, che è un antifascista, scappa in Svizzera, e la moglie resta sola con i figli: Silvio e Maria Antonietta che nasce proprio nel fatidico 1943, mentre Paolo, da molti anni l’editore di questo Giornale, verrà al mondo nel 1949. Un periodo complicato, fra lacrime di nostalgia e trepidazione per il padre assente che un giorno, finalmente, ritorna. E quell’abbraccio, dirà Silvio, resta forse il momento più bello della sua vita.
Dagli 11 ai 18 anni il ragazzo va a scuola dai Salesiani in via Copernico, zona Stazione Centrale, e, come raccontano alcuni degli infiniti libri a lui dedicati, mette già in mostra le sue capacità non comuni: dispensa consigli e aiuto, magari una ripetizione, ma riesce anche a capitalizzare la sua generosità ottenendo in cambio piccoli regali. È l’alba dell’imprenditore, una straordinaria capacità di seduzione guidata da intuizioni che, sia detto senza retorica, hanno segnato nei diversi campi il costume e la storia italiana: le città satelliti nell’edilizia, la tv commerciale, il Milan dei 28 trofei, la sorprendente discesa in campo che spariglierà la politica.
Il giovane è irrequieto e multitasking: fa il fotografo di matrimoni, il venditore di spazzole elettriche part time, s’imbarca con Costa dove è factotum e cantante, con un repertorio di 150 testi, da Frank Sinatra a Gershwin. Poi quel mondo romantico si dissolve nell’aula della Statale: la tesi di laurea in diritto commerciale è del 1961. Subito dopo, Silvio s’inventa la prima operazione immobiliare in via Alciati. Il socio cui appoggiarsi per tirare su quattro palazzine è un costruttore, Pietro Canali, che gli offre il 5%, ma Silvio, audace fino alla sfrontatezza, lo convince a giocare alla pari: 50% a testa. Il padre Luigi lo aiuta mettendogli a disposizione i 30 milioni della liquidazione. Il colpo va a segno ed è la premessa di una nuova avventura, molto più grande: la realizzazione dell’Edilnord a Brugherio.
Berlusconi pensa in grande e nello stesso tempo si occupa di tutti i dettagli, anche quelli infinitesimali. Piazza nei suoi progetti alberi e prati, imposta soluzioni innovative, vende gli appartamenti, poi corre nel retro del box, cambia giacca e cravatta e si ripresenta interpretando un altro ruolo e fingendo di essere il cugino del precedente venditore. Sono gli inizi pionieristici di un’attività che decolla rapidamente seguendo l’ottimismo e il dinamismo degli anni Settanta. Ecco Milano 2, che diventerà una meta domenicale per le gite di moltissime famiglie, stupite da un modello di residenza che arriva da Olanda e Nord Europa.
In definitiva, Silvio Berlusconi è un visionario, ma terribilmente concreto. E un’idea ne contiene già un’altra, con cui si possono seguire i figli in piscina o assistere alla Messa. Nel villaggio sorto ai bordi della metropoli, il futuro Cavaliere mette una tv a circuito chiuso. È l’embrione dell’impero mediatico che prenderà forma all’inizio degli anni Ottanta. E che comprende anche il Giornale, diretto dal principe del giornalismo italiano Indro Montanelli. Da quel seme si sviluppa Telemilano 58, che è solo una modesta emittente, ma ancora una volta l’uomo va oltre i confini che tutti credono invalicabili. Arruola le star, cominciando da Mike Bongiorno che lascia coraggiosamente ma con sontuoso appannaggio la solidità della Rai e si avventura in quella terra incognita. Le tv locali sono state sdoganate - a partire da Telebiella - ma possono trasmettere in ambito locale. Lui non si arrende e crea un network di tv che si muovono come un sol uomo: i programmi, registrati, vengono mandati in onda nello stesso momento dalle diverse emittenti. La norma viene aggirata, la corazzata di Stato comincia a sentire la concorrenza della formica che non è più così piccola. Nel ’79 nasce Canale 5, con il simbolo del Biscione, poi arrivano Italia 1 e Rete 4.
Nel 1985 alcuni pretori spengono il segnale in diverse Regioni, ma l’alleanza fra Palazzo e popolo ribalta la situazione. Il governo di Bettino Craxi, che è un amico, scrive alcuni decreti per puntellare la nuova concorrenza della tv privata, ma contemporaneamente c’è una rivolta di popolo: i telespettatori rivogliono i Puffi, la «Ruota della fortuna», Dallas e tutto quell’universo americaneggiante che è entrato in milioni di case. I critici si indignano perché i film sono interrotti dagli spot e i sociologi tuonano contro l’edonismo e il consumismo che trasudano dai palinsesti, ma quelle immagini sono comunque una finestra che si apre sul mondo. Dal punto di vista legislativo, invece, il duopolio viene riconosciuto solo nel 1990 con la legge Mammì, che peraltro provoca le dimissioni di cinque ministri della sinistra democristiana, fra cui l’attuale presidente della repubblica Sergio Mattarella.
Lui è già oltre, preso dalle sirene del calcio. Anche qui non si limita a mettere un robusto pacchetto di banconote, ma studia, come dire, un format inedito per il football tricolore: immagina una squadra che giochi per attaccare, non arroccata in difesa secondo schemi vecchi e poco spettacolari. Compra il Milan, il 20 febbraio 1986, e gli dà un allenatore dal carattere non facile, Arrigo Sacchi, che ha scovato a Parma, nel cuore della provincia, e che condivide questa filosofia. Il presidente quasi allenatore azzecca la mossa e mette insieme uno squadrone che va alla conquista dell’ Europa e diventa un fenomeno planetario con milioni di sostenitori e una striscia di successi impressionante. Il Milan di Sacchi, e poi di Capello e poi ancora di Ancelotti, il Milan di Marco Van Basten, per citare forse il più straordinario giocatore degli anni Ottanta con Maradona, il Milan di Silvio Berlusconi e del vicepresidente Adriano Galliani, vince lo scudetto nell’87-88, la Coppa dei Campioni nell’88-89 e poi ancora nell’89-90, modernizzando il calcio del nostro Paese.
Il Milan stellare consacra il Cavaliere, ma lui è inquieto. E l’inquietudine diventa preoccupazione qualche anno dopo, quando la tempesta di Mani pulite si abbatte sul Paese. Il pentapartito va in pezzi e la Prima repubblica crolla con le immagini del processo Cusani: Forlani con la bava alla bocca mentre viene interrogato da Di Pietro, Craxi, sommerso dagli avvisi di garanzia, che combatte la sua battaglia solitaria con un celebre discorso in Parlamento.
Nel corso del 1993, Berlusconi matura l’idea di buttarsi nella mischia per fermare l’avanzata della sinistra che per lui è sempre quella del vecchio Pci. Il Cavaliere lancia segnali, per esempio annuncia che voterebbe per Fini alle Comunali di Roma. Nella sua testa c’è uno schema nuovo, almeno per l’Italia: quello bipolare, centrodestra contro centrosinistra.
Gli amici, cominciando da Fedele Confalonieri, conosciuto dai Salesiani all’età di 12 anni, e Marcello Dell’Utri, il mago della raccolta pubblicitaria, lo sconsigliano. Ma lui decide di osare, per fermare la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto e soci, che già pregustano una vittoria facile. E invece in sessanta giorni il Cavaliere realizza il miracolo, inventando un partito che è uno slogan accattivante, Forza Italia, e si ritrova primo ministro, con una dote di oltre 8 milioni di voti, proprio nei giorni in cui Craxi fugge ad Hammamet.
I detrattori dicono che si è candidato per salvare le sue aziende o, peggio, per tutelare interessi poco cristallini.
Per la sinistra, l’uomo di Arcore, dove ha il suo quartier generale dal 1973, è il nemico numero uno. Il quotidiano la Repubblica di Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti tiene alta la bandiera dell’antiberlusconismo in un Paese spaccato e polarizzato. E Berlusconi entra nel mirino del Pool nell’ultima stagione di Mani pulite. Il 22 novembre 1994 un avviso di garanzia, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera, affonda il nuovo esecutivo mentre il capo del governo è impegnato in un summit mondiale a Napoli. È l’inizio di un conflitto durissimo con la magistratura che avvelenerà per vent’anni il Paese: il governo cade, gli avvisi di garanzia si moltiplicano a perdita d’occhio e per lungo tempo ci sarà un susseguirsi di processi, assoluzioni, proscioglimenti, prescrizioni, condanne che in appello diventano assoluzioni.
Berlusconi sembra fuori dai giochi, ma non è così.
Prepara la rivincita che sembrava impossibile e nel 2001 vince di nuovo le elezioni; resta in sella per tutta la legislatura, perde lo scontro con l’Ulivo di Prodi nel 2006, ritorna perla terza volta a Palazzo Chigi nel 2008. Cerca di far ripartire il Paese: qualcosa riesce, qualcosa no, i tempi del Palazzo sono lunghissimi e l’opposizione, in Aula, nelle piazze e nei tribunali, è agguerrita.
Forse i successi maggiori arrivano in politica estera e in particolare con il meeting di Pratica di Mare del 28 maggio 2002, dove si disegna un ordine nuovo e la Russia dell’esordiente Putin siede allo stesso tavolo con l’America di George Bush. Quella foto segna almeno all’apparenza la fine della guerra fredda. È una grande suggestione, ma anche un’illusione, perché le crepe che sembravano in via di superamento ritornano a marcare differenze e diffidenze sempre più profonde.
L’avventura di Palazzo Chigi si chiude nel novembre del 2011: lo spread è incontrollabile, Sarkozy e la Merkel sono gli artefici di una sorta di «intrigo», come lo chiama sempre Friedman, per disarcionare il Cavaliere, e dietro le quinte il presidente Napolitano manovra per spingere sul palco Mario Monti, il tecnocrate chiamato a salvare l’Italia.
Il Cavaliere è anche logorato dal Rubygate, dal bunga bunga, espressione che ancora una volta farà il giro dei cinque continenti. E d’altra parte il Rubygate arriva dopo le stoccate che dalla copertina della solita Repubblica la seconda moglie Veronica Lario gli ha riservato, parlando di incontri con minorenni. Le accuse cadono in sede giudiziaria, ma hanno un impatto enorme sulla stampa internazionale. Berlusconi passa la campanella a Monti. È una fase difficile, ancora di più dopo la condanna, l’unica definitiva, del 2013 in Cassazione per frode fiscale. Il Senato decreta l’espulsione del fondatore del bipolarismo italiano.
È una pagina oggetto di ricordi e polemiche infinite, ma il Cavaliere non si dà per vinto e torna sulla scena, dopo un periodo di affidamento in prova ai servizi sociali, trascorso con i malati di Alzheimer. Berlusconi ambirebbe alla presidenza della Repubblica, ma è un sogno che sfuma, lui intanto ha una nuova compagna, Marta Fascina, e si adegua alla nuova leadership di Giorgia Meloni, la prima donna premier. È l’ultimo capitolo di una vicenda senza pari nell’Italia di oggi.
Il sire di palazzo Chigi che ha governato più di tutti: 3339 giorni. La sua discesa in campo nel '94 per sbarrare la strada alla "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto. È stato un colpo di genio andare a pescare nel mare azzurro del moderatismo diffuso. Non durò troppo, complici le Procure, ma guidò altri tre esecutivi. Sino alle dimissioni sofferte, nel 2011, "per non mettere a rischio il Paese". Massimiliano Scafi il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Insomma, «si contenga», diceva. Lui invece no, non si è certo contenuto. Quattro volte presidente del Consiglio, recordman assoluto della permanenza consecutiva a Palazzo Chigi, cioè una legislatura intera, 3.339 giorni complessivi a capo del governo tra il 1994 e il 2001, che più o meno fa una decina d’anni. Numeri, voti, risultati, odio, amore. Ma è soprattutto l’impronta di un trentennio quella che resta agli atti, i tre decenni, ammirati, contestati e contrastati, che hanno rovesciato la vita pubblica del Belpaese. Si poteva essere con il Cavo contro il Cav, ma non senza il Cav, come sintetizza nel suo messaggio Sergio Mattarella. «È stato un grande leader che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi. Ha plasmato la nuova geografia della politica italiana, affrontando eventi di portata globale”.
«L’Italia è il Paese che amo», ecco la sua frase iconica della discesa in campo. Sotto c’erano la voglia di sbarrare la strada alla gioiosa macchina da guerra post comunista di Achille Occhetto, che nel 1994 tutti davano per sicura vincente, e l’idea geniale di colmare il vuoto che si era aperto all’improvviso al centro, dopo Tangentopoli e la dissoluzione dei partiti tradizionali. Berlusconi mise d’accordo «il diavolo e l’acqua santa», si fece «concavo e convesso» e riuscì a schierare una coalizione con i leghisti nordisti piuttosto autonomisti e agitatori di cappi in Parlamento e i post missini statalisti forti al sud. E, grazie anche alla parlantina e all’effetto calza sulla telecamera, vinse a sorpresa le elezioni.
Era riuscito cioè, nel giro di pochi mesi, a completare le due operazioni più spericolate della recente storia politica. La prima, scongelare i paria Fini e Bossi e renderli utili alla causa. La seconda, pescare nel grande mare azzurro del moderatismo diffuso, della maggioranza non di sinistra del Paese, di colpo orfana della Dc e dei suoi alleati laico-socialisti. L’imprenditore, l’uomo del fare, il mito un po’ americano di chi si è fatto da solo e coglie le opportunità. Il seduttore che voleva piacere a tutti, anche all’opposizione, era riuscito a far uscire i liberali dai salotti snob e ammuffiti e a metterli al timone. Da lì in poi la scena italiana non è stata più la stessa. Il bipolarismo si è radicato almeno fino al 2011, fino ai governi tecnici, alle grandi coalizioni, ai grillini. Si può dire che Berlusconi lo abbia fisicamente incarnato. O di qua o di la, e anche se non c’era il nome sulla scheda gli elettori sapevano chi sarebbe andato a Palazzo Chigi.
E molto liberale e liberista era la piattaforma del suo primo esecutivo, nato il 10 maggio 1994, e composto da Forza Italia, Lega, An e Ccd. Riforme economiche, meno tasse, giustizia da rivedere. Non durò molto, proprio per lo scontro con i magistrati, per l’ostilità del Quirinale e per gli avvisi di garanzia recapitati nel bel mezzo di un vertice internazionale sulla sicurezza.
Non durò anche perché Bossi e Buttiglione, convinti da D’Alema nel famoso pranzo di Gallipoli con la scatola di tonno, decisero di sfilarsi. Il 17 gennaio 1995 Silvio Berlusconi passò la mano e al suo posto Scalfaro incarico il ministro dell’Economia Lamberto Dini.
L’anno dopo il Cavaliere perse le elezioni contro l’Ulivo di Romano Prodi e si attrezzò ai cinque anni successivi di opposizione, la «traversata nel deserto». Navigando riuscì comunque ad uscire dall’angolo grazie al patto della crostata siglato con Massimo D’Alema a casa di Gianni Letta, un accordo che prevedeva la formazione di una bicamerale per le riforme istituzionali. La commissione trattò e discusse, fece e disfece, sfiorò soltanto l’obbiettivo di riscrivere la Carta, ma consentì a Berlusconi di guadagnare, dopo quella popolare, anche una legittimazione da parte del centrosinistra. E comunque sia, grazie pure alle ambizioni di D’Alema, indebolì Prodi, che fu costretto a lasciare Palazzo Chigi al segretario dei Ds.
Che a sua volta resse poco, un annetto. Le Regionali del 2000, con la campagna creativa e spettacolare condotta sulle navi, portarono il centrodestra a un’ampia vittoria e D’Alema alle dimissioni. Nel 2001 la rivincita del Cav. Un quinquennio aperto sulla spinta del «contratto con gli italiani» siglato da Bruno Vespa a Porta a Porta, un colpo di teatro sul quale gli avversari hanno ironizzato parecchio ma che al dunque spostò gli indecisi e convinse la gente a votare per lui. Anni difficili, tra terrorismo internazionale, aggressione delle procure, leggi controverse. Un po’ meglio andava nei rapporti con il Colle, con Carlo Azeglio Ciampi eletto anche dal centrodestra. Due governi in quel periodo, uno dietro l’altro. Il primo dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005, il secondo, dopo l’uscita dalla maggioranza di Nuovo Psi e Casini, dal 24 aprile 2005 al 17 maggio 2006.
A fine legislatura le elezioni del 2006 premiarono solo di un soffio il favoritissimo Romano Prodi. Lo scarto tra i due schieramenti fu di 24 mila voti appena, grazie alla campagna aggressiva e suadente di Berlusconi: catturare le simpatie era una delle cose che gli riusciva meglio e pure in quella occasione procurò un recupero prodigioso: chi ha dimenticato la mossa di pulire la sedia dalla quale si era appena alzato Travaglio? Il centrosinistra si reggeva con una maggioranza davvero eterogenea, da Mastella a Turigliatto, la capacità di azione era molto limitato, infatti due anni dopo il Professore getto la spugna e il nuovo capo dello Stato, Giorgio Napolitano, indisse elezioni anticipate. Terza vittoria del Cavaliere, quarto governo. Tre anni travagliati, in cui Berlusconi dovette affrontare gli effetti della crisi della Lehman, il terremoto all’Aquila, l’emergenza immigrazione, qualche screzio con Bruxelles. Ma il fondatore di Forza Italia non ha mai abbandonato la linea europeista, nemmeno dopo le risatine di Merkel e Sarkozy e gli attacchi ai titoli di Stato che portarono lo spread sopra quota 500. Fini intanto era passato all’opposizione. Nel 2011 l’ultimo atto, con i suoi che gli chiedevano di resistere e lui che invece decise di lasciare strada a Monti «per non mettere a rischio il Paese».
Un asso da 240 milioni di voti e quel feeling con gli elettori. Dal 1994 alle ultime Politiche, Berlusconi ha sempre fatto il pieno di consensi alle urne. Altro che «grande dittatore». Gabriele Barberis il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Non stava bene, Silvio Berlusconi, anche a ridosso delle ultime elezioni amministrative. Era stanco e debilitato, ma il richiamo delle urne l’ha visto ritornare in campo per l’ennesima volta. L’ultima. Quante volte in passato tante scadenze elettorali, anche di secondo piano, hanno coinciso con acciacchi e affaticamenti. Però non ne ha saltata una, dal fatidico 27 marzo del 1994 agli ultimi ballottaggi dove il centrodestra ha trionfato come suggello del consenso maturato alla guida del Paese.
Dentro Forza Italia non c’erano misteri o formula segrete quando si avvicinava un appuntamento con le urne. Alla fine il pallone finiva sempre tra i piedi del bomber Silvio, con licenza di piazzare la botta finale. Finché ha potuto, il Cavaliere non ha mai evitato i bagni di folla, per poi trasformare la partecipazione nelle fasi finali con una maggiore presenza mediatica. Videomessaggi, post sui social, una valanga di interviste concesse ai quotidiani locali delle principali regioni e città interessate al voto.
Silvio Berlusconi, tra i suoi tanti talenti, era nato per fare il pieno alle urne. La prosecuzione elettorale dell’empatia congenita unita alla capacità di fare sorridere il presidente degli Stati Uniti con una battuta fulminante o fraternizzare con gruppetti di sconosciuti tra barzellette e storielle osé. Una delle chiavi per decifrare la lunga stagione berlusconiana, fatta di successi, traversate nel deserto e resurrezioni, è stata proprio il continuo successo elettorale, in tutte le competizioni cui ha partecipato come guida. La sua narrazione è stata spesso contestata dagli oppositori, ma ormai negli archivi della politica si tende a stimare in 240 milioni i voti raccolti di persona o come leader di coalizione o partito. In tre occasioni si candidò persino al consiglio comunale di Milano, la sua grande città, arrivò a riscuotere quasi 60mila suffragi con la preferenza unica.
Sembra un’ovvietà attribuire i successi politici di Berlusconi alle continue affermazioni ai seggi, eppure per decenni i suoi detrattori hanno preferito buttarla in gazzarra, con argomentazioni fuori dalla realtà. Merito delle sue televisioni che hanno ipnotizzato il Paese, ha rubato l’anima ai tifosi del Milan come un caudillo populista alla Achille Lauro degli anni ’50, ottiene tutto solo perché è un magnate stracarico di soldi che compra chiunque. E i suoi elettori? Una sorta di poveracci con la terza media plasmati dagli show di Canale 5, un ceto meschino di evasori fiscali che non hanno mai letto Norberto Bobbio.
Mancheranno anche queste scemenze, ora che l’«immortale» ci ha lasciati serenamente come tanti nonni e tanti papà consumati dalle malattie legate all’età avanzata.
Hanno marciato poi per trent’anni con il Grande Dittatore che ha dettato legge, facendo e disfacendo a seconda del proprio capriccio e della propensione alla cieca obbedienza dei suoi fedelissimi. Chi contraddiceva Hitler finiva macellato con le corde da pianoforte, chi usciva dalle grazie di Stalin spariva alla Lubjanka in un viaggio senza ritorno.
Con Silvio, viva la democrazia, tutto era concesso. Dallo spionaggio sotto le coperte, allo sputtanamento cronico sullo sfondo di una persecuzione giudiziaria. Silvio, il Grande Dittatore immaginario, fu rovesciato dall’alleato Umberto Bossi nel 1994. Alle elezioni del 2006, vinte da Prodi per ventimila voti, arrivò alle urne logorato dall’Udc di Casini e Follini che non vollero riconoscerlo come leader elettorale. E nel 2010, la congiura di Palazzo organizzata dall’alleato Gianfranco Fini, terza carica dello Stato (una cosa mai vista), fu sventata per appena tre voti ma contribuì a defenestrarlo l’anno dopo. E dove si è mai visto un tiranno cacciato da una camera elettiva, il Senato della Repubblica nel 2013, a causa di una controversa condanna per evasione fiscale? A sinistra si sganasciarono nell’immaginare un signore di 77 anni che si infilava un grembiule per andare a accudire e intrattenere i coetanei della casa di riposo di Cesano Boscone come espiazione della condanna penale. Lui accettò come una missione sociale, trasformandosi ovviamente nell’amico settimanale che conquistò l’affetto di tanti anziani meno fortunati di lui.
Quando la legge gli ha consentito di ripresentarsi in lista, è stato eletto trionfalmente deputato europeo nel 2019 e, soltanto a settembre, come senatore della Repubblica, quasi a riparazione di un’onta che l’aveva riempito di amarezza. Si è goduto poco il ritorno a Palazzo Madama, ma si commuoveva al pensiero dei tanti milioni di italiani che non l’hanno mai abbandonato. Ricordatelo così.
Da reaganiano a solidale, quante riforme. Lavoro, fisco, salute: così l’uomo di governo ha trasformato il consenso in provvedimenti concreti. Marco Gervasoni il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Tra le mille identità che Berlusconi seppe tenere dentro di sé, una delle più importanti, anche se spesso misconosciuta, è stata quella di uomo di governo. Non solo perché, statistiche alla mano, fu colui che, nella storia d’Italia, con Agostino Depretis e Giovanni Giolitti prima del fascismo, e con Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Amintore Fanfani e Giulio Andreotti poi, è stato più a lungo presidente del Consiglio. Ma anche perché, per lui, il fine dell’azione politica doveva coincidere con quella di governo: era necessario vincere le elezioni (le vinse quasi tutte) per poi poter governare. Non per occupare semplicemente il potere. Da qui l’idea contrattualistica, liberale per definizione, del rapporto tra elettori e leader: al di là delle metafore «sacrali», da lui stesso a volte utilizzate, nella sua concezione, il capo doveva onorare un contratto, come plasticamente mostrò in una delle sue trovate mediatiche più geniali, la firma sulla scrivania da Bruno Vespa. Così i quattro governi Berlusconi di riforme ne fecero: Renato Brunetta nel 2017 ne contò 40. Qui ricorderemo, un po’ alla rinfusa, la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, oggi invecchiata, ma all’epoca efficace, tanto che poi i governi di sinistra non la toccarono. La legge Biagi, che rese più dinamico il mercato del lavoro. I diversi interventi di riduzione o di eliminazione di tasse, come l’imposta di successione e l’Ici. Ma anche leggi cosiddette «social», come quella intitolata a Bobo Maroni, sulle pensioni oppure l’aumento delle pensioni minime. E leggi diciamo così di responsabilità individuale: dalla introduzione della patente a punti alla Legge Sirchia che ha vietato il fumo nei luoghi pubblici. E, a proposito di Sanità, l’intreccio virtuoso tra quella privata e quella pubblica, è un lascito di diversi interventi dei governi Berlusconi. Così come l’eliminazione della leva militare obbligatoria, una misura presa anche da altri paesi nello stesso periodo, che andava nella direzione della modernizzazione del rapporto tra individuo e Stato.
Modernizzazione e internazionalizzazione che caratterizzarono altri importanti interventi, sulla università, prima con il ministro Letizia Moratti, nel secondo governo Berlusconi, poi nella più organica riforma firmata da Mariastella Gelmini, nel quarto e ultimo governo guidato dal Cavaliere. A dimostrazione che, contrariamente a quanto sosteneva la sinistra, Berlusconi non era l’incarnazione del mercante che pensava solo all’arricchimento individuale. In tutti i suoi esecutivi, la preoccupazione per l’educazione del cittadino, e, nel caso della Università, per la sua democratizzazione, fu centrale. Modernità, solidarietà e libertà: questo il trittico entro cui si potrebbe racchiudere l’attività legislativa dei suoi quattro governi, al di là dei mutamenti del messaggio berlusconiano, più «reaganiano» all’inizio, più «solidale» a partire dalla fine del primo decennio del nuovo secolo. Libertà però vi rimase la parola chiave: tanto che tutte le riforme che abbiamo rapidamente elencate, avevano come obiettivo rendere l’italiano più libero, dallo Stato prima di tutto. Libero e responsabile. Per questa la madre di tutte le battaglie, cioè di tutte le riforme, fu quella della giustizia. Una contesa che il Cavaliere non riuscì a portare a termine, anzi di cui fu personalmente vittima (chi ricorda che fu ignominiosamente cacciato dal Parlamento?), anche se le leggi sulla giustizia introdotte nel corso degli anni hanno comunque instillato elementi di garantismo, in un sistema che, dopo Tangentopoli, era l’apoteosi della forca.
Molte altre misure restarono incompiute, a cominciare dalla riforma appunto dello Stato.
Quella istituzionale, sconfitta da un referendum, che però non fu difeso neppure dai suoi alleati. Quella della burocrazia, l’alleggerimento dello Stato, e del debito pubblico. Ma bisognerà pur ricordare che i governi Berlusconi furono tutti di coalizione, e che egli lasciò sempre molto spazio ad alleati che spesso non lo assecondarono. E che anzi, alla fine, nel 2011, contribuirono alla sua caduta. Ma questa è un’altra storia.
Il leader allergico ai protocolli: rivoluzionati tutti i cerimoni. Dal discorso negli Usa letto prima agli inservienti della Casa Bianca, alle soste in autogrill per incontrare la gente. Paolo Bracalini il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Washington, 28 febbraio 2006. Berlusconi è ospite alla Blair House, la residenza riservata ai capi di Stato e di governo e alle delegazioni che soggiornano nella capitale Usa per le visite ufficiali. Il giorno dopo è in programma il suo intervento al Congresso degli Usa in sessione plenaria, come ospite d’onore, uno dei momenti più alti della sua carriera politica. La sera prima però il premier italiano spiazza lo staff con una iniziativa estemporanea delle sue. Invece di tenere riservato il discorso che farà il giorno dopo ai membri del Congresso e al mondo intero, fa chiamare il personale addetto al servizio e inizia a leggerlo davanti a loro. Come se fossero le prove generali, per verificare come poteva essere accolto dalla gente comune. Uno strappo al protocollo, uno dei tanti che hanno caratterizzato la sua parabola da «non politico» insofferente delle rigidità formali previste dal ruolo, soprattutto nelle relazioni con i leader mondiali, lui che insegnava a tutti a memorizzare subito il nome dell’interlocutore per instaurare immediatamente un rapporto più diretto. Allergico al protocollo, anche quello più rigido previsto dal cerimoniale per un capo di governo, lo è stato da subito, e fino alla fine. Quando rientra in Senato, nell’ottobre 2022, dopo i nove anni di «esilio» forzato, sfoggia a Palazzo Madama il doppio petto blu, ma senza cravatta, che invece sarebbe obbligatoria per l’accesso a palazzo Madama secondo il regolamento. Una «gaffe», una «violazione del galateo» scrissero i giornali, puntigliosi nel rimarcare ogni libera interpretazione del Cavaliere come una dimostrazione che non fosse rispettoso della gravitas istituzionale.
I riti sono stati rivoluzionati, alla maniera di Berlusconi. Con lui, ha raccontato Massimo Sgrelli, storico capo del Cerimoniale a Palazzo Chigi fino al 2008, il rito della campanella (il passaggio di testimone da un premier al suo successore) è diventato uno show, «giocava con la campanella, ostentandola davanti ai fotografi. Era uno showman, ci teneva all’immagine». I suoi stretti collaboratori ricordano bene come, durante i viaggi in auto, volesse sempre scendere e fare un giro negli autogrill per salutare la gente. Per la gioia dei suoi capiscorta. Il suo stile informale gli ha procurato anche molte critiche quando applicato nelle occasioni internazionali, dove vige un protocollo particolarmente rigido, opposto all’affabilità naturale di Berlusconi. Specie se ci sono di mezzo i reali. Durante la festa del 2 giugno, nel 2011, il Tg3 fece notare che Berlusconi aveva fatto «una gaffe» con Juan Carlos, re di Spagna, «contravvenendo al protocollo il premier ha toccato il braccio del re, cosa considerata sconveniente». Gli annali sono ricchi di aneddotica di questo genere, dalle «corna» nella foto di gruppo al vertice Ue (solo il presidente della Repubblica Giovanni Leone, prima di lui, aveva osato quel gesto, come scaramanzia durante una visita a Napoli flagellata dal colera), alla celebre gesto della telefonata con cui fece aspettare Angela Merkel durante un vertice Nato (stava parlando con Erdogan), all’invito agli investitori a Wall Street di puntare sull’Italia, perché ci sono meno comunisti e «ci sono molti meno comunisti e abbiamo bellissime segretarie». Le relazioni con i grandi della terra sono state improntate anch’esse all’informalità, per quanto possibile. Dagli inviti a Blair, Putin, George W. Bush ospiti nella sua villa Certosa, in Sardegna, ai complimenti espliciti alla mise di Michelle Obama (altra scena celebre) durante un G7. «Incidenti diplomatici», «gaffe», sgarbi istituzionali, secondo la stampa che non gli ha mai perdonato questo tratto tipicamente italiano. Che facevano parte del personaggio, appunto, quello del leader simile a chi lo vota, lontanissimo dai politici ingessati della prima Repubblica, allergico anche all’idea di guidare un «partito», termine che non ha mai adoperato per Forza Italia, per lui sempre un movimento, fatto dagli «azzurri», termine che invece amava.
Estratto dell’articolo di Marcello Sorgi per “la Stampa” il 7 Maggio 2023
Lotterò fino all'ultimo: in fondo, questo è il messaggio più forte che Berlusconi ha lanciato alla platea, improvvisamente risvegliata dalla sua presenza, ancorché virtuale, della Convention di Milano. Il forte richiamo all'Europa e l'attacco alla Cina hanno in parte corretto la linea di completa acquiescenza alla premier Meloni decisa ormai da oltre un mese. E se il Cav. sarà in condizione di gestirla, nei prossimi mesi, delineano una collocazione autonoma di Forza Italia rispetto alla competizione euroscettica che si prepara tra Meloni e Salvini.
Ma detto questo, l'apparizione del Fondatore, in evidenti condizioni di debolezza fisica dovute alla malattia con la quale continua a combattere, ha lasciato intatti i problemi del suo partito, appeso alla salute del suo Presidente e alla sua forzata impossibilità di esercitare la leadership in vista della prossima campagna elettorale per le Europee.
Sussurrato ma mai discusso a voce alta, il problema di una successione non è mai stato messo all'ordine del giorno […] D'altra parte, chi ha parlato con l'illustre infermo in questi ultimi giorni, racconta che non prende minimamente in considerazione l'ipotesi del ritiro; che è stato coinvolto fin nei dettagli nella preparazione dell'evento di Milano; che non vede problemi politici, dato che il passaggio alla linea filo-Meloni e il ruolo vicario di Tajani sono fatti ormai assodati […] gli aggiustamenti di linea annunciati ieri con il videomessaggio sono stati […] un segno di vitalità politica. La quale […] non basta a delineare il futuro prossimo di Forza Italia: un partito i cui voti, meno del passato ma niente affatto pochi, sono ancora un miracolo di Berlusconi. E che dopo di lui non saprebbe proprio come e dove andarli a prendere.
Estratto dell’articolo di Francesco Olivo per “la Stampa” il 7 Maggio 2023
La convention di Milano, oltre al ritorno virtuale di Silvio Berlusconi, aveva come scopo quello di consegnare la scena di Forza Italia nelle mani di Antonio Tajani. Non una successione, e il video del Cavaliere sta lì a dimostrarlo, ma una reggenza sicuramente sì. La benedizione del capo non è arrivata, almeno non esplicitamente. Come sottolineano i rivali interni, il Cavaliere in venti minuti di discorso non lo ha mai citato. Per alcuni è un segnale, ma non secondo il ministro degli Esteri, che dopo la fine della convention ha parlato con Berlusconi, prova che non ci sono letture ulteriori da dare. […]
uno dei discorsi più duri è arrivato dal presidente della Regione siciliana Renato Schifani, non uno qualunque in Forza Italia, che ha attaccato implicitamente la ministra Maria Elisabetta Casellati sulle riforme e più in generale ha accusato il governo di trattare male il Sud. Tajani un po’ se lo aspettava quando ha deciso di aprire il dibattito, ma ritiene che l’evento sia stato un successo, non solo di pubblico (migliaia di militanti presenti), ma anche di centralità politica, vista la presenza di un manager come l’ad di Eni Claudio Descalzi, il presidente di Enel Paolo Scaroni o Emanuele Orsini, vice presidente di Confindustria.
Il ministro degli Esteri non vuole sentire parlare di scalata e cita il suo curriculum, presidente del Parlamento europeo, due volte vicepresidente della Commissione e oggi vicepremier. Ma in casa negli ultimi mesi la vita non è stata semplice. Ha resistito, subito dopo le elezioni, alle critiche di chi lo accusava di trattare per sé con Giorgia Meloni e non per il partito. […] Nei primi mesi di governo ha poi resistito agli assalti di chi, come Mulè (ma non solo), gli ha chiesto di rinunciare a qualche incarico nel partito. Non ha risposto, ma nel frattempo ha lavorato, superando molti ostacoli anche interni ad Arcore, a un obiettivo: riavvicinare Berlusconi a Meloni dopo i pesanti screzi sulla formazione del governo.
Per riuscirci ci ha impiegato del tempo, ma poi, anche grazie a un accordo con la compagna del Cavaliere, Marta Fascina, e soprattutto con la famiglia Berlusconi, l’operazione è andata in porto. Facendo morti e feriti (politici), ma mandando un messaggio chiaro: Forza Italia non è più l’alleato riottoso. Il vicepremier vuole portare avanti un progetto più ampio: l’alleanza tra il Ppe e i Conservatori guidati dalla premier, con l’obiettivo di spostare a destra, dopo il voto del 2024, l’asse della Commissione europea. In questo senso, il vicepremier respinge le accuse di voler consegnare il partito a Meloni: sarebbe Fratelli d’Italia ad aver bisogno di loro e non viceversa.
[…] Uno dei motivi che ha reso urgente la convocazione di questo evento era dare una legittimazione a quel colpo di mano nel partito avvenuto subito prima del ricovero del Cavaliere (la «riorganizzazione», l’ha chiamata anche ieri Berlusconi) con il quale è stato rimosso il capogruppo alla Camera Cattaneo e la coordinatrice lombarda Ronzulli, rimasta a capo dei senatori azzurri, per ora. A quel punto nuovi potenti del partito, oltre a Tajani, sono diventati Alessandro Sorte e Stefano Benigni, deputati ambiziosi e molto attivi […]
Estratto dell’articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 7 Maggio 2023
La struttura Mediaset si è occupata della realizzazione del cosiddetto video della resurrezione di Silvio, con i tecnici di Cologno Monzese che hanno portato le luci e le altre apparecchiature - compreso il "gobbo" su cui far leggere al Cavaliere il discorso - nella suite al sesto piano dell'ospedale San Raffaele.
E dopo tre volte, alla quarta, sia Berlusconi sia Marta sia Orazio - padre della Fascina e ormai super-consulente politico del Cav - sia i pochi altri presenti alla registrazione hanno convenuto: «Questa va bene!». E considerando lo stato di salute di Berlusconi, il video, nonostante qualche lentezza nell'eloquio del protagonista, qualche parola sforzata, il sorriso che non c'è più e non può più esserci, funziona per lo scopo a cui serve.
Che non è solo quello del Silvio Rieccolo […] ma è anche quello del Re Taumaturgo. Capace, se non di risanare del tutto se stesso, di guarire - o di provare a farlo - il suo popolo dalla sfiducia, dalla voglia di dilaniarsi intorno alla sua eredità […] l'erede di me stesso sono Io e finché ci sarò Io si vince e potete sentirvi sicuri che nessuno vi toccherà. Perché «gli italiani ci considerano i loro santi laici, i santi protettore della loro libertà e del loro benessere».
E così il Cavaliere è diventato il Santone e se da sempre la sua predicazione è stata un mix di misticismo e spiritualità stavolta si avverte in lui un surplus di religiosità […]
Così come il suo desiderio di sentirsi e di voler essere percepito come un classico, ossia come un eterno in grado misticamente di trasmettere il suo scettro - occhio: Canale5 ha fatto la diretta dell'incoronazione di Carlo III e Rete 4 la diretta della resurrezione di Silvio I e unico mentre il capogruppo Barelli, tajaneo, dal palco milanese fa notare: «A Londra c'è un nuovo re e qui da noi incoroniamo un'altra volta il nostro sovrano» - al fedelissimo Tajani e a Marta.
Alla quale è dedicato il passaggio più toccante: «Quando mi sono risvegliato nel mio letto al San Raffaele, ho detto: ma come mai sono qui? E la mia Marta ha risposto: perché hai lavorato tanto, ti stai impegnando a salvare la nostra democrazia e la nostra libertà». La centralità di Marta trova nel video la sua riconferma.
Ovvero, se i politicanti degli altri partiti ma anche alcuni esponenti azzurri credono di potere avere gioco facile […] si sbagliano perché il lascito, in vita, del fondatore è per l'amico Antonio ministro degli Esteri, per Marta ben guidata da papà Orazio e già dotata del suo cerchio magico dei vari Sorte, Ferrante, Benigni. Ma quelli della prima ora sono spesso altrove. E infatti il notissimo Roberto Gasparotti, che ha confezionato il video della discesa in campo del 94, ieri su Fb è sbottato: «Vergogna, usare il Presidente Berlusconi per un video così angoscioso». […]
Il Sol dell’imbrunire. Berlusconi, Nanni Moretti e l’immutabile copione degli anni Novanta. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 8 Maggio 2023
Mentre in Parlamento riparte la grande sfida delle riforme istituzionali, la bisnonna di tutte le battaglie, ogni cosa torna al suo posto: Silvio alla guida di Forza Italia e Nanni alla guida del ceto medio riflessivo
Il vecchio leone guarda in camera e ripete tutti i pezzi forti del suo repertorio, riscrivendo la storia d’Italia e persino la storia del comunismo mondiale al solo scopo di confermare le sue posizioni e il ruolo che si è ritagliato nell’una e nell’altra, il suo essere stato sempre dalla parte giusta, il suo aver sempre capito tutto prima degli altri. Lo spettacolo è autocelebrativo, stanco e ripetitivo come lui, un po’ perché lo è sempre stato (sia lui, sia lo spettacolo) e un po’ perché l’età fa questo effetto a tutti, ma i suoi fan lo esaltano ancora una volta, come sempre, senza esitazione.
A seconda di chi abbiate votato avrete capito che sto parlando dell’ultimo intervento di Silvio Berlusconi alla convention milanese di Forza Italia oppure dell’ultimo film di Nanni Moretti, ma sbagliate in entrambi i casi, perché non ho visto nessuno dei due, se non per pochi secondi, qualche spezzone qui e lì, ma il punto è proprio questo: che non avevo nessun bisogno di vederli per sapere esattamente cosa avrebbero detto. Loro e soprattutto le rispettive squadre di ammiratori e seguaci – berlusconiani da una parte, ceto medio riflessivo dall’altra – che si sono entusiasmati per l’uno e indignati per l’altro, con lo stesso trasporto con cui lo hanno fatto nel 1994 e per tutti i trent’anni successivi.
Berlusconi ricorda ancora una volta di avere sconfitto i comunisti nel 1994, con la stessa convinzione con cui lo diceva allora, dipingendo il Pds di Achille Occhetto come il Pcus di Stalin, e se stesso come nuovo De Gasperi. Moretti strappa l’immagine di Stalin da un manifesto in cui è ritratto accanto a Lenin, spiegando che è un dittatore e dunque non ce lo vuole, sulle pareti della sezione, come se Lenin invece fosse stato un primo ministro eletto democraticamente, un mite socialdemocratico, giusto un po’ fissato con l’elettrificazione.
Da anni l’uno e l’altro, Berlusconi e Moretti, continuano a raccontarsela e a raccontarcela. C’è sempre un supercattivo, furbissimo e abilissimo, annidato da qualche parte, responsabile di tutto quello che non è andato per il verso giusto, a sollevarli anche solo dall’ipotesi di avere mai avuto torto, nemmeno per un attimo. Mai Berlusconi appare sfiorato dall’idea che qualcuno possa considerare tutta quella favola della sua eroica lotta per la libertà degli italiani un modo decisamente sopra le righe di descrivere una carriera politica votata pressoché esclusivamente alla tutela dei suoi interessi personali.
Mai Moretti appare sfiorato dall’idea che se Trotzky avesse prevalso su Stalin la storia del comunismo non sarebbe cambiata granché (ci sarebbero argomenti per sostenere che sarebbe stata forse anche più cruenta, ma non divaghiamo), e figuriamoci quanto sarebbe cambiata se il Pci avesse condannato l’invasione dell’Ungheria come chiedevano i famosi 101 intellettuali (un po’ il gol di Turone della sinistra alternativa, intesa come appassionata di universi alternativi e storia controfattuale).
È tutto un farsela facile, un raccontarsi una versione a dir poco edulcorata della realtà, versione che ovviamente conferma tutti i propri pregiudizi e le proprie fissazioni, assolvendo da ogni responsabilità e risparmiando qualunque analisi autocritica. Affinché ciascuno di noi, chi uscendo dal Nuovo Sacher con pantaloni di velluto a coste e maglioni troppo larghi, chi uscendo dalla convention di Forza Italia con camicie azzurre e giacche troppo strette, possa rituffarsi con identica foga nella grande battaglia politica che ci aspetta. Quella sulle riforme istituzionali, ovviamente, la bisnonna di tutte le battaglie, proprio come ai tempi in cui Berlusconi era ancora pelato e Moretti non aveva ancora cominciato a fare i girotondi.
Il dottore è coltissimo! Trent’anni di apostolato berlusconiano, ma la legittimazione è riuscita solo su Retequattro. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 8 Maggio 2023
L’essenza della guerra santa all’egemonia della sinistra svelata in una chiacchierata di metà anni Novanta con un adepto del Cavaliere
Ricordo – metà anni ‘90 del secolo scorso – una chiacchierata con un esponente, allora poco in vista, di Forza Italia. Mi aveva chiamato dopo aver letto qualcosa che avevo scritto su un quotidiano con cui in quel periodo collaboravo (il Giornale, diretto da Vittorio Feltri).
Non ricordo esattamente di che cosa si trattasse, ma erano considerazioni vagamente critiche, per quanto tutt’altro che appuntite, sulle classi dirigenti del cosiddetto centrodestra, in particolare sui requisiti culturali non proprio eccellenti per cui esse si segnalavano. Quel funzionario di Arcore voleva spiegarmi che io mi sbagliavo, e chiedeva appunto di incontrarmi per convincermi dell’infondatezza di quelle mie considerazioni.
A me quel suo interesse appariva a dir poco sovradimensionato, e mi ero fatto l’idea – ingenerosamente, come presto avrei constatato – che un tipo così doveva aver davvero poco da fare se perdeva tempo con me e con quattro innocue stupidaggini stese su un paio di colonne non propriamente epocali.
Ci vedemmo, dunque, e parlammo di niente fin quando il mio interlocutore si decise a impugnare il fattaccio che l’aveva punto a chiamarmi: quel mio articolo – tanto per capirsi – sull’incultura del centrodestra. «Avvocato, guardi che lei si sbaglia! La cultura è molto importante per noi».
Mi fece l’impressione dell’oste che rivendica la qualità delle materie prime davanti al cliente che lascia tutto nel piatto, ed era così sguaiatamente plebeo quel suo modo di dire («la cultura»), così da pomeriggio in famiglia, così disarmante, che non trovai di meglio che rispondere che aveva sicuramente ragione lui, che sicuramente sbagliavo io, e che in ogni caso era solo un articolo di giornale e che non era proprio il caso che se ne facesse un cruccio. Non l’avessi mai detto.
Quel mio abbozzare, infatti, diede anche più carica alla brama di ripristino della verità di quel disciplinato agente, il cui compito non era censorio ma diciamo così apostolare. Io evidentemente non sapevo, ed era necessario che sapessi.
«Lei deve sapere, avvocato, che il dottore è un uomo coltissimo!»
Il dottore era Silvio Berlusconi.
A quell’altezza di tempo il profilo mignottocratico di quei ranghi politici non era ancora compiutamente formulato, ma nulla meglio di quello spassoso apoftegma («il dottore è un uomo coltissimo!»), nulla meglio del tono vibrante che me lo rinfacciava, nulla meglio del candore con cui quel poveretto si faceva adempiente al proprio incarico, spiegava l’essenza del berlusconismo e preconizzava il trentennio di poi: in buona sostanza, la santa guerra all’egemonia culturale di sinistra per il tramite della candidatura di venditori di morbidissime trapunte e fanciulle con curriculum 90-60-90, naturalmente con il rincalzo dell’informazione liberale che oddio c’è la caduta dei valori e gli immigrati prima ci portano le malattie e poi ci portano via il lavoro agli italiani e poi nelle scuole c’è la sinistra che fa la propaganda della droga e ai bambini gli spiega che non è vero che se si toccano diventano ciechi.
Il mio ospite si congedò, molto soddisfatto. L’avrei rivisto spesso, negli anni a venire, a Retequattro. Lì non serviva che spiegasse che il dottore è un uomo coltissimo. Lo sapevano già.
Wishful Silvio. Berlusconi è un dagherrotipo, ma nessuno ha il coraggio di dirglielo. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 8 Maggio 2023
Forza Italia gli si aggrappa per sopravvivere e lui sfodera il solito repertorio e gli stessi aneddoti. Alla convention adorante di Milano, Berlusconi parla della minaccia cinese, però non spende una sola parola sulla guerra all’Ucraina
Il ritorno di Silvio Berlusconi, con un video registrato al San Raffaele, è un evento importante. Non solo dal punto di vista personale. Al di là dei giudizi estetici-comunicativi che ognuno è libero di esprimere, è la dimostrazione che il Cavaliere ha ancora voglia di combattere, di essere la «spina dorsale», come dice lui stesso, della maggioranza di centrodestra. Non è proprio così in un governo dove lo scettro del comando è nelle mani di Giorgia Meloni.
Ancora una volta, tuttavia, dimostra una tempra umana eccezionale. Chapeau, a un signore che si avvicina ai novant’anni e che ha segnato comunque gli ultimi trenta anni della storia politica italiana. Le sue giravolte, l’invenzione del bipolarismo e del centrodestra; le trovate narrative contro i comunisti in agguato alle nostre libertà costituzionali, i colpi di scena nella gestione del partito padronale (mai nessuno con il «quid»); le rivoluzioni liberali tradite, i processi e l’uscita di scena nel 2011 che sarebbe stata causata dal presunto colpo di mano delle «consorterie europee» (definizione cara alla premier nella fase sovranista); i fine settimane nelle dacie di Vladimir Putin e il «sacrificio» di un imprenditore di sicuro successo nel dover scendere in politica perché Mani pulite aveva disintegrato i partiti del pentapartito, a cominciare da quello socialista del suo caro amico Bettino Craxi, e minacciato la sua «roba».
Parte sempre da quel crinale scivoloso e fangoso, con la mafia stragista all’attacco al cuore dello Stato, a cavallo tra il 1993 e il 1994, il racconto di Berlusconi. Ripete per l’ennesima volta, con gli annessi aneddoti della mamma e dei figli sconvolti dalla sua decisione di fondare un partito, la sua storia alla convention adorante di Milano. Un’ammirazione autentica da parte di quel sei-otto per cento di italiani che continuano a votarlo, votano lui: sono il residuo zoccolo duro del berlusconismo, il primo fenomeno populista e mediatico, dilaniato dalla Lega prima e da Fratelli d’Italia dopo. I colonnelli e generali presenti agli East End Studios se lo tengono stretto per sopravvivere. Sono drammaticamente aggrappati alla precaria salute del capo.
Nessuno di loro è impalmato della successione, neanche il reggente Antonio Tajani. Sanno che senza Berlusconi, il ruolo, la poltrona, il partito scomparirebbero come una bolla di sapone. Per cui vederlo di nuovo, anche se in video, parlare, pur masticando qualche parola, ricordare il passato e indicare il futuro delle elezioni europee, è stato un momentaneo ricostituente. Infine, ma non in ultima analisi, ci sono i contenuti, quello che ha detto il Cavaliere ma soprattutto che non ha detto. Ha dedicato più di dieci minuti all’amarcord e i restanti sette-otto all’attualità politica. Da questo punto di vista è stato sconfortante.
Dopo il fermo immagine, il dagherrotipo che parlava dei comunisti (Occhetto?) di trenta anni fa, si è soffermato sui comunisti veri di oggi, i cinesi che potrebbero invaderci. Cosa che hanno fatto commercialmente, del resto, ma non ancora militarmente, mentre non ha speso una parola, una sola, sulla guerra vera ed esiziale alle porte dell’Europa democratica. L’ex premier, che si vanta di aver fatto stringere la mano a Vladimir Putin e George W. Bush a Pratica di mare e avere fermato i carri armati russi alle porte della Georgia, sorvola. Evita di ripetere che lo zar di Mosca avrebbe fatto bene a rimuovere Volodymyr Zelensky per insediare a Kyjiv gente in gamba.
Non dice nulla sull’immigrazione, sul Pnrr, sulle paure dei governatori meridionali del suo partito per le conseguenze dell’autonomia differenziata (alla convention non si è sentita la voce polemica di Renato Schifani a tale proposito). Zero sulle riforme costituzionali, il presidenzialismo, sulla transizione ambientale e digitale. Nulla sulla torsione a destra dei Popolari europei che lui sta favorendo in direzione dell’alleanza con i Conservatori di Meloni e polacchi. Non vola alto come lo statista che vuole apparire, non sfiora nemmeno le grandi sfide poste dalla strategia geoeconomica annunciate dal consigliere di Biden per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Berlusconi propone solo se stesso per rassicurare le truppe spaventate e divise.
«Eccomi, sono qui per voi, in giacca e camicia dopo un mese», ha esordito nel video ospedaliero, sulla falsariga del suo debutto su Tik Tok a settembre dello scorso anno. («Ciao ragazzi, eccomi qua»). Esagera Roberto Gasparotti, lo storico cameraman di Berlusconi che girò nel ‘94 il famoso video della «discesa in campo», esagera quando dice che è vergognoso usare il presidente per un video così «angoscioso».
Lui non si fa usare. Si aggrappa in maniera tenace a un mondo che non c’è più. Addirittura fa dire a Tajani che Forza Italia può recuperare terreno anche verso i delusi del Pd e del Terzo Polo. Poi, chissà, riuscirà anche in questa ultima impresa, lasciandoci con un palmo di naso. Ancora una volta. Fino a quando avrà l’ultima goccia di energia. Anche se non ci crediamo, neanche un poco.
Estratto dell’articolo di Silvia Truzzi per il “Fatto quotidiano” il 9 aprile 2023.
[…] Massimo Cacciari […]: “[…] gli anni che vanno dai primi Novanta fino a poco tempo fa sono stati profondamente segnati da Berlusconi. […] ha influenzato le altre forze politiche, che sono state succubi della sua presenza sia imitandola che demonizzandola.
Effetto Berlusconi anche a sinistra, professore?
L’influenza culturale sulle forze di derivazione socialista e social-democratica è stata enorme e assolutamente deleteria. Sciaguratamente si è scelto di contrastare Berlusconi sul piano giudiziario e morale invece che su quello politico.
Era portatore di un conflitto d’interessi, mai visto prima e mai affrontato... […] Il centrosinistra avrebbe dovuto incalzare Berlusconi con proposte alternative che interessavano i cittadini e il proprio elettorato: politiche fiscali, salariali, le politiche del lavoro, strategie industriali. […] la sinistra si è ridotta alla declamazione dei diritti.
Sulla destra invece che effetto ha avuto?
Positivo. Le destre italiane per allearsi e governare con lui sono state costrette ad avviare processi di ristrutturazione culturale interna.
Perché non ha trovato il famoso erede?
Perché la sua forza, il carattere nazional-popolare, la potenza economica lo rendevano insostituibile. […] Il vero delfino era Renzi. Erano nati per convivere, sia sul piano antropologico che politico. Ma l’ego di entrambi li ha rovinati.
Erano a un passo dall’en plein. Poi gelosia e sospetti hanno mandato all’aria il patto del Nazareno e a portato ambedue a suicidarsi per non cedere sull’elezione del presidente della Repubblica. Cosa ridicola perché cosa avesse Renzi contro Amato e Berlusconi contro Mattarella lo sa il cielo. Berlusconi […] avrebbe dovuto farsi da parte, cosa impensabile per Berlusconi.
La parabola del Cavaliere è al tramonto?
[…] Non c’è dubbio però che la sua vita politica è finita, ma lo era già da qualche anno. […]
Berlusconi è stato molte cose: grande imprenditore, uomo di televisione, straordinario comunicatore, politico, condannato per frode fiscale. Come sarà ricordato in futuro?
Come il primo e più formidabile segnale di crisi della nostra democrazia. Un sintomo gravissimo e non colto da chi avrebbe dovuto […]
La perenne caccia al Cav. Travaglio e l’ossessione per Berlusconi: le interviste ai citofoni e il disprezzo per i giudici che assolvono. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2023
Hanno l’ossessione per Silvio Berlusconi, e questo è scontato, oltre che fastidioso. Ma mostrano anche disprezzo per i giudici, dalle parti del Fatto quotidiano. Ipotizzano infatti, con l’ausilio di due sconosciuti “dirigenti di Forza Italia” (che probabilmente non esistono, se no sono due che dicono cretinate), che Berlusconi si sia arreso a una svolta “governista” e di sostegno a Giorgia Meloni in cambio della garanzia di una pressione politica sui giudici di Strasburgo che due anni fa hanno accolto il suo ricorso contro la sua unica sentenza di condanna.
Da che cosa deducono questa stranezza, una vera non-notizia, che mostra solo come Travaglio sia grande amico dei pubblici ministeri ma nemico dei giudici, soprattutto quando assolvono? Dal fatto che nei mesi scorsi la Presidenza del consiglio ha ritirato la costituzione di parte civile dai processi “Ruby ter” di Milano e “Escort” di Bari. Solo fantasie malate e ignoranza giuridica di chi è abituato a intervistare i citofoni possono dedurre che la decisione di un governo diverso da quello che si era costituito in quei processi possa essere determinante per il verdetto dei tribunali. Ma quanto disprezzo, quanta poca stima nei confronti dei giudici! Il “Ruby ter” era già su un binario morto, perché i reati non esistevano e anche per gravi “errori” della Procura della repubblica di Milano.
Che poi non erano state proprio semplici sviste, perché interrogare persone già indagate come testimoni, cioè senza difensore e con l’obbligo di dire la verità, è una gravissima violazione della legge e del diritto di difesa. Berlusconi sarebbe dunque stato comunque assolto, anche senza l’intervento di Palazzo Chigi, del resto arrivato solo il giorno precedente la sentenza. Per quel che riguarda il processo di Bari, l’ultimo della serie, dopo le assoluzioni di Milano Roma e Siena, l’imputazione è di “induzione a mentire”, uno di quei reati che non dovrebbero neppure esistere nel codice penale. Sulla base di questi precedenti sarebbe dunque, secondo il Fatto, stato stipulato un patto politico tra il governo italiano e i giudici della Cedu, con l’aiuto di Antonio Tajani. C’è quasi da vergognarsi a pensarlo, che i giudici possano essere comprati. Ma qualcuno pare pensarlo, anche se, verso la fi ne dell’articolo, si pone qualche dubbio. Sarebbe più facile invece, ma non si può chiederlo a uno come Travaglio, ricordare che quei magistrati europei avevano accolto il ricorso di Berlusconi contro quella condanna per frode fiscale a quattro anni di carcere, ma soprattutto a cinque di interdizione dai pubblici uffici, che lo avevano costretto ad abbandonare il suo seggio al Senato.
E non solo, perché subito dopo avevano inchiodato il governo italiano costringendolo a rispondere a dieci quesiti sulla regolarità con cui si era svolto il processo. Una di quelle domande aveva riguardato la strana tempistica di quel processo, nel Paese che proprio l’Europa ha spesso condannato per la lentezza. Da non crederci, dieci mesi per tre gradi di giudizio. Ci sarebbe da fare i complimenti alla giustizia italiana. Il primo grado si conclude a Milano con una sentenza di condanna il 26 ottobre 2012, l’appello l’8 maggio 2013 e la cassazione il primo agosto dello stesso anno. Cioè subito dopo gli appelli di un “grande” quotidiano che nel mese di luglio, appena due mesi dopo la sentenza di appello, mette va in allarme contro il rischio di prescrizione.
Tanto da ottenere che uno dei più grandi imprenditori italiani, il presidente del consiglio che aveva innovato la politica e portato l’Italia nella seconda repubblica, fosse giudicato su una questione “tecnica” come la frode fiscale non da una sezione specializzata della cassazione ma da quella feriale. Quella presieduta da Antonio Esposito che aveva emesso una sentenza di condanna su cui lo stesso relatore Amedeo Franco aveva in seguito detto ”hanno fatto una porcheria, perché che senso ha mandarla alla feriale?”. E intanto un altro protagonista di questa storia, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, si affrettava a dire che la condanna era “immediatamente eseguibile”. A Strasburgo hanno dubbi. Tocca oggi dunque al Fatto lanciare un nuovo allarme: vuoi vedere che Silvio vincerà anche questa?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Meriti di ieri e di oggi. Non mi sarei mai cimentato a descrivere il ruolo di Silvio Berlusconi se non fossi stato preceduto in questi giorni, in ragione della malattia che lo ha colpito, da una lunga fila di commentatori. Augusto Minzolini il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.
Non mi sarei mai cimentato a descrivere il ruolo di Silvio Berlusconi se non fossi stato preceduto in questi giorni, in ragione della malattia che lo ha colpito, da una lunga fila di commentatori. Giudizi positivi, negativi e agrodolci. Penso che i bilanci siano da rinviare in sede storica, spogliandoli dell'ideologia e della faziosità visto che il Cav ha ancora un ruolo fondamentale in politica. È chiaro, però, che se molti azzardano mi viene la voglia di dire la mia per rimarcare, soprattutto, alcuni meriti che si possono ascrivere a Berlusconi ieri e oggi.
Quello di ieri riguarda la decisione di scendere in campo nel '94 e di aver vinto le elezioni in un particolare momento. Sembra la solita tiritera ma ancora non è chiara, colpa della polemica di parte tipica del Belpaese, l'importanza di quella scelta. In quell'occasione Berlusconi evitò una contraddizione di non poco conto: e cioè che gli sconfitti dalla Storia, cioè i post-comunisti (il Muro era caduto appena 5 anni prima), andassero al governo in Italia. E ci arrivassero in assenza di avversari, visto che la magistratura amica con Tangentopoli aveva spianato loro la strada. In quell'occasione non era in ballo una vittoria elettorale, ma l'avvento di un regime. C'è un'efficacissima rappresentanzione scritta da Don Baget Bozzo di quella particolare fase: «Vivevano tra noi tutti gli aspetti di un regime del terrore, giacobino o stalinista operato da due soli poteri: le procure della Repubblica e i quotidiani. Mai si era visto che bene prezioso fosse la libertà e come essa potesse essere perduta come d'incanto senza che nessuno avesse mai scelto di perderlo». E, invece, per quella strana provvidenza che caratterizza alcuni tornanti della Storia (vedi le elezioni del 1948), scese in campo il Cav. E paradossalmente, di quell'atto di coraggio dovrebbero essergli grati a posteriori anche i suoi avversari. I post-comunisti di allora, infatti, erano più comunisti che «post», tant'è che negli anni successivi hanno cambiato più volte il nome: se avesse vinto Achille Occhetto, probabilmente non avremmo avuto neppure Prodi, l'Ulivo e, nei fatti, una diluizione dell'ideologia post-comunista sull'altro versante del bipolarismo. Si sarebbe imposto probabilmente solo un soggetto politico del vecchio Pci.
Ora, tutti possono far risaltare luci o inventarsi ombre, ma si tratta di un dato di fatto che dopo trent'anni si può definire storico. Come dopo trent'anni si può osservare quanto il Cav continui ad avere un ruolo di rilievo nel presente, in un passaggio della politica italiana caratterizzato da una sorta di bipolarismo delle estreme: da una parte Giorgia Meloni, dall'altra la sinistra radicale di Elly Schlein (la nuova segreteria del Pd ne è la fotografia). È il portatore di un ruolo di «moderazione» che gli deriva dalla sua biografia e dal suo elettorato di riferimento che continua ad essere essenziale, se i numeri non sono un'opinione, per la vittoria del destra-centro. Una funzione che manterrà sia se la coalizione darà vita ad un partito unico, cioè se nascerà un Partito Repubblicano sul modello americano; sia se continuerà a conservare le sembianze di una coalizione. E il motivo è semplice: certi ruoli non si inventano a tavolino, ma si conquistano nel tempo, sono il risultato di scelte coraggiose, magari dolorose, sicuramente responsabili.
Il Foglio ha scritto che è stato un argine al populismo. Non è forse il contrario?
È assolutamente il contrario. […] Berlusconi […] è stato un perfetto populista. […]
Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” l’8 aprile 2023.
La famiglia Berlusconi non ha intenzione di smantellare Forza Italia. Mentre il Cavaliere rimane ricoverato in terapia intensiva al San Raffaele […] l’amministratore del partito, l’ex senatore Alfredo Messina, smentisce che in futuro ci possa essere un disimpegno dai figli anche dagli oneri finanziari che il partito comporta.
Messina è un uomo di fiducia dell’ex premier, un manager che Prodi consigliò a Berlusconi all’inizio degli anni ‘90 e che è stato direttore generale e ad di Fininvest. Oggi, a 87 anni, è vicepresidente di Mediolanum. È l’uomo dei conti e il depositario del simbolo di FI e sa benissimo che la situazione finanziaria del partito non è incoraggiante: c’è un debito di circa 100 milioni di euro proprio con la famiglia Berlusconi, visto che lo stesso presidente ha firmato le fidejussioni.
Se i figli del Cavaliere decidessero di non garantirle più, la continuità di Forza Italia sarebbe a rischio: «Abbiamo un forte debito, questo è chiaro - dice Messina all’ Adnkronos - . Ma non ho sentito, da parte di nessun membro della famiglia, nulla che possa compromettere l’esistenza di questa esperienza […] Escluderei iniziative da parte dei figli che possano far precipitare la situazione. Il partito andrà avanti […]».
[…] Fino a dieci giorni fa, […] i familiari hanno dato aiuto alle casse del partito: il fratello di Berlusconi, Paolo, e i figli Eleonora, Luigi e Marina hanno dato un contributo da 100 mila euro ciascuno (il massimo consentito), così come Fininvest, la società presieduta sempre da Marina. Mezzo milione di euro in tutto, la stessa cifra che i figli del Cavaliere hanno versato nella cassaforte di Forza Italia nel 2022.
[…] Sono numeri che incoraggiano quanti scommettono sul futuro di un partito strettamente legato alla figura del suo leader […] che […] anche dalla stanza della terapia intensiva: dopo le telefonate di giovedì a Tajani, Barelli e Gasparri, a Meloni e Salvini, il patron di Mediaset ha riferito a il Giornale (quotidiano di famiglia che sta per essere ceduto ad Angelucci) di «non avere alcuna intenzione di mollare». […] La prima occasione di confronto fra le varie anime sarà la convention di inizio maggio a Milano. A meno che Berlusconi, di qui a un mese, non rifaccia il miracolo e si presenti alla kermesse ricompattando il partito. Ma davvero in pochi ci credono.
Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzettta del Mezzogiorno il 2 Aprile 2023
«Berlusconi trionfa e prenota il governo»: si legge in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 29 marzo 1994. Dopo due infiammate giornate elettorali, finalmente i dati ufficiali sono diffusi. «Il polo della Libertà ha raggiunto la maggioranza assoluta alle Camere. Sconfitta la sinistra, il centro (con Segni e Martinazzoli) conferma la scelta dell’opposizione. Per Fini, leader di Alleanza nazionale, Berlusconi sarà il prossimo capo del governo», si specifica nel pezzo d’apertura. Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti, già messo a dura prova dalle conseguenze dell’inchiesta «Tangentopoli». È in vigore il nuovo sistema elettorale, il «Mattarellum», approvato dopo l’esito del referendum di un anno prima, che ha abrogato il proporzionale.
Al voto si sfidano, così, nuovi schieramenti: i partiti di sinistra si raccolgono nella formazione dei Progressisti, guidata dal Pds di Occhetto; il Polo delle Libertà è invece costituito dal neonato partito dell’imprenditore Silvio Berlusconi, dalla Lega nord e da Alleanza nazionale. Al centro restano il Partito popolare italiano, evoluzione della vecchia Democrazia cristiana, e altre piccole formazioni liberaldemocratiche. Il leader di Forza Italia, si legge sulla «Gazzetta», ha aspettato quasi l’una di notte per pronunciare il suo discorso della vittoria: costituitosi solo tre mesi prima, Fi è diventato il primo partito del Paese: «Per gioire aspetta i dati definitivi. Esorta i suoi alla prudenza, nella sala del Jolly Hotel di Roma gremita fino all’inverosimile. Ma negli occhi di Silvio Berlusconi brilla una furtiva lacrima mentre afferma che, comunque, il Polo delle Libertà un risultato già l’ha raggiunto: “consegnare il Paese ad un futuro di democrazia”».
Il giorno prima il Cavaliere si è recato a votare in una sezione del Ghetto di Roma, «in segno di solidarietà con la Comunità ebraica». Lì, però, l’accoglienza è stata a suon di urla: «Fascista!». «Se me lo avesse chiesto gli avrei detto che forse era meglio astenersi da questa manifestazione: un gesto demagogico, dettato dal desiderio di fare breccia», ha commentato Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche. Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia, ha insinuato che la contestazione sia stata organizzata dal Pds.
C’è un altro aspetto innovativo nel voto del 1994: «Mai come stavolta la televisione l’ha fatta da padrone, con quasi tutte le emittenti pubbliche e private impegnate in una maratona elettorale tuttora in corso», scrive in quarta pagina Oscar Iarussi. È stato naturalmente Enrico Mentana su Canale 5 ad anticipare tutti, annunciando i dati dei primi exit-poll. «Un gran circo sotto i riflettori bollenti, un barnum dell’informazione-spettacolo con Emilio Fede che rimbrotta i suoi inviati». Importante è stato anche il ruolo delle emittenti locali, specifica Iarussi: «In particolare di Antenna Sud che, consorziata con altre private di Puglia, ha cominciato a fornire dati dalle Prefetture e interviste ad alcuni colleghi del settore politico».
«Il vento di destra soffia forte anche nelle nostre regioni» scrive Michele Cristallo. È solo l’inizio della complessa e tormentata «seconda Repubblica». Il 1° aprile 1923 sulla «Gazzetta di Puglia» grande spazio è riservato alla critica teatrale e cinematografica. Al Petruzzelli è andata in scena la compagnia Tumiati, accolta con entusiasmo dal pubblico barese, con la La cena delle beffe di Sem Benelli. Al Margherita è stato proiettato Dolores, «uno dei pochi film spagnuoli oggi in Italia». Enorme il concorso di pubblico al cinema Umberto per Max Linder toreador – film muto del 1913, che riscuote ancora in quei mesi un notevole successo – e al cinema Cavour per la pellicola Kim, Kip e Kop, i vincitori della morte, «meravigliosamente interpretata dal noto artista Lionel Buffalo». È il cinema, insomma, già nel 1923, ad appassionare i baresi più di ogni altra forma d’arte: cento anni dopo, alcune di quelle stesse sale ospiteranno un Festival cinematografico internazionale, il Bifest, giunto alla 14esima edizione.
Perché non possiamo stare senza Silvio Berlusconi. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 7 Aprile 2023
Dal ricovero improvviso fino al bollettino medico ufficiale del San Raffaele di Milano. Ore concitate e di apprensione per Silvio Berlusconi e per i suoi familiari, amici, colleghi ed estimatori che si sono riuniti – con la presenza e con il pensiero – attorno all’ex premier, in condizioni di salute che già dal pomeriggio di mercoledì sono sembrate critiche. Un ricovero che si è succeduto a un’altra serie di controlli in ospedale a cui il Cavaliere era stato sottoposto la scorsa settimana.
Tuttavia, questa volta, la gravità del ricovero è stata immediatamente bollinata come grave – presentava un affaticamento respiratorio – e infatti, Berlusconi è stato fin da subito ospedalizzato nel reparto di terapia intensiva cardiotoracica e vascolare ed è stato sottoposto a Tac ed esami del sangue, fino al sospetto di infezione polmonare non completamente risolta, che è stata confermata.
IL BOLLETTINO MEDICO
Poche ore dopo il ricovero del Cav è stata resa nota la diagnosi: nella mattinata di ieri è stato emesso dall’ospedale San Raffaele il primo bollettino medico firmato dal professore Alberto Zangrillo – primario nonché medico personale di Berlusconi – e dal professore Fabio Ciceri che ha confermato una “leucemia mielocitica cronica” e una “infezione polmonare” – come era già emerso dai primi momenti del ricovero. “Il Presidente è attualmente ricoverato in terapia intensiva per la cura di un’infezione polmonare. L’evento infettivo si inquadra nel contesto di una condizione ematologica cronica di cui Egli è portatore da tempo”, si legge. “La strategia terapeutica in atto prevede la cura dell’infezione polmonare, un trattamento specialistico citoriduttivo mirato a limitare gli effetti negativi dell’iperleucocitosi patologica e il ripristino delle condizioni cliniche preesistenti”. Una malattia che, come si legge, Berlusconi avrebbe scoperto già da qualche tempo, ma per cui già dal pomeriggio del ricovero avrebbe iniziato la chemioterapia: un primo ciclo mercoledì, seguito da un secondo – più intenso – ieri mattina. I controlli e la terapia sembrano essere riusciti a stabilizzare le – seppur gravi – condizioni di Silvio Berlusconi. Dal San Raffaele, infatti, hanno fatto sapere che il Cav è stabile: voci confermate dalla famiglia che a seguito della visita pomeridiana ha fatto sapere: “Siamo sollevati, c’è un miglioramento. Siamo fiduciosi”. Evidenza del fatto che il leader di Fi ha risposto bene alle due sedute di chemioterapia e che la sua leucemia mielomonocitica cronica – a quanto si apprende da fonti al San Raffaele – possa essere limitata e curata attraverso questa terapia.
A confermarlo anche Nicola Ferrara, già presidente della Società italiana di geriatria e gerontologia (Sigg) che spiega come questa leucemia, che colpisce in maggior numero pazienti anziani, crea sì vulnerabilità, ma ci sono forti probabilità che le cure funzionino: “Il presidente è curato da mani espertissime e la medicina, sia per l’infezione respiratoria sia per la leucemia, ha fatto passi da gigante. Le cure ci sono e quindi possiamo avere una visione positiva”, ha detto.
TUTTI INTORNO AL CAVALIERE
Fin dal ricovero di mercoledì, al suo fianco, si sono uniti la compagna Marta Fascina, il figlio minore Luigi e il fratello Paolo – l’unico a rilasciare dichiarazioni a seguito dell’ingresso in ospedale: “Mio fratello è una roccia, ce la farà anche questa volta” – che anche ieri è tornato al San Raffaele seguito dalla figlia maggiore del Cavaliere, Marina. E se a rilasciare qualche dichiarazione alla stampa assiepata fuori dalla struttura ospedaliera ci pensa il fratello, a tenere i rapporti con l’esterno è proprio Marta Fascina “moglie” – è così che il Cavaliere ha deciso di chiamarla – dell’ex premier, che al fianco del compagno continua a dare informazioni sulle condizioni di salute e, allo stesso tempo, a tenere le redini del lato politico di Berlusconi, con una sorta di delega a tenere sotto controllo gli equilibri interni di Forza Italia, con un progressivo allontanamento di Licia Ronzulli che fino a qualche tempo fa viveva all’ombra del leader di FI. Un ruolo che la trentatreenne entrata in FI nel 2018, sta ricoprendo con il benestare dei figli del Cv – in primis Piersilvio e Marina – ma anche lato politico con il supporto di Antonio Tajani e quindi dell’ala governista del partito. Un vero e proprio passaggio di testimone, quasi inatteso, nel momento più difficile della vita del Presidente. A esprimere vicinanza al Cavaliere sono stati in tantissimi: dalla politica fino al mondo dello sport e dello spettacolo e in molti – dall’amico Galliani fino a Dell’Utri entrambi in visita al San Raffaele – sono riusciti anche a scambiare qualche battuta con il Cavaliere, che fin dove possibile ha cercato di rassicurare tutti e a dirsi pronto di tonrare al più presto al lavoro – come ha raccontato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Paolo Barelli. Vicinanza anche da tutta la politica con messaggi di auguri arrivati da maggioranza e opposizione. Un saluto e un augurio di pronta guarigione è arrivato anche dalla premier Giorgia Meloni che in serata ha sentito al telefono lo stesso Berlsconi.
Quel vuoto improvviso che paralizza la politica. Edoardo Sirignano su L’Identità il 7 Aprile 2023
Le condizioni di salute di Berlusconi impongono una riflessione sul futuro di Forza Italia. Stiamo parlando, d’altronde, di un movimento ad personam, che ha sempre trovato la forza nel carisma e nell’autorevolezza del proprio leader. Non può esistere un erede del Cav in un sistema politico incentrato su partiti costruiti a misura del proprio capo. Questa è la verità. Stiamo parlando di chi ha cambiato l’Italia, di chi è conosciuto in qualsiasi angolo sperduto del pianeta. Pur sperando che il leone Silvio riesca a vincere anche questa battaglia, età e acciacchi di mister B. non possono essere più ignorati. Basta, d’altronde, analizzare i voti degli azzurri per capire come il crollo dell’invincibile armata è iniziato proprio quando il fondatore ha perso le redini della coalizione. Fi, da allora, non supera la soglia del dieci per cento e oscilla tra un punto e l’altro, a seconda delle uscite e del protagonismo del suo indiscusso riferimento. Antonio Tajani si sta dimostrando un ottimo colonnello, ma non è certamente un Capo di Stato Maggiore. Senza l’intervento della famiglia B. sarebbe stato fatto fuori da una fisioterapista.
Il partito che diventa corrente
Ecco perché in un quadro che si sta evolvendo e che impone personalità giovani, simpatiche e con riconosciuta esperienza nel campo mediatico, il titolare della Farnesina non è certamente la soluzione per l’avvenire. Potrebbe essere al massimo un buon capocorrente, come d’altronde sta già facendo all’interno dell’esecutivo Meloni. Ormai quella grande casa dei moderati, pensata dal genio lombardo, è stata assorbita in Fratelli d’Italia. Basta scorrere l’elenco degli ultimi candidati alle regionali col partito della premier, dal Lazio al Friuli, per trovare più di qualche semplice amico di Silvio. Anzi, possiamo dire che il meglio di quel mondo ha già traslocato. Ecco perché fare una guerra tra amici non conviene a nessuno. Meglio, al contrario, attestarsi nel nuovo blocco moderato. Come ha detto Rotondi in un’intervista al nostro quotidiano, è stato un popolo a scegliere Giorgia e non viceversa. Il ministro degli Esteri lo ha capito e quindi si attiva per posizionarsi come riferimento di una mozione all’interno della moderna balena bianca, a trazione Meloni. Se nascerà un grande partito conservatore all’americana non è mossa intelligente chiudersi a riccio in un partitino.
Gli interessi della sacra famiglia
Occorre, al contrario, contare in un qualcosa di più grande, soprattutto se si ha un impero economico da tutelare come quello di Fininvest. Lo sa bene Marina, che supportata dai consiglieri del padre Gianni Letta e Fedele Confalonieri, stravolge le gerarchie interne pur di tenersi buono il presidente del Consiglio. Nelle ore più difficili per il Cav, l’ancella Licia viene tenuta lontana, mentre a parlare sono il solito Tajani e il parente acquisito Barelli. Questi sono i fatti. L’agenda e i contatti, invece, vengono affidati alla fidanzatina Fascina, l’unica di cui la sacra famiglia si fida. La deputata, d’altronde, non ha interessi particolari. Vuole solo assicurarsi un futuro in politica e quale migliore chance se non quella di rappresentare uno dei più importanti gruppi economici del Paese. A Marta non conviene sbagliare. Detto ciò, questo ragionamento è utile solo in termini economici e a tutelare un gruppo ristretto di amici. La verità è che Forza Italia, da tempo, come detto da Sgarbi, ha abbassato la saracinesca. Il Vittorio di “capra” non sa mentire.
La rivolta dei peones senza taxi
Lo sanno benissimo i tanti peones di quella galassia, da mesi alla ricerca di un nuovo taxi per sbarcare in Transatlantico. Altro problema, poi, il futuro dei moderati. Saranno questi ultimi realmente disposti a trasformarsi in un un’ala o in una frangia di un qualcosa di più grande? II vero problema a queste latitudini, è sempre il medesimo: le sigle abbondano, mentre i leader scarseggiano. Un imprenditore in grado di fare quello che è riuscito a Silvio dopo Tangentopoli non c’è, nè lo si può costruire in un laboratorio.
La mossa Cairo
Qualcuno mette in giro il nome di Urbano Cairo, il quale ha sia un gruppo che una visibilità. La domanda, però, è la seguente: ha la forza per tentare un’operazione così ambiziosa e soprattutto la trova conveniente? Berlusconi, tutti sanno ci ha sempre rimesso in politica. La nobiltà del Cav è un ago in un pagliaio
Non è un monarca ma il capo di una comunità, più sacerdote che Guerriero. Berlusconi e l’allarme azzurro: il capolavoro messo in piedi dal fondatore di Forza Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2023
Non appena giunge notizia che Silvio Berlusconi sta poco bene, che è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano, scatta subito una sorta di “allarme azzurro”. Niente di politico, nulla di calcolato. E’ la paura dei figli di perdere il padre. Non per sempre, perché Silvio è immortale, ma anche per un piccolo allontanamento, che ti fa sentire la terra che frana sotto i piedi. Così da ieri mattina a mezzogiorno le parole “terapia intensiva” volano di bocca in bocca, sussurrate come se la voce bassa potesse farle sparire. Poi il primo barlume di speranza, il Presidente è “vigile”, e il termine medico si allarga nella speranza un po’ egoistica dei figli perché il padre continui subito dopo a vegliare sui suoi piccoli.
Questo è il capolavoro messo in piedi dal fondatore di Forza Italia. Non è il monarca assoluto che molti credono. Lo credono perché lo avversano e lo invidiano. No, lui è piuttosto il capo di una comunità, più sacerdote che guerriero. Credo che ciascuno di noi, “quelli del novantaquattro”, abbia aneddoti cui riferirsi, di questa lunga storia ormai trentennale. Il mio primo incontro, per esempio, quando mi ha cercata, pur se arrivavo da un’altra storia politica, per propormi un seggio, non è stato per me edificante. Mi chiamava “signora” e mi chiedeva che cosa avrei fatto per le donne. Niente, gli avevo risposto, io mi occupo di giustizia. E per dispetto lo avevo ben bene affumicato con una sigaretta accesa che lui detestava. Ma mi ha poi qualche tempo dopo asciugato le lacrime di rabbia che mi bagnavano le guance mentre mi aggiravo furiosa per il Transatlantico, non ricordo neanche più per che cosa.
Quando si dice di qualcuno che ha un grande cuore, si pensa alla generosità economica, oppure alla capacità di stare vicino a chi è malato oppure triste. Non ti viene in mente che un Presidente del Consiglio vada di corsa dalla Lombardia alla Puglia perché là c’è un barcone di disperati che arrivano dall’Albania e che chiedono asilo. E che poi prenda sotto la propria ala protettiva una intera famiglia e se la porti via, al nord e le dia una vita vera e non da disperati. Solo chi ha davvero un cuore, ogni tanto può averlo ammaccato. E quello di Silvio Berlusconi un po’ lo è, di questi tempi. Ma provvederà come sempre il professor Alberto Zangrillo con i cardiologi del San Raffaele ad aggiustarglielo.
Quelli che non si possono aggiustare, sono i lividi dell’anima di cui parlava Rosa Luxemburg nelle lettere a Leo Jogiches. Ma quelli sono stati da tempo leniti e accarezzati dalla sua compagna, “mia moglie” l’ha chiamata in un’intervista di pochi giorni fa, Marta Fascina. Un bel punto fermo della vita, saper amare e anche essere capace di accettare l’amore. Bisogna avere un cuore. Non tutti ce l’hanno. Ma lui sì. Per questo abbiamo bisogno, certamente io che gli voglio bene da tanti anni, che l’aritmia si allenti, che tutto torni a essere normale, in quella camera della terapia intensiva del San Raffaele, perché c’è una comunità che ha bisogno del suo conductor e che aspetta Silvio.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Dopo 30 anni è arrivata la fine di Forza Italia. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 06 aprile 2023
Mentre le condizioni di Silvio Berlusconi restano gravi, nessuno scommette più sul futuro di Forza Italia, indipendentemente da quale sarà il decorso della malattia dell’anziano patriarca. Per il partito che ha dominato la vita politica degli ultimi decenni inizia l’ultimo atto
Mentre le condizioni di salute di Silvio Berlusconi restano gravi, è ricoverato per un’infezione polmonare e sta ricevendo un trattamento di chemioterapia per una leucemia che, dicono i medici, «lo afflige da tempo», dentro Forza Italia si respira già un atmosfera da Caduta degli dei.
«Anche se dovesse farcela, Berlusconi non potrà più restare alla guida del partito che comunque, purtroppo, non controllava già da anni», dice un ex parlamentare a lui vicino. E, senza più il suo carismatico patriarca, per Forza Italia si avvicina l’ultimo atto della sua lunga storia.
LA FUGA
Da oltre un decennio Forza Italia è in continua crisi di consensi, ha visto ridursi all’osso la sua già esile struttura territoriale e scomparire o fuggire verso altri partiti i suoi amministratori locali. Oggi il partito è ridotto al suo gruppo parlamentare: 44 deputati e 18 senatori che ora si domandano quale sarà il loro futuro politico.
Nessuno sembra disposto a scommettere sulla sopravvivenza di Forza Italia come forza politica autonoma. Per mancanza di figure trainanti, di personale politico di qualità e di fondi. In parlamento, il gruppo di Forza Italia è considerato persino dagli alleati poco più che un zimbello, da bulleggiare quando tenta goffamente di alzare la testa, come in occasione del fallito tentativo di sgambetto all’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato.
Dopo quasi trent’anni di storia, Berlusconi non è riuscito a creare non solo un erede, ma nemmeno una classe dirigente in grado di sopperire al lento appanamento del carisma e dell’intelligenza politica del leader.
L’attuale coordinatore e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è considerato anche dai suoi una figura non all’altezza. La senatrice Licia Ronzulli che, nel bene o nel male, negli ultimi anni aveva imposto al partito una sorta di guida sfruttando il suo accesso privilegiato all’anziano leader, è stata estromessa poche giorni fa.
Nel vuoto di leadership, la fetta più grossa di parlamentari sembra già pronta a spostarsi su Fratelli d’Italia che, nonostante i primi segnali dell’inevitabile calo di consensi, appare ancora la forza più vitale del centrodestra. Qualcuno potrebbe optare per la Lega, ma chi voleva andare con Matteo Salvini ha già preso da tempo questa strada, osserva un ex parlamentare. La Lega inoltre sembra avere i suoi problemi a livello di consensi ed è difficile che possa promettere molto ai nuovi arrivi.
I più moderati tra gli esponenti di Forza Italia sperano in un miracolo di Matteo Renzi, una qualche trovata centrista che consenta loro di collocarsi in un partito almeno minimamente affine ai loro elettori. Dentro Forza Italia molti sentono Renzi più vicino di Carlo Calenda e il leader di Azione in ogni caso si è circondato di ex berlusconiani, come Mariastella Gelmini, che con il partito hanno rotto bruscamente e che hanno poca voglia di avere nuovi concorrenti in una formazione le cui possibilità di crescita appaiono quanto meno dubbie.
Le ultime mosse di Renzi, comunque, non confortano i futuri ex berlusconiani. Renzi ha promesso una pausa dalla politica e ha annunciato la sua intenzione di diventare direttore del Riformista, mentre la fusione tra Azione e Italia Viva per ora sembra proseguire il suo cammino.
COSA RESTA
Le opzioni dei berlusconiani sono poche. Senza Berlusconi, o con un Berlusconi indebolito dalla malattia, le fonti di finanziamento del partito sono destinate ad esaurirsi e questo significa dipendere ancora di più da gruppi parlamentari destinati a svuotarsi.
Le possibilità che Forza Italia ha di continuare ed esistere almeno come nome in parlamento dipendendono da Giorgia Meloni. Se la leader di Fratelli d’Italia sentirà il bisogno di mantenere in vita una gamba parlamentare apparentemente moderata a sostegno del suo governo, allora la vecchia bandiera azzurra potrebbe sopravvivere per qualche tempo.
In quel caso, Tajani potrebbe restare come ultimo alfiere del berlusconismo attorniato da una sparuta pattuglia di ultimi fedelissimi. Per molti questo è lo scenario più realistico. Una Forza Italia-paravento converebbe a Meloni anche in Europa. Con il putiniano Berlusconi in un modo o nell’altro fuori dai giochi, per il Partito popolare europeo sarebba ancora più facile sostenere il governo italiano, e Tajani, che del Ppe è un conosciuto veterano, sarebbe un’utile trait d’union.
Resta aperta la questione della fine che faranno i voti del partito, che come tutto dentro Forza Italia, appartengono a Berlusconi. Sono lontanissimi i tempi del 30 per cento alle europee del 1994 o quelli del 38 per cento raccolto col nome Pdl alle politiche del 2008. Ma ancora oggi Forza Italia raccoglie un 8 per cento di voti che fa gola a molti. La partita è aperta e Berlusconi, che nella vita ne ha vinte tante, su quest’ultima non potrà più influire.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “il Foglio” il 6 aprile 2023.
Sono lettere dal carcere, il “carcere Casellati”. Un prigioniero ci ha scritto: “Era sera quando ho sentito queste voci: ‘La ministra della Riforme sono io! Io! Maria Elisabetta Casellati. Vogliono scipparmi la riforma del presidenzialismo. Sciagurati! Ah, una pera! Avvelenamento! Non lo sapete che Pera (Marcello) vuole prendere il mio posto?”.
Gli sciagurati sono i funzionari sopravvissuti al carattere della Casellati, ex presidente del Senato e ora ministra del governo Meloni. Le parole di chi non ce l’ha fatta: “Sono in analisi”. Un altro: “Voglio dimenticare”. Un terzo: “E’ Full Metal Betty”. Ieri, alla Camera, lo ha rifatto: “A luglio arriva il presidenzialismo. Ci siamo”. Trascurata, dimenticata. Inspiegabile. Dall’archivio. Era fine gennaio e ogni giorno, sotto il suo ufficio, sfilavano delegazioni di partito come a Milano durante la Settimana della Moda.
[…] Al capo di gabinetto, Alfonso Celotto, era stata infatti assegnata un’altra missione (impossibile): “Mi serve un portavoce! Trovalo! Selezionalo!”. Sarebbe stato il suo ottavo portavoce in una manciata d’anni. Una malalingua: “A un certo punto qualcuno lo avrebbe detto: ‘Ministra, nulla. Preferiscono andare a lavorare nelle campagne”. E lei: “Ah! Preferiscono il ministro Lollobrigida!”. Celotto si è dimesso e da quel giorno, dopo mezzanotte, balla sul cubo insieme a Sabino Cassese. Chi vuole bene a Betty suggerisce: “Ministra, facciamo noi”.
Al posto di Celotto viene chiamata Giulia Zanchi, con un cv da capo di segreteria all’Antitrust e all’Autorità di Regolazione dei Trasporti. Serve tuttavia un vice capo di gabinetto. E di nuovo: “Ministra, anche per lui, facciamo noi”. Viene spostato Claudio Tosi, che era capo della segreteria tecnica.
[...] Casellati è un simbolo di Forza Italia, ma Meloni ha ben due campioni, ex di Forza Italia, e che campioni. Uno è Giulio Tremonti, venerato dalla premier. L’altro è Pera. Secondo tutti meriterebbe la presidenza della Commissione Bicamerale per le riforme. Ma se Pera fa il presidente della Bicamerale per le Riforme, la ministra delle Riforme cosa fa? Lo sgomento.
Un pomeriggio: “Voglio un’idea! Facciamo qualcosa”. I funzionari si guardano, stanno per piangere, quando uno si ricorda: “La botanica! Se la legge sul presidenzialismo non si può ancora fare, perché non tagliare le leggi inutili? Potare. Ricordate Calderoli quando bruciò le leggi?”.
Full Metal Betty sorride. Significa “grazia”: “Ottimo. Potiamo leggi”. I giuristi della ministra preparano la proposta di abrogazione di 2.535 decreti regi che essendo regi sono, di fatto, già leggi morte. […] Il testo […] viene presentato in Cdm lo stesso giorno del Codice degli Appalti di Matteo Salvini. I giornali si occupano ovviamente di Salvini e si dimenticano della Casellati. Ieri, al Senato, la ministra rilancia: “Aboliremo 33 mila decreti regi e faremo pure il presidenzialismo. L’Italia è pronta”. E’ lo stesso paese dove da cinque mesi, in un ministero, vengono violati i diritti dell’uomo e del funzionario. E’ Alcatraz Betty. Sui muri delle celle sono impressi i nomi di chi ce l’ha fatta. Sono gli evasi dal Casellati bis.
Putiniano. L’allarme di Berlusconi: “Se si umilia Putin, mondo a rischio nucleare”. Paolo Guzzanti su Il Riformista l’8 Marzo 2023
“Sono stato io a convincere Putin a ritrarsi dalla Georgia nel 2008”. E aggiunse che nell’attuale mostruosa guerra in Ucraina col mondo che rischia l’apocalisse nucleare, si sarebbe aspettato di esser messo nelle condizioni di fare quel che poteva. Ero fra i commentatori di quella edizione e rimasi di stucco: come sarebbe a dire? Io nel 2008 lasciai Forza Italia frustrato dal sodalizio fra il premier italiano e quello russo mentre presiedevo la Commissione Mitrokhin e il mio informatore segreto Alexander Litvinenko era stato avvelenato e ucciso per ordine di Putin, e adesso sentivo Berlusconi fare una rivelazione sorprendente, per me, enorme.
Putin in quel mese d’agosto aveva lanciato un attacco militare contro a Georgia, il primo da Stato a Stato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, nell’indifferenza generale sia in Italia e nel mondo. Ma è vero: Putin si era poi ritirato si era ritirato, lasciando qualche presidio di frontiera. Io ero rimasto profondamente deluso perché l’Italia, salvo una precipitosa riunione delle Commissioni Esteri di Camera e Senato, aveva lasciato correre, come tutti i Paesi del mondo occidentale. E adesso? Adesso mi trovavo di fronte al presidente del consiglio di allora, dichiarare che nel 2008 quando Putin mosse le sue truppe in Georgia, lui che aveva col presidente russo un noto e profondo rapporto personale, dice di averlo fermato.
È un fatto che Putin allora si fermò, anche se tutto rimase incandescente. Ma ignoravo, credo come tutti, che Berlusconi fosse entrato in gioco riuscendo a bloccare una guerra. Come? Eravamo ancora in diretta e io dissi: “Un momento, Presidente Berlusconi, abbiamo diritto di sapere come è andata e le chiedo una intervista”. Quella intervista non è mai avvenuta e penso che l’ex Presidente del Consiglio e fondatore del centro destra si sia chiuso nel suo piccolo castello di Arcore. Ho passato un paio di settimane a ristudiare i fatti di allora per metterli in relazione con la guerra di oggi e capire se e che cosa Berlusconi potrebbe fare davvero per fermare una guerra (quella ucraina con le due implicazioni cinesi a Taiwan) che proprio nella fase in cui si trova adesso, con massacro di Bakhmut in cui Putin e Zelensky sembrano giocarsi il tutto per tutto, potrebbe diventare nucleare.
La tesi di Berlusconi è che sono degli incoscienti tutti coloro che spendono fortune per mandare cari armati e cannoni all’Ucraina pensando di sconfiggere la Russia sul campo con le armi convenzionali, perché questa gente dissennata e incompetente non ha idea del temperamento di Putin. Berlusconi ha ripetuto in privato che “se gli lasciano come unica alternativa l’umiliazione e la sconfitta, Vladimir è il tipo che dirà: muoia Sansone con tutti i filistei e passerà all’arsenale atomico”. Molto preoccupato fino a rasentare la depressione, Berlusconi finge di scherzarci sopra: “Sarà meglio fuggire per la terra del fuoco, o costruirai un bunker con tutti i comfort nel guardino di casa?”. Qui non siamo nell’aneddotica: è realistico quello che pensa Berlusconi che conosce e frequenta Putin da un quarto di secolo? E che mantenga ancora quel tipo di relazione che può modificare sul corso degli eventi?
Il fondatore di Forza Italia è evidentemente frustrato e anche sbalordito perché l’attuale governo non lo ha messo nelle condizioni di agire sulla guerra e possibilmente fermarla. È rimasto malissimo quando con un colpaccio di maggioranza concordato col Terzo polo hanno affidato ad Ignazio La Russa presidente del Senato perché Berlusconi considerava la statura “istituzionale” della seconda carica dello Stato come quella più adatta per giocare tutte le sue carte europee e internazionali. E quando si è visto messo da parte anche in maniera scortese e anzi provocatoria si è chiuso in un mutismo addolorato e sdegnoso. Ma la questione resta aperta, perché non soltanto questa guerra ma le sue premesse che risalgono agli anni Novanta, agli accordi sulla Nato, al trattato di Budapest, agli accordi di Minsk.
Ho cercato di ricostruire qualche aspetto di quel che accadde nel 2008 quando avvenne la cosiddetta seconda guerra georgiana essendoci già stato un primo scontro tra Russia e Georgia nel 1991. Il secondo scontro avvenne nel 2008. Io avevo preceduto una commissione d’inchiesta sulle indebite influenze russe durante la guerra fredda in Italia ed ero rimasto scioccato dall’omicidio di Alexander Litvinenko che era un mio segreto è prezioso collaboratore dal quale la polizia italiana raccolse informazioni preziose su un ordigno che consentì di intercettare prima che fosse usato per un attentato. Da allora sono passati molti anni e dal febbraio del 2022 la guerra Ucraina è diventata un pantano di sangue per sacrifici umani pari a mille corpi al giorno. Il dilemma della ragione e del torno resta, e non è un dilemma. Ma come andrà a finire, è più che un dilemma, una apocalittica maledizione.
Se moriremo o no di morte atomica è un quesito inutile perché somiglia più all’esempio logico della meccanica quantistica dell’ipotetico gatto di Schroeder, chiuso in una scatola in cui o è già morto oppure è vivo, ma di cui non si può dire che forse è vivo o forse è morto.
Secondo Berlusconi, il presidente russo in alcun caso si lascerà sconfiggere e ha già alluso in maniera obliqua all’uso, se indispensabile per l’esistenza della Russia, delle armi nucleari. In queste ore tutti i grandi della terra che hanno conosciuto bene sia il primo Putin attratto dall’occidente, quasi convinto ad entrare nella Nato e nell’Unione europea, e il secondo Putin che poi ha avuto una mutazione a partire dalla guerra in Iraq. Vale la pena parlarne oggi? Il motivo è molto pratico e drammatico. La Storia non è determinata soltanto dall’economia ma da molte altre cose fra cui la stupidità, la sete di egemonia e persino dal fattore umano. Oggi trionfa sulle piattaforme il genere di romanzi in cui ci si chiede come sarebbe andata se il piccolo Adolf Hitler fosse stato strozzato in culla.
La Storia reale è più perfida: come sarebbe andata la Storia se il ventottesimo Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, che capovolse le sorti della Prima guerra mondiale e che si piazzò a Parigi per due anni per rifare il mondo, non avesse contratto una forma cerebrale di “influenza spagnola” per cui diventò paranoico, pretendendo lo smembramento del popolo tedesco e aprendo così la strada a Hitler? Oggi, tutti si occupano di Putin per rispondere a domande senza risposta, mentre la guerra ristagna oggi a Bakhmut dove sia Putin che Zelensky, con le vite degli altri si stanno giocando la propria. Da ieri Evgenij Prigozhin, padrone dei mercenari del battaglione Wagner manda in giro un video in cui accusa l’esercito russo di non fornirgli le munizioni per cui annuncia che perderà Bakhmut e il ministro della difesa russo è piombato a Mariupol per contestare il suo migliore alleato e peggior nemico.
Mosca è divisa. L’Occidente anche. Zelensky è incerto fra salvare o far perire le sue truppe o durare un minuto più dei russi per innescare una crisi al Cremlino. Le diplomazie sono di fatto impotenti e la Cina, da grande minaccia per il mondo occidentale, si comporta da arbitro. Berlusconi dice di essere rimasto stupefatto per la spudorata franchezza con cui il presidente cinese si vanta di avere il controllo quasi totale dell’Africa e di aspirare al controllo dell’intero mondo. Lo aveva lasciato esterrefatto la totale miopia dell’occidente che rischia di suicidarsi prendendo parte alle contese nell’ex Unione Sovietica senza saper valutare l’attacco globale cinese.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Secondo il ministro russo, l'ex premier "non intensifica le tensioni". Lavrov esalta Berlusconi: “Leader ragionevole, non dipinge tutto in bianco o nero”. Redazione su Il Riformista il 2 Marzo 2023
“Berlusconi leader ragionevole che non intensifica le tensioni”. Parole di Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo che esalta le recenti dichiarazioni dell’ex premier italiano sul conflitto in Ucraina dove rimproverava la premier Giorgia Meloni alla vigilia dell’incontro a Kiev con il presidente Volodymhyr Zelensky avvenuto a metà febbraio. “Io a parlare con Zelensky se fossi stato il presidente del Consiglio non ci sarei mai andato – dichiarò Berlusconi – perché stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore”.
Venti giorni dopo Lavrov, che in questi giorni si trova in India per partecipare al G20 e alloggia nello stesso albergo della premier Giorgia Meloni, ha voluto ringraziare pubblicamente il leader di Forza Italia: “Sentiamo le valutazioni e le dichiarazioni di tanti leader internazionali e politici con esperienza. Ovviamente, Silvio Berlusconi è uno di loro. È un uomo ragionevole che non cerca di dipingere tutto in bianco e nero, non cerca di intensificare tensioni nel mondo sotto lo slogan della lotta della democrazia contro l’autocrazia”. Poi aggiunge: “Berlusconi comprende la necessità di risolvere i problemi da cui dipende la nostra vita”.
La settimana Zelensky, durante la visita di Giorgia Meloni a Kiev, aveva commentato le parole del Cavaliere notando come le sue posizioni sul conflitto fossero dovute al fatto che “la sua casa non è mai stata bombardata”. Di recente Lavrov ha sottolineato come l’Italia, da Paese con le “relazioni tra le più amichevoli” con Mosca, si è trasformata rapidamente in uno “dei leader delle azioni e della retorica antirusse”.
DAGONOTA il 14 febbraio 2023.
L’uscita di Piero Sansonetti in lode di Silvio Berlusconi per l’attacco a Zelensky ha creato non poco caos ai vertici del Pd. L'intemerata del direttore del Riformista avrebbe fatto barcollare il progetto di una nuova Unità (la cui testata è stata rilevata da Alfredo Romeo e affidata a Sansonetti) che vede in Bonaccini lo sponsor politico in pectore e colui che garantirebbe diffusione e protezione con le banche.
Nella redazione i mugugni sono giornalieri e qualcuno si chiede a che gioco si stia giocando. Anche dopo la proposta (rifiutata) di affidare la direzione del sito della nuova Unità a Michele Santoro.
Estratto da open.online il 14 febbraio 2023.
«Io penso che sulla guerra in Ucraina Berlusconi abbia ragione da vendere». Dopo Vauro, anche Piero Sansonetti – direttore del quotidiano Il Riformista – si schiera a difesa del leader di Forza Italia. Da ieri Berlusconi si trova al centro di una bufera politica, dopo una serie di affermazioni controverse sulla guerra in Ucraina e sul presidente Volodymyr Zelensky. «Se fossi stato premier, io non lo avrei mai incontrato», ha detto il leader di Forza Italia in merito all’incontro tra Giorgia Meloni e il leader di Kiev.
«Bastava che lui cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo (la guerra, ndr) non sarebbe avvenuto. Quindi io giudico molto, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore», ha aggiunto Berlusconi […]
L’uscita di Berlusconi su Zelensky, infatti, sembra aver ricompattato, almeno in parte, alcuni dei suoi storici antiberlusconiani, tra cui proprio Vauro e Sansonetti, per quanto con sfumature diverse, che hanno difeso il punto di vista dell’ex premier sulla guerra in Ucraina. […]
L'inutile gazzarra sulle sue dichiarazioni. Silvio Berlusconi è l’ultimo pacifista. David Romoli su Il Riformista il 14 Febbraio 2023
Ci si può interrogare su perché Silvio Berlusconi abbia scelto di uscire completamente allo scoperto proprio in questo momento e in modo tanto esplicito. La differenza tra le precedenti esternazioni e quest’ultima sono infatti evidenti: qui non si tratta di frasi pronunciate in un consesso riservato e poi trapelate. Il Cavaliere, stavolta, voleva che la sua posizione fosse nota ovunque.
Le riposte possono essere molte e non incompatibili tra loro. È probabile che il leader di Forza Italia, nel pieno di una prova elettorale il cui risultato era quasi noto in partenza, mirasse a indebolire un’alleata che sta cannibalizzando i suoi consensi colpendola nel punto di forza a livello internazionale, l’immagine di premier capace di garantire lo schieramento atlantista dell’Italia tenendo a bada alleati di tutt’altro avviso. È certo che tenesse conto di sondaggi che registrano una crescente disaffezione degli italiani nei confronti di uno schieramento a sostegno di Kiev che sconfina nella belligeranza. È più che possibile che c’entri molto il rapporto personale con Putin.
Berlusconi, si sa, non ha mai diviso il personale e il politico e tra i suoi difetti, sul piano personale, non figura la slealtà. Ma né le considerazioni tattiche, certamente presenti, né quelle caratteriali implicano malafede. Le cose dette all’uscita dal seggio Berlusconi le pensa davvero e non da ieri. Ed è vero che da premier avrebbe almeno provato a battere un’altra strada, come fece alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, quando tentò invano sino all’ultimo di convincere Bush jr. a desistere.
Berlusconi ha riconosciuto le ragioni di Mosca, il che in realtà non equivale affatto a negare quelle di Kiev o a spalleggiare l’invasione. Si tratta, al contrario, dell’unica posizione che possa portare a una soluzione diplomatica, cioè a un compromesso. La distinzione semplificata a confronto tra il bene e il male, tra il torto assoluto e la ragione completa non consente compromessi. Prevede solo la sconfitta senza appello del nemico. L’afasia della diplomazia nella guerra in Ucraina, l’incapacità e forse l’impossibilità anche solo di immaginare un negoziato che non passi per la sconfitta aperta del nemico, dunque nel caso dei Paesi Nato della Russia, deriva proprio dall’impostazione integralista che semplifica quel conflitto dipingendolo come una sorta di ripetizione dal vero di Star Wars: una guerra impari contro l’Impero del Male. Solo che qui i morti e le devastazioni sono vere.
Per quanto dettate anche da un calcolo opportunistico, come l’esigenza di infragilire la premier sul piano internazionale per indebolirla all’interno e forse, al momento opportuno, abbandonarla, le frasi deflagranti di Berlusconi erano pacifiste, non putiniane. Guardavano in faccia la realtà che tutti i leader occidentali si nascondono e nascondono: non c’è soluzione diplomatica senza compromesso e non c’è compromesso senza riconoscere almeno alcune ragioni di entrambi gli antagonisti. In questo senso le note del ministro Tajani prima e di Forza Italia poi sulla determinazione nel continuare a difendere l’indipendenza dell’Ucraina sono meno goffe e ipocrite di quanto possa apparire. Dire che l’Ucraina ha la sua parte di responsabilità nello scoppio della guerra non significa infatti né revocare in dubbio l’indipendenza dell’Ucraina né giustificare l’invasione.
Per Giorgia Meloni è una posizione inaccettabile. Perché l’atlantismo estremo è il suo punto di forza, la carta da calare sul tavolo delle trattative internazionali ma anche perché quella è la sua cultura, compiutamente di destra, più thatcheriana che fascista, convinta della necessità delle prove di forza e poco incline al compromesso. L’aspetto stupefacente è casomai che ogni accenno al compromesso scandalizzi la sinistra. Non si tratta di un fronte tra tanti. Se c’era un elemento costitutivo dell’identità di sinistra, tanto possente da superare ogni differenza era il pacifismo di fondo, la prevalenza della diplomazia sulla forza delle armi. Che questa posizione sia oggi brandita solo dall’uomo che per quasi trent’anni è stato il leader indiscusso della destra italiana, tacciato quasi di fascismo o comunque di pulsioni autoritarie, è tanto eloquente quanto desolante.
Del resto era già successo, su un elemento altrettanto costitutivo dell’identità della sinistra, di ogni sinistra: la giustizia. Qualche decennio fa, in fondo non moltissimi, sarebbe stata inimmaginabile una sinistra disinteressata alle garanzie, ansiosa di delegare ogni protagonismo in materia di giustizia alla magistratura. La sinistra si era ridotta da un pezzo a dover prendere lezioni dal leader della destra su quel fronte. Ma, nonostante la guerra alla Serbia e i bombardamenti su Belgrado, che hanno segnato un vero spartiacque storico, chi avrebbe mai detto che lo stesso copione si sarebbe riproposto sulla guerra e sulla pace? David Romoli
Silvio e Vlad: l’amicizia è più forte di ogni cosa, anche della politica...La vodka, il lambrusco, la Costa Smeralda… Un’anomalia selvaggia avrebbe detto il filosofo, che mette in serio imbarazzo il governo di Giorgia Meloni, scompagina la maggioranza e stressa la stessa Forza Italia, costretta a sposare la linea politica del suo illustre fondatore. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 20 febbraio 2023
C’è qualcosa di commovente nell’amicizia che lega Silvio Berlusconi a Vladimir Putin, un vincolo aureo che supera ogni ostacolo, e che sembra trascendere qualsiasi richiamo ideologico, posizionamento geopolitico o il semplice buon senso. Un’anomalia selvaggia avrebbe detto il filosofo, che mette in serio imbarazzo il governo di Giorgia Meloni, scompagina la maggioranza e stressa la stessa Forza Italia, costretta a sposare la linea politica del suo illustre fondatore. Pensate ai mal di testa che saranno venuti al povero ministro Tajani, vera e propria creatura di Berlusconi e capo della nostra diplomazia, che si deve barcamenare tra la fedeltà all’atlantismo degli alleati e gli input russofoni, del capo.
Il paradosso è che all’interno dell’esecutivo è proprio Fratelli d’Italia che prova a tenere ferma la barra del sostegno a Kiev mentre Lega e Forza Italia rimangono nel limbo dello scetticismo se non della aperta ostilità verso Volodymir Zelensky. «Io con quello non ci parlerei mai» aveva tuonato Silvio la scorsa settimana, parole identiche a quelle che va dicendo da un anno il suo caro amico, per il quale in presidente ucraino non è altro che un burattino nelle mani dell’Occidente. Ma è la stessa narrazione putiniana della guerra che viene spostata senza se e senza ma: «Bastava che Zelensky cessasse di attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto».
L’affetto che il Cavaliere nutre nei confronti del capo del Cremlino è totale e incondizionato. Gli scambi di regali, le bottiglie di vodka e quelle di lambrusco, il “lettone” donato dal presidente russo poi collaudato nelle notti brave di Arcore, il copripiumino di alta sartoria, le vacanze in Costa Smeralda e nella dacia di Sochi, i selfie con il colbacco e così via sono soltanto il contorno, il gossip giornalistico di un rapporto profondo e inattaccabile che dura da oltre 21 anni. Nacque dalla macerie dell’11 settembre, con la nascita della colazione internazionale contro il terrorismo e al Qaeda, con il sostegno alla “guerra infinita” degli angloamericani che all’epoca conveniva anche a Mosca, bersagliata sul suo fronte dal jihadismo ceceno.
Si sono conosciuti e si sono piaciuti a prima vista; in molti sottolineano i tratti in comune, il culto della personalità, le uscite guascone, lo stile informale e poco avvezzo ai protocolli che esibiscono nell’esercizio del potere, Ma si tratta di una lettura superficiale, in realtà i due uomini hanno un carattere molto diverso, Solare ed espansivo Silvio, ombroso e sornione Vladimir, ed è proprio su questa complementarità che si fonda questa intesa speciale, una coppia che funziona e trova affiatamento nelle differenze.
È probabile che alla veneranda età di 86 anni il padrone di Mediaset veda nel presidente russo lo specchio degli antichi fasti, quando era l’uomo più potente e amato di Italia. Che ha avuto il suo momento più alto nel vertice di Pratica di mare del 2002 quando Mosca e la Nato firmarono addirittura un trattato comune per contrastare il terrorismo internazionale. Giorni memorabili di cui l’amicizia a prova di bomba con Vladimir Putin rimane oggi il residuo più tangibile.
L’alleato che imbarazza. Berlusconi torna a fare il filo-putiniano e Meloni deve mettere l’ennesima toppa. su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023.
Il Cavaliere ha detto che «a parlare con Zelensky non ci sarei mai andato», provando anche a convincere la premier a non mettersi in viaggio per Kyjiv. Dura la nota di Palazzo Chigi, che ribadisce ancora una volta la posizione atlantista e di sostegno all’Ucraina del governo
«A parlare con Zelensky non ci sarei mai andato». Silvio Berlusconi, dopo aver votato alle regionali lombarde, ha criticato con queste parole la settimana di incontri europei di Giorgia Meloni, reduce dal Consiglio Ue e dal bilaterale con il presidente ucraino in visita a Bruxelles. «Stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese, alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che smettesse di attaccare le repubbliche del Donbass e questo non sarebbe accaduto», ha detto il leader di Forza Italia senza freni, tra i volti preoccupati del suo entourage.
Tra i flash dei fotografi e i fan, l’ex premier ha proseguito. «Giudico molto negativamente il comportamento di questo signore», ha incalzato riferendosi a Zelensky che, a suo parere, dovrebbe arrendersi e ricostruire l’Ucraina con Biden. «Se fossi il presidente Usa, gli direi: “Dopo la fine della guerra sarà a tua disposizione un Piano Marshall da 9mila miliardi di dollari per la ricostruzione. A una condizione: che ordini il cessate il fuoco, anche perché non ti daremo più né soldi né armi”. Soltanto una cosa del genere potrebbe convincerlo».
A stretto giro, è arrivata anche la dichiarazione della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova: «Non spetta a me giudicare Berlusconi. Mi limito ai fatti: dal 2014 la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l’Occidente aveva in mente».
Dichiarazioni che in pochi minuti scatenano giustamente il terremoto politico. La prima reazione della maggioranza – racconta il Corriere – è un rumoroso silenzio, telefoni sempre occupati o staccati ad arte per non parlare con i giornalisti. Con la paura che le parole dell’ex premier possano provocare conseguenze sul voto regionale in Lombardia e Lazio.
Meno di un’ora dopo le parole di Berlusconi, Palazzo Chigi dirama una nota in cui il nome di Berlusconi non compare e che rivela la distanza abissale tra la posizione del capo di Forza Italia e quella del capo dell’esecutivo: si ribadisce che «il sostegno all’Ucraina del governo è saldo e convinto, come previsto nel programma e come confermato in tutti i voti parlamentari della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Come dire che, se Berlusconi vuole restare dentro il perimetro della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre, deve muoversi nel solco atlantista e deve smetterla di strizzare l’occhio a Putin. «La nostra posizione in politica estera non cambia e il governo non è a rischio», rassicura la premier.
Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente di Forza Italia, chiarisce: «Siamo da sempre schierata a favore dell’indipendenza dell’Ucraina, dalla parte dell’Europa, della Nato e dell’Occidente. In tutte le sedi continueremo a votare con i nostri alleati di governo rispettando il nostro programma».
«Pessimo. Ricomincia con i suoi vaneggiamenti putiniani», twitta il leader di Azione Carlo Calenda. Parole «imbarazzanti», le definisce invece il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, Pd.
L’ex Cavaliere non è nuovo a simili sortite. Non è il primo incidente. Durante la formazione del governo, lo aveva inguaiato un audio registrato durante una riunione a porte chiuse in cui raccontava la «vera versione» del conflitto secondo cui «Putin era stato costretto a intervenire in Ucraina su richiesta delle repubbliche del Donbass dopo che Zelensky aveva triplicato gli attacchi alle frontiere ignorando i trattati». Pochi giorni dopo quell’audio, aveva raccontato di aver ricevuto come dono di compleanno da Putin «20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima» e di aver ricambiato con del Lambrusco e «una lettera altrettanto dolce», in barba ai divieti internazionali di import-export con la Russia. Dopo aver presentato le candidature per le regionali lombarde, aveva addirittura rimproverato l’Ue per il mancato ingresso della Russia nell’Unione: «Un’Europa forte con l’entrata della Federazione Russa non siamo riusciti a costruirla. Dobbiamo lavorarci».
Secondo quanto riporta il Corriere, la nuova scossa all’unità della maggioranza non arriva del tutto in attesa: per giorni Berlusconi avrebbe provato indirettamente a convincere la presidente del Consiglio a desistere dall’intenzione di mettersi in viaggio verso Kyjiv. Ma a invertire la marcia, rinunciando alla missione, Giorgia Meloni non ci pensa proprio. Ha promesso a Zelensky che andrà in visita nella capitale del Paese martoriato dai russi e vuole fortissimamente mantenere l’impegno di partire «in tempi strettissimi», possibilmente prima del doloroso primo dell’invasione che cade il 24 febbraio.
Il disagio di Meloni per le dichiarazioni di Berlusconi: 90 minuti di tensione, poi Tajani media. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023
Le parole di Silvio Berlusconi su Zelensky — «Da premier non gli parlerei» — sono fonte di tensione per il governo di Giorgia Meloni. Ma la premier assicura che sarà in Ucraina «in tempi strettissimi»
Le pallottole verbali di Silvio Berlusconi contro il presidente ucraino Volodymyr Zelensky piombano su Palazzo Chigi di domenica sera, quando le luci di Sanremo (ma non ancora le polemiche) si vanno spegnendo. La prima reazione della maggioranza è un rumoroso silenzio, telefoni sempre occupati o staccati ad arte per non parlare con i giornalisti. Imbarazzo, tensione, paura che le clamorose parole dell’ex premier possano provocare conseguenze sul voto regionale in Lombardia e Lazio o, ancor peggio, incrinare pericolosamente la stabilità del governo.
Giorgia Meloni è colpita, dispiaciuta a dir poco. A caldo, la premier confida ai ministri che le sono più vicini tutto il disagio nei confronti di un leader della sua maggioranza che sembra, sussurra un esponente di primo piano del governo, «vittima della propaganda di Mosca e delle fake news russe, che riescono a permeare le posizioni di tanti, in Italia e in Europa».
Meno di un’ora dopo che le esternazioni berlusconiane hanno preso a rimbalzare sui siti online, Palazzo Chigi batte un colpo. Una breve nota, in cui il nome di Berlusconi non compare e che in estrema sintesi rivela la distanza abissale tra la posizione del capo di Forza Italia e quella del capo dell’esecutivo. Nel ribadire che il sostegno del governo a Kiev è «saldo e convinto» Meloni mette l’alleato-avversario in fuorigioco, richiamando il programma elettorale e ricordando che la maggioranza si è espressa a favore dell’Ucraina in «tutti i voti parlamentari». Come dire che, se Berlusconi vuole restare dentro il perimetro della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre, deve muoversi nel solco atlantista di Washington, Bruxelles e Roma e deve smetterla di strizzare l’occhio a Putin. «La nostra posizione in politica estera non cambia e il governo non è a rischio», rassicura i suoi la premier.
Non è il primo incidente. E a Palazzo Chigi non è certo sfuggito che Berlusconi si era schierato platealmente con Putin già alla vigilia delle elezioni politiche. «Le truppe russe dovevano entrare e in una settimana sostituire il governo di Zelenksy con persone perbene», aveva affermato l’uomo di Arcore il 23 settembre, aprendo una polemica infinita che aveva avuto un’ampia eco anche fuori dall’Italia. Ora ci risiamo. E a quanto rivelano fonti di governo la nuova scossa all’unità della maggioranza non arriva del tutto in attesa: per giorni Berlusconi avrebbe provato indirettamente a convincere la presidente del Consiglio a desistere dall’intenzione di mettersi in viaggio verso Kiev.
A invertire la marcia, rinunciando alla missione, Giorgia Meloni non ci pensa proprio. Ha promesso a Zelensky che andrà in visita nella capitale del Paese martoriato dai russi e vuole fortissimamente mantenere l’impegno di partire «in tempi strettissimi», possibilmente prima del doloroso primo anniversario dell’invasione che cade il 24 febbraio. Affermare, come ha fatto Berlusconi, «io a parlare con Zelensky se fossi stato il presidente del Consiglio non ci sarei mai andato» è uno schiaffo difficilmente tollerabile. Come è difficile per Meloni digerire l’accusa falsa al leader ucraino di aver attaccato il Donbass, la minaccia di non mandare più le armi e la richiesta a Biden di ordinare a «questo signore» (Zelensky, ndr) di cessare il fuoco. «Il nostro sostegno all’Ucraina è granitico — rimarca il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari dopo aver affrontato la crisi assieme alla premier —. Chiarissimo è il programma di governo, chiarissima la posizione della presidente Meloni, del ministro degli Esteri e di tutti i membri dell’esecutivo».
L’allarme investe anche i ministri azzurri, i quali non si aspettavano un nuovo attacco così diretto del loro leader al capo della resistenza ucraina e alla presidente del Consiglio. Il trambusto dura novanta minuti. Meloni parla più volte con Antonio Tajani, che certo non può rompere con il fondatore di FI. Il ministro degli Esteri si attiva per ottenere il dietrofront dell’ex premier, chiama Arcore, parla con Berlusconi e lo convince a mettere nero su bianco la rassicurazione che il suo «sostegno in favore dell’Ucraina non è mai stato in dubbio».
La fibrillazione è forte, tra gli azzurri, dentro la maggioranza e nel rapporto con le opposizioni. E la sottolineatura che Forza Italia non è mai venuta meno all’adesione alla coalizione di governo — oltre che alla Nato, all’Europa e agli Usa — è la conferma di quanto ieri sera la coalizione meloniana abbia ballato sull’orlo del burrone. Sanremo, Benigni, Mattarella, Zelensky, Fedez, la tensione con i vertici della Rai. «Non ci facciamo mancare nulla», è la battuta amara di un ministro.
Da lastampa.it il 12 febbraio 2023.
«Io parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore». Lo ha detto Silvio Berlusconi dopo aver votato per le regionali lombarde a Milano.
Guerra in Ucraina, Berlusconi contro Zelensky: se fossi premier non parlerei con lui. Il Tempo il 12 febbraio 2023
Silvio Berlusconi attacca Volodymyr Zelensky. Appena uscito dal seggio elettorale, il presidente di Forza Italia si è lasciato andare a un giudizio negativo sul ruolo del presidente dell'Ucraina. «A parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio non ci sarei mai andato perchè stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore». Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi non usa mezzi termini parlando con i cronisti all’uscita del seggio, dopo aver votato a Milano per le Regionali. A pochi giorni dall’incontro tra la premier Meloni e il presidente ucraino Zelensky a Bruxelles, il Cavaliere attacca. E suggerisce: nel conflitto russo-ucraino «per arrivare alla pace penserei che il presidente americano dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli che è a sua disposizione dopo la fine della guerra con un piano Marshall per ricostruire l’Ucraina. Un piano Marshall dai 6 ai 9mila miliardi di dollari, a una condizione: che tu (Zelensky, ndr) domani ordini il cessate il fuoco, anche perchè noi da domani non vi daremo più dollari e non ti daremo più armi. Soltanto una cosa del genere potrebbe convincere questo signore ad arrivare a un cessate il fuoco».
Berlusconi: «Da premier non avrei parlato con Zelensky». Berlusconi: «Io da premier non avrei mai parlato con Zelensky. Non doveva attaccare il Donbass». Palazzo Chigi: «Convinto sostegno all’Ucraina». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023
Il leader di Forza Italia attacca dopo l’incontro tra la premier Meloni e il leader ucraino. Il governo risponde con una nota immediata: «Appoggio confermato da tutti i voti parlamentari della maggioranza»
Silvio Berlusconi vota a Milano per le Regionali in Lombardia. A sinistra: il presidente ucraino Zelensky saluta la premier Giorgia Meloni
Per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina «penserei che il signor presidente americano, Joe Biden, dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli: "È a tua disposizione, dopo la fine della guerra, un Piano Marshall per ricostruire l’Ucraina da 9 mila miliardi di dollari, a una condizione, che tu domani ordini il cessate il fuoco, anche perché noi da domani non vi daremo più dollari e non ti daremo più armi”». Perché «soltanto una cosa del genere potrebbe convincere questo signore ad arrivare ad un cessate il fuoco». Lo ha affermato oggi il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, dopo aver votato per le Regionali in via Ruffini, a Milano, rispondendo alle domande dei giornalisti in merito alla situazione ucraina.
E dopo l’incontro tra Giorgia Meloni e lo stesso Zelensky al Consiglio europeo straordinario, il leader di Forza Italia va nella direzione politica opposta: «Io parlare con Zelensky? Se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato, perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili». Il motivo? Berlusconi è categorico: «Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore».
Parole che costringono Palazzo Chigi a una immediata nota di precisazione: «Il sostegno all’Ucraina da parte del governo italiano è saldo e convinto, come chiaramente previsto nel programma e come confermato in tutti i voti parlamentari della maggioranza che sostiene l’esecutivo».
Interviene anche Mosca: «Non spetta a me giudicare e dare i voti a Berlusconi, queste sono cose che riguardano gli italiani. Mi limito ai fatti, e i fatti dicono che per otto anni, dal 2014, la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l’Occidente aveva in mente», dice all’Ansa la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando le dichiarazioni di Berlusconi. E poi: Zelensky «è ormai un’immagine usata per una campagna pubblicitaria» allo scopo di «far vedere che la Russia è cattiva e l’Occidente è buono». Sempre la portavoce di Zakharova ha poi concluso: «Ormai è un’immagine che appare ovunque, dalle partite di calcio al vostro Festival di Sanremo. È una cosa assolutamente ridicola».
Dure le reazioni dell’opposizione: «La premier Meloni è d’accordo con le parole inquietanti pronunciate da Berlusconi sulla guerra in Ucraina? — chiede polemicamente Simona Malpezzi, capogruppo del Pd al Senato —. Oggi di fatto si è schierato ufficialmente con la Russia di Putin. Con questi alleati di governo la premier non si lamenti di come viene trattata in Ue». Mentre il leader di Azione Carlo Calenda va giù duro: «Berlusconi ricomincia con i suoi vaneggiamenti putiniani, in totale contrasto con Ue, il governo di cui fa parte e il ministro degli Esteri che è anche espressione del suo partito. Pessimo».
Berlusconi trova anche il tempo per scherzare: «Ho votato per l’Inter», ha detto dopo mentre imbucava la scheda elettorale al seggio elettorale della scuola Giovanni Pascoli di Milano.
Ma a tarda sera serve una nota ufficiale di Forza Italia per provare a tappare la falla, prima che rischi di diventare una voragine politica: «Il sostegno del presidente Berlusconi in favore dell’Ucraina non è mai stato in dubbio. Ha solo espresso la sua preoccupazione per evitare la prosecuzione di un massacro e una conseguente grave escalation della guerra, senza venire mai meno all’adesione di Forza Italia alla maggioranza di governo, alla posizione della Nato, a quella dell’Europa e degli Stati Uniti».
(ANSA il 12 febbraio 2023) - "Non spetta a me giudicare e dare i voti a Berlusconi, queste sono cose che riguardano gli italiani. Mi limito ai fatti, e i fatti dicono che per otto anni, dal 2014, la Russia ha insistito perché fossero applicati gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina. Ma questo non era quello che l'Occidente aveva in mente". Lo ha detto all'ANSA la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
"La questione - ha detto Zakharova - non riguarda l'opinione dei politici italiani, ma quelli che sono i fatti. E i fatti dicono che per molti anni l'Occidente, in particolare gli Usa, hanno interferito in Ucraina per i loro interessi, non per l'interesse del popolo ucraino. Questo ha creato un'enorme crisi che è precipitata a partire dal 2014, con il secondo movimento di Maidan". Dopo di allora, ha proseguito la portavoce, l'Ucraina si è divisa tra "una parte filo-occidentale e un'altra che pensava agli interessi del proprio Paese".
"Noi russi - ha affermato ancora Zakharova - abbiamo cercato di attirare l'attenzione dell'Occidente sul fatto che il Paese si sarebbe potuto spaccare se fossero continuate le pressioni occidentali su di esso. Per otto anni abbiamo insistito per l'applicazione degli accordi di Minsk". La portavoce ha sottolineato che questa però non era l'intenzione dell'Occidente. E a questo proposito ha citato recenti dichiarazioni dell'allora cancelliera Angela Merkel e dell'allora presidente francese Francois Hollande, secondo i quali gli accordi di Minsk furono appunto un modo per dare all'Ucraina il tempo di armarsi e prepararsi a un eventuale conflitto con la Russia.
Berlusconi e le tappe dell’escalation pro Putin: dagli audio alle casse di Lambrusco. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023
Prima delle Politiche, il leader di Forza Italia disse: «Il presidente russo è stato costretto a questa “operazione speciale”»
Il suo pensiero su Zelensky e la guerra in Ucraina si era già manifestato chiaramente il 20 maggio scorso, a tavola da «Cicciotto» a Marechiaro, il ristorante con splendido affaccio sul golfo di Napoli: «Io credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin», disse Silvio Berlusconi rivolto a Marta Fascina e Licia Ronzulli, in una pausa dei lavori della convention napoletana di Forza Italia, tra un piatto di scialatielli alle vongole e un’insalata di calamari.
Il disagio di Meloni per le dichiarazioni di Berlusconi: 90 minuti di tensione
Allora al governo c’era ancora Mario Draghi e il Cavaliere si mise per la prima volta di traverso: «Per portare Putin al tavolo delle trattative non bisogna fare le dichiarazioni che sento da tutte le parti». Salvo poi, scoppiata la polemica, ribadire la sua fedeltà all’Europa, alla Nato, all’Occidente e agli Stati Uniti e dirsi d’accordo sull’invio delle armi a Kiev. Da quel giorno comunque è stata un’escalation, fino alle parole di ieri a Milano.
Il 22 settembre, alla vigilia delle elezioni che portarono Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, Berlusconi andò ospite da Bruno Vespa a Porta a Porta e rafforzò il concetto giustificando l’amico Volodia. In quell’occasione fornì per la prima volta la sua ricostruzione «revisionista» del conflitto iniziato un anno fa. «Putin è caduto in una situazione drammatica — disse — perché le due repubbliche filorusse del Donbass sono andate da lui dicendo: Zelensky ha aumentato gli attacchi contro di noi, siamo arrivati a 16 mila morti, difendici.
E Putin perciò è stato spinto a inventarsi questa operazione speciale. Ma le truppe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky e poi tornare indietro. Invece hanno trovato una resistenza imprevista poi foraggiata con armi di tutti i tipi dall’Occidente».
Una difesa a spada tratta: del resto, oltre 20 anni di feeling con il capo del Cremlino non si possono cancellare di colpo. Dal vertice di Pratica di Mare, 28 maggio 2002, quando Berlusconi fece stringere la mano a Putin e George Bush, fino alle tante vacanze trascorse insieme tra la Costa Smeralda e la dacia di Zavidovo col colbacco di pelliccia in testa. Ed ecco così che il 18 ottobre scorso, il Cavaliere si mette di nuovo a parlare a ruota libera in una riunione con i deputati di Forza Italia.
Ma l’intervento, che doveva restare riservato, viene registrato da una manina rimasta ignota e l’audio viene poi trasmesso in esclusiva dall’agenzia LaPresse: «Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Zelensky, secondo me, lasciamo perdere, non posso dirlo…».
La responsabilità della guerra, secondo lui, ricade tutta sull’uomo di Kiev. E ai deputati confida pure che quel telefono rimasto muto a febbraio, quando provò inutilmente a chiamare Putin dopo l’invasione russa, ora finalmente ha ripreso a funzionare: «Ho riallacciato con Putin che mi considera il primo tra i suoi 5 veri amici», rivela. Poi il dettaglio delle 20 bottiglie di vodka inviate da Mosca per il suo compleanno (il 29 settembre) con tanto di letterina «dolcissima» vergata dal presidente russo in persona. E infine la «dolce» missiva spedita in risposta da Arcore, accompagnata da qualche cassa di Lambrusco.
(ANSA il 13 febbraio 2023) - "Berlusconi è un agitatore vip che agisce nel quadro della propaganda russa, baratta la reputazione dell'Italia con la sua amicizia con Putin. Le sue parole sono un danno per l'Italia".
Lo dice Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, commentando a Repubblica le dichiarazioni di ieri del leader di Forza Italia. "Getti la maschera e dica pubblicamente di essere a favore del genocidio del popolo ucraino", aggiunge Podolyak citato ancora da Repubblica.
Lo scontro diplomatico. Kiev ‘bombarda’ Berlusconi, l’attacco di Podolyak al Cav: “Agitatore per conto di Putin, danneggia l’Italia”. Redazione su Il Riformista il 13 Febbraio 2023
Silvio Berlusconi? Un “agitatore vip che agisce nel quadro della propaganda russa, baratta la reputazione dell’Italia con la sua amicizia con Putin. Le sue parole sono un danno per l’Italia”. Le parole durissime sull’ex premier e leader di Forza Italia arrivano da Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che commenta così l’uscita di domenica sera del Cav sul numero uno di Kiev.
All’uscita del seggio della scuola milanese dove era andato a votare per le elezioni regionali in Lombardia, Berlusconi aveva attaccato duramente il presidente ucraino e di fatto anche la premier Giorgia Meloni e la sua linea schiacciata su Kiev.
“Io a parlare con Zelensky, se fossi stato il presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato perché stiamo assistendo alla devastazione del suo paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore”, erano state le parole di Berlusconi, che hanno provocato un caso e forte imbarazzo nella maggioranza e in particolare a Palazzo Chigi e alla Farnesina, guidata dal suo fedelissimo Antonio Tajani.
A distanza di poche ore arriva dall’Ucraina la risposta al veleno del fidato consigliere di Zelensky. “Berlusconi deve smetterla di mascherare il suo vero desiderio e dichiarare pubblicamente di essere a favore del genocidio degli ucraini. E di considerare possibile, nel 21esimo secolo, guerre di occupazione in Europa“, il commento di Podolyak a Repubblica.
Secondo il fedelissimo di Zelensky, Berlusconi “chiaramente non comprende il contesto della guerra che la Russia ha mosso in Europa e non ha alcuna influenza sull’agenda politica globale. Inoltre le sue parole ripetono il messaggio chiave della propaganda del Cremlino, che è: ‘non interferite con noi russi mentre uccidiamo gli ucraini’. Ogni persona, incluso Berlusconi, che ha il privilegio di vivere in un Paese europeo libero può ovviamente esprimere la propria opinione, persino sostenere la violenza di massa, la guerra, l’autoritarismo russo. E tuttavia penso che la sua visione misantropica causa danni alla impeccabile reputazione dell’Italia. Perché lui baratta la reputazione del vostro Paese con la sua amicizia col dittatore Putin“.
Alla freddezza della Meloni e di Fratelli d’Italia, che si sta spendendo sul campo internazionale su una posizione di deciso atlantismo, si aggiunge l’agitazione e l’imbarazzo del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Il braccio destro di Berlusconi in Forza Italia già domenica sera ha provato a “mettere una pezza” alle parole del suo leader con un tweet pochi minuti dopo le dichiarazioni del Cav.
“Forza Italia – scriveva il titolare della Farnesina – è da sempre schierata a favore dell’indipendenza dell’Ucraina, dalla parte dell’Europa, della NATO e dell’Occidente. In tutte le sedi continueremo a votare con i nostri alleati di governo rispettando il nostro programma”.
Ma gli affondi ucraini su Berlusconi non si fermano a Podolyak. Con le “assurde accuse” del leader di Forza Italia al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Berlusconi “tenta di baciare le mani insanguinate di Putin” come fece con Gheddafi e “incoraggia la Russia a continuare i suoi crimini“. Questo il commento del portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, che invece esprime “apprezzamento per la pronta risposta di Giorgia Meloni” a sostegno di Kiev.
Estratto da ansa.it
Continua, a distanza, la 'saga' tra Silvio Berlusconi e Volodymyr Zelensky. E stavolta è il presidente ucraino che affonda il colpo contro il leader di Forza Italia. "Io credo che la casa di Berlusconi non sia mai stata bombardata, mai siano arrivati con i carri armati nel suo giardino", osserva il presidente in guerra, come a dire che altrimenti il Cavaliere non avrebbe mai tuonato contro di lui pochi giorni fa.
L'eco di quelle frecciate arriva immediato ad Arcore. Monta l'irritazione, anche se è il gelo che avvolge la villa e il suo inquilino, schermando ogni commento. Un silenzio che appare ancor più pesante. Bocche cucite anche fra i fedelissimi del patriarca azzurro ma a nessuno sfugge il contesto di quelle dichiarazioni. […]
Estratto da michelesantoro.it il 22 febbraio 2023.
Marcello Dell’Utri è stato condannato definitivamente in Cassazione a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’intercettazione Berlusconi-Dell’Utri su Mangano il commento dei due sulla bomba che l’ex stalliere d’eccezione avrebbe piazzato davanti ai cancelli della villa dell’ex premier.
Intercettazione Berlusconi-Dell’Utri su Mangano
Berlusconi: Pronto?
Dell’Utri: Pronto!
B: Marcello!
D: Eccomi!
B: Allora, è Vittorio Mangano…
D: Eh!… Che succede?
B: …che ha messo la bomba!
D: Non mi dire!
B: Si.
D: E come si sa?
B: Eh, da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza.
D: Ah!
B: è fuori…
D: Ah, è fuori?
B: Si, è fuori.
D: Ah, non lo sapevo neanche!
B: E questa cosa qui, da come l’ho vista fatta, con un chilo di polvere nera
D: Ah!
B: Una cosa rozzissima
D: Ah!
B: .Ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto
D: Ah!
B: è stata data soltanto sulla cancellata esterna
D: Ah!
Estratto dell’articolo di Luca Bottura per "La Stampa" il 22 febbraio 2023.
Simpatico evento artistico ieri a Kiev: subito dopo le parole di Volodymir Zelensky sul filoputinismo di Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni ha imitato perfettamente il Monte Rushmore.
La presidente del consiglio era così affranta, dopo le parole del presidente ucraino, che persino Letta l'ha chiamata per tirarle su il morale.
Zelensky a Berlusconi: "Non gli hanno mai bombardato casa". La risposta: "Si, ma a Villa Certosa avevo un vulcano attivo in giardino"
La battuta su Berlusconi che, secondo Zelensky, Berlusconi prima o poi sarebbe inevitabilmente finito a Putin, è così facile e sciocca che manco vale la pena di scriverla.
Curiosamente pare che in Ucraina, quando dici una serie continua, indefessa, non smentibile di frasi a favore di un dittatore sanguinario, ne sostieni gli interessi, gli garantisci amicizia a vita, ti ridano in faccia quando sostieni di essere filo-atlantista. Sarà perché a Kiev non arriva Rete 4.
[…] Meloni ha portato in regalo a Zelensky il più avanzato sistema mondiale per impedire agli aerei russi di alzarsi in volo: il Cda di Ita.
Berlusconi: io offeso da Zelensky. E Mosca interviene per difenderlo. Paola Di Caro su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023
Il leader di Forza Italia offeso per le parole «irridenti» di Zelensky: resta convinto che, anche se il sostegno all’Ucraina «non è in discussione», le responsabilità del conflitto siano «da entrambe le parti». Il ministero degli Esteri russo: attaccato perché ha ricordato il Donbass
L’operazione estintore, per ora, funziona. Nonostante la forte delusione, l’irritazione, la voglia di ribadire le sue ragioni a Zelensky — che gli sta per così dire ogni giorno meno simpatico — Silvio Berlusconi non replica al presidente ucraino. I suoi ritengono sia meglio «spegnere l’incendio» e «chiudere il caso», pur consapevoli che «alla fine decide lui...». Mercoledì sera però, anche se il suo primo istinto era stato quello di rispondere a tono tanto che una nota era in preparazione, alla fine ci ha ripensato. Se convinto dai consiglieri più stretti non si sa, di certo finora non c’è stato contatto diretto con Giorgia Meloni.
Raccontano che non è tanto per quello che lei ha detto in conferenza stampa che ce l’ha, anche se forse qualcosa di più poteva farlo, piuttosto del fatto che «di uno con la mia grande esperienza di governo e di rapporti internazionali» Meloni non si sia avvalsa per consigli o indicazioni. Che non l’abbia mai consultato, insomma. Con Zelensky è invece proprio arrabbiato. Soprattutto, pare, per averlo quasi irriso in interviste a quotidiani italiani: «Forse dovrei mandargli delle bottiglie di vodka come fa Putin...». Quella era stata «una vera e propria offesa», si lamenta Berlusconi. Sul discorso invece in cui Zelensky dice che lui non capisce perché non gli è mai stata «bombardata la casa», il leader azzurro si indigna: «Io l’ho conosciuto eccome l’orrore della guerra, i bombardamenti, ho dovuto lasciare la mia casa, ho sofferto la fame, subito la lontananza di mio padre... Questo signore non sa nulla di me», ripete.
E il forzista Fabrizio Sala: «Più che dare una stoccata, direi che il presidente Zelensky ha preso una stecca...». Berlusconi in pubblico quindi tace ma continua ad essere convinto che, anche se il sostegno all’Ucraina «non è in discussione», le responsabilità del conflitto siano «da entrambe le parti», e oggi servirebbe impegno di tutti per la pace: «Sono stato il primo a parlare di piano Marshall per l’Ucraina». Ma le sue parole vengono utilizzate anche in Russia: ieri la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha attaccato così Zelensky: «In un altro impeto di rabbia impotente, l’abitante del bunker ha attaccato Berlusconi, che aveva ricordato al regime di Kiev il Donbass». E dopo aver anche lei assicurato che Berlusconi da bambino ha vissuto la guerra, ha aggiunto: «Così Zelensky ha confrontato il suo regime con quello fascista e l’operazione militare speciale con l’azione degli alleati durante la Seconda guerra mondiale. Gli è scappata la verità».
La situazione resta delicata insomma, il ministro degli Esteri Antonio Tajani oggi all’Onu dovrà rivendicare l’appoggio dell’Italia all’Ucraina senza delegittimare il suo leader, mentre FdI invierà una propria delegazione all’ambasciata ucraina per testimoniare sostegno. In questo clima, fanno quindi rumore le parole del capogruppo leghista Massimiliano Romeo che, nel silenzio del suo partito, lancia un avvertimento: «È giusto sostenere l’Ucraina anche a livello militare, tanto è vero che abbiamo votato tutti i provvedimenti. Poi attenzione a non inviare armi che rischino di trascinare l’alleanza atlantica in un conflitto diretto con la Russia. Perché questo vorrebbe dire far scoppiare la guerra nucleare. Ci vuole prudenza. Usiamo la ragione e usiamo meno la propaganda bellicistica».
Meloni: Zelensky su Silvio Berlusconi non voleva accendere micce. Italia affidabile grazie a FdI. Monica Guerzoni su il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023
La premier: non è stato aggressivo, poteva dire cose ben più pesanti
Alle nove e mezzo del mattino, in terra polacca, Giorgia Meloni scende con le sneakers ai piedi dal vagone di testa dello stesso treno su cui ha viaggiato Joe Biden, sale sull’aereo di Stato diretto a Roma e finalmente si addormenta. «Ero stanchissima, eppure non ho chiuso occhio per tutta la notte», racconta. Non tanto per le parole che, a distanza e in favor di telecamere (italiane e ucraine), Volodymyr Zelensky ha rivolto a Silvio Berlusconi, quanto per l’importanza e la delicatezza della sua prima missione a Kiev. La distruzione che ha visto a Irpin, la commozione che ha provato sull’orlo della fossa comune di Bucha e i ringraziamenti che ha ascoltato dal capo della resistenza ucraina l’hanno ancor più convinta che la linea dell’Italia a sostegno del Paese aggredito da Mosca «è quella giusta». E che la guerra di Putin, con i peluche accanto alle foto e ai fiori sulle tombe dei bambini, «non ha senso».
Tornata a Palazzo Chigi e accolta dall’ennesima polemica politica, Meloni risponde «a quanti vogliono per forza attaccarci» ricordando che il nostro Paese, anche dopo il governo di Mario Draghi, ha avuto sull’aggressione del Cremlino all’Ucraina «una posizione chiarissima» da subito: «Grazie a Fratelli d’Italia, abbiamo dimostrato di essere un partner serio, affidabile, credibile. È quello che volevo, perché è il modo migliore di difendere gli interessi nazionali. Una nazione coraggiosa e affidabile, che non tentenna sulla politica estera». E questo, lei ne è convinta, il presidente Zelensky e il suo popolo lo riconoscono: «Lo dice l’accoglienza non solo delle istituzioni, ma dei cittadini comuni, lo hanno detto le persone che ci aspettavano con i cartelli sotto ai palazzi bombardati». Ad averla colpita, oltre alla fermezza di Zelensky e alla resistenza degli ucraini, è stata «l’attenzione delle persone normali, una cosa che mi ha molto commossa». Sulle prime la risposta di Zelensky alle domande su Berlusconi, il leader di un partito della sua maggioranza, sembrava averla spiazzata, persino gelata. E invece no. «Non sono irritata — assicura la presidente del Consiglio —. Trovo che alcune letture della conferenza stampa siano fuori dal mondo. Quando gli hanno chiesto di Berlusconi, Zelensky ha tentato di gettare acqua sul fuoco. Poteva dire cose ben più pesanti».
Il presidente ucraino ha dichiarato davanti alla stampa, nella sede più ufficiale possibile, che l’ex premier italiano mai si è trovato i carrarmati russi nel giardino, mai ha avuto la casa bombardata, mai gli sono stati uccisi parenti, mai sua moglie è stata costretta a rischiare per procurare il cibo per la famiglia... Davvero poteva essere più pesante di così? «Non erano parole aggressive — continua la premier — Zelensky ha provato a spiegare alla gente comune che ti ci devi trovare per capire cosa stanno vivendo gli ucraini. Non voleva certo accendere una miccia». Insomma, per lei non è stato uno schiaffo? «No, tutt’altro. Il presidente ucraino ha premesso che lui rispetta le posizioni diverse, quindi anche quella del fondatore di Forza Italia. Ma poiché la domanda è stata reiterata più volte, da giornalisti italiani e ucraini, lui ha risposto e ha detto "ti ci devi trovare". Poteva dire cose ben più pesanti e non lo ha fatto». Insomma, a irritarla non sono le ruvidissime critiche di Berlusconi, pronunciate ormai diversi giorni fa, né la reazione di Zelensky che ha provocato molto clamore anche fuori dai confini, ma piuttosto sono alcuni commenti «surreali» che la conferenza stampa congiunta di Kiev ha suscitato in Italia, in Parlamento e sulla stampa.
La premier, come ha confidato anche a esponenti del governo a lei molto vicini, è delusa dal tentativo di molti, non solo nei partiti di opposizione, di sminuire la portata della sua visita nella capitale ucraina. Una missione che, a suo giudizio, ha avuto e avrà «esiti molto concreti, su vari fronti». Dagli aiuti umanitari alle forniture militari, dall’impegno italiano per la ricostruzione all’offerta di «ragionare su come far lavorare insieme Roma e Odessa», entrambe candidate per Expo 2030. Per Giorgia Meloni insomma la giornata di martedì a Kiev, nelle stesse ore dei discorsi al mondo di Putin e di Biden, è andata bene davvero. Anche e soprattutto sul piano della politica internazionale. Perché il governo è riuscito «a tenere la barra dritta in politica estera» nonostante il nostro Paese abbia, lo confermano i sondaggi, l’opinione pubblica più divisa dell’Occidente e con il sostegno più basso alla causa di Kiev. «E questo lo ha capito benissimo Zelensky, che ci ha pubblicamente ringraziati e ha mostrato grande apprezzamento. E lo hanno capito anche i cittadini ucraini». I quali forse non possono comprendere come e quanto i vertici di Fratelli d’Italia, a cominciare dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, siano «orgogliosi» di aver alzato un muro per fermare la «tentazione al disimpegno» nei confronti dell’Ucraina, che si avverte anche nella Lega.
Il mio eroe antipatico. Massimo Gramellini su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023
Signor Zelensky, non credo che avrà né il tempo né la voglia di ascoltare i mugugni di uno scribacchino che allo scoppio della guerra, un anno fa, le dedicò questo elogio: «L’uomo che si è spostato da un set a un bunker senza mai smettere di essere il Presidente: prima per finta e poi sul serio, in un crescendo che dal comico è passato al drammatico e adesso sfiora addirittura l’epico».
Come tanti altri italiani non ho cambiato idea, continuo a considerare eroica la sua decisione di resistere sotto le bombe e a non condividere la posizione di chi, proclamandosi equidistante, in nome del quieto vivere accetterebbe di darla vinta a Putin.
Però proprio il fatto di averla sempre sostenuta mi spinge a darle un affettuoso consiglio non richiesto. La smetta di farci sentire perennemente in colpa, che è l’atteggiamento tipico dei manipolatori.
E la smetta di considerare tutto per dovuto, mostrando di sottovalutare le conseguenze che certe sue parole hanno sui suoi amici. Per esempio, quando durante la conferenza stampa ha sparato a palle incatenate contro l’ingestibile Berlusconi, ha pensato per un attimo che stava mettendo in imbarazzo un governo alleato?
Le ragioni che la spingono a sovraesporsi sono più che comprensibili, ma le assicuro che dopo un anno cominciano a sortire l’effetto opposto.
Presidente Zelensky, lei rimane il mio eroe, ma corre il rischio di diventare meno popolare della causa del suo popolo. E sarebbe un vero peccato.
Forza Italia! Berlusconi, Zelensky, il concorso esterno in associazione putinista, e noi. Christian Rocca su L’Inkiesta il 13 Febbraio 2023
Le ripugnanti fandonie dell’ex capo del centrodestra contro il presidente ucraino sono il finale tragico di una storia italiana, cui è arrivato il momento di mettere un punto. Un appello ai figli, agli amici e alle badanti del disorientato ex leader di Arcore
La Russia è il paese che ama. Lì Silvio Berlusconi non ha le sue radici, ma forse le sue speranze e i suoi orizzonti, perché in fondo soltanto gli amici criminali del Cremlino possono ancora fingere di dargli ascolto.
Gli occidentali che pendevano dalle labbra della propaganda russa, in Unione Sovietica venivano chiamati «utili idioti», oggi il paradosso è che a guidare questo preciso girone di babbei italiani ci sia l’ex imbonitore della rivoluzione liberale, sceso in campo trent’anni fa perché non voleva vivere «in un paese illiberale».
Conoscere le ragioni della grottesca fascinazione berlusconiana per Vladimir Putin è importante (lettone a parte), ma mai quanto evitare che questo flagrante concorso esterno in putinismo possa creare ulteriori danni alla credibilità internazionale dell’Italia e all’incolumità del favoloso popolo ucraino che si difende con coraggio ammirevole dalle tenebre nazibolsceviche di Putin.
Le oscene dichiarazioni berlusconiane contro il presidente ucraino Volodomyr Zelensky, indicato come il responsabile della guerra in Ucraina e non come la vittima, sono una tragedia nazionale e un imbarazzo perfino per l’attuale, maldestro, governo di destra (senza considerare quanto le parole di Berlusconi siano diventate indistinguibili da quelle di Travaglio, di Santoro e dei pochi nostalgici del comunismo).
L’Italia è stata certamente contagiata dal putinismo, una patologia che ci espone alle due grandi tragedie del Novecento, ma non è ancora diventata una distopia prodotta dalla fabbrica dei troll di San Pietroburgo.
Oltre a Retequattro, alle agiografie di Putin firmate per Mondadori dall’attuale ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e alla stravagante università berlusconiana di Villa Gernetto che affida acrobaticamente la lectio magistralis sulla libertà proprio a Putin, esiste anche un’altra Italia. Un’Italia senziente e responsabile che aiuta il governo di Kyjiv a resistere all’aggressione imperialista russa e che lo fa insieme con gli alleati europei e occidentali.
L’Italia non è quella di Berlusconi (o di Salvini o di Conte), l’Italia è quella del ventottenne cantante milanese Tananai che è stato capace di orchestrare una raffinata operazione politica e culturale per portare al Festival che si è reso ridicolo su Zelensky una canzone d’amore dedicata agli ucraini che si battono contro la barbarie russa. «Noi non siamo come loro», canta Tananai in “Tango”. Non siamo come loro, dicono gli ucraini dei russi. Non siamo come loro, come gli «utili idioti» di Putin, nemmeno noi italiani.
I figli, gli amici e le badanti di Silvio Berlusconi intervengano, mettano un punto a questo strazio. Abbiano pietà di lui, e di tutti noi.
Forza Italia!
Baci sinistri in bocca. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2023.
Tra i vantaggi del vivere a lungo vi è quello di fare in tempo ad assistere alla propria beatificazione: non da parte degli amici, spesso ingrati, ma dei nemici. Nessuno in Italia ha collezionato più odio di Silvio Berlusconi: a sinistra gli hanno veramente detto e augurato di tutto. Anche la sua amicizia con Putin è stata oggetto di allusioni oscillanti tra l’affaristico e il pecoreccio. Poi è arrivato l’amerikano Zelensky, con quella sua idea assurda di non volersi arrendere alla prepotenza del più forte. E il quadro è miracolosamente cambiato: Santoro, per dire, che contro Berlusconi aveva costruito decine di requisitorie televisive fino a diventarne o comunque a sentirsene una vittima, da quando Silvio fa il portavoce di Putin gli ha riconosciuto un cambio di passo da statista. E l’altra sera, da Giletti, persino un comunista rotto a tutte le intemperie come Vauro, che nelle sue vignette ritraeva Berlusconi nei panni del mafioso, è arrivato a dire che lo avrebbe baciato volentieri sulla bocca come i due cantanti che hanno fatto scandaletto a Sanremo. Ma, almeno nel caso di Vauro, l’amore non c’entra: per lui Zelensky è un nemico di classe ancora più detestabile di Berlusconi. Perciò si fa fatica a vederlo nei panni di Rosa Chemical. Meno a immaginare Berlusconi in quelli di Fedez, trattandosi di due furboni con un talento naturale nel mettersi al centro dell’attenzione pur di oscurare le donne, siano esse la premier o la moglie.
Estratto da liberoquotidiano.com il 13 febbraio 2023.
Vauro, ospite di Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, nella puntata del 12 febbraio, si schiera dalla parte di Silvio Berlusconi: "Tra un po' Zelesnky ce lo troviamo sul citofono. Non perdiamo di vista Berlusconi. Se fosse qui lo bacerei in bocca, perché ha detto la sacrosanta verità. Non so per quale motivo ma ha detto la sacrosanta verità su questa guerra drammatica, tragica.
Ha detto che sicuramente c'è un invasore da condannare, Putin, ma c'è anche un pupazzo presidente che sta facendo massacrare il suo popolo per gli interessi americani e noi gli andiamo dietro come pecoroni", attacca il vignettista. "E se ci sarà una escalation e si arriverà a usare le armi nucleari tattiche esploderanno nei nostri Paesi", avverte Vauro, "perché noi abbiamo chiuso gli occhi per otto anni sul Donbass". […]
Estratto dell’articolo di Federico Novella per “La Verità” il 13 febbraio 2023.
Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera e già segretario di Rifondazione Comunista: che impressione le ha fatto la standing ovation tributata a Zelensky dal Parlamento europeo?
«È stato uno spettacolo un po’ deprimente. L’Europa ha smarrito il senso di sé. Di fronte alla globalizzazione capitalistica, ha perduto quella tensione avuta nel dopoguerra tra l’appartenenza all’Alleanza atlantica e una certa vocazione all’autonomia. Dopo la colpevole invasione russa dell’Ucraina, quest’Europa ha creduto che Mosca fosse isolata, e che il mondo si identificasse nella risposta militare. Ma non è così: tanta parte del mondo la pensa diversamente, e ogni mese si aggiunge un tassello nuovo, nell’area asiatica e in quella africana».
Dunque l’Europa non è autonoma?
«È succube della Nato e della guida americana. Anche questa enfatizzazione di Zelensky la trovo contraddittoria, rispetto a un’istanza di trattativa per la pace che dovrebbe essere il motore dell’iniziativa europea. Insomma, io capisco il tributo di solidarietà a Zelensky: ma questa solidarietà non può trasformarsi in miopia politica. Cioè nell’incapacità di capire che l’unica soluzione possibile in questa contesa è la pace […]».
Però ammetterà che siamo in guerra perché c’è un colpevole: Vladimir Putin.
«[…] Dopo la guerra fredda doveva venir meno la ragion d’essere della Nato. […] è un fatto che la Nato abbia manifestato una tendenza a espandersi fino ai confini della Russia.
Covava nell’impero di Putin un’antica istanza permanente: quella della “grande Russia”, che si esprimeva con la richiesta legittima di essere riconosciuta come una potenza mondiale e non regionale. La strategia del contenimento dettata dall’Alleanza atlantica, invece, generò delle frizioni. Fino alla scelta, sciagurata, di Putin».
[…] Tornando all’oggi: considera il leader ucraino un prodotto mediatico?
«Sì, come tutto, del resto. Zelensky non è l’eccezione, è la regola. Guy Debord parlò tanti anni fa della “società dello spettacolo”. Oggi vi siamo immersi. Persino la tragedia della guerra è raccontata con il linguaggio dello spettacolo».
Berlusconi e lo Sport.
Estratto dell’articolo di Monica Colombo per “il Corriere della Sera” giovedì 24 agosto 2023.
Carlo Pellegatti, icona per i milanisti e padre della generazione dei telecronisti tifosi, quando si è celebrato il suo battesimo a San Siro?
«Il 7 ottobre del 1956, avevo sei anni. Milan 3-Napoli 5, era la squadra di Schiaffino e Buffon. Ma il ricordo più vivido da bambino è legato all’invasione di campo dopo Milan-Udinese del ‘59 per festeggiare il settimo scudetto della storia».
Chi le ha trasmesso la passione che ha segnato la sua vita?
«Mio papà Gianni, che era un rappresentante di mobili. Ricordo ancora il profumo di teak e palissandro dei soprammobili che erano di moda. […]».
Che tipo di famiglia è stata la sua?
«[…] Ogni sabato, dopo il cinema in centro, andavamo da Peck. Mio padre è mancato un venerdì di fine dicembre del 1975. I miei amici per scuotermi dal dolore mi convinsero ad andare a vedere il Milan con loro. Il 4 gennaio del 1976 vincemmo a Como 4-1, fu il primo successo senza mio papà». […]
Quando incrocia il microfono per la prima volta?
«Era il 1981 e Video Delta aveva acquistato i diritti per le telecronache in differita del Milan. Mi proposi e mi presero per le partite in casa. Sa chi raccontava le gare dei rossoneri in trasferta? Nicolò Carosio».
Poi?
«Trascorsa la stagione con il Milan in B, che ho seguito da tifoso, mi sono proposto a Radio Panda che mi pagava 20 mila lire a radiocronaca: suggerii di versarmi l’intero importo a fine campionato così che mi sembrasse una paga superiore. E poi a Radio Peter Flowers: la leggenda narra che all’epoca Silvio Berlusconi chiedesse di abbassare il volume della telecronaca classica per sovrapporre la mia voce».
Quando arrivano i primi riconoscimenti?
«Nel 1985 quando inizio a lavorare per la mitica “Qui studio a voi stadio” su Telelombardia e la trasmissione vince il Telegatto».
Quando avviene il passaggio a Mediaset?
«Nel 1991 con un contratto di collaborazione, ma a Marino Bartoletti chiesi di poter continuare con le radiocronache. Nell’estate del ‘92 ho avuto con colloquio con Adriano Galliani, all’epoca ad di Mediaset».
Il primo soprannome che ha dato?
«Collo d’acciaio a Mark Hateley».
È vero che fu Silvio Berlusconi a volerla nella sua tv?
«A lui devo tanto. Ogni volta in cui ci incontravamo ci veniva naturale abbracciarci. Nel 2007, dopo la vittoria nella finale di Yokohama, Sandro Piccinini lo invitò a Controcampo e lui disse: “Carlo Pellegatti è un valore aggiunto per il Milan”».
Era un editore presente anche nel quotidiano?
«Prima dell’impegno in politica si informava su tutto. Per darle l’idea: bordocampo nell’amichevole fra la squadra all’epoca diretta da Capello e il Modena di Frosio. Poiché quest’ultimo era gentilmente prodigo di spiegazioni, mi ero dilungato nella lettura tattica della partita degli avversari. All’intervallo la regia mi riferisce della telefonata del presidente: “Avvisate Pellegatti che ai telespettatori non interessa del Modena”».
Ha mai ricevuto richieste strane dai giocatori?
«I desideri di George Weah non hanno eguali. Prima aveva iniziato pregandomi di creare dei Vhs con le sue partite e di inserire al momento dei suoi gol la mia radiocronaca con la musica di Bob Marley. Ma fin lì era una pretesa accettabile».
E poi?
«Un giorno arrivò con un borsone a Milanello. “Carlos, cassetta”. Dentro c’erano 60 Vhs che riproducevano le gare dell’Invincible Eleven e del Tonnerre Yaoundè, le prime squadre in cui aveva giocato. Giocatori sconosciuti, numeri di maglia invisibili. Mi chiese di fare la stessa opera».
E lo fece?
«Certo, poi lo scorso anno durante il derby suona il telefono. Guardo il cellulare, era George. Mi invitava a Monrovia per la festa dei 200 anni della Liberia”.
Lo sport praticato però è un altro?
«Il tennis, ho vinto una cinquantina di coppe. Prima le tenevo tutte in camera, dopo il matrimonio Antonella le ha spedite in solaio».
Sua moglie come vive questo suo entusiasmo fanciullesco?
«Guardi qui ho tutti i Forza Milan dal 1963, una collezione di biglietti, abbonamenti e memorabilia del Milan. Ho 300 cassette betacam dei miei film preferiti e dei video musicali. È sempre stata collaborativa. Ci siamo sposati nel 1992 nella chiesa di San Carlo in corso Vittorio Emanuele. Al momento del “Vuoi tu..?” è svenuta, e faticosamente abbiamo portato a termine la cerimonia. Ci siamo sposati di giovedì, eh».
E il viaggio di nozze?
«A Udine la domenica successiva per un bel 0-0».
Estratto dell'articolo di Fabrizio Biasin per Libero Quotidiano il 19 Giugno 2023.
Sapessi com’è strano, sentir parlar l’Ernesto, di Silvio, a Milano. La metrica è andata a farsi benedire, ma il senso c’è eccome. Alla serata andata in scena giovedì in onore dei 58 anni della sua azienda, l’ex presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini ha radunato la bellezza di 400 persone- tra gli altri gli ex calciatori nerazzurri Beppe Baresi, Aldo Serena e Nicola Berti, ma anche i cantanti Fausto Leali, Gianna Nannini e Nicola Di Bari, oltre al direttore di Libero Alessandro Sallusti, Beppe Marotta, Alessandro Antonello, Paolo Scaroni, Massimo Moratti e molti altri e raccontato meravigliosi aneddoti.
Il più bello? Quello dedicato a Silvio Berlusconi. Così Pellegrini: «Da presidente dell’Inter mi ero assicurato l’acquisto di Bergkamp, considerato il più forte giocatore al mondo, e di un altro olandese, Jonk, e poi gli italiani Paganin, Festa e Dell’Anno.
Eravamo una corazzata. Eppure il club non andò bene in campionato (13° posto ndr) ed io, nonostante la vittoria della Coppa Uefa, entrai in crisi. Berlusconi, che era diventato da poco presidente del Consiglio, mi inviò una lettera di “soccorso”, vergata a mano, dove esprimeva tutta la sua amicizia e vicinanza». Quindi il colpo di scena: «...La lettera si chiudeva con “viva l’Inter”». Era il giugno del 1994. In fondo non c’è da stupirsi, per il Cav il successo personale è sempre stato la Stella Polare, ma non se associato alle difficoltà degli altri, soprattutto se “gli altri” erano i “cugini”
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Dagospia il 14 giugno 2023. Da Radio 2 – I Lunatici
Vittorio Cecchi Gori è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in onda dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30.
Cecchi Gori ha ricordato Francesco Nuti: "Con Francesco avevo un bellissimo rapporto e bei ricordi. Sia personali che professionali. E' stato male poco dopo aver prodotto 'Occhiopinocchio', quel film che tante burrasche ci ha creato. Peccato, avrebbe potuto dare ancora molto. Io ho prodotto tanti suoi successi, tutti bei film. Nuti era amico di tutti. Di Verdone, di Troisi. Lui ha avuto una delusione sentimentale che forse ha creato le premesse di quello che è successo.
Rimase male da questa delusione sentimentale, iniziò a bere e il bere gli è stato fatale. Io gli volevo bene, lo volevo anche aiutare, ma non è facile se non trovi la forza da solo di correggerti. 'Occhiopinocchio' costava troppo e non finiva mai. Poi siamo riusciti a finirlo ma si vedeva che aveva qualche lacuna. Nuti era un grande attore, la sua dipartita fisica ci ricorda ancora di più quello che è stato. Non è stato sottovalutato, è uscito dai giochi troppo presto. Valeva come Benigni e Verdone. Era sensibile, divertente, un attore hollywoodiano. Il primo incontro con Nuti? Credo a Roma, andai a vederlo a teatro. L'ho conosciuto a Roma, non a Firenze".
Sul Silvio Berlusconi: "Abbiamo collaborato insieme trent'anni. Facemmo anche una società insieme: noi producevamo i film e lui prendeva la fruizione televisiva. Per me è stato il più grande imprenditore che abbiamo avuto. Per il cinema si affidava a noi, riusciva a capire quando uno era bravo, lo riconosceva e ci si affidava. Il nostro sodalizio fece la fortuna di tutti: le sue televisioni ebbero tanti film di qualità, noi avevamo la sicurezza della fruizione televisiva e anche quello ci ha potenziato e tutto andò a vantaggio del cinema italiano, che ha vissuto vent'anni meravigliosi. E' stato un miracolo che avrebbe dovuto durare di più. I rapporti miei con Berlusconi erano buonissimi. Poi purtroppo gli anni passano ed è arrivato internet... . Con Berlusconi non ho mai parlato di politica, lui per prima cosa era un grande imprenditore. Era un fuoriclasse in questo campo, me lo ricordo, era un incantatore".
Sui rapporti tra presidenti, quando Cecchi Gori era presidente della Fiorentina e Berlusconi presidente del Milan: "Quando prendemmo la Fiorentina Berlusconi ci incoraggiò, poi le cose sono un po' cambiate. Mi chiedeva sempre Rui Costa, ma non glie l'ho dato. Lo prese alla fine quando mi levarono di mano la Fiorentina. Mi ricordo una volta ero ad Arcore da lui e vennero a trovarlo Gullit, Riijkard e Van Basten che erano in scadenza di contratto. Lui mi diceva 'questi vengono a chiedermi un sacco di soldi'. Lui ci si mise a parlare, sentii anche le voci alzarsi, poi concluse un accordo. E io gli dissi che aveva fatto bene, tanto quei tre lì non li avrebbe più trovati. Aveva ad Arcore tutte le Coppe dei Campioni, le teneva nel seminterrato. Sul calcio alla fine gli ho dato fastidio, stavo per vincere il campionato nell'anno in cui lo vinse il Milan. Batistuta non me l'ha mai chiesto, lui voleva Rui Costa".
Da video.gazzetta.it il 12 giugno 2023.
Il video risale al termine della stagione 2015/2016. Berlusconi, deluso dai risultati del suo Milan, attaccò aspramente i giocatori: "Non possiamo fare queste figure. Se giocate così non vi pago. Provate a farmi causa: i processi durano otto anni".
(ANSA il 12 giugno 2023) "Non ho avuto molte occasioni di incrociare Silvio Berlusconi, nel mondo del calcio, non ero al Milan....Dispiace per la sua scomparsa. Tutto il resto è passato". Dino Zoff, il Mito del calcio italiano, al telefono con l'ANSA para ogni possibile rievocazione delle dimissioni che nel 2000 rassegnò da ct della nazionale, a causa delle critiche rivoltegli da Silvio Berlusconi, allora presidente Milan, per la finale dell'Europeo persa con la Francia dopo il golden gol di Trezeguet. "Ha cambiato il calcio? Non lo so - aggiunge Zoff -, non so in che senso. Ha avuto una squadra che ha contribuito a far vincere tanto, come ha vinto tanto la Juventus. Il calcio si cambia nell'ambito di queste vittorie".
I giocatori del primo Milan di Berlusconi, che fine hanno fatto. Simone Golia su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
Il 14 settembre 1986 il Milan di Berlusconi giocava la sua prima partita contro l’Ascoli: 37 anni dopo, che fine hanno fatto gli 11 titolari di allora?
Milan-Ascoli, 14 settembre 1986
La prima partita di 31 anni ricchi di trionfi, in realtà, fu un incubo. Campionato 1986/87, 14 settembre. Qualche mese prima il Milan, accompagnato dalla Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner, era atterrato tra i cori dei tifosi sul prato dell’Arena Civica. Preludio di un’era fatta così, ricca, di successo. Ma quella prima giornata di serie A contro l’Ascoli, davanti ai 60mila di San Siro, termina con una sconfitta clamorosa considerando il mercato estivo affrontato senza badare a spese. Gli ospiti si impongono 1-0, gol di Massimo Barbuti, allora ventottenne, che con un semi pallonetto da fuori area beffa il portiere avversario. Una rete che gli fruttò 8 milioni di lire, a tanto ammontava il premio partita pagato dall’incredulo Costantino Rozzi, vulcanico presidente dell’Ascoli. Ma cosa fanno oggi, 37 anni dopo, i primi titolari del Milan di Berlusconi?
Giovanni Galli
A guardare quella palla rotolare dentro la porta c’è Giovanni Galli, considerato fra i migliori portieri italiani degli anni 80. Col Milan giocherà fino al 1990, vincerà tutto in Italia e in Europa, uno scudetto e due Champions per esempio. Da lì Napoli, Torino, Parma, Lucchese. Dopo il ritiro ha ricoperto incarchi dirigenziali con Foggia, Fiorentina, Real e Verona (sua la felice intuizione di Jorginho, preso per 50mila euro e venduto al Napoli per diversi milioni).
Franco Baresi
Prima dell’avvento di Berlusconi, Franco Baresi era già campione del Mondo con l’Italia ma col suo Milan (squadra di cui è stato capitano e leggenda) aveva vinto solo uno scudetto (78/79) e una Mitropa (81/82), cioè niente se si pensa a quello che festeggerà dopo. Lui, che era rimasto anche negli anni della B, arriverà sul tetto del mondo. Il 28 ottobre 1997, nella partita di addio al calcio, Berlusconi gli consegna un simbolico Pallone d’Oro «per colmare l’unico vuoto rimasto in una bacheca stracarica di trofei». Ritiratosi a 37 anni, Baresi è stato dirigente del Milan oltre che allenatore di Primavera e Berretti. Il 28 ottobre 2020 la nuova proprietà Elliott lo nomina vicepresidente onorario.
Dario Bonetti
Dario Bonetti, che detiene ancora il record di giornate di squalifica in A (39), è stato fra i primi acquisti di Berlusconi, che lo prende dalla Roma, con cui nel 1984 ha giocato e perso la finale della Coppa dei Campioni contro il Liverpool. La stagione 86/87 per lui è sfortunata per i tanti infortuni e a fine anno decide di lasciare per trasferirsi al Verona. Dopo il ritiro diventa allenatore e gira il mondo. Dalla nostra serie D allo Zambia, con cui nel 2011 centra una storica qualificazione in Coppa d’Africa. L’ultima esperienza è alla guida della Dinamo Bucarest, da cui viene esonerato nel settembre 2021.
Paolo Maldini
Da pochi giorni Paolo Maldini non è più il direttore tecnico del Milan, con Cardinale e il club che hanno sposato nuovi principi su cui basarsi. Da dirigente ha fatto quello che gli era riuscito da calciatore, cioè vincere. Lo scudetto della passata stagione, la semifinale di Champions raggiunta in questa: «Quando Berlusconi arrivò al Milan, non era conosciuto come oggi — aveva ricordato l’ex difensore a Muschio Selvaggio — ci fece sognare col progetto, ma qualche dubbio lo avevamo. Nel 1994, prima dell’inizio della stagione, ci disse che avremmo avuto tre obiettivi. Vincere il campionato, vincere la Champions e che lui doveva diventare presidente del Consiglio. E come è andata? Abbiamo vinto il campionato, la Champions e lui è diventato Premier».
Mauro Tassotti
Da giocatore, insieme a Baresi, Maldini e Costacurta, Mauro Tassotti ha composto una delle migliori linee difensive della storia del calcio, consentendo al Milan di stabilire il record assoluto di partite consecutive senza sconfitta (58) nei cinque principali campionati europei. Ha giocato in rossonero per 17 anni, dal 1980 al 1997. Poi è stato dirigente e allenatore fino al 2016 (36 anni consecutivi da tesserato dunque, un record). Nel 2021 ha seguito da vice Shevchenko sulla panchina del Genoa (lo aveva affiancato anche su quella della Nazionale ucraina).
Ray Wilkins
Capitano del Chelsea a soli 19 anni, Ray Wilkins arriva al Milan nel 1984 dopo le cinque stagioni al Manchester United. Pupillo di Liedholm («Con lui sembra di giocare in 12»), perderà sempre più spazio con l’avvento di Berlusconi e Capello, tanto da salutare tutti nel 1987. Neanche un trofeo per il centrocampista (detto «rasoio» per i suoi lanci precisi), ma riuscirà comunque a farsi amare dai tifosi. Da vice ha affiancato tanti allenatori al Chelsea, fra cui Vialli (il primo a volerlo accanto) e Ancelotti. Commentatore televisivo per Sky Uk, nel 2018 — a 61 anni — è morto in seguito a un infarto. A lungo, soprattutto dopo il ritiro, ha lottato contro la depressione e la dipendenza da alcol.
Roberto Donadoni
Roberto Donadoni è il primo grande colpo di mercato messo a segno da Berlusconi. Nell’aprile del 1986, in un calcio italiano in pieno scandalo Totonero-bis, il neo presidente del Milan mette le mani uno dei più promettenti talenti del vivaio dell’Atalanta. Si chiama Roberto Donadoni, salta gli avversari come birilli, ha appena 23 anni ed è promesso sposo della Juventus, da sempre alleata di mercato dei bergamaschi. Ma alla fine Cesare Bortolotti, l’allora mitico presidente della Dea, accetta gli 8 miliardi offerti dal magnate della tv. Col Milan giocherà un totale di 12 stagioni e vincerà tutto. Dal 2001 al 2020 ha allenato ovunque, dal Lecco ai cinesi Shenzhen, passando per Napoli e Italia. Da tre anni senza panchina, aspetta una nuova sfida.
Alberico Evani
Arrivato al Milan quando aveva appena 14 anni, Alberico Evani (un po’ terzino, un po’ esterno, un po’ centrocampista) è stato fondamentale nei tanti successi milanisti. Nella finale della prima delle due Coppe Intercontinentali vinte (Tokyo il 17 dicembre 1989), segna su punizione il gol decisivo contro i colombiani dell’Atlético Nacional di Medellín all’ultimo minuto dei tempi supplementari. Dieci giorni prima era stato l’artefice del successo del Milan in Supercoppa europea contro il Barcellona. Due grandi amore da allenatore, il Milan appunto (le giovanili) e l’Italia, di cui ha guidato le varie Under prima di affiancare Mancini nella gloriosa spedizione di Euro 2020.
Mark Hateley
Messosi in mostra con Coventry City e Portsmouth, nel 1984 Mark Hateley approda al Milan di Liedholm. Storico il gol di testa con cui il 28 ottobre di quell’anno, superando di testa l’ex rossonero Collovati, l’attaccante segna il gol che permette al Diavolo di battere l’Inter dopo sei anni. Lascia nel 1987 e dieci anni dopo dirà basta col calcio. Quindi l’unica esperienza da allenatore con l’Hull City. Da calciatore ha vinto cinque campionati scozzesi di fila e cinque coppe coi Rangers dal 1990 al 1995. Vive in Scozia e scrive una rubrica settimanale di calcio per il Daily Record.
Daniele Massaro
Sacchi lo usava come ala, Capello come punta (visto l’infortunio di Van Basten). Daniele Massaro è uno dei primissimi colpi di Berlusconi da presidente del Milan. Ne è stato prima riserva ma anche capocannoniere. Per tutti è «Provvidenza», il soprannome che gli assegna il giornalista Mediaset Carlo Pellegatti per la sua attitudine a risolvere le gare più difficili. Dopo il ritiro dal calcio Massaro si è dedicato alle sue grandi passioni, il golf e il rally. Si è anche dato alla politica: iscritto a Forza Italia, ha partecipato alle elezioni amministrative di Milano del 2016, non venendo tuttavia eletto.
Pietro Paolo Virdis
Virdis è il primo cannoniere di Berlusconi. Capocannoniere della serie A 1986/87, in rossonero vincerà un campionato, una Supercoppa italiana e una Coppa dei Campioni. Abbandonato il calcio, ha allenato Atletico Catania, Viterbese e Nocerina. Poi ha lavorato come commentatore televisivo e oggi gestisce l’enoteca/ristorante «Il Gusto di Virdis» a Milano.
Nils Liedholm
Quando decise di trasferirsi in Italia, si dice che Nils Liedholm avesse tranquillizzato il padre: «Un anno, massimo due, e poi torno». Col Milan, da giocatore, disputa 12 stagioni. Poi lo allenerà tre volte, dal 64 al 66 prima, dal 77 al 79 e dall’84 all’87 poi. Il suo rapporto con Berlusconi è complicato: ««Il gioco che fa non è funzionale al gol», lo pizzica quest’ultimo: «Il presidente capisce di calcio, ha allenato l’Edilnord», replica ironico il «Barone». L’ultima stagione da allenatore è nel 1996-1997 quando prende il posto dell’esonerato Carlos Bianchi alla Roma, arrivando a festeggiare le mille presenze in serie A. Dopodiché si dedica al giornalismo come commentatore sportivo. Malato da tempo, muore nel 2007 a Cuccaro, nel Monferrato.
Da ilnapolista.it il 13 giugno 2023.
Il più intervistato dai quotidiani in merito alla morte di Silvio Berlusconi è Arrigo Sacchi, storico allenatore del Milan. A La Stampa Sacchi racconta di quando Berlusconi lo convinse a dargli del tu.
«Lui mi ha aiutato molto, mi è stato vicino in momenti della mia vita non facili. Così, non mi veniva spontaneo passare dal lei al tu. Ma lui, ancora una volta, mi ha insegnato un metodo per farlo. Un giorno mi dice: Arrigo mettiti davanti allo specchio e ripeti Silvio è uno stronzo, Silvio è uno stronzo…Vedrai che dopo un po’ ti verrà più semplice darmi del tu».
Una sola volta Sacchi e Berlusconi la pensarono diversamente: su Claudio Borghi.
«Quando comprò l’attaccante argentino Claudio Borghi, non c’entrava nulla con il nostro gioco. Gli dissi: ‘Lei l’ha comprato e lei lo può tenere, io mi metto da parte e le prometto che starò fermo un anno. Quindi, o ritorna a fare il presidente o mi licenzia’».
Quante volte ha deciso lui la formazione? Sacchi:
«Mai. Aveva troppi impegni per dedicarsi alle cose di campo, ma curava ogni dettaglio intorno al Milan. Arrivava a Milanello, chiamava il responsabile del centro Antore Peloso e cominciava l’elenco: il roseto è da potare, quella bandiera da cambiare, la rete metallica si è arrugginita. Ecco, i dettagli».
A La Repubblica, Sacchi dice:
«Silvio Berlusconi era un genio che amava il suo Paese, e che il suo Paese ha capito molto meno di quanto meritasse. Perché l’Italia è un posto impossibile, dove vivono 60 milioni di individualisti e presuntuosi».
Alla Gazzetta dello Sport Sacchi racconta di quanto Berlusconi si rilassasse a parlare di calcio e anche un aneddoto sull’Avvocato Agnelli.
«Lo chiamavo due volte al giorno. Mi ripeteva: ‘Parlare del Milan mi rilassa’. Era proprio così. Si divertiva, raccontava aneddoti, conversava anche con i giocatori. L’anno dello scudetto capitò una cosa che mi rimase impressa: dovevamo andare a giocare a Torino contro la Juve e lui ricevette un invito a pranzo dall’Avvocato Agnelli. L’Avvocato gli chiese se poteva venire a salutare la squadra prima della partita. Berlusconi gli disse subito di sì, poi m’informò. Io temevo che i ragazzi subissero il carisma dell’Avvocato, non avevo piacere che ci fosse quell’incontro: così chiesi a Berlusconi a quale ora Agnelli avesse programmato la visita.
‘Alle 13.45, mi ha detto’. ‘Perfetto, io faccio cominciare il riscaldamento alle 13.30’. Così quando l’Avvocato entrò nello spogliatoio, trovò soltanto il sottoscritto e Berlusconi. Restò di stucco e se la cavò con una battuta delle sue: ‘Sapevo che avevate una grande squadra, mi auguravo che voi due poteste rovinarla ma evidentemente mi sbagliavo’. Berlusconi rise e accompagnò Agnelli in tribuna. Vincemmo e ricordo che il presidente non stava nella pelle dalla felicità: battere la squadra dell’Avvocato, per lui, era qualcosa di più di una vittoria su un campo di calcio».
Estratto dell’articolo di Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 13 giugno 2023.
(...) Berlusconi ha cambiato tutto quello che ha toccato portandolo al successo. È stato potente, affascinante, criticabile, censurabile e censurato, attaccato e difeso, eccessivamente eccessivo.
Si racconta che temesse di morire povero. Gli piaceva piacere, era empatico e sapeva essere simpaticissimo. Ha vissuto più esistenze ed è più volte sopravvissuto. È entrato nella vita di tutti: abbiamo cercato casa in uno dei quartieri che aveva costruito; abbiamo seguito i programmi delle sue televisioni; abbiamo scritto del suo Milan, gioito per i suoi trionfi, con i suoi allenatori, i suoi tanti campioni. «Ho vinto più di Santiago Bernabeu» ripeteva «lui ha avuto uno stadio dedicato da vivo, spero che me ne dedichino uno da morto».
Berlusconi allenava gli allenatori: memorabili le sue teorie sulla necessità delle due punte e sulla palla lunga a scavalcare il centrocampo. Detestava la costruzione dal basso, frequentava solo l’alto. Nella vita ha sempre verticalizzato. Non temeva l’invidia, «perché porta sfiga a chi la prova», era la sua chiosa. L’ultimo passaggio calcistico è stato il Monza: naturalmente ha cambiato i destini della squadra, elevandola alla serie A, e riacceso la passione in Brianza: mi colpiva la devozione di Galliani che dopo tanti anni gli dava ancora del lei («perché mi ha reso bello, intelligente e ricco»). Berlusconi è stato il meglio e il peggio, humour e narcisismo, fascino e arroganza, il coraggio di andare fino in fondo e l’attenzione per ciò che le sue decisioni avrebbero provocato.
Non posso dire di averlo conosciuto a fondo: solo qualche incontro, lui sempre sorprendente e mai impreparato. Berlusconi sapeva parlare a un'Italia distante dagli uomini di cultura, a molti ignota. Lo faceva con l’efficacia della semplicità, perché lui era pop. Tante volte ho creduto che quel Paese esistesse solo nella sua visione dell’altro, nella sua immaginazione, e invece era il Paese reale al quale prometteva benessere. Berlusconi non amava essere contraddetto, ascoltava gli altri specie quando la decisione l’aveva già presa. Ha sconfitto tutti gli avversari tranne uno. Quello che in queste ore è stato impegnato ad aiutare un altro infermo, come lui inguaiato, come lui atteso al varco dai media, ma meglio accreditato, Papa Francesco.
Dagospia il 12 giugno 2023. Da I Lunatici - Radio 2
Fabio Capello è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea DI Ciancio, in onda dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30 circa
L'ex allenatore del Milan ha parlato di Silvio Berlusconi: "Sono scioccato, un annuncio così non si prevedeva dai bollettini medici. Non pensavo fosse in una situazione così grave, quando ho sentito che era morto ho avuto un grande dispiacere, un grande dolore. E' una persona a cui debbo molto, la mia carriera è partita da una sua intuizione sulle mie qualità di manager. Mi sento in debito costante verso di lui. Io fui inventato da lui come allenatore, mi occupavo della polisportiva, quando se ne andò Sacchi non allenavo da quattro anni.
Lui mi chiese se avevo voglia di fare il tecnico, io avevo nostalgia del profumo dell'erba e dissi subito di sì. Il calciomercato con Berlusconi? C'era un lavoro di squadra tra me, Galliani, Braida e Berlusconi. Lavoravamo insieme, era una cosa ragionata, non si agiva per capriccio. I colpi più importanti nella mia epoca? Marcel Desailly e George Weah. Weah aveva voglia di giocare da difensore centrale ma io gli dicevo sempre che in quel ruolo sarebbe diventato pericoloso per noi. Weah è stato un giocatore che a livello calcistico ci ha dato molto, ma anche come persona".
Ancora Capello su Berlusconi: "Se è vero che metteva bocca nella scelta del modulo e della formazione? Con me non lo ha mai fatto. L'unico contrasto che abbiamo avuto è su Savicevic. Nel primo periodo correva solo quando aveva la palla, qualche volta andavamo in difficoltà. Quando vedevo che le cose si mettevano male lo sostituivo e Berlusconi mi chiedeva come mai lo facessi. Io rispondevo: semplice presidente, lo cambio perché non corre. Poi trovammo un compromesso come squadra. Savicevic era il suo cocco? No, il cocco suo, il giocatore che non è riuscito a rendere come lui voleva è stato Claudio Borghi. Non era del mio periodo, ma di Sacchi. Arrigo non lo faceva giocare perché aveva giocatori più forti in quel momento. Notti indimenticabili di quegli anni? Quella della finale di Coppa Campioni quando facemmo quattro gol al Barcellona, prendendo anche due pali".
Silvio Berlusconi, storia segreta dell’uomo che ha conquistato l’Italia con il Milan. Il club rossonero è stato la chiave di volta dei trionfi politici e imprenditoriali del Presidente. Che con 29 trofei vinti ha trasformato una passione economica rovinosa nel motore del suo mito. Passo dopo passo, ecco la cronaca di un’ascesa iniziata sessant’anni fa. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 12 Giugno 2023
Alla fine era rimasto nel calcio. Nonostante i figli non ne volessero sapere, Silvio Berlusconi non ha dimenticato la passione che gli ha aperto la strada del successo più dell’edilizia, più dei finanziamenti oscuri alle sue Holding Italiane, più della stessa televisione.
Nelle sue ultime apparizioni allo stadio Brianteo di Monza con il fido Adriano Galliani, Berlusconi non ha mai smesso di dichiararsi il presidente più vincente della storia con 29 trofei. Ma le coppe in bacheca non raccontano la vera storia che incomincia su un campo da calcio della periferia milanese.
Nel 1963 Silvio Berlusconi ha 27 anni. Si è laureato in Legge con una tesi sugli aspetti giuridici dei contratti pubblicitari. Ha fondato la Cantieri Riuniti Milanesi due anni prima, nel 1961, ed ha già costruito il suo primo palazzo, in via Alciati, zona Lorenteggio, con un progetto firmato dal compagno di liceo, e futuro parlamentare forzista, Guido Possa.
Alla ricerca di relazioni e affari, il giovane Berlusconi frequenta la Residenza Torrescalla in zona stazione Centrale. Il pensionato universitario è il caposaldo milanese dell'Opus Dei di don Josemaría Escrivà de Balaguer, il sacerdote catalano di simpatie franchiste che ha sdoganato lo spirito del capitalismo ad uso dei cattolici.
A Torrescalla Berlusconi conosce uno studente nato l'11 settembre del 1941 a Palermo. Si chiama Marcello Dell'Utri, studia giurisprudenza ed è appassionato di calcio, tanto da avere ottenuto il patentino di terza categoria nel 1960-1961 a soli 19 anni dal centro federale di Coverciano. Marcello ha già debuttato in panchina come allenatore dei giovani per l'Athletic club Bacigalupo, società dilettantistica del quartiere palermitano dell'Arenella. Una volta a Milano, "mister" Dell'Utri si prende cura del Torrescalla.
Il club calcistico organizzato dall'Opus Dei milanese gioca su un campetto di Brugherio, un comune dell'hinterland che oggi è incastrato fra l'autostrada Milano-Bergamo e la tangenziale Est ma che allora conserva la fisionomia di un paesino di campagna.
Silvio e Marcello diventano amici. E visto che a uno piace il mattone e all'altro il pallone, trovano il modo di conciliare le cose.
Negli anni ruggenti dell'immobiliare e dei treni che scaricano valanghe di emigrati dal Sud, Berlusconi punta sull'edilizia. Con l'aiuto di Carlo Rasini, il banchiere datore di lavoro del padre Luigi, fonda la Edilnord sas. La nuova impresa diventa lo sponsor del gruppo sportivo Torrescalla, che organizza squadre a vari livelli di età per partecipare ai campionati locali. Dell'Utri, allenatore del Torrescalla-Edilnord, diventa segretario dell'impresa edile che progetta di realizzare un quartiere da un migliaio di appartamenti per 4 mila abitanti, guarda caso proprio a Brugherio, dove gioca la squadra. L’operazione non andrà a buon fine o forse sì, perché sarà ritentata con maggiore successo sui terreni di Milano 2 a Segrate.
Nel 1974 nasce Telemilano58 un canale privato che sarà ribattezzato Canale 5. Un anno dopo, nel 1975, viene fondata la Fininvest. La holding di Berlusconi è alimentata finanziariamente da canali fiduciari opachi e costruita con una piramide di controllo amministrata da ultraottuagenari. Secondo i pentiti Salvatore Cancemi e Calogero Ganci, Fininvest versa un obolo annuale a Cosa Nostra di 200 milioni di lire (circa 1 milione di euro ai valori attuali). La necessità di pagare deriva non solo dalle minacce di sequestro ai figli, ma anche dalla bomba che esplode in via Rovani, dove Berlusconi ha casa e bottega, il 26 maggio 1975.
Alla fine del 1977, Berlusconi viene nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e si lancia in una nuova avventura. Indro Montanelli, che è stato gambizzato dalle Br il 2 giugno e ha ricevuto la visita in ospedale del signor Edilnord, sta facendo i conti con la fine dei finanziamenti Montedison al Giornale. Il costruttore di Milano 2 offre il suo appoggio ed entra nella società editrice del quotidiano.
Nel 1978 Berlusconi viene iniziato alla P2 nella sede romana di via Condotti, sopra la gioielleria Bulgari, e riceve la tessera numero 1816.
Nel 1979 c’è l’incontro con Galliani, che ha 35 anni. Durante una cena ad Arcore il 1° novembre del 1979, Galliani propone i suoi ripetitori come volano tecnologico per trasformare Telemilano in un network a diffusione nazionale. Berlusconi comprende le potenzialità dell'affare e compra il 50% dell'Elettronica Industriale.
Il pallone diventa subito un perno della tv commerciale perché garantisce pubblicità gratuita a getto continuo, ottime relazioni ed è prezioso soprattutto in funzione della concorrenza alla Rai che, in regime di monopolio, paga i diritti tv 400 milioni di lire. Un tozzo di pane anche per l'epoca.
Nel 1981 il network del Biscione trasmette in diretta il primo evento calcistico di livello internazionale non ripreso dalla tv di Stato.
È il Mundialito per club sarà ripetuta a cadenza biennale e si concluderà nel 1987, un anno dopo che il Milan è diventato una società della Fininvest. Anzi, per l'esattezza, una controllata di Reteitalia, la subholding per l'entertainment guidata da Carlo Bernasconi con compiti di coordinamento anche per Medusa Film e per il teatro Manzoni di Milano.
Fin dalla prima edizione del Mundialito per club, Berlusconi mostra di volere abbinare la trasmissione delle partite all'acquisto di un club. Tenta prima con l’Inter di Ivanoe Fraizzoli ma non conclude e ritenta con il Milan un club in decadenza che ha incassato, in rapida successione, una prima retrocessione in B per il calcio scommesse nel 1979-1980 e una seconda per demeriti sportivi nel 1981-1982. L’acquisto da Giussy Farina è a prezzo di saldo. Non così il calcio mercato che parte a muso duro per fare concorrenza alla Juve degli Agnelli.
Il 28 novembre 1986 esplode un secondo ordigno nell'ex villa Borletti in via Rovani, casa e ufficio di Berlusconi. Secondo Silvio, l'autore del gesto antisportivo è l'eroico stalliere Mangano. Nella telefonata a Dell'Utri, il Cavaliere definisce la bomba "rispettuosa e affettuosa".
Il presidente del Milan risponde sul campo alle contestazioni dinamitarde e vince lo scudetto alla sua seconda stagione di serie A (1987-1988). La politica degli acquisti di giocatori a qualunque prezzo stravolge il calcio mercato italiano.
Il 18 gennaio 1994, due mesi prima delle politiche con il Mattarellum, Berlusconi annuncia la nascita di Forza Italia. A conferma che il genio ruba e che il Cavaliere considera suo ogni bene comune, l'incitamento e il colore del nuovo partito sono scippati a uno dei luoghi sacri dello spirito italiano, la Nazionale di calcio.
In discoteca a Schio, per lanciare il partito azzurro si presenta Fabio Capello in persona. L'allenatore degli Invincibili viene trasformato in testimonial.
Il 27 marzo 1994 la coalizione di centrodestra trionfa conquistando 366 seggi alla Camera su 630 e 156 seggi al Senato su 315.
I rossoneri replicano il successo degli "azzuri" forzisti. Il Milan di Capello vince il quattordicesimo scudetto e il 18 maggio, ad Atene, distrugge per 4-0 il Barcellona allenato da Johann Cruijff. Il primo governo Berlusconi dura poco. Il 22 novembre del 1994 il presidente del Consiglio riceve un avviso di garanzia per corruzione dal pool Mani Pulite di Milano mentre è a Napoli per coordinare la conferenza mondiale dell'Onu contro la criminalità organizzata.
Le elezioni successive sono una sconfitta per opera dell’Ulivo e i problemi giudiziari si aggravano.
Su indicazione del sostituto procuratore di Milano Francesco Greco, il Serious Fraud Office britannico perquisisce gli studi londinesi dell'avvocato David McKenzie Mills, il professionista che amministra una trentina di finanziarie "very discreet".
Fra i vari documenti del segretissimo Fininvest Group B, ci sono le prove che la polisportiva Berlusconi (non solo calcio, ma anche pallavolo, rugby e hockey su ghiaccio) utilizza la contabilità offshore per pagare in nero gli atleti e frodare il fisco.
Nell'elenco figurano i calciatori del Milan degli Invincibili. Ci sono, in particolare, i tre fuoriclasse olandesi Ruud Gullit, Marco Van Basten e Frank Rijkard che si sono fatti liquidare parte del salario sotto forma di diritti d'immagine attraverso pagamenti estero su estero effettuati dalle società News and Sport Time e Sport Image International Limited.
Ci sono anche i compagni di squadra Dejan Savicevic e Jean-Pierre Papin. Ma la pratica non riguarda soltanto i giocatori stranieri, tutt'altro. Ne beneficiano anche i nazionali italiani Franco Baresi, Paolo Maldini, Mauro Tassotti, Stefano Eranio e Christian Panucci. Al processo, nel 2002, i calciatori scelgono la strada del patteggiamento.
A quel punto il Milan è diventato irrilevante per i successi politici del leader forzista. Eppure la squadra vince ancora in Italia e in Europa in finale contro la Juventus nel maggio 2003. L’ultima grande vittoria internazionale, la settima del club nella Coppa dei campioni-Champions league è nel maggio 2007. Dopo un’ultima fiammata di mercato con l’acquisto di Zlatan Ibrahimovic e del brasiliano Robinho e dopo lo scudetto del 2011, inizia il distacco graduale, interrotto dalla parentesi di scarsa fortuna della figlia Barbara alla guida del club.
Da allora i rossoneri finiscono in un tunnel di proprietà oscure, di cessioni a imprenditori cinesi, ad ex soci del fratello minore Paolo Berlusconi, al finanziere Usa Gordon Singer e oggi a Gerry Cardinale.
Ma Silvio ha sempre tenuto un occhio sul Milan e l’opacità dell’assetto azionario dei rossoneri ha confortato i tifosi nostalgici che, fra gli schermi societari, scorgevano l’ombra del presidentissimo.
Daniele Dell’orco per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2023.
Con l’incipit del suo libro autobiografico (“Le memorie di Adriano G., storia di una passione infinita”, edito da Piemme) Adriano Galliani sceglie di affidare alla penna sopraffina di Luigi Garlando il compito di risolvere lesto il dubbio amletico di molti: il suo più profondo innamoramento calcistico. Nei venticinque anni di carriera da “Condor” del Milan di superstelle ne ha accalappiate molte.
Anche perché, prima di essere dirigente dei rossoneri è stato supertifoso, non d’infanzia (a Monza «che non vuole essere e non è la banlieu di Milano» per emanciparsi si tifava Juve) ma di vocazione. Anzi, prima ancora è stato un ragazzino tarantolato da una passione: lo sport. Il ciclismo, il tennis, ovviamente il calcio.
(...)
Dopo il coming out, però, Galliani (il suo idolo d’infanzia era la Saeta Rubia Di Stefano) riparte dall’inizio, e in un certo senso anche dalla fine. L’amore per il Monza, riesploso dopo la fine del trentennio rossonero, ma in realtà mai sopito perché legato, probabilmente fuso, a quello per la sua Venere: la mamma Annamaria. «Morì nel 1959, avevo 14 anni. Il giorno dopo papà mi disse: “Adriano, vai pure. La mamma è contenta se vai a tifare per il Monza”».
L’ha messo al mondo letteralmente sotto le bombe, il 30 luglio 1944, mentre gli inglesi sganciavano morte sui capannoni della Falck e della Breda di Sesto San Giovanni che fabbricavano armi. E gli ha trasmesso oltre che la passione per il Monza anche quella per l’impresa. Era una self-made woman quando il femminismo non era nemmeno concepito. Gestiva un’azienda di trasporti Monza-Milano che fu poi il grande cordone ombelicale di Galliani.
Il papà invece era segretario comunale, e da lui Adriano prese la voglia di tentare l’avventura nelle amministrazioni locali. Finché il viatico di mamma Annamaria non prese il sopravvento: «Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; servivo Campari. Poi divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai», in modo davvero rocambolesco, facendo una “colletta” che oggi quelli bravi chiamerebbero crowdfunding.
La storia di Galliani è quella di un’Italia in cui era davvero tutto possibile («le banche i soldi li prestavano»), le buone idee erano infinite e le sinergie saltavano fuori. Tipo quella con un signore che nell’impresa di Galliani vide la gallina dalle uova d’oro. Il partner perfetto per rivoluzionare il sistema mediatico italiano: «Al primo incontro a Villa San Martino Berlusconi mi chiese che orientamento politico avessi. Risposi la verità: “Mio padre diceva che i comunisti mangiano i bambini, e io mi sono fermato lì”.
Berlusconi si alzò, venne verso di me, pensai di aver fatto una gaffe. Invece mi abbraccia e mi fa: anche il mio papà diceva così!”». La joint-venture nacque con un abbraccio. Galliani metteva i ripetitori, Berlusconi le tv. Voleva creare i tre canali nazionali per combattere ad armi pari contro la Rai. I termini bellici non sono casuali: «Loro hanno tre cannoni. Dobbiamo averli anche noi», disse. Galliani però non era granché convinto: «Non era possibile: per la legge poteva averne solo una regionale. Lui fu secco: “Lei faccia il tecnico e mi dica: la sua azienda può realizzare il mio progetto?”. Risposi di sì».
E il resto è storia.
Ma se da allora Galliani si legò a Berlusconi da un atto di fede, lo stesso accadde a parti inverse quando Adriano contagiò Silvio con la malattia del pallone: «Lavoreremo insieme ma se io sono a Trieste e il Monza gioca a Catania, io devo andare a Catania». Poco dopo, comprarono il Milan: «Era il Capodanno 1986. Sono in vacanza nella villa del presidente a St.Moritz, con Confalonieri e Dell’Utri. Fa un freddo tremendo, usciamo imbacuccati per andare a prendere l’aperitivo al Palace e incrociamo il clan Agnelli: l’Avvocato con la camicia aperta, Montezemolo con il ciuffo, Jas Gawronski elegantissimo, forse Malagò. Al confronto noi sembravamo Totò e Peppino. Condividiamo il tavolo.
Alla fine Berlusconi ci dice: “Potremo fare anche noi grandi cose, ma non saremo mai come loro. Ci mancano venti centimetri di statura e il coraggio di esporre il petto villoso sottozero”. Qualche giorno dopo ci propose di prendere il Milan».
Nel libro Galliani racconta come il binomio divenne un treppiedi: «Sacchi stava per andare alla Fiorentina. Lo intercettammo per strada. Quasi impossibile, nell’era pre-telefonini. Accettò di firmare in bianco. Io scrissi 300 milioni, meno di quello che prendeva in B al Parma. Lui pose una condizione: a ogni trofeo me li raddoppiate. L’anno dopo vinse lo scudetto, l’anno dopo ancora la Coppa dei Campioni. Faceva un miliardo e 200 milioni. Che fui felice di pagargli». La prima mossa del Condor.
Da lì in poi fu tutto in discesa.
(...)
Ma le storie di grandi operazioni di mercato sono pressoché infinite: Boban («Andammo al ristorante con il padre, un colonnello croato, Marinko, uomo d’ordine.
Avevamo davanti una bottiglia di San Pellegrino, e ogni volta lui la ruotava. Gli chiesi perché. “Perché non sopporto di vedere una stella rossa”, rispose»), Shevchenko («Lo vidi a Kiev, con un freddo terribile e le prostitute che tentavano di entrare in camera. Dormii con il cappotto e con una cassapanca contro la porta. Passai la notte al telefono con la donna di cui ero innamorato (la giornalista Manuela Moreno, ndr)»), Ibra («Mi piazzai nel salotto di casa: non me ne vado finché non firmi. Restai tutto il giorno. La moglie mi guardava come un pazzo: ma questo chi diavolo è? E Ibra: “È Galliani del Milan, dice che non se ne va finché non firmo”»), Ronaldo («Faceva la scarpetta nel vassoio degli spaghetti al pomodoro. Ancelotti lo prendeva in giro: Fenomeno, almeno sai chi ti marca domani? E lui: io no, ma lui sa che deve marcare Ronaldo»), Beckham («Ragazzo umile. Restituiva al magazziniere la tuta ben piegata, diceva che nelle giovanili del Manchester gli avevano insegnato così»).
In mezzo a tanti colpi da maestro, la tragedia sportiva della finale di Istanbul. Il Milan si fece rimontare tre gol in un tempo dal Liverpool e perse ai rigori. «Berlusconi non disse nulla. Dopo la partita restammo seduti più di mezz’ora in tribuna, senza dirci una parola. Avevamo perso, ma la squadra aveva dato il massimo. Si era arrabbiato molto di più dopo uno 0-0 con il Celta Vigo in cui non avevamo tirato in porta, riempì me e Capello di improperi. Il bel gioco prima di tutto».
Qualcuno il tracollo non lo accettò. Come Rino Gattuso: «”Ogni volta che indosserò la maglia del Milan, mi tornerà dentro il dolore di Istanbul e io non riesco a sopportarlo, mi spiace. L’unico modo per lasciarmelo alle spalle è togliermi quella maglia, andarmene. Mi lasci partire, Galliani”. È venuto a dirmelo una volta, due, alla terza si è presentato in sede accompagnato dal padre. Li ho portati nella sala dei trofei, abbiamo discusso a lungo, gli ho ribadito che non l’avrei lasciato partire, mi sono alzato dal tavolo e gli ho detto: “Ascolta, Rino. Adesso ti chiudo qui dentro a riflettere. Ti libererò solo quando mi avrai detto: ok, resto”. E così ho fatto. L’ho chiuso a chiave nella sala dei trofei. L’ho sequestrato, come ha fatto don Rodrigo con Lucia nei Promessi sposi. Dopo un’ora, ho messo dentro la testa: “Hai cambiato idea?” “No”. Ho richiuso la porta.
Questo giochino è durato almeno 5-6 ore, con il consenso del padre Franco, naturalmente. All’ora di pranzo gli ho fatto portare due panini e ho richiuso immediatamente la porta per paura che scappasse. Ringhio in gabbia. Ha divorato il pasto circondato dai gloriosi metalli di casa, masticava e intanto gli entrava in corpo tutta la grandezza della nostra storia. Alla fine, si è arreso. Ho aperto la porta e mi ha detto: “Va bene, resto al Milan”».
Nel rapporto idilliaco con Berlusconi l’unico screzio, per modo di dire, fu per la politica: «Zaccheroni venne esonerato nel marzo 2001 dopo l’eliminazione in Champions League con il Deportivo La Coruna. In panchina andarono Cesare Maldini e Mauro Tassotti che diressero il derby vinto 6-0. Si giocò di venerdì, due giorni prima delle elezioni politiche del 13 maggio.
Al Collegio 1 di Milano, per il centro-destra, era candidato Silvio Berlusconi e per il centro-sinistra Gianni Rivera. Notoriamente chi abita nella prima cerchia dei Navigli è interista, perché storicamente i ricchi di Milano sono interisti e i meno ricchi sono milanisti. Per la prima e unica volta in vita mia, ho ricevuto una telefonata di rimprovero da Berlusconi dopo una partita vinta: “Adriano, domenica ci sono le elezioni a Milano 1! Non potevate fermarvi sul 3 o 4 a zero?”. “Fermarci? Se avessi potuto segnarne 9 o 10, avrei goduto come un riccio!”. Il presidente si è messo a ridere e ha dimenticato le elezioni che comunque avrebbe vinto con il 53% doppiando quasi Gianni Rivera, leggenda rossonera».
Prima degli ultimi anni di purgatorio rossonero con la diarchia gestionale con Barbara Berlusconi, Galliani ebbe tempo di sfornare l’ultimo pallone d’oro frutto della serie A: Kakà. Era il 2007. Oggi quel mondo dorato del calcio italiano è sparito anche se ci sono tre italiane nelle finali europee: «La Premier fattura quattro volte più della serie A. I rapporti di forza sono troppo sbilanciati». Come lo erano a nostro favore ai tempi loro, del resto. La rivoluzione ora parla inglese.
Galliani e Berlusconi però un altro miracolo l’hanno fatto, portando il Monza per la prima volta nella massima serie ed esaurendo il sogno di mamma Annamaria: «Alle 23.12 del 29 maggio 2022 a Pisa conquistammo la promozione. Due minuti dopo ricevo questo whatsapp “Sono molto contento per lei dottore e per il presidente, Sinisa Mihajlovic”». L’uomo che presero al Milan al posto di Sarri e che scoprì Gigio Donnarumma. Ora, il Monza, sogna l’Europa. Galliani però le partite continua a non vederle: «Scappo dallo stadio all’intervallo e rifugiandomi nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale». Per il Condor, un ansiolitico naturale.
Dagospia il 12 giugno 2023. L’EPOPEA DEL MILAN BERLUSCONIANO BY DOTTO: DA QUANDO SILVIO SCENDE IN ELICOTTERO DAL CIELO ALLA SQUADRA PIU’ TITOLATA AL MONDO - TESTIMONI GIURANO CHE IL CAV FU A UN PASSO DAL COMPRARSI L’INTER, CON MAZZOLA A INDURRE IN TENTAZIONE FRAIZZOLI. MA FU PEPPINO PRISCO A SCONSIGLIARLO - CHIEDERE A SACCHI, CAPELLO, ZAC E ANCELOTTI QUANDO 'SUA EMITTENZA' DIVENTAVA 'SUA INTERFERENZA'. GLI ERA BASTATO DA GIOVANE ALLENARE L’EDILNORD PER CONVINCERSI DI SAPERLA LUNGA. "POTREI FARE IL GIORNALISTA, IL PARROCO, SICURO L’ALLENATORE"
“Avrebbero giocato a palla divinamente nel mio giardino. Modestia a parte, sono uno che se ne intende di perfezione”. Dio (in persona)
Da “La squadra perfetta” di Giancarlo Dotto (ed. Mondadori)
L’epopea del Milan di Berlusconi
Prima puntata.
“….Era un frugolo svelto e allegro che scortava il padre Luigi la domenica a San Siro, mano nella mano, a patire e a gioire insieme. Era l’Italia del dopoguerra, era il Milan dei Puricelli, dei Carapellese e poi, alla fine degli anni ’40, il Milan del trio Gre-No-Li.
Quarant’anni dopo, domenica 23 marzo 1986, tutta San Siro invoca il nome di quel bambino, nel frattempo diventato adulto, telegenico e facoltoso. Il Milan perde in casa con la Roma di Eriksson. Al gol decisivo di Roberto Pruzzo, esplode la protesta e partono i cori. E’ la prima volta che il nome di Berlusconi viene invocato a San Siro. Tutti lo vogliono. E’ la volontà popolare. Berlusconi ama la volontà popolare. Adora i bagni di folla. Sa cosa sono le chiamate del destino. Non si sottrae. Rompe gli indugi.
L’uomo che salverà il Milan dai tribunali è un imprenditore non ancora cinquantenne, che ha inventato il business della televisione commerciale, in attesa di reinventare il business del calcio e i rituali della politica. Un seduttore nato. E’ lui che rilancerà nel mondo il marchio Milan, rifondando l’azienda e risanando i conti.
La fumata bianca arriva la sera del 24 marzo, ventiquattro ore dopo il plebiscito di San Siro. A chiudere la trattativa sono il fratello Paolo, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani e Giancarlo Foscale. E’ il più melassico telegenico dell’epoca, Cesare Cadeo, a dare la notizia ai giornali.
“Da un punto di vista economico abbiamo fatto una puttanata, ma non potevo tirarmi indietro: abbiamo preso il Milan”, comunica il neopresidente ai suoi intimi. Fine di un incubo. Berlusconi eredita una società malata, un totem logoro, Nils Liedholm, e un mare di debiti.
Silvio Berlusconi irrompe a via Turati come il salvatore della patria. Si presenta da presidente in doppiopetto, ma si sarebbe presentato volentieri anche in tuta da allenatore. Sdoppiarsi, triplicarsi, quintuplicarsi gli riesce facile. S’intuisce quante volte, in più di vent’anni alla guida del Milan, abbia dovuto farsi violenza per impedirsi di alzare il telefono e dettare la formazione con tattica incorporata all’allenatore di turno. In qualche caso quel telefono lo ha alzato.
Chiedere a Sacchi, Capello, Zaccheroni e allo stesso Ancelotti, per conferma, quando “Sua Emittenza” diventava “Sua Interferenza”. Gli era bastato da giovane allenare l’Edilnord, la squadra del suo passato immobiliarista, punta di diamante il fratello Paolo, per convincersi di saperla lunga in panchina.
Convinzione, del resto, che gli veniva naturale di qualunque cosa si occupasse, dalla botanica alla cucina, di come sellare un cavallo o addomesticare un canguro. “Io allenatore del Milan? Perché no?...Ho una grande considerazione di me stesso. Non ci sono limiti a quello che posso fare. Potrei fare il giornalista, il parroco, mille altre cose, di sicuro l’allenatore”.
Testimoni sparsi giurano che, prima di prendersi il Milan, Berlusconi fu a un passo dal comprare l’Inter, quando Ivanhoe Fraizzoli era allo stremo delle forze e delle risorse. Sarebbe stato Sandro Mazzola a indurlo in tentazione…Fraizzoli gli propose il cinquanta per cento della società e Berlusconi ci pensò seriamente. Fu l’illuminato avvocato Peppino Prisco a sconsigliare Ivanhoe e fu un bene per tutti.
Gli fece capire che con Berlusconi al fianco, anche al quarantanove per cento, non avrebbe più deciso nemmeno il colore delle sedie di Appiano Gentile. L’Inter finì a Ernesto Pellegrini e Berlusconi si riversò anema e core sul boccheggiante Milan, in totale sintonia con la sua storia e la storia di suo padre.
Il nuovo Milan riparte dalle fondamenta, rifondare la società e risanare i conti. Per la prima volta una squadra di calcio viene inquadrata secondo le logiche dell’impresa a cui applicare regole manageriali, studi di marketing e vincoli economici. La società e la squadra sono due realtà solidali ma distinte, la prima pianifica, la seconda vende emozioni. L’una non esiste senza l’altra. Berlusconi restituisce Milanello alla sua funzione storica, bunker inaccessibile di uomini che si addestrano per l’impresa: diventare in tempi brevi il club numero uno al mondo.
Berlusconi si prende il Milan, immaginando di dover investire il primo anno una ventina di miliardi. Si sbaglia di grosso. Per difetto. Dentro il pacco Milan, Berlusconi e i suoi trovano una situazione molto, ma molto più pesante, come ricorda Galliani, costretto allora a inseguire panettiere, macellaio, farmacista di Carnago, decisi a sospendere le forniture per eccesso di crediti.
Ma non è un Milan tutto da buttare. In quella squadra giocano già con alterne fortune Tassotti, Maldini, Baresi, Filippo Galli, Evani. E’ anche il Milan dei Paolo Rossi e dei due inglesi, Hateley e Wilkins. Il finale di campionato è disastroso, solo un punto nelle ultime cinque partite, salta anche il posto Uefa.
Peggio di così non poteva cominciare l’era Berlusconi. Uno che non si abbatte facile. Conferma senza troppa convinzione Liedholm in panchina per la nuova stagione, rinunciando senza particolari languori a un ruolo per Gianni Rivera. Prende Giovanni Galli e Massaro dalla Fiorentina, Bonetti dalla Roma, più Galderisi e Donadoni, il gioiellino dell’Atalanta.
(ANSA il 12 giugno 2023) - "Sto male, nonostante tutto non me l'aspettavo". Arrigo Sacchi piange, al telefono con l'ANSA: lunghe fasi di silenzio, non riesce a gestire il dolore per la morte del suo "amico geniale al quale devo tutto". "Silvio Berlusconi è stato un uomo generoso - aggiunge l'ex tecnico del Milan che vinse tutto - ed ha cercato di cambiare questo Paese difficile, formato da individualisti. Lo era anche lui? No, pensava di insieme e vedeva lontano: quando mi prese gli dissi "lei o è pazzo o è un genio". Visti i risultati, datemi voi la risposta...". (ANSA).
Estratto dell’articolo di Andrea Schianchi per gazzetta.it il 12 giugno 2023.
Quando decideva di scendere in campo, Berlusconi era abituato a prendere il pallone e a non ridarlo più indietro. Rientrava nel carattere del personaggio. Del Milan è stato il presidente, l'uomo che ha dettato la linea, che ha suggerito (ordinato) gli acquisti, ma si è spesso seduto in panchina (metaforicamente) e ha compilato le formazioni. In fondo lui si è sempre considerato un allenatore e il sabato, nella sala del camino di Milanello, teneva lezione ai giornalisti su questo o su quel modulo, su questa o su quella tattica. Il suo rapporto con i tecnici del Milan, e ultimamente del Monza, è sempre stato diretto, schietto: lui diceva e loro dovevano eseguire, punto e stop.
Non potendo attingere agli archivi per quanto riguarda l'esperienza di allenatore all'Edilnord, anche perché di quel periodo (non solo a livello calcistico) è sparito quasi tutto, si può soltanto ricordare, ascoltando le memorie di chi c'era, che i primi due nomi eccellenti silurati da Berlusconi furono Marcello Dell'Utri e Vittorio Zucconi. Entrambi allenatori della squadretta che lui aveva fatto trasferire dall'oratorio dell'Opus Dei a Brugherio, poiché il padrone non era contento dei risultati, vennero esonerati in tronco: rimasero come giocatori. Zucconi ne scrisse, anche se poche e trascurabili righe, e Berlusconi non la prese benissimo. Dell'Utri, che era muto come un pesce anche sessant'anni fa, non disse mai nulla e si guadagnò l'immunità. Gli altri giocatori mai si espressero, preferirono ricordare le serate conviviali, le partite, i successi. Nessuna polemica, però.
(...)
E nemmeno con il suo successore Fabio Capello, prelevato dagli uffici della Fininvest e sistemato in panchina, anche in quel caso per dimostrare che le idee del padrone non solo erano sacre, ma pure buone. Una curiosità: poiché Berlusconi sapeva che Capello, nella primavera del 1996, aveva firmato con il Parma e temeva che gli emiliani diventassero una seria concorrente per lo scudetto, fece di tutto per dirottare Don Fabio sulla panchina del Real Madrid. Fino ad allora, però, era stato un Milan vincente. Grazie al calcio Berlusconi aveva conquistato il pubblico non solo italiano, ma addirittura mondiale. I problemi vennero più tardi quando Berlusconi, impegnato in politica, non potè sempre occuparsi direttamente della squadra.
E allora, ritrovatosi Oscar Washington Tabarez come allenatore, lo bollò come "un tipo da Sanremo" e qualche anno dopo, nonostante gli avesse consegnato lo scudetto del centenario nel 1999, fu Alberto Zaccheroni a finire tra le vittime. "Un sarto che può rovinare una buona stoffa" disse Berlusconi, e quella fu una sentenza. Non sopportava il modo di giocare del Milan, la difesa a tre e il tridente che sbilanciava troppo, a suo avviso, la squadra. Impose, è proprio il caso di usare questo termine, l'impiego di Boban come trequartista e, a corredare l'ordine, aggiunse che il Milan doveva schierarsi con quattro difensori, tre centrocampisti, una mezzapunta e due attaccanti. Il giocattolo era suo e bisognava fare come diceva lui.
Stessa musica quando sulla panchina arrivò Carletto Ancelotti. Soltanto che Carletto, a differenza dei predecessori, aveva un vantaggio: la furbizia. Lasciava parlare Berlusconi, gli faceva credere di seguire i suoi diktat e poi puntualmente li modificava. Siccome Carletto vinceva, il cavaliere non si sognava di criticarlo e giunse al punto che, pur di dimostrare che il padrone era lui e la sua voce doveva essere forte e chiara, andò in televisione, sempre nel salotto di Bruno Vespa, e mostrò a tutt'Italia gli schemi che avevano consentito al Milan di vincere la finale di Champions League di Manchester nel 2003. Che quegli schemi fossero stati disegnati dalla mano di Ancelotti, grafia inconfondibile, poco importava: lui se ne appropriò e spiegò al popolo che, oltre a essere un presidente-operaio, un presidente-imprenditore, un presidente-padre di famiglia, era anche un presidente-allenatore.
Innamorato dei fantasisti volle a tutti i costi portare al Milan il declinante Ronaldinho. Poco gl'importava che Ancelotti avesse sconsigliato l'acquisto: Berlusconi voleva lo spettacolo e Dinho lo avrebbe regalato al pubblico di San Siro. Un decennio prima era stato Dejan Savicevic il pomo della discordia tra il presidente e Fabio Capello, che relegava il talento montenegrino sulla fascia sinistra. Anche in questa occasione, c'è bisogno di dirlo?, Berlusconi vinse la partita. Persino nell'epoca declinante della sua presidenza, cioè dal 2011 in poi, fece sempre sentire la sua voce quando si accorgeva che le cose non funzionavano per il verso giusto.
Quante critiche a Leonardo, ad Allegri, al suo pupillo Inzaghi, a Mihajlovic, a Seedorf. Non ha mai risparmiato nessuno, convinto che la sua visione del calcio fosse quella giusta e da quella non ci potesse allontanare. Vincere e convincere, ripeteva. La squadra, per lui, era un'azienda e come un'azienda doveva funzionare: produrre beni di consumo (nello specifico la felicità del pubblico) ed essere sempre governata da una sola testa. La sua.
Silvio Berlusconi, presidente, visionario, creatore del Milan che si prese il mondo. Giovanni Capuano su Panorama il 12 Giugno 2023
Da società in crisi alla squadra più vincente del mondo; la storia della presidenza Berlusconi è un «unicum» che rimarrà indelebile nella storia. come le sue squadre
Il presidente più longevo della storia del Milan e anche il più vincente. In rossonero di sicuro, ma Silvio Berlusconi ha amato ripetere per tutta la sua vita di esserlo stato in assoluto, più di Santiago Bernabeu al Real Madrid e più di chiunque altro. Di sicuro ha lasciato il segno e non solo nella traiettoria del Vecchio Diavolo, preso per i capelli mentre stava per fare una fine ingloriosa a metà degli anni Ottanta e riportato sul tetto d’Italia, d’Europa e del Mondo. Non senza dividere e far discutere, attirandosi amore incondizionato ma anche antipatie represse. E’ stato, Silvio Berlusconi dirigente sportivo, un visionario prima ancora che un vincente. Ha cambiato le regole del gioco dal primo giorno, l’uomo degli elicotteri e della cavalcata delle Valchirie all’Arena di Milano, degli investimenti quasi senza limite, dei Palloni d’Oro collezionati sul mercato ma anche del coraggio nello scegliere gli uomini cui affidarsi. L’amicizia con Adriano Galliani ne ha attraversato la vita calcistica e ha formato una coppia senza eguali prima e dopo. Competente e moderna. Arrigo Sacchi è stata un’intuizione di Berlusconi e ha aperto un capitolo rivoluzionario nella lunga storia del calcio italiano. Fabio Capello, seconda visione del presidente, ha rappresentato un profilo diverso, manageriale, coltivato all’interno dell’azienda e trasferito alla panchina quasi con logica di scouting interno. Carlo Ancelotti è stato il cuore e ha incarnato l’ultimo Silvio vincente, quando già il pallone internazionale stava diventando un gioco troppo grande anche per un uomo ricchissimo e poliedrico come il Cavaliere. E’ stato proprietario del Milan per 31 anni, dal 24 marzo 1986 al 13 aprile 2017 quando ha lasciato allo sconosciuto cinese Yonghong Li aprendo la nuova fase della storia rossonera. La contabilità notarile dice che ha vinto 29 trofei, portando il club a conquistare l’Europa sotto la sua guida per cinque volte e per tre laureandosi campione del Mondo. Mai come nel suo caso, però, i numeri non dicono nulla. Il suo Milan è stato l’immagine della Milano rampante degli anni Ottanta, il simbolo del potere (anche politico) degli anni Novanta e la coda del periodo d’oro del nostro calcio all’inizio dei Duemila. E’ stato il laboratorio che ha sperimentato la rivoluzione televisiva mettendo in rete le anime della sua vita imprenditoriale. Ha pensato al campionato europeo (oggi declinato come Superlega) con trent’anni di anticipo su tutti gli altri. E’ stato precursore nella valorizzazione dell’immagine dei calciatori e del suo Milan. Ha vinto tanto e perso pure, come succede a tutti i purosangue dello sport. L’avventura al Monza, ultima della sua carriera, è stata quasi lo sfizio finale. Soffriva a stare fuori da quel mondo, era felice di aver assecondato il sogno dell’amico Adriano e aveva il progetto di portare la Brianza - terra d’elezione - prima in Serie A e poi in Europa. Raggiunto il primo obiettivo, il secondo chissà.
Berlusconi ed i Media.
Rifatto.
La TV.
I Giornali.
I Social.
I Media
La Maschera Berlusconi nel libro di Buttafuoco. La prima estate senza gli echi dalle sue favolose dimore o dalle corsie di ospedale, senza il punto di vista del Cavaliere sulla politica e sul potere, per la prima volta saldamente in mano alla destra post-missina che egli «sdoganò» appoggiando Fini contro Rutelli in occasione delle Comunali di Roma nel 1993. OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2023
Corre verso la fine la prima estate senza Berlusconi, scomparso il 12 giugno scorso. Senza gli echi dalle sue favolose dimore o dalle corsie di ospedale, senza il punto di vista del Cavaliere sulla politica e sul potere, per la prima volta saldamente in mano alla destra post-missina che egli «sdoganò» appoggiando Fini contro Rutelli in occasione delle Comunali di Roma nel 1993, giusto trent’anni fa (il primo incarico di governo di Giorgia Meloni sarà nel 2008 come ministro per la Gioventù nel Berlusconi IV). Quindi nel 1994 c’è la proverbiale «discesa in campo», cui segue un poker di presenze a Palazzo Chigi da presidente del Consiglio, e i processi, le infinite polemiche sul conflitto di interessi, gli odi e gli amori di un Paese mai così diviso, spaccato in due pro o contro Berlusconi. Protagonista, s’è detto e scritto, di una mutazione antropologico-culturale propiziata dalle sue televisioni e insinuatasi persino negli avversari che ne hanno assorbito il gusto per la boutade, l’eccesso, la dismisura mediatica. Ricordate il detto? «Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me». Sebbene poi l’unico a sconfiggerlo due volte sia stato un altro politico / impolitico, diversissimo da lui, quale Romano Prodi.
All’«arcitaliano» per eccellenza dedica un ritratto, anzi un «panegirico» lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, Beato lui (Longanesi ed., pagg. 141, euro 17,00), illuminante nel rileggere la figura di Berlusconi come una Maschera dell’eterna commedia dell’arte, poi divenuta «commedia all’italiana» grazie al cinema. L’altra sera un programma di Canale 5 in ricordo di Maurizio Costanzo, che avrebbe compiuto 85 anni il 28 agosto, mostrava il Silvio nazionale in prima fila nella puntata del ventennale dello Show (2001), deliziato dall’esibizione di Gigi Proietti che simulava / evocava una performance quale cantante da night club finto-francese.
Ecco la quintessenza berlusconiana: divertirsi e divertire, intrattenere il pubblico e contribuire a crearlo come ha fatto incessantemente in tutte le sue attività, fin dagli esordi nei panni di chansonnier sulle navi, e fregarsene del contegno pur di piacere. Tra i primi, Berlusconi fa sua la lezione di studiosi come il francese Guy Debord, intuendo che la realtà ormai coincide con lo spettacolo. Non a caso sul principio Canale 5 è animato dai «situazionisti» Carlo Freccero e Antonio Ricci, i quali aggiornano in video la vocazione a spiazzare o carnevalare che fu del movimento studentesco sessantottino: l’imagination au pouvoir. Ma questa sorta di neoavanguardia s’innesta pur sempre sul tessuto profondo del Paese. Scrive bene Buttafuoco: «La patria del melodramma ha trovato in Berlusconi, che è amico di tutti nemico di nessuno, il primo dei suoi amanti. L’Italia è il Paese che ama, il dado con lui è più che tratto e il suo obbedisco! – l’ora tutta sua segnata dal destino – è il grande romanzo che Silvio consegna al mondo: “L’Italia è il Paese che amo”. Più che persona, il Cavaliere è personaggio».
Concepito a mo’ di ironica agiografia, quindi con un sotteso paradosso scandito dall’anafora del titolo «Beato lui», il libro costeggia la vita pubblica del trentennio berlusconiano concentrandosi sui chiaroscuri di un «individuo assoluto», scrive Buttafuoco, «come il Duca Valentino, come Cagliostro e come Giuseppe Garibaldi». Berlusconi è pretesto, contesto e finalmente testo con un che di epico, di patafisico, di irreale, tuttavia concreto nel corrispondere ad aspirazioni e bisogni diffusi. Nella chiave letteraria diventa dunque legittimo, persino naturale, che il libro cominci con l’ascesa del Cavaliere al Quirinale, carica vagheggiata e mai raggiunta, con un tocco visionario che può ricordare l’Aldo Moro vivo nel finale di Buongiorno, notte di Bellocchio. Ecco la scena: «Beato lui, arriva nel salone dove i Savoia giocavano a tennis e lì, chiamando il più piccolo dei suoi nipotini – il sempre biondo Arcisilvio -, sfida a un doppio il re Romolo e il fratello che, grazie a lui - beato lui -, può finalmente farsi chiamare Remolo».
«Tutto è burla», insomma, e il linguaggio immaginifico dell’autore compone un mosaico cui, invero, mancò la tessera del tragico. Parliamo del rimorso nel passaggio sulla morte violenta dell’amico Gheddafi: «Statista è stato, Berlusconi. Ma pur uomo di Stato non ha dimestichezza col delitto. Beato lui, non vi si abitua». Sebbene il tragico sia, ahilui!, il campo peculiare della politica, il suo recinto sacro e impuro al tempo stesso. Non proprio nelle corde del giocoso, seducente, donizettiano, comico Silvio che un giorno del 2020, anno primo del Covid, lascia la sua residenza romana in un via vai davvero felliniano.
L’epilogo si snoda sotto lo sguardo vigile di una bionda «forte di calcagno, gambe lunghe – accavallate – calzando spietate scarpe Louboutin», narrato da Buttafuoco, che motteggia: «Ultimo tacco a Palazzo Grazioli».
Estratto dell’articolo di Candida Morvillo per “Il Corriere della Sera” venerdì 11 agosto 2023.
Il professor Santo Mercuri è, in Italia, il pioniere della medicina estetica rigenerativa, fra i primi a usare il Thermage, il laser frazionale, gli ultrasuoni focalizzati, il plasma arricchito di piastrine e, oggi, la MetaCell Technology. Ha lanciato slogan come «il lifting della pausa pranzo» e «il cocktail di giovinezza», ma soprattutto, dal 2002, è primario di Dermatologia dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, ha all’attivo diecimila interventi di chirurgia oncologica e ricerche su vitiligine, psoriasi e sulle nuove metodiche laser.
Dal 2011, è l’esperto in Dermatologia del Consiglio Superiore di Sanità. Volto anche tv (Basta poco e Myr su La5), è preceduto dalla chioma leonina e dalla fama di avere clienti illustri. Il primo fu Silvio Berlusconi, che lo aiutò a comprare le prime attrezzature all’avanguardia:
«Lo conobbi intorno al 2002, era presidente del Consiglio e aveva un problema serio di dermatologia. Io ero in vacanza in Calabria, vengo chiamato dall’ospedale, mi dicono che devo andare a Roma a visitarlo. Rispondo che non posso: non ho con me giacca e cravatta».
Per via di una giacca, stava per perdere l’appuntamento col destino?
«Però insistettero, mi dissero di partire lo stesso. Prendo il dermatoscopio e vado in maniche di camicia. Arrivo a Palazzo Grazioli, lo visito, lui accetta la terapia e lì inizia una bella e lunghissima amicizia. L’ho visto centinaia di volte».
Per fargli centinaia di trattamenti estetici?
«Per tante cose e di più. Anche per i trattamenti. Amava il bello e, quindi, apprezzava la medicina estetica».
Che cosa apprezzava, nello specifico?
«Non me lo faccia dire».
Ma ormai è storia.
«Ho parlato di lui una volta in radio, alla Zanzara, sono stato massacrato».
Ci credo: era il 2014 e aveva detto che Berlusconi aveva la pelle di un quindicenne. Non fu un tantino esagerato?
«Lo era: non l’aveva da quindicenne, ma l’aveva molto bella. Ci teneva, la trattava bene e ascoltava i consigli».
Quell’anno, lei fu anche candidato da Forza Italia alle Europee.
«Me l’aveva chiesto lui. E fu l’unica volta che riuscì a farmi tagliare i capelli. Ogni volta che mi vedeva, mi diceva di tagliarli. Me l’ha detto anche quando l’ho salutato per l’ultima volta al San Raffaele. […]».
Lei che trattamenti fa?
«Su di me non ne ho mai fatti. Ma quattro pazienti di medicina estetica su dieci sono uomini. E ho tanti pazienti famosi: uno è l’imprenditore della moda Brunello Cucinelli: è innamorato della medicina rigenerativa, fa con me la MetaCell Technology. Lo stesso il direttore di Chi Alfonso Signorini. Mentre ad Al Bano Carrisi ho fatto il Prp al cuoio capelluto, per tutelare la chioma. Ha risultati ottimi su chi i capelli li ha già, ma purtroppo non serve a chi è calvo».
Anche Emilio Fede veniva da lei.
«L’ho conosciuto tramite Berlusconi. Mi ha invitato tante volte al Tg, con me è stato gentile».
Quando fece scalpore per il viso gonfio, lei disse: stavolta, non posso prendermi il merito.
«Infatti, non l’avevo trattato io».
Clienti donne?
«Ne seguo alcune molto importanti, ma non sono autorizzato a citarle».
Signore della famiglia Berlusconi?
«Qualcuna, ovvio. Un paziente è Cristiano Malgioglio: gli ho trovato un melanoma che poteva farlo morire. Stava andando in Brasile e non l’ho fatto partire. Me ne sono accorto col dermatoscopio normale, non avevamo ancora il microscopio confocale, che mi è stato poi donato da Luisella Cassani Carozza, della Same trattori: sui nei, può dare risposte prima di fare il più invasivo esame istologico. Non sostituisce la biopsia, ma può evitare cicatrici non necessarie». […]
«Meno male che Silvio c’era», il libro di Bottura parla molto di tv. Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.
Invece di recensire un programma, oggi parlo di un libro che è tutto un programma: Meno male che Silvio c’era di Luca Bottura, edito da Baldini+Castoldi. Ora spiego i motivi. È un libro che parla molto di tv ed è scritto come fosse la sceneggiatura di una trasmissione folle che non andrà mai in onda; per questo conviene leggerlo subito. Affrettatevi.
La struttura del libro offre diverse stratificazioni: parla di Silvio Berlusconi, ovviamente, ma anche delle prime esperienze televisive del «giovane» Bottura, arruolato in quella magica categoria che sono gli «autori» televisivi (una piccola compagnia di giro, possibilmente instabile); parla soprattutto di molte persone che hanno lavorato nelle tv di Berlusconi a cominciare da Guglielmo Zucconi e Giorgio Bocca, ingaggiati perché quelli della Fininvest volevano «usurpare pubblico alla Rai tramite contenuti non (ancora) troppo sgangherati.
Il modello di Canale 5 è palesemente la Rete1 della Rai. Rassicurante, garbato, così somigliante a quel Cesare Cadeo che con Silvio ha seguito i primi passi della tv via cavo di Milano 2, l’embrione di tutto». Fermoimmagine: il primo incontro con Pippo Baudo del giovane autore, il direttore generale della Rai Carlo Cattaneo che chiama Tony Renis alla direzione artistica del Festival di Sanremo, il tg di Emilio Fede, i consigli per gli acquisti di Maurizio Costanzo, le news quotidiane di Gianfranco Funari e poi i grandi programmi di successo fino al «Grande fratello» che ci regala, tra l’altro, l’epifania di Rocco Casalino, i backstage dei programmi. Bottura insinua che per un certo periodo Viale Mazzini e Cologno Monzese avessero lo stesso indirizzo, come quella volta che il già citato Cattaneo portò a Sanremo nientemeno che Adriano Celentano (era la famosa volta, lo ricordo a Bottura che era nella schiera degli autori, addetto a Mogol, che Celentano insolentì in diretta un critico tv).
Non so se esiste un Paese in cui la vita politica è così intrecciata con quella televisiva: format e sostanza, come recita il titolo di un capitolo. Secondo Bottura in Berlusconi si rifletteranno molti politici: Beppe Grillo, Gianfranco Fini e, da ultima, Giorgia Meloni, come se ci fosse una curiosa coincidenza tra elettore e spettatore.
Estratto da repubblica.it - 5 luglio 2023
Nel giorno in cui Barbara D’Urso spiega a Repubblica che la fine della trasmissione Pomeriggio 5 non è stata concordata con l’azienda […] rispunta uno spezzone d’archivio con Mike Bongiorno ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa in cui racconta che un trattamento simile venne riservato anche a lui.
Era il 2009 e durante la trasmissione sulla Rai il celebre conduttore […] si era sfogato con l’amico e collega: “Adesso chi ha in mano il gruppo è il figlio, Pier Silvio. A Natale non è arrivato niente, ho chiamato un funzionario che mi ha detto 'come non ti hanno detto niente?' No a me non hanno detto niente.
Strano però sai non abbiamo soldi quindi non rinnoviamo il contratto. Ma pensa te... parlare di soldi? Io ho tanto lavoro, non ho bisogno di quello. Sono rimasto così male che tu non hai idea. Non mi hanno preavvisato, non mi hanno chiamato anche solo per dare un saluto 'grazie per tutti questi trent'anni che hai fatto qui con noi'.
Niente sono spariti tutti. Ho sofferto molto. Lo puoi chiedere a mia moglie. Non è possibile lavorare con un gruppo per trent'anni e poi all'improvviso sei fuori e nessuno ti preavvisa o ti dice grazie".
Bongiorno allora decise di chiamare Silvio Berlusconi: “Ho chiamato il patron […] la televisione l’ho fondata con lui. Sono passati più di cinque mesi, non mi ha mai richiamato. Sono molto triste, ho fatto qualcosa di brutto, chissà cosa ho combinato. […] Ho cercato di fargli gli auguri a Natale, la segretaria mi ha detto: ‘C’è una lunga lista, la richiamiamo quando è il suo turno”.
Estratto dell'articolo di Renato Franco per corriere.it il 14 giugno 2023.
Il primo incontro?
«Lo ricordo benissimo. Lui si era innamorato di me. Si innamorava spesso delle persone e quando si innamorava le corteggiava in modo incessante. Mi volle conoscere, andai a incontralo ad Arcore e mi disse che mi voleva come direttore artistico delle sue reti. Io tentennavo perché lui aveva Mike Bongiorno, ma mi tranquillizzò dicendomi che lo aveva fatto presidente. A quel punto accettai».
Pippo Baudo ha conosciuto bene Silvio Berlusconi: nel 1987 lo convinse a lasciare la Rai e a firmare un contratto in esclusiva con l’allora Fininvest. La cifra era da capogiro: 50 miliardi di lire per 5 anni.
[…]
Qualcuno la prese di punta? Chi le fece la guerra?
«Ufficialmente nessuno si lamentò».
Ufficialmente no, ma tra le righe, magari Ricci...
«Beh Ricci sì. Lui ce l’aveva da sempre con me e quella diventò un’altra occasione per attaccarmi».
Su Canale 5 fece «Festival» con Lorella Cuccarini...
«Fu un successo enorme. Registravamo le puntate al Palatino, finivamo di montare alle 6 del mattino e poi partivano le cassette per le varie regioni italiane perché allora non c’era ancora la diretta. Ricordo che, quando arrivavano gli ascolti, la prima telefonata al mattino me la faceva lui».
In fondo però lei era un volto Rai e non riuscì a diventare veramente un uomo Mediaset. A gennaio del 1988 decise di rescindere l’esclusiva, anche a costo di una penale mostruosa (si parla di miliardi) e dell’inattività per un anno, come prevedevano le clausole del contratto.
«Andai da Berlusconi a dirgli che volevo andarmene e lui mi rispose che non poteva fare brutta figura nei confronti dei suoi, che dovevo pagargli una penale come risarcimento. Lui sapeva tutto di me, sapeva che non avevo tutti quei soldi e allora mi chiese di cedergli un palazzo di mia proprietà che gli stava molto a cuore. Io ormai mi ero fissato, volevo andarmene e gli dissi che andava bene, che ci saremo rivisti più avanti per firmare. Lui mi stoppò: firmiamo subito. Aprì una porta ed entrò un notaio. Aveva previsto tutto».
Insomma Berlusconi l’ha fregata, il palazzo valeva miliardi...
«Eh sì, mi ha fregato. Io volevo trattare, ma sull’atto c’era già scritto tutto, anche le particelle catastali. In quella palazzina di fronte alla Fao ci mandarono il Tg5. Enrico Mentana la chiamava Palazzo Baudo».
[…]
Molti però sostengono che il suo modello di tv ha fatto danni...
«Berlusconi rappresentava il Paese di allora e quello che è venuto dopo. Tutto questo danno non penso assolutamente che l’abbia combinato».
Dagospia il 14 giugno 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1
“Io e Boldi eravamo famosissimi, facevamo una trasmissione che andava solo al nord e Berlusconi ci invitò a casa sua per convincerci a passare a Mediaset. Ci offrì 800 milioni, io gli dissi che volevo 1 miliardo e 200 milioni e lui rispose: va bene. Ma poi non se ne fece niente, noi facevamo una cosa enorme tipo Saturday Night Live e non c'era la possibilità di realizzarla all’epoca…”
Lo racconta a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l’attore e comico Teo Teocoli. “Tornai a Mediaset anni dopo per la trasmissione Emilio, che si doveva chiamare Silvio in realtà”. E perché non ebbe quel nome?
“Fu come quando feci l’imitazione di Berlusconi che però non si vide mai. Ero perfetto, mi ero messo il nasone, avevo i capelli simili e sarei dovuto stare seduto ad una scrivania dove avrei spinto dei bottoni per attivare gli applausi e le ovazioni - ha raccontato Teocoli ad Un Giorno da Pecora - tutte cose un po’ esagerate. E quindi la capa, la signora Ruffini, mi consigliò di non farlo. In pratica mi disse: evita, sennò si incazzano tutti…mi chiesero, per piacere, di non mandarlo in onda”.
Estratto dell’articolo di Giovanni Terzi per “Libero Quotidiano” il 14 giugno 2023.
(…)
Ma adesso cosa fa Fabrizia Carminati? Ho un sacco di cose da fare anche se non lavoro, può sembrare una contraddizione ma è così».
Mi spieghi.
«Innanzitutto mi occupo di mio marito, che per troppo tempo ho trascurato, e di mio figlio Massimiliano; entrambe le cose mi danno enormi soddisfazioni. Due anni fa ho smesso di lavorare per Primantenna una rete privata, dove facevo un programma di cucina».
Perché ha smesso?
«Gli sponsor iniziavano a mancare ed ho così deciso di chiudere e dedicarmi alla mia famiglia ed a me».
(…)
Mi diceva che gli anni '80 sono stati straordinari. Lei come incominciò?
«Per caso. Facevo la modella perché, nonostante non fossi altissima, ero molto proporzionata. Mi chiamarono, quelli della mia agenzia, per fare da valletta a Zingonia, una località in provincia di Bergamo. Li c'era Mike Buongiorno che presentava e quando mi vide disse "Ma sei americana?". Forse perché ero bionda è piena di efelidi. La serata finì così. Poi, sempre nel 1979, la mia agenzia mi chiamò per dirmi se volevo fare un provino per Canale58. Accettai».
E come andò?
«Andai a Milano 2 e mi accolse Sancrotti, assistente di studio, ero in un piano interrato insieme a trenta bellissime ragazze. Sancrotti entrò e mi disse "Mike Buongiorno vuole te". Rimasi senza parole».
Non se lo aspettava per niente?
«Ero arrivata a Milano 2 con la mia 500 e non avrei mai immaginato di firmare il mio contratto con Silvio Berlusconi».
Fu lui in persona a firmare il contratto?
«Sì. E tengo ancora una copia di quella meravigliosa esperienza».
Ma lei ebbe una relazione con Silvio Berlusconi?
«Assolutamente sì. È un uomo affascinante ed galante. Veniva sempre ad ogni registrazione che facevo e poi ci portava tutti fuori a mangiare allo Sporting di Milano 2 alla sera. Era piacevole, intelligente e si metteva a cantare e suonare al pianoforte. Furono anni irripetibili».
E poi come finì?
«Ad un certo punto dissi che ero innamorata di un uomo (oggi il mio marito) e così una sera mi portò a vedere al Teatro Manzoni di Milano. In quella occasione c'era una bellissima donna come protagonista che di nome faceva Veronica Lario».
La futura moglie?
«Alla fine dello spettacolo dissi a Berlusconi di andare in camerino a complimentarsi con l'attrice protagonista e lui naturalmente lo fece».
Possiamo dire che fu lei Fabrizia a gettarlo tra le braccia della futura Berlusconi?
«Non abbiamo la prova contraria e comunque quella sera andò dalla Lario».
E lei, Fabrizia?
«Io il 15 dicembre 1990 mi sposai con Mimmo ... non le dice niente questa data?».
No, perché?
«Perché sempre il 15 dicembre del 1990 si sposò anche Berlusconi con Veronica. Senza dircelo ci siamo sposati nello stesso momento e lui fece un gesto davvero affettuoso».
Quale?
«Il giorno dopo mi arrivò un telegramma con scritto "Scusa il ritardo, ma ero quel giorno molto impegnato anche io", firmato Silvio».
Parla di Berlusconi con grande amore.
«Certo, se ho una relazione è perché c'è amore, di lui ho un bellissimo ricordo».
Lei ha lavorato con tanti grandi partendo da Mike Bongiorno. Che rapporto avevate?
«Lo devo ringraziare perché mi ha insegnato la professione. Ho imparato tutto da lui. Umanamente non abbiamo mai avuto rapporti di amicizia».
E con Dorelli, Scotti, Columbro?
«Con Marco Columbro forse ho mantenuto un minimo di amicizia. Con tutti gli altri ho sempre tenuto separata la mia vita provata da quella pubblica. Anche con i Gatti di Vicolo Miracoli si lavorava benissimo ma poi io scappavo da mio figlio. A vent' anni ero già mamma ...».
Oltre che a Mediaset lavorò anche in Rai?
«Sì, con Raffaella Carrà nel 1990, la trasmissione era Venerdì, sabato, domenica Raffaella».
Come si trovò?
«La Carrà è una primadonna e da star si è sempre comportata anche con me. Commentava gli abiti che indossavo e se, per caso, la mia gonna era più corta della sua mi faceva cambiare».
Poi improvvisamente lei scomparì dalle scene televisive. Come mai?
«Non l'ho mai capito! Iniziavo a chiamare la Ruffini e altre persone di Mediaset ma tutte mi rispondevano nello stesso modo...».
E come?
«Non ci sono programmi... Allora iniziarono a chiamarmi per qualche ospitata ma a parte Il gioco dei nove ho preferito uscire dalle scene».
Ha sofferto per questo?
«Se non mi è venuto un esaurimento nervoso in due anni è solo perché amo la vita e la mia famiglia mi è stata sempre accanto. Però penso che la mia storia sia simile a tante altre nel mondo dello spettacolo».
VISTO DA – My Way. Silvio spiega Berlusconi. Nicola Santini su L'Identità il 13 Giugno 2023
Se penso che questo docu-film (chiamiamolo così) l’ho rivisto giovedì scorso, mi si accappona la pelle. E non l’ho rivisto per recensirlo ma perché in un post su Facebook ognuno di noi veniva invitato a ricordare il motivo per il quale ha fatto il primo abbonamento a Netflix e il mio fu proprio My Way. Il motivo per cui oggi lo recensisco è abbastanza ovvio, ma non scontato.
Di questo lavoro potrei anche raccontare la genesi, o meglio, qualche chicca origliata ai tempi della sua lavorazione. Per il libro che lo ha preceduto e ispirato ci furono non poche tensioni. Qualche testa rischiò pure di saltare, così si disse. E io ci godei, perché se avessi potuto avrei dato il mio personale avvallo, non tanto per i contenuti del libro quanto per il piacere di veder rotolare giù dal letto del fiume quella testa. Ma questa è una faccenda privata e i fiumi ogni tanto qualche soddisfazione la regalano ancora.
Motivo due per cui questo lavoro meritava (e merita!) di esser visto è la regia di Antongiulio Panizzi, che per quanto mi riguarda, oltre alla indiscussa bravura dietro le telecamere rappresentava anche una garanzia di non propinarci quell’agiografia patinata che un po’ tutti temono sempre quando c’è di mezzo un personaggio di questa taratura e influenza.
My way non è un’agiografia. Non lo è per niente. Come non lo è il libro, benché le pagine, che se ne dica, sono sempre meno generose delle immagini e il motivo è abbastanza semplice: l’empatia, se ce l’hai in video aiuta. Ti può pure stare sull’anima il personaggio, ma come apre bocca lo stai a sentire, e la vita, quella vita, inevitabilmente affascina.
Le critiche in molti casi sono state feroci, ma, come sempre su certe poltrone ci si siede col culo prevenuto: si vorrebbe assistere a una crocifissione, se non c’è quella il film è fazioso e fa schifo. Mannaggia a loro, il film non è fazioso, non di quel fazio quantomeno.
Oggi va visto come un ottimo contributo storiografico e documento per il futuro sul costume italiano.
Berluscono, lo strilla il sottotitolo, parla con le sue stesse parole. Ma il prodotto parla di luci ed ombre, e lo fa con un certo equilibrio.
Non nasconde, ad esempio, certi capitoli scottanti, che il protagonista, va da sé, ridimensiona: «E adesso le faccio vedere – dice, non enza un’aria scanzonata – questa sala cult (pronunciato con la u voluta, a parer mio) del famoso bunga bunga».
Poi la visita negli spogliatoi con Berlusconi che si rivolge Inzaghi, allenatore del Milan, consigliandogli di «attaccare», davanti ai suoi giocatori. Lì si legge, e si mostra anche un certo imbarazzo del Mr. E dei calciatori presenti. Chiunque altro lo avrebbe considerato un cavallo da cavalcare oppure da nascondere in certe stalle al buio. Qui lo si rende parte del tutto. Perché la narrazione è onesta: Berlusconi sapeva imbarazzare come nessuno e per comprenderlo è fondamentale il piano d’ascolto anche di chi lo guarda con occhio sgomento, senza bisogno di farne una macchietta.
My Way, Berlusconi In His Own Words, questo documentario sulla vita di Silvio Berlusconi tratto dal libro di Alan Friedman, diretto da Antongiulio Panizzi e prodotto dalla Leone film Group, scaturito da oltre 28 ore di registrazione in cui il Presidente (continuano in molti a chiamarlo così) racconta la sua vita, in uno stato di piena fiducia nei confronti del suo intervistatore, indulgente verso se stesso, ma anche aperto, empatico, onesto come raramente i politici sono. Restìo, per una sfiducia maturata nel tempo, alle interviste non “telefonate” come si dice in gergo, qui, si fa vedere per vizi e virtù. Per i peccati, forse ora ci sarà il tempo e il modo, qui il tutto viene narrato senza occultare, ma con una benevolenza forse straripata per il principio dei vasi comunicanti che diventa parte non trascurabile dello storytelling: se sentivi parlare Berlusconi delle sue vicende non c’era mai vittimismo, non c’era mai contraerea, solo un dare quella che secondo gli occhi contagiosi del protagonista era una faccenda che meritava la giusta dimesione, ma che è chiaro (anche dal documentario) quanto gli sia costata cara.
La lezione, se c’è è su quattro zampe: Dudù, che a un certo momento è diventato un amico inseparabile, diventa il simbolo dell’unico fedelissimo del Cavaliere. Bisogna, ovviamente, avere lo spirito giusto per intenderlo. Ma chi ha scritto, rappresentato trasformato 28 ore in un’ora e trent’otto non poteva non capire.
Estratto dell'articolo di Gabriele Romagnoli per “la Stampa” il 13 giugno 2023.
Verso la fine ha chiuso il cerchio comprandosi Radio Città del Capo, l'emittente storica della sinistra bolognese. L'ultimo scacco del re nel campo dismesso dall'avversario. L'ultima mossa di un'avventura mediatico/politica.
Non c'è mai stato confine: il programma era la comunicazione, la comunicazione il programma. Di qui la campagna elettorale delle utopie, il governo degli annunci, i sorrisi, le canzoni, la televisione.
Ripartiamo proprio da lì, per riassumere la storia del rapporto tra Silvio Berlusconi e i media, dal mezzo che più di ogni altro lo ha rappresentato: il settimanale Sorrisi e Canzoni Tv, appunto, con le sue copertine garrule, il logo su quel fondo azzurro che ha sempre raccomandato. Al direttore di un suo tg (5 e/o 1, a seconda del momento) suggerì: «Tanto azzurro sugli schermi, eh, rilassa la gente, evoca le vacanze, l'assenza di preoccupazioni».
Guarda, poi, i cieli alle sue spalle nei manifesti di Forza Italia.
I programmi della tv come quelli di governo, la seduzione istantanea, con un gesto di inaudita cortesia, accompagnato da un assegno di uguale portata o in bianco (come quello che offrì a Sandra e Raimondo o a certi senatori per defezionare in suo favore).
Ciò che non si aspettava è che qualcuno potesse non ricambiare, che qualcosa potesse non essere comprato.
Lo presero di sorpresa l'indisponibilità di Indro Montanelli (altroché Rosy Bindi) quando lasciò il «suo» Giornale per fondare la Voce e, ancor più, quella della stampa intera a portarlo in trionfo sulle ginocchia dopo la vittoria elettorale del '94.
«Ma non erano, per definizione, governativi?» si chiese stupito. L'avviso di garanzia consegnato in pieno G7 a mezzo stampa lo sbalordì: più i modi che la cosa in sé. D'altronde, se un capo di governo è nei guai ma la tv e i giornali non lo raccontano, è davvero nei guai?
Il fatto gli parve contraddire la storia. Quale? La sua. «La mia storia» era il titolo dell'indimenticabile opuscolo spedito nelle case degli italiani alla vigilia del voto. Trasudava fiducia, successo e, va da sé, azzurro. Non c'era autore, come nella Bibbia. Tramandava una vicenda esemplare.
Avendo fede, poteva salvare anche te: bastava credere, nelle tue forze, nella sua venuta e nel milione di posti di lavoro.
Rispetto ai media Berlusconi ha praticato (senza perdere tempo a teorizzarla) la disintermediazione.
Ha eterodiretto i suoi giornali e telegiornali (fino al punto in cui alcuni esecutori lo hanno scavalcato, avvolti nelle bandiere, piantando le bandiere, facendosi bandiere al vento). Ha compilato le scalette dei varietà domenicali (intuite come le autentiche fabbriche del consenso). Ha fatto il regista delle proprie apparizioni, curandone il dettaglio, rendendo ogni cosa illuminata: un effetto cross screen dai denti e dagli occhi, il resto perfettamente ammorbidito dalla calza sull'obiettivo. Alle spalle, la libreria levigata e marmorea. Non era l'epoca digitale, non si poteva bloccare e zoomare, ma si può stare certi che non si sarebbe trovato un libro sbagliato. O sfogliato.
Nei salotti televisivi altrui conduceva lui, sempre e comunque. Nessuno, neppure i più scafati, gli è stato al passo. Basti pensare a come Beppe Grillo è affondato nelle sabbie mobili di Bruno Vespa e come invece Berlusconi lo abbia circoscritto e coinvolto mentre firmava il contratto con gli italiani.
Il vero blob era lui. Lui la gelatina che ha avvolto in un gommoso fascio parole e musica. Quel che non poteva comprare ha cercato di toglierlo dal mercato. Ha usato volonterosi sicari per «character assassination» che non si è mai intestato.
È stato, anche, un continuo bersaglio, ma faceva parte del gioco. L'ha capito troppo tardi, pensava bastasse darsi le carte, ma anche un solitario ha le sue regole. «Unfit» a chi? È stato l'ossessione dei suoi avversari, l'oggetto di nomignoli più o meno azzeccati e feroci che svaniscono con lui.
Ha offerto il proprio corpo allo scrutinio, facendone fiction dai capelli al fondo delle scarpe. Si è sempre esibito, tranne una volta. Risulta ancora incredibile che non abbia accettato un duello tv. Non è possibile abbia mai dubitato di vincere, anche perché il più delle volte ci è riuscito. Gli bastava lasciar perdere i numeri, i fogli ripiegati, le penne, quel grande ingombro che è la storia e fare quel che meglio gli riusciva: teatrino.
Magari ripulendo la sedia su cui era stato seduto l'avversario, prima con foga, poi con attenzione, con una mimica che poté più d'ogni offesa.
(...)
Estratto dell’articolo di Claudio Fabretti per leggo.it il 15 giugno 2023.
Non è un mistero la passione di Silvio Berlusconi per la musica. Dalle sue prime esperienze lavorative negli anni 50 nei panni di crooner sulle navi da crociera alle canzoni swing interpretate assieme all'amico inseparabile e futuro socio in affari Fedele Confalonieri fino ai testi scritti per l’album di Mariano Apicella del 2003, "Meglio ‘na canzone". Quello che molti non ricordano, probabilmente, è che il Cavaliere è stato anche un discografico.
Alla testa di una etichetta come la Five Record che, nata per dare risalto soprattutto a sigle e prodotti televisivi di marca Mediaset, divenne tra anni 80 e anni 90 una vera fucina di dischi, anche firmati da nomi importanti della canzone italiana.
Five Record venne fondata da Berlusconi nel 1981 sotto l'ombrello della Fininvest, con sede a Cologno Monzese. Molti artisti che pubblicarono i propri dischi con questa etichetta nello stesso periodo lavoravano anche per l'azienda televisiva del Cavaliere. La label lombarda, infatti, nacque proprio per commercializzare le canzoni delle sigle televisive dei programmi delle reti Fininvest (cartoni animati, varietà, quiz, soap opera e telenovelas),
Ma le attività dei canali del Biscione si stavano allargando sempre di più, coinvolgendo artisti di ogni genere. E così Berlusconi incaricò Augusto Martelli, autore di quasi tutti i jingle e le sigle della rete, di esplorare la possibilità di acquisire alcuni di loro nella scuderia dell'etichetta.
In breve tempo, così, finirono sotto contratto con la Five Record alcuni big storici della canzone italiana, magari in cerca di un rilancio, come Gino Paoli, Orietta Berti, Iva Zanicchi o Bruno Lauzi, ma anche Drupi, Donatello, Patty Pravo, Maurizio Vandelli dell'ormai sciolta Equipe 84 e, nell'ultimo periodo di esistenza, anche alcuni nomi esordienti specialmente come interpreti di sigle per le telenovelas ispano-americane (Valentina Gautier, Andrea Monteforte, il noto attore argentino Carlos Mata).
Tra gli altri artisti che incisero per la label berlusconiana ci furono I Nuovi Angeli, Mal dei Primitives, Dionne Warwick, Wilma Goich, Wess degli Airedales, Lorella Cuccarini, Giorgio Faletti, Edoardo Bennato, i Bee Hive con la voce italiana solista di Enzo Draghi, Manuel De Peppe, Francesco Salvi, Giorgio Faletti, Fiorello, nonché il fantomatico trio Ro.Bo.T., composto da tre vecchie glorie come Rosanna Fratello, Bobby Solo e Little Tony.
Ma a far decollare le vendite della Five Record furono soprattutto la star delle sigle per cartoni animati, Cristina D'Avena, con quasi 6 milioni di copie vendute in oltre trentacinque anni di carriera (il solo singolo "Kiss Me Licia" vendette 200mila copie), e la sexy diva degli 80's Sabrina Salerno, che esplose in tutta Europa con il singolo "Boys" e arrivò a vendere più di 20 milioni di dischi in tutto il mondo.
Non mancarono anche fenomeni più interessanti dal punto di vista strettamente musicale, come i Novecento della talentuosa vocalist Dora Carofiglio (colei che prestava la voce alle prime produzioni di Valerie Dore) e i Change, progetto italodisco prodotto dal polistrumentista e arrangiatore bolognese Mauro Malavasi, destinato a infrangere persino un record storico: furono infatti i primi italiani con una produzione dance a spingersi in alto nella classifica Billboard 200, arrivando fino al numero 29.
Tra il 1991 e il 1993, la Five Record ha cambiato nome, divenendo RTI Music e con quest’etichetta uscirono gli album di grande successo di Ambra e il disco d’esordio di un adolescente Paolo Carta (oggi marito di Laura Pausini)...
Estratto dell'articolo di Franco Zanetti per rockol.it il 13 giugno 2023.
Nell'elenco delle tante attività svolte nella sua vita da Silvio Berlusconi […] c'è anche quella di autore di canzoni. Amante della musica (aveva anche, in gioventù, cantato sulle navi da crociera), per il suo musicista e amico Mariano Apicella ha scritto i testi in napoletano di alcune canzoni, poi raccolte in un CD della SAIFAM nel 2006 […].
Prodotto da Guido Dall'Oglio, già dirigente della divisione musica di Mediaset, di recente entrato in Pirames International, e arrangiato da Adriano Pennino, Demo Morselli, Gianfranco Lombardi, Maurizio Pica, Renato Serio, Valeriano Chiaravalle, il CD, cantato da Mariano Apicella (anche autore delle musiche) presenta la tracklist che segue:
Ciucculata 'E Café
Oggi Fa N 'Anno
Nuie Ca Facimme Sunna'
Meglio 'Na Canzone
A Gelusia
Ammore Senza Ammore
Pe 'Nun Je Penza'
Nun Po Fernì
Sue' Sue' Sue
'Stu Nummero 'E Telefono
Estratto da open.online il 15 Giugno 2023.
[…] Berlusconi è riuscito anche dopo la sua morte in un’impresa ambitissima nel panorama discografico. Ha fatto balzare al primo posto della classifica Spotify «Viral 50 Italy» l’autore dell’inno Menomale che Silvio c’è, Andrea Vantini. Il cantautore veronese scrisse il brano negli anni 2000.
Cominciò a circolare nelle convention di Forza Italia fino a diventare, nel 2008, l’inno ufficiale della campagna elettorale che portò il Popolo della libertà alla vittoria. La colonna sonora del partito che, ottenendo quasi il 38% delle preferenze in quelle politiche, conferì al Cavaliere le chiavi del suo quarto e ultimo governo.
Vantini, salito in cima alla classifica nelle scorse ore, subito dopo la morte di Berlusconi, ha dichiarato all’Arena: «Mai mi sarei aspettato che il presidente Berlusconi mi chiamasse, all’epoca, e che quel brano avrebbe avuto un così grande successo. Sono davvero colpito dalla morte del presidente, lo ritenevo davvero una persona immortale».
Il cantautore, in passato, aveva raccontato che l’invenzione di quel brano gli ha causato diversi problemi nel mondo musicale: «Se avessi fatto una canzone per Giorgio Almirante, avrei avuto meno ripercussioni negative sulla mia carriera. La mia colpa è aver scritto quelle parole che non si potevano dire, “Menomale che Silvio c’è”. […]».
Estratto dell’articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 14 giugno 2023.
[…] «[…] ho perso un amico, se posso permettermi, un amico fraterno», si commuove Mariano Apicella, 60 anni, l’ex posteggiatore napoletano diventato lo chansonnier personale del Cavaliere, voce e chitarra, colonna sonora delle stagioni più felici.
Come l’ha saputo?
«Mi hanno avvisato da Arcore con un messaggio sul telefonino. Un colpo al cuore.
Non ci volevo credere. Sono rimasto seduto in macchina da solo per più di un’ora, fermo. Da quel momento ho un vuoto nello stomaco che ancora non se ne va».
L’ultima volta che vi siete sentiti, lei e il presidente.
«A Natale, per gli auguri. Lo avevo cercato ad Arcore, mi ha richiamato subito. “Dottore, allora ci vediamo presto”, lo salutai. “Mariano, aspetta un momento”. “Dica, dottore”.
“Sappi che ti voglio tanto, tanto bene”. Risento ancora nelle orecchie queste sue parole, come un’eco».
Quella sera in cui l’ha conosciuto.
«Era il 27 maggio del 2001, Berlusconi era venuto a Napoli per un comizio dopo le elezioni, alloggiava all’hotel Vesuvio. La cena era al roof-garden. Io ero stato ingaggiato per la serata. Stavo accordando la chitarra quando si è aperto l’ascensore ed è apparso lui, da solo, con un pullover turchese sulle spalle, lo ricordo come fosse ora. Mi si avvicinò. “Sa, io un tempo facevo il suo stesso mestiere. Dopo ci canta qualcosa?” “Certamente Cavaliere”».
E poi?
«Mi misi in un angolo, per discrezione, e attaccai a suonare. Ad un tratto mi chiamò al tavolo. Credevo volesse scegliere un brano da ascoltare. “Venga di là con me, le voglio parlare”. Lo seguii in un salottino. E mi offrì di lavorare per lui».
E lei?
«Avevo già firmato un contratto con un locale di Portofino. Chiamai il titolare: “Ti chiedo scusa, ma è l’occasione della vita, ti prego di non farmi causa”. “Tranquillo, ti capisco, vai pure”».
Berlusconi le cambiò la vita.
«Fino a quel momento […] Campavo di mance. Mentre cantavo scrutavo bene i tavoli, cercando di capire ogni volta quale fosse quello più generoso. Sa che vuole dire avere la sicurezza di uno stipendio, per uno come me?».
Una bella sensazione.
«Per 22 anni non ho avuto più pensieri. Ho suonato per lui alle feste nella villa in Sardegna, con Putin, con Blair, con chiunque. Ogni volta che voleva, ero sempre pronto.
Negli ultimi tempi però soltanto cene tranquille tra amici».
Repertorio napoletano.
«Al dottore piacevano soprattutto ‘Na sera ‘e maggio e Fenesta vascia , non mancavano mai. A volte prendeva il microfono e si univa a me, oppure lo accompagnavo alla chitarra, aveva la passione per le canzoni francesi».
Gli dava ancora del lei.
«Il tu non me lo permettevo. Ma per lui ero uno di famiglia. Un giorno mi chiamò, era presidente del Consiglio, e mi chiese: “Mariano, com’è andata questa settimana?”. “Bene, dottore, mi sono stancato solo a sentire dalla tv quante cose ha fatto lei”».
Un suo regalo che le resta caro.
«Un orologio Longines, me lo diede nel 2008, lo porto sempre». […]
Estratto dell’articolo di Stefano Cingolani per “il Foglio” il 13 giugno 2023.
E’ stato il protagonista di una nuova era della televisione in Italia e non solo, se ne va quando la televisione come noi l’abbiamo conosciuta e lui l’ha trasformata chiude i vecchi battenti per entrare in una terra sconosciuta. Silvio Berlusconi lascia la sua creatura in buona salute, ma alla ricerca di un futuro.
Non parliamo di Forza Italia, perché […] l’impronta più duratura del Cavaliere è senza dubbio nella televisione. […] La domanda che molti si fanno è per quanto ancora e per andare dove.
Mediaset (tutti la conoscono ancora con quel nome) adesso si chiama MediaforEurope, un messaggio non solo un marchio, che fa capire chiaramente dove vuole andare a parare: diventare un grande gruppo davvero internazionale. Il percorso è corretto, anzi inevitabile perché il mercato italiano è non solo saturo, ma troppo piccolo. Tuttavia siamo ai blocchi di partenza. […] Adesso si tratta di accelerare la doppia transizione: tecnologica ed europea.
Stiamo parlando di Mediaset anche se dovremmo scrivere di Fininvest nel suo insieme, tuttavia il secondo pilastro, quello della editoria sotto l’etichetta Mondadori (con Einaudi, la ex Rizzoli, Piemme e tutto il resto) è ben saldo al primo posto in Italia e non ha problemi d’identità, tanto meno la Banca Mediolanum della quale possiede il 30 per cento affiancando la famiglia Doris.
La televisione, d’altra parte, è l’alfa e l’omega dell’avventura Berlusconi, è quella che ha portato un audace, ma piccolo operatore dell’edilizia residenziale, ai vertici del capitalismo italiano. […]
l’intero gruppo Fininvest è un “campione nazionale” che, però, deve diventare internazionale. E’ questo il compito che grava sulle spalle di Marina e Piersilvio.
Un giudizio equilibrato su Berlusconi è ancora impossibile, bisognerà attendere chissà quanto. Ma sul suo terreno privilegiato è stato un innovatore incompiuto: ha spezzato il monopolio per portare la concorrenza e ha creato un duopolio, così come in politica voleva ridurre le tasse e liberare gli animal spirits, ma è rimasto in mezzo al guado. Oggi il mercato italiano dei media è senza dubbio più dinamico e appetibile anche grazie a lui.
La barriera linguistica con le nuove piattaforme è sempre meno un impaccio. La politica resta invadente, però anche qui lo scenario è diventato più competitivo. Liberandoci da pregiudizi e paraocchi, va riconosciuto che l’Italia ha vissuto trent’anni di alternanza al governo e il mercato politico s’è aperto. Nell’uno e nell’altro campo, Berlusconi ha fatto da apriscatole.
Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2023.
«Dava suggerimenti agli autori, ai registi, agli attori; creava i format, i titoli dei programma, gli slogan, le promozioni», ha raccontato Fedele Confalonieri. «Avesse avuto un accenno di tette avrebbe fatto anche l'annunciatrice», ha scritto Enzo Biagi. «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni, la mia sarà una tv ottimista», ha ricordato Camilla Cederna citando Berlusconi.
Gli esordi L'antenata di Canale 5 si chiama Telemilano, emittente televisiva via cavo fondata da Giacomo Properzj e Alceo Moretti a Milano 2, città satellite costruita da Silvio Berlusconi. L'emittente era stata fondata nel settembre del 1974 a pochi mesi di distanza dalla sentenza su Telebiella che liberalizzava le trasmissioni televisive via cavo (Telemilanocavo).
Al cavo erano collegate circa 5.000 utenze che corrispondevano a 20.000 telespettatori. Nonostante l'esordio in sordina, nel giro di pochi anni Berlusconi rivoluzionerà l'assetto televisivo del Paese, dando vita, contemporaneamente ad altri editori come Rizzoli, Rusconi e Mondadori, al modello della tv commerciale.
La via dell'etere Nel 1978 Berlusconi decide di acquistare il canale 58 di Tv One e di abbandonare il cavo, optando per l'etere e cambiando la denominazione di Telemilano in Telemilano Canale 58, (numero scelto dal canale Uhf utilizzato per trasmettere). Due anni dopo nasce Canale 5, una syndication televisiva che raggruppa in totale dieci emittenti locali, 5 al Nord (Telemilano 58, Teletorino, TeleEmiliaromagna, Videoveneto e A&G Television) e 5 al Sud, che formano il circuito Rete 10. A rivedere oggi le immagini dell'inaugurazione di Telemilano (1978) con Berlusconi che mette in discussione il know how dei tecnici Rai («lavorano in modo diverso da come lavoriamo noi») e si augura di avere presto la diretta, oa rivedere la lunga festa di «Natale a Telemilano» con Mike Bongiorno e il piccolo Michelino, insomma a rivedere le immagini di quel memorabile esordio si prova una grande tenerezza.
Tv di famiglia Era una tv di famiglia (molto più della Rai), era una tv dai dichiarati gusti provinciali, era una tv di semplici fatta per i più semplici. Una grande intuizione, bisogna ammetterlo. Lo slogan recitava: «Corri a casa in tutta fretta, c'è un Biscione che ti aspetta». […]
Quel Mike che macina chilometri per presentare il suo GiroMike (poco più di una festa di paese ripresa dalle telecamere, grazie ai cantanti ospiti), quel Mike che presenta I sogni nel cassetto sta cambiando il modo di fare tv.
I contratti Mike ricordava così il momento della proposta: «Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all'anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: “Seicento milioni”. E io: “Per quanti anni?”. E lui: “Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!”. Non credevo alle mie orecchie».
Craxi e il decreto Ma non tutto fila liscio. Il 16 ottobre 1984, alle 9 di mattina, agenti della Guardia di Finanza e funzionari della Escopost si presentano a Torino, Roma e Pescara nei sedi delle emittenti locali che ritrasmettevano, in interconnessione, i programmi delle reti Fininvest. Sequestrano le videocassette che contengono le registrazioni dei programmi e sigillano i «ponti radio» che consentivano alle tv di Berlusconi di riversarli in tutta Italia violando di fatto il monopolio Rai sulle trasmissioni nazionali che era stato ribadito dalla Corte costituzionale.
Di colpo, milioni di «nuovi» telespettatori rimangono orfani di Dallas , di Dinasty , dei cartoni animati dei Puffi e di Maurizio Costanzo. A risolvere la questione ci penserà Bettino Craxi, capo del governo in carica, che emanerà il famoso «decreto Berlusconi» per liberalizzare le trasmissioni.
Serie in quantità La rivoluzione copernicana dei palinsesti non avviene, dunque, solo con la riforma Rai del 1975 ma anche con l'avvento dei network nel corso dei primi anni Ottanta.
[…] Arrivano serie in quantità, ma le vere novità riguardano la loro collocazione in un palinsesto che si caratterizza, fin da subito, anche come produzione autonoma, nel solco della più consolidata tradizione. I palinsesti dei network commerciali, superata la fase pionieristica, sono un ibrido di serie americane e di spirito nazional-popolare.
Spingono verso l'estensione delle ore di programmazione e il rafforzamento del flusso televisivo, introducono massicciamente la logica orizzontale della «striscia» nel day-time, collocando il medesimo programma (tipicamente, un prodotto seriale) alla stessa ora durante tutta la settimana.
Nel giro di pochi anni il panorama televisivo nazionale risulta radicalmente mutato.
La carta vincente Pochi ricordano che Dallas è stata la carta vincente di Berlusconi per lanciare Canale 5.
Le cose andarono così: la Rai aveva acquistato i primi episodi del serial, trasmettendoli su Raiuno nel 1981 fra molte perplessità e diffidenze […] Con incredibile tempismo, Berlusconi acquista personalmente i diritti di trasmissione al Mifed di Milano […] Con Dallas, Berlusconi inaugura la contro-programmazione: la serie viene infatti mandata in onda il martedì, per suonare la giornata più debole della Rai e il giovedì, raddoppiando l'appuntamento settimanale, per fidelizzare l'ascolto. Davvero un colpo vincente.
Deregulation La deregulation dell'etere genera prima un universo radiotelevisivo locale (e talvolta strapaesano) e poi, accanto a quest'ultimo, un «modernismo conservatore», (da Premiatissima con Johnny Dorelli a Il pranzo è servito con Corrado, da Dallas al vecchio catalogo della Titanus) che trova il suo più felice compimento nell'apertura di un nuovo, ampio mercato pubblicitario. Il merito più grande di Berlusconi è stato quello di aver dato un serio impulso alle piccole e medie industrie che prima non potevano accedere alla Rai per reclamizzare i loro prodotti.
[…] L'impatto che Berlusconi ha avuto sul sistema televisivo italiano è servito non poco a imprimergli un nuovo corso. Innanzitutto, ha spezzato il monopolio della Rai sul mercato nazionale, rompendo quelle resistenze politiche che in altri Paesi europei erano già state abbattute. Questa rottura ha avuto esiti sia ideologici che commerciali, ampliando il campo dei contenuti e degli inserzionisti. Nel momento in cui la Rai sta finendo la sua carica pedagogizzante (in senso lato: all'origine, tutte le tv hanno rappresentato una fonte di istruzione), Berlusconi rimette con decisione la tv al centro del villaggio, non più con scopi formativi ma puntando sull'intrattenimento, con programmi che si imprimono nell'immaginario, e sull'estensione delle ore di programmazione.
Per imporsi, usa la strategia del doppio binario: all'idea di una tv alternativa e radicalmente nuova […] Metti a punto una formidabile macchina di raccolta pubblicitaria con una politica aggressiva di vendite e promozioni. Infine, per neutralizzare la concorrenza privata, si serve di una spiccata dose di spregiudicatezza che molto ha fatto discutere e che ha contribuito a forgiare l'immagine del «cavaliere nero». Ma l'omaggio più significativo alla tv di Berlusconi è stato fatto da Angelo Guglielmi: «La nascita dei network privati è stato un fatto positivo. Ha significato l'apertura di un sistema che prima era chiuso, bloccato, dal punto di vista industriale e da quello culturale. Di fronte a questo fenomeno, la sinistra ha reagito in modo sbagliato. Ha continuato a vedere nella tv uno strumento degradato, pericoloso, da sottoporre a vigilanza continua. Da tenere chiuso nel suo recinto, con i gendarmi intorno».
Estratto dell’articolo di Davide Desario per leggo.it il 13 giugno 2023.
Se Berlusconi è diventato il re delle televisioni, il primo ministro italiano e il presidente del Milan lo deve anche al cappello da cowboy di J.R. e al fascino di Sue Ellen di Dallas. Ma anche a Vittorio Balini, un ex bagnino di Ostia con un grande senso degli affari.
Quella di Vittorio Balini è una storia incredibile. Nato nel 1930, insieme ai suoi cinque fratelli, come molti ragazzotti del Lido di Roma, finisce a fare il bagnino. E sulla spiaggia, tra pattini e ombrelloni, conquista il cuore di una famosa cantante lirica straniera. Con lei presto lascia Ostia e gira il mondo.
Alla fine degli anni Sessanta si trova in America dove è stata appena lanciata la televisione via cavo (antesignana di Sky). Il progetto “a stelle e strisce” presto naufraga e Balini fiuta il business. In Italia, infatti, stanno nascendo le prime televisioni private: (...)
Così lo zio d’America, come ancora a Ostia chiamano Vittorio Balini, investe i soldi nell’acquisto di film e telefilm rimasti nei magazzini delle major. Compra B-movie, spaghetti western, ma soprattutto le serie televisive: il mitico dottor Kildare e Dinasty.
Il capolavoro, però, Balini lo mette a segno all’inizio degli anni Ottanta con Dallas. Riesce ad assicurarsene i diritti e a rivenderli alla Fininvest di un giovane e rampantissimo Silvio Berlusconi. La leggenda racconta che il primo contratto, con il quale il Cavaliere sborsava una cifra da capogiro, venne siglato in un hotel di Parigi su una scatola di cerini. Tutto qui? Macché. L’indomani, infatti, Balini tornò da Berlusconi e, forse, fu l’unico a incastrarlo senza magistratura: stracciò la scatola di cerini e rilanciò.
Intuendo il grande potenziale delle tv private e soprattutto della pubblicità, ridusse il prezzo di Dallas ma in cambio pretese una percentuale su tutti gli spot che sarebbero stati trasmessi durante le puntate.
Così l’Italia degli anni Ottanta cenava a pastasciutta e sofficini guardando sul piccolo schermo le avventure del petroliere J.R. In mezzo scorrevano gli spot dello “sporco impossibile”, “dell’aranciata esagerata” e del “cuore di panna”. Cresceva l’impero di Berlusconi ma anche, e non poco, il conto in banca di Balini.
La voce del suo successo, probabilmente, arriva anche alla malavita. In quegli anni Balini rimane vittima di una violenta rapina nella sua Villa all’Olgiata che lo costrinse ad abbandonare l’Italia. Si trasferisce a Hollywood ma non dimentica gli affari: costruisce un grattacielo e uno shopping center a Santa Monica. I party nella sua residenza americana sono frequentati da vip del cinema e rockstar come Michael Jackson o ovviamente super Silvio. Ma il sogno di Balini è ritornare nella sua Ostia e farla splendere.
Torna a Roma nel ’92. Come prima cosa compra a suon di dollari il Kursaal e fa ricostruire il mitico trampolino immortalato in tanti film, compreso I Vitelloni di Fellini.
Poi il grande sogno: il porto turistico di Roma. Un progetto faraonico in quell’idroscalo dove venne trucidato Pier Paolo Pasolini. Ci si dedica anima e corpo. L’inaugurazione arriva nel 2001 alla presenza del sindaco Veltroni. Ma lo zio d’America non riuscì a vedere il taglio del nastro: il suo cuore smise di battere prima. E nei corridoi di Mediaset ancora si ricordano di lui: quello più furbo di Berlusconi.
Silvio e quella battuta hot di Enzo Biagi: “Se avesse una puntina di seno…” Rita Cavallaro su L'Identità il 12 Giugno 2023
“Se avesse una puntina di seno, sarebbe anche tentato di fare l’annunciatrice”.
E in questa battuta del compianto giornalista Enzo Biagi che è racchiuso lo spirito di Silvio Berlusconi, un visionario che dalle costruzioni, partendo da zero, ha seguito il sogno della tv, mosso dal libro che è stato il faro della sua vita, L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.
Di quell’impegno nell’azienda televisiva, che ha portato al successo, ne parla anche Fedele Confalonieri:
“Bisognava vederlo discutere di palinsesti per capire in che modo e perché siamo riusciti a far vedere i sorci verdi alla RAI… Riusciva a prevedere l’ascolto che avrebbe ottenuto ogni programma. Interveniva sui copioni, sulle scenografie, sui montaggi di tutte le produzioni. Dava suggerimenti agli autori, ai registi, agli attori. Inventava i format, i titoli dei programmi, gli slogans, le promozioni. Era davvero l’uomo TV.”
Angela Majoli per l’Ansa il 12 giugno 2023.
Quell'"uso criminoso" della televisione pubblica di cui l'allora premier Silvio Berlusconi accusò nel 2002, da Sofia, Biagi, Santoro e Luttazzi, ha lasciato il segno nella storia della Rai, consegnando l''editto bulgaro' anche all'analisi della Treccani e riecheggiando a più riprese nel dibattito politico e mediatico.
Ma in vent'anni di relazioni pericolose e di polemiche, dai tempi in cui l'intraprendenza del Cavaliere spezzò il monopolio di Viale Mazzini, un altro capitolo centrale del berlusconismo resta l'approvazione, nel 2004, della controversa legge Gasparri, destinata e ridisegnare gli equilibri del mercato tv 14 anni dopo la Mammì.
E' il 18 aprile 2002 quando Berlusconi indica come "preciso dovere della nuova dirigenza" Rai il "non permettere più" l'"uso criminoso" della tv pubblica fatto da Biagi, Santoro e Luttazzi. Nel mirino del capo del governo, in particolare, la puntata in cui Biagi ha intervistato Roberto Benigni (il 10 maggio del 2001, in piena campagna elettorale) che non ha risparmiato critiche all'allora leader dell'opposizione.
Quella sera, in diretta al 'Fatto', Biagi dice: "Questa potrebbe essere l'ultima puntata dopo 814 trasmissioni, ma non tocca a lei, Berlusconi, licenziarmi". Non sarà quella l'ultima puntata, ma il programma concluderà il suo percorso il 31 maggio dello stesso anno. E saranno sospesi anche Sciuscià di Santoro e Satyricon di Luttazzi.
Il resto è storia: Biagi tornerà sugli schermi Rai con RT - Rotocalco televisivo il 22 aprile del 2007, Santoro a settembre 2006 con Annozero, Luttazzi nell'autunno 2007 porterà - ma sarà solo una parentesi - su La7 il suo Decameron. E sempre su La7 andrà in scena l'ospitata del Cavaliere da Santoro, il 10 gennaio 2013 a Servizio pubblico, finita negli annali: in un ring che a tratti sembra il set di una commedia, tra domande ruvide e scambi ironici, spicca la gag di Berlusconi che spolvera la sedia di Marco Travaglio prima di accomodarsi. Risultato, 8,7 milioni di spettatori e il 33% di share, il record assoluto per la rete.
Accanto alla stagione delle epurazioni, di cui farà le spese anche l'allora direttore di Rai2 Carlo Freccero, tra i passaggi più discussi dell'era Berlusconi c'è la Gasparri: un "parto da elefante", la definisce scherzando il ministro il 29 aprile 2004, giorno dell'approvazione definitiva dopo sei passaggi parlamentari (e lo 'schiaffo' del rinvio alle Camere da parte del Capo dello Stato Ciampi), oltre 14 mila emendamenti e 410 voti a scrutinio segreto.
Per l'opposizione, è una legge pro-Cavaliere, che evita il passaggio di Rete4 sul satellite e soprattutto eleva i tetti Antitrust nelle risorse del settore, consentendo nuovi margini di arricchimento alle aziende del premier. Per la maggioranza, la riforma tv aumenta il pluralismo e apre al futuro e allo sviluppo del digitale terrestre (che sul fronte pay sarà un nuovo mercato per Mediaset, anche se il business si rivelerà meno redditizio del previsto e Premium 'chiuderà' nel 2019).
Tra i punti caldi della Gasparri ci sono però anche le nuove norme per la nomina dei vertici Rai, che finiranno ciclicamente con l'intrecciarsi con le crisi di governo e gli scontri tra gli schieramenti.
Contro l'annunciata "occupazione dell'azienda", pochi giorni dopo l'approvazione della Gasparri, Lucia Annunziata si dimette da presidente di Viale Mazzini. Due anni dopo, il 12 marzo 2006, alla vigilia delle politiche, sarà Berlusconi a sbattere la porta, lasciando in diretta lo studio della giornalista a In 1/2 H. Sarà poi il governo Renzi, nel 2015, a varare la nuova riforma della Rai, ancora in vigore, che introduce la figura dell'amministratore delegato.
(ITALPRESS il 13 giugno 2023) - "Ho lavorato con Silvio Berlusconi condividendo l'entusiasmo per la nascita della tv commerciale. Sento di dovergli moltissimo a livello professionale proprio perché mi ha permesso di vivere un momento storico della televisione. La sua morte susciterà un'ondata di nostalgia che non potete immaginare", ha detto Carlo Freccero ai microfoni di Radio2.
"Ho avuto il privilegio di osservare dall'interno un cambiamento epocale, l'esperienza della nascita della tv commerciale in cui Silvio Berlusconi ha costruito il suo impero e io la mia vita" dice all'ANSA Carlo Freccero, l'autore e dirigente tv che nei primi anni Ottanta è stato direttore dei palinsesti di Canale 5 e Italia 1, ricordando "quell'entusiasmo pionieristico che ci ha uniti tanti anni fa, un mondo fa".
(ANSA il 13 giugno 2023) Freccero prova a guardare oltre analizzando il passato: "Berlusconi ha saputo creare una nostalgia incredibile, un'onda di rimpianti è in arrivo come dimostrano i fan che si sono radunanti al San Raffaele.
Quale altro personaggio politico avrebbe una tale reazione di empatia popolare?". E questo, spiega ancora Freccero, "è perchè ha incarnato un'Italia dorata, ha interpretato lo spirito del suo tempo, gli anni '80 e '90, è stato l'uomo del milione dei posti di lavoro per dire solo una".
Andando sulla sua storia personale, "non dimentico di aver avuto contrasti prima e censura poi, ma quando è stato deposto e sostituito da Mario Monti tutti non hanno avuto dubbi su chi fosse migliore". Certo ha saputo creare una macchina del consenso fortissima: "verissimo - risponde - ma è meno dittatoriale di quella che c'è ora, oggi è tutto peggio di ieri.
Nella sinistra - prosegue - sopravvive una fobia sul fenomeno Berlusconi e il suo conflitto d'interessi, ma oggi mi sembra molto peggio con quello che accade tra grandi aziende digitali".
Berlusconi è "un'icona, un simbolo del consumismo ma anche di una certa grandeur italiana, un secondo boom economico, un paese in fase espansiva. La stessa tv commerciale con tutto il suo corollario di consumi fu da lui imposta in tutta Europa, i consumi con la Standa, la pubblicità con Publitalia, il calcio come contenuto spettacolare premium venendo prima dal boom edilizio di Milano 2.
Un sistema complesso ed in qualche modo autosufficiente che corrisponde ad una sua personale Utopia (come - sottolinea - il suo libro di culto, l'Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam). In definitiva - conclude Freccero all'ANSA - E' stato un visionario che ha cambiato la tv italiana, la politica che ha trasformato con i criteri dell'audience e ha incarnato gli anni '80, lui avrà per sempre quella cifra vintage che lo renderà caro ai posteri".
Estratto dell’articolo di Carlo Freccero per “La Verità’ il 18 giugno 2023.
La morte, anche se prevedibile ed annunziata, lascia sempre una forma di stupore e di incredulità. L’impronta di Silvio Berlusconi sugli anni Ottanta e Novanta del Novecento è stata così forte e così totale che la sua fine appare oggi, anche per i suoi detrattori di allora, avvolta in una sorta di incredulità e insieme di nostalgia.
Perché in quegli anni Berlusconi era il centro intorno a cui gli altri, i «loro» messi in scena dal film di Sorrentino, nuotavano cercando visibilità ed attenzione.
Comunque li si voglia giudicare quegli anni sono per l’Italia non solo gli anni del benessere materiale, della Milano da bere e dei consumi, ma anche e soprattutto gli anni di una sorta di vitalità e di egemonia culturale: dettava la linea in ambiti di tendenza e creatività come la moda, la pubblicità, il design, il marketing.
[…] L’Italia esce dai suoi confini, insegna agli altri a fare televisione, moda, stili di vita. Sono stato testimone di questo miracolo quando, come direttore della Cinq, ho dovuto esportare la televisione commerciale in Francia. Io stesso ero in parte critico verso il gusto prevalente nella televisione berlusconiana. In realtà tutta la mia formazione è stata francese perché sulla filosofia francese, dall’esistenzialismo a Foucault, ho costruito il mio percorso universitario.
All’esordio La Cinq è stata travolta dalle critiche. Ma dopo gli aggiustamenti iniziali, anche la cultura tradizionale francese ha cominciato ad aprirsi all’idea che la televisione commerciale rappresentava comunque un nuovo medium, una nuova possibilità di espressione con cui era necessario confrontarsi. Ricordo l’emozione con cui vissi la visita improvvisata di Godard nel mio ufficio. Era il mio mito cinematografico e voleva discutere con me di televisione.
Cosa voglio dire? Che la televisione commerciale sradicò un modello culturale europeo che non possiamo che rimpiangere. Musica, filosofia, cinema d’autore non funzionano nella televisione commerciale. Ma questa televisione era comunque una nuova forma di espressione e aveva una sua vitalità e i suoi codici. Rappresentava il futuro e come tale non era assimilabile al nichilismo di oggi.
Tutti sanno che il mio rapporto con Berlusconi è stato un rapporto contrastato, ma non posso dimenticare la bellissima opportunità che mi offrì scegliendomi per trasformare Tele Milano in una televisione commerciale. Ho partecipato alla costruzione di quel mondo, alla creazione di Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Poi La 5 in Francia e Tele Cinco in Spagna. Ho vissuto fisicamente ad Arcore nel periodo in cui tutto veniva pensato e ideato e non c’erano orari di lavoro o di ufficio, ma la televisione prendeva forma da una sorta di total immersion che si protraeva sino a notte fonda.
A Berlusconi mi univa e mi unisce il ricordo della partecipazione a qualcosa di significativo. Mi divideva e mi divide una diversa visione del mondo. Berlusconi aveva una naturale propensione per lo spettacolo popolare. Varietà, commedia all’italiana, serie americane di successo.
Io come cinéphile cercavo di inquadrare ogni prodotto in un genere e metterlo tra virgolette, facendo ricorso alla sua memoria storica. Non a caso Berlusconi mi assunse dopo che avevo catalogato per generi cinematografici il Catalogo Titanus da lui acquistato in blocco. Questo duplice piano di lettura; spettacolo popolare e inquadramento culturale del prodotto funzionò benissimo perché ci permise di lavorare in Francia in un contesto più sofisticato.
Mi è stato chiesto di ricordare un aneddoto e racconterò quello che spiega, nel bene e nel male i nostri rapporti. Quando iniziai a lavorare a Tele Milano, provenivo dalla contestazione del 1968. Berlusconi era invece un imprenditore edile affermato. Non aspiravo, come altri, a emularlo. Ma la nascita della televisione commerciale mi riempiva di entusiasmo e di stupore. E lo percepivo come un compagno in un’avventura importante. Quando mi convocò personalmente, Berlusconi mi disse: «Mentre voi inseguivate la rivoluzione, io mi davo da fare per diventare come Paperon de’ Paperoni». Io volevo fare cultura, Berlusconi voleva fare soldi.
Ma eravamo entrambi dei visionari. C’era un secondo elemento che ci separava e che avrebbe continuato a perseguitarmi anche quando ero ormai in Rai e Berlusconi intervenne col famoso editto bulgaro. Io ho nei confronti della censura una sorta di allergia naturale. Non la tolleravo e non la tollero.
[…] Ma oggi, con la saggezza dei miei anni, capisco che si tratta di un’utopia. Le televisioni costano. Finanziamenti e censura sono sinonimi. L’imprenditore finisce per piegarsi sempre alla censura per salvare l’azienda. E sulla censura il nostro rapporto si interruppe. Il mio allontanamento della Fininvest avvenne all’epoca di Mani pulite. Io volevo fare tv verità, il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), la politica dell’epoca, pretendeva appoggio dalle televisioni berlusconiane.
Il secondo grande scontro avvenne con l’editto bulgaro che mi sollevò per anni da ogni mansione in Rai e si concretizzò anche in una serie di cause di risarcimento milionarie da cui poi fui integralmente assolto. Subii un ostracismo totale perché rimasi per anni demansionato. Molti compagni di sventura di allora si sono bloccati emotivamente a quel momento e portano rancore. Ma io ho dimenticato tutto quando ho potuto accedere alla nuova avventura delle televisioni digitali. Mi sono idealmente riavvicinato a Berlusconi anche se tra noi non c’è più stato nessun contatto, dopo il colpo di Stato del 2011.
Dopo il governo Monti l’Italia è precipitata in una voragine da cui difficilmente sarà in grado di risollevarsi, perché il suo futuro è già tracciato. Mi sono ricordato allora che il Berlusconi delle origini si proclamava vittima di poteri forti che non riuscivo in quel momento a concepire. Lui era l’uomo più ricco e più potente del Paese, cosa voleva di più?
In realtà il conflitto di interessi di Berlusconi che noi critici combattevamo come ingerenza scandalosa nella politica, non era niente rispetto al totalitarismo mondiale di oggi in cui tutta l’informazione è in mano a cinque grandi gruppi mediatici a loro volta proprietà delle grandi corporation del World economic forum.
Di fronte a questo mondo inumano, a questa propaganda totale, gli anni di Berlusconi ci appaiono oggi in una nuvola vintage, come la Rosabella di Citizen Kane, lo slittino della sua infanzia rinchiuso in una palla di vetro. E prima di morire Berlusconi stesso ha compiuto un gesto di nostalgia verso quel passato. Prima del ricovero al San Raffaele ha chiesto di essere portato a Milano 2 la città ideale da cui partì la sua fortuna imprenditoriale.
Dagospia il 12 giugno 2023. Carlo Freccero a Non è un paese per Giovani, condotto da Tommaso Labate e Massimo Cervelli su RaiRadio2
Su Rai Radio2, Non è un paese per giovani con Tommaso Labate e Massimo Cervelli, Carlo Freccero ricorda Silvio Berlusconi a poche ore dalla sua morte.
“Ho lavorato con Silvio Berlusconi condividendo l’entusiasmo per la nascita della tv commerciale. Siamo stati uniti dall’entusiasmo, dalla passione per la nuova tv in costruzione e sento di dovergli moltissimo a livello professionale proprio perché mi ha permesso di vivere e partecipare ad un momento storico della televisione”.
“Un aneddoto?”, continua Freccero in diretta su Radio2, “Berlusconi si addormentava spesso davanti alla tv e si risvegliava intorno alle tre di notte quando erano finiti i programmi. Trovava sullo schermo il rullo dei programmi e iniziava ad esaminare la mia programmazione.
Poi mi chiamava, come una furia, e ne discutevamo. Impazziva per Hazzard, che infatti mandavo alle 3 del pomeriggio, che era bellissima e piaceva molto a Piersilvio (…) Era immerso nel lavoro televisivo, a cena mangiava poco e parlava molto di tv”. I film preferiti del Cav? “Certamente le commedie all’italiana e due film in particolare, Gli ultimi fuochi e Mandingo. La sua morte – ha concluso- susciterà un’ondata di nostalgia che non potete immaginare”.
Alla domanda: un film o una serie preferita?
“Amava molto i film e le commedie all’italiana e poi amava il film di Elia Kazan “Gli ultimi fuochi”. Una volta lui ha chiamato me e le persone con cui lavoravamo e ha replicato la scena in cui nel film De Niro spargeva tutti i soldi per indicare che noi non dobbiamo sprecare tutti i soldi ma invece impegnarci e lavorare, rispettando il budget.
Dagospia il 12 giugno 2023. Dall’account Instagram di Adriano Celentano
Porca miseria…! Ciao Silvio, mi dispiace! Anche se so che, in qualunque posto tu sia ora, finalmente avrai finito di soffrire a causa dei tanti malanni di cui sei stato preda in questi ultimi mesi. Molti sono i politici che possiamo ricordare. Però nessuno di questi aveva il pregio che avevi tu. Tu sei stato l’unico, sia nel bene che nel male, a rappresentare in pieno il carattere curioso di noi italiani. E io credo che nel bilancio di Gesù, non mancherà un occhio di riguardo, non solo per te ma anche per noi…
(Michele Cassano) (ANSA il 12 giugno 2023) "Il mio ricordo sarà con lui sempre, fino a quando andrò a raggiungerlo. È stato un periodo della mia vita bellissimo quello insieme a lui. Sapeva dare amore, intelligenza, generosità. Ho tanti bei ricordi di lui e dei suoi sorrisi, alcuni li tengo riservati. Lo vedo bello come fosse vivo. Ho perso un grande amico, vero".
Così Emilio Fede ricorda Silvio Berlusconi al telefono con l'ANSA. "La sua morte poteva essere nell'aria, ma non me l'aspettavo comunque - continua -. Ho acceso Instagram e ho visto che aveva chiuso gli occhi per sempre. Dopo tante tristezze che avvolgono il nostro Paese e l'Europa, questo segna un momento di dolore vero. Sono stato sempre con lui, dalla storica dichiarazione con la quale scese in campo e diede vita a Forza Italia. Da allora, al di là di beghe inutili e idiote, io ero tutti i giorni, tutte le sere da lui. Io e lui ci siamo voluti molto bene. Non c'era ruffianeria".
"Ora c'è la perdita di un uomo che poteva dare una grande spinta al paese - sottolinea ancora -. Spero che con onestà gli italiani si allontanino dalle zone del pettegolezzo. Su di lui sono state dette cose inaudite, si è mossa l'invidia nei suoi confronti. Avvolgiamo tutto in una parola orribile che è il bunga bunga, quella balordaggine che nasce dove nasce e muore come muore".
"È stato un uomo affascinante anche sul piano umano - prosegue -. Spero di rassegnarmi, ho passato la giornata in maniera dolorosa. È stato con me nei momenti più difficili, l'ho molto amato e continuerò ad amarlo".
Fede ha anche postato un video su Instagram: "Sono sconvolto. Io e lui, e non sono il solo, eravamo come fratelli. Mi ha assunto tanti anni fa con un affetto immenso ed è stato ricambiato da me. Vorrei una volta per tutte definire la mia amicizia, il mio rapporto con lui: è straordinario. Nessuno può dire, tranne gli stretti familiari, quanto sia cementato quello che provavo. Eravamo insieme giorno e sera" e "non erano festini come certi imbecilli hanno voluto sostenere".
(ANSA il 12 giugno 2023) "Con lui si poteva parlare di tutto, politica, spettacolo, letteratura, calcio, costume, televisione, musica. Amava cantare e scriveva anche canzoni... Una volta, allo stadio, a vedere Milan-Bologna, scherzando mi disse, Gianni perché non facciamo un album insieme, potremmo chiamarlo 'Morandi canta Berlusconi'! Mi era molto simpatico e forse anche lui mi aveva in simpatia...".
Gianni Morandi ricorda questo aneddoto nel post su Facebook in cui si dice "profondamente addolorato" per la scomparsa di Silvio Berlusconi. "Lo conoscevo bene da più di trent'anni, ancora prima della sua discesa in campo nella scena politica italiana. Erano i tempi - aggiunge Morandi - in cui il mondo della televisione fu travolto dall'arrivo delle reti Mediaset. Grande comunicatore, sapeva conquistarti con la sua energia coinvolgente. Rivolgo il mio pensiero alla sua famiglia, in questo momento di grande dolore. Riposa in pace, Silvio".
L'impero del Cav. Berlusconi e la tv, la sua rivoluzione che ruppe il monopolio Rai tra intuizioni e aiuti dalla politica. Redazione su L'Unità il 12 Giugno 2023
Con le sue televisioni ha contribuito ad una rivoluzione culturale e dei costumi in Italia, per i critici ha in realtà messo in atto una “involuzione” culturale e utilizzato i suoi media per fini politici. Al di là di come la si pensi, per Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia e quattro volte presidente del Consiglio morto lunedì 12 giugno all’età di 86 anni, la televisione ha avuto un ruolo chiave nella sua carriera di imprenditore e politico.
Se il Berlusconi imprenditore nasce nel ramo dell’immobiliare, fondando a 25 anni una società e acquistando grazie a 190 milioni di lire (avuti con una fideiussione del banchiere Carlo Rasini, titolare della Banca Rasini dove lavorava il padre) un terreno in via Alcati, a ovest del centro di Milano, per poi mettere a segno due grandi progetti immobiliari (in particolare Milano Due, la “città ideale” costruita vicino Segrate), saranno le televisioni a renderlo un personaggio pubblico.
Intorno alle metà degli anni Settanta acquistò Telemilano, una tv via cavo fondata quattro anni prima che trasmetteva nella zona di Milano 2, il quartiere “fondato” dallo stesso Berlusconi. Con idee rivoluzionarie per i tempi, Berlusconi riuscì a trasformare una piccola tv via cavo in un conglomerato di reti che trasmettevano ormai in tutto il Paese, e in grado di fare concorrenza alla Rai che a quei tempi manteneva un rigido monopolio della radiodiffusione. Nel 1980 nasce Canale 5, una syndacation televisiva che raggruppa in totale dieci emittenti locali, 5 al Nord (TeleMilano 58, Tele Torino, TeleEmiliaRomagna, VideoVeneto e A&G Television) e 5 al Sud, che formano il circuito Rete 10.
Nello stesso anno assume per le sue reti Mike Bongiorno, che aveva lavorato per anni ad alcune delle trasmissioni Rai più famose e seguite. “Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all’anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: «Seicento milioni». E io: «Per quanti anni?». E lui: «Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!». Non credevo alle mie orecchie”, racconterà il celebre conduttore tv.
Quattro anni dopo però Berlusconi rischia il crack. Il 16 ottobre 1985 infatti il pretore torinese Giuseppe Casalbore e i suoi colleghi Bettiol di Roma e Trifuoggi di Pescara ordinano lo “shutdown” delle reti di Berlusconi: la Finanza si presenta nelle sedi delle emittenti locali che ritrasmettevano, in interconnessione, i programmi delle reti Fininvest, ormai diventata una vera e propria concorrente per la tv pubblica grazie ai suoi show come “Drive In”, alla serie tv americane come “Dallas” o “Dinasty”, alla trasmissioni di eventi sportivi (come il Mundialito del 1980).
I finanzieri, ricorda Aldo Grasso sul Corriere della Sera, sequestrano le videocassette che contengono le registrazioni dei programmi e sigillano i “ponti radio” che consentivano alle tv di Berlusconi di riversarli in tutta Italia, violando di fatto il monopolio Rai sulle trasmissioni nazionali.
È qui che fa capolino la politica e i rapporti di amicizia con Bettino Craxi, all’epoca presidente del Consiglio in carica: il suo governo emanò quello che venne ribattezzato “decreto Berlusconi” per liberalizzare le trasmissioni, di fatto dando vita alla televisione nazionale privata in Italia, come stava già avvenendo nel resto d’Europa.
Televisioni che serviranno a Berlusconi per l’ingresso in politica. Nel gennaio 1994 fonda Forza Italia, nuova casa dei moderati italiani che porterà ad una clamorosa vittoria elettorale contro l’allora Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto, dando il via alla cosiddetta “Seconda Repubblica”.
Forza Italia ottenne più del 20 per cento dei voti, ottenendo la maggioranza con una coalizione formata assieme ai secessionisti della Lega Nord di Umberto Bossi e i postfascisti di Alleanza Nazionale, di Gianfranco Fini.
Quella del 1994 è l’elezione della celebre “discesa in campo”, come la definì lui stesso: un video che Berlusconi diffuse tramite le sue stesse televisioni per presentare la sua candidatura alla guida del Paese, diventato negli anni il reperto politico più famoso della storia politica recente italiana.
Trent’anni dopo come giudicare il suo lascito? L’Italia, come spiega il direttore dell’Unità Piero Sansonetti, “si è spostata a destra, ha assunto posizioni molto più moderate, il “cattocomunismo” è minoritario. Una persona come Papa Bergoglio è molto isolata poiché l’Italia è diventato un Paese su posizioni liberali e non socialiste. Anche la sinistra italiana si è spostata su posizioni liberali piuttosto che socialiste. Berlusconi è riuscito a realizzare questa operazione e a mantenere su di sé la possibilità di essere un punto di equilibrio“.
Silvio Berlusconi e la rivoluzione televisiva che aprì le porte alla pancia del Paese. “Torna a casa in tutta fretta c’è il Biscione che t’aspetta”. E con la nascita di Mediaset l’intero palinsesto spazzò via la quarta parete catodica. Beatrice Dondi su L'Espresso il 12 Giugno 2023
Nel 1982 su Rai 1 cominciavano le danze solo con il Tg delle 13. Allora un quasi giovane Silvio Berlusconi telefonò a Corrado per dirgli che stava cercando un conduttore che avesse una buona idea da proporre in quella fascia per il suo Canale 5. Corrado accettò la sfida con serenità, convinto che tanto a quell’ora nessuno avrebbe perso tempo davanti al piccolo schermo e sfornò, in senso letterale “Il pranzo è servito”. Dopo la prima puntata, riportano le cronache, il Cavaliere approvò soddisfatto: «Questo gioco non mi è affatto dispiaciuto... Me ne faccia... Sì, me ne faccia 300». Tipo un salumiere da palinsesto.
Ecco l’immagine del salumiere, che butta dentro un tanto al chilo, è quella che con facilità viene in mente pensando a cosa è stata la “rivoluzione” televisiva operata per mano di Silvio Berlusconi, ovvero una sorta di calderone di quantità, tante gambe, tante tette, tante parole, cuore e coratella, pubblico e privato, tutto esposto, tutto alla luce delle telecamere che si intrufolavano, per prendere, rubare, carpire e sbattere in faccia a chiunque fosse per caso passato davanti a un piccolo schermo.
“Torna a casa in tutta fretta c’è il Biscione che t’aspetta” recitava la promozione, perché la casa era anche il fuori, senza più distinzione di sorta e la televisione, abituata a mettere paletti di distanza tra se stessa e una qualunque casalinga di Voghera e dintorni diventava così all’improvviso un dialogo a tu per tu, occhi negli occhi, una sorta di rapporto assurdo nella sua normalità che doveva, per novello DNA, accartocciare nell’angolo la quarta parete e sedersi insieme sul divano. Un bar sport da tinello, in cui discutere a voce alta, un impegnativo banco del mercato perennemente aperto, dove il messaggio promozionale che massacrava film e telefilm che tanto facevano infuriare Federico Fellini, ti teletrasportava tra carrelli della spesa.
Le fette di mortadella mangiate con avidità da Gianfranco Funari, che sbarca su Canale 5 poco prima della discesa in campo via tubo catodico di Silvio, e poi i prosciutti di Mike Bongiorno, incensati come fossero i veri, a volte unici, protagonisti possibili. E così, tra gli sprazzi di innovazione su Italia 1, il furore riempitivo, le bandierine di Emilio Fede, i prezzi di Iva Zanicchi, gli errori, le papere e gli scherzi a parte, si espone l’amore in tutte le salse, come condimento indistinto di qualunque portata, dai video appelli di Alberto Castagna che ricomponeva e smontava cuori infranti e romantici in un grumo di sentimenti, alle scene dei matrimoni di Davide Mengacci, che si muoveva tra veli bianchi di gente comune. E poi l’agenzia matrimoniale di Marta Flavi, prima signora Costanzo, e la sua deriva immortale, ovvero quell’ “Uomini e donne” (della seconda signora Costanzo) che si è trasformato nei decenni in una fucina redditizia di qualunque reality si ostini ancora ad andare in onda. Nella produzione bulimica degli anni Ottanta e Novanta, in cui veniva sdoganato il rigore in doppio petto della Rai, persino le vallette cambiavano divisa, basta signorine buonasera con la piega sotto al casco, e largo alle donne piene di forme e di sorrisi brillanti, entrino le quantità, alla qualità ci si penserà poi.
In quegli anni Fiorello aveva il codino e trascinava le folle in piazza facendo cantare i passanti occasionali in un villaggio vacanze casalingo, il trash guadagnava punti, sgomitava e si prendeva l’intero spazio a disposizione, accendendo i primi riflettori a chiunque. Con “Drive In” scompare il presentatore e lo studio si popola di tormentoni e scollature, al grido di «Chi ha cuccato la Cuccarini», soubrette sgambettanti si sgomitano per una inquadratura tra i comici ma marcano il territorio, spianando la strada alla tv del giorno dopo, quella delle Lolite seminude ma struccate come le figlie della vicina di casa, sino alla Casa per eccellenza, dove un manipolo di eletti sconosciuti per la prima volta si ritrova in mutande a mettersi lo smalto e cucinare spaghetti davanti a milioni di spettatori attoniti che li guardano in mutande, mentre distrattamente cucinano lo stesso piatto di pasta.
Da quell’ormai lontano 1979 a oggi Mediaset ha cambiato diversi volti ma il suo cuore è più o meno rimasto intatto, come il nocciolo delle centrali nucleari, nonostante l’argine tentato in tempi assai recenti da Pier Silvio, che come un Sisifo occasionale ha provato a smorzare le luci della D’Urso, gli affondi di Signorini, la messa in mostra della pancia del Paese con tutto il suo contenuto formato show. Perché alla fine, un etto di più o uno di meno, cambia poco. Che faccio signo’, lascio?
Così Berlusconi rivoluzionò la tv con quaranta persone, Mike Bongiorno (e poi Craxi). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
Alla fine degli anni’70 il Cavaliere ruppe il monopolio Rai tra intuizioni (e aiuti)
«Dava suggerimenti agli autori, ai registi, agli attori; creava i format, i titoli dei programma, gli slogan, le promozioni», ha raccontato Fedele Confalonieri. «Avesse avuto un accenno di tette avrebbe fatto anche l’annunciatrice», ha scritto Enzo Biagi. «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni, la mia sarà una tv ottimista. Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto», ha testimoniato Camilla Cederna. L’antenata di Canale 5 si chiama Telemilano, emittente televisiva via cavo fondata da Giacomo Properzj e Alceo Moretti a Milano 2, città satellite costruita da Silvio Berlusconi, morto oggi a 86 anni.
L’emittente era stata fondata nel settembre del 1974 a pochi mesi di distanza dalla sentenza su Telebiella che liberalizzava le trasmissioni televisive via cavo (Telemilanocavo). Al cavo erano collegate circa 5.000 utenze che corrispondevano a 20.000 telespettatori. Nonostante l’esordio in sordina, nel giro di pochi anni Berlusconi rivoluzionerà l’assetto televisivo del Paese, dando vita, contemporaneamente ad altri editori come Rizzoli, Rusconi e Mondadori al modello della tv commerciale.
Nel 1978 Berlusconi decide di acquistare il canale 58 di Tv One e di abbandonare il cavo, optando per l’etere e cambiando la denominazione di TeleMilano in Telemilano Canale 58, (numero scelto dal canale UHF utilizzato per trasmettere). Due anni dopo nasce Canale 5, una syndacation televisiva che raggruppa in totale dieci emittenti locali, 5 al Nord (TeleMilano 58, Tele Torino, TeleEmiliaRomagna, VideoVeneto e A&G Television) e 5 al Sud, che formano il circuito Rete 10. A rivedere oggi le immagini dell’inaugurazione di Telemilano (1978) con Berlusconi che mette in discussione il knov how dei tecnici Rai («lavorano in modo diverso da come lavoriamo noi») e si augura di avere presto la diretta, o a rivedere la lunga festa di «Natale a Telemilano» con Mike Bongiorno e il piccolo Michelino, insomma a rivedere le immagini di quel memorabile esordio si prova una grande tenerezza. Era una tv di famiglia (molto più della Rai), era una tv dai dichiarati gusti provinciali, era una tv di semplici fatta per i più semplici. Una grande intuizione, bisogna ammetterlo. Lo slogan recitava: «Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta».
Il primo avvenimento sportivo di grande attrattiva è il Mundialito (30 dicembre 1980 – 10 gennaio 1981), torneo calcistico disputato in Uruguay per festeggiare i 50 anni dalla prima edizione dei Campionati mondiali di calcio. La Fininvest, si assicura i diritti televisivi europei e, dopo molte pressioni, li cede alla Rai in cambio dell’assenso a poter trasmettere le partite del torneo, salvo quelle della Nazionale e la finale. Ci si chiede oggi come la Rai potesse aver paura dei primi passi di Canale 5 (Biagio Agnes avrebbe voluto spazzarla via con la forza della «più importante industria culturale»), se non per una paura inconscia. La stessa paura della sinistra che da subito demonizza la tv di Berlusconi, spalleggiata dai registi più importanti, offesi perché i loro film erano interrotti dalla pubblicità. Quel Mike che macina chilometri per presentare il suo «GiroMike» (poco più di una festa di paese ripresa dalle telecamere, grazie ai cantanti ospiti), quel Mike che presenta “I sogni nel cassetto” sta cambiando il modo di fare tv. Non si parlerà più in terza persona (come nella tv pedagogizzante delle origini) ma in prima persona, scegliendo il registro più colloquiale.
Mike ricordava così il momento della proposta: «Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all’anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: «Seicento milioni». E io: «Per quanti anni?». E lui: «Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!». Non credevo alle mie orecchie».
Nel 1982 Berlusconi corteggia anche Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Mondaini ricordava così il loro primo incontro: «Io non avrei mai creduto che avrei lasciato la mia Rai. Ricordo che al primo appuntamento con Berlusconi ero un po’ sulle mie. Pensavo: «Ma cos’è che vuole questo?». Poi mi è bastato sentirlo parlare per cinque minuti per firmare subito. E non è stata una questione di soldi, anche perché Raimondo aveva già detto di sì due minuti prima di me».
Ma non tutto fila liscio. Il 16 ottobre 1984, alle 9 di mattina, agenti della Guardia di Finanza e funzionari della Escopost si presentano a Torino, Roma e Pescara nelle sedi delle emittenti locali che ritrasmettevano, in interconnessione, i programmi delle reti Fininvest. Sequestrano le videocassette che contengono le registrazioni dei programmi e sigillano i “ponti radio” che consentivano alle tv di Berlusconi di riversarli in tutta Italia violando di fatto il monopolio Rai sulle trasmissioni nazionali che era stato ribadito dalla Corte costituzionale. Di colpo milioni di telespettatori, in Lazio, Piemonte e Abruzzo, rimangono orfani di «Dallas», di «Dinasty», dei cartoni animati dei Puffi e di Maurizio Costanzo. A ordinare il blitz sono il pretore torinese Giuseppe Casalbore e i suoi colleghi Bettiol di Roma e Trifuoggi di Pescara. A risolvere la questione ci penserà Bettino Craxi, capo del governo in carica, che emanerà il famoso «decreto Berlusconi» per liberalizzare le trasmissioni.
La rivoluzione copernicana dei palinsesti non avviene, dunque, solo con la riforma Rai del 1975 ma anche con l’avvento dei network nel corso dei primi anni Ottanta. Col ribaltamento delle finalità del broadcasting – non più «servizio pubblico» venato di intenti didascalici, ma impresa tesa al profitto, alla massimizzazione degli ascolti e alla raccolta di pubblicità – cambia radicalmente il ruolo della programmazione. Quando si parla di «americanizzazione» della tv italiana negli anni Ottanta bisogna subito precisare che essa riguarda molto più la logica che informa i palinsesti di quanto non tocchi la natura stessa del prodotto. Arrivano serie in quantità, ma le vere novità riguardano la loro collocazione in un palinsesto che si caratterizza, fin da subito, anche come produzione autonoma, nel solco della più consolidata tradizione. I palinsesti dei network commerciali, superata la fase pionieristica, sono un ibrido di serie americane e di spirito nazional-popolare. Spingono verso l’estensione delle ore di programmazione e il rafforzamento del flusso televisivo, introducono massicciamente la logica orizzontale della «striscia» nel day-time, collocando il medesimo programma (tipicamente, un prodotto seriale) alla stessa ora durante tutta la settimana. Nel giro di pochi anni il panorama televisivo nazionale risulta radicalmente mutato.
Pochi ricordano che «Dallas» è stata la carta vincente di Berlusconi per lanciare Canale 5. Le cose andarono così: la Rai aveva acquistato i primi episodi del serial, trasmettendoli su Raiuno nel 1981 fra molte perplessità e diffidenze (tredici puntate della serie, non in ordine ma “selezionate tra le migliori”: un grande successo americano, già in ritardo, viene trasmesso quasi controvoglia). Con incredibile tempismo, Berlusconi acquista personalmente i diritti di trasmissione al Mifed di Milano: «Il vero Dallas lo faremo conoscere noi al pubblico italiano, quello che si è visto in Rai è solo un piccolo assaggio poco significativo», è la promessa di Canale 5. Con «Dallas», Berlusconi inaugura la contro-progammazione: la serie viene infatti mandata in onda il martedì, per colpire la giornata più debole della Rai e il giovedì, raddoppiando l’appuntamento settimanale, per fidelizzare l’ascolto. Davvero, un colpo vincente. Alla Rai, per consolarsi cominciano a chiamare Berlusconi Geiar.
Tuttavia, della tv aveva un’immagine abbastanza tradizionale: «La televisione oltre che essere un grande momento di comunione familiare, è lo strumento grazie al quale la qualità della vita è andata via via migliorando: in qualunque parte d’Italia c’è un’offerta di spettacolo, di evasione che consente di passare le ore libere della giornata (e basti pensare alla gente sola in casa, a chi giace in un letto di ospedale) in maniera piacevole». La deregulation dell’etere genera prima un universo radiotelevisivo locale (e talvolta strapaesano) e poi, accanto a quest’ultimo, un «modernismo conservatore», (da «Premiatissima» con Jonny Dorelli a «Il pranzo è servito» con Corrado, da «Dallas» al vecchio catalogo della Titanus) che trova il suo più felice compimento nell’apertura di un nuovo, ampio mercato pubblicitario. Il merito più grande di Silvio Berlusconi è stato, appunto, quello di aver dato un serio impulso alle piccole e medie industrie che prima non potevano accedere alla Rai per reclamizzare i loro prodotti. L’entrata aggressiva dei canali Fininvest nella situazione monopolizzata dalla Rai è una manna per gli inserzionisti pubblicitari, che vedono scendere i prezzi medi praticati e possono beneficiare di una più precisa definizione dei gruppi di potenziali acquirenti per i loro prodotti. Tra il 1980 e il 1981 gli introiti pubblicitari di Publitalia ’80 passano da 13 a 75 miliardi di lire, consacrando la raggiunta maturità della pubblicità nazionale tv alternativa ai canali Rai. In quel momento nel magazzino di Rete Italia ci sono ormai 6.000 ore di cinema (in gran parte film acquistati dai tre network americani ABC, CBS e NBC). Poi è storia nota.
L’omaggio più bello alla tv di Berlusconi è stato fatto da Angelo Guglielmi: «La nascita dei network privati è stato un fatto positivo. Ha significato l’apertura di un sistema che prima era chiuso, bloccato, dal punto di vista industriale e da quello culturale... Di fronte a questo fenomeno, la sinistra ha reagito in modo sbagliato. Ha continuato a vedere nella tv uno strumento degradato, pericoloso, da sottoporre a vigilanza continua. Da tenere chiuso nel suo recinto, con i gendarmi intorno».
Quando Silvio Berlusconi sfilò Sandra e Raimondo alla Rai. Rita Cavallaro su L'Identità il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi fu ribattezzato dai media “Sua Emittenza”, per i successi a Fininvest e una personalità in grado di sfilare alla Rai le star più amate, fin dai primi anni Ottanta. Prime tra tutte Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, la coppia di attori che aumentò lo share nelle reti di Silvio, con la sitcom Casa Vianello.
Raimondo raccontò così l’inizio del percorso professionale e umano con il Cavaliere: “La nostra amicizia nacque alla fine degli anni Settanta. Due nostri amici ci parlarono di un giovane imprenditore milanese che stava per lanciare una TV privata e voleva proporci una collaborazione. Sandra era scettica, ma i nostri amici insistettero e, alla fine, organizzammo un incontro con questo Berlusconi a casa nostra. Quando arrivò ci travolse con il suo entusiasmo, con il suo charme. A un certo punto, però, gli chiesi se voleva un caffè, una bibita e lui rispose chiedendomi un panino perché, disse, non aveva avuto il tempo di fare colazione. Al che mi voltai verso Sandra e le sussurrai “ma siamo certi che questo sia veramente ricco?”. Gaffe a parte, ne fummo conquistati e ci trasferimmo a Milano dove partecipammo alle prime trasmissioni di Canale 5. Restammo sorpresi del clima d’entusiasmo che vi regnava, noi abituati ai ritmi “ministeriali” di mamma RAI. Silvio era sempre presente, sempre attento, sempre disponibile. Alla scadenza del nostro impegno, però, la RAI si rifece viva e ci propose un contratto molto interessante. Decidemmo a malincuore di tornare a Roma, dove tra l’altro ancora abitavamo, e lo comunicammo a Berlusconi che ci invitò ad Arcore a cena. Fu una serata deliziosa e un po’ triste; al momento dei saluti, poi, avevamo tutti e tre un magone tremendo. Restammo con l’immagine di lui sul portone, solo, che ci salutava. Anche Sandra era tristissima. Qualche giorno più tardi, lui le telefonò dall’Olanda e le disse: “Oggi è un bel giorno. Gullit viene al Milan. Ma non riesco a festeggiare perché voi mi mancate troppo”. Sandra crollò, e una settimana dopo firmammo un nuovo contratto con Canale 5″.
Silvio Berlusconi e la televisione: così ha rivoluzionato la tv in Italia. Francesco Canino su Panorama il 12 Giugno 2023
Dagli esordi a TeleMilano 58, la rete via cavo di quartiere, all'impero da quasi 5mila dipendenti. Dal primo big sotto contratto (Mike Bongiorno) al nuovo modo di comunicare e vendere spazi pubblicitari. Nonostante le critiche, "Sua Emittenza" ha costretto tutti, a cominciare dalla Rai, a rinnovare i palinsesti e a sperimentare un modo nuovo di fare televisione
È la metà degli anni '70 quando Silvio Berlusconi fa il grande salto: dai mattoni alle televisioni. Racconta chi c'era, ed è un testimone eccellente come Fedele Confalonieri, che andò così: una sera riunisce i suoi più stretti collaboratori e gli dice: «Da domani ci occupiamo di televisione». Un triplo carpiato che spiazzò tutti, tranne chi da tempo conosceva le sue intuizioni da imprenditore funambolo. «Berlusconi è sempre stato molto sorprendente. La prima reazione era di dire: “Dove diavolo vuole andare?”. E qui va dato atto a Berlusconi che non ha mai buttato via soldi. Ha preso un miliardo di fido, non ha preso soldi dall’edilizia, e si è messo in gioco in prima persona», spiegò Confalonieri, presidente di Finivest prima e di Mediaset poi. Del circolo di amici e collaboratori dell’Edilnord - la società di costruzioni edilizie di Berlusconi - c'era anche Carlo Bernasconi, che fino a quel momento si occupava di muratori, architetti, ingegneri, geometri e che, in una manciata di anni, sarebbe diventato uno dei manager più importanti, stimati e capaci di Fininvest (per trent'anni al fianco del Cavaliere, fu lui a fondare nel '95 Medusa Film, di cui restò presidente fino alla morte, nel 2001). «Lo portò a comprare i diritti per la televisione a Los Angeles, a Roma: i primi acquisti famosi, le star. Carlo Bernasconi è stato un altro degli attori principali, come collaboratori vicini a Berlusconi. Ma Berlusconi ha fatto da solo come sempre e senza spendere troppo. Berlusconi è anche molto attento, come tutti i bravi imprenditori che non buttano via i quattrini», aggiunse Confalonieri.
Tutto nacque a Milano 2, centro residenziale alle porte della città realizzato dallo stesso Berlusconi. L'intuizione fu pionieristica e, per molti aspetti, geniale: trasformare TeleMilano 58, la rete via cavo del quartiere, in una tv moderna e in grado di sfidare la Rai. È il 1977 quando l'imprenditore chiama e corteggia Mike Bongiorno, all'epoca nel pieno della sua carriera (con programmi seguiti da 22/23 milioni di spettatori), il quale rivelò poi di non avere la minima idea di chi fosse Berlusconi. «Chiesi in giro e mi dissero che era un costruttore, che aveva fatto Milano 2. All’inizio pensai addirittura che volesse vendermi un appartamento. Comunque accettai di vederlo e ci incontrammo in un ristorante. Dopo un quarto d’ora mi resi conto che quell’uomo era di una brillantezza incredibile e avrebbe fatto una grande carriera». Da vero ammaliatore, Berlusconi gli raccontò il suo sogno ambizioso che sapeva di capovolgimento totale: «Mi spiegò che aveva in mente di creare la televisione indipendente e di voler lanciare nuovi programmi che la Rai non voleva o non poteva fare perché legata appunto ai partiti politici e al Vaticano. Io lo ascoltai attentamente ma gli dissi anche che non potevo certo lasciare la Rai». Strappare Bongiorno alla Rai aveva una forte valenza simbolica, perché il conduttore non solo era uno dei volti più popolari della tv ma era un veterano, un "padre nobile" della televisione italiana, uno di quelli che aveva contribuito a fondarla, nel '54. Berlusconi ovviamente non si arrende al primo no del conduttore, lo corteggia fino a quando Bongiorno accetta e diventa "bigamo", lavorando sia per la Rai che per la tivù di Berlusconi. A sorpresa, la prima reazione della tivù pubblica non fu negativa. «I dirigenti di allora erano sicuri che quello sarebbe stato un fuoco di paglia e consideravano Berlusconi roba da niente. Dopo due, tre anni che facevo questi piccoli programmi per Canale 58, Berlusconi mi chiese di lavorare esclusivamente per lui. Quando comunicai in Rai che li avrei abbandonati per Berlusconi erano tutti increduli e ripetevano che quello non era altro che un palazzinaro», raccontò Bongiorno. Ma perché un conduttore blasonato come lui accettò la "proposta indecente" di Berlusconi? Per la clamorosa proposta economica - 52 milioni l'anno contro i 600 milioni che il Cav gli mise sul piatto - ma non solo. «Per primo Bongiorno aveva capito che non serviva più promuovere programmi per vendere la televisione, ma occorreva realizzare spazi pubblicitari per vendere prodotti, rivelandosi anche in questo un maestro, il vero profeta del verbo berlusconiano», scrive nella Garzantina della tv il principe dei critici televisivi, Aldo Grasso. Il 30 settembre 1980, dalla fusione di cinque emittenti locali nasce Canale 5 e con le l'impero tv di Berlusconi che, mutuando le modalità di azione dei network statunitensi, fa nascere la tv commerciale in Italia. Nel giro di pochi anni, complice anche la deregulation in materia televisiva, si aggiungono Italia1 (nel 1982) e poi Rete4 (nel 1984). «Il suo ingresso in politica ha dato luogo a un conflitto di interessi tra ruolo pubblico e attività private, che ha scatenato un acceso dibattito politico», scrive ancora Grasso analizzando il senso della sua "discesa in campo" televisiva. Che cambia tutto, o quasi, accelerando la fine del monopolio della Rai. In pochi anni Berlusconi diventa "Sua Emittenza", come lo ribattezzerà anche Giovanni Minoli in uno dei suoi più celebri faccia a faccia. L'effetto valanga a quel punto è inarrestabile, la sfida con la tv pubblica inevitabile. «A quel punto cominciai a chiamare tutti i miei colleghi e amici: Pippo Baudo, Corrado, Raffaella Carrà … E vennero tutti a lavorare con noi di corsa, tanto che in Rai cominciarono a preoccuparsi di quello stillicidio», raccontò Bongiorno. Prima ancora arriva Loretta Goggi, protagonista di Hello Goggi, il primo varietà autoprodotto di Canale 5, ma la campagna acquisti del Cavaliere è spregiudicata e conquista volti tv come Sandra Mondaini, Raimondo Vianello e Maurizio Costanzo. C'è chi resta e chi invece se ne va dopo qualche stagione, ma a quel punto la Rai fu costretta a scontrarsi con la concorrenza del gruppo non solo sul piano degli ascolti, dei contenuti e anche dei cachet: per tenersi o riconquistare i volti amati dal grande pubblico, la tv di Stato è costretta a rilanciare con cachet più importanti che destano polemiche (anche politiche). Ma che cosa appassionava Berlusconi del mondo della televisione? «Berlusconi è un uomo di spettacolo nato. Quando cantavamo e suonavamo insieme era uno che ci sapeva veramente fare. Se avesse seguito quella carriera sarebbe diventato un grande uomo di spettacolo. E qui trovava pane per i suoi denti», sintetizzò Confalonieri. Sono leggendari gli inizi, che Berlusconi che si occupava di tutto, dai copioni alle luci, dalle inquadrature alle comparse. «Più che leggenda è verità. Sono stati anni di creatività e dinamismo oggi inimmaginabili», ha raccontato Gianna Tani, per venticinque anni la "signora dei casting" di Mediaset. «Berlusconi era capace di chiamare per dirmi: ‘Gianna, non mi piacciono quelle due persone sedute in prima fila, le sposti in seconda’. Era attento a tutto». Lo confermò anche Confalonieri, citando una celebre battuta di Biagi: «Berlusconi era uno che entrava negli studi, che rivedeva gli scritti, le battute di tutti. La famosa boutade di Enzo Biagi, che se avesse avuto un filino di seno avrebbe fatto anche l’annunciatrice, era una battuta scherzosa ma significativa di quanto si interessasse di tutto».
Nasce in quegli anni il claim geniale: «Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta». Mentre forma e sostanza s'intrecciano, la sfida con la Rai si fa incandescente. Berlusconi intuisce che c'è del potenziale e accende per primo la tv del mattino (fino al 1981 la Rai trasmetteva il monoscopio ancora a mezzogiorno) e altre fasce strategiche, importa dall'America format e prodotti - come Dallas e poi Dynasty - che sbancano gli indici di gradimento e poi l'Auditel (che arrivò nel 1986). Ed è in quel momento che intervengono i giudici: sequestrano le videocassette che contengono le registrazioni dei programmi attraverso le quali Berlusconi riversa le trasmissioni in tutta Italia, spezzando così il monopolio della Rai. Solo grazie ad un decreto si sblocca la situazione e parte di fatto la liberalizzazione delle tv in Italia. Ma da tempo è partito il cambiamento estetico e contenutistico, sia attraverso un uso nuovo della regia e delle luci, sia con programmi cult come Drive In, con le pinup super maggiorate che diventano l'emblema dell'edonismo televisivo degli anni '80. L'asprezza delle critiche verso quel tipo di tv è tale che l'onda lunga arriva fino ai giorni nostri: c'è chi critica ferocemente l'impatto che la tv berlusconiana ha avuto, chi invece la considera rivoluzionaria. Certo è che Berlusconi inventò da zero - almeno in Italia - forme di comunicazione inedite per lanciare programmi e personaggi, introdusse modi nuovi di vendere gli spazi pubblicitari, aumentando in modo esponenziale i fatturati. Serie tv, quiz, poi programmi d'informazione, la diretta (agli inizi degli anni '90), nuovi format: Berlusconi accelera e controprogramma, spesso avendo la meglio sulla Rai. «Ha avuto il merito di dare impulso, attraverso l'offerta di nuovi spazi pubblicitari, alle piccole e medie industrie, che in precedenza non erano in grado di accedere ai canali Rai per propagandare i loro prodotti, e di aver costretto le reti pubbliche, abituate a una produzione dai tempi lunghi e rallentati, a rinnovare i palinsesti e a sperimentare nuovi ritmi di visione, rapidi e frantumati. Al tempo stesso, ha piegato la produzione televisiva alla logica dello sponsor, nuovo decisivo interlocutore che ha sostituito il telespettatore come punto di riferimento nella programmazione, imponendo di trasmettere programmi capaci di trascinare il numero più alto di "contatti"», osserva ancora Grasso. Un "mutamento genetico" e proprio per questo esente da critiche che arrivano soprattutto da sinistra. Dove però non mancano gli sguardi lucidi di una mente aperta e avanguardista come quella di Angelo Guglielmi: «La nascita dei network privati è stato un fatto positivo. Ha significato l’apertura di un sistema che prima era chiuso, bloccato, dal punto di vista industriale e da quello culturale. Di fronte a questo fenomeno, la sinistra ha reagito in modo sbagliato». Ma davanti alle critiche Berlusconi - uomo che da sempre divide, persino all'interno del suo inner circle, quando annuncia la "discesa in campo" in politica nel '94 - pare non dare mai troppo ascolto. Tira dritto e costruisce le fondamenta di un impero che oggi sfiora i 5 mila dipendenti tra Italia e Spagna, punta all'espansione in altri paesi europei tra cui la Germania (il progetto di Pier Silvio Berlusconi è quello di creare una tv europea) e ha chiuso il bilancio del 2022 con un utile netto reported di 216,9 milioni di euro (molto superiore alle attese). Un colosso strutturato, che entra da quarant'anni nelle case degli italiani con volti di punta che hanno cambiato il modo di fare la televisione in Italia (su tutti un nome: Maria De Filippi). Ora il futuro è tutto nelle mani dei figli, in particolare di Marina e Pier Silvio, chiamati a gestire un'eredità importante, sia sul piano imprenditoriale che di storia della comunicazione. «C’è la televisione e tu hai la possibilità di vivere quest’avventura di una rivoluzione veramente culturale», disse Confalonieri. Oggi è tempo di una nuova rivoluzione ma sempre nel solco scavato dal Berlusconi più visionario.
Da un cavo al futuro: la rivoluzione del piccolo schermo. Telemilanocavo nel ’74, oggi è un colosso che ogni giorno accompagna la vita degli italiani In mezzo secolo il «Codice Mediaset» ha rinnovato il linguaggio. Creando polemiche. E anticipando le tendenze, le svolte di costume e il termine chiave di questa epoca: condivisione. Paolo Giordano il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
All’inizio diceva: «Non è per niente facile fare una tv commerciale in Italia, manca il know how». Così lo ha creato lui. Per forza nella televisione italiana c’è un AS e un PS, una fase ante Silvio e una post Silvio, la prima ha creato le condizioni perché nascesse Fininvest e la seconda ha condizionato tutto il resto, mica soltanto la tv.
Nessuno lo avrebbe previsto il 24 settembre del ’74 quando iniziarono le trasmissioni di Telemilanocavo, nata a Milano 2 dopo la sentenza di luglio della Corte Costituzionale su Telebiella che liberalizzava questo tipo di trasmissioni. Cinquemila utenze, ventimila telespettatori. Dopo il via libera del 1976 anche alle trasmissioni via etere, Telemilanocavo diventa Telemilano58, visto che il 58 era il canale di trasmissione. Sede: uno scantinato di Palazzo dei Cigni a Segrate. Il PS, il post Silvio inizia qui, inizia con gli investimenti tecnici fatti con la consulenza di Adriano Galliani e con la visione di fare una tv commerciale che, come ha raccontato Camilla Cederna, «sarà una tv ottimista». In una Italia dominata dalla Rai e frammentata in decine di tv private, Telemilano fa una imponente campagna acquisti e nella stagione 79/80 mette in palinsesto programmi di Mike Bongiorno, Claudio Lippi, Claudio Cecchetto e I Gatti di Vicolo Miracoli. Sono i punti cardinali che ancora oggi, riveduti e corretti, regolano la bussola di Mediaset: i quiz, la comicità, il varietà, il programma per famiglie. Obiettivo: creare un network nazionale, roba che allora era una visione assoluta, quasi utopica nell’etere marchiato Rai. La normativa non consente trasmissioni in contemporanea nazionale e così nasce il cosiddetto «pizzone». In poco tempo, Silvio Berlusconi acquista o si accorda con una cinquantina di emittenti locali capaci di irradiare una grande percentuale di suolo italiano. I sogni nel cassetto di Mike Bongiorno (oggi si chiamerebbe «game show») viene registrato e poi le «cassette vhs» arrivano a tutte le emittenti per trasmetterle nello stesso giorno alla stessa ora. Una sorta di diretta nazionale. È la prima volta che Silvio Berlusconi diventa davvero divisivo. La sinistra sbaglia (ancora) valutazione e inizia ad attaccare questa «tv popolana» che in realtà si rivolge anche ai suoi elettori. È un boom e Telemilano diventa un nome troppo limitativo. Nasce Canale 5 che è un network extraregionale al Nord mentre al Centro Sud si chiama Canale 10, ha meno programmi ma lo stesso logo. L’11 novembre 1980 anche lì diventa Canale 5 e nasce il primo network nazionale non Rai con Rondò veneziano di Gian Piero Reverberi come sigla di apertura e chiusura dei programmi. L’evento che lo lancia davvero all’attenzione di tutti è il Mundialito, un torneo di calcio che raggiunge anche 8 milioni di telespettatori a partita. Da qui è storia, che poi passa attraverso l’allargamento del gruppo (Italia Uno acquistata nel 1982 da Edilio Rusconi e Rete4 da Mondadori nel 1984, con il passaggio del Maurizio Costanzo Show su Canale 5), il cosiddetto «Decreto Berlusconi» del governo Craxi, l’arrivo delle dirette nel 1990 con la legge Mammì, la nascita del marchio Mediaset nel 1996.
Fin qui le prime tappe decisive.
Poi ci sono la conferma di un linguaggio e di uno stile, il ruolo di pioniere della tv commerciale che prima in Italia non c’era e che, per i soliti noti, è stata addirittura una causa di decadenza intellettuale. La tv di Silvio Berlusconi ha consolidato prima di tutti il ruolo di quelle che oggi si chiamano «serie»: il successo di Dallas (trascurato dalla Rai) fu così gigantesco che a Viale Mazzini iniziarono a chiamare «Geiar» questo imprenditore milanese sbarcato come un marziano nel mondo già paludato della tv. Cambia anche il modo di raccontare. Anticipando di decenni il linguaggio web e anche il cosiddetto «gonzo journalism», i conduttori Fininvest parlano in prima persona invece che in terza come in Rai. E che conduttori.
Oltre a Mike, ci sono Loretta Goggi, Sandra Mondaini, Raimondo Vianello, Corrado, Maurizio Costanzo. Aprono la strada a una nuova generazione di protagonisti della televisione che tuttora sono compagni di viaggio degli italiani, da Gerry Scotti a Maria De Filippi. Con il Grande Fratello del 2000, la tv anticipa in qualche modo l’era social, della condivisione, della presenza costante e spesso imbarazzante, dell’«essere famosi per essere famosi». Una storia nata via cavo nel 1974 in un piccolo quartiere di Milano che oggi è diventata un gruppo per decine di migliaia di dipendenti in Italia e all’estero (Telecinco è tra le tre tv più seguite in Spagna) ed è cruciale nella vita pubblica e domestica di tutti noi. Ieri sulla Torre Mediaset di Milano è apparsa la scritta «Grazie Silvio, ciao papà», quasi a suggello di una storia che si è rivelata decisiva nella Storia di questo paese. Al netto di tutte le polemiche intellettuali e politiche, tanto male non è poi stata, pensandoci bene.
Sogno americano. "Drive in" e Veline. Ci ha regalato gli anni '80 e '90. Senza Silvio in Italia non avremmo avuto la televisione pop, una vera e propria rivoluzione dell'immaginario. Massimiliano Parente il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
Senza Silvio in Italia non avremmo avuto la televisione pop, una vera e propria rivoluzione dell'immaginario. Molto invisa ai comunisti degli anni Ottanta, a loro andava bene quello che passava il convento della Rai, e per chi come me è nato negli anni Settanta sarebbe stata un'adolescenza televisiva noiosissima.
Invece Silvio creò la tv commerciale, e al posto del cimitero di Viale Mazzini con la Fininvest (che dopo diventò Mediaset) il nostro mondo si popolò di avanguardie. Anzitutto il genio Silvio scoprì un genio televisivo, Antonio Ricci, che ideò Drive in, un programma che ci fece crescere fuori dal moralismo democristiano (e che tutt'oggi porta avanti uno dei programmi più longevi e irriverenti e liberi del panorama televisivo, Striscia la notizia), tra Ezio Greggio che faceva l'Asta Tosta (chi non ricorda il tormentone: «È lui o non è lui? Ceeeerto che è lui!»), Gianfranco D'Angelo con il cane Has Fidanken, e le tette di Carmen Russo, il culo di Nadia Cassini, a ravvivare le nostre nascenti fantasie di ragazzi. Un meraviglioso circo di follia e allegria.
Non era la Rai, meno male, e infatti di lì a poco, a inizio anni Novanta, arrivò subito Non è la Rai di Gianni Boncompagni, altro fuoriclasse, anche quello attaccato dalla sinistra bacchettona perché c'erano le ragazzine (ma cosa c'era di più innocente e fresco di Ambra Angiolini?). Nel frattempo sperimentando anche trasmissioni surreali che hanno lasciato un'eredità nella comicità futura, come quelle di Gianni Ippoliti, portando a far diventare opinionisti la gente comune (facevano molto ridere, e a pensarci erano meglio degli opinionisti seri di oggi). (A proposito, apro un'altra parentesi: invito Tiberio Timperi a non rompere le scatole a Ippoliti, perché Ippoliti è un altro genio televisivo).
Senza contare che senza Silvio, oltre ai cartoni giapponesi, da Lady Oscar a Jeeg Robot (mentre la Rai ci aveva fatto venire la depressione con lo sfigatissimo Dolce Remì) non avremmo visto le serie tv che hanno cambiato la nostra vita, importate dagli Usa, tra cui Supercar, L'uomo da sei milioni di dollari, A-Team, Magnum P.I., e il mai ricordato abbastanza Ralph Supermaxieroe, dando poi vita alle prime serie comiche italiane di culto già sul nascere, come Casa Vianello. Strappando alla Rai appunto il meglio che c'era, e pagandolo il dovuto: non ci volle molto, per dirne uno, a convincere Mike Bongiorno a passare alla tv commerciale. Perché prima di Silvio i grandi venivano pagati poco, come funzionari statali.
E poi il Maurizio Costanzo Show, un talk show unico, che mai sarà ripetibile. Ogni sera non c'era italiano che non si chiedesse «Chi c'è al Costanzo?», e da lì sono passati tutti coloro che sono diventati qualcuno in seguito, da Vittorio Sgarbi a Enzo Iacchetti e perfino il sottoscritto ventunenne che mandò a Costanzo un manoscritto di seicento pagine cercando un editore e dichiarando «diventerò il più grande scrittore del XXI secolo». Nella prima puntata a cui andai c'era un ragazzo che voleva fare l'attore. Si chiamava Valerio Mastandrea. Da Costanzo era così, chiunque aveva una chance, e Costanzo non sarebbe stato possibile senza Silvio, l'unico che importò il sogno americano in Italia, in televisione, e non solo in televisione.
Infatti il genio di Silvio era individuare talenti che non avrebbero trovato spazio altrove, dando vita alla televisione moderna prima di allora inimmaginabile. Capì subito le potenzialità di Claudio Cecchetto per esempio, lasciandogli carta bianca per la sua Deejay Television: lì, pensate un po', i personaggi di punta esordienti erano Jovanotti, Fiorello, Amadeus, Gerry Scotti, mica pizza e fichi. Cambiò anche l'informazione: Giuliano Ferrara con L'Istruttoria, dove andò in onda la prima vera rissa della televisione italiana, Vittorio Sgarbi che tira dell'acqua a Roberto D'Agostino, e quest'ultimo che gli molla uno schiaffo.
Che dire, ragazzi: l'elenco di tutto l'immaginario creato da Silvio sarebbe lungo. Senza di lui in Italia non avremmo avuto gli anni Ottanta e Novanta, saremmo rimasti bloccati ai Settanta. Come sarebbe lungo l'elenco di tutti i detrattori, i famosi intellettuali organici, contro la televisione berlusconiana che ci avrebbe lobotomizzati. Perché ci volevano organici alla loro televisione cattocomunista della noia.
Estratto dell’articolo di Franco Bechis per open.online il 12 luglio 2023.
Con una transazione avvenuta qualche settimana fa si è chiusa la guerra dei diritti tv fra il gruppo Gedi e RTI-MFE, ed è finalmente pace fra i Berlusconi jr e John Elkann. Secondo quanto risulta a Open infatti Gedi ha pagato quanto concordato a RTI-MFE, con l’impegno di entrambi i contendenti alla riservatezza sul valore economico del patto.
L’utilizzo secondo i Berlusconi illegale di brani tratti dalle trasmissioni di Mediaset ora divenuta MFE aveva scatenato una serie di cause giudiziarie, che hanno visto soccombere sempre Gedi, le cui violazioni del diritto d’autore risalivano all’epoca in cui il gruppo era controllato dalla famiglia De Benedetti.
Non si conosce l’entità della cifra corrisposta, ma per capire l’ordine di grandezza basta leggere le note sui rischi legali in corso riportato nel bilancio consolidato Gedi del 2022, dove si spiegava che «nell’ambito di un procedimento giudiziario notificato il 31 marzo 2021 e relativo alla violazione del diritto d’autore contestata a GEDI in relazione a brani audiovisivi estratti dai Programmi RTI, l’autorità competente ha disposto il pignoramento di una somma pari a €5.098.033,44 presso la cancelleria del Tribunale di Torino».
La transazione potrebbe essere avvenuta a sconto su quel pignoramento, ma potrebbe ricomprendere anche una somma a forfait da corrispondere a MFE per l’utilizzo concordato di quelle immagini sui siti delle varie testate del gruppo Gedi. E si è liberato comunque il bilancio della holding editoriale presieduta da John Elkann da un rischio legale piuttosto importante.
Resta invece ancora in sospeso la vicenda della presunta truffa all’Inps che Gedi avrebbe compiuto sempre sotto la gestione De Benedetti con i prepensionamenti dei poligrafici in 5 società del gruppo (Gedi spa, A. Manzoni&C spa, Elemedia spa, Gedi News Network spa e Gedi Printing spa).
Nonostante i numerosi tentativi giudiziari di ottenerne il dissequestro o almeno la riduzione del valore, restano sequestrati preventivamente su decisione del Gip del Tribunale di Roma 38,9 milioni di euro «nell’ambito del procedimento penale n. 10410/18 RGNR».
Gedi è accusata dello stesso tipo di reato di cui oggi è accusata Daniela Santanché cui si imputa di avere truffato l’Inps per 37 mila euro avendo fatto lavorare a rimborso spesa una dipendente del gruppo Visibilia per cui era stata ottenuta la Cassa integrazione Covid. L’ipotesi di truffa all’Inps è la stessa, ma l’importo di cui è accusata Gedi è 1.051 volte superiore a quello di cui è accusata la Santanché. […]
Quando Berlusconi chiamò l’Ansa: «Devo dettare un comunicato». Storia di Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2023.
Alle tre di notte Silvio Berlusconi alza il telefono. Chiama il centralino dell’agenzia di stampa Ansa. Deve smentire un articolo. È solo, a Palazzo Grazioli, la sua residenza romana. Gli risponde un dimafonista, figura professionale ormai scomparsa, colui al quale i giornalisti dettano al telefono le notizie. «Sono il Presidente del Consiglio devo dettare un comunicato». Risposta di Mario (il nome è di fantasia): «E io sono Napoleone”. Berlusconi insiste: «Guardi che sono io». Il dimafonista si convince, sbianca, è insolito, praticamente non ha senso. Di solito non chiamano i politici, esistono gli staff. La storia non è breve, non è mai stata raccontata, all’Ansa per alcuni giorni non si parlerà d’altro. Il dimafonista si fa coraggio: «Va bene, mi dia il titolo». Berlusconi: «Quale titolo? Lei deve scrivere la mia dichiarazione». Mario ribatte: «Titolo!!». Ogni notizia ha un titolo, sono le regole. Il capo del governo perde per un attimo la pazienza, ma alla fine si convince, insieme a Mario alle tre di notte confezionano insieme un titolo, cui seguirà la dichiarazione. Alle sette del mattino quando all’Ansa arrivano i dipendenti Mario ha una storia incredibile da raccontare.
Non era incredibile per il portavoce del tempo di Berlusconi, Paolo Bonaiuti. È abituato a tutto, da anni, e in alcuni casi sono i giornalisti ad informare lui, non il contrario. Bonaiuti in alcune giornate più caotiche chiama le redazioni: «Cosa sapete di Berlusconi? Cosa vi ha detto oggi?». Il mondo al contrario. Berlusconi parla ovunque, in ascensore a Montecitorio, mentre compra quadri e mobili da un antiquario affezionato a Bruxelles, nel cortile di casa sua. Una d’inverno sera rientra a Palazzo Grazioli più tardi del solito, piove, all’una di notte trova un cronista del quotidiano Libero di fronte al portone: «Che ci fai qui? Non ce l’hai una famiglia? Dai vieni su che ti stai bagnando». Dopo un’ora, all’insaputa di tutti, il giornalista aveva un’intervista esclusiva e diversi scoop.
Esiste una storia minore, inedita, a tratti divertente, a tratti la più pazza del mondo, che descrive una fetta marginale, ma significativa, della comunicazione del più grande comunicatore politico che l’Italia abbia avuto. È la storia del rapporto simbiotico, incredibile se visto dall’esterno, che Berlusconi per almeno 20 anni ha avuto i cronisti che lo seguivano ovunque, 24 ore su 24, in Italia e all’estero. Lui dormiva poco, loro facevano altrettanto. L’importante era esserci, nel momento e luogo giusto. Come capitò al nostro Marco Cremonesi: la villa sul lago di Como, una quarantina di giornalisti e telecamere fuori in attesa, il nostro collega scelse un diversivo. Si affacciò alle ringhiere laterali della villa: fu subito fermato dai carabinieri, poi però arrivò Berlusconi, «dai, su, scavalca». Marco si bucò un piede, in compenso ebbe un pranzo, dello champagne, un’intervista sotto il patio del giardino.
Prima ancora dei social, agli albori di Facebook, una parte della comunicazione di Berlusconi era fatta in questo modo, non aveva regole, se non quella di una marcatura strettissima. A volte accadeva l’impensabile: i giornalisti più smaliziati erano riusciti a calcolare il tempo che Berlusconi ci metteva per arrivare da Palazzo Chigi a Palazzo Grazioli. Poche centinaia di metri, pochi minuti. Almeno sei macchine di corteo. Loro si piazzavano sul marciapiede, cominciavano a gesticolare quando vedevano l’Audi blindata del Presidente, magari alzavano la voce. Lui li conosceva e faceva bloccare il corteo. Abbassava il finestrino, il traffico paralizzato, le parole del premier raccolte in mezzo alla strada. A Vincenzo La Manna, oggi vicedirettore di Askanews, una sera capitò di essere protagonista di questo incredibile meccanismo. Era ancora precario, senza un contratto, al Giornale, era stato mandato in Sardegna a seguire le vacanze del Cavaliere. A mezzanotte aveva finito di scrivere, ma non era soddisfatto. Seppe di una cena in corso a villa Certosa, aveva il numero di uno degli invitati. La fortuna aiuta gli audaci: «Vuoi che ti passo il Presidente? È qui con me, è appena entrato in salotto…». Vincenzo rimase di stucco, restò dieci minuti al telefono con il presidente del Consiglio, che peraltro non conosceva.
«Presidente guardi che mi licenziano». A volte anche un filo di disperazione poteva avere effetto. A un paio di colleghi, compreso il sottoscritto, capitò di prendere un “buco” non indifferente, eravamo arrivati tardi nel luogo dove Berlusconi aveva parlato a lungo con la concorrenza. «Ma non ho detto nulla», si schermiva lui, sottovalutando il potere delle sue parole. In entrambi i casi riuscimmo a recuperare: il cronista dell’Ansa fu accolto nella sua auto, lo intervistò seduto sulle sue gambe, non c’era altro spazio. Io ebbi una promessa: «Ti chiamo fra un paio d’ore al Corriere». La mozione degli affetti aveva funzionato, dopo due ore squillò il telefono. Anche in questi casi il suo ufficio stampa era all’oscuro di tutto. Il rapporto era biunivoco. Spesso era lui a cercare il cronista, bastava farsi vedere, bucare la rete della sicurezza, attirare la sua attenzione. Le porti girevoli dell’hotel Conrad, a Bruxelles, dove Berlusconi dormiva per i Consigli europei, valevano una conferenza stampa. Erano porte a vetro molto grandi, il giro completo durava quasi dieci secondi. Il trucco era intrufolarsi nel mucchio, subire alcuni spintoni, sussurrare una domanda. Berlusconi non deludeva quasi mai, ma solo il fortunato che aveva rischiato di rompersi una costola aveva in cambio una notizia. Augusto Minzolini, oggi al Giornale, si fregiava di essere più agile degli altri. Ma se per Berlusconi era anche un gioco, di cui tirava le fila, per i giornalisti era anche uno stress. La notte che definì Obama “abbronzato” si trovava a Mosca. L’aggettivo fece il giro del mondo. All’una di notte tornò all’hotel Kempiski, dopo una cena con Putin, i giornali in Italia erano ormai chiusi, lui aveva ancora voglia di parlare. Certe volte il terrore stimola il coraggio, uno di noi gli disse quattro parole: «Presidente, vada a letto». I suoi occhi per un attimo si accesero per l’eccesso di confidenza, poi però capì e infilò l’ascensore.
Si rassegnava di rado: una volta, al termine di una sfuriata a porte chiuse con Gianfranco Fini, fu avvicinato alla Camera da un collega. Lui si rivolse a Gianni Letta, che lo accompagnava: «Almeno a lui posso dire qualcosa?». In quel caso fu il braccio del suo collaboratore più fidato ad agevolare, in silenzio, l’ingresso in ascensore. Silvio Berlusconi, 29 settembre 1936 – 12 giugno 2023
Vittorio Feltri, tutta la verità: "Io, Berlusconi e la nostra storia con Montanelli". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 13 giugno 2023
Gli uomini non sono immortali, fortunati coloro che riescono a invecchiare, tra i quali ci sono anche io e c’era anche il Cavaliere. A cui devo molto, tra l’altro mi ha trasferito tra i benestanti pagandomi alla grande. Eravamo amici, ci davamo del tu. Poco prima di ammalarsi mi telefonò. Scherzosamente mi chiamava Numero uno, io che forse non riesco ad essere il centesimo. Noi due parlavamo raramente di politica, una volta per ridere gli dissi che non ero io a pensarla come lui, ma era lui a pensarla come me. Le mie battute scanzonate lo divertivano. Ieri mattina, diffusasi la notizia del suo decesso, sono stato interrogato sul mio stato d’animo da diversi media.
Riassumo le mie dichiarazioni. Ora che se ne è andato finalmente pure i cretini riconosceranno che Silvio è stato un grande, era grande sin da piccolo. Si è laureato da giovanissimo, e presto è diventato il primo costruttore nazionale, erigendo Milano 2, la città satellite più bella d’Europa. Poi ha lanciato tre emittenti televisive più importanti d’Italia, pareggiando il conto degli ascolti con la Rai. Non pago, ha fondato con Doris Mediolanum, una banca di livello continentale. Non è finita. È diventato padrone del calcio con il suo Milan che ha trionfato più di qualsiasi altra squadra. E veniamo alla politica. Silvio in tre mesi tra il 1993 e il 1994 ha fondato un partito col quale ha vinto immediatamente le elezioni. Un fenomeno come lui non esisteva in natura. Il resto è noto. Nonostante egli fosse una persona speciale mezzo Paese gli ha fatto la guerra senza requie, i comunisti e similari hanno fatto di tutto, invano, per demolirlo. Solo la magistratura con una sentenza balorda è riuscito a metterlo, per poco, in ginocchio.
Ma tutte queste cose sono arcinote, non voglio raccontarle ancora. Piuttosto vorrei rammentare il suo inizio come uomo che sarebbe diventato di Stato. Tutto cominciò con la sua lite con Indro Montanelli, il direttore del Giornale di proprietà di Silvio. Il resto lo conoscete. Aggiungo soltanto che spesso solo la morte rende giustizia agli individui importanti. Nell’aprile del ’93 ricevetti la chiamata di Silvio Berlusconi. Ancora non si parlava del lancio in politica e Forza Italia non esisteva. Dirigeva allora l’ufficio stampa dell’imprenditore un giornalista con cui avevo lavorato a Il Corriere, Giovanni Belingardi, amico mio carissimo. Fu lui a contattarmi informandomi che Berlusconi desiderava incontrarmi. Non avevo motivo di rifiutare l’invito. Giovanni venne a prendermi in ufficio per portarmi ad Arcore. Mi lasciò davanti al cancello e andò via.
IL PRIMO INCONTRO
«Il signore in questo momento si trova in giardino, sta accompagnando Gianni Agnelli all’elicottero. Se si incammina per questo vialetto, vi incrocerete», mi comunicò il maggiordomo appena varcata la soglia della residenza. E fu proprio lì che ci vedemmo per la prima volta, su quel vialetto. L’imprenditore mi venne incontro e mi salutò in modo cordiale, quasi affettuoso. Era giovane, gentilissimo ed energico. Avevo davanti a me un uomo semplice. Non provavo soggezione. Non ho avuto alcuna palpitazione. Mi interessava capire soltanto cosa egli volesse dame. Durante il pranzo piovvero le proposte. Berlusconi mi chiese innanzitutto cosa ne pensassi di un mio passaggio a Il Giornale in qualità di direttore. Non nascosi di essere attratto da questa ipotesi, sostituire Montanelli mi attizzava. Ma aggiunsi anche che io stavo alla grande lì dove mi trovavo. L’Indipendente andava molto bene e le mie entrate erano soddisfacenti. Sottolineai, infine, che fintanto che Montanelli fosse stato alla guida de Il Giornale io non avrei mai osato scavalcarlo e che solo nel caso in cui Indro avesse deciso di abbandonare il timone per motivi suoi, io sarei stato interessato ad un mio passaggio al quotidiano di via Negri. Berlusconi la prese bene. Non era un tipo da scomporsi. Dopo il nostro primo incontro il futuro leader di Forza Italia mi chiamava spesso per farmi i complimenti per i miei titoli o i miei pezzi, mi diceva che il mio giornale gli piaceva molto. In occasione del ferragosto di quello stesso anno, il ’93, fui invitato da Silvio a pranzo, sempre ad Arcore.
«Mi trattengo a Milano per lavoro e sono da solo, porti anche sua moglie ed i suoi figli», mi pregò l’imprenditore. Mi presentai lì non accompagnato. A tavola questa volta Berlusconi si fece più insistente. «Venga da me, le affido la direzione di Canale5», mi disse. Io non avevo mai fatto televisione, avevo alle spalle solamente qualche piccola esperienza in codesto ambito, sono un giornalista della carta. Berlusconi mi fornì il nome ed il numero di un suo amministratore, un certo ingegnere Spingardi, augurandosi che potessimo raggiungere un accordo fissando un compenso. Insomma, l’uomo mi voleva a tutti i costi. Incontrai Spingardi, più per farlo contento che per negoziare, infatti la trattativa non andò in porto. Influì sull’esito infausto anche la reciproca antipatia tra me e questo amministratore.
IL PARTITO A CHI LO DO?
Nei mesi successivi la stampa ci diede dentro con la diatriba infocata tra Montanelli e Berlusconi. Il primo non accettava che il secondo avesse fondato un movimento. Indro era incazzato nero, poiché aveva capito che il suo giornale sarebbe diventato un organo di partito. Si mormorava che Montanelli avesse intenzione di mollare la presa. Agli inizi di dicembre di quello stesso anno, il ’93, Berlusconi mi telefonò per chiedermi un consiglio. «Non so a chi affidare il partito, che ne pensa di Mariotto Segni?», mi chiese. «Mi sembra flaccido», osservai. «E Mino Martinazzoli come lo vede?», proseguì. «Anche peggio. Mino, lumino cimiteriale, è una specie di agente mortuario», risposi. Berlusconi rideva e mi ascoltava. Ad un certo punto incalzò: «Insomma, Feltri, lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?». «Metterei Silvio Berlusconi. Perché, quando ero direttore de L’Europeo feci fare un sondaggio al fine di sapere quale fosse il cittadino più ammirato d’Italia e al primo posto risultò lei. Se decide di entrare in politica, il partito deve dirigerlo lei, altrimenti lasci perdere», conclusi. Sospetto di avere fornito a Forza Italia non solo il leader, ma persino il nome. Negli anni ’80 io, Walter Zenga e Nicola Forcignanò conducevamo un programma televisivo che si chiamava “Forza Italia”, trasmesso sull’emittente di Tanzi.
VIA NEGRI
Berlusconi premeva e mi chiedeva in modo sempre più incalzante di andare a Il Giornale. Ci fu un altro incontro, ancora una volta ad Arcore. «Ok, vengo al Giornale», dichiarai dopo estenuanti tentativi di convincimento. Le condizioni erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Montanelli stava andando via. Era deciso. «Quando Indro toglierà le tende, ammesso che ciò accada effettivamente, io accetterò di prenderne il posto. Di sicuro non verrò lì a dargli una gomitata», specificai. E, in effetti, Montanelli, sicuramente messo a dura prova da un Berlusconi che voleva scaricarlo, abbandonò il quotidiano da lui stesso fondato. Dimessosi, il posto per pochi giorni restò vacante. Nel mentre prese avvio la trattativa riguardante la mia assunzione. AL’Indipendente guadagnavo mezzo miliardo l’anno, ecco perché mi misi a ridere allorché i dirigenti de Il Giornale, nel corso di un colloquio, mi offrirono 600 milioni. Li mandai a quel paese senza esitazioni. Già non ero molto eccitato al pensiero di lasciare un quotidiano che vendeva molte copie, inoltre mi veniva proposto di farlo per 100 milioni in più. «Se vi serve un cretino, ce ne sono in giro tanti. Se avete bisogno di un direttore, io sono ancora per poco disponibile», dissi rivolgendomi a tutti i presenti, incluso Paolo Berlusconi. Poi lasciai la stanza. Davanti all’ascensore fui recuperato e riportato dentro. A quel punto mi offrirono 800 milioni e, per convincermi ad accettare, mi proposero un compenso anche per le copie vendute. Insomma, più avrei recuperato lettori più avrei incrementato i miei guadagni. Una bella sfida, che colsi al volo. Già dopo pochi giorni vendevo 30mila copie in più.
LA SFIDA CON LA VOCE
I pranzi con Montanelli si interruppero. Non sentivo di averlo usurpato. Non appena presi la direzione de Il Giornale uscì il mio primo articolo, quello di saluto ai lettori. Il giorno successivo, tra le 10,30 e le 11, ricevetti la telefonata di Indro. Parlava in modo pacato e sicuro, come sempre. Nella sua intonazione nessun accenno di rancore odi rabbia: «Vittorio, ti faccio gli auguri ora che sei diventato il mio successore, ho letto il tuo articolo di fondo e devo dire che mi è molto piaciuto. Mi secca solo di non averlo firmato io». Restai sbalordito ancora una volta dalla sua gentilezza. Montanelli era un vero signore. Nelle sue parole percepivo affetto. Forse voleva togliermi dall’imbarazzo. Quanta delicatezza!
Il Giornale andava abbastanza bene quando esordì il nuovo quotidiano fondato da Montanelli La Voce, che vendette da subito la bellezza di 500mila copie. Tuttavia, io ero tranquillo. Avevo studiato bene quel giornale e lo vedevo brutto. Non avevo nessun timore. Sapevo che La Voce sarebbe stata una meteora. Scintillante all’inizio e dalla vita breve. Infatti, durò solamente un anno. Da 115mila copie a gennaio del ’94, Il Giornale superò le 200mila a fine luglio. Indro mi portò via una cinquantina di giornalisti, tra cui Beppe Severgnini, sebbene di lui mi dicesse «Beppe è soltanto cipria», Marco Travaglio, Mario Cervi, e tanti altri.
Dopo un anno dalla sua uscita, La Voce vendeva 30mila copie o 40. Il giorno in cui chiuse io mi trovavo a Santa Margherita Ligure. Appresa la notizia, feci fare 10 righe sulla prima pagina, una colonna, per rispetto, al fine di informare i lettori che il giornale di Indro aveva terminato le pubblicazioni. Neanche una parola di commento. Non avrebbe avuto senso infierire. Rientrato a Milano, il giorno seguente, mi chiamò Montanelli per chiedermi di vederci. Ci incontrammo in un ristorante di corso Venezia, Santini. Mi appariva quasi stanco, ma sereno. «Ho dovuto chiudere il giornale. Aiutami, vorrei che tu riprendessi con te queste persone», e mi fece il nome di alcuni giornalisti. «Se posso, Indro, lo faccio più che volentieri», risposi. E, in effetti, ne feci assumere qualcuno. Mi segnalò Cervi, che reintegrai subito. Iniziò così una nuova fase di frequentazione tra me e Montanelli, che tornò aIl Corriere come editorialista.
Non seppi mai cosa Indro pensasse di me dalle sue labbra. Lo appresi leggendo Panorama, dove io peraltro in quel periodo curavo una rubrica di opinione e rispondevo ai lettori.
Intervistato dal settimanale, al fondatore del giornale che io dirigevo fu chiesto se fosse vero ciò che si diceva, ossia che io fossi un suo allievo. «Questo non lo posso dire, ma da come scrive sento che è un mio parente», fu la sua risposta. E poi: «De Il Giornale cosa ne pensa?». «È come avere un figlio drogato», dichiarò gelido ed ironico Indro.
Montanelli mi accusò di cavalcare il peggio della borghesia italiana, cosa che aveva fatto pure lui. Ciò che gli era sfuggito era semplicemente il fatto che era la borghesia ad essere cambiata. Io l’avevo seguita.
LA ROTTURA
Lasciato Il Giornale, fui invitato a cena a casa sua. «Avevi ragione tu, Indro, quando andasti via da via Negri. Sono stato lì quattro anni e mi sono davvero rotto i coglioni», gli confessai. Montanelli scoppiò a ridere. «Perché hai mollato?», mi domandò. «Ero stufo e, siccome avevo una cospicua liquidazione da riscuotere, ho sloggiato più che volentieri», spiegai. Ridevamo come matti. Lo divertiva il fatto che avessi strappato una bella vagonata di soldi, lui non era bravo a trattare con il denaro. Io, invece, quando c’è da riscuotere divento ancora più tignoso ed incazzato. Dopo qualche mese decisi di fondare Libero e la notizia venne diffusa. Mi trovavo a pranzo con Renato Farina al ristorante Il Porto quando nel tavolo in fondo alla sala vidi Montanelli, il quale si alzò e mi raggiunse. «Noto che non fai più parte del mio club, quello dei magri, hai messo su qualche chilo, caro Vittorio», poi aggiunse: «Tu, a differenza mia, sai fare bene i conti, ce la farai con il tuo Libero».
E poi la rottura. In diretta tv. Durante una trasmissione condotta da Santoro, Raggio Verde, in onda su Rai2, ci fu un’accesa discussione tra me e Indro. Era presente anche Travaglio.
Era il marzo del 2001. Non ci chiarimmo mai più. Indro morì. Mi dispiace non averci parlato, ma, in fondo, non c’era nulla da chiarire. Avevo ragione io.
Indro era andato via incazzato da Il Giornale perché Berlusconi si era gettato a capofitto nell’agone politico, io comprendevo le sue paure e ragioni, tuttavia il modo che utilizzava per criticarlo era ingiusto. Sosteneva che il leader di FI fosse un fascista, un despota, un pericolo per la democrazia, un manganellatore. «Caro Indro, per vent’anni hai sempre affermato che Berlusconi fosse il migliore editore che tu avessi mai potuto immaginare di avere, perché non ha rotto mai le palle. Ad un certo punto, da un giorno all’altro, hai capovolto la tua opinione, dipingendo l’uomo come una sorta di mostro», gli dicevo.
Il punto è che Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietario del suo giornale e lui il padrone assoluto. Ma il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è. Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l’asino dove vuole il padrone. Indro però non aveva torto, non sopportava che arrivasse qualcuno, quantunque fosse colui che mette il grano, a dettare legge imponendogli una certa linea, che magari avrebbe seguito di sua spontanea volontà se non fosse stata l’unica strada permessa. Devo ammettere che io andai via da Il Giornale poiché mi ero rotto le scatole delle pressioni ricevute non da Berlusconi ma dagli ominicchi del suo partito, che davano per scontato che il quotidiano che io dirigevo fosse al loro servizio.
Di Montanelli restano gli insegnamenti. Mi sembra ancora di sentirlo e non c’è mattina in cui io, giunto in redazione, non ripensi a queste parole: «Caro Vittorio, quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano molto gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, ed il titolo deve essere “testa di cazzo”. Se invece fai un pezzo sull’Italia, il titolo deve essere “Paese di merda”. Questa è la tecnica migliore». E come un’eco si aggiunge Gaetano Afeltra: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle quattro “s”, sesso, sangue, soldi e salute. E, infine, uno schizzo di merda qua e uno là». Certe persone restano per sempre, persino quando non ci sono più. Berlusconi è tra queste.
Il Vecchio e il Male, Silvio Berlusconi e la rottura con Indro Montanelli. Claudio Rinaldi su L'Espresso il 10 gennaio 2022.
Il giornalista fu spinto verso la porta d’uscita de “Il Giornale” che aveva fondato con modi sospirosi e dolenti. Perché B. lascia ai suoi incauti compagni di strada una scelta sola: sottomettersi o andarsene
Forse ricordi, vecchio Indro. Era il 17 febbraio del 1990. Io avevo appena lasciato “Panorama”, per l’arrivo di Silvio Berlusconi alla presidenza della Mondadori, e tu scrivesti sul “Giornale”: «Il ritiro di Rinaldi (…) è un gesto di coerenza che ci incute rispetto, ma che non ci impedisce di deplorare l’uscita di un uomo come lui dalla direzione di un settimanale che gli deve gran parte del suo prestigio e della sua fortuna».
Fu il più prezioso gesto di solidarietà che ricevetti. Non ho mai dimenticato quel «deplorare». Se oggi torno a parlarne, non è perché voglia farmi bello della tua stima: non so se tu ne provi ancora. E nemmeno pretendo di scoprire adesso che di dubbi su Berlusconi ne hai sempre avuti: bastava leggere i tuoi articoli. Cito quell’episodio di quattro anni fa perché mi pare che la mia vicenda già rivelasse l’aspetto forse più odioso del modo berlusconiano di fare l’editore, quel miscuglio di colpi bassi e di chiacchiere dolciastre del quale anche tu sei caduto vittima. Finché, martedì 11 gennaio, non sei stato costretto a dimetterti dal “Giornale”.
A me, in un colloquio del 20 gennaio ’90, Berlusconi assicurò piena autonomia. A parole. Ma non passava giorno senza che i suoi vicepresidenti, Leonardo Mondadori e Luca Formenton, mi attaccassero con interviste di fuoco. Fra ostilità e ipocrisie, l’aria si fece subito irrespirabile. Con Montanelli il gioco delle parti si è ripetuto ancora più sfacciatamente. Da un lato Berlusconi e le sue professioni di amicizia, di fiducia. Dall’altro lo Sgarbi che offende, il Fede che propone di licenziare, perfino l’azionista di minoranza Achille Boroli che reclama la fine dell’appoggio a Mariotto Segni e l’apertura al Msi di Gianfranco Fini. Robaccia. Dalla quale Berlusconi non ha nemmeno finto di prendere le distanze: su Fede, al contrario, ha detto di non voler «censurare qualche opinione dei giornalisti della Fininvest»; su Boroli, ha precisato che «è libero di manifestare certe sue preoccupazioni».
Così, Montanelli ha dovuto constatare che anche il più brutale regolamento di conti può pretendere di avere le sembianze di un soave perbenismo. Non si è fatto ingannare, e ha preferito salutare la compagnia. Sapendo bene che la sua scelta non riguarda solo lui, ma suona sinistramente ammonitrice per tutti coloro che seguono con preoccupazione l’ingresso di Berlusconi in politica. Nell’uscita di Montanelli dal “Giornale”, infatti, si riconoscono senza fatica i tratti del Berlusconi tante volte dipinto da “L’Espresso”: abile nei sotterfugi, bugiardo, intollerante.
La storia del “Giornale” negli ultimi due anni è la madre di tutte le astuzie. Costretto dalla legge Mammì, Berlusconi nel ’92 cede la maggioranza del quotidiano; ma la gira al fratello Paolo, trattenendo per sé una robusta quota di minoranza, la stampa, la raccolta della pubblicità; rinnova le fidejussioni Fininvest; quando infine i rapporti con Montanelli si guastano, è lui che in assemblea arringa la redazione, detta la linea politica, indica perfino il tono giusto degli articoli. La presunta vendita a Paolo si rivela insomma una gigantesca presa in giro. E Montanelli diventa, suo malgrado, il testimone più diretto di come Berlusconi sappia eludere le leggi dello Stato.
Ma la svolta al “Giornale” fa capire anche come Berlusconi non sia affatto l’editore super partes che ha sempre sostenuto di essere. Delle sue dichiarazioni a effetto sono pieni gli archivi: «La regola è stata, è e sarà sempre un totale ecumenismo» (18 settembre ’93), «L’imparzialità è la mia regola» (23 novembre), «La polifonia delle mie testate è sotto il controllo di tutti» (24 novembre). Ma era solo fumo negli occhi. La realtà è che il “Giornale” è stato boicottato dai suoi padroni, nelle parole e nei fatti (cioè i mancati investimenti), per la linea che teneva e per lo stile che aveva. Tant’è che Montanelli è stato invitato a non usare più il fioretto. E non abbiano, i fratelli Berlusconi, la viltà di nascondersi dietro i lamenti sull’andamento economico del quotidiano. Rinfacciare gli aiuti dati (quali, poi?) non è elegante; meno che mai quando i sedicenti benefattori buttano via ogni anno decine di miliardi per ripianare le perdite del Milan, o quelle della concessionaria di pubblicità di Italia 7.
Ciò detto, rimane ancora da esaminare l’aspetto più inquietante della rottura Berlusconi-Montanelli. Che è l’appartenenza di entrambi alla stessa area moderata che ama dirsi liberal-democratica. È qui che suona l’allarme vero: Berlusconi ha spinto verso la porta d’uscita, con i modi sospirosi e dolenti delle grandi occasioni, non un pericoloso avversario politico, bensì un eminente giornalista che su tante cose la pensa come lui. La colpa imperdonabile di Montanelli, ai suoi occhi, è stata di schierarsi a favore di Segni, cioè di un uomo politico con il quale lo stesso Berlusconi da mesi strepita di volersi alleare. Questo la dice lunga su quale credibilità abbia il boss di Forza Italia quando promette di lasciare il suo impero editoriale dal momento del suo debutto in politica: sono mesi che Berlusconi fa il politico full time, ma le sue direttive ai giornalisti del gruppo Fininvest sono sempre più stringenti, riguardano ormai (e riguarderanno) non solo l’orientamento politico generale, ma addirittura i singoli personaggi da esaltare o da snobbare.
Su queste circostanze della rinuncia di Montanelli anche i Segni, i Martinazzoli, i Bossi farebbero bene a meditare. Esse dimostrano una volta di più che di Berlusconi, uomo ingordo se mai ce n’è stato uno, non si può essere alleati a pieno titolo e con pari dignità. Come già insegnavano tanti rapporti d’affari degli ultimi anni (con gli eredi Mondadori, con i Cecchi Gori, con i Franchini dei supermercati), Berlusconi alla lunga lascia ai suoi incauti compagni di strada una scelta sola: sottomettersi o andarsene.
Caro Indro, tu te ne vai - ne sono certo - senza tutte queste elucubrazioni, che lasci come sempre all’esprit mal tourné di quelli de “L’Espresso”. Te ne vai semplicemente perché sei un animo libero; e né la tua intelligenza né il tuo orgoglio ti permettono di diventare, alla tua età, lo strumento docile di chicchessia. Abbiti i miei, i nostri auguri. E ti sia di conforto, nelle nuove avventure, sapere che forse abbandonando “il Giornale” hai fatto sì che tanti occhi si aprissero. Anche in questo sei stato, come sempre, un uomo generoso.
Questo articolo con il titolo originale “Il Vecchio e il Male” è stato pubblicato sull’Espresso il 21 gennaio 1994
Estratto dell’articolo di Carlotta De Leo per corriere.it il 12 giugno 2023.
In 5 mesi più di 5 milioni di «mi piace»: a 86 anni compiuti, Silvio Berlusconi ha trovato il suo spazio anche su TikTok, la piattaforma social più frequentata da giovani e teenager. Che lo seguono, commentano e creano contenuti e «meme» spesso dissacranti. «Lui legge tutto e si diverte, ride moltissimo» assicurano dallo staff.
L’avventura è iniziata ad agosto, in piena campagna per le politiche, quando Berlusconi ha letto uno studio sull’importanza dei social come luogo dove gli italiani acquisiscono informazioni. Ha chiesto più dettagli al ristretto gruppo di esperti di comunicazione che lo segue. Poi si è fatto consigliare anche da nipoti, figli e da Marta Fascina. Così a fine agosto ha pubblicato il video d’esordio in cui, seduto alla sua scrivania, dice semplicemente «Ciao ragazzi, eccomi qua»: oltre 10 milioni di visualizzazioni e 42mila commenti per lo più ironici e scanzonati.
Subito dopo sono arrivate le barzellette (le chiama ‘terapeutiche’), da sempre un cavallo di battaglia di Berlusconi: milioni e milioni di utenti le hanno viste e riviste. E molti le hanno anche criticate per lo stile un po’ «cringe» del nonno che vuole far sorridere i nipotini che invece finiscono a ridere di lui.
Ma il «ragazzo un po’ stagionato» (la definizione è sua) non si imbarazza e continua a pubblicare. La sua «fanbase» si allarga: allo zoccolo duro dei fedelissimi che lo seguono anche da decenni, si unisce il nuovo target di adolescenti e giovani che lo conoscono più per la sua avventura imprenditoriale e calcistica che per il suo percorso politico. […]
BerlusTok. Guerra, gay, milanisti. Signori Berlusconi e La Russa, non basta non essere ipocriti. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.
Ignazio La Russa e Silvio Berlusconi: sono i due signori ritratti nella foto. Due signori che agiscono e parlano ritenendo o fingendo che il passato e il resto del mondo non esistano. Eppure hanno ricoperto e ricoprono tuttora incarichi di enorme importanza
Un’immagine di Ignazio La Russa (75 anni), attuale presidente del Senato, con Silvio Berlusconi (86) presidente di Forza Italia e senatore. In questi giorni si discute delle affermazioni di entrambi rispettivamente sull’ipotesi di un figlio gay e su Zelensky (foto Franco Origlia/ Getty images)
Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 3 marzo. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»
Quanti di voi sanno che il delitto d’onore, in Italia, è stato abrogato solo nel 1981? Sapete cos’è il delitto d’onore e cosa ha comportato la sua presenza nel codice penale italiano? Che un delitto commesso per «salvaguardare la propria onorabilità» poteva essere sanzionato con pene attenuate. Sembra assurdo, lo so, ma tutto questo accadeva in Italia, in tempi recentissimi. Perché ho citato il delitto d’onore? Perché spesso viviamo credendo che tutto ciò che accade attorno a noi, o che è accaduto quando eravamo bambini o ancora non nati o 2 secoli fa, sia qualcosa di trascurabile. Perché siamo sempre più portati a pensare che in fondo si stava meglio quando si stava peggio, che il passato sia pieno di valori da recuperare e non ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia pura e inutile retorica, buona solo ad darci l’illusione che il nostro qui e ora sia l’unica dimensione reale, l’unica possibile. Ma non è così, siamo quel che siamo, oggi, individualmente e soprattutto come comunità, in funzione di ciò che è accaduto ieri; e allo stesso tempo, ciò che accade altrove ha conseguenze sulla nostra quotidianità.
La guerra in Ucraina e i flussi migratori stanno condizionando il nostro presente, ecco dunque che dobbiamo iniziare a pensarci in continuità con la storia e in connessione col resto del mondo. I due signori ritratti nella foto che ho scelto agiscono e parlano ritenendo o fingendo che il passato e il resto del mondo non esistano. Non necessitano di presentazioni: sono due volti arcinoti della politica italiana. Due uomini che hanno ricoperto e ricoprono tuttora incarichi di enorme importanza e prestigio. Eppure, questi due signori - non so come facciano con tutta l’esperienza che hanno - riescono ancora a esprimere opinioni e giudizi che mettono a rischio, nell’ordine: la tenuta del governo, i rapporti dell’Italia con il resto del mondo, la quotidianità di persone che vengono additate come svantaggiate. C’è da dire che il presidente del Senato, in un’intervista al Corriere della Sera, coglie nel segno quando dice di non essere ipocrita perché, in un mondo in cui tutti sembrano nascondere qualcosa, la mancanza di ipocrisia viene premiata.
Se la mettiamo così, di certo ogni esternazione del proprio pensiero, anche la più orrenda, quando viene spacciata per mancanza di ipocrisia, finisce per acquistare una sua dignità. Ma tra Berlusconi che continua a trattare Zelensky come un “mascalzone”, incassando l’appoggio della Russia e La Russa (perdonate il gioco di parole) che paragona l’orientamento sessuale al tifo calcistico, dobbiamo capire che la mancanza di ipocrisia non c’entra nulla. Siamo dinanzi a due politici di primo piano che non paiono aver realizzato l’importanza del loro mandato e ritengono di poter sempre risolvere tutto alla italiana maniera, con un sorriso, una pacca sulla spalla, un «che esagerazione!». E mentre, sostengono i sondaggisti, «in Italia l’empatia per la resistenza ucraina inizia a scemare» (e Berlusconi, a suo modo, oltre a far indispettire Meloni, è quel sentimento che vuole intercettare), c’è chi sostiene che alla fine tra un figlio gay e un figlio milanista non vi sia molta differenza.
Provo un ragionamento e spero di essere compreso. Capisco chi dice: «Ma in fondo che ho fatto? Ho espresso solo la mia opinione... Sono solo parole». Invece di rispondere astrattamente che non lo sono, che le parole pesano, le parole sono pietre e viviamo in un mondo in cui i diritti vanno difesi anche con le parole, farò l’elenco dei Paesi in cui l’omosessualità è punita; dei Paesi (sono 70!) in cui vige l’omofobia di Stato. Algeria e Singapore 2 anni di carcere, Maldive 8 anni di carcere. In Nigeria, Mauritania, Somalia, Sudan, Afghanistan, Iran, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Yemen pena di morte. In ben 41 Paesi sono vietate attività per le associazioni che tutelano o promuovono i diritti della comunità Lgbtq+.
Ora forse è più chiaro il riferimento iniziale al delitto d’onore. La violenza sulle donne, oggi, è un retaggio, difficile da sradicare, di un tempo in cui uccidere una adultera era un reato che meritava attenuanti. Oggi, augurarsi di non avere un figlio gay o paragonarlo a un figlio che tifa per la squadra avversaria (e spacciare tutto questo per mancanza di ipocrisia) è grave. Se poi a dirlo è niente di meno che il presidente del Senato, va da sé che chiunque si sentirà legittimato a farlo. Se va bene per la seconda carica dello Stato...
Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.
La notizia non è che Berlusconi ha collezionato cinque milioni di «mi piace» sul social dei ragazzini: tutto si può dire di quel satanasso, tranne che non sappia comunicare. La notizia è che, nel commentare il suo exploit su TikTok, Berlusconi ha detto una bugia… Oddio, a rigor di logica non è una notizia neanche che Berlusconi racconti le bugie, ma questa è troppo grossa persino per lui. Soprattutto per lui: ha infatti affermato che quei cinque milioni di «mi piace» lo gratificano solo se si trasformeranno in altrettanti voti alle prossime elezioni. Ora, può darsi che a 86 anni Berlusconi stia finalmente venendo a patti con il suo ego, ma ci riesce difficile credere a una versione così distaccata di sé stesso. Perché se c’è un essere umano che è sempre stato ossessionato dal desiderio di piacere, quello è Berlusconi. Enzo Biagi diceva che se avesse avuto le tette avrebbe fatto anche l’annunciatrice, ma la fonte più autorevole sul suo narcisismo resta il Cavaliere medesimo. Anni fa, alla domanda su quale fosse stato il momento pubblico più intenso della sua vita, rispose: «Quella volta che, all’uscita dallo stadio dopo una vittoria, un tifoso milanista si avvicinò al finestrino della mia auto e mi urlò: Silvio, sei una bella f…» Considerato il tipo, l’aneddoto potrebbe essere inventato, ma la dice lunga sulla sua autentica vocazione: collezionista seriale di «mi piace». Lui era già su TikTok molto prima che TikTok ci fosse. E non mi stupirei se gli sopravvivesse.
Antonio Giangrande: I giornalisti di sinistra: voce della verità? L’Espresso e l’ossessione per Silvio Berlusconi.
«Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”.
Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.
1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.
1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.
Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.
5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….
17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!
21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.
7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?
4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.
11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.
29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.
26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?
18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.
14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!
9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.
10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.
17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.
25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.
2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.
5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…
24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.
18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.
3 maggio 1996. THE END.
10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.
3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.
22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.
16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.
24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.
19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.
7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.
15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.
11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.
29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.
13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.
24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.
3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.
7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.
21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.
2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.
6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.
9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.
29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.
24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.
15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.
25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.
3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….
19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.
19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.
14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.
11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.
17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.
25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.
9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.
16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.
23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.
30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?
12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.
3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.
10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.
1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.
8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.
15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.
19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.
16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.
21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.
4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.
18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.
31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.
13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.
27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.
8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.
15 luglio 2010. SENZA PAROLE.
11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.
18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.
16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.
22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.
27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.
10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.
26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.
21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.
7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.
21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.
25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.
15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.
29 settembre 2011. SERIE B.
13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.
17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.
19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.
5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.
14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.
19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.
29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..
Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 3 Febbraio 2023.
Carissimo Merlo, come mai Silvio Berlusconi con la sua grande fama di grande comunicatore, non ha mai cercato di presentare il festival di Sanremo?
Sarebbe stato il suo più grande successo. Peccato. Sarà per la prossima volta?
Oliviero Toscani — Casale marittimo (Pi)
Risposta di Francesco Merlo:
“Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice” è la famosa battuta di Enzo Biagi. Ma, carissimo Toscani, la sua domanda contiene già la riposta: Berlusconi è Sanremo.
È vero che non l’ha mai presentato, ma ha imposto il suo modello al vecchio festival di Modugno: sono berlusconiani il sorriso sempre, con i denti finti e “il sole in tasca”, la santificazione dell’audience e del falso come estetica e come etica, lo scandalo scintillante e prefabbricato, le scenografia da “ò zappatore”, i notturni-stellari da maiolica di cucina e da “cena elegante”, la nostalgia canaglia, la retorica del pianto per i morti, il balletto, le barzellette e le battute volgari, il sexy senza erotismo, il pianoforte strimpellato e le canzoni modulate sull’afflizione del cuore.
E tutti a Sanremo sono trattati da “grandissimi”, “fantastici”, tutti “che onore!”. Mancano quattro giorni e l’Italia è pronta a farsi ancora una volta rapire dal più berlusconiano dei baracconi. Berlusconi sta a poco a poco perdendo tutto, ma è stato l’autobiografia della nazione, per dirla con Gobetti. Non un accidente della storia, ma un’involuzione della specie italiana. E anche noi, che siamo stati contro, ce lo sentiamo addosso.
Sanremo è molto più berlusconiano del Monza.
Estratto da “Una storia italiana”, di Gianni Barbacetto (ed. Chiarelettere), pubblicato da “il Fatto quotidiano” il 26 gennaio 2023.
Silvio Berlusconi torna periodicamente sulla scena pubblica italiana, dopo cicliche fasi di oblio, a riproporsi come salvatore della patria. E ogni volta il suo passato è dimenticato, la memoria sulle puntate precedenti azzerata.
Di lui è stato detto e scritto così tanto che il rumore di fondo copre ogni cosa, lasciando risaltare soltanto la cronaca del momento e la sua propaganda. Del resto, su Berlusconi crediamo di sapere già tutto. Abbiamo visto tutto, letto tutto. Ma è proprio vero?
Sappiamo che è un uomo geniale, che ha creato un impero finanziario e ha accumulato un’immensa ricchezza, ha inventato la tv commerciale in Italia, ha costruito in pochi mesi un partito che ha subito vinto le elezioni. Ha fatto l’immobiliarista, il tycoon televisivo, il politico di governo e d’opposizione.
Certo, lo abbiamo sentito mille volte in tv, in Rete, perfino su TikTok, lo abbiamo visto parlare, sorridere, raccontare barzellette, cantare canzoni francesi, difendere i Puffi oscurati dai pretori d’assalto, annunciare un nuovo miracolo italiano, promettere un milione di posti di lavoro, firmare in uno studio televisivo un contratto con gli italiani, esultare per un trionfo elettorale, minimizzare una sconfitta, insultare i magistrati da cui deve essere giudicato, fare le corna nelle foto ufficiali, promulgare l’editto bulgaro per cacciare dalla tv pubblica Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, far aspettare una spazientita Angela Merkel a un vertice internazionale, mimare un’esecuzione con il mitra a una giornalista russa che fa una domanda sgradita a Vladimir Putin, candidarsi presidente della Repubblica, uscire barcollante e spaesato dalla cabina dove si votava il presidente del Senato.
La sua è una vita tutta vissuta in pubblico, amplificata dai giornali, rifratta infinite volte dal prisma magico della tv e dei media. Sulla scena internazionale, lo abbiamo visto sbeffeggiato da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy e trattato con sufficienza da Barack Obama e perfino dalla regina Elisabetta (ma sempre accolto con amicizia da Putin). In casa, perfino le sue vicende più private, intime e scabrose sono diventate di consumo pubblico, titolo di giornale, album fotografico, notizia che fa il giro del mondo.
Il divorzio con Veronica Lario, le “vergini che si offrono al drago”, le feste in Sardegna, le cene eleganti di Arcore, le notti del bunga-bunga, i processi in cui hanno sfilato decine di escort, il non-matrimonio di Villa Gernetto. Sappiamo tutto. Abbiamo visto tutto. Ma non ricordiamo quasi nulla. E non ci stupiamo più di niente.
Ma poi, davvero sappiamo tutto? In verità, dietro la storia gloriosa e di successo di uno degli uomini più ricchi d’Italia, di un personaggio potente, del nostro connazionale forse più noto al mondo, di un politico amato e odiato come mai altri prima di lui (a eccezione di Benito Mussolini), c’è un’inesauribile teoria di buchi neri, di questioni controverse, di domande poste mille volte ma spesso lasciate senza risposta.
Da dove vengono i suoi primi milioni? Che rapporti ha instaurato con gli uomini di Cosa nostra? Perché è “sceso in campo”? Com’è nata Forza Italia? Come ha fatto cadere nel 2008 il governo Prodi? Quante leggi ad personam ha fatto varare dal Parlamento quando era presidente del Consiglio? Come ha fatto a uscire (quasi) indenne da decine di processi? Come ha venduto il Milan? Davvero quelle di Arcore erano “cene eleganti”?
Molte domande, troppe risposte, ma anche tanti silenzi e innumerevoli bugie.
Su Berlusconi sono state scritte molte decine di libri. Eppure questo mancava. Racconta una storia italiana. Così si intitolava l’opuscolo illustrato che celebrava la sua vita e che è stato distribuito in milioni di copie a tutte le famiglie d’Italia prima delle elezioni del 2001. La sua avventura – umana, imprenditoriale, politica – è davvero una storia italiana. Silvio è un personaggio che è entrato anche nella storia del nostro costume e l’ha modificato e forgiato a sua immagine e somiglianza.
In lui tutto è amplificato, moltiplicato, esagerato, fatto in grande. I successi e i fallimenti, i vizi e le virtù, gli slanci e gli inciampi. Perfino nel Covid vuole avere il primato: “Pensate che al San Raffaele hanno fatto non so quante migliaia di esami e io sono uscito fra i primi cinque come forza del virus”. Un po’ bauscia, come dicono a Milano, e un incorreggibile bugiardo. Indro Montanelli, che l’ha conosciuto bene, ha scritto: “È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. È questo che lo rende così pericoloso. Non ha alcun pudore. Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice. Ha l’allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne. Chiagne e fotte dicono a Napoli dei tipi come lui”.
Giuliano Ferrara, che ne ha cantato a lungo le virtù, gli accredita una “immensa immodestia”, una “vanità gigantesca”, un “ego da manicomio”. Arci-italiano con i suoi meriti e con i suoi vizi. Pienamente dentro la storia di questo Paese nei suoi tratti visibili e in quelli sotterranei e invisibili, se è vero che è riuscito a sfiorare – lo dicono i fatti – i tre sistemi illegali che innervano da decenni la storia italiana: il sistema della corruzione politico-imprenditoriale che fu chiamato Tangentopoli (lo dimostrano inchieste e sentenze); il sistema dell’eversione (lo conferma la sua tessera della loggia massonica segreta P2); il sistema mafioso (lo provano i suoi contatti con Cosa Nostra, mediati dal braccio destro Marcello Dell’Utri).
È necessario far tacere il rumore di fondo e tornare ad allineare i fatti, noti o dimenticati, sottovalutati o sconosciuti. Qui raccontiamo, per esempio, la storia della tangente nascosta, quella che – se fosse stata scoperta nel 1993 da Mani pulite – avrebbe cambiato il destino di Berlusconi e del nostro Paese.
Ma, prima ancora, Berlusconi è la storia della televisione, dunque del sentire del Paese, è Drive In e i quiz, Beautiful e I Puffi. È un uomo che ha fatto innamorare di sé una parte dell’Italia. L’ha conquistata dicendo che “bisogna avere il sole in tasca e saperlo donare col sorriso”.
Ha mostrato il suo successo e la sua ricchezza come promessa di successo e di ricchezza per tutti. Ha esibito il suo corpo come mai nessun politico prima. Come un grande giocatore di poker, ha rischiato molto e ha vinto moltissimo, negli affari e in politica.
Talune volte ha perso e quando è scoccata l’ora del lento declino, inesorabile per tutti non foss’altro che per ragioni biologiche, ha sempre tentato il rilancio, candidandosi al Quirinale, o al ruolo di padre nobile. Non ha allevato eredi politici, ma è riuscito a restare leader, a mantenere un suo posto nella politica, cercando di assicurarsi un posto nella storia.
Ad aiutarlo, a ogni ansa difficile della sua avventura, sono spesso gli alleati più inaspettati, spesso proprio coloro che ritengono di essere i suoi avversari, disposti ogni volta a credergli, ad accoglierlo comunque dentro commissioni bicamerali per riscrivere la Costituzione, pasticciate alleanze politiche, governissimi di larghe e larghissime intese, in un’Italia sopraffatta dal rumore di fondo e dalla scarsa memoria, che si scopre essere diventata più berlusconiana di quanto non creda.
Estratto dell’articolo di Paolo Bracalini per “il Giornale” il 14 gennaio 2023.
Con il tempo e l'età i rancori personali passano e in certi casi si finisce persino per apprezzare i vecchi nemici. Anche una di quelle rivalità che hanno segnato una stagione televisiva (e non solo), la saga Santoro contro Berlusconi, a distanza di anni cambia di prospettiva. […] il Caimano […] oggi appare però al conduttore sotto una luce molto diversa: «Berlusconi è invecchiato, ma continua ad avere una statura diversa rispetto ai politici di oggi. Comunque è un personaggio che ha segnato la storia del nostro paese» racconta Santoro intervistato da Massimo Giletti su Rtl 102.5.
[…] È […] sulla guerra che il vecchio nemico appare come un saggio: «Berlusconi ha un senso pratico molto sviluppato, per esempio, sente i movimenti della guerra più di quanto lo facciano i suoi partner che sono più impegnati a evitare incidenti sul piano internazionale perché poi non saprebbero gestirli.
Secondo me, Berlusconi è veramente preoccupato per la guerra, non è una tattica che sta portando avanti. Purtroppo, non ha più la forza e un partito che possa tradurre queste sue sensazioni in qualcosa di valido, per cui anche lui diventa un portavoce minore che si aggira sulla scena italiana, per una questione anche di età. Diverso sarebbe stato il suo ruolo se avesse avuto la forza di chiamarsi fuori. A Berlusconi puoi chiedere tutto, ma non di non giocare».
Ma anche sulla Meloni il giudizio non è negativo […]: «[…] apprezzo le sue qualità di tenacia e grinta, ma sembra che sia uscita dal suo cartellone pubblicitario gigantesco e ora gli Italiani la vedono per quella che è: un po' impotente rispetto a ciò che sta accadendo nel mondo e allineata agli americani. Una che fino ad oggi ci parlava di sovranismo, ma ora non facciamo altro che seguire l'indicazione del gigante americano che si erge a gendarme del mondo». […]
[…] la riabilitazione senile del Cavaliere non è una novità, anche altri ex grandi avversari di Berlusconi hanno finito con esprimere valutazioni impreviste. È successo a Carlo De Benedetti che tempo fa confessò di preferire la prospettiva di Berlusconi al governo piuttosto che Salvini e Meloni, o Conte «il vuoto pneumatico». Anche il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari sorprese tutti quando, alla domanda su chi preferisse tra Berlusconi e Di Maio, rispose senza dubbi il primo. Anche Romano Prodi recentemente ha elogiato «il suo cambiamento dal punto di vista della collocazione europea». Una riabilitazione collettiva, a sinistra, a cui mancava giusto Santoro.
Marco Leardi per ilgiornale.it il 10 gennaio 2023.
Una "spolverata" epica. Un colpo di teatro destinato a entrare nella storia della tv. A dieci anni di distanza, il match televisivo tra Silvio Berlusconi e Marco Travaglio (vinto dal leader di Forza Italia) è ancora una delle pietre miliari della tele-politica.
Era il 10 gennaio 2013 quando l'ex premier affrontò il giornalista torinese su La7, nel programma allora condotto da Michele Santoro, e con una mossa geniale delle sue lo mise ko. Nell'anniversario di quella prodezza - che segnò un record assoluto di ascolti - il Cavaliere ha ricordato l'episodio cult sui social, strappando più di un sorriso anche ai più giovani utenti della rete.
Berlusconi-Travaglio, l'epico match tv
Su TikTok, la piattaforma sulla quale era sbarcato lo scorso settembre, Berlusconi ha "rispolverato" (è proprio il caso di dirlo) il filmato del proprio faccia a faccia con Travaglio, all'epoca avvenuto sotto gli occhi di uno spiazzatissimo Santoro. Nel corso dell'attesa ospitata televisiva - pensata per essere un trappolone al Cavaliere - l'ex premier era riuscito a ribaltare la situazione con un colpo di genio: a un tratto, infatti, era salito in cattedra al posto di Marco Travaglio e aveva mazzuolato quest'ultimo utilizzando i suoi stessi espedienti dialettici. Poi il vero colpo di grazia. Prima di prendere posto dove nel frattempo era accomodato il giornalista, Berlusconi aveva letteralmente spolverato la sua sedia. Prima agitando vigorosamente dei fogli, poi passandoci sopra un fazzoletto. Ko tecnico, fine del match.
Il messaggio del Cavaliere e le reazioni
Travaglio non sapeva come reagire, Santoro rimase di stucco. "Non sapete nemmeno scherzare...", chiosò il leader di Forza Italia con un sorriso sornione, sistemandosi la cravatta come se nulla fosse. Berlusconi ha celebrato il decennale di quell'episodio. "10 anni fa, chi se lo ricorda?", ha scritto. Ancora oggi le reazioni sono state le stesse. "Unico e inimitabile", ha commentato un utente su TikTok. E un altro: "Silvio sei il numero uno". "L'aveva distrutto, presidente lei è sempre il migliore", ha scritto uno dei follower, mentre un altro non ha definito l'episodio "uno dei momenti più iconici della tv italiana".
Il record assoluto di ascolti
E in effetti, grazie alla scoppiettante presenza del Cavaliere, il match sbancò negli ascolti. Quella puntata di Servizio Pubblico stabilì un record storico d'ascolto con 8.670.000 telespettatori e il 33,59% di share: il più alto mai realizzato da un programma di La7 e tutt'ora imbattuto.
Dieci anni fa la sedia di Travaglio spolverata. Così il Cavaliere rivoluzionò le ospitate in Tv. Il leader azzurro ricorda la storica serata da Santoro tra i plausi dei follower. Stefano Zurlo su Il Giornale l’11 Gennaio 2023
Silvio è seduto al tavolo e lancia perfidi sorrisi. Michele Santoro, in piedi, lo guarda furente. Applausi. Fischi. Scintille e ancora scintille. Il Cavaliere: «Pensavo fosse il peggio, invece è ancora peggio del peggio». Il conduttore: «È una cosa vergognosa. Si vergogni», ripetuto e calcato non si sa quante volte. Silvio: «Lei invece dovrebbe alzarsi e andarsene». A sorpresa, si alza lui e va incontro all'avversario allungando la mano. L'altro si scansa e non la stringe.
È solo un'immagine, non la più celebre perché il meglio deve ancora arrivare, di un frammento televisivo che è diventato di culto.
La 7, Servizio Pubblico, 10 gennaio 2013, esattamente dieci anni fa. Silvio Berlusconi nella tana di Michele Santoro e Marco Travaglio. Una puntata leggendaria, comunque la si rigiri da una parte e dall'altra, e che si rivede con corredo di sorrisetti, ammiccamenti e l'inevitabile spruzzata di nostalgia, compagna fedele quando qualcosa affiora dalle sabbie mobili del tempo.
Qui è una stagione intera della nostra vita recente: il berlusconismo e l'antiberlusconismo che cercava di mordere ai polpacci il nemico, e non si è mai saputo se il primo sì alimentasse anche degli eccessi del secondo, a sua volta alla ricerca spasmodica del Grande inganno del fondatore di Forza Italia e del centrodestra.
Quante trasmissioni, quanti libri, quanti misteri presunti e mai svelati, anche se sempre sul punto di essere interpretati, e che alluvione di verbali mischiati ad avvisi di garanzia. Un ventennio passato così, il manipulitismo e il girotondismo a contrastare l'avanzata partita da Arcore e scandita da processi e accuse di ogni tipo.
Quanti duelli, ma quello in particolare buca lo schermo e segna la storia di La7 con un ineguagliabile 33,59 per cento di share e 8 milioni e 670 mila ascoltatori.
«Lui è un diffamatore di professione», incalza Berlusconi, indicando Marco Travaglio che è seduto, muto e immobile, forse leggermente spaesato per quel canovaccio improvvisato fuori da ogni canone, come nemmeno a teatro. «Ha dieci condanne».
«E Sallusti allora chi è - ringhia Santoro - Jack lo squartatore?»
Berlusconi raggiunge Travaglio che si alza e si sposta, mormorando: «Però le rispondo io adesso». Il Cavaliere lo ignora, come non esistesse, prende un foglio e con quello spolvera platealmente la sedia appena abbandonata. Poi, non contento, ripete l'operazione con un fazzoletto. È l'apoteosi.
L'attimo che nessuno dimenticherà.
Dieci anni dopo, in un'epoca più sonnacchiosa, è Berlusconi a celebrare e celebrarsi: «10 anni fa, chi se lo ricorda!». Seguono reazioni dei fan, granitici oggi più di allora: « Silvio sei sempre il numero 1». E ancora, entusiasta come il precedente ma meno confidenziale: «L'aveva distrutto», riferito ovviamente a Travaglio. Una frase adorante ma che coglie una certezza, ancora oggi diffusa nel popolo del centrodestra: con quella trovata, con la pulizia della sedia, una scena destinata a entrare nelle case degli italiani, il politico di lungo corso vinse il match. Anche se giocava fuori casa.
Berlusconi e la Chiesa.
L'arrivo di Berlusconi tra Scalfaro e Padre Pio: dialoghi in Paradiso. Luigi Bisignani su Il Tempo il 27 agosto 2023
Caro direttore, «Allegria! Allegria!». Nella pace del Paradiso risuona la voce di Mike Bongiorno ad annunciare, a sorpresa, l’arrivo di Silvio Berlusconi. Visibilmente contrariato è Oscar Luigi Scalfaro che si inginocchia platealmente battendosi il petto e con un filo di voce sussurra: «Non ci sto, non ci sto... come è possibile dopo così poco tempo quando io, timorato di Dio, invece ho aspettato decenni!». Lontani i tempi in cui proprio Scalfaro chiese al neo premier Berlusconi, bombardato sin da subito dalla procura di Milano, di portare Gianni Letta a Palazzo Chigi come sottosegretario. L’eccitazione per il nuovo arrivo richiama l’attenzione anche di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi e di un ancora spaesato Arnaldo Forlani. A zittire l’ex presidente della Repubblica ci pensa rudemente, come faceva quando era in vita, un pezzo da novanta, San Padre Pio.
«Scalfaro, semmai sono io che dico non ci sto, non lei. Le decisioni del Signore non si discutono. Conobbi Silvio piccolo e gli predissi una grande carriera accompagnata dalla raccomandazione, che ha ben seguito, di non dimenticare mai di essere caritatevole e generoso con il prossimo». Berlusconi annuendo commosso ricorda: «Ho conservato gelosamente il quadretto con dedica che ebbi in regalo dal Santo, lo incontrai dopo un grande spavento accompagnato da mia zia Marina». E Cossiga, di rimando: «Ha ragione il mistico, mio caro Oscar, più grave l’accusa di prendere i soldi dai Servizi, rispetto ai ‘servizietti’ di qualche bella ragazzotta, da vivo il Cavaliere ha patito come pochi, anche moralmente. Perseguitato fino alla fine dai tuoi colleghi Pm». Con un sorriso beffardo, il divo Giulio soggiunge: «Non vorrei che gli andassero a perquisire anche il mausoleo che si è fatto costruire ad Arcore. Però attento Francesco, quel linguaggio sulle ragazze adesso non si può più usare».
Al solito ci pensa San Pietro a rimettere le cose a posto, infastidito dalla piega presa dalla conversazione: «Ha portato una croce pesante in Terra ma ora è qui in pace con noi... con qualche prescrizione». «Prescrizione?», chiede incuriosito Amintore Fanfani sollevandosi dal triciclo per farsi vedere. «Sì», puntualizza San Pietro, «Per un bel po’ potrà camminare sulle strade eterne solo se accompagnato dalla sua cara mamma Rosa e assistito spiritualmente da Santa Madre Teresa di Calcutta. E poi c’è un’altra prescrizione...».
«Quale?» esclamano in coro gli astanti. «Vietata al neo assunto in Cielo qualsiasi barzelletta sul suo arrivo qui. Quelle raccontate da vivo, del suo incontro con nostro Signore, non sono mai state gradite».
Sorridente e beato per essersi ricongiunto a mamma Rosa, Berlusconi- che stava andando ad abbracciare i suoi due grandi amici Craxi e Forlani - rimane spiazzato per l’inaspettato rimbrotto che gli arriva da Ciriaco De Mita, il quale non gli risparmia una vecchia storia ai tempi della guerra delle televisioni: «Mi avevi promesso di vendere Rete4 a Odeon Tv di Callisto Tanzi e non l’hai mai fatto. Mi dicevi che eri perla libertà dell’informazione ma sulla legge Mammì ci mandasti sotto...». «Mi consenta» replica piccato il Cav.
«Lei invece ha preferito sempre Scalfari al mio primo Montanelli e addirittura Beppe Grillo a me!». L’argomento «televisioni» rinvigorisce immediatamente Fanfani, accompagnato dal suo fedele scudiero Ettore Bernabei. «Maremma maiala e allora cosa dovrei dire io! Ricordo ancora quando appena fatto cavaliere del lavoro a casa di Gian Paolo Cresci, proprio lei Silvio è venuto a dirci che avrebbe fatto concorrenza alla Rai e noi la prendemmo come un pazzo. Che errore è stato sottovalutarla». «Io non l’ho mai sottovalutato», interviene Biagione Agnes, storico Dg della Rai, «Ho sempre cercato l’accordo con Mediaset, pur nella differenza dei ruoli». «È vero», conferma il Cavaliere, «E sono stato felice quando Letta, mio angelo custode in terra, mi propose la tua brava e bella figliola Simona come consigliere Rai. Che battaglia e che arrabbiatura per Meloni che, anche solo per un breve giro, vide fuori il bel Gianpaolo Rossi, che si considera il nuovo McLuhan della destra...». Interviene Craxi, imponente nella sua sahariana color sabbia: «Caro Silvio, come hai potuto constatare il teatrino della politica è stato più difficile di quello della televisione».
«Anche a me», aggiunge Andreotti, «infastidiva che tu continuassi a parlare dei politici come dei poco di buono, proprio tu che a Palazzo Chigi sei stato più a lungo di tutti noi». E a questo punto torna in pista Cossiga, in collegamento perenne con le news, riportando la notizia del jet russo precipitato con a bordo Prigozhin, il capo della brigata Wagner: «Lo sanno pure i ‘criatureddi’ che se tenti un golpe in Russia, poi aerei non ne devi più prendere». E Andreotti: «Questa volta posso dire che se l’è andata a cercare... ma aspettiamo, prima di crederci, di vedere le sue spoglie arrivare qui sotto all’inferno». Cossiga: «Ci fossi stato ancora tu Giulio, con Silvio e Wojtyla avresti raggiunto la pace in Ucraina, altro che i pellegrinaggi del Cardinal Zuppi».
Andreotti, ironico: «Il caro Zuppi è più da Trastevere che da Cremlino... che vuoi che ti dica, ora c’è Meloni che si sente un mix tra De Gasperi e Adenauer. Solo che De Gasperi non disse mai: decido io». Il Picconatore, con l’aria di chi la sa lunga: «È troppo presa dai giochi di Palazzo e i giochetti con l’intelligence. Il Papeete di Salvini - quando chiese pieni poteri- non le ha insegnato nulla». Berlusconi, dall’alto della sua esperienza, non può che lanciare il suo monito: «Meloni stia attenta a certi giudici, che sono sempre in agguato e ascolti di più Nordio e meno Delmastro... So che ne parla, via Letta, con mia figlia Marina, che potrà rammentarle cosa ci hanno fatto». «Avresti dovuto ripristinare l’immunità parlamentare come ti avevo suggerito» tuona Cossiga. «Sul governo, la considerazione più furba l’ha fatta in questi giorni il mio vecchio e grosso amico Fabrizio Palenzona nel preconizzare che, tra reddito di cittadinanza e extragettito, la premier rischia di restar schiacciata dalla demagogia». Craxi sta per intervenire ma San Pietro, battendo la ferula, sentenzia: «Basta fratelli! Silvio, lei qui è ancora in prova, non porti la rivoluzione anche quassù. Voialtri tornate a pregare». Raccogliendo l’invito e contagiati da Mike Bongiorno che aveva già chiamato il «fiato alle trombe», tutti si mettono a cantare all’unisono la strofa de «L’Italiano» di Toto Cutugno «Buongiorno Italia, buongiorno Maria, con gli occhi pieni di malinconia buongiorno Dio, lo sai che ci sono anch’io».
Berlusconi e quell'intesa con Wojtyla e Ratzinger. Dalla discesa in campo fino alle ultime fasi, i rapporti tra il Cavaliere e le gerarchie ecclesiastiche sono stati profondi e particolari, ma sono anche stati diversi nel corso del suo impegno politico. Nico Spuntoni il 18 Giugno 2023 su Il Giornale.
L'omelia di monsignor Mario Delpini alle esequie di Silvio Berlusconi ad alcuni è piaciuta molto, ad altri per niente. Ma non c'è stata una linea di demarcazione netta tra le reazioni: critiche ed elogi ci sono state - per motivi diversi e persino opposti - sia nel campo antiberlusconiano che in quello di chi amava e stimava il Cavaliere. L'accoglienza contrastante alle parole pronunciate dall'arcivescovo di Milano è per certi versi il naturale corollario del rapporto tra la Chiesa e Berlusconi nel trentennio che lo ha visto protagonista della vita pubblica del Paese cattolico per antonomasia.
L'intesa con Ruini
Quando Berlusconi scese in campo nel 1994, la Cei era saldamente guidata dal cardinale Camillo Ruini, l'uomo che Giovanni Paolo II volle come suo luogotenente in Italia già dal 1986 (prima come segretario e poi come presidente) dopo averne apprezzato le tesi su una nuova presenza pubblica dei cattolici sostenuta nel convegno ecclesiale di Loreto del 1985.
Poche ore dopo la morte dell'ex premier, il cardinale emiliano ha ammesso l'intesa che si stabilì con lui nel corso dei tre mandati alla guida dei vescovi italiani. Ruini lo ha ricordato come un suo amico, riconoscendogli soprattutto il merito di aver "impedito al partito ex comunista di andare al potere nel 1994". Nella politica dei gesti che contraddistingueva l'uomo politico milanese c'è un episodio che fotografa simbolicamente l'asse instauratosi con Ruini: in visita a Palazzo Chigi nell'ottobre del 2003, non solo al presidente della Cei venne consentito l'accesso dall'ingresso di piazza Colonna riservato tradizionalmente solo ai capi di Stato e ai primi ministri, ma Berlusconi all'uscita lo accompagnò nel cortile e gli chiuse persino la portiera della macchina.
La particolare attenzione riservata dagli esecutivi guidati dal Cavaliere alle richieste e delle sensibilità della Chiesa italiana è stata recentemente ricostruita da Mauro Mazza nel suo volume Lo stivale e il cupolone e riguardò soprattutto scuola, famiglia e bioetica. Quando politici e media di sinistra attaccarono Ruini per i suoi interventi nel dibattito publico e lo accusarono di ingerenza, Berlusconi da presidente del Consiglio non esitò a difenderlo pubblicamente. L'intesa tra i due fu tale che l'allora premier nel 2005 fu vicinissimo a rompere il silenzio sul referendum sulla procreazione assistita e schierarsi a favore dell'astensione su richiesta dello stesso Ruini.
Il leader di Forza Italia divenne l'interlocutore naturale del capo dei vescovi italiani dopo la fine dell'unità politica dei cattolici ed in particolare dopo aver visto che la nuova creatura del Cav era riuscita ad attirare la maggioranza dell'elettorato Dc. Ma al di là delle motivazioni politiche, l'intesa tra i due sfociò in un'amicizia confermata anche dalla visita di Berlusconi alla residenza di Ruini poco dopo l'aggressione subita in piazza Duomo a fine 2009.
La stima per Giovanni Paolo II
Per l'uomo che amava ricordare il suo anticomunismo era impossibile non stimare il Papa polacco che contribuì alla fine dei regimi comunisti nell'Europa orientale. Nel 2002, Berlusconi così lo descrisse nella trasmissione Excalibur:
"Giovanni Paolo II è il Papa che con la sua predicazione sulla libertà e sulla dignità dell'uomo ha contribuito al crollo del comunismo sovietico ed ha aperto il cammino verso la riunificazione dell'Europa. Abbiamo guardato a lui non solo come al successore di Pietro, come al capo della Chiesa cattolica, ma anche come al campione della democrazia, il campione che da sempre si batte per la libertà e la verità, quei sentimenti nobili, coraggiosi che debbono sempre muovere i cuori e le coscienze di ognuno di noi".
Parlando dei suoi incontri con Karol Wojtyla, Berlusconi più volte confessò la sua sensazione di essere al cospetto di "una persona dotata di qualcosa di non comune''. La prima udienza fu in qualità di presidente del Milan, accompagnando la squadra rossonera in Vaticano e raccogliendo la confessione del Papa polacco di voler viaggiare il più possibile per potere "attraversare la soglia di ogni casa".
Con la discesa in campo, le occasioni per incontrarsi divennero più frequenti: Berlusconi raccontò che Wojtyla era costantemente informato sulla situazione della politica italiana. Il primo atto ufficiale da presidente del Consiglio nel 1994 fu la visita al Policlinico Gemelli per fare gli auguri di pronta guarigione al pontefice polacco che vi era ricoverato per la frattura del femore. Poi toccò al Cavaliere accoglierlo da premier nella storica prima visita di un Papa nel Parlamento italiano, a Montecitorio, il 14 novembre 2002. Nel dicembre 2004 portò con sé in Vaticano sua madre Rosa e la presentò al Pontefice già malato.
Nonostante il buon rapporto personale, non sempre tra Berlusconi e Giovanni Paolo II ci fu identità di vedute: si trovarono, ad esempio, su fronti opposti relativamente alla guerra in Iraq che Wojtyla cercò in tutti i modi di impedire. Ma in politica estera, Wojtyla fu riconoscente a Berlusconi per l'aiuto a mediare con la Russia con l'obiettivo di organizzare un viaggio papale a Mosca che poi non si realizzò per l'opposizione del Patriarcato ortodosso. Il Cavaliere presenziò da presidente del Consiglio in piazza San Pietro sia nel 2005 ai funerali del Papa polacco che nel 2011 per la sua beatificazione nella cerimonia presieduta da Benedetto XVI.
Il bavarese ed il milanese
La prima stretta di mano tra Silvio Berlusconi e Joseph Ratzinger avvenne al termine della messa per l'inizio del ministero petrino il 24 aprile del 2005. Nelle ore della fumata bianca della Sistina che annunciò l'elezione di quello che i suoi nemici chiamavano il panzerkardinal una fumata nera avvolse il governo uscito vincitore dalle elezioni del 2001.
Costretto a dimettersi dopo la crisi della maggioranza scoppiata a seguita del risultato del centrodestra alle regionali, Berlusconi formò il suo terzo governo proprio a ridosso della messa di inizio pontificato di Ratzinger. La prima udienza ufficiale ebbe luogo il 19 novembre del 2005 e già in quell'occasione Benedetto XVI dimostrò una particolare premura per il suo interlocutore, regalandogli un rosario con la preghiera di donarlo alla madre Rosa, molto devota.
Tornato a Palazzo Chigi nel 2008, Berlusconi ottenne un secondo colloquio durato 40 minuti e durante il quale il Pontefice tedesco volle ricordare l'amata madre dell'allora premier da poco scomparsa e che lui stesso aveva conosciuto in un'udienza privata nel 2007. "Sua mamma so che è morta. Adesso dal cielo l'aiuterà", disse Ratzinger prima di affrontare i temi caldi dell'agenda tra Santa Sede e governo italiano. Da leader dell'opposizione nel 2007, il Cav si indignò quando le proteste per la sua presenza portarono alla cancellazione della visita del Papa alla Sapienza: "È una ferita che umilia l'università e l'Italia", scrisse in una nota.
Come ha ricordato di recente alla Nuova Bussola Quotidiana il deputato di Forza Italia e storico collaboratore del presidente Andrea Orsini tra i due uomini si era "stabilita una naturale simpatia reciproca". L'avvento del quarto governo Berlusconi, dopo le tensioni con il governo Prodi per il no ai Dico, segnò anche una ritrovata sintonia nei rapporti tra Palazzo Chigi con punti in comune su temi come l'istruzione e la sanità privata, il sostegno ai cristiani in Medioriente, il quoziente familiare, il no all'eutanasia e alle adozioni per le coppie omosessuali. La crisi del 2011 e la fine dell'era Ruini alla Cei provocarono un cambiamento nei rapporti tra il centrodestra a trazione berlusconiana e la Chiesa italiana, con riflessi anche Oltretevere. Questo non intaccò la stima personale ribadita in occasione della morte di Benedetto XVI in un post sui social in cui il Cavaliere lo definì testimone di "profonda spiritualità, di raffinata cultura, di serenità nella sofferenza".
Gli ultimi anni
Nonostante avessero in comune l'anno di nascita, il 1936, Silvio Berlusconi e Papa Francesco non si sono mai incontrati. In occasione della morte, il Vescovo di Roma - ricoverato in ospedale - ha voluto far inviare un telegramma di cordoglio firmato dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin e indirizzato alla figlia Marina. Jorge Mario Bergoglio ha definito il leader appena scomparso un "protagonista della vita politica italiana, che ha ricoperto pubbliche responsabilità con tempra energica".
In questo ultimo decennio molte cose sono cambiate in Vaticano e di conseguenza anche nella Chiesa italiana. Poco o nulla è rimasto dell'episcopato ridisegnato da Giovanni Paolo II proprio sul solco dell'esperienza convegno ecclesiale di Loreto in cui si fece notare l'emergente Camillo Ruini, volto simbolo della stagione wojtyliana-ratzingeriana.
L'uscita di scena di personaggi come Ruini - e in misura minore del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco - ha significato la fine di quell'interlocuzione privilegiata con il centrodestra di cui Berlusconi è stato protagonista. Che il clima sia cambiato lo dimostra quanto sia diffuso il commento di chi sostiene che monsignor Delpini sia riuscito a svolgere con abilità un compito considerato non facile: per tale si intende evidentemente il dover pronunciare un'omelia di un uomo pubblico come Berlusconi, senza scontentare ammiratori e denigratori forse anche nella Chiesa.
Questa necessità pare aver portato l'arcivescovo di Milano a fare cenno delle sensazioni provocate da uomo politico, uomo d'affari e personaggio noto ma a scordarsi del Berlusconi padre, nonno ed amico. Per evitare le polemiche sembra quasi che Delpini abbia cercato di centellinare le parole e spersonalizzare il più possibile quella che però è un'omelia per un defunto. Il risultato è che l'ambiguità di fondo, a un orecchio attento, non nasconde ma amplifica le due assenze più importanti: il ricordo della dimensione privata e la speranza del Cristo risorto.
Estratto dell'articolo di Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2023.
«Sì, sono stato uno dei suoi amici…». Al telefono la voce del cardinale Camillo Ruini, 92 anni, suona fragile. L'uomo che fu presidente della Cei dal 1991 al 2007, ed è quindi stato un interlocutore importante negli anni d'oro del Cavaliere, non avrebbe molta voglia di parlare ma per Silvio Berlusconi è pronto a fare un'eccezione.
La storia ha fatto di ambedue degli eponimi che hanno segnato la loro epoca: si parla di «ruinismo», nella storia della Chiesa italiana, come di «berlusconismo» in quella politica.
[…]
Lei ha conosciuto bene Berlusconi…
«Sono stato uno dei suoi amici, anche se da diversi anni non ci siamo più visti. E sono molto addolorato per la sua morte».
Come lo ricorda?
«Era una persona di grande intelligenza e generosità. Ha avuto meriti storici per l'Italia, soprattutto avendo impedito al partito ex comunista di andare al potere nel 1994. E anche per l'instaurazione del bipolarismo nel nostro Paese. Inoltre, ha operato molto bene in politica estera…».
Ma umanamente, da amico, cosa le piaceva di lui?
«Era simpatico, molto simpatico, questa è certo la prima impressione che si aveva nell'incontrare Berlusconi. Un uomo che fin dalla prima volta sapeva metterti subito a tuo agio».
Anni fa, parlando al Corriere della Sera, rispetto al comportamento talvolta non irreprensibile con le donne, aveva replicato che pure John Fitzgerald Kennedy, se è per questo, non era stato da quel punto di vista un modello. Ricordi? (Il cardinale Ruini ride appena)
«Non lo ricordavo, però sì, è così. Del resto non ho mai amato dare giudizi pubblici su comportamenti privati di nessuno, specie quando vengono usati nella lotta politica».
Ha detto che celebrerà una messa di suffragio. Spesso lo si è accusato di usare i «valori cattolici» a fini politici. Secondo lei Berlusconi era credente?
«Con me ha sempre detto di esserlo e sì, io penso che lo fosse».
La grande alleanza fra la chiesa e il Cavaliere, sacrificata sull’altare degli scandali. FRANCESCO PELOSO Il Domani il 13 giugno 2023
Silvio Berlusconi e il cardinale Camilo Ruini furono i protagonisti di un’inedita alleanza, un patto di reciproco interesse fondato sullo scambio fra sostegno ai governi di centrodestra da parte dei vescovi e promozione dei principi non negoziabili a livello legislativo.
Il disegno neoconservatore e neocostantiniano, scandito a suon di family day, del cardinal Ruini si scontrò però con due ostacoli insormontabili.
In primo luogo il fatto che lo stesso Berlusconi era stato, attraverso le sue tv e il modello imprenditoriale e politico che promuoveva, la scala di valori di cui era portatore, uno dei fattori di più potente scristianizzazione della società italiana; in secondo luogo, la crisi economica che attanagliò il paese a partire dal 2008 immettendo l’Italia in un processo di declino economico e sociale che perdura ancora oggi, mostrò quanto di velleitario e fragile vi fosse nel progetto ruiniano.
FRANCESCO PELOSO. Giornalista che segue il Vaticano e la Chiesa da oltre vent’anni. Ha scritto per numerose testate fra le quali: Internazionale, Vatican Insider (La Stampa), il Secolo XIX, Il Riformista, Linkiesta, Jesus, Adista. I suoi ultimi libri sono Oltre il clericalismo (Città Nuova 2020), La banca del Papa (Marsilio 2015) e Se Dio resta solo (Lindau 2007).
Berlusconi e la Cultura.
Estratto dell’articolo di Gianni Barbacetto per “il Fatto quotidiano” domenica 3 dicembre 2023.
Non ci sono solo “croste”, nella raccolta di opere d’arte che Silvio Berlusconi ha lasciato ai figli. C’è anche un prezioso orologio Luigi XVI che il fondatore di Forza Italia comprò nel 1995: ma che è risultato rubato in Francia, tanto che il capo delle operazioni dell’ocbc (Office central de lutte contre le trafic des biens culturels) volò a Milano cercando di recuperarlo. Invano.
La storia è raccontata da un autorevole giornalista francese, Vincent Noce, su La Gazette Drouot, uno storico settimanale che si occupa di mercato d’arte. Noce riprende le notizie italiane sui 2.500 quadri comprati da Berlusconi, per lo più alle aste televisive, negli ultimi anni della sua vita. Tra questi, un buon numero di ninfe desnude e perfino una Monna Lisa a seni scoperti.
Citando Vittorio Sgarbi, […] Noce ricorda che oltre alla passione per le “olgettine”, Berlusconi aveva anche quella per l’arte, tanto da riempire le notti insonni […] con acquisti compulsivi di quadri e oggetti d’arte, ora raccolti in un grande capannone non lontano dalla sua villa di Arcore. Spesa stimata: una ventina di milioni, per opere che lo stesso Sgarbi non esita a definire “croste”.
Ma non è tutto qui. Con la morte di Berlusconi, è passato alla famiglia anche un oggetto d’arte che è stato rubato in Francia. È un prezioso orologio astronomico, adornato con le immagini delle figure mitologiche delle tre Parche, realizzato da Robert Robin, l’orologiaio di Luigi XVI. […]
La notte tra il 28 e il 29 maggio 1991, ladri specializzati penetrarono nel castello di Bouges, nei pressi di Châteauroux, nel centro della Francia, e portarono via l’orologio. Negli anni seguenti, il bottino fece il giro dell’europa del Nord. Si sa che fu portato fuori dalla Francia, varcò il confine del Belgio, fu acquistato da un “grossista” olandese per 50 mila franchi (meno di un decimo del suo valore).
Il trafficante d’arte lo rivendette per 200 mila franchi a un commerciante tedesco di Brema. Questi lo passò, al doppio del prezzo, 400 mila franchi, a un antiquario di Zurigo, proprietario della Galleria Ridding. La Ridding lo rivendette, nel 1995, a Berlusconi, per 700 mila franchi francesi. Fu molto probabilmente Veronica Lario, allora moglie di Silvio, a scegliere il prezioso oggetto. Il fondatore di Forza Italia aveva appena dovuto lasciare Palazzo Chigi, nel dicembre 1994, quando il suo governo era caduto per decisione del leader della Lega Umberto Bossi.
Dopo il furto, si era subito messo in moto Bernard Darties, gran cacciatore di opere rubate dell’ocbc, la struttura della polizia francese che si occupa di beni culturali. […] Darties arriva a Milano e, assistito dai carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio artistico, interroga Berlusconi e gli chiede la restituzione dell’orologio. Ma l’ex presidente del Consiglio gli risponde che avrebbe ridato il prezioso oggetto alla Francia solo se rimborsato del prezzo che in buona fede aveva pagato al gallerista svizzero. Impossibile, gli aveva risposto Darties: il castello di Bouges e tutti i suoi arredi appartengono al Centre des monuments nationaux,
[…] Oggi Vincent Noce prova a lanciare un appello alla famiglia: “Sarebbe un onore per i Berlusconi restituire alla Francia questo orologio, dimostrerebbero che la parola onore ha ancora un significato nella loro famiglia”. L’italia potrebbe chiedere ai francesi qualcosa in cambio, anche se non proprio la Gioconda.
(ANSA giovedì 19 ottobre 2023) - Non è iniziato lo
smantellamento della quadreria di Silvio Berlusconi che "in questo momento non è
oggetto di alcuna specifica riflessione da parte dei cinque fratelli" figli del
cavaliere.
Interpellato dall'ANSA lo precisa un portavoce della famiglia spiegando che "non
è considerata una priorità da affrontare" e smentendo ci sia stato un incendio
nell'hangar di Arcore.
"È una collezione che al di là del valore economico, ne ha sicuramente uno
affettivo. Ciascuno dei fratelli - spiega - sceglierà di tenere per sé alcune
opere. Per la parte restante della collezione, si individuerà, a tempo debito,
la destinazione più opportuna".Emanuele Lauria per "la Repubblica" - Estratti
giovedì 19 ottobre 2023
Un’eredità pesante. La più scomoda, fra quelle
lasciate da Silvio Berlusconi. Così ingombrante e poco redditizia da doversene
liberare. Lo smantellamento della quadreria di Arcore è cominciata. Complici i
tarli, che hanno aggredito numerose opere, diversi pezzi, fra tele e cornici,
sono già stati distrutti.
L’ultimo costoso giocattolo del Cavaliere, il grande hangar con venticinquemila
fra dipinti e statue acquistati in modo compulsivo nelle aste notturne, sarà
dismesso. Le notizie filtrano con il contagocce, in questi giorni. La famiglia
dell’ex premier morto a giugno rimane in silenzio. Il Foglio ha scritto
addirittura di un grande falò, che avrebbe avvolto l’intera pinacoteca. Dagospia
ha ripreso la notizia. Nessuno, fra i congiunti di Berlusconi alle prese con la
suddivisione del lascito del tycoon scomparso, ha smentito.
Certa, tuttavia, è l’intenzione comune di Marina, Piersilvio e degli altri
familiari di sgravarsi di un costo eccessivo, figlio della passione smodata che
negli ultimi anni di vita il Cavaliere ha avuto per l’arte. Con l’ambizione di
diventare il primo collezionista del mondo.
(...) Testimoni raccontano di aver visto del fumo uscire dall’hangar. Ma che il rogo ci sia stato è una circostanza non confermata né smentita dalla famiglia. Di certo, l’ipotesi di valorizzare la pinacoteca attraverso l’istituzione di un tour guidato fra Villa San Martino, il mausoleo nel giardino e la pinacoteca è già tramontata. E Sgarbi commenta: «Io non so se la distruzione di quei quadri è già cominciata. So che, almeno sul piano artistico, non sarebbe un delitto ».Estratto dall’articolo di Michele Masneri per Il Foglio martedì 17 ottobre 2023.
(…) Il maniero di Arcore fu comprato da Berlusconi esattamente cinquant’anni fa, nel 1973, dall’ereditiera Anna Maria Casati Stampa, orfana del padre nel famoso delitto, comprato “a cancelli chiusi” con le quadrerie dentro grazie ai buoni uffici del tutore dell’orfana, Cesare Previti.
Vittorio Sgarbi ha raccontato più volte che le uniche opere d’arte serie possedute da Berlusconi sono quelle che gli ha consigliato lui, oltre a quelle che già stavano nella villa, ma adesso raccontano al Foglio un’altra storia. Che vi sia un enorme capannone, nei dintorni della casa, dove il Cav. aveva stipato i frutti di quella che negli anni era diciamo la sua seconda passione notturna: comprare quadri alle televendite.
Alessandro Orlando, volto notturno di Telemarket, l’ha raccontato, furono migliaia i dipinti che il Cav. ordinava personalmente al telefono a notte fonda, scosso dall’insonnia.
Prima si pensò a uno scherzo, ma poi fatte le verifiche del caso si capì che era lui davvero, e Orlando andava a portargli le primizie direttamente con un camioncino. Insomma, pare che negli anni Berlusconi abbia accumulato venticinquemila quadri di non eccelso valore in questo hangar refrigerato e sorvegliato, suddivisi per tema (vedute di Venezia; nature morte, ecc.). Hangar che di affitto e gestione costa la bellezza di 800 mila euro l’anno, che pesano sugli eredi, che sono in fase di spending review. Poi ci si sono messi pure i tarli, che hanno aggredito le cornici, al ché raccontano che i custodi abbiano proposto alla famiglia di smontare le venticinquemila cornici, bruciarle e sostituirle, ma la famiglia ha detto: no, bruciate tutto. Così qualche giorno fa si è avuto l’immenso rogo dell’arte povera del Cav.
(…)
Verdone, dove sei. La magnifica ossessione di Berlusconi per le televendite e il grande romanzo italiano. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Luglio 2023
La collezione del Cavaliere e il suo curatore Lucas Vianini, che vendeva opere su una tv locale. L’ex premier chiamava e comprava, a nome di Marta Fascina. E poi ci sono i regali, come quella volta che mandò «due belle Venezie» a Giuseppe Conte, firmandole Philip Bustière
Nella scena che tutti ricordano dell’ultima stagione di “Succession”, quella in cui nella cassaforte di Logan appena morto vengono ritrovate delle ultime volontà dalle quali non si capisce se Kendall sia erede designato o diseredato, c’è un dialogo su altri appunti reperiti nella stessa cassaforte.
Fa così: «C’è qualche appunto su cose di tasse e sulle opere d’arte in deposito», «Cos’è che ha?», «C’è una tonnellata di impressionismo da investimento, no? Tipo tre Gauguin che nessuno ha mai visto per ragioni fiscali» «Credo che il suggerimento fosse che dal punto di vista fiscale sarebbe saggio lasciarli nel caveau a Ginevra», «Fanculo, perché invece non li bruciamo per l’assicurazione?» «Sì, da un punto di vista finanziario quello sarebbe l’ideale».
Questo, invece, non è “Succession”: «Si era messo in mente di diventare, semplicemente, il primo collezionista d’arte del mondo. Di inseguire una passione sfrenata, compulsiva, fuori dal senso della misura come quasi tutte le avventure dell’uomo che ha segnato la storia politica e imprenditoriale degli ultimi trent’anni d’Italia».
È l’incipit d’un articolo uscito ieri su Repubblica a proposito di Silvio Berlusconi. Un ricco con, tu pensa, dei quadri in casa. Ma tanti, eh. No uno da mettersi dietro la scrivania per ben figurare durante i collegamenti su Zoom, no. Proprio un accumulo, che poi sarebbe sinonimo di collezione, ma suona più: ma tu guarda ’sto zotico.
Non voglio essere ingiusta: superato l’incipit – dal quale a Repubblica non sembrano consapevoli che non c’è granché di eccezionale nel buttare i soldi in arte, i quadri sono da centinaia d’anni la principale truffa perpetrata ai danni dei ricchi, che si sentono colti e raffinati appendendo delle cose ai muri, e da quando esiste l’arte non figurativa hanno il terrore di sembrare degli incolti che non capiscono il genio e quindi sono disposti a considerare «genio, puntesclamativo» qualunque puttanata concettuale – superato quel tono, l’articolo è pieno di delizie.
In verità bisogna superare anche l’evidenza che a Repubblica usino «autoritratto» per dire che Silvio Berlusconi era in possesso di quadri che ritraevano Silvio Berlusconi, e piangere la morte dell’istruzione obbligatoria che manda nel mondo (e a lavorare nei giornali) gente che ignora che nell’autoritratto coincidono artista e soggetto, ma insomma non cavilliamo.
Protagonista assoluto del reportage e miglior sorpresa d’un fenomeno, il berlusconismo, che sembrava già interamente raccontato, è Lucas Vianini, che anche se su Repubblica ci sono le foto io voglio immaginare non con la sua faccia ma con quella del Corrado Guzzanti di Teleproboscide. Vianini televende quadri su una tv locale. La sera tardi, siamo nel 2018, Berlusconi chiama, e compra, a volte qualcosa e a volte tutto. «“Mi metteva in difficoltà, perché prendeva tutto e mi lasciava con un palinsesto di altre due o tre ore da riempire”, dice Vianini. Una spesa, per il Cavaliere, dai 20mila ai 150mila euro per singola sessione. Prenota non di rado con il nome di Marta Fascina, che è ancora sconosciuta ai più». Sceneggiatori, dove siete.
Quando Berlusconi gli chiede di diventare il curatore della sua collezione, Vianini – che è evidentemente perfetto complemento al non sofisticatissimo gusto brianzolo di Berlusconi, fotografato in una sala da pranzo in cui oltre ai quadri alle pareti sono appesi dei piatti (Guido Gozzano, dove sei) – chiama ad aiutarlo la sorella, una filologa romanza di nome Jessica (Carlo Verdone, dove sei).
Il dettaglio più bello del racconto, però, sono i regali. Quando Berlusconi inizia a regalare quadri e quando ne manda due a Giuseppe Conte, con una lettera che dice «mi consenta di mandarLe due belle Venezie della mia Quadreria che proprio quest’anno compie 50 anni, per augurarle buon lavoro e successo nel movimento 5Stelle che, ne sono sicuro, da questa sua opera di apporti valoriali e comportamentali trarrà la possibilità di rientrare presto nell’arco dei partiti democratici».
E, dietro a quei due quadri, appone una firma che avrebbe fatto invidia a Queneau: lo pseudonimo da falsario scelto da Berlusconi è Philip Bustière. Lo scrive con un accento acuto che ammazza il gioco di parole, perché essendo arcitaliano il mistero del funzionamento degli accenti francesi non era mai riuscito a dirimerlo, ma l’intenzione comica è ottima, a Teleproboscide non avrebbero saputo fare di meglio.
Purtroppo l’inchiesta non contiene un’indagine su quella compulsione moralizzata in apertura. Vittorio Sgarbi dice che Berlusconi spese per quella pletora di quadri, venticinquemila di cui «sei o sette interessanti», tra i quindici e i venti milioni di euro. Era perché qualche decina di Pollock e Rothko non avrebbero fatto lo stesso effetto accumulo e se non nasci ricco preferirai sempre la quantità alla qualità? O perché comprare Teomondo Scrofalo e non Basquiat è la versione berlusconiana del lasciare le donne belle agli uomini senza fantasia?
Certo non perché fosse meno ricco di Charles Saatchi o di Pietro Valsecchi o d’altri uomini d’affari con invidiabili collezioni d’arte. O di Logan Roy. Magari, in qualche caveau, aveva dei Gauguin anche lui. Così ben nascosti che neanche un inviato di Teleproboscide riuscirà a scoprirli. Certo, drammaturgicamente l’ideale sarebbe che anche i Gauguin fossero stati comprati a nome di Marta, che ne è quindi adesso proprietaria senza neppure tasse di successione.
Il collezionista di croste. Report Rai PUNTATA DEL 15/10/2023
di Luca Bertazzoni
Collaborazione di Marzia Amico
Immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda, Cristiano Forti e Marco Ronca
Montaggio di Igor Ceselli
Grafica di Giorgio Vallati
La "quadreria del Presidente” le 25mila opere d’arte acquistate da Berlusconi.
Secondo il sottosegretario Vittorio Sgarbi, negli ultimi anni di vita Silvio Berlusconi avrebbe speso più di 20 milioni di euro in opere d’arte, molte delle quali acquistate telefonando direttamente ai centralini delle televisioni locali durante alcuni programmi di televendite. Le telecamere di Report sono entrate in uno show room di Arzano, piccolo comune a pochi chilometri da Napoli, dove l’ex Presidente del Consiglio avrebbe comprato circa 5mila quadri. Le 25mila opere d’arte acquistate da Berlusconi sono custodite in un hangar di fronte a Villa San Martino, ad Arcore. Report mostrerà in esclusiva le immagini della “quadreria del Presidente”.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le immagini del funerale di Silvio Berlusconi hanno fatto il giro del mondo. E quello che ha colpito di più è stata l’unità della famiglia. Ora i figli dovranno gestire l’impero economico creato dal padre.
LUCA BERTAZZONI Quanto vale il patrimonio di Berlusconi?
MARIO GEREVINI - GIORNALISTA DEL CORRIERE DELLA SERA L’eredità di Berlusconi vale intorno ai 4, 4 miliardi e mezzo e bisogna considerare che nel patrimonio ereditario non c’è il 100% della Fininvest, ma il 61% che era di proprietà di Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Il controllo del gruppo quindi, diciamo, come è stato suddiviso?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Allora, il 53% ce l’hanno i due figli maggiori e il 47 ce l’hanno i tre figli piccoli.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO All’hotel Parco dei Principi di Roma va in scena il primo Consiglio Nazionale di Forza Italia dopo la morte del suo presidente e fondatore Silvio Berlusconi.
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Siamo resilienti, siamo forti e andiamo avanti.
LUCA BERTAZZONI Però è un tema, questi 90 milioni…
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Qual è ‘sto tema?
LUCA BERTAZZONI I 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi.
ALESSANDRA MUSSOLINI - EURODEPUTATA FORZA ITALIA Ma quelli ce li hanno tutti i debiti, ragazzi hanno tolto il finanziamento pubblico ai partiti
LUCA BERTAZZONI Dei 90 milioni di euro che il partito deve a Berlusconi ne avete discusso con la famiglia, c’è il rischio…
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA Ce li stiamo dividendo un po’ per uno.
LUCA BERTAZZONI È a rischio la sopravvivenza del partito, no?
FRANCESCO PAOLO SISTO - SENATORE FORZA ITALIA Arrivederci, buona giornata.
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 La famiglia diventa titolare di questo credito, ma non farà nulla per avere, per riavere questi soldi.
LUCA BERTAZZONI Anche perché se li chiedessero indietro Forza Italia che fine farebbe?
ALFREDO MESSINA - TESORIERE FORZA ITALIA 2016 - 2023 Ma avrebbe difficoltà, certamente, avrebbe difficoltà
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel testamento di Berlusconi non c’è alcun riferimento ai conti di Forza Italia, ma ci sono tre lasciti milionari.
PIERCARLO MATTEA - NOTAIO Uno di 100 milioni a favore sempre del fratello Paolo, un altro sempre di 100 milioni a favore della stessa Marta Fascina e uno di 30 milioni a favore di Marcello Dell’Utri.
LUCA BERTAZZONI Dottor Dell’Utri, buonasera, salve, sono Luca Bertazzoni di Report. Come sta, ci siamo sentiti telefonicamente. Tutto bene?
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Tutto male.
LUCA BERTAZZONI La disturbavo semplicemente perché abbiamo visto, ci stiamo occupando del testamento di Berlusconi, abbiamo visto che nell’eredità lei, diciamo, ha ottenuto 30 milioni di euro e volevo capire se se l’aspettava.
MARCELLO DELL’UTRI - SENATORE FORZA ITALIA 2001 - 2013 Non ho nessuna voglia di parlare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, nessuno ama parlare dell’eredità che ha ottenuto da Silvio Berlusconi. Insomma, un patrimonio complessivo di circa quattro miliardi e mezzo di euro. I figli, poi, avrebbero chiesto di non pagare le tasse di successione sulla quota di 423 milioni di euro, la quota Fininvest che hanno ereditato dal Cavaliere. La legge glielo consente perché dice, appunto, che chi eredita delle quote societarie e si impegna ad avere il controllo per cinque anni, può non pagare l’imposta di successione. Ecco, cosa che avrebbero fatto, firmato i figli in un patto parasociale un mese circa fa. Poi c’è il patrimonio immobiliare di Silvio Berlusconi, calcolato in circa mezzo miliardo di euro. Oltre le famose ville in Italia c’è anche un patrimonio all’estero. Poi c’è un hangar che il Cavaliere ha acquistato di fronte la villa di Arcore, che è un po’ come un vaso di Pandora. Cosa c’è dentro? Ce lo racconta il sottosegretario Vittorio Sgarbi, che ci racconta un Berlusconi inedito, che passava le notti insonni a compare quadri facendo la felicità dei televenditori napoletani con un unico obiettivo: diventare il collezionista più importante della storia del nostro Paese. I nostri Luca Bertazzoni e Marzia Amico.
Il collezionista di croste Di Luca Bertazzoni Collaborazione: Marzia Amico
TELEVENDITA 1 Ha intinto il pennello nella sua tavolozza e l’ha dipinta!
TELEVENDITA 2 Questa è un’opera fondamentale nella storia dell’arte, signori!
TELEVENDITA 3 Questa è Tele Market, abbiamo tanti quadri ad olio di Schifano, lo sto dicendo nel vostro interesse!
TELEVENDITA 4 Uno straordinario capolavoro firmato Turcato, archiviato Giulio Turcato a 14mila euro!
TELEVENDITA 5 È solo il colore che mantiene la sua percezione di forza e di luce…
TELEVENDITA 6 800 euro da scontare ancora del 35%!
TELEVENDITA LUCAS VIANINI A 1000 euro come nell’opera qui in esame, ovviamente è un’occasione unica.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Lui si mette compulsivamente a comprare, con la Fascina probabilmente anche o da solo, dei quadri alle aste e comincia a dire: “Sono Berlusconi” e gli mettono giù il telefono perché pensano che sia uno scherzo.
LUCA BERTAZZONI Eh, però, poi alla fine inizia a comprare.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA E alla fine, cosa spettacolare, prende un grande magazzino poco lontano da Arcore.
LUCA BERTAZZONI Un hangar
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Un hangar, e lì dentro con macchinette per muoversi, riscaldamento eccetera, mette, che so, 300 paesaggi, 400 battaglie, 150 temi storici, 100 madonne.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La quadreria di Silvio Berlusconi non è nient’altro che questo enorme hangar proprio di fronte a Villa San Martino, ad Arcore. Contiene circa 25mila tra quadri e altri oggetti d’arte acquistati alle aste televisive, alcuni direttamente da questo showroom di Arzano, un piccolo comune a pochi chilometri da Napoli. Da qui, Giuseppe De Gregorio va in onda con le sue televendite sul canale 136 del digitale terrestre.
SALVATORE MONTI - TELEVENDITORE NEWARTE – ARZANO (NA) L’artista è Francesco De Michelis, oggi artista 74enne con il quale abbiamo un contatto diretto, ecco perché c’è un assortimento di dipinti, perché quest’azienda rileva la quantità, tutta la produzione completa degli artisti. È un dipinto ad olio, ma questa volta non parliamo né di tavola, non è una pala, parliamo di rame e si sente appunto quando vado a picchiare. Guardate la figura della madonnina e di Gesù bambino, soprattutto il colore della pelle, quel color ceruleo che normalmente viene anche detto “pelle d’angelo”. Una bella piantana lume Tiffany: 500 euro.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Squilla il telefono su un quadro da 150 euro: “Questo dipinto lo prendo io”. Dico: “Ok, mi dà il nome e cognome?”. E lui dice: “Silvio Berlusconi”. Educatamente stacco. Lui ha richiamato subito, stavo quasi per rispondere male. Lui dice: “Vabbè, ho capito: segnati il numero”.
LUCA BERTAZZONI Era il centralino di Arcore?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Dice: “Buonasera, segreteria Arcore. Ma a lei chi ha dato il numero?”. E noi diciamo: “Guardi, ce lo ha dato questo signore”. “È il Presidente Berlusconi”. Non credevo, cioè, fino all’ultimo non ci avrei sperato. Poi quando l’ho visto: “Chi è Giuseppe?”. Ho detto: “Sono io”. “Vieni con me”. E da lì è nato un rapporto di amicizia, correttezza e lealtà.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Quello fra De Gregorio e Berlusconi non è solo un rapporto di amicizia, ma anche di affari, ed è durato tre anni. Sono tantissime le opere d’arte che da questo piccolo show room di Arzano hanno preso l’autostrada per Arcore.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) È tappezzato tutto di foto, di ricordi bellissimi passati con il presidente. Questa qui è la quadreria, quella statua io l’ho regalata al suo compleanno, è una statua alta tre metri, tutta interamente in marmo, un marmo bellissimo statuario bianco. E questa è la scoperta, sì.
LUCA BERTAZZONI L’ha apprezzata molto lui?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì, gli è piaciuta tantissimo.
LUCA BERTAZZONI E poi è enorme.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Enorme, sì.
LUCA BERTAZZONI E quel quadro dietro?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Quel quadro è enorme perché è più grande della statua, quindi, sì
LUCA BERTAZZONI Una doppia gigantografia. Se la statua è tre metri, quello… E questa è la gigantesca quadreria.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì, questa è una parte perché è enorme la quadreria, non è solo questa qua, questa è una piccola parte. Tutto minuziosamente in ordine perché lui amava proprio l’ordine, la perfezione. Quindi doveva essere… Non era una quadreria, in pratica, magari un capannone, può sembrare così, una raccolta, un deposito, ma era una boutique. Tutto messo minimamente, tutto in ordine.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A un certo punto, però, a Napoli si sparge la voce che Berlusconi sta comprando migliaia di quadri nelle televendite.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Che è successo, che quando loro hanno saputo che noi stavamo lavorando con Berlusconi giustamente gli è bruciato un po’.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E così spuntano come funghi tanti improvvisati televenditori.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Le televendite lo sai dove le facevano? In uno sgabuzzino, cioè sotto casa che tu inquadravi e usciva la colonna fecale, cioè, cose assurde.
LUCA BERTAZZONI Piacere.
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Piacere mio, buongiorno. Noi esponiamo iridi degli occhi, è un concetto che nasce a Parigi e poi diamo spazio a giovani artisti che hanno la possibilità di esporre le loro opere.
LUCA BERTAZZONI Valore di queste opere?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Dai 1500 ai 5000 euro.
LUCA BERTAZZONI E qui invece vediamo…
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Ho sempre alcune foto dell’amicizia che mi ha legato per diversi anni col presidente Berlusconi. Lì era un Capodanno a Villa Maria, a Rogoredo, e qui invece è il famoso albero di Natale di Villa San Martino.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Prima di aprire la sua galleria d’arte a Salò, sul lago di Garda, Lucas Vianini appariva sugli schermi del canale Tele Market per vendere quadri. Alla fine del 2018, durante una sua televendita, succede una cosa particolare.
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Il centralinista, rispondendo ad una telefonata, afferma che Silvio Berlusconi in persona aveva chiamato per prenotare delle opere d’arte. Ho portato il quadro ad Arcore e la prima cosa che ho visto è stato Dudù, poi l’altro barboncino Peter e poi Silvio Berlusconi.
LUCA BERTAZZONI Che le ha detto?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA “Che piacere vederti, finalmente ti conosco di persona, fammi vedere i quadri che hai portato”.
LUCA BERTAZZONI Questo è stato un unicum, questa telefonata di quella sera, o poi ha continuato?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA No, il presidente era un assiduo partecipante alle aste televisive. Normalmente i quadri si svelano nell’arco delle quattro ore e lui invece capitava che le prenotasse tutte e che rimanessimo con un palinsesto di due ore da riempire senza più opere.
LUCA BERTAZZONI E come faceva poi il suo lavoro?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Allora in quel caso si prendevano altri quadri dal magazzino, e poteva anche capitare che si ricollegasse telefonicamente dopo un’ora e facesse di nuovo man bassa delle opere presentate.
LUCA BERTAZZONI E quanti quadri può aver comprato, diciamo, dalla sua emittente?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Diverse centinaia di quadri indubbiamente.
LUCA BERTAZZONI Di valore? Dai 20 ai 150mila euro a sessione?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Le cifre del prenotato potevano essere cifre abbastanza monstre, poi lui personalmente vedeva i dipinti, li valutava e li sceglieva.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Lui voleva che io facessi delle perizie che erano impossibili.
LUCA BERTAZZONI Perché impossibili?
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Perché non c’era niente da scrivere nel senso che se uno prende una copia di una veduta di Canaletto, è una copia, che devi scrivere?
FUORI CAMPO BERTAZZONI E visto che Vittorio Sgarbi non ha voluto fare il curatore, il Cavaliere ha chiesto aiuto all’ex televenditore Lucas Vianini.
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Immaginavo il classico appartamentino a Milano 2. E invece lui aveva immaginato per me una dependance all’interno di Villa Gernetto, quindi questa reggia monumentale nel cuore della Brianza.
LUCA BERTAZZONI E quanto ci ha vissuto a Villa Gernetto?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Oltre due anni.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Villa Gernetto è il luogo dove Berlusconi e Marta Fascina hanno celebrato il loro matrimonio simbolico. Durante il suo lungo soggiorno, Lucas Vianini realizza anche dei video per mostrare le opere d’arte presenti nella villa, ma il suo vero lavoro è nell’hangar di Arcore.
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Io inizio a catalogare, fotografare, a prendere le misure delle opere e a distinguere per genere pittorico.
LUCA BERTAZZONI Perché stiamo parlando di un patrimonio di?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA 24/25mila opere.
LUCA BERTAZZONI E che cosa troviamo, diciamo, in questa collezione?
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Ma una collezione è un po’ una confessione di quei leitmotiv della sua esistenza: troviamo pure un Napoleone in trionfo, quindi un momento glorioso della vita di Napoleone, l’amore per le sue città preferite, Parigi, Napoli.
LUCA BERTAZZONI E lui quando entrava in questo hangar, come dire…
LUCAS VIANINI - GALLERISTA Beh, si trasformava, lui era felice di mostrare questa sua creatura, fossero ministri, imprenditori, amici. E la gente gli dava grande soddisfazione perché quando vedeva effettivamente questa cosa era visionaria, non è un qualcosa che si vede tutti i giorni.
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Vittorio Sgarbi ha fatto una stima della spesa totale che Silvio Berlusconi avrebbe sostenuto in quegli anni per riempire l’hangar di Arcore.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Con venti milioni in quei tre o quattro anni poteva fare una raccolta di cento quadri bellissimi.
LUCA BERTAZZONI E invece ne ha presi 25mila, più o meno
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA 25mila. Poi, quando glielo dicevi, lui diceva: “Che meraviglia, la più grande raccolta del mondo”. Una cosa un po’ infantile, ecco. Il collezionista ha una specie di follia di trovare una cosa rara, è una ricerca. Lì non c’è la ricerca, lui lavorava con l’idea di comprare una quantità di opere d’arte…
LUCA BERTAZZONI Per essere il collezionista più grande, diciamo…
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Sì, indifferente a cosa fossero quei quadri. 25 madonne perché? Una, poi, assomiglia a Beato Angelico, l’altra assomiglia a Giotto, l’altra assomiglia ad Hayez, assomigliano cioè sono dei giochi, poi con delle firme strane messe da gente così che…
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) A lui piacevano tipo questi paesaggi qua, per esempio la natura, paesaggi di montagna, paesaggi che c’erano i prati e gli alberi. Poi amava anche questo stile qua, è un nudo artistico, non è un nudo volgare. Amava le Venezie, noi le abbiamo fatte fare apposta.
LUCA BERTAZZONI Avevate capito un po’ quello che era il suo gusto e quindi andavate…
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Andavamo mirati, sì. Sono tutti dipinti olio su tela, fatti a mano, non sono cose diciamo, proprio commerciali, diciamo. Sono cose fatte di…
LUCA BERTAZZONI Diciamo di valore medio/basso?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Medio, medio/alto.
LUCA BERTAZZONI Medio/ alto.
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì. Abbiamo venduto molte sculture al presidente, tipo questa qua, sculture d’arredamento per esterni. Gli abbiamo venduto anche divani.
LUCA BERTAZZONI Anche divani? Valore più o meno di questo?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) 5mila euro. Gli abbiamo venduto porcellane, gli abbiamo venduto un po’ di tutto…
LUCA BERTAZZONI Porcellane tipo quelle?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì, porcellane, lui amava anche quelle cinesi belle, queste qua. Non è che comprava così a compulsione, lui si metteva lì, se le guardava una per una
LUCA BERTAZZONI Tre anni lei ha frequentato Berlusconi?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì. Tre anni, sì.
LUCA BERTAZZONI E quanti quadri può avergli venduto più o meno?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) 5mila.
LUCA BERTAZZONI 5mila quadri tipo questi?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Sì.
LUCA BERTAZZONI Valore?
GIUSEPPE DE GREGORIO - TITOLARE GALLERIA NEWARTE - ARZANO (NA) Il valore non è quantificabile, cioè nel senso che non abbiamo fatto più o meno il conto. Però lui aveva questo desiderio di realizzare questa quadreria grande e l’ha realizzata in suo modo, come è lui: grande!
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA A un certo punto hanno capito che lui era… E lo hanno circuito, cioè gli hanno portato orologi, mobili, sfingi, tutto così…
LUCA BERTAZZONI Statue, fontane.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Fontane… Qualunque cosa.
LUCA BERTAZZONI E quando lei ha fatto presente queste cose ai figli loro hanno…
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Ho detto a Marina, dico: “Diciamogli che se deve spendere 100 mila euro, invece di comprare 25 madonne, compri un quadro e quel quadro va bene, no?”.
LUCA BERTAZZONI E infatti lei parla di fase di bulimia notturna, no...
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Sì, non vedo altro. Una volta che tu non riempi le tue notti di ragazze e questo forse era finito, riempi di un televisore in cui vedi una cosa, “guardate questa bellissima natura morta”, uno guarda e…
LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo aver riempito l’hangar con 25mila quadri, qualcuno si rende conto che la passione di Berlusconi per le televendite e per l’arte inizia a essere fuori controllo. E dopo più di due anni finisce anche l’avventura di Lucas Vianini come catalogatore ufficiale della quadreria di Villa San Martino. Ora che Silvio Berlusconi non c’è più, anche l’hangar passa in eredità ai figli, con tutto ciò che contiene.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Delle copie fatte come quelle che sono nelle bancarelle quando uno va a Venezia o a Napoli.
LUCA BERTAZZONI A Napoli si chiamano “croste”.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Appunto, così
LUCA BERTAZZONI Quindi le definirebbe “croste” lei?
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA Non è che le definisco, sono oggettivamente. Ma non sono delle “croste” del tipo che una fa una cosa e ti dice che è Caravaggio ed è una crosta, no.
LUCA BERTAZZONI È una “crosta” dichiarata.
VITTORIO SGARBI - SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA “Croste” che nascono così.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 25mila croste dichiarate dice il sottosegretario Sgarbi, valore complessivo stimato circa venti milioni di euro, anche questa è un’eredità per i figli.
Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per repubblica.it il 16 giugno 2023.
Ho avuto la nobile fortuna di aver visto Silvio Berlusconi una sola, misera volta, e me lo ricordo bene. Allora tra di noi lo prendevamo in giro, la sua ricchezza pareva esagerata. (...)
Era una serata meravigliosa, a Milano, Alla Scala! Un famosissimo 7 dicembre, passato alla storia perché per la prima e ultimissima volta, apparve Silvio stesso quanto mai buontempone.
Era la riapertura della Scala dopo la tristissima vita precaria degli Arcimboldi (dove si spera abbiano aggiunto più di un gabinetto!), opera dell'architetto Vittorio Gregotti e di Mario Botta. Era il 2004, una grande festa, un ritorno all'antica sede, e non importa se il maestro Riccardo Muti, con sublime severa follia, aveva deciso di inaugurare la magnifica Scala risanata, con tutti i mobili finti antichi e il tutto che luccicava, con l'opera di Antonio Salieri, "L'Europa riconosciuta" che era stata, nel 1778, inventata per l'inaugurazione del Teatro alla Scala, opera di supremo rococò noiosissima, di cui anche i più fini cultori melomani non sapevano che dire. Ma intanto, nel famoso palco reale... c'era Silvio Berlusconi, già con la testa in preda a esperti del capello, con accanto, nell'ombra, i bellissimi occhi di Veronica, la moglie che, vestita di nero, portava un gioiello enorme, fatto di diamanti e rubini grossi come euro, e se ne stava in un angolo, già perduta, superata.
Travestita da gran dama, entrai nel grande palco tutto fiorito, e Berlusconi mi venne subito incontro, uscendo subito da una specie di assopimento; sapeva benissimo chi ero ma faceva finta di ritenermi una solita fan. Mi teneva la mano facendomi girare intorno come in un ballo, mentre sentivo la fascia stretta che avevo avuto modo di sentirgli attorno alla pancia. Il 7 dicembre dell'anno precedente, mi guardai bene dal ricordargli, era stato atteso invano agli Arcimboldi, perdendo un "Moise et Pharaon" perché aveva preferito seguire la madre nel teatro di famiglia ad applaudire Marco Columbro nella meno rossiniana commedia "Funny Money". "Sa io vado sempre a letto alle 2 di notte, se no la baracca non va avanti". Poi, sempre danzando. "Ma questa volta dovevamo essere qui, alla Scala. Abbiamo dato un tesoro, tesoro prezioso, costoso certo, anche i miei hanno tirato fuori dieci miliardi, come altri privati e il Comune. Abbiamo deciso, progettato, realizzato".
Un gentile signore vorrebbe buttarmi fuori, il presidente mi trattiene, sta per cominciare l'"Europa riconosciuta" e lui ha l'aria di fretta. Lo guardano estasiati, sempre dal palco reale i vip che è riuscito racimolare, il presidente della Croazia, dell'Albania, della Svizzera e qualche emirato, assenti gli amici invitati Bush, Blair, Putin. C'è il ministro Lunardi (dei tempi di allora non ce ne è più uno) che vorrebbe spiegare ai presenti come funziona la torre scenica che dà lustro alla nuova costruzione della Scala, ma lui, preparatissimo, gli toglie la parola incantando gli stranieri con la sua sapienza cementizia. Quella fu l'unica volta in cui la musica riuscì a afferrare i capelli per il pur canterino primo ministro. A noi sono rimasti gli orrendi resti.
Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia il 16 giugno 2023.
Vabbé… se la mettiamo così allora vale una chiosa all’intervento di Natalia Aspesi che ricorda (ah! già la nostalgia del Cavaliere da parte di “Repubblica”!) quella “serata meravigliosa, a Milano, alla Scala”, per il “famosissimo” 7 dicembre della riapertura del 2004, “passato alla storia perché per la prima e ultimissima volta apparve Silvio”. In quella serata, Berlusconi non si segnalò per aver tenuto la mano alla Aspesi facendola girare, almeno, non ricordo: si segnalò per aver steso (metaforicamente) al tappeto le ballerine che si avvicinarono al suo tavolo.
Allora: il ministro Giulio Tremonti stava per far approvare una legge per fare andare in pensione più tardi i tersicorei. Non ricordo, esattamente, a quanti anni, credo a 45. Il corpo di ballo era – al solito – in “stato di agitazione” sindacale (quelle cose anni Settanta rimaste quasi solo alla Scala).
Alla cena del Doposcala, che quell’anno si tenne non alla Società del Giardino ma ai laboratori Ansaldo appena aperti, verso la fine della cena tre ballerine, direi quasi sulla quarantina, si accostarono al tavolo rotondo posto al centro dove, ovviamente, sedeva l’allora Presidente del Consiglio. Si avvicinarono al Cav e, per portare avanti la loro protesta gli dissero: “Ma presidente, le pare che possiamo andare avanti a ballare sino a 45 anni?”. Figuriamoci, per Berlusconi fu un invito a nozze. Si alzò, o fece cenno di alzarsi, sorrise e disse loro: “Ragazze, vi trovo in splendida forma”. Quelle rimasero di sasso, sorrisero e la rimostranza finì lì.
Estratto dell’articolo di Edoardo Lusena per corriere.it il 16 giugno 2023.
E pensare che all’inizio quel cliente particolare non fu preso neanche sul serio. «Era il 2018 se non sbaglio e, come tutte le sere, ero in diretta dalle 21 alle 1. Il programma prevede una specie di asta: espongo i quadri e la gente decide quanto vuole spendere e si dà un tetto».
Il racconto è di Alessandro Orlando, se il suo nome può non suonare familiare sicuramente il suo volto è più che noto: chi non è incappato nelle sue vendite notturne di quadri di ogni tipo e misura che da trent’anni ne hanno fatto un personaggio nelle tv locali di tutta Italia, tanto da essere tra gli ispiratori di un celebre personaggio di Corrado Guzzanti.
Ecco, se durante lo zapping siete rimasti a guardare sappiate che tanti, tantissimi, telefonano e acquistano. E uno di questi era l’ex premier Silvio Berlusconi scomparso lunedì scorso. Orlando continua il racconto di come tutto cominciò: «Quella sera nello spazio principale c’era il quadro di un pittore della bottega del fiammingo Antoon van Dyck. Una madonna con bambino ed eravamo arrivati sui 45 mila euro. A uno dei miei centralinisti arriva la chiamata di un signore che dice “sono Berlusconi, offro 50 mila”. Lui rispose “e io sono Napoleone” e riagganciò». Ma il tele-cliente non si dà per vinto: «Richiamò, il numero era privato e fu liquidato».
«Qualche minuto e chiama un cellulare, una collaboratrice — che poi scoprimmo essere Marta Fascina — disse che effettivamente chiamava da parte del presidente Berlusconi che voleva davvero fare un’offerta per il quadro. In studio iniziarono a fare dei gesti e poi mi dissero fuori inquadratura che forse era davvero lui». Alla fine quel quadro Berlusconi se lo aggiudicò per 62 mila euro. «Richiamammo per i dettagli di consegna e rispose proprio lui disponendo di portare l’opera il lunedì successivo ad Arcore. Con 30 anni di tv e una certa notorietà ancora pensavo a un mezzo scherzo ma alla fine andai. Mi feci annunciare dal servizio di sicurezza al cancello: “Sono Alessandro Orlando della galleria Orlando”. “Prego, si accomodi”. No, non era uno scherzo».
In un salottino l’incontro con Berlusconi: «Mi riempì di complimenti, mi disse che ero il più grande venditore d’Italia. Che mi seguiva da anni». L’acquisto rimase lo sfizio isolato di una notte davanti alla tv? Tutt’altro, spiega Orlando: «A quella seguirono altre 25 visite. Villa San Martino, ma anche villa Germetto negli anni: beh ha comprato 2.500 quadri da me in 2 anni e mezzo». Se il numero impressiona, altrettanto fa la cifra totale pagata da Berlusconi per i suoi acquisti.
«Da me avrà speso intorno ai 3 milioni di euro» dice senza esitare. Da lui, perché pare che gli acquisti tv non si fermassero a quei quadri. Ma il loro rapporto divenne speciale: «È durato più o meno due anni e mezzo, fino al Covid — dice — Quasi tutte le sere si sintonizzava e mi svuotava letteralmente le pareti, con tanto di altri clienti fedeli che si lamentavano. Era un cliente curioso, chiedeva, si fidava anche molto, mi chiedeva consigli».
(…)
Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it Dagospia il 13 giugno 2023.
Tra gli innumerevoli articoli dedicati a Silvio Berlusconi non ce n’è uno – salvo sul “Manifesto” a firma Norma Rangeri – che accenni a Berlusconismo e Cultura. Bella forza, direte voi, la Cultura è uno dei pochissimi campi che a Berlusconi e al Berlusconismo non interessava per niente. Però, un attimo: se per Cultura intendiamo il modo d’essere dell’uomo sulla terra, la sua identità, i suoi rapporti sociali… essa è una spugna che assorbe e trasforma. In questo senso possiamo affrontare il tema del berlusconismo e la Cultura italiana.
La tesi ricorrente degli oppositori al Cavaliere, già espressa dieci anni fa in «La cultura delle destre. Alla ricerca dell’egemonia culturale in Italia» di Gabriele Turi è nota: estendendo il termine «cultura» all’intrattenimento popolare, con le sue televisioni, le sue squadre di calcio ecc. Berlusconi ha intorpidito le menti.
L’intrattenimento televisivo e la cultura evenemenziale postmoderna sono stati null’altro che il corrispettivo degli alberi della cuccagna e delle sfilate di nani, ballerine e «belle etiopi» dell’Ottocento (vedi Donald Sassoon La cultura degli europei dal 1800 a oggi) e ciò è stato il fecondo terreno culturale che la destra ha reso funzionale ai suoi obiettivi politici, di controllo delle masse e di potere (il famoso Berlusconi che è in noi di Nanni Moretti). A ciò si sono aggiunti meno incisivi tentativi di Revisionismo storico e creazioni di Think tank assai poco influenti, se non sul quotidiano “Il Foglio” diretto da Giuliano Ferrara (la campagna antiabortista, ad esempio).
Questa, però, è una solo una narrazione della Cultura nel trentennio di Berlusconi, che ha in sé una verità quasi scontata e ineludibile qualunque sia la forma di Governo delle nazioni (ovvero “panem et circenses” per il popolo) e che tralascia elementi, che ora vediamo, riassumibili in questo: Berlusconi ha spesso lanciato un sasso per denunciare la palude autoreferenziale della cultura italiana, controllata per cooptazione dalle élite radical-chic e di sinistra a partire dall’ottica gramsciana, ma mai, o quasi mai, ha poi mosso le forze necessarie per trasformare questa palude, preferendo, semmai, costruire ex-novo qualcosa di alternativo.
Tanto che il mondo di pagine culturali, premi letterari, festival, comunità degli scrittori, artisti, architetti, mondo dei teatri, cinema è rimasta una cittadella, maldifesa, ma intoccata nell’appartenenza ideologica. Stesso esito per scuola e università. E i protagonisti non allineati sono sempre rimasti in balia di loro stessi, taluni traditi da un iniziale sogno di rinascita di cultura liberale alla Spadolini e Visentini (quella dei vari Urbani, Pera) tentata sulle pagine de “Il Giornale” a partire da Montanelli. Ma a causa della lotta ideologica innescata da una parte del Paese (in particolare da “la Repubblica” e dalla Magistratura) ci fu sempre poco spazio o nullo per lo sviluppo di una cultura aperta, apolitica, alta e moderata.
Il primo metodo operativo di trasformazione che andasse oltre la denuncia dello stagno culturale fu il tentativo di lanciare “outsider” di grandi capacità con assenza di cursus honorum tradizionale (che significa persone capaci, ma senza pedrigree, talvolta dei self-made-man della cultura): l’epitome può essere Vittorio Sgarbi, ma penso, piuttosto, all’ostilità riversata verso Mario Resca quando fu chiamato ai Beni culturali solo perché aveva lavorato da McDonald.
Al netto delle controversie giudiziarie, l’acquisizione di Mondadori poteva segnare la fine della devozionale e acritica egemonia della Einaudi di Vittorini, Pavese ecc. ecc. ma, come è noto, Berlusconi non avviò alcuna politica editoriale privilegiando l’attenzione ai conti di una industria culturale: i principali oppositori di Berlusconi – tipo Saviano – pubblicarono con Mondadori. Anche quando acquistò la Rizzoli, con successivo intervento dell’antitrust, è improprio prevedere che avesse voluto esercitare un predominio da pensiero unico culturale, piuttosto un predominio industriale. Come ha raccontato in un recente libro Marsilio il n.1 di Segrate, Gian Arturo Ferrari, molti autori si presentavano come raccomandati da Berlusconi ma, in realtà, al Cavaliere di loro non fregava assolutamente niente e lasciava gli editor totalmente liberi. Furono piuttosto case editrici piccole, come la SugarCo del socialista Massimo Pini, a fare politiche culturali anticomuniste.
Le celebri tre I per la scuola, ovvero inglese, internet e impresa rivelano tutta la riduzione della scuola a un apparato di mera preparazione al lavoro nella contingenza attuale, ovvero un esibito pragmatismo di stampo americano nel quale la costruzione sociale, sentimentale e, non dico filosofica, ma almeno di coscienza civica o religiosa di un individuo non avevano posto. Ma, al pari delle sue televisioni commerciali svelavano anche il volto paludoso dello stagno pedagogico in cui il Paese si trovava, con quelle protezioni sindacali nel mondo della scuola che consentivano prepensionamenti a quarant’anni e repliche stantie di programmi datati e l’assenza totale di competitività o controllo tra docenti e istituti. In fondo, quello della scuola era un quadro analogo a quello in cui versava la tv di Stato e i suoi programmi prima dell’avvento delle tv commerciali, che la costrinsero a svecchiarsi, ad aprirsi alla “insostenibile leggerezza dell’essere” dei magnifici anni Ottanta.
Per l’università il tentativo dei tentativi sarebbe stato togliere il valore legale del titolo di studio e mettere le università in competizione, sul modello americano. Ma le opposizioni da sinistra furono insuperabili. Tentò allora, con la riforma Gelmini – che vide la singolare opposizione sia di studenti che di baroni stretti in social catena – di innescare meccanismi di meritocrazia che ponessero fine a una cooptazione su base ideologica o, peggio, per familismo amorale, per cui i figli dell’élite finivano in cattedra con concorsi pilotati e per gli “underdog” non c’era (come non c’è) alcuna possibilità. Nacquero così i concorsi di abilitazione nazionale, l’Anvur e la Vqr come strumenti di controllo che i baroni, però, seppero subito fagocitare trasformando questi strumenti in una gigantesca macchina burocratica fintamente ispirata a logiche (pseudo) scientifiche di stampo anglosassone (riviste di classe A, numero di pubblicazioni ecc. ecc.). Risultato: ancora oggi il merito è aggirato e i concorsi universitari sono pilotati. Di fronte al mostro irriformabile, il berlusconismo preferì, allora, costruire percorsi alternativi ex-novo, dalla creazione di master legati al mondo del lavoro alle scuole aziendali. E qui ci ritroviamo alla logica delle tre I: il pragmatismo che si affianca al mostro evitandolo. Quindi, un genitore (ricco) se vuole che il figlio trovi davvero lavoro lo manda all’estero o in un master aziendale. Gran dei programmi nazionali o internazionali che girano intorno all’università – Erasmus, dottorati che estendono solo il potere dei docenti, summer school , scuole di specializzazione… – sono in gran parte fuffa.
Nel merito delle Arti il berlusconismo ha detto poco: le soprintendenze sono state sfidate solo da Matteo Renzi e, anzi, Berlusconi pareva orientato a una specie di estetica piccolo-borghese “dei bei tempi andati” con un vago rispetto per le antichità, l’archeologia e l’arte. Collezionista “spontaneista”, non modificò nemmeno le rigide leggi sui vincoli di esportazione e non credo che il Centrodestra abbia mai avuto strategie o ingerenze su direzioni e comitati scientifici di musei o curatele che andasse oltre al “sentite cosa dice Sgarbi”. Qui non ci fu alcun conflitto di interessi.
Fece qualcosa in più nella musica classica, forse per la passione che Fedele Confalonieri nutriva per Riccardo Muti, anch’esso una specie di arcitaliano da opporre alla genealogia sinistorsa Anni 70 – Abbado e Luigi Nono – Renzo Piano – Napolitano… Mediaset, infatti, fu tra i soci fondatori quando la Scala divenne fondazione di diritto privato e promosse la Filarmonica (anche in tv) negli anni in cui Confalonieri ne fu presidente. Tuttavia, Berlusconi fu alla “prima” della Scala una sola volta in vita sua, anche perché era tempio di quella altissima borghesia ambrosiana Ztl che lo trattava da parvenue.
Verso la cultura cattolica ebbe una sorta di timoroso rispetto. Non solo aprì al cardinal Ravasi le porte della televisione ma si schierò per il mantenimento del crocefisso nelle scuole di un Repubblica laica. La difesa del crocefisso come «elemento identitario» (Berlusconi governò dopo la tragedia dell’11 settembre) era espressione di un policulturalismo alternativo al multiculturalismo globalista e, per questo, fu sostenuta anche dalla sinistra cattolica (ora orfanissima) in opposizione a una visione del mondo laicista e filomassonica del mondo, quella alla Soros.
Silvio e la Brianza. Il volto gastronomico quotidiano di Berlusconi a Monza e dintorni. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023.
Abbiamo raccontato il rapporto del cavaliere con il cibo, ora guardiamo alla sua dimensione domestica, quella vissuta nel territorio Brianzolo, tra risotti gialli, cotolette e arrosti di vitello, piatti semplici e rappresentativi del territorio
Una persona dai gusti semplici, amante del territorio, riservata e sempre gentile. Il Berlusconi che emerge dai racconti di chi l’ha conosciuto intorno a casa sua, tra la Brianza e Monza, è diverso da quello che si immagina. Il suo legame con queste terre così vicine e così lontane da Milano va oltre le ultime vicissitudini legate al Monza Calcio: è un legame domestico e quotidiano, che passa attraverso la scuola dei figli, le passeggiate con la compagna, i tagli di capelli, e naturalmente il cibo.
A Monza Berlusconi “faceva la spesa”, se così si può dire. Erano gli addetti della macelleria Luigi Parma a consegnargli a casa la carne: «Entrare a Macherio o ad Arcore non era semplice, ma dopo un po’ si era instaurata la fiducia necessaria». La lista della spesa era semplice, fatta di prodotti alla portata di tutti, niente stravaganze o ricercatezze: soprattutto carne bianca, pollo e vitello. L’aletta di vitello era uno dei suoi tagli preferiti, un taglio dal sapore un po’ “vintage”, con quella vena di grasso che rende morbido l’arrosto, da cucinare come facevano le mamme di un tempo. E poi cotolette, fettine e cosce di pollo, spezzatino di vitello e ossibuchi, arrosto di carré e bistecche. E quando arrivavano i primi freddi, il bollito: manzo, vitello, gallina e coda. Ovviamente non mancava anche la carne rossa, dal filetto alla fiorentina, senza dimenticare i tortellini, da cuocere e servire in brodo.
A un passo dal cancello della villa di Macherio, il ristorante Fossati è un punto di riferimento per tutti i Brianzoli, e ovviamente anche per la famiglia Berlusconi. Qui Silvio era di casa, anche se «Era tanto che non veniva a pranzo o a cena. Era una persona molto tradizionale e semplice nei gusti, oltre che riservata. Amava il territorio, quando veniva prendeva sempre il risotto giallo e la cotoletta, ma apprezzava molto anche la polenta con i formaggini di Montevecchia». Cose locali, insomma, anche se ovviamente con il progredire dell’età tendeva ad orientarsi verso piatti più leggeri, meno conditi. L’ultima volta da Fossati è stata per la presentazione del “suo” Monza, nel 2018, quando ancora Berlusconi era in formissima, e ha condiviso con la nuova squadra risotto e polenta.
Poco più in là, sempre a Canonica di Triuggio, l’Enosteria Lipen è la pizzeria dove tante volte sono andate Eleonora e Barbara Berlusconi, e dove spesso ordinano le pizze, che vengono ritirate dai loro autisti.
Non solo territorio lombardo, ma sempre grande amore per la tradizione: è questo il ricordo di Vincenzo Butticè del ristorante Il Moro di Monza: «Lo avevamo già servito altre volte, a Monza e in Sardegna, ma quel 26 aprile del 2022 è stato particolarmente emozionante. Ha ordinato il nostro risotto con le sarde, un Carnaroli condito come la classica pasta. Una sorta di sfida, per vedere se noi siciliani sapevamo fare il risotto. Lo mangia tutto, di gusto, e “avete imparato anche a fare il risotto!”. Poi gli assaggi dagli altri commensali, i complimenti, e la domanda: “posso salutare la brigata?”. Certamente. Entra in cucina, trova prima l’isola del lavaggio piatti, tende la mano al nostro collaboratore Napoleone, e lui “presidente, ho le mani bagnate”. La risposta del presidente: “le mani di chi lavora sono sempre pulite”».
La passione per le tradizioni ritorna nei ricordi del maresciallo Gaetano Galbiati, che tante volte l’ha scortato a Monza e dintorni e, racconta, gli portava, quando poteva, le mozzarelle di bufale campane, tanto amate da Berlusconi come dalla sua mamma.
Ancora, Monza punto di riferimento per il Berlusconi “domestico”, ma che entra nel tessuto enogastronomico della sua vita politica. Come quando ha ordinato da Meregalli una cassa di 12 bottiglie di Chateau Lafitte per ricevere Putin, ai tempi in cui era premier. Del resto in passato l’azienda monzese aveva ricevuto i suoi ordini di vini, anche se negli ultimi anni non beveva più.
E a Monza Berlusconi veniva a mangiare il gelato, passeggiando nelle vie del centro con Marta Fascina. Meta privilegiata, la gelateria La Romana. «Il suo gusto preferito – racconta Valentina, che più di una volta l’ha servito – era la nostra “Crema dal 1947”, un gusto dal sapore antico, profumato con vaniglia e scorza di limone naturale. Spesso prendeva anche lo yogurt, un gusto un po’ meno zuccherato, che tiene in equilibrio la bontà con l’attenzione alla salute. E poi, sempre carino, cortese, disponibile, aveva una parola per tutti, si fermava a fare foto e chiacchiere con la folla che subito si formava fuori dal negozio».
Gusti semplici, anche per il gelato, dunque, sapori di casa, capaci di riportare un po’ all’infanzia, di ricreare una dimensione intima, lontana dai clamori della vita pubblica: una magia che solo il cibo sa fare.
Berlusconi e la Gastronomia.
Silvio Berlusconi e l'eredità culturale di cui nessuno parlerà Silvio Berlusconi. Lorenzo Castellani su Panorama il 12 Giugno 2023
Chiunque sia nato dopo gli anni Settanta in Italia è figlio di Silvio Berlusconi e dei suoi prodotti che hanno riscritto la storia di un Paese rendendolo spensierato, popolare e lontano dai moralismi degli intellettuali
C’è una eredità di Silvio Berlusconi di cui pochi parleranno e, se lo faranno, sarà quasi certamente in termini negativi. Si tratta dell’eredità culturale di Silvio Berlusconi. L'abilità nel costruire mezzi editoriali dell’imprenditore milanese è nota a tutti: il più grande gruppo privato televisivo italiano (Mediaset), un numero cospicuo di quotidiani e settimanali nazionali, la più grande casa editrice italiana (Gruppo Mondadori). Tuttavia, la cultura non è soltanto mezzi ma capacità di coltivare mentalità, di influenzare il modo di pensare, di percepire come un rabdomante il senso comune del pubblico. Da questo punto di vista chiunque sia nato dopo gli anni settanta in Italia è figlio di Silvio Berlusconi e dei suoi straordinari prodotti. L’Italia culturale di Berlusconi è senza dubbio spensierata, edonista, vanesia, consumista, popolare, lontana dalle ingessature e dai moralismi degli intellettuali, inospitale verso le burocrazie e la seriosità di chi vorrebbe guardare gli italiani dall’alto in basso per rieducarli. Le televisioni Mediaset passano programmi leggeri, accattivanti, innovativi, cartoni animati che rendono più divertenti i pomeriggi di figli e genitori, format poco politici pensati per chi dopo una giornata di lavoro vuole rilassarsi o per chi resta a casa e vuole evadere, reality show che lavorano sul desiderio e sull’immedesimazione dello spettatore. Si è parlato sempre, a sinistra, Berlusconi della cattiva cultura ma la sua opera visionaria è stata così incisiva da conquistare tutta la cultura popolare del paese. Il Berlusconi politico l’ha rivendicata: gli italiani sono un popolo liberale, che soffre gli indottrinamenti, leggero e con voglia di divertirsi, concentrato sul lavoro, la casa e la famiglia. Un popolo, in definitiva, che non deve essere corretto né rieducato come chiedono intellettuali e politici di sinistra ma che va bene così come è. Ecco dunque la cultura liberale, quella dello scetticismo verso l’ideologia e la pedagogia dall’alto, che si mescola all’antipolitica, cioè al rifiuto della politica di professione e all’esaltazione della società civile. Il cittadino-spettatore non ha bisogno di ideologi, burocrati e profeti, ma di un grande istrione, Silvio Berlusconi, capace con innata simpatia di rappresentarlo e non di condannarlo. L’Italia di Berlusconi, spesso rappresentata dalla sinistra come un consesso di inciviltà, niente è stata che la peculiare rappresentazione di decine di milioni di elettori che hanno creduto in un messaggio liberale, antipolitico e, se proprio si vuole, anti-intellettuale in un paese in cui chi si proclamava tale lavorava per le appendici del Partito Comunista o difendeva associazioni terroristiche. Il Cavaliere non ha mai creduto nell’idea gramsciana dell’egemonia culturale, non era di fondo interessato a conquistare scuole, università, tribunali e case editrici perché sapeva che una volta tornati a casa, nel privato, gli italiani respingevano le versione propinate da libri, magistrati e professori. Un errore forse non sfruttare il suo grande potere e le sue capacità per costruire una cultura alta, ma questo rifiuto esprimeva anche la consapevolezza che la comprensione profonda della cultura popolare era sul piano politico e commerciale tutto ciò che serviva. Nessuno come Berlusconi ha compreso, nel suo tempo, quella parte di Italia che rifiuta ogni attivismo, ogni indottrinamento nel linguaggio e nel costume, ogni organizzazione sovrimposta della cultura e vuole semplicemente lavorare, guadagnare, avere un fisco giusto, essere libera, godereccia e felice. È una consapevolezza enorme, una lezione da preservare e rivendicare. Non il penoso complesso di inferiorità verso gli intellettuali di sinistra che oggi spinge parte della cultura di destra ad emulare il gramscismo, ma la convinzione che la lezione di libertà di Berlusconi è quanto di più rilevante si possa lasciare in eredità alla cultura italiana e alla spontaneità del costume e del carattere degli italiani.
Berlusconi e gli Animali.
Berlusconi e gli animali: da Dudù agli agnelli salvati a Pasqua, la politica green del Cavaliere. Storia di Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 12 giugno 2023.
Finché si faceva fotografare con Dudù, il piccolo maltese bianco entrato nella sua vita assieme alla compagna di allora Francesca Pascale, erano in molti a pensare di essere di fronte ad una delle tante strategie di comunicazione messe in atto dall’uomo che sulla comunicazione ha costruito una carriera e un impero, commerciale e politico. Ma quando nella primavera del 2017 Silvio Berlusconi ha accettato di farsi filmare nel giardino della sua residenza di Macherio mentre allattava un agnellino, circondato da altri quattro che brucavano allegramente l’erba verdissima di Villa Belvedere, per poi lanciare un appello a non consumarli nell’imminente Pasqua, il segnale della sua svolta animalista è stato chiaro e inequivocabile. Anche per quella parte dei suoi alleati, Lega e Fratelli d’Italia, più avvezzi a strizzare l’occhio a cacciatori e allevatori. I suoi avversari, storicamente detentori delle battaglie ambientaliste, dovettero invece accettare di avere un concorrente in più (il governatore pugliese del Pd, Michele Emiliano, disse che la mossa era geniale e che aveva destabilizzato anche lui).
Il leader di Forza Italia, affiancato da Michela Vittoria Brambilla, in quell’occasione prendeva una posizione netta rompendo un tabù, quello legato agli animali destinati al consumo alimentare che vanno tutelati ma non troppo, che spesso i politici di ogni colore si guardano bene dall’infrangere per non perdere consensi tra agricoltori, allevatori e produttori e perfino consumatori a cui non piace sentirsi dire che quello che mangiano e che considerano magari una prelibatezza è in realtà frutto di sofferenza. Non a caso insorse anche Assocarni, l’associazione di categoria dei produttori, che non gradì la mossa dell’ex premier ricordando che le aziende associate erano tra i principali clienti delle tv Mediaset. Per non dire di Matteo Renzi che in tv ci tenne a sottolineare, in risposta a Berlusconi, che lui l’agnello lo avrebbe mangiato eccome e guai a pensare di toccargli la fiorentina (intesa come bistecca).
Fu una tappa fondamentale di un percorso, in realtà iniziato da tempo anche se un po’ sottotraccia, che lo avrebbe portato, negli ultimi anni della sua esperienza politica; a schierarsi apertamente sempre di più dalla parte degli animali. Fino all’approvazione della riforma che lo scorso anno ha inserito la loro protezione e la tutela dell’ambiente nell’articolo 9 della Costituzione. Un passaggio epocale, votato da tutte le forze politiche, che nel campo di centrodestra avrebbe probabilmente avuto molte resistenze in più se il Cav non si fosse schierato apertamente per il cambiamento. La Lega, che pure era riuscita a rallentare il percorso della riforma presentando migliaia di emendamenti ostruzionistici (l’obietivo era evitare che una piena tutela costituzionale potesse ritorcersi contro allevatori e cacciatori), alla fine si era dovuta accontentare un rimando alle leggi ordinarie per garantire una protezione solo indiretta, ma aveva acconsentito alla revisione.
A casa di Berlusconi gli animali ci sono sempre stati. I figli avuti con Veronica Lario sono cresciuti con caprette e altri animali da fattoria, anche se forse la scelta dipendeva più dalla visione steineriana della scuola frequentata da Barbara, Eleonora e Luigi che non da un convinto afflato animalista. Questo però alla fine è arrivato e indubbiamente ad alimentarlo è stata la vicinanza con Michela Vittoria Brambilla, che nel suo governo fu ministra al Turismo e che tuttora è presidente dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali. «È sempre stato al mio fianco in tutte le battaglie ambientaliste e animaliste — conferma Brambilla, che a poche ore dalla notizia della morte dell’ex premier ha diffuso un ringraziamento pubblico proprio per ricordare un lato del carattere berlusconiano che non sempre emerge —. Amava profondamente la vita e rispettava tutti gli esseri viventi, perché, oltre e al di sopra di ogni altra caratteristica, era un uomo buono. Citava con convinzione la frase di Totò: gli animali sono metà angeli e metà bambini. E ne ha salvati tanti, di animali, non solo i cani per cui aveva una forte predilezione, ma di tutte le specie». Gli agnelli di cui si parlava prima, per esempio. «Ricordo il suo amore per Fiocco di neve, uno dei tanti agnellini che ha sottratto al macello, e il suo convinto impegno per fermare l’assurda strage pasquale degli innocenti».
I suoi critici sostenevano che la conversione quasi francescana alla causa degli animali non fosse sincera e che forse da uomo attento ai numeri e ai sondaggi aveva capito che era meglio puntare su 6 milioni di italiani che si dichiarano vegani o vegetariani anziché su 600 mila cacciatori. Ma è un dato di fatto che alcune leggi a tutela degli animali, come il diritto dei cani di viaggiare anche sui treni dell’alta velocità o l’inasprimento delle pene per chi commette violenze contro gli animali, che pure erano state oggetto di diversi disegni di legge nelle varie legislature, siano passati proprio sotto i governi di Berlusconi o con il via libera parlamentare di Forza Italia, in affiancamento ai partiti tradizionalmente più vicini a queste tematiche (e meno vicini politicamente a Berlusconi medesimo). Non avrebbe potuto succedere probabilmente su altri argomenti, su animali e ambiente invece è successo. E chissà se ora questa eredità verrà raccolta e portata avanti.
Brambilla, al di là dell’attività parlamentare, è anche conduttrice televisiva e ricorda come la sua trasmissione, «Dalla parte degli animali», che dal 2017 va in onda sulle reti Mediaset, fu ideata e scritta proprio da Berlusconi. «Lo fece — racconta la parlamentare — perché, così mi spiegò, non poteva non poteva sopportare l’idea che così tanti cani vivessero chiusi nei box dei rifugi magari per anni, in attesa del calore di una famiglia». Intanto lui ne aveva accolti una ventina e tra loro tanti trovatelli che sono andati ad aggiungersi al clan di Dudù, Dudina e Peter, il figlio di Dudù che era uno dei suoi prediletti. «Ma non era ancora soddisfatto — ricorda Brambilla —: Silvio avrebbe voluto svuotare i canili di tutto il Paese».
Berlusconi e la Famiglia.
Marina Berlusconi: "Papà era un uomo affamato di vita e di amore". Bruno Vespa l'8 Novembre 2023 su Il Giornale.
La primogenita del Cavaliere, presidente Fininvest, nel saggio del conduttore Rai, "Il rancore e la speranza": "Stimo molto Giorgia Meloni, è capace, coerente e concreta. Il Paese avrà sempre bisogno di una forza liberale come Forza Italia"
Ai funerali di Berlusconi, il 14 giugno 2023, il mondo ha scoperto la famiglia del Cavaliere. () Ho parlato con tutti i cinque figli, cominciando da Marina, capofamiglia anche quando il padre era ancora in vita: per lui è stata figlia, madre, sorella, compagna. (Marina, 57 anni, è stata indicata da «Forbes» e «Fortune» come una delle donne più influenti del mondo. Dal 2008 è sposata con Maurizio Vanadia, già primo ballerino della Scala, e ha due figli: Gabriele, 21 anni, e Silvio, 19.) A ogni attacco reagiva con signorile decisione, ma si vedeva benissimo che sotto il guanto di velluto nascondeva gli artigli della tigre.
Lei ha sempre difeso suo padre pubblicamente, le dico, ancora tre mesi prima della morte e dopo la morte, dalle antiche e inutilmente ricorrenti accuse di contiguità con la mafia e, addirittura, di stragismo. Che cosa l'ha ferita di più? Suo padre ci aveva fatto l'abitudine o continuava a soffrirne?
«È un'enormità che mi fa star male. Ma come è possibile che una persona di buon senso ipotizzi davvero che Silvio Berlusconi, l'uomo politico italiano più importante del dopoguerra e uno dei più grandi imprenditori degli ultimi cinquant'anni, sia addirittura il mandante delle stragi mafiose del 1992-93? Ma siamo impazziti? È da trent'anni che un gruppo di magistrati non fa altro che rovistare nella sua vita e nei conti della Fininvest senza trovare nulla, perché non c'è nulla da trovare. E le stesse procure che indagavano hanno dovuto, per tre volte, chiedere l'archiviazione. Ma ogni volta che un teorema crollava, ne costruivano subito un altro per andare avanti. E l'illusione che, con la scomparsa di mio padre, questa persecuzione indegna di un Paese democratico sarebbe finita, si è rivelata, appunto, un'illusione. Perché ora l'obiettivo è la sua damnatio memoriae. Ma sa qual è la cosa che più pesa? Il senso di impotenza. Perché, anche quando questa indagine dovrà essere chiusa, e nell'unico modo possibile, cioè con un nulla di fatto, qualche schizzo di fango resterà. È il meccanismo diabolico che ha avvelenato la vita di questo Paese: si apre un'indagine, anche la più sballata, i giornali amici decretano la condanna mediatica senza appello, e della verità giudiziaria che arriverà molto dopo importa poco, anzi nulla. A questo, credo che nessuno debba mai abituarsi».
Il giorno della morte di mio padre (avevo 31 anni) mi sentii improvvisamente adulto. A lei, per fortuna, è capitato più tardi. Ha provato la stessa sensazione, le chiedo.
«La sensazione che ho vissuto e che sto vivendo è un'altra: da quel giorno mi sento diversa, non sono più la persona di prima, e ogni cosa è differente da quello che era. Le lenti con cui ho sempre guardato la realtà attorno a me, tutto a un tratto non sono più le stesse. È cambiato anche il modo di pormi verso la vita, verso il futuro. Verso tutto. Ho vissuto la morte di mio padre come un terremoto: ha raso al suolo il mondo per come lo avevo conosciuto. Penso sia una cosa che succede a tutti di fronte alle grandi perdite della vita: c'è una contraddizione tra come ti senti e quello che accade fuori, ti guardi intorno e ti rendi conto che, inevitabilmente, tutto continua ad andare avanti come se nulla fosse, come se quel terremoto fosse successo solo dentro di te. E anche tu devi andare avanti, non esistono alternative».
Affetti e azienda. Come suo padre l'ha formata e come ha accompagnato i suoi vent'anni di presidenza Mondadori e i diciotto di presidenza Fininvest?
«Solo guardare mio padre al lavoro è stata la migliore delle scuole. Sapeva tirare fuori il meglio da me, ma senza impormi mai nulla. Anzi, ha sempre voluto che ogni scelta, anche la più importante, fosse mia. E mia soltanto. Devo dire che quando penso al modo in cui mi è stato vicino, alla stima e alla fiducia che ha sempre avuto nei miei confronti, mi rendo veramente conto di quanto la vita sia stata generosa con me: ho avuto un grande papà e ho anche una grande mamma». (...)
«Mai creduto in un mio ruolo in politica»
Qual è il ricordo più bello? E quello più amaro, le domando.
«I ricordi belli sono così numerosi che non basterebbe tutto il suo libro per raccontarli. Però, mi capirà se le dico che preferisco tenerli per me. I ricordi amari, oltre ovviamente alla preoccupazione, allo smarrimento e alla sofferenza del periodo della malattia, sono quelli legati ai colpi bassi che ha ricevuto, al male che gli hanno fatto. E qui devo tornare sulla persecuzione giudiziaria. Penso, ad esempio, all'assurda condanna per frode fiscale del 1° agosto 2013. Per non parlare del capitolo Ruby, una delle pagine più vergognose della giustizia italiana. Era un'inchiesta fatta di accuse e processi basati sul nulla, sul tentativo di mescolare una valutazione morale o meglio moralistica con quella penale. Roba da roghi dell'Inquisizione! Per oltre dieci anni, però, hanno rovesciato addosso a mio padre infamie e falsità per le quali nessuna difesa sarà mai sufficiente, nonostante sia stato sempre assolto. C'è un altro episodio che non riesco a dimenticare: quel sorrisetto che nel 2011 si scambiarono Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Un sorrisetto con cui due governi stranieri stavano sabotando l'esecutivo che gli italiani avevano scelto democraticamente. Il signor Sarkozy ha atteso dodici anni per ammettere, nel libro che ha pubblicato qualche mese fa, quel complotto contro Silvio Berlusconi, una verità che peraltro già conoscevamo tutti. E ne ha approfittato per aggiungere un po' di insulti verso mio padre, aspettando la sua morte, a conferma del gentiluomo che è sempre stato. Un espediente per vendere qualche copia in più o per avere qualche titolo sui giornali. Del resto, le sue aspirazioni, direi un po' esagerate, il marito di Carla Bruni ha dovuto nel tempo ridimensionarle drasticamente... Come si dice? Sic transit gloria mundi».
Come visse il periodo in cui suo padre era assegnato ai servizi sociali?
«L'ho vissuto per quello che era: la condanna ingiusta di un innocente. Come si poteva viverlo altrimenti? Eppure, in quei giorni di servizio sociale che trascorse a Cesano Boscone non lo sentii mai lamentarsi, mai protestare. Anzi, le sole parole che pronunciava erano di affetto verso le persone che andava ad accudire. Non perse il suo sorriso. E questa per me fu la prova che era riuscito nell'ennesima riscossa: trasformare un passaggio così difficile e umiliante in una vittoria».
Si è parlato molto di una sua successione politica. Suo padre mi diceva sempre: a Marina farebbero quello che hanno fatto a me. Questo l'ha trattenuta?
«No, non è questo il motivo. Indubbiamente, se ripenso a quello che certa magistratura e certa stampa gli hanno fatto, mi vengono ancora i brividi, però ho imparato da lui a fare le mie scelte in positivo: puntando verso obiettivi in cui credo, e non, invece, escludendoli per timore. E a un mio ruolo in politica non ho mai creduto, non fa per me, e penso che non sarei nemmeno la persona giusta al posto giusto. La politica mi interessa e la seguo con attenzione, ma è una cosa terribilmente seria, merita rispetto e non improvvisazione. Il mio lavoro è nelle aziende del gruppo, il mio obiettivo è rafforzarle e costruire il loro futuro. Perché è quello che voglio davvero, non perché ho paura di altro».
Com'è stato suo padre come nonno?
«Silvio Berlusconi era un nonno dolce, divertente e premuroso, tanto quanto lo era come padre. Si è fatto amare tantissimo anche dai suoi nipoti. Quando ne parlava, gli si illuminavano gli occhi. Ci ricordiamo tutti il suo entusiasmo durante l'ultimo discorso in Senato, il 26 ottobre 2022, quando annunciò la nascita di un altro nipotino, Tommaso Fabio, il figlio di mio fratello Luigi. Evviva! disse. In quella esclamazione c'era tutto il suo orgoglio, tutto il suo amore per la vita. I miei figli lo adoravano, perché sapeva trasmettere loro grandi insegnamenti, ma anche farli ridere e divertire. Durante il lockdown del 2020 abbiamo trascorso otto mesi sempre insieme, nella nostra casa in Provenza, io, Maurizio, Gabriele, Silvio, papà e Marta. Il più allegro di tutti era proprio papà. Passava ore con i miei figli, che gli chiedevano della sua vita, e lui mescolava aneddoti, barzellette e battute».
«Quel tatuaggio di mio figlio Silvio»
Poi Marina Berlusconi mi racconta un fatto appena successo e molto significativo. «Il mio figlio più giovane, Silvio, che ha 19 anni e ha appena cominciato l'università, qualche giorno fa si è fatto tatuare sull'avambraccio un disegno che rappresenta le ali di un angelo sovrastate da una stella. Nel disegno ci sono quattro cifre: 29, 9, 36 e 4. Sono il giorno e il mese di nascita di mio padre e di mio figlio, che coincidono, e cioè il 29 settembre, e i rispettivi anni, il 1936 e il 2004. Il giovane Silvio ha voluto tanto bene al nonno Silvio da inciderselo sulla pelle, per sempre! Probabilmente mio padre avrebbe avuto da ridire, si sa che non amava i tatuaggi, ma questo è davvero speciale».
Lei è stata sempre molto indulgente per la sua vita piuttosto «libera» (in realtà, suo padre era un recluso). Lo ha mai rimproverato, sia pure affettuosamente?
«Non è questione d'indulgenza: a volte avevamo opinioni diverse, abbiamo fatto anche scelte diverse, ma io rispettavo le sue e lui le mie. Nessuno di noi ha mai avuto la pretesa di giudicare i comportamenti dell'altro. Ha vissuto la sua vita fino in fondo, quella libertà per la quale ha sempre combattuto la rivendicava naturalmente anche per sé, e non era disposto ad alcun compromesso. Ha pagato per questo un prezzo altissimo, ma è sempre stato coerente con se stesso e con le sue idee».
Quante persone, anche donne, hanno approfittato della sua generosità?
«Ci ho pensato tante volte e tante volte ho provato un grande fastidio, ma oggi mi sento di dire che, alla fine, è stato giusto così. Lui era molto, molto generoso. La generosità lo faceva stare bene, lo rendeva felice. Quindi, in fin dei conti, penso che abbia fatto bene a fare tutto quel che ha fatto. Sono convinta che un Silvio Berlusconi meno generoso non sarebbe stato Silvio Berlusconi. E se qualcuno, o più di qualcuno, se ne è approfittato, amen».
Che cosa è cambiato in azienda con la sua scomparsa?
«Da un punto di vista operativo, la macchina ovviamente continua a girare a pieno ritmo. Come sa, da quando era entrato in politica, nel 1994, non seguiva più da vicino la vita delle aziende. Eppure, a un livello più profondo, nulla potrà più essere come prima. La scomparsa di mio padre ha lasciato un vuoto nella politica, nei media, mi pare tra la gente, nell'intero Paese. E, a maggior ragione, nelle nostre imprese. Lui le ha fondate, per Mediaset era un vero e proprio padre. Tutti noi abbiamo sempre sentito la grande responsabilità di portare avanti quello che ha costruito: e inevitabilmente quella responsabilità la sentiamo ancora di più da quando ci ha lasciato. Questo, però, ci fa anche sentire più forti: sappiamo che pensare al futuro, come ha sempre fatto lui fino all'ultimo, continuare a lavorare sodo e a far crescere le aziende è il modo migliore non solo per onorare la sua memoria, ma anche per continuare a farlo vivere con noi».
Quale sarà il futuro di Mondadori?
«Il futuro della Mondadori si riassume in tre parole: libri, solidità e crescita. Tre parole che, in realtà, riassumono anche il nostro presente. Abbiamo dovuto lavorare dieci anni per far fronte, con una drastica riduzione della nostra presenza, alla crisi irreversibile del settore periodici, ma oggi siamo quello che all'inizio del nostro grande processo di trasformazione avevamo progettato di essere: un'azienda di libri, che ha anche una presenza significativa nel digitale. In tutto questo tempo non abbiamo mai smesso di investire: dai libri Rizzoli alla scolastica De Agostini, fino alle operazioni più recenti nel settore dei fumetti e nella promozione e distribuzione per editori terzi, oltre che nel digitale. E oggi i risultati ci dicono che abbiamo fatto la scelta giusta: i conti della Mondadori sono decisamente lusinghieri, e continuano a migliorare». (...)
Al funerale, voi cinque figli insieme avete dato una bellissima immagine di unità.
«Non è semplicemente un'immagine, è il nostro modo di essere! Quello che tutti hanno visto è l'armonia e l'unità della nostra famiglia. E mi riempie di gioia pensare che sia stato bello anche per nostro padre e che sia stato fiero di noi. Perché è lui ad averci educato a quei sentimenti che sono alla base del nostro legame e da cui è nata la grande concordia che c'è tra noi fratelli. Il giorno del funerale è stato un giorno di immenso dolore, ma anche un giorno in cui ci siamo sentiti più uniti che mai. Recentemente ho letto l'articolo di un giornalista che stimo molto: sottolineava come anche i più fervidi ammiratori di mio padre non immaginassero che un uomo così importante, impegnato, con una vita pubblica e privata molto più che densa, avesse potuto trovare il tempo e le energie per fare fino in fondo il mestiere del papà. E l'articolo aggiungeva come l'unità tra noi fratelli stia invece dimostrando che, oltre che un grande uomo, è riuscito a essere anche un grande papà. È vero, e per noi fratelli è bellissimo vederlo riconoscere».
L'eredità, tema abitualmente delicato, vi ha visti concordi senza battere ciglio...
«Dopo l'apertura del testamento, a luglio, in tanti si sono improvvisati periti calligrafici, alla ricerca di incoerenze e contraddizioni nelle lettere che nostro padre ha lasciato, in tanti hanno provato a insinuare dubbi e ipotesi strampalate. Ma la verità è che ci ha trasmesso le sue ultime volontà con indicazioni semplici ed estremamente chiare, come ha sempre fatto. Noi le abbiamo seguite, lasciandoci guidare da tutto il rispetto, oltre che dalla gratitudine infinita, che meritava. Ognuna delle scelte che abbiamo fatto è stata presa insieme e di comune accordo tra tutti e cinque. Quello che lui avrebbe voluto».
Posso chiederle com'è il suo rapporto con Marta Fascina?
«Con Marta ho un ottimo rapporto. È una bella persona, ed è stata una compagna molto importante per mio padre. Gli è stata vicina nei momenti più brutti. E fino all'ultimo».
E quale sarà il futuro di villa San Martino, dove ci sono le ceneri di suo padre?
«Nostro padre amava la vita, la luce, il viavai delle persone. Villa San Martino deve rimanere così, viva: vogliamo che resti la sede di riunioni di lavoro, oltre che, naturalmente, il punto di incontro della nostra famiglia. È quello che lui avrebbe desiderato».
«Giorgia Meloni? Capace, coerente, concreta»
Veniamo a Forza Italia. Che futuro vede per il partito fondato da suo padre?
«Dovrà essere Forza Italia a deciderlo e a muoversi di conseguenza. Per quanto mi riguarda, sono convinta che l'Italia avrà sempre bisogno di una forza liberale, moderata, atlantista ed europeista come Forza Italia. Ora che Silvio Berlusconi non c'è più, spetta a Forza Italia andare avanti con le proprie gambe, seguendo le sue indicazioni e la rotta che aveva tracciato. Cosa farà la nostra famiglia? Tra tutte le creazioni di nostro padre, il partito era una di quelle cui teneva di più, quindi gli resteremo vicini. Lo faremo, però, sempre nel doveroso rispetto dei ruoli, che sono e restano profondamente distinti. Un conto è la politica, un altro le imprese».
Che rapporto ha con Giorgia Meloni?, chiedo a Marina. E cosa pensa del suo governo? Recentemente si è parlato di tensioni tra la sua famiglia e il primo ministro legate alla vicenda Giambruno...
«In questi giorni ho letto e sentito di tutto: retroscena inventati di sana pianta, ricostruzioni totalmente prive di senso logico e, spesso, anche contraddittorie. La verità è una sola: stimo molto Giorgia Meloni. La trovo capace, coerente, concreta. La apprezzo sul piano politico e la apprezzo molto anche come donna, ancor più in questi giorni. Quando mio padre è scomparso, ho sentito la sua vicinanza alla nostra famiglia, e di questo le sono grata. Per quanto riguarda il governo, ho condiviso varie scelte di palazzo Chigi, a cominciare dalla grande attenzione verso la politica estera in nome di sani e sacrosanti princìpi atlantisti ed europeisti: viviamo una fase drammatica, nella quale è la nostra stessa identità, liberale e democratica, a trovarsi sotto attacco. L'aggressione della Russia ai danni dell'Ucraina e i massacri in Medio Oriente ne sono la dimostrazione più evidente e più atroce. Relativamente alla politica economica, poi, apprezzo la cautela e il senso di responsabilità con cui questo esecutivo sta gestendo i conti pubblici. Indubbiamente ci sono state anche alcune mosse che mi sono piaciute di meno, e non l'ho nascosto. Ma va sempre considerato che il governo si è ritrovato a dover fronteggiare una situazione macroeconomica complicatissima, tra guerra e inflazione, oltre a dover rimediare ad alcune eredità del passato davvero indigeste. Penso, in particolare, ai vari bonus edilizi: facendo i calcoli, pesano sul nostro Paese per una cifra vicina all'importo dell'intero Pnrr».
Un'ultima domanda: chi è stato Silvio Berlusconi?
«Mi lasci usare un'immagine: Silvio Berlusconi è stato un quadro talmente immenso che non esistono cornici che possano contenerlo. Non esistono, cioè, parole per raccontarlo. Di certo è stato un papà meraviglioso; un imprenditore geniale e innovativo in qualsiasi campo si sia impegnato; un politico coraggioso e lungimirante, capace di grandi successi e di rimonte spettacolari dopo le sconfitte. Un uomo affamato di vita: per lui la cosa più importante è sempre stata amare ed essere amato. In definitiva, è stato un uomo eccezionale, al quale oggi persino i principali avversari riconoscono doti eccezionali. Certo, come capita ai grandi uomini, è stato molto amato, ma anche molto avversato. A me ha insegnato il bello della vita. E ha lasciato ricordi dolcissimi, che conserverò per sempre con amore infinito».
Giuliano Ferrara per Il Foglio – Estratti martedì 19 settembre 2023.
Chi lo avrebbe mai immaginato, specie tra coloro che lo avevano descritto come un caimano, uno che incendia le istituzioni quando se ne va per tornare più aggressivo di prima, uno da bloccare con leggi speciali e colpi di stato, l’idea del compianto Asor Rosa, uno che aveva distrutto l’economia italiana e inquinato il sublime equilibrio del capitalismo delle grandi famiglie?
Berlusconi è stato per due decenni e più il simbolo del disordine italiano, la sentina dei vizi nazionali, l’educatore al greed, all’avidità, alla competizione senza scrupoli, all’individualismo che rompe i legami sociali e ogni solidarietà, un eroe negativo da fumetto per la metà del paese che lo detestava e per gran parte dell’opinione coltivata e riflessiva della stampa internazionale. Ora basta pensare alla saga dell’eredità Agnelli o a quella, in altra e minore misura, della famiglia De Benedetti o Del Vecchio, gran ricconi dell’establishment solido, coeso, operoso e soi disant razionale, per rivedere i pregiudizi astiosi sulla famiglia Berlusconi.
L’uscita definitiva di scena del tycoon che ha rivoluzionato il paese, lasciandogli un sacco di insulse ma avvincenti bellurie e l’unica riforma liberale di cui fummo infine capaci dopo centotrent’anni di unità italiana passati in una successione di regimi e consociazioni e dissociazioni senza regole, l’alternanza alla guida dello stato, ha un po’ sorpreso perfino i suoi amici, noi tra questi, figuriamoci la grande orda dei demonizzatori.
(...)
Berlusconi nel ricordo del vero contro l’aura del falso lascia un equilibrio familiare e amicale invidiabile, non era Logan Roy, l’eroe nero della famosa serie, era lo showrunner di una vicenda in cui il management e i figli, con tutte le tremende tensioni della scelta politica, dell’appassionata persecuzione giudiziaria, si sono agglutinati in una cosa seria, in un gruppo lontano dall’idea sciocca della banda, della consorteria predatoria.
Perfino la politica, che è la parte se vogliamo supereroica del personaggio, riceve un lascito ridimensionato rispetto ai tempi d’oro ma consistente, conforme alle premesse moderate d’antan. Il demonio del conflitto di interessi ha lasciato una conglomerata assennata di interessi componibili e composti, di solidarietà e combinazioni che potevano essere inattese dato il suo modo di fare paradossale e egolatrico, dati i suoi pregi incandescenti come i suoi difetti, data la sua tendenza a incorporare nella parabola personale la storia recente di questo paese e addirittura l’antropologia di un’Italia che i suoi avversari e nemici scongiuravano come l’avvento di un regime diabolico e radicalmente insano.
Il Cav. che emerge dalla successione appare invece l’attore di una serie finale di passaggi miti, e molto più regolati e istituzionali di quelli delle grandi famiglie che una volta lo avevano escluso o usato o sinceramente detestato. Sarà la combinazione tra la discrezione leggendaria della prima moglie e madre o dello steinerismo della seconda moglie o del tatto squisito di amici e collaboratori chissà, forse c’entra anche la sua personalità che debordò ma seppe chiuderla come si dice in bellezza, quella parabola.
Fininvest, il 52% a Marina e Pier Silvio. «Totale armonia, stabilità garantita». Storia di Mario Gerevini e Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera lunedì 11 settembre 2023.
Unità e condivisione: su questi binari si sono mossi i figli di Silvio Berlusconi fin dal primo giorno dopo la scomparsa del fondatore di Fininvest, il 12 giugno scorso. E in poco più di due mesi dalla pubblicazione del testamento hanno chiuso in armonia una partita complessa come la divisione di un patrimonio articolato di aziende, soldi e potere. Un’eredità non solo economica. Nella sostanza, l’intero impero — a partire da Fininvest — viene diviso nella proporzione 52%-48%. La prima quota farà capo a Marina e Pier Silvio, divisa in parti uguali, la seconda a Barbara, Eleonora e Luigi (sempre in parti uguali), i figli nati dall’unione tra Silvio Berlusconi e Veronica Lario.
C’è poi una clausola nell’intesa che impegna le parti a non vendere o modificare per cinque anni le quote possedute nelle holding che erano del Cavaliere (61% di Fininvest) e quindi nella stessa Fininvest. Tutti i figli contribuiranno al pagamento, sempre 52%-48%, dei lasciti destinati dal fondatore di Forza Italia al fratello Paolo, a Marta Fascina e a Marcello Dell’Utri. Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi hanno «accettato l’eredità del loro padre interpretandone le ultime volontà in totale armonia per onorarne la memoria con profonda gratitudine, ispirandosi alla sua immensa generosità», hanno scritto i cinque figli in una nota congiunta. «Per effetto di questa accettazione Marina e Pier Silvio - si legge ancora - assumono congiuntamente il controllo indiretto su Fininvest, assicurandone con chiarezza la stabilità e la continuità gestionale».
In pratica, Marina e Pier Silvio continueranno la missione industriale affidata loro dal padre. La prima come presidente della stessa Fininvest e di Mondadori, e il secondo al vertice di Mfe-Mediaset Per tutte le proprietà — inclusa Dolcedrago che possiede le ville di famiglia, da Arcore fino a villa Certosa in Sardegna — resterebbe in vigore il regime di comunione tra tutti i fratelli per almeno cinque anni sempre secondo lo schema che vede Marina e Piersilvio al 52% e i tre più giovani al 48%. Decisa anche una modifica dello statuto delle quattro holding e di Fininvest per aggiornare la governance alla luce del riassetto. I tre più giovani avranno la facoltà di nominare tre consiglieri e un sindaco nel board Fininvest che potrà avere fino a un massimo di 15 membri (oggi è di 12).
Nessuna maggioranza qualificata o minoranza di blocco: in base agli accordi, le decisioni ordinarie e straordinarie verranno prese a maggioranza semplice. L’intesa su questo punto è fondamentale e cementa una governance dove chi governa decide e viceversa. Non ci sono arzigogoli, la chiarezza è un altro tratto distintivo degli accordi. Non sono previsti diritti di prelazione sulle azioni. Ma chi gestisce ha un vincolo: distribuire ai soci almeno il 50% degli utili ogni anno (percentuale normalmente superata negli ultimi anni). È un accordo chiuso in tempi record per una dinastia industriale italiana, mandato in porto grazie al lavoro di un pool di professionisti tra cui il notaio Mario Notari, che ha eseguito l’atto, e i notai Carlo Marchetti, consulente dei tre fratelli minori, e Arrigo Roveda. Sul fronte legale, oltre a Luca Fossati (Studio Chiomenti), che ha assistito Marina e Pier Silvio col supporto di Sergio Erede, anche Ugo Molinari e Carlo Rimini, (per Barbara, Eleonora e Luigi). Alla definizione delle intese ha lavorato “dall’interno” anche l’amministratore delegato di Fininvest. Ora per il gruppo si apre una nuova éra.
Ville, azioni, barche, titoli: i cinque eredi si spartiscono i beni. Eredità Berlusconi: i figli raggiungono l’accordo sulla spartizione del patrimonio. Ecco chi avrà cosa. Vicino l’accordo per la spartizione dei beni. I legali al lavoro per limare i dettagli. I cinque eredi non hanno voluto procedere con il beneficio d’inventario, sicché a breve si giungerà all’intesa finale. Redazione su Il Riformista il 9 Settembre 2023
Dettagli ancora incerti, ma l’intesa c’è: questo emerge nelle ultime ore rispetto all’intesa che i cinque figli, eredi dell’immenso patrimonio di Silvio Berlusconi, stanno per trovare.
Mancherebbero, dunque, piccoli dettagli, ma l’accordo pare sia ad un passo. Dettagli sui quali sono al lavoro i legali dei cinque eredi, ovvero Marina, Pier Silvio, Eleonora, Barbara e Luigi.
I cinque figli di Silvio Berlusconi, dunque, pare siano disposti, secondo le ultime indiscrezioni, ad accettare la loro quota di patrimonio senza usufruire del beneficio di inventario.
Se avessero fatto ricorso a questo espediente di legge, infatti, i tempi si sarebbero allungati e sarebbe stato necessario fare per l’appunto un inventario di tutti i beni: cosa non facile, vista l’ampiezza leggendaria dello stesso.
Le indiscrezioni di chi è vicino alla famiglia Berlusconi dicono, come riporta il Corriere, che Marina e Pier Silvio in qualità di azionisti di maggioranza di Fininvest – con il controllo del 53% delle azioni -, hanno accettato la divisione del patrimonio voluta dal padre.
C’è poi la questione dei lasciti. I lasciti previsti da Silvio Berlusconi, come si è saputo subito dopo la scomparsa dell’ex premier, grazie ad una lettera di suo pugno, ammontano a 100 milioni di euro per il fratello Paolo, 100 per Marta Fascina e 30 per Marcello Dell’Utri
Si sa, inoltre, che Silvio Berlusconi è stato assai preciso nell’indicare chi avrebbe ereditato cosa. Ad esempio, ha voluto assegnare a Marina e a Pier Silvio un terzo del patrimonio ereditario che comprende Fininvest, Mondadori e il 30% di Banca Mediolanum, ma anche tutto il resto.
Berlusconi prese questa decisione già il 2 ottobre 2006 quando era ancora sposato con Veronica Lario, che in quel momento rientrava quindi appieno nell’asse ereditario.
Secondo calcoli approssimativi il valore complessivo dell’eredità sarebbe circa di 4 miliardi di euro, cui vanno ad aggiungersi le favolose ville di Silvio Berlusconi: da San Martino ad Arcore, passando per la Certosa in Sardegna. Proprio relativamente a Villa la Certosa, si sa che una perizia recente la valuta 259 milioni, anche se in passato erano circolate voci di offerte fino a 450.
Queste lussuose proprietà fanno tutte capo a una holding immobiliare, la Dolcedrago, che sarà ripartita fra gli eredi, secondo le proporzioni stabilite: circa 30% ciascuno a Marina e Pier Silvio, e il 13,3% ciascuno a Barbara, Eleonora e Luigi.
Ci sono alcuni immobili di pregio come la dimora storica di Milano-San Gimignano, il villino «Due Palme» di Lampedusa e Villa Campari sul Lago Maggiore. Per quel che riguarda Villa Campari, si parla di un valore che si aggira tra i 600 e i 700 milioni.
Silvio Berlusconi possedeva anche delle barche, naturalmente: su questi ultimi beni vigerebbe un tacito accordo tra i figli di Berlusconi per utilizzarle a turno.
Per quanto riguarda, infine, le opere d’arte e gli investimenti personali, il rapporto dovrebbe essere grosso modo il 60% a Marina e Pier Silvio e il 40% a Barbara, Eleonora e Luigi.
L'adorato "fratellino" tra calcio ed editoria. Una vita insieme: dall'infanzia all'Isola agli ultimi tristi giorni del San Raffaele. Stefano Zurlo su Il Giornale il 7 luglio 2023.
L'estro in famiglia se l'erano divisi equamente: Silvio era il re dei barzellettieri, Paolo un maestro nei giochi di prestigio. Tredici anni di differenza e una vita nel solco del fratello più grande: Paolo è stato il piccolo di casa nella Milano del dopoguerra e una sorta di viceré nelle sterminate province dell'impero creato dal talento di Silvio.
Più volte Paolo ha raccontato con tono divertito la performance che ha indirizzato il suo destino professionale: «Un giorno Silvio entrò in casa e disse a papà: Ho comprato il Giornale, lui rispose che l'aveva già preso lui».
Ma Silvio non era passato in edicola, era andato in redazione.
Nel 1990 la legge impone all'imprenditore di cedere il quotidiano e lui lo affida a Paolo che è seduto su quella poltrona ancora oggi e terrà un piede in via Negri anche nell'era degli Angelucci che comincia in questi giorni. In mezzo tante vicende: fra tutte l'addio, fra feroci polemiche, di un monumento come Indro Montanelli e l'inizio di un nuovo corso con Vittorio Feltri.
Non due fratelli intercambiabili ma sempre contigui: questi sono i Berlusconi. Vite tumultuose, matrimoni e divorzi, il perenne accerchiamento di un pezzo della magistratura italiana per entrambi.
Via Negri non è una succursale di Arcore, ma i due continuano ad affiancare le attività e talvolta a mischiarle. Stessa passione per il settore immobiliare e una mini epopea nel mondo del calcio: Silvio compra il Milan, scende dall'elicottero sul prato dell'Arena e rivoluziona il football, Paolo è per un breve periodo vicepresidente del club che fa una scorpacciata di titoli; poi nell'ultima stagione diventa il presidente del Monza.
Qualcuno pensa che quest'avventura sia solo la pallida e malinconica riproposizione dei fasti degli anni Ottanta e certo quella resta un'epoca insuperabile, ma l'exploit del Monza, fatti i debiti paragoni, non è da meno: conquista per la prima volta nella sua storia la serie A, provocando quasi un infarto ad Adriano Galliani per cui la squadra è stata una religione, poi nell'ultimo campionato si difende alla grande e chiude in modo sorprendente a centro classifica.
Una vita insieme, dall'infanzia all'Isola fino alle ultime visite struggenti al San Raffaele. Paolo soffre, va a trovare il fratello con regolarità svizzera e forse è fra i pochissimi che si preparano, per quanto possibile, all'inevitabile.
Estratto dell'articolo di P.B e F.Man. per “la Repubblica” il 29 giugno 2023.
«Sono figlio di mio padre». È la chiosa finale, ma in realtà suona come la più identitaria e orgogliosa delle presentazioni.
Un’introduzione fortemente voluta, l’attestazione del marchio di fabbrica “B”. Ecco dunque passioni, dettagli inediti e qualche precisazione dalla viva voce di Pier Silvio Berlusconi, in un momento tutt’altro che banale per lui, la sua famiglia e il gruppo Fininvest. Un gruppo dove presumibilmente il secondogenito del Cavaliere avrà presto un ruolo ancora più rilevante .
L’antefatto è l’articolo apparso su Repubblica il 26 giugno, che raccontava, tra pubblico e privato, i cinque eredi della dinastia Berlusconi. Pier Silvio, figlio di Carla Dall’Oglio assieme alla sorella Marina, dal 2015 amministratore delegato di Mediaset (nel 2000 viene nominato vicepresidente), lo ha letto e in risposta ha mandato al nostro giornale una garbata e sintetica serie di punti che di fatto ne tracciano un autoritratto intimo.
A cominciare dal fisico, come è universalmente noto un fisico palestratissimo, che gli fruttò in tempi passati anche la copertina di Men’s Health . «Non sono “in fissa” con il fisico», spiega l’ad di Mediaset, per poi chiarire subito che la questione è ancora più profonda: «Ho una vera dipendenza dalla fatica fisica, è così da quando ero piccolo e facevo agonismo. Mi nutro di fatica, l’esercizio fisico per me è liberatorio». E, a proposito di libertà, ecco uno squarcio inedito di una vita che si presume blindata: «Quando faccio Sup d’inverno sperando di avvistare un branco di delfini o quando corro in Corsica tra mare, pineta e deserto provo una libertà che diventa quasi un’esperienza spirituale».
Il corpo, comunque, resta centrale nella rappresentazione che Pier Silvio dà di sé stesso. Così, nella fatica di cui dice di nutrirsi c’è anche la corsa, ma – ci tiene a dire «non possiedo e non uso mai contapassi e contacalorie. Sono un tipo “vecchio stile”». Lo stesso per la bici, «rigorosamente non elettrica», mentre nega categoricamente di usare uno scooter nei suoi spostamenti attorno alla casa di Portofino quando, finiti gli impegni di lavoro a Milano, torna a Villa Bonomi Bolchini, dopo l’atterraggio all’eliporto di Rapallo. Circostanza questa che – spiace contraddirlo – è stata riportata da fonti assolutamente degne di fede.
Allo stesso tempo l’erede di sicuro più sportivo tra i cinque del Cavaliere, si vede come tutt’altro che ascetico: «Non sono ipersalutista. Fumo il sigaro e mentre faccio sport pregusto il buon cibo che mangerò subito dopo, vino rosso, cioccolato, noccioline…».
L’ad di Mediaset, che tra qualche giorno erediterà un quinto – o forse più – di una fortuna familiare valutata attorno ai sei miliardi, spiega anche come percepisce il suo carattere.
«Riservato sì, timido no. Ovunque io vada faccio amicizia con tutti. I miei figli mi prendono in giro: “Adesso papà attacca bottone e parla per un’ora”». E conferma che agli appuntamenti mondani spesso preferisce quelli con i genitori dei compagni di scuola dei figli: «Non è che non amo il jet set, ma adoro il rapporto con la gente comune. Parlare con le persone mi piace moltissimo e mi dà calore». Perché, appunto, «sono figlio di mio padre».
(...)
Estratto dell’articolo di Francesco Manacorda e Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 26 giugno 2023.
Raccontano che ad uno degli ultimi pranzi di famiglia nei lunedì a Villa San Martino – Berlusconi convalescente post dimissioni ospedaliere – ci fosse un clima […] un modo per infondere buonumore al patriarca […] Sta di fatto che gli Eredi si erano allineati – cosa non sempre riuscita in passato – per alleviare con sorrisi e battute il calvario del padre.
Introdotto da Barbara, la più ironica e brillante, qualcuno aveva persino osato l’inosabile: un paio di contro-barzellette per sfidare quello che dei barzellettisti si considerava un fuoriclasse. E che, ovvio, aveva prontamente ribattuto[…] Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora, Luigi. Fratelli, e guai a chiamarli fratellastri. […] Due madri, e il più ingombrante dei padri possibili.
I “berluschini”, ovvero gli opposti che (non) si attraggono. […] adesso, quando finalmente verrà aperto il testamento che decide le sorti di un intero sistema di vita e potere, i due rami della discendenza – Marina e Pier Silvio da una parte, Barbara, Eleonora e Luigi dall’altra – rischiano di veder incrinati quegli ultimi momenti di concordia […] Madri diverse, ma soprattutto storie – e poteri – diversi tra i due rami della famiglia.
Marina e Pier Silvio hanno da anni un ruolo forte in azienda. Lei alla guida di Mondadori e al vertice della finanziaria di casa Fininvest, lui al timone di Mediaset. Un privilegio? Di sicuro una scelta paterna, riflesso anche di altre decisioni che ai due primi figli devono essere pesate non poco: come quella degli studi “blindati” per paura di un rapimento, del terrorismo […] Così né Marina né Pier Silvio, che ha addirittura trascorso gli anni del liceo studiando a casa con i precettori e un amico come solo compagno di classe, non si sono laureati.
Storia opposta, scuola steineriana compresa, per i tre figli di Berlusconi e Veronica Lario, che hanno concluso i loro studi chi alla Bocconi, chi in un’università Usa, chi all’Università San Raffaele, proprio come si addice a rampolli della miglior Milano. Eppure, nonostante le competenze […] nessun ruolo in azienda. Un quadro che non pare destinato a cambiare nemmeno quando davanti al notaio Attilio Roveda l’assetto della successione sarà noto.
Impensabile, infatti, che Marina e Pier Silvio lascino le loro cariche manageriali; assai improbabile che per gli altri tre si apra una strada simile. Anche perché tra Mondadori, Mediaset e Mediolanum, si parla di società quotate, con procedure precise da rispettare. Sarà allora il turbinare delle holding di famiglia a decidere chi vince e chi perde. In sintesi, oggi Marina e Pier Silvio hanno il 7,65% ciascuno di Fininvest, gli altri tre figli ne controllano assieme il 21,4%. Se nel testamento del Cavaliere il suo 61,2% fosse diviso in parti uguali, poco più del 12% a ciascuno dei cinque eredi, Barbara, Eleonora e Luigi avrebbero la maggioranza di Fininvest. Se nell’atto fosse disposto diversamente, dividendo in parti uguali solo i due terzi di quel 61,2%, e ripartendo in altro modo il terzo rimanente, le cose potrebbero cambiare molto.
PIER SILVIO
Pier Silvio […] dei cinque figli, è da sempre quello più “in fissa” con il fisico. Palestrato da culturista, atletico (finì in copertina su Men’s Health). Ovunque si trovi c’è anche una palestra e un posto per correre, in barca il tapis roulant. Le passioni, dunque: fitness e pesi, running, auto sportive, mare e nautica. Calcio, zero. Nel privato Pier Silvio è un soldato degli allenamenti e della dieta proteica, un padre di famiglia e un pilota. […]
[…] Contapassi e contacalorie sempre al polso, spuntino ogni tre ore; i pasti a base di riso, pollo, pesce e verdure. Riservato, anche timido, alle discese in una delle piazzette più amate dal jet set, Pier Silvio preferisce le pizzate e i pic nic con i genitori dei compagni di scuola dei figli. Che frequentano scuole pubbliche e vivono la comunità fuori dalle torri d’avorio. Segni di discontinuità?
[…] Non un anfitrione, “Pier”. Piuttosto un talebano del lavoro dai modi delicati. E un pratico. Resterà agli atti il messaggio ai dipendenti Mediaset nello studio 20 di Cologno Monzese dopo il funerale: «Da domani, però, noi facciamo un click e torniamo a essere un’azienda viva, piena di energia e forza, come è stata tutta la vita».
MARINA E LA MAGA
Lo studio non è lontano dei Navigli. Una delle zone della movida milanese. No, non è l’ufficio di Marina Berlusconi. Ma quello di una delle persone di cui la primogenita del Cavaliere si fida di più. Una fiducia larga, granitica. […] Una persona che MB interpella prima di prendere decisioni importanti. Che riguardino vita o lavoro, non cambia. […] si chiama Teresina. “Maga” non usa più dire, troppo cheap. Una “collaboratrice” per gli affari personali.
A cui Marina si rivolge da molto tempo, e come lei – pare – anche altri clienti vip i cui nomi restano top secret. […] Arte e moda. Sono le due isole di Marina quando stacca dagli impegni di lavoro e dai due figli che ha avuto dal marito ed ex ballerino della Scala Maurizio Vanadia. […] è anche la figlia a cui Berlusconi si era sempre appoggiato, forse la vera delfina, e c’è infatti chi la chiamava scherzosamente “Silvia”, […]
BARBARA LA RIBELLE
C’è stato un tempo in cui una Berlusconi, già studiosa dell’ermeneutica del Corano, affermava che civiltà occidentale e civiltà islamica «hanno pari dignità». Scontato? Forse. Ma non quando l’Occidente iniziò a conoscere l’incubo del terrorismo islamista.
Era il 2005 e la ventenne Barbara Berlusconi, in un’intervista a Repubblica, tracciava un autoritratto stile “Jack frusciante è uscito dal gruppo”. Barbara, la “ribelle”, […] è ancora oggi la berluschina che ha rotto, in parte, il tetto dei tabù e dei cliché. Il calco perfetto di mamma Veronica Lario.
“Femminista” a modo suo […] ha sempre rivendicato una sua totale autonomia di pensiero. Quando nel 2013 papà le affida il Milan – è nominata vicepresidente e amministratore delegato del club “con delega alle funzioni sociali non sportive” - non occorre attendere le dimissioni di Adriano Galliani – furioso per le critiche ricevute dalla rampolla - per capire che l’allora non ancora trentenne Barbara, nell’universo maschiocentrico del calcio e del potere di B., da dirigente sportiva avrà vita complicata.
[…] Negli annali del pallone e dintorni resterà quel vecchio fidanzamento con l’ex giocatore brasiliano del Milan Alexandre Pato. Oggi, a 39 anni e cinque figli avuti da due compagni, Barbara vede ancora i vecchi amici del Collegio Villoresi San Giuseppe di Monza dove nel 2003 conseguì il diploma di liceo classico. Nello stesso anno, entrò nel cda di Fininvest.
Lontani i ricordi gossippari, lontano l’imbarazzo per le fotografie che ammise di avere fatto «ritirare» per 20 mila euro, tramite papà, da Fabrizio Corona, scatti che la ritraevano fuori dall’Hollywood, tempio delle notti milanesi. Barbara oggi «non frequenta». Abita a Macherio con prole e compagno in una casa accanto a quella di mamma Veronica. […] Fa la mamma. «Non mi piacciono i reality tv». Anche qui, controcorrente: lo disse quando imperversavano le Isole dei Famosi e i Grandi Fratelli.
[…] Dicono abbia da sempre un rapporto di grande affetto con Gianni Letta, di cui ammira la saggezza. Ammirava anche Bertinotti. Il suo modello di statista? «Cavour». Quando le chiesero se avesse sempre votato Forza Italia confermò senza indugi. […]
ELEONORA L’INVISIBILE
Eleonora, o dell’arte di rendersi invisibili. Mai un’uscita pubblica, mai una voce, zero rumors. Visibile solo per i look […] di EB non si mai letta quasi una riga. Riservata e impenetrabile a tal punto che nemmeno Wikipedia è riuscita a tirarci su una paginetta. «Si fa i fatti suoi, la sua vita è la sua vita, ama il mare e stare con i figli», racconta chi l’ha vista crescere a villa Belvedere a Macherio. Tre figli. Avuti dal modello inglese Guy Binns […]
A 23 anni Eleonora è andata a New York a studiare business management alla Saint John University. Eppure, è l’unica a non sedere nel cda Fininvest. Con Barbara sono molto unite e […] ha sempre preso le parti di Veronica, questo è certo, soprattutto quando i rapporti tra l’ex attrice teatrale e Silvio Berlusconi sono diventati burrascosi. […] Di lei si sanno poche cose. Che ama gli animali (ha tre cani e in passato si è presa cura di un falchetto, circola voce che in casa ci sia anche un serpente). Che ha studiato recitazione a New York. Che non ha mai lasciato i figli soli davanti alla tv perché trova che la tv – nonostante il business di famiglia - possa essere anche molto diseducativa.
LUIGI LA PROMESSA
Le missioni a Lourdes con i volontari dell’Ordine di Malta. In incognito come quando, dopo la Bocconi, lavorò in JP Morgan prima di entrare nella Sator di Matteo Arpe. Nella vita di Luigino Berlusconi detto (da papà) “il pretino”, c’è un punto di caduta: quando sulla passione per il Milan inizia a prevalere quella per gli affari, la finanza, i soldi. Un’attitudine in forza della quale […] potrebbe essere lui, Luigi, il vero e naturale erede, anche se non subito.
[…] Più il papà si è cacciato sotto i riflettori, più Luigi se ne è tenuto a distanza. Un understatement di rito ambrosiano, come si confà a chi ha imparato che il vero potere finanziario non prevede frivolezze né mollezze. Ha deciso di blindare la sua vita come dentro la grisaglia che sempre indossa sul lavoro (pure all’ultimo saluto al padre): il matrimonio con Federica, figlia di un imprenditore tessile di Lecco, nella chiesina di San Sigismondo, in Sant’Ambrogio. […]
Uno dei più vicini è il suo maestro di Ju Jitsu, arte marziale che Luigino pratica da anni con lo stesso rigore con cui regge i cordoni degli investimenti. Suoi e delle sorelle. Start up innovative e creative, ma anche Grindr, social di appuntamenti gay israeliano. Quando creò la Fondazione Opsis Onlus, che finanzia progetti sociali, decise di comparire non con il suo cognome ma con quello della madre, Bartolini. […] Luigi non ha mai sopportato di essere considerato uno che ha solo avuto la fortuna di essersela trovata pronta e cucinata. «Sono grato a mio padre per tutto, ma voglio dimostrare le mie capacità », ripeteva qualche anno fa. Poi il “pretino” ha iniziato a spingere il piede sull’acceleratore […]
Dagospia il 26 giugno 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile redazione,
In riferimento all’articolo pubblicato oggi su Repubblica dal titolo “Fratelli diversi” e da voi ripreso, ci tengo a precisare che so di poter contare nel mio lavoro su ottimi collaboratori, tutti dotati di solide competenze finanziarie e di una approfondita conoscenza del business. Nè tra costoro, però, nè per quanto riguarda la mia vita privata, esiste alcuna maga, né di nome Teresina, né di nessun altro nome.
Un cordiale saluto, Marina Berlusconi
Estratto dell'articolo di Piero Colaprico per “la Repubblica” il 18 giugno 2023.
Alla procura della Repubblica di Milano, nella lontana e sempre più rivisitata era di Tangentopoli (1992), lo chiamavano “Berluschino”. Essere il fratello minore di un essere umano dilagante e primeggiante in vari campi come Silvio Berlusconi, appare complicatissimo.
Eppure, Paolo Berlusconi, 73 anni, 13 in meno del numero 1, non ha mai perso un’innata tenerezza, un sorriso contagioso, una gran voglia di vivere e divertirsi. Non è ancora stabilito che possa prendere lui in Senato lo scranno di Silvio, morto, come il mondo intero sa, lunedì scorso. Ma sinora non è stato escluso dai vertici di Forza Italia. E se ci fosse bisogno, non direbbe mai di no. Sarebbe la prima volta.
È dal lontano ’63 che Paolo è socio di Silvio in Edilnord, il primo pilastro dell’impero del Biscione. Ma si è sempre tenuto lontano dal proscenio. Ce l’aveva fatta sino all’inchiesta Mani Pulite. Quando (1994) gli tocca ammettere le tangenti pagate da Edilnord per realizzare – al posto di un milione e mezzo di metri quadri di marcite, con tanto di castello medievale - il Golf club di Tolcinasco, con appartamenti di lusso.
Spiega che è stato lui ad avviare le corruzioni - un miliardo e 300 milioni (in lire) di mazzette a favore di politici e amministratori pubblici di Pieve Emanuele, paese alle porte di Milano - attraverso un manager del gruppo, l’ex comunista Sergio Roncucci. Uno che era stato presentato da Silvio a papa Giovanni Paolo II con sobrie parole: «È un comunista che abbiamo convertito».
[…] aveva già conosciuto i pubblici ministeri nell’inverno del ‘92 per le tangenti pagate per le discariche (all’uscita, per evitare i fotografi, si lanciò dentro il portabagagli di un pulmino Fiorino guidato dai carabinieri). E ci avrebbe avuto a che fare anche per le tangenti pagate dal gruppo per corrompere la Guardia di Finanza, attraverso il ragionier Salvatore Sciascia, fiscalista di fiducia, reo confesso e poi eletto senatore sotto le bandiere di Forza Italia.
Insomma, come Marcello Dell’Utri e come Cesare Previti, anche Paolo è uno dei fedelissimi di Silvio a finire nelle maglie della giustizia. E appare ormai preistoria anche un’altra vicenda emblematica. Siamo ad Arcore, alla vigilia di Natale del 2005. Pochi mesi prima c’era stata la scalata della Unipol alla Banca nazionale del lavoro. La società incaricata dalla Procura di effettuare le intercettazioni sull’affare non rispetta alcuna riservatezza. Ma non nel senso inteso dai garantisti.
Il top manager Luca Raffaelli ha copiato su una chiavetta la conversazione tra Piero Fassino, allora segretario Ds, e Giovanni Consorte di Unipol. E, attraverso un amico, un imprenditore e bancarottiere, raggiunge Paolo Berlusconi, quindi il fratello maggiore. Il quale «ci ha chiesto di fargli ascoltare quella cosa». Poi «ha aperto improvvisamente gli occhi è ci ha detto: grazie, la mia famiglia vi sarà grata in eterno». Poco dopo, su “il Giornale”, uscirà l’intercettazione illegale, nella quale Fassino dice: «Allora abbiamo una banca?». Fassino verrà risarcito, quasi tutti saranno prescritti, l’unico a pagare con la condanna resterà il volenteroso Raffaelli.
È da oltre mezzo secolo che Paolo si dà fare, come sa e come può per il gruppo, e l’ombra giganteggiante di Silvio, se un po’ l’ha oscurato, certamente l’ha protetto. Ogni volta che Silvio ha avuto problemi, Paolo c’era. Un grande affetto lo legava al primogenito.
Amministratore del Giornale, di recente venduto agli Angelucci, e socio del Foglio, due matrimoni d’amore, tre lunghe convivenze (con Katia Noventa, presentatrice; Natalia Estrada, show girl e ora titolare di un maneggio di cavalli; con l’attrice e imprenditrice Carolina Marconi) e un nuovo amore – si dice – con un’altra bellissima (e più giovane di trent’anni), Paolo ha avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Supertifoso del Milan, l’anno scorso era il presidente del Monza che approdava in serie A. [...]
Berlusconi, da Marina a Luigi. Le storie (diverse) dei cinque figli del Cavaliere. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 15 Giugno 2023
Eleonora, la più schiva. Luigi, il mago della finanza. La primogenita è la più vicina al Cavaliere. Barbara e il suo passato nel Milan. Pier Silvio e il suo ringraziamento ai dipendenti Mediaset
Tutti insieme nella villa di Arcore e poi di fronte al feretro del padre. Sono molto diversi tra loro i cinque figli di Silvio Berlusconi, ma hanno sempre cercato di dare (almeno all'esterno) un'immagine di unità.
Marina Berlusconi
«È un martello pneumatico». Alla definizione di Fedele Confalonieri, che risale all’epoca in cui per la prima volta aveva fatto ingresso al trentaseiesimo posto nella classifica delle donne più potenti del pianeta compilata da Forbes (era il 2004, il ranking era guidato da Condoleezza Rice), Marina Berlusconi è ancora affezionata.
Se non esistono in natura figli prediletti, ma figli più simili ai genitori sì, ecco, la primogenita è senz’altro la più vicina al Cavaliere. Non certo per l’indole - una barzelletta, oltre che non raccontarla, sua sponte non l’avrebbe neanche mai ascoltata - quanto per quel mix di tenacia e dedizione che fin da ragazza ha applicato agli affari paterni.
Già nella seconda metà degli anni Ottanta, appena ventenne, è la prima ad arrivare alle riunioni che contano: si siede in disparte, tira fuori dalla borsa il bloc notes e prende appunti. L’arte di usare la forbice per risanare i conti la impara alla scuola di Franco Tatò; la creatività applicata al mondo del business, invece, è un lascito degli anni passati accanto a Bruno Ermolli.
Alla guida di Mondadori, che oggi sfiora il miliardo di fatturato, Marina ha sempre escluso – qualche volta anche pubblicamente – un suo impegno in politica.
Allergica allo strapotere di Marcello Dell’Utri nelle aziende e poco incline ad andare d’accordo con la matrigna Veronica Lario, ha assistito negli ultimi vent’anni all’uscita di scena di entrambi.
L’ascesa di Marta Fascina nel regno di Arcore si deve allo stretto rapporto con lei, testimoniato da ultimo dall’ingresso mano nella mano ai funerali del padre.
Pier Silvio Berlusconi
Nella biografia di Pier Silvio Berlusconi, classe 1969, c’è un prima e un dopo separati da un anno preciso: il 1990.
È l’anno in cui, appena ventunenne, diventa papà di Lucrezia Vittoria, nata da una relazione con Emanuela Mussida.
Prima del 1990, è «il Dudi», il rampollo numero uno dell’ultima Milano da bere, che riempie il pomeriggio di telefilm americani («Andava matto per Hazzard», ricorda Carlo Freccero, di cui infatti Fininvest comprò i diritti) e la sera di uscite con gli amici, che porta anche negli studi dove registrano Drive In.
La carriera di studente di filosofia si chiude a seguito di un incidente in motorino alle Bermuda.
Come se fossero due personaggi con un unico interprete, calato il sipario degli anni Ottanta, Pier Silvio prende il posto del Dudi.
Sveglia alle 7, giornali, sport, alle 9 è già a Cologno e non viene via se non s’è fatta mezzanotte. Nel 1998, insieme a Marina, sventa ogni possibilità di cessione dell’impero televisivo a Murdoch.
Un quarto di secolo dopo, uscito dai funerali del padre, è nello Studio 20, a ringraziare commosso tutti i dipendenti Mediaset per la vicinanza e lo sforzo produttivo profuso per la morte del fondatore. «Da domani facciamo click e torniamo a essere un’azienda viva, piena di energia e forza, com’è stata tutta la sua vita».
Barbara Berlusconi
«L’ho conosciuta come studentessa. Ragazza bravissima, appassionata e di una modestia assoluta». Stavolta la definizione non arriva dall’interno dell’universo berlusconiano ma da fuori, molto fuori. Così nel 2013 Massimo Cacciari definiva Barbara, la terzogenita, la più grande dei figli che Berlusconi ha avuto con Veronica Lario, laureata in filosofia con 110 e lode all’Università Vita-Salute San Raffaele, nella facoltà di cui l’ex sindaco di Venezia era stato fondatore e primo preside.
Dei cinque figli, Barbara è forse quella meno simile al padre, quella che gli ha più tenuto testa. La prova è nell’intervista rilasciata nel 2006 a Daria Bignardi, per il programma Le invasioni barbariche, su La7. «Che programmi di Mediaset non faresti vedere ai tuoi figli?», le chiede l’intervistatrice. E lei: «Buona domenica e i reality. (…) Non mi piace neanche il Bagaglino. (…) Ci vuole buon senso nell’uso del mezzo televisivo». Costanzo ci rimane male, il padre (forse) anche.
Nella stessa intervista, mostrerà apprezzamento per Fausto Bertinotti («È un politico che stimo») e confesserà di aver rifiutato la proposta del padre di entrare in Forza Italia («Non mi sono sentita pronta»).
Resta, a oggi, l’unica figlia di Berlusconi ad aver perso il posto causa cessione attività: era vicepresidente del Milan quando la squadra venne venduta, nel 2017.
Eleonora Berlusconi
Dei cinque figli di Silvio Berlusconi, Eleonora è senz’altro la più schiva.
Secondogenita di Veronica Lario, classe 1986, è talmente allergica alle attenzioni pubbliche che pur di evitarle decide nel 2009 di andare a studiare Business management alla St. John University, a New York.
Le prime foto che escono sui giornali le vive come un mezzo incubo. «Mi sono sentita in imbarazzo perché sono una persona riservata e non amo comparire in pubblico», aveva dichiarato nell’unica intervista mai concessa, tra l’altro insieme alla sorella Barbara, a Vanity Fair.
Tanto per dirne una: una sera i buttafuori della discoteca in cui è in fila per entrare le chiedono se fosse la figlia di Berlusconi. Lei risponde che no, «la figlia di Berlusconi è quella lì!». E indica un’amica.
Molto legata alla mamma, infatti dicono che sia l’erede più affine al carattere di Veronica Lario.
Luigi Berlusconi
Quando le telecamere lo riprendono per la prima volta accanto al padre, intervistato su un divano di Arcore mentre celebra con un’intervista a Italia Uno lo scudetto del Milan di Fabio Capello a conclusione di una stagione senza sconfitte, Luigi Berlusconi è il fanciullo di quattro anni più invidiato dai bambini italiani. Quantomeno da quelli che sono appassionati di calcio e tifosi rossoneri.
Il Milan, da ragazzo, è in cima alle passioni del terzogenito del Cavaliere e di Veronica Lario; la televisione, invece, lo attrae molto meno. Svanito il Milan ed esclusa la televisione, Luigi pesca la carta numero tre, quella in cui – dicono gli amici – è un autentico mago: la finanza.
I primi attrezzi del mestiere li prende in prestito da Matteo Arpe; anche se, nel consiglio di amministrazione di Mediolanum, era già entrato nel 2007, poco più che maggiorenne.
I frequentatori di Arcore lo definiscono un berlusconiano eterodosso, tutt’altro che dogmatico, capace di dire questo sì e questo no, senza schermi precostituiti.
È la testa d’uovo che gestisce di fatto il patrimonio dei figli di secondo letto, abituato a muoversi a fari spenti, senza dare punti di riferimento.
Quando sa che la storica segretaria del padre, Marinella Brambilla, è stata estromessa da Villa San Martino, alza il telefono e la assume lui.
Da corriere.it Dagospia il 13 giugno 2023.
Pier Silvio Berlusconi, secondogenito dell’ex premier Silvio Berlusconi, ha scritto e inviato martedì mattina un’e-mail ai dipendenti Mediaset, dopo la morte del padre. La pubblichiamo per intero.
Cara Mediaset, carissimi tutti,
sento il bisogno di scrivervi perché so quanto era importante per mio padre farvi sapere l’amore e il grande orgoglio che ha sempre provato per la nostra azienda e per tutti noi.
Non ci sono parole per descrivere la mia emozione ogni volta che mi diceva “Sono orgoglioso di te e di quello che fai”. E io ho sempre saputo benissimo che si rivolgeva a tutti noi: io da solo non avrei potuto fare nulla. Nulla.
È stato un uomo che ha dato tanto, tantissimo. Che ha creato tantissimo. E ha sempre considerato la nostra azienda come una sua amatissima creatura. Il mio papà, il nostro fondatore, vi ha sempre amato tutti, uno per uno. E adesso il nostro dovere è seguire la sua impronta indelebile, lavorare, lavorare, lavorare. Con entusiasmo e rispetto.
Oggi dobbiamo guardare avanti e impegnarci ancora di più, sempre di più. Dobbiamo costruire un Gruppo ancora più forte e ancora più vivo.
Lo dobbiamo fare per Mediaset.
Lo dobbiamo fare per tutti noi.
Ma soprattutto lo vogliamo fare per lui.
Vi abbraccio forte.
Siete nel mio cuore.
E sarete per sempre nel suo cuore.
Pier Silvio
Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” Dagospia il 13 giugno 2023.
Marina Berlusconi e Veronica Lario, una figlia per amica e una moglie per nemica. […] Marina, l'erede, non si accontenterà dell'Italia del dolce necrologio. Vuole quello che non otterrà: il famoso cambio d'epoca, e cioè che «la verità storica cominci finalmente ad essere letta senza le lenti deformanti del pregiudizio e dell'odio». […] Anche Veronica non si accontenterà dei pensieri puliti del giorno del lutto.
Sono suoi tre dei cinque figli, Barbara, Eleonora e Luigi, e 10 dei nipoti che in tutto, compresa la pronipote, sono 16. E nelle foto di famiglia si possono riconoscere due mondi e due stili che […] non si somigliano tra loro […] Alcuni diventeranno donne e uomini adesso, accanto a una bara, nel funerale-manicomio che sarà ovviamente berlusconiano e dove tutti esigeranno ottime poltrone accanto alla famiglia […] E Veronica? Dove sarà Veronica?
[…] Marina e Veronica, dunque. La figlia padrona e la ex moglie sono le sole che, nel mondo più maschilista d'Italia, avevano già rotto il soffitto di cristallo quando la metafora non voleva ancora dire nulla. […] Anche Marta Fascina, l'ultima badante sessuale, l'ultima lupa che chissà cosa gli ha fatto firmare, padrona del partito, padrona della vita, padrona di tutto, come nella canzone di De André, «per sentirsi dire micio, bello e bamboccione». […]
[…] potete giurarci che la figlia guardiana continuerà a difenderlo come qualsiasi padre sogna di essere difeso da una figlia. Con la tenacia e la passione che tutti le riconosciamo, Marina ha già negato che, guardandolo troppo da vicino, vede male il padre per il quale stravede. […] E però se da vivo se lo portava sulle spalle come Enea portò Anchise, adesso che è morto, la figlia rischia di diventare più occhiuta e tenace di prima: non la custode, ma la prigione della sua memoria. È capitato spesso alle figlie femmine dei grandi italiani con qualità smodate di fare al padre questo torto d'amore.
Marina potrebbe sfuggire alla trappola che, come un destino e come una banalità, l'attende? Ha, nientemeno, la Fininvest e la Mondadori e, indirizzando gli studi su papà Silvio, potrebbe avvicinarci alla verità oppure correggendo, premiando e rettificando potrebbe allontanarci dalla verità di quell'uomo che da oggi appartiene alla storia d'Italia e non più a lei e alla famiglia Berlusconi.
In fondo, se ci pensate, è la capofamiglia di una famiglia che non è esagerata, non è vero. Cinque figli e 16 nipoti non sono grandi numeri nelle dinastie del capitalismo, specie se li si confronta con i numeri della cassa di casa che sono circa quattromila milioni. […] non c'è una sola grande famiglia del capitalismo italiano che, dopo i lutti, non abbia affidato i sentimenti ei risentimenti agli avvocati e alla carte giudiziarie. E si può dunque dire che la fine è nota: da un lato ci sarà una guerra tra storici d'Italia e dall'altro un guerra tra avvocati d'Italia.
Marina e Veronica dunque, con la figlia che vuol cambiare la storia che la ex moglie cambiò nel gennaio del 2007, quando scrisse a Repubblica una lettera di denunzia che era anche una lettera d'amore […] amore ferito e probabilmente amore già finito […] La signora Berlusconi, chiedendo rispetto per sé, lo chiedeva anche per lui. E fu l'ultimo e anche il più serio tentativo di salvarlo da se stesso: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata”.
Veronica difendeva in sé stessa anche Berlusconi perché era ancora berlusconiana, anche se di un berlusconismo ingentilito. […] È anche la donna alla quale più che alla sinistra, allo spread, a Merkel, a Sarkozy ea tutti i diavoli rossi del mondo, Berlusconi attribuì la fine dei suoi governi, la fine di un'epoca, e proprio a partire da quella lettera a Repubblica.
Qualche notte prima, durante la cerimonia per la consegna dei Telegatti, Berlusconi aveva detto a Mara Carfagna di essere pronto a sposarla subito, se non fosse già stato sposato. «A mio marito e all'uomo pubblico — scrisse Veronica — chiedo pubbliche scuse non avendone ricevuto privatamente e chiedo se debba considerarmi la metà di niente».
E ancora: «Devo dare alle mie figlie l'esempio di una donna che sa tutelare la propria dignità. E voglio aiutare mio figlio a mettere il rispetto per le donne tra i suoi valori fondamentali».
Cominciò così l'epopea di Noemi, di Ruby e delle Olgettine fino alle belle badanti e alla finta moglie Marta Fascina, appunto, sposata “per finta” che nel mondo di Berlusconi voleva dire “per davvero”. Le Olgettine divennero una sigla, un toponimo, le impiegate di concetto del famigerato bunga bunga […] Fellini lo girerebbe così il funerale: la processione sino al mausoleo di Arcore di tutte le sue donne finte e dunque vere, tutte vestite di bianco e con la stessa faccia, diecimila donne che sono tutte la stessa donna, benedette da loro due, la figlia e la moglie, quelle vere e dunque finte.
A Veronica Lario furono assegnati un milione e quattrocentomila euro al mese, ma la Cassazione dopo alcuni anni le tolse il vitalizio e le impose di restituire sessanta milioni a Berlusconi. È vero che sono disputa tra ricchi, anzi tra ricchissimi e forse quella montagna di danaro sporca la favola etica della donna tradita che i giornali di gossip dell'ex marito trattarono con la volgarità dei paparazzi che la inseguivano per mostrare quanto era ingrassata e quanto tramontava in quella donna bella e orgogliosa e quanto quegli occhi intensamente espressivi erano diventati segretamente dolenti: informazione, gossip o macchina del fango? […]
La discendenza dell'ex premier. Chi sono i cinque figli di Berlusconi: da Marina a Luigi, la famiglia del ‘patriarca’ e i 16 nipoti. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2023
Due matrimoni, cinque figli, sedici nipoti. “Mi sento un patriarca” aveva rivelato Silvio Berlusconi nel corso di una intervista con Alfonso Signorini pubblicata anni fa dal settimanale “Chi”. L’amore per le donne e, soprattutto, quello per la famiglia, l’ex premier lo ha imparato da mamma Rosa.
Due matrimoni finiti in divorzio, il primo con Carla Elvira Lucia Dall’Oglio da cui ha avuto due figli; il secondo con Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Bartolini, da cui ha avuto tre figli.
Chi sono i figli di Berlusconi
La più grande è Maria Elvira, da tutti conosciuta come Marina e figlia assieme al fratello Pier Silvio del primo matrimonio di Berlusconi con la prima moglie Carla Elvira Lucia Dall’Oglio. Ha 57 anni (classe ’66) e come altri fratelli e sorelle ha un ruolo di primo piano nelle aziende del padre: è infatti la presidente di Fininvest (di cui controlla l’8% delle azioni), del gruppo Mondadori editore e siede nei consigli di amministrazione di Mediaset e Mediobanca. Da tempo inoltre viene periodicamente indicata come una dei consiglieri più ascoltati dal padre anche per questioni politiche, e per questo indicata come possibile nuova guida di Forza Italia, ipotesi da lei sempre smentita.
Marina, diventata mamma di Gabriele e Silvio, nel dicembre 2008 ad Arcore si sposa con il compagno Maurizio Vanadia, ex ballerino e attualmente vicedirettore della scuola di ballo dell’Accademia della Scala.
Il secondogenito Pier Silvio: ha 54 anni (classe ’69) ed è amministratore delegato e vicepresidente esecutivo del gruppo Mediaset, di cui è spesso in prima linea anche nella presentazione dei palinsesti: come Marina possiede l’8% delle azioni Fininvest ed è amministratore delegato e presidente di Reti televisive italiane, la società di Mediaset che esercita tutte le trasmissioni del gruppo. Di lui negli anni si sono occupate anche le riviste di gossip per la relazione con Silvia Toffanin, conduttrice proprio di Mediaset, con la quale ha due figli. Dopo Lucrezia Vittoria, avuta poco più che ventenne, infatti, Piersilvio con la conduttrice è papà di Lorenzo Mattia e Sofia Valentina.
Barbara Berlusconi è invece la primogenita del secondo matrimonio di Silvio, quello con Veronica Lario. E’ classe ’84 ed ha cinque figli, nati da due diverse relazioni. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest ma è anche amministratrice delegata di Holding italiana quattordicesima (H14), che controlla il 21,42% di Fininvest. Il capitale di H14 è diviso per il 33% a testa tra Barbara, Eleonora e Luigi, sua sorella e fratello minori. Nel 2013 divenne nota anche al pubblico calcistico per il ruolo di vicepresidente e amministratore delegato con delega alle funzioni sociali non sportive del Milan, il club di proprietà del padre. Tra il 2011 e il 2013 fu legata sentimentalmente proprio con un calciatore rossonero, l’attaccante brasiliano Alexandre Pato.
Barbara ha cinque figli (Alessandro ed Edoardo avuti da Giorgio Valaguzza; Leone, Francesco Amos ed Ettore Quinto con Lorenzo Guerrieri, conosciuto dopo la relazione con Pato).
Eleonora Berlusconi è la figlia meno “nota” dei cinque. E’ classe ’86 ed è l’unica a non sedere in nessun consiglio di amministrazione, pur detenendo un terzo di H14 come anche la sorella Barbara e il fratello Luigi. Ha tre figli: Riccardo, Flora e Artemisia.
Infine Luigi, classe ’88, ultimo figlio di Silvio. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest e di banca Mediolanum, è amministratore unico della holding B Cinque, e presidente del consiglio di amministrazione di H14, di cui detiene un terzo delle quote assieme alle sorelle maggiori. Laureato alla Bocconi. Luigi ha due figli: Emanuele Silvio e Tommaso Fabio nato lo scorso anno.
La grande famiglia del Cav. Chi sono i cinque figli di Silvio Berlusconi: da Marina a Luigi, i ruoli nelle aziende di famiglia. Redazione su L'Unità il 12 Giugno 2023
Cinque figli da due matrimoni finiti in divorzio, il primo con Carla Elvira Lucia Dall’Oglio e il secondo con Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Bartolini. È questa la “grande famiglia” di Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia scomparso lunedì 12 giugno all’età di 86 anni, mentre era ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano per essere sottoposto ad “accertamenti programmati” legati alla leucemia mielomonocitica cronica di cui soffre da tempo.
Chi sono i figli di Berlusconi
La più grande è Maria Elvira, meglio conosciuta come Marina e figlia assieme al fratello Pier Silvio del primo matrimonio del leader di Forza Italia con la prima moglie Carla Elvira Lucia Dall’Oglio. Ha 57 anni e come altri fratelli/sorelle ha un ruolo di primo piano nelle aziende del padre: è infatti la presidente di di Fininvest (di cui controlla l’8% delle azioni), del gruppo Mondadori editore e siede nei consigli di amministrazione di Mediaset e Mediobanca. Da tempo inoltre viene periodicamente indicata come una dei consiglieri più ascoltati dal padre anche per questioni politiche, e per questo indicata come possibile nuova guida di Forza Italia, ipotesi da lei sempre smentita.
Il secondogenito Pier Silvio ha 54 anni ed è amministratore delegato e vicepresidente esecutivo del gruppo Mediaset, di cui è spesso un “volto” anche nella presentazione dei palinsesti: come Marina possiede l’8% delle azioni Fininvest ed è amministratore delegato e presidente di Reti televisive italiane, la società di Mediaset che esercita tutte le trasmissioni del gruppo. Di lui negli anni si sono occupate anche le riviste di gossip per il lungo fidanzamento con Silvia Toffanin, conduttrice proprio di Mediaset.
Barbara Berlusconi è invece la primogenita del secondo matrimonio di Silvio, quello con Veronica Lario. Ha 39 anni e cinque figli, nati da due diverse relazioni. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest ma è anche amministratrice delegata di Holding italiana quattordicesima (H14), che controlla il 21,42% di Fininvest. Il capitale di H14 è diviso per il 33% a testa tra Barbara, Eleonora e Luigi, sua sorella e fratello minori. Nel 2013 divenne nota anche al pubblico calcistico per il ruolo di vicepresidente e amministratore delegato con delega alle funzioni sociali non sportive del Milan, il club di proprietà del padre. Tra il 2011 e il 2013 fu legata sentimentalmente proprio con un calciatore rossonero, l’attaccante brasiliano Alexandre Pato.
Eleonora Berlusconi è la figlia meno “nota” dei cinque. Ha 36 anni ed è l’unica a non sedere in nessun consiglio di amministrazione, pur detenendo un terzo di H14 come anche la sorella Barbara e il fratello Luigi.
Infine Luigi, 35enne ultimo figlio di Silvio. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest e di banca Mediolanum, è amministratore unico della holding B Cinque, e presidente del consiglio di amministrazione di H14, di cui detiene un terzo delle quote assieme alle sorelle maggiori.
Chi sono i figli di Berlusconi: Luigi, il più piccolo, Eleonora, Barbara, Pier Silvio e Marina. Storia di Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2023.
Due matrimoni, con Carla Dall’Oglio e Veronica Lario. E cinque figli: Marina e Pier Silvio dalla prima; Barbara, Eleonora e Luigi dalla seconda. Un divorzio «silenzioso» con Dall’Oglio (introvabile una sua dichiarazione) e un addio pubblico, lacerante e con guerra in tribunale con Lario. Poi una fidanzata: Francesca Pascale. E il «quasi matrimonio» con Marta Fascina. Ma soprattutto: 16 tra nipoti e una pronipote. L’ultima quando la famiglia quasi al completo si riunì a Milano nella basilica di Sant’Ambrogio per il battesimo di Emanuele Silvio, figlio di Luigi Berlusconi e Federica Fumagalli. In quell’occasione — alla presenza dell’ex premier e Marta Fascina, ma anche di Veronica Lario — arrivò anche l’annuncio: era in arrivo Tommaso Fabio, il sedicesimo nipote, sempre di Luigi e Federica. Aggiungendo una pronipote (Olivia, figlia di Piersilvio) sono quindi 16 i nipoti che un giorno erediteranno (dopo la seconda generazione) una fetta dell’impero di Berlusconi, Ma partiamo dai figli, tutti — o quasi — con ruoli di primo piano al timone dell’impero mediatico, finanziario e immobiliare del Cavaliere. Marina, 56 anni, è la sua erede designata: presidente di Fininvest (cassaforte di famiglia) e di Mondadori. C’è chi sussurra anche che possa essere la prossima leader di Forza Italia, ma lei ha sempre smentito. Poi c’è Pier Silvio, capo di Mediaset e marito della conduttrice Silvia Toffanin. Dal legame con Lario sono nati invece Barbara (38 anni), ; Eleonora (36 anni e unica defilata rispetto a responsabilità dirette dell’impero di famiglia) e Luigi, 34 anni, imprenditore che sta incassando diversi successi nelle start up. Cinque figli, tutti diversi l’uno dall’altro, ma con un unico comun denominatore: l’attaccamento a Forza Italia. Non a caso, a spulciare l’ultimo elenco dei finanziamenti ai partiti.
Nel febbraio scorso, . Mentre nel luglio 2022 furoni i tre figli più giovani a essere .
Ma chi sono i nipoti di Berlusconi? La più grande è Lucrezia, 31 anni, figlia di Pier Silvio e sorella di Lorenzo Mattia e Sofia Valentina. Poi ci i sono i figli di Marina Berlusconi: Gabriele, nato nel 2002 e Silvio nel 2003. Eleonora Berlusconi ha tre eredi: Riccardo, Flora e Artemisia. Barbara ha cinque figli: Edoardo, Alessandro, Francesco, Leone ed Ettore Quinto. Mentre il fratello Luigi, il minore dei Berlusconi ne ha due, Emanuele Silvio (il cui secondo nome è chiaramente un omaggio al nonno) e l’ultimo nato Tommaso Fabio. E i bisnipoti? Olivia, figlia di Lucrezia, che è stata la prima a rendere Silvio Berlusconi bisnonno.
La famiglia del leader di Forza Italia. Chi sono i cinque figli di Berlusconi: da Marina a Luigi, uniti al suo “capezzale” e nei ruoli nelle aziende di famiglia. Redazione su Il Riformista il 6 Aprile 2023
Due matrimoni finiti in divorzio, il primo con Carla Elvira Lucia Dall’Oglio e il secondo con Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Bartolini, da cui ha avuto cinque figli: è la ‘grande famiglia’ di Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia che da mercoledì 5 aprile è ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano per la cura di un’infezione polmonare, problema che però si inquadra in una leucemia mielomonocitica cronica di cui soffre da tempo.
All’ospedale milanese da mercoledì si vede un via vai degli amici più stretti ma soprattutto dei figli dell’ex presidente del Consiglio: Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi non hanno mancato di far sentire la loro vicinanza al padre in precarie condizioni di salute.
Chi sono i figli di Berlusconi
La più grande è Maria Elvira, da tutti conosciuta come Marina e figlia assieme al fratello Pier Silvio del primo matrimonio del leader di Forza Italia con la prima moglie Carla Elvira Lucia Dall’Oglio. Ha 57 anni e come altri fratelli/sorelle ha un ruolo di primo piano nelle aziende del padre: è infatti la presidente di di Fininvest (di cui controlla l’8% delle azioni), del gruppo Mondadori editore e siede nei consigli di amministrazione di Mediaset e Mediobanca. Da tempo inoltre viene periodicamente indicata come una dei consiglieri più ascoltati dal padre anche per questioni politiche, e per questo indicata come possibile nuova guida di Forza Italia, ipotesi da lei sempre smentita.
Il secondogenito Pier Silvio ha 54 anni ed è amministratore delegato e vicepresidente esecutivo del gruppo Mediaset, di cui è spesso un “volto” anche nella presentazione dei palinsesti: come Marina possiede l’8% delle azioni Fininvest ed è amministratore delegato e presidente di Reti televisive italiane, la società di Mediaset che esercita tutte le trasmissioni del gruppo. Di lui negli anni si sono occupate anche le riviste di gossip per il lungo fidanzamento con Silvia Toffanin, conduttrice proprio di Mediaset.
Barbara Berlusconi è invece la primogenita del secondo matrimonio di Silvio, quello con Veronica Lario. Ha 39 anni e cinque figli, nati da due diverse relazioni. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest ma è anche amministratrice delegata di Holding italiana quattordicesima (H14), che controlla il 21,42% di Fininvest. Il capitale di H14 è diviso per il 33% a testa tra Barbara, Eleonora e Luigi, sua sorella e fratello minori. Nel 2013 divenne nota anche al pubblico calcistico per il ruolo di vicepresidente e amministratore delegato con delega alle funzioni sociali non sportive del Milan, il club di proprietà del padre. Tra il 2011 e il 2013 fu legata sentimentalmente proprio con un calciatore rossonero, l’attaccante brasiliano Alexandre Pato.
Eleonora Berlusconi è la figlia meno “nota” dei cinque. Ha 36 anni ed è l’unica a non sedere in nessun consiglio di amministrazione, pur detenendo un terzo di H14 come anche la sorella Barbara e il fratello Luigi.
Infine Luigi, 35enne ultimo figlio di Silvio. Siede nel consiglio di amministrazione di Fininvest e di banca Mediolanum, è amministratore unico della holding B Cinque, e presidente del consiglio di amministrazione di H14, di cui detiene un terzo delle quote assieme alle sorelle maggiori.
Estratto dell’articolo di Michele Masneri per il Foglio il 19 Giugno 2023.
Ne ha fatta di strada, il pretino. Il pretino, così lo chiamava, Silvio Berlusconi, il suo ultimo figlio, il piccolo di casa, Luigi. Lo raccontò lui stesso a Paolo Bonolis (2006): “Telefono, chiedo di Luigi e mi dicono di richiamare dopo cinque minuti perché è raccolto in preghiera. Richiamo e mi dicono che è ancora raccolto in preghiera. Sbotto: ma allora sta dicendo messa!”. Il pretino è nato come tutti i figli di Veronica in Svizzera, ad Arlesheim, nel cantone di Basilea, nella “clinica antroposofica di Arlesheim”. (Rudolf Steiner ha un gran ruolo in questa storia, si vedrà tra poco). Riservatezza totale, sito solo in tedesco, alla clinica, e la riservatezza è il segno di questo personaggio che ha fatto della privatezza una specie di brand.
Il pretino, nato il 27 settembre 1988, dev’essere l’unico trentenne a Milano a non avere un profilo instagram e anche mercoledì secondo la regia Mediaset nella colossale kermesse funeraria in Duomo è stato risparmiato spesso e volentieri dalle telecamere di famiglia (non come la madre Veronica, che tanti si chiedevano addirittura se fosse presente, completamente oscurata dalla diretta, ma abbastanza). Nelle foto obbligatorie, è l’uomo in grigio chiaro, colore minore e raro tra lo stormire dei blu Mediaset e dei neri e canna di fucile dello Stato.
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Da bancario a banchiere, un bel salto, ma anche un bel ritorno alle origini). Il pretino frequenta l’Ordine di Malta, con cui va spesso a Lourdes a portare aiuto agli ammalati ma sotto falso nome, intorno gli hanno creato un diaframma di protezione, raccontarono al Foglio dall’Ordine. Non si sa se usi il cognome materno (Bartolini) come per creare la Fondazione Opsis Onlus che finanzia diversi progetti sociali (recupero ragazzi con storie difficili, ma “non siamo autorizzati a rivelare altro”, vabbè).
Il pretino si è sposato con Federica Fumagalli, dalla quale ha avuto due bambini, Emanuele Silvio, nato nel 2021, e Tommaso Fabio nel 2022. La moglie è una perfetta Kate Middleton brianzola; arrivata in anticipo in Duomo l’altro giorno, sedeva perfetta in secondo banco, in nero, sobria, immota. A Luigino si conosce una precedente relazione con la figlia di Giulia Ligresti, tale Ginevra Rossini, durata quattro anni. Rossini ha un Instagram più “rich kids” e sarà un caso ma la scelta definitiva della consorte è ancora una volta improntata all’understatement. L’amore con Federica Fumagalli (“la Fede”) è scoppiato alla Bocconi dove lui faceva economia e lei giurisprudenza. Poi le nozze, anche qui in riservatezza totale: come raccontano al Foglio, a Sant’Ambrogio, ma mica nella basilica, no, nella chiesina di San Sigismondo, “un gioiello nascosto, molto milanese, anche santambroeus ha la sua corte, con le originali colonne della basilica ambrosiana del Quarto secolo, nel cuore del cortile di donato Bramante”.
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Il pretino felice è stato allevato a terra, come i Re, in campagna. A Macherio, altra villa, comprata all’epoca dell’amore totale tra Silvio e Veronica. Lì, amore e orto biodinamico. L’architetto Patrizia Pozzi che restaurò villa e giardino oggi non ha voglia di parlare, “tutto è stato strumentalizzato in passato”, mi dice al telefono, vale quello che raccontò nel 2010, sull’orto biodinamico di Veronica, l’idillio rustico in cui son venuti su Eleonora, Barbara e Luigi. I parchi sterminati con le caprette e Veronica scalza, “che non vive il giardino da sciura”, piuttosto “a piedi nudi va a raccogliere funghi e castagne e sceglie fiori di sambuco per le decorazioni delle torte”.
Luigino è cresciuto così, tra feste da Albero degli zoccoli “perché era stato finalmente completato il tetto e non pioveva più dentro, organizzammo una grigliata nelle vecchie stalle invitando tutti i fornitori. Ognuno portò un piatto o una bottiglia. Si ballò fino a notte fonda al lume delle candele”. I tre fratelli continuano a passare gran parte del tempo lì – tutti gli spazi nell’epopea berlusconiana non sono come quelli nostri comuni mortali, sono colossali case, con staff di decine di persone e – gli staff comparivano qua e là nei necrologi di questi giorni - in armonia. Base della Conoscenza per Steiner è la comprensione dell’uomo nel suo essere tripartito, “corpo anima e spirito” e qui regna l’armonia tra caprette, dividendi ed eliporti.
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Dall’orto biodinamico (con uso di elicottero), le uova del biscione han dischiuso non un nuovo Carlin Petrini bensì un piccolo Enrico Cuccia.
Sì perché il pretino, in grigio, niente frizzi e lazzi, fa tutto il suo cursus honorum, Bocconi e JP Morgan in incognito, poi nella Sator di Matteo Arpe, poi prende in mano (col suo posto in cda di Mediolanum) i soldi di famiglia, ma né li distribuisce ai poveri, né li spende in sciabolate di champagne e canotti a Formentera e modelle con labbra a canotto. No, li fa fruttare, in silenzio. E alla grande. “E’ stimatissimo a livello italiano e internazionale come finanziere”, mi racconta un collega. E non è la solita frase di circostanza per un rampollo. Oltre all’ovvia liquidità, è come se chiamarsi Berlusconi per lui fosse a questo punto ininfluente. Ha preso la holding Quattordicesima, come si chiama il “pezzo” di Fininvest che spetta a lui insieme a Barbara ed Eleonora, che vale il 21 per cento dell’azienda, da cui arrivano i dividendi. Ma mica sta lì a mungere le cedole, no, ha modernizzato e trasformato la Quattordicesima a partire dal nome, “H14”, che da cassafortina di figli di papà è diventata “il più importante family office italiano che investe in startup”.
Dalla sua sede di piazza Borromeo, “H14” ha piazzato investimenti in Deliveroo, Flixbus e altre aziende innovative, con ritorni oltre il 20 per cento, insomma ha fatto più soldi da solo rispetto a quelli ereditati (400 milioni contro 250). Ha comprato e rivenduto il portale Facile.it con una plusvalenza di 20 milioni, e altre operazioni che nel silenzio della holding ricongiungono il pretino con tutto un mondo antico per Milano ma inedito per Mediaset.
E i n passato ha fatto affari anche con Marco Carrai, il piccolo Soros di Matteo Renzi, cosa che portava a credere anche lì a possibili scenari politici, ma senza costrutto. Si cade nel solito equivoco, riecco un Giovannino Agnelli, “riserva della repubblica” come ai tempi dello sfortunato rampollo, educato in America, risorsa democratica per Walter Veltroni. Rampolli illuminati che qualcuno immagina interessati alla politica e alla lusinga romana e in questi giorni vorrebbe addirittura un Luigino pronto a rilevare l’eredità politica del padre. Ma Luigi è un finanziere puro. E puro deve rimanere. In tutti i sensi. In questi giorni qualcuno si spinge a pensare che sia lui il continuatore dell’attività politica di famiglia. “Ipotesi totalmente senza senso”, dice al Foglio un finanziere che lo conosce bene. “Per la sua storia, per il suo modo di essere, per il suo carattere introverso e introspettivo”.
Non particolarmente interessato alla politica, anzi, lo descrivono, rispettoso della storia di famiglia, certo, innamorato come tutti quei figli lì del padre e pure della madre, essendo frutto dell’amore bio. La leadership, Luigino ce l’ha ma è finanziaria, quella sì. E qui siamo più in zona Umberto che non Giovannino Agnelli. Tra tutti i figli è quello che ha ereditato dal papà oltre la faccia e il fisico anche la capacità di far soldi. “Giù le mani dal Luigino”, rispondono tutti, gli avvocati d’affari e i finanzieri milanesi, venture capital e private equity, in questi giorni tutti presi a presentare fondi di investimento. Che fai domani? “Lancio il mio fondo”.
A Milano ci sono più presentazioni di fondi che di libri. “Lasciatelo in pace!”, dicono, i fondi e i loro presentatori. Intendendo: via i giornalisti e via la politica. Come a voler preservare una purezza e una diversità. Diversità dalla famiglia e dal brand Berlusconi, che non è mai stato dopotutto un vero brand milanese: più brianzolo, o nazionale, certo nazionalpopolare, il berlusconesimo, tra Cologno e Napoli, lo si è detto già. Luigino, invece, è più Milano centro, più finanza, più calvinismo, discrezione, grisaglia, un piccolo Cuccia, appunto, in questo la città chiude il cerchio coi Berlusconi, lo riconosce come “suo”, ci si specchia, anche nella generosa umanità che non è facciata. Abate Parini, o abate Tovini, comunque rito ambrosiano. “Il pretino”, cresciuto per nemesi in quella famiglia molto dedita al vivere e alle feste, come ha ricordato mons. Delpini, ma anche ripescando e ricicciando tracce di Dna nel côté suoresco, quello delle zie, le tante zie suore della famiglia che il Cav. evocava sempre.
Qui però niente vocazioni, semmai un’attitudine, cuccesca: anche mercoledì al funerale era lì, l’uomo in grigio, un po’ Lebole, con la sua “Fede”, composta, in nero, seria, in attesa. Understatement: lui nel tempo libero esce con “il maestro di Ju Jitsu e gli amici di Monza”, raccontano, o non esce affatto, magari si diverte di più a Londra o New York dove non è conosciuto. Non è che sia un francescano, eh.
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Commenti di altri amici: “la Fede si è presa l’unico Berlusconi veramente bono e veramente etero” (del resto, la vera famiglia queer l’ha fondata il Cav., altro che Michela Murgia!). E qui si entra nei gossip sul pretino, sogno di dame e cavalieri, palestrato con juicio. Ci sono scatti d’epoca di lui su “Oggi”, in cui “bacia un amico per far dispetto a lei”, recita la dida di questi servizi. "Ora che lo hanno beccato a baciare un amico, anche per Luigi Berlusconi la notorietà comincia a creare grattacapi”, scrisse a un certo punto Dagospia. “Non solo il suo fratellastro Piersilvio, durante una riunione a Mediaset, lo avrebbe preso in giro con dei manager tv.
Ma la cosa ha fatto incazzare di brutto papà Silvio. Pare che abbia addirittura telefonato a Veronica Lario con la quale non si parlava da quattro mesi". Mah. Tra gli investimenti di Luigino, anche il social di appuntamenti gay israeliano Grindr. Ma sembrano soprattutto wishful thinking, perché il pretino fa gola a tutti, è il più bello dei Berlusca, assomiglia tantissimo al Silvio muscolare degli esordi tra l’altro. Ma è alto. E’ uno dei pochi maschi in circolazione in Italia con molti dividendi e senza tatuaggi (tranne uno piccolo, dietro la nuca). E poi liquido, talmente liquido che se fosse anche un po’ fluido nessuno si preoccuperebbe. Al massimo, daranno la colpa a Steiner.
Berlusconi e le donne.
Tutte le donne.
Carla Dall’Oglio.
Noemi Letizia.
Veronica Lario.
Francesca Pascale.
Marta Fascina.
Virginia Sanjust.
Le battute.
La sentenza. Emilio Fede condannato a risarcire 25.000 euro ad Ambra Battilana. Il ruolo da meteorina, l’invito ad Arcore e l’induzione alla prostituzione. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2023
Emilio Fede, 92 anni, dovrà versare un risarcimento di 25.000 euro in favore di Ambra Battilana, una delle partecipanti alle cene tenutesi nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore. Questo quanto stabilito dal tribunale civile di Milano che ha riconosciuto le molestie subite dalla “meteorina”. Violenza verbale’che ha causato “sofferenza sia a livello psicologico che fisico” e che dunque va risarcita.
Il ruolo da meteorina e l’invito ad Arcore
È il Corriere della Sera ad aggiungere dettagli sulla vicenda che risale all’estate del 2010, quando Battilana, vincitrice del titolo di Miss Piemonte, partecipò, insieme all’amica Chiara Danese, a un casting organizzato da Emilio Fede. Durante il provino, Fede offrì loro il ruolo di “meteorine” con un compenso di 3.000 euro a settimana. Nella stessa serata, le due ragazze ricevettero un invito per partecipare a una cena ad Arcore. “Lì le ragazze si fanno toccare e toccano, una si ritrova nuda perché le si apre il vestito nella lap-dance, a tavola passa un statuetta con un pene enorme”. Dopo aver respirato l’aria della festa, òe due decidono di lasciare la residenza. A seguito di ciò, Fede, contrariato, le fece riaccompagnare a Milano.
Emilio Fede condannato a risarcire Ambra Battilana
Nel 2019 il giornalista fu condannato per “induzione alla prostituzione” con conseguente risarcimento alla ragazza, quantificato solo questa settimana. Martedì 21 novembre, il giudice Damiano Spera ha emesso la sentenza di risarcimento danni. La motivazione è il “turbamento emotivo subìto” da Battilana dopo aver preso consapevolezza di essere stata “adescata” per un presunto casting presso Mediaset.
Inoltre, è stato riconosciuto il forte senso di delusione per il fatto che la sua bellezza e l’aspirazione al successo come modella sono state sfruttate da individui amorali per fini ignobili, privandola della propria identità e relegandola a oggetto di desiderio.
Bari, Patrizia D'Addario si incatena dinanzi al Tribunale: «Da 15 anni subisco ingiustizie, per vivere faccio le pulizie». Carlo Testa su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.
Le sue rivelazioni fecero scoppiare lo scandalo escort nelle residenze dell'allora premier Berlusconi
«Da 15 anni subisco ingiustizie, voglio morire qui, davanti al Tribunale dove
tutto è cominciato. Dopo che ho raccontato la verità sono finita
all'inferno». Patrizia D'Addario, le cui rivelazioni nell'estate del 2009 fecero scoppiare lo scandalo delle feste con le escort nelle residenze dell'allora premier Silvio Berlusconi, in lacrime e senza riuscire a spiegare a quali ingiustizie si riferisca, annuncia che resterà incatenata dinanzi al palazzo di giustizia di Bari e non andrà via da lì perchè è «stanca di subire ingiustizie».
Le denunce e le proteste
«Io facevo l'artista, la modella - dice - e da 15 anni invece faccio le pulizie per vivere». Poi ancora chiede di parlare con un magistrato «perchè qualcuno faccia finire quello che mi sta succedendo e che sta facendo morire mia madre che ha 80 anni». Lo aveva già fatto qualche settimana fa sempre dinanzi al Tribunale. Si era incatenata poi era stata convinta a rinunciare. In quella circostanza aveva detto di essere «disperata» perchè gli avvocati le hanno tolto «un sacco di soldi» e perchè lei fa denunce «ma nessuno - aveva detto - mi ascolta».
Berlusconi protagonista dall’aldilà. Lo squallore delle “olgettine” e la disinformazione dei giornalisti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno sabato 4 novembre 2023.
E' finito il tempo dei ricatti, ed è arrivata l'ora che queste "signorine" si trovino un lavoro o qualche "sponsor" e lascino riposare in pace il povero Silvio Berlusconi, che hanno si troppo sfruttato e ricattato nel corso degli anni, minacciando dichiarazioni, e registrando conversazioni telefoniche
di Diego de La vega
Povero Cavaliere, anche da defunto, continua ad essere perseguitato da un gruppo di donnine senza scrupoli alla ricerca solo di soldi, le quali non si danno pace e non hanno ancora capito che dopo il 12 giugno la festa è finita e che qualche “azzeccagarbugli” pur di avere un pò di visibilità e pretendere qualche parcella le stanno illudendo.
Dopo la morte di Silvio Berlusconi, dagli eredi della famiglia è stato chiesto alle “Olgettine” di liberare le ville ed appartamenti occupati che il Cavaliere con la sua nota generosità aveva messo a loro disposizione con un contratto, che come previsto dal Codice Civile può anche essere verbale, che si chiama “comodato gratuito”: in poche parole il proprietario di un immobile permette ad un’ altra soggetto di utilizzarlo ed abitarlo senza dover pagare nulla il pagamento . Di fatto allorquando il proprietario muore il comodato termina automaticamente a meno che on fosse stata prevista una scadenza fissa circostanza questa da escludersi in quanto non risulta essere il caso delle “Olgettine“.
Barbara Guerra, una ex-ragazza immagine della discoteca “Pineta” di Milano Marittima dove faceva coppia ai tavoli con la sua collega brindisina Antonella (estranea a questa vicenda) allietando i clienti della nota discoteca della riviera romagnola che per ronia della sorte recentemente ha chiuso i battenti, , la quale si spaccia figlia di un imprenditore, una delle “Olgettine” che il Cavaliere aveva voluto agevolare ed ospitare in una villetta in comodato, ha consentito ai propri legali di diffondere ignobilmente ai giornali un audio contenente una conversazione con Silvia Berlusconi, annunciando di non avere intenzione di abbandonare la villa in Brianza che secondo la sua fantasia, sulla base di quella conversazione , dovrebbe diventare di sua legittima proprietà. Circostanza non prevista neanche nel gioco del “Monopoli”.
Le aspettative della Guerra e della sua amica-collega Alessandra Sorcinelli contrastano con la legge, che assolutamente chiara in materia di disposizioni testamentali : una donazione dimubene, iun particolar modo di un immobile, deve essere sempre effettuata in forma scritta, davanti a un notaio ed alla presenza di due testimoni per essere valida. Quando manca anche uno solo di questi elementi la eventuale donazione di fatto non ha alcun valore, cioè non esiste. Peraltro risulta che le ville non fossero di proprietà di Berlusconi ma di una società (la Dueville srl) e quindi non è minimamente immaginabile la donazione di un immobile di un’altra persona .
Barbara Guerra, Alessandra Sorcinelli e Marystelle Polanco
Peraltro nessuna valenza potrebbe essere conferita all’impegno verbale di Berlusconi , desumibile da quella conversazione, di regalare la villa a Barbara Guerra: infatti la sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito nel 2020 in maniera inconfutabile che la promessa di donare non è vincolante, men che meno per gli eredi di colui che promette.
La situazione si complica peraltro come risulta, essendo le villa di Bernareggio di proprietà della società Dueville srl, e non direttamente di Silvio Berlusconi, pertanto il decesso del Cavaliere non ha prodotto automaticamente il termine del contratto. Poi Indipendentemente dalla questione della proprietà, qualora Barbara Guerra, Alessandra Sorcinelli o Marystelle Polanco (che annuncia rivelazioni alla fine di un procedimento pendente in Cassazione) o una delle altre ragazze dovessero rifiutarsi di rilasciare l’immobile loro concesso, gli eredi Berlusconi o le società quali legittimi proprietari dell’immobile dovranno rivolgersi al giudice del Tribunale, per ottenere una pronunzia simile allo sfratto e quindi mandare l’ufficiale giudiziario per lo sgombero. Tutto ciò si concluderebbe in un arco di tempo di circa un anno.
Concetti questi che l’ avvocato Alessandro Simeone, membro del Comitato scientifico della collana giuridica “Il Familiarista” edita dalla casa editrice Giuffré Francis Lefebvre, ha ben spiegato e chiarito in suo intervento sul quotidiano La Repubblica.
Silvio Berlusconi ed i suoi cinque figli
Dubitiamo seriamente che gli eredi Berlusconi, in particola modo Marina e Piersilvio si siedano ad un tavolo con le “Olgettine” o i loro avvocati per trovare una via di uscita , partendo dal presupposto giuridico che nessuna delle ragazze potrà mai vantare in giudizio alcuna pretesa sulla proprietà degli immobili avvalendosi dichiarazioni di intenti che mai possono costituire donazione per la Legge italiana.
Vedere poi i soliti “giornalisti” insultare la memoria di una persona che è passata aldalilà è qualcosa di squallido e vergognoso. Ma cosa aspettarsi da chi da credibilità alle rivelazioni del pluripregiudicato ex-carcerato Fabrizio Corona che si spaccia come giornalista senza essere mai stato iscritto all’ Ordine e le Olgettine che fingono di piangere davanti alle telecamere . Questa, lasciatecelo dire, è la stampa spazzatura, da cui preferiamo restare il più lontano possibile. E tapparci il naso.
E’ finito il tempo dei ricatti, ed è arrivata l’ora che queste “signorine” si trovino un lavoro o qualche “sponsor” e lascino riposare in pace il povero Silvio Berlusconi, che hanno si troppo sfruttato e ricattato nel corso degli anni, minacciando dichiarazioni, e registrando conversazioni telefoniche. Un comportamento al limite dell’ estorsione. In fin dei conti, alla fine, Ruby in confronto a loro si è comportata da “signora”. Redazione CdG 1947
Sandro De Riccardis per "La Repubblica" - Estratti sabato 4 novembre 2023.
E’ il 2015, pieno processo Ruby Ter e Barbara Guerra, una delle ospiti delle serate ad Arcore ribattezzate ‘cene eleganti’, parla con Silvio Berlusconi. Al telefono, chiedendo garanzie all’ex premier sul fatto che la villa a Bernareggio – che il premier le aveva lasciato nella sua disponibilità – restasse per sempre a lei. Berlusconi le spiega di poterla concedere a Guerra solo in comodato. Lei lo incalza: “Perché il comodato e non l’intestazione?”. “Perché non si può, sarebbe corruzione”, risponde Berlusconi, che poi rassicura la ragazza: “alla fine del processo te lo intesto”.
Ora invece gli eredi dell’ex premier, con una raccomandata dello scorso 3 ottobre, hanno chiesto la restituzione dell’immobile. Per questo i legali di Guerra, gli avvocati Paolo Sinicato e Nicola Di Giannantoni, hanno deciso di diffondere anche la “documentazione sonora” che attesterebbe la “precisa volontà del dott. Berlusconi di donare alla signorina Guerra la proprietà dell'immobile in virtù della loro lunga e affettuosa frequentazione".
I legali rispondono così alla richiesta di restituzione della villa, a seguito della “estinzione del contratto di comodato intestato alle signora Guerra” a seguito della “morte dello stesso dott. Berlusconi”.
(...)
Dall’audio emerge la preoccupazione di Berlusconi che la sua liberalità in favore di Guerra possa diventare pubblica. “Se viene fuori… Se vanno da un notaio, se viene fuori… se qualcuno lo dice e vanno a controllare.. è sui pubblici registri.. non è possibile.. è un casino tesoro”, dice l’ex premier. Ma Guerra non si fida. “Di quanti anni sarà il comodato?” chiede Guerra. Berlusconi la rassicura. “Un uomo che ha fatto tutte le cose che ho fatto io, che ha diecimila persone che lavorano per lui, che ha tredici milioni di italiani che lo votano, che tra poco sarà presidente della Repubblica”.
“Mi prometti che ora facciamo il comodato e poi quella casa è mia?”, chiede ancora Guerra. “Te lo giuro sui miei cinque figli. E mi fa piacere farlo. Comodato subito, e appena finisce il processo e i nostri avvocati ci danno il via libera, te lo intesto”.
Barbara Guerra e il suo diritto alla casa Con Berlusconi ci sono "diversi audio". AGI - lunedì 6 novembre 2023.
"Se la famiglia Berlusconi non cerca una conciliazione, saremo costretti alla causa. Abbiamo anche altri audio che dimostrano il legame affettivo importante tra lui e Barbara Guerra".
Lo dice all'AGI Federico Sinicato, legale di una delle ospiti delle serate ad Arcore, alla quale il 4 ottobre scorso gli eredi del fondatore di Forza Italia, attraverso la società immobiliare Dueville, hanno comunicato con una raccomandata l'estinzione del contratto di comodato gratuito di un appartamento a Bernareggio (Monza) in cui la donna vive.
L'indicazione è quella di lasciare la villa a fine anno. Sinicato ha reso pubblico, in risposta alla 'mossa degli eredi', un audio del 2015 in cui il Cavaliere garantisce a Guerra, assolta dall'accusa di falsa testimonianza nel 'Ruby ter', che la casa sarà sua "appena finisce il processo e gli avvocati ci danno il via libera".
Al momento non sono arrivate reazioni dalla 'controparte'. La donna, ora 45enne, è in possesso di altri audio da cui emergerebbe "il legame affettivo importante" che l'ex premier avrebbe avuto con lei. "La famiglia si è mossa un po' come un elefante in una cristalleria mandando queste lettere. Un coordinamento tra avvocati delle ragazze? Non c'è. Noi ci siamo mossi in autonomia" prosegue Sinicato.
Gli interessi degli eredi sono gestiti su questo e altri fronti dallo studio dell'avvocato romano Andrea Di Porto. L'audio diffuso non è stato depositato nell'ambito di una causa arbitrale avviata circa un anno prima della morte di Berlusconi avvenuta il 12 giugno scorso. Lo sono invece gli altri da cui si evincerebbe il 'rapporto speciale' tra i due. "La procedura arbitrale era stata concordata da lui e da Barbara Guerra - precisa Sinicato -. Col suo decesso si è interrotta perché gli eredi non l'hanno riassunta".
Estratto dell’articolo di Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” lunedì 6 novembre 2023.
Dietro la decisione della famiglia Berlusconi di chiudere definitivamente i rubinetti alla ventina di donne coinvolte nei vari processi Ruby, che per anni hanno ricevuto regolarmente un sussidio mensile o usufruito gratuitamente di una sistemazione abitativa, ci sono anche ragioni di opportunità legale ed economica, oltre all’intenzione di dare un taglio deciso e un segnale inequivocabile a un passato in cui sono emerse le pressioni e le intemperanze imbarazzanti di alcune delle ospiti di Arcore che pretendevano sempre di più soldi da Silvio Berlusconi.
Durante i 12 anni dei tre processi Ruby legati alle cene e ai dopocena del «bunga bunga», gli interventi e i commenti dei figli del Cavaliere sono stati rarissimi, anche perché l’ex premier e i suoi molti avvocati non hanno mai mancato di replicare energicamente e con forza a tutte le accuse dei magistrati e alle critiche degli oppositori politici. Nelle rare volte che l’hanno ritenuto necessario, però, i figli non hanno mai fatto mancare pubblicamente il loro appoggio. […]
Difficile prevedere se qualcuno dirà qualcosa sulla interruzione del «sussidio» di 2.500 euro al mese e dell’usufrutto gratuito della casa che molte delle donne hanno ricevuto fino alla scomparsa di Berlusconi, e un no comment assoluto arriva dai legali della famiglia. Ma dietro la decisione di chiudere con fermezza con il passato sembrano esserci anche altre ragioni.
Prima tra tutte il fatto che Silvio Berlusconi non ha lasciato alcuna disposizione testamentaria su quelli che lui aveva definito i «risarcimenti» a favore delle donne per i danni subiti a causa dell’esposizione mediatica negativa dovuta ai vari processi Ruby di Milano.
Ci sarebbero poi anche questioni connesse all’amministrazione delle società ereditate dai figli le quali hanno in pancia gli immobili e che avrebbero non poche difficoltà a giustificare nei propri bilanci ufficiali le assegnazioni senza incassare il corrispettivo di un affitto. Il comodato d’uso gratuito, come nel caso di Alessandra Sorcinelli e Barbara Guerra, era un atto deciso personalmente da Silvio Berlusconi che «aveva stipulato un contratto di locazione ad uso transitorio con scadenza 31 dicembre 2023», come si legge nella lettera con la quale l’Immobiliare Dueville di Segrate a ottobre ha invitato le donne a lasciare le rispettive ville di Bernareggio.
Contratto che «si è estinto» in «conseguenza del decesso dello stesso dott. Berlusconi avvenuto il 12 giugno» scorso, con il quale è venuto a cessare anche «il comodato» d’uso a zero euro. […]
Olgettine e Berlusconi, i perché dello «sfratto»: dal vuoto del testamento al comodato d'uso gratuito «estinto». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2023.
La famiglia Berlusconi ha deciso di interrompere i versamenti in denaro e chiedere la restituzione delle case alla ventina di donne coinvolte nei vari processi Ruby, le cosiddette olgettine. La lettera: «Il comodato decade con la morte» dell'ex premier. Il caso di Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli.
Dietro la decisione della famiglia Berlusconi di chiudere definitivamente i rubinetti alla ventina di donne coinvolte nei vari processi Ruby, che per anni hanno ricevuto regolarmente un sussidio mensile o usufruito gratuitamente di una sistemazione abitativa, ci sono anche ragioni di opportunità legale ed economica, oltre all’intenzione di dare un taglio deciso e un segnale inequivocabile a un passato in cui sono emerse le pressioni e le intemperanze imbarazzanti di alcune delle ospiti di Arcore che pretendevano sempre di più soldi da Silvio Berlusconi.
Durante i 12 anni dei tre processi Ruby legati alle cene e ai dopocena del «bunga bunga», gli interventi e i commenti dei figli del Cavaliere sono stati rarissimi, anche perché l’ex premier e i suoi molti avvocati non hanno mai mancato di replicare energicamente e con forza a tutte le accuse dei magistrati e alle critiche degli oppositori politici. Nelle rare volte che l’hanno ritenuto necessario, però, i figli non hanno mai fatto mancare pubblicamente il loro appoggio.
Come avvenne a febbraio scorso quando, dopo l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» nel processo di primo grado Ruby ter in cui 21 donne ospiti erano imputate di falsa testimonianza e, con il Cavaliere, anche di corruzione in atti giudiziari, Marina Berlusconi dichiarò: «Questa vicenda, nata sul nulla e sul nulla portata avanti con furioso accanimento ideologico da una piccola ma potente parte della magistratura, ha segnato e condizionato la storia e la politica del nostro Paese, la sua stessa immagine all’estero». Parlò anche la sorella Barbara che definì la sentenza «una vittoria dal prezzo troppo alto».
Difficile prevedere se qualcuno dirà qualcosa sulla interruzione del «sussidio» di 2.500 euro al mese e dell’usufrutto gratuito della casa che molte delle donne hanno ricevuto fino alla scomparsa di Berlusconi, e un no comment assoluto arriva dai legali della famiglia. Ma dietro la decisione di chiudere con fermezza con il passato sembrano esserci anche altre ragioni.
Prima tra tutte il fatto che Silvio Berlusconi non ha lasciato alcuna disposizione testamentaria su quelli che lui aveva definito i «risarcimenti» a favore delle donne per i danni subiti a causa dell’esposizione mediatica negativa dovuta ai vari processi Ruby di Milano.
Ci sarebbero poi anche questioni connesse all’amministrazione delle società ereditate dai figli le quali hanno in pancia gli immobili e che avrebbero non poche difficoltà a giustificare nei propri bilanci ufficiali le assegnazioni senza incassare il corrispettivo di un affitto. Il comodato d’uso gratuito, come nel caso di Alessandra Sorcinelli e Barbara Guerra, era un atto deciso personalmente da Silvio Berlusconi che «aveva stipulato un contratto di locazione ad uso transitorio con scadenza 31 dicembre 2023», come si legge nella lettera con la quale l’Immobiliare Dueville di Segrate a ottobre ha invitato le donne a lasciare le rispettive ville di Bernareggio. Contratto che «si è estinto» in «conseguenza del decesso dello stesso dott. Berlusconi avvenuto il 12 giugno» scorso, con il quale è venuto a cessare anche «il comodato» d’uso a zero euro. Sorcinelli e Guerra con i loro legali contestano questa interpretazione affermando di essere in grado di dimostrare che la volontà dell’ex premier era diversa.
Barbara Guerra, Alessandra Sorcinelli e le altre: chi sono le ex olgettine «risarcite» da Berlusconi, quanto hanno guadagnato e cosa fanno oggi. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera venerdì 3 novembre 2023
Stop ai 2.500 euro mensili che Berlusconi aveva destinato come «risarcimento» alle ragazze che erano state ospiti di Villa San Martino
Stop ai 2.500 euro mensili, così come alla disponibilità di appartamenti in cui vivere. I «risarcimenti» che Silvio Berlusconi aveva deciso di assegnare alle ragazze coinvolte nei vari atti dei processi Ruby finiscono qui. Lo ha stabilito la famiglia Berlusconi.
Fu lo stesso ex premier a rivelare nel 2013, durante una delle udienze del primo processo Ruby, nel quale fu assolto come poi è avvenuto anche nel Ruby ter, che a ciascuna delle ragazze che erano state ospiti di Villa San Martino per le cene e i dopocena del «bunga bunga» aveva assegnato 2.500 euro al mese come aiuto per i danni di immagine e lavorativi che avevano subito e subivano a causa delle indagini e dei processi.
Barbara Guerra
Ospite delle cene e destinataria - almeno fino a poco tempo fa - delle elargizioni era Barbara Guerra, 45 anni. «La mia dignità è stata distrutta», così come «la mia carriera televisiva» aveva detto al Corriere all’indomani della sentenza di assoluzione nel processo di primo grado Ruby ter. «Silvio non hai mai speso parole per dire che conosceva la mia famiglia e che ero una ragazza per bene come mi diceva quando ci vedevamo - aveva aggiunto -, prometteva sempre di volerlo fare, di volere difendere la mia dignità. Solo promesse, mai mantenute». Guerra è stata protagonista di alcune intercettazioni telefoniche dai toni piuttosto forti, anche con Berlusconi: «Sono stata dipinta come una persona senza nessun valore, ma io vengo da una buona famiglia, con valori e principi, mio padre è un imprenditore, che amo e che indirettamente ha subito i danni di immagine per tutto lo scandalo mediatico che è venuto fuori - aveva detto dopo la sentenza -. Ed è grazie all’affetto e al supporto dei miei familiari che oggi sono ancora qui». Ha temuto anche che potesse accaderle qualcosa: «Più volte mi sono accorta di essere seguita, ma non ho mai capito bene lo scopo di essere controllata e da chi». Con la morte di Berlusconi si è estinto il contratto di comodato di un immobile a Bernareggio (Monza) in cui Guerra viveva: dovrà lasciare la casa entro la fine dell'anno.
«Io vivo all'estero, non sono fissa su Milano. Silvio Berlusconi la casa me l'ha donata, e ci vivo ancora. Me l'ha regalata, perché dovrei lasciarla?», la reazione di Barbara Guerra. «Le promesse di Silvio nei miei riguardi erano diverse dalle ricostruzioni pubblicate sui giornali. Non è vero che ora che Silvio è morto io debba abbandonare l'immobile».
I suoi legali hanno diffuso poi una nota con la quale precisano che «il titolo abitativo deriva dalla precisa volontà del dottor Berlusconi di donare alla signorina Guerra la proprietà dell’immobile in virtù della loro lunga e affettuosa frequentazione»: di questo, spiegano, «vi è ampia prova documentale e sonora». Alla nota è allegato un file audio contenente la reistrazione di quella che viene descritta come una conversazione tra Berlusconi e Guerra. Non si sa a quando risalga, ma in essa si sentono quelle che paiono le voci del Cavaliere e della Guerra che parlano dell'abitazione.
«Primo impegno mio, domani informo i proprietari della casa e ti facciamo avere subito un contratto di comodato. Sai cos'è? È la dazione gratuita di una casa», dice la voce che pare essere quella di Berlusconi. Che precisa poi, di fronte alla protesta di quella che pare essere Barbara Guerra: «L'intestazione non è possibile perché è corruzione».
Anche Alessandra Sorcinelli ha ricevuto una lettera che la invita a lasciare la casa che le era stata destinata, sempre a Bernareggio. Oggi 38enne, a febbraio aveva raccontato al Corriere di aver pensato al suicidio quando era stata coinvolta nell’inchiesta «Ruby ter». Famiglia benestante di Cagliari, ex showgirl, ha ricordato parlando di Berlusconi: «Mi ha sempre trattata come una regina, ma i regali, compresi diamanti, me li aveva fatti prima dello scoppio del caso Ruby. Mi diceva: “Per i periodi i cui non lavori e per pagarti gli studi, sappi che provvedo io". Era lui che si offriva. Per lui era come invitare una ragazza a cena e pagarle il conto, la proporzione è quella». Ha ricevuto oltre 237 mila euro, un’auto, doni vari. Oltre alla villa di Bernareggio in comodato.
Roberta Bonasia
È tra le ragazze coinvolte nel caso Ruby. Papà abruzzese, mamma calabrese, è nata a Nichelino nel Torinese e spesso gravita nel Veronese, dove si era rifugiata quando scoppiò lo scandalo. Ex infermiera con il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo, ha vissuto l'assoluzione come la fine di un incubo. «Per lei quel momento era terribile, le cadde il mondo addosso, non se lo meritava perché non aveva commesso alcun reato», ha detto l'avvocato. Lei racconta di aver cambiato cognome per per dimostrare il suo talento senza essere più additata come «“ex olgettina” o “ex favorita” del Cavaliere». Insomma, si è rifatta una vita lontano dagli aiuti di Berlusconi.
Karima El Mahroug
Il suo soprannome, Ruby, battezza la serie di processi sulle cene eleganti ad Arcore. Ed è lei a far scoppiare lo scandalo quando, il 27 maggio 2010, accusata di furto, una volante la porta in questura. In seguito, emergerà la telefonata di Berlusconi che segnala di aver saputo che si tratta della nipote dell’allora presidente dell’Egitto Mubarak. Arrivata dal Marocco con i genitori, una volta in Italia vive in povertà in una casa fatiscente nelle campagne di Letojanni (Messina). Nel 2009 partecipa a un concorso di bellezza in cui la adocchia Emilio Fede, qualche mese dopo è a Milano nel giro di Lele Mora. Partecipa alle cene a Villa San Martino ancora minorenne. Oggi ha 30 anni, si è trasferita a Genova con il fidanzato Daniele (insieme hanno aperto un ristorante) e ha una bambina. All'indomani dell'assoluzione del Tribunale di Milano, ha scritto un libro per scrollarsi di dosso il personaggio di Ruby Rubacuori. La biografia si intitola semplicemente «Karima». Ormai è lontana dagli anni di Arcore.
Marysthell Polanco
Nessuna comunicazione, al momento, a Marysthell Polanco. «Dalla famiglia Berlusconi non mi è arrivata nessuna comunicazione - dice - , nessuna lettera. Io ricevevo l'assegno di 2.500 euro, ma non c'entro niente con queste ragazze». Polanco promette di "vuotare il sacco" dopo il 5 marzo, data in cui si discuterà in Cassazione il ricorso della Procura di Milano contro il verdetto di assoluzione di tutti gli imputati nel processo. «Dopo il 5 marzo parlerò. Adesso siamo ancora sotto processo».
Estratto da liberoquotidiano.it domenica 5 novembre 2023.
L'ex olgettina e showgirl comasca Barbara Guerra avrebbe ricevuto lo scorso 3 ottobre una lettera di sfratto dalla famiglia di Silvio Berlusconi. Lei però non ci sta: "Perché me ne dovrei andare? Ho ancora le chiavi di questa casa. E ho detto tutto", si è sfogata con La Stampa, dicendosi "esausta" per le decine di chiamate da parte di giornalisti che le chiedono conto di questa situazione.
Lei e altre ragazze dal 2013 vivevano in ville o appartamenti concessi dall'ex premier in comodato d’uso gratuito. Dopo la morte del Cav, però, i suoi eredi avrebbero deciso di non rinnovare più i contratti, in scadenza il prossimo 31 dicembre.
Alla Guerra, così come ad Alessandra Sorcinelli, erano andate - come si legge sul quotidiano torinese - due ville del valore di circa un milione di euro l’una in Brianza. "Era una donazione di Silvio. Me lo aveva promesso - ha detto l’ex showgirl -. Ma delle questioni tecniche se ne occupano i miei avvocati, quindi posso parlare solo per qualche minuto".
Lo sfratto per lei è inammissibile: "Non è vero che ora che è morto Silvio io devo abbandonare l’immobile". I suoi avvocati in una nota parlano di una "donazione" di Berlusconi, "in virtù della loro lunga e virtuosa frequentazione" e che "in merito alla presunta decadenza dal comodato, il titolo abitativo deriva dalla precisa volontà di Berlusconi di donarle la proprietà". […]
A capo dello studio il dottor Benjamin Breyer, professore associato presso il dipartimento di urologia di San Francisco: “Crediamo che la ceretta all’inguine sia associata alla trasmissione di malattie e virus”. Più di 3.316 donne tra i 18 e i 65 anni hanno partecipato allo studio e l’84 per cento di queste era rasata. “La cosa più evidente dai risultati è che le donne si fanno la ceretta intima sulla base di numerose pressioni esterne che sono probabilmente aumentate negli ultimi dieci anni.”
Estratto dell’articolo di Laura Tedesco per il “Corriere della Sera” martedì 7 novembre 2023.
Ex Olgettine sfrattate e lasciate senza assegno dagli eredi del Cav? «Il nome di Roberta Bonasia non c’entra con questa faccenda, la mia assistita aveva già rinunciato a ogni privilegio da parecchio tempo, attualmente non percepiva più alcun benefit».
C’è anche un risvolto veronese nel «caso Olgettine sfrattate» e lasciate senza «bonus» dagli eredi di Silvio Berlusconi: anzi, è meglio affermare l’esatto contrario visto che l’avvocato Maurizio Milan interviene per mettere in chiaro proprio «l’estraneità di Bonasia rispetto alle polemiche di questi giorni, infatti da tempo la mia cliente si è resa economicamente del tutto autonoma, mantenendosi grazie al proprio lavoro e tagliando ogni rapporto col passato».
Mentre il nome del Cav veniva inciso tra gli illustri al Famedio di Milano, gli ultimi risvolti sono noti: le famose (ex) Olgettine ospiti alle «cene eleganti» di Arcore, per volontà degli eredi del Cav dovranno ora abbandonare ville e appartamenti messi loro a disposizione da Silvio Berlusconi. La scomparsa del Cav, lo scorso 12 giugno, aveva già portato al taglio automatico degli assegni mensili da 2.500 euro che le ragazze hanno incassato per anni dall’ex premier dopo aver animato le cene eleganti a Villa San Martino: tra le destinatarie dei «tagli» figurano Barbara Guerra, le gemelle De Vivo, Francesca Cipriani, Alessandra Sorcinelli.
«Invece Bonasia - precisa il suo legale scaligero - non è stata colpita né dallo sfratto né dallo stop all’assegno, perché non usufruiva di alcuno dei due benefit». Originaria di Torino, l’ex reginetta di bellezza ed ex infermiera di Nichelino dopo essere diventata famosa come «la preferita dei Berlusconi» (all’epoca se ne parlava perfino come presunta «fidanzata»), gravita spesso nel Veronese dove, a San Pietro in Cariano, abitano uno zio e i cugini.
«Quando nel 2010 Roberta venne travolta dal caso Ruby, si rifugiò proprio in terra scaligera, voleva fuggire da quelle accuse ingiuste, fu allora che la conobbi e ne assunsi la difesa. Per lei quel momento era terribile, le cadde il mondo addosso, non se lo meritava perché non aveva commesso alcun reato, non c’entrava con quella storia»: la «storia» a cui si riferisce l’avvocato Milan è lo scandalo del Bunga Bunga e delle (presunte) cene «bollenti» ad Arcore. […]
La «nuova» Bonasia ha successo anche sui social, vantando 40 mila follower sul suo profilo Twitter: per il suo avvocato torinese Stefano Tizzani, «il prezzo pagato da alcune di queste ragazze è stato troppo alto, in particolare per la mia assistita».
SELVAGGIA: ''QUANDO SENTO LE ARPIE ISTERICHE GUERRA-SORCINELLI MI VIENE NOSTALGIA DI STALIN E QUEI BEI CAMPI DI LAVORO IN SIBERIA''. Selvaggia Lucarelli per il suo blog, selvaggialucarelli.com domenica 5 novembre 2023.
Io non so se ascoltando la telefonata delle due arpie isteriche Sorcinelli/Guerra in preda a un esaurimento nervoso (e di liquidità) mi fanno più orrore loro o Berlusconi.
Loro che urlano "siamo in mezzo a una strada!" che poi sarebbe la loro ubicazione più consona, lui che balbetta "ma io ho dato ieri 160 000 euro per gli arredi di casa di Barbara!" (evidentemente alla Guerra le librerie Billy non piacciono un granché), loro che ribadiscono "ci devi dare 50 a testa, non possiamo neanche più prelevare!", lui che se la fa sotto che manco il toyboy di Corinne Clery a Pechino express, loro che poverine sono tanto stanche di questa situazione quindi "sabato ci ricevi ad Arcore" , lui che "Chiamo Spinelli così risolviamo tutto ma a questo punto non serve che veniate ad Arcore!" e loro due, le arpie assatanate: "No, noi ad Arcore ci veniamo lo stesso!".
Davvero. La mestizia più totale. Lui un vecchio rincoglionito sotto ricatto, Guerra e Sorcinelli due che ti fanno venire nostalgia di Stalin e quei bei campi di lavoro in Siberia. In fondo, a intuito, il lavoro è l'unica esperienza estrema che le due non hanno mai provato. Sarebbe ora.
Estratto dell'articolo di Marco Mensurati ed Emilio Randacio per ''La Repubblica'' domenica 5 novembre 2023.
Soldi per continuare a vivere. Soldi per ripartire a Miami, dopo "quattro anni di m...". Il 20 giugno del 2013, dal telefono di Alessandra Sorcinelli, parte una telefonata verso un'utenza in uso a Silvio Berlusconi. A fianco di una delle più assidue frequentatrici del Bunga bunga di Arcore, c'è Barbara Guerra. Le ragazze decidono di registrare la conversazione con il loro telefono cellulare. Registrano, e filmano contemporaneamente il dialogo con l'ex Cavaliere.
Questa è una delle 11 conversazioni depositate agli atti del procedimento milanese dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, in cui Berlusconi e altri 30 imputati, rischiano il rinvio a giudizio con accuse che parlano di corruzione giudiziaria e falsa testimonianza. Denaro - sospetta l'accusa - in cambio del silenzio sulle vere finalità del Bunga bunga e delle presunte "cene eleganti".
Questa conversazione è stata recuperata dalla memoria dello smartphone in uso a una delle ragazze. Lo scandalo Ruby è scoppiato nell'ottobre del 2010. E, da allora, le ospiti subiscono perquisizioni, interrogatori, convocazioni in Tribunale, per raccontare lo svolgimento delle feste dell'allora presidente del Consiglio. Berlusconi - questo il canovaccio dell'accusa -, pur di non veder pubblicamente emergere la verità dei suoi festini, avrebbe iniziato a pagare le ragazze.
Contratti sui canali Mediaset, oppure denaro in contante - si quantificano spese per un totale di 10 milioni di euro -, auto o appartamenti. Quando nel Ruby bis il Tribunale di Milano ordina di indagare una trentina di testimoni per falsa testimonianza e scoppia il caos. Apparentemente i versamenti si interrompono, anche se molte ragazze non demordono. Questo filmato dimostra l'insistenza con la quale Sorcinelli e Guerra pretendono il denaro da Berlusconi.
"Dopo quattro anni di m....". Le due ex presentatrici e modelle dalla telefonata informano l'ex Cavaliere "di non avere più una lira". E dalla conversazione richiedono - così si intuisce - 50mila euro a testa, sembra per un progetto a Miami, in Florida, per avviare una società per produrre costumi da bagno. Berlusconi, dal tono che emerge, è in soggezione. "Ma la scorsa settimana ho pagato 160mila euro per gli arredi della tua casa", cerca di replicare alle richieste.
E, Barbara Guerra, esplode in un motto di rabbia: "Quella non è casa miaaaaa....". Il riferimento è alle due ville da un milione di euro a Bernareggio, alle porte di Milano, che l'ex Cav ha concesso in comodato d'uso gratuito ventennale alle due olgettine. Una soluzione non definitiva, che non sembra essere stata del tutto gradita. "Ci servono i soldi", è l'ultimatum lanciato dalle ragazze, con un tono tutt'altro che rassicurante. Berlusconi le invita per il sabato seguente ad Arcore, ma la risposta è tutt'altro che rassicurante: "Sì, così ci racconti ancora le barzellette....".
Alla fine, Sorcinelli e Guerra - stando a questa conversazione che si trova anche tra le carte inviate alla Commissione per le autorizzazioni a procedere -, sembrano ottenere ciò che chiedono. Berlusconi, con un tono quasi intimorito, garantisce che chiamerà il suo ragioniere, Giuseppe Spinelli, per sbloccare la situazione: "Cinquanta a testa", è la richiesta che si capta dalla cornetta.
Marco Galluzzo per corriere.it del 31 gennaio 2007
Alle due di notte c'è spazio per un governo possibile con la Margherita e una proposta di matrimonio all'avvenente Mara Carfagna. Alle tre per una sbirciatina fugace all' abito succinto della velina, un paio di interviste e una battuta a Zucchero («devo sottoporti alcuni testi che ho scritto, prima però tagliati barba e capelli»). Alle quattro infine l'indicazione di Fini come possibile successore, una favola di Esopo per denunciare i limiti della sinistra e i saluti ad un'Aida Yespica che gli sorride e lo fa sorridere: «Con te andrei ovunque, anche in un' isola deserta...».
Alla serata dei Telegatti Berlusconi non manca
mai. Due sere fa ha rispettato la regola: è arrivato quando gli ospiti erano già
seduti, è andato via tre ore dopo, alle quattro del mattino, quando i camerieri
avevano sparecchiato i tavoli. All'una ha detto che non era serata per discorsi
politici, semmai per galanterie alle signore; alle quattro ha cambiato idea e
tenuto un piccolo comizio sul liberalismo e sul futuro del Paese.
Accanto a lui la velina di Striscia la notizia Melissa Satta, abito quasi
inesistente sul retro e anche lei tanti sorrisi al Cavaliere: «Vedo che ha
risparmiato sul sarto, signorina. Guardi che conosco suo padre, domani lo
chiamo, è avvertita...».
Al complesso monumentale del Santo spirito, ex ospedale per poveri e infermi, volte affrescate nel ' 400, l' atmosfera è quella di una festa vip e popolare: c' è lo staff di Mediaset al completo, i volti dei reality di successo, conduttori, soubrette, attori televisivi. Pippo Baudo è poco distante da Valeria Marini.
Rita Rusic saluta affettuosamente le sorelle Carlucci, sedute al tavolo del Cavaliere insieme a Claudio Bisio e Vanessa Incontrada, che hanno condotto la serata tv, e al condirettore di «Tv Sorrisi e canzoni», Rosanna Mani. Poco distanti Pamela Prati e la Yespica, ma anche l' ex sottosegretario diessino Vincenzo Vita e il presidente diellino della Provincia, Enrico Gasbarra.
A quest' ultimo l' ex premier sussurra a lungo all' orecchio. Anni fa lo ospitò ad Arcore, gli disse che aveva gusto ed estetica adatti a una metamorfosi, cercò senza successo di cooptarlo in Forza Italia: «E ci riprova sempre - racconta lo stesso Gasbarra - dice che prima o poi bisogna fare un governo insieme, con noi della Margherita. Gli ho detto che così mi spaventava il mio assessore, Vita, e allora lui ha insistito con mia moglie: "lo dica lei a suo marito, deve venire con noi, e poi i ds ormai sono liberalizzatori, possiamo imbarcare anche loro in un governo tecnico..."».
Sorridono mentre raccontano, in sala si addenta il tortino di zucca, Berlusconi è già qualche metro più in là, si lamenta scherzando del convegno di Liberal sul «berlusconismo», ovvero su se stesso, ieri e oggi nella Capitale: «Mi stanno paragonando a Reagan e de Gaulle e non mi va proprio giù, almeno per ora, sono ancora vivo....».
Prosegue il giro di tavoli, viene presentato e presenta il leader di Forza Italia, nel secondo caso sono due deputate azzurre ad essere introdotte, la bionda Micaela Biancofiore, la mora Mara Carfagna: «Belle, brave, molto più di tanti deputati». Ma per la seconda c' è un complimento in più: «Se non fossi già sposato la sposerei subito..».
Poco prima di andare è la volta della favola: «Uno scorpione - racconta il Cavaliere - chiese alla rana di poter salire sul suo dorso, per farsi trasportare oltre il torrente. La rana rispose: "Non lo farò, perché altrimenti, durante il guado, mi pungerai". E lo scorpione: "Non potrei mai farlo, altrimenti annegheremmo entrambi".
La rana si fa convincere ma arrivati al centro del
torrente lo scorpione la punge a morte. Prima che ambedue anneghino - conclude
Berlusconi- alla rana rimane il tempo di chiedere allo scorpione il perché del
suo gesto. Risposta: "l' ho fatto semplicemente perché è nella mia natura"».
Morale: «Non si meravigli ora Prodi se all'interno della coalizione, sui temi
delle riforme, i partiti che vantano ancora la definizione di comunisti prendano
posizione divergenti: è la loro natura».
Da gazzetta.it – 31 gennaio 2007
"A mio marito e all'uomo pubblico chiedo pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente". Veronica Lario Berlusconi sceglie la strada di una lettera aperta al direttore di Repubblica per esprimere le sue reazioni alle affermazioni dell'ex presidente del Consiglio nel corso della cena di gala dopo la consegna dei Telegatti.
"Mio marito - scrive Veronica Berlusconi - riferendosi ad alcune delle signore presenti - si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: 'se non fossi già sposato la sposerei subito', 'con te andrei ovunque". "Sono affermazioni - prosegue la Lario nella lettera - che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l'età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni".
LA RISPOSTA DI BERLUSCONI - Ecco il testo della lettera di risposta inviata dal Presidente Silvio Berlusconi alla moglie Veronica, che ha rifiutato poi ogni commento: "Cara Veronica, eccoti le mie scuse. Ero recalcitrante in privato, perché sono giocoso, ma anche orgoglioso. Sfidato in pubblico, la tentazione di cederti è forte. E non le resisto.
Siamo insieme da una vita. Tre figli adorabili che hai preparato per l'esistenza con la cura e il rigore amoroso di quella splendida persona che sei, e che sei sempre stata per me dal giorno in cui ci siamo conosciuti e innamorati. Abbiamo fatto insieme più cose belle di quante entrambi siamo disposti a riconoscerne in un periodo di turbolenza e di affanno. Ma finirà, e finirà nella dolcezza come tutte le storie vere.
Le mie giornate sono pazzesche, lo sai. Il lavoro,
la politica, i problemi, gli spostamenti e gli esami pubblici che non finiscono
mai, una vita sotto costante pressione. La responsabilità continua verso gli
altri e verso di sè, anche verso una moglie che si ama nella comprensione e
nell'incomprensione, verso tutti i figli, tutto questo apre lo spazio alla
piccola irresponsabilità di un carattere giocoso e autoironico e spesso
irriverente.
Ma la tua dignità non c'entra, la custodisco come un bene prezioso nel mio cuore
anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata, il riferimento
galante, la bagattella di un momento. Ma proposte di matrimonio, no, credimi,
non ne ho fatte mai a nessuno. Scusami dunque, te ne prego, e prendi questa
testimonianza pubblica di un orgoglio privato che cede alla tua collera come un
atto d'amore.
Uno tra tanti. Un grosso bacio Silvio". Insomma Berlusconi sembra sottoscrivere
ancora quanto ribadito in un'intervista ad A e anticipata proprio oggi dal
Corriere della Sera. "Veronica è una donna speciale. È stata una passione
totale. Non mi ha mai fatto fare una brutta figura...". "E poi - conclude dulcis
in fundo - è anche indulgente".
REAZIONI - Le affermazioni audaci che hanno scatenato la reazione della signora
Berlusconi sono state rivolte dal Cavaliere ad AIda Yespica e Mara Carfagna.
All'arrivo dell'ex premier alla cena dei Telegatti, la prima gli si sarebbe
rivolto confessando: "Presidente, con lei andrei su un'isola deserta".
Brillante e dalla risposta pronta, il Cavaliere le ha quindi risposto: "Io con te andrei dovunque". Ma è per la Carfagna, showgirl eletta nelle fila di Forza Italia, che l'ex-premier riserva la nota più romantica: "Guardatela... se non fossi già sposato me la sposerei".
Veronica Berlusconi premette che gli costa molto vincere "la riservatezza" che ha contraddistinto il suo modo di essere "nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi" qual è suo marito. Ma dopo aver affrontato "gli inevitabili contrasti e momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta, con rispetto e discrezione", Veronica Lario decide di rompere il muro del silenzio non solo per tutelare la sua dignità di donna, ma anche per dare un esempio ai figli: prima di tutto alle sue figlie femmine e poi per "aiutare suo figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne".
"Oggi - sottolinea - nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l'esempio di una donna capace di tutelare la propria dignità nel rapporto con gli uomini assume un'importanza particolarmente pregnante".Berlusconi, "Fagiolini da 80 euro al kg" e poi la rivoluzione di Pascale ad Arcore. Il tempo il 05 agosto 2023
A quasi due mesi dalla scomparsa di Silvio Berlusconi, il tema del patrimonio del Cavaliere continua a essere di grande attualità. A suscitare curiosità è soprattutto Marta Fascina, la compagna e parlamentare alla quale il fondatore di Forza Italia ha lasciato 100 milioni di euro. Fascina, tuttavia, non è la sola donna a stare sotto i riflettori dopo la morte dello statista. Tommaso Labate, nell'ultima edizione di 7, il settimanale del Corriere della Sera, ha dedicato un articolo proprio a Berlusconi e alle quattro donne della sua vita, con tanto di aneddoti e retroscena.
A scandire la vita del Cavaliere, secondo Labate, un profondo conoscitore del "berlusconismo", sono state quattro donne: Carla Elvira Dall’Oglio, madre di Marina e Piersilvio; Veronica Lario, mamma di Barbara, Eleonora e Luigi; e poi Francesca Pascale e Marta Fascina. "Due mogli, una fidanzata e una “moglie” scritto con le virgolette, perché l’unione non è di quelle contemplate dal codice civile o dal diritto di famiglia. Una sola di queste è stata la first lady della Repubblica, la seconda. La prima e l’ultima sono nate a distanza di mezzo secolo l’una dall’altra": così il giornalista esordisce. Poi continua: "La prima è uscita di scena in silenzio, la seconda molto rumorosamente, la terza all’improvviso, la quarta è rimasta l’unica vedova pur senza mai essere stata ufficialmente la moglie".
Compagna del Cavaliere dal 2012 al 5 marzo del 2020, Francesca Pascale è stata quella che più "ha legato il proprio passaggio sul proscenio berlusconiano alla residenza simbolo del berlusconismo", la villa di Arcore. Labate ricorda soprattutto la "spending review" che Pascale, oggi sposata con Paola Turci, impose all'epoca al suo arrivo ad Arcore. Come riporta il giornalista, infatti, Pascale raccontò che prima del suo ingresso i fagiolini arrivavano a costare "80 euro al chilo" e le casse di pesce venivano consegnate ogni giorno "anche se è noto che il Presidente non solo non lo mangia, ma prova fastidio anche solo per l’odore quando lo cucinano".
Il silenzio di Carla Dall’Oglio, la rabbia di Veronica Lario, i fagiolini di Francesca Pascale e la quasi moglie Marta Fascina: le 4 vite di Berlusconi. Tommaso Labate su Il Correre della Sera il 5 Agosto 2023
Riservatissima la prima moglie, battagliera (e arrabbiata) la seconda, poi una fidanzata molto loquace (e attenta al costo dei fagiolini), infine la quasi consorte che ha accompagnato Berlusconi alla fine. Che cosa hanno in comune? Assolutamente niente
Silvio Berlusconi (1936-2023) insieme con l’ultima compagna Marta Fascina, 33 anni, deputata di Forza Italia
Due mogli, una fidanzata e una “moglie” scritto con le virgolette, perché l’unione non è di quelle contemplate dal codice civile o dal diritto di famiglia. Una sola di queste è stata la first lady della Repubblica, la seconda. La prima e l’ultima sono nate a distanza di mezzo secolo l’una dall’altra.
Quattro storie diverse, quattro donne diverse, anche per provenienza geografica: lombarda (anche se nata in Liguria) la prima, emiliana la seconda, campana la terza, campana solo d’adozione la quarta (è nata e ha trascorso l’infanzia in Calabria).
La prima è uscita di scena in silenzio, la seconda molto rumorosamente, la terza all’improvviso, la quarta è rimasta l’unica vedova pur senza mai essere stata ufficialmente la moglie.
La storia sentimentale di Silvio Berlusconi è la storia di quattro donne e quattro addii. Carla Elvira Dall’Oglio, madre di Marina e Piersilvio; Veronica Lario, mamma di Barbara, Eleonora e Luigi; e poi Francesca Pascale e Marta Fascina .
Solo le ultime due hanno fatto politica attiva, entrambe con la tessera di Forza Italia, che la prima ha finito per stracciare e la seconda tiene in tasca anche le volte (poche, per la verità) in cui si siede sui banchi della Camera dei Deputati. Quattro storie diversissime e impossibili da paragonare se non attraverso i rispettivi i titoli di testa e di coda. E, ovviamente, attraverso il legame tra l’amore e la cosa meno romantica che esista: i soldi.
Silvio Berlusconi insieme con la prima moglie, Carla Elvira Dall’Oglio, ora 82 anni, e i figli Marina e Piersilvio. Il matrimonio è durato dal 1965 al 1985
CARLA
Era uno dei personaggi più attesi dalle centinaia di fotografi e cineoperatori che affollavano gli ingressi del Duomo di Milano. Non foss’altro perché la sua ultima apparizione in pubblico risaliva al giorno della cerimonia di consegna dell’Ambrogino d’oro alla figlia Marina, quattordici anni prima. Eppure Carla Dall’Oglio, ai funerali del suo primo e unico marito Silvio Berlusconi, non c’era. Il suo nome era nelle liste di coloro che avrebbero partecipato ma lei, ennesima spia di una vita votata alla riservatezza, alla fine ha preferito non esserci. Il primo delle centinaia di necrologi apparsi sul Corriere della Sera era il suo: «Carissimo Silvio, sei stato un grande uomo e un bravissimo papà per i nostri figli. Ricorderò per sempre la bellezza degli anni trascorsi insieme. Un abbraccio infinito». Sposati nel 1965, Carla e Silvio hanno divorziato vent’anni dopo, quando il secondo stava già con Veronica Lario. I termini economici di quella separazione non sono mai stati resi noti, Carla è uscita fuori dai radar della Brianza e apparsa, negli ultimi decenni, di più a Londra che nei dintorni di Arcore. Nel paragone messo a verbale dal diretto interessato a proposito della differenza tra il suo primo e il secondo divorzio, il Cavaliere una volta disse che Carla era stata «gran signora e madre perfetta (...) che si è sempre comportata in modo esemplare» anche dopo la fine del matrimonio.
MARTA
Tra gli eredi designati da Berlusconi figura soltanto una delle quattro donne: Marta Fascina. L’ultima compagna del Cavaliere, che ha attraversato insieme all’ex presidente del Consiglio tutte le stazioni del calvario a cui la salute l’ha sottoposto negli ultimi due anni prima della sua scomparsa, è stata menzionata in una lettera scritta il 19 gennaio 2022, prima di un ricovero al San Raffaele, e indirizzata a quattro dei suoi cinque figli (tutti tranne Luigi, che non è stato menzionato). Stando alla lettera (non era contenuta in alcuna busta), consegnata a mano da Fascina al notaio Arrigo Roveda due settimane dopo la morte del compagno, Berlusconi ha riconosciuto alla “moglie” (nelle ultime interviste la chiamava così) una cifra di cento milioni di euro; oltre a ribadire, dettagli già presenti nei testamenti precedenti, un lascito di altri cento milioni di euro per il fratello Paolo e uno di trenta milioni per Marcello Dell’Utri, amico e collaboratore di una vita.
Nei giorni successivi all’apertura del testamento, di cui quest’ultima lettera è diventata parte integrante, in tanti hanno indagato sui rapporti tra Fascina e il resto della famiglia Berlusconi; con l’esclusione di Marina, ovviamente, che al funerale del padre aveva plasticamente (attraverso una stretta di mano immortalata finita su tutti i giornali e in tutti i programmi tv) dimostrato il proprio affetto per la deputata di Forza Italia. E gli altri figli? Un lancio di agenzia dell’ Ansa dell’11 luglio scorso, che ha citato «fonti della famiglia Berlusconi», ha escluso ruggini e dato conto di rapporti - testualmente - «che sono eccellenti». Fascina, per ora, continua ad abitare a Villa San Martino, dove tra l’altro ha la residenza. E per un tempo ancora non definibile, pare, continuerà ad abitare ad Arcore, in una porzione della proprietà.
Con Francesca Pascale, ora 38 anni: il loro rapporto è durato 12 anni
FRANCESCA
Già, la villa di Arcore. Tra le quattro donne del Cavaliere, quella che ha più legato il proprio passaggio sul proscenio berlusconiano alla residenza simbolo del berlusconismo è stata Francesca Pascale, compagna del Cavaliere dal 2012 al 5 marzo del 2020, quando una nota di Forza Italia (proprio così, del partito) ha chiarito che «tra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale (...) non vi è alcuna relazione sentimentale o di coppia». Storiche la dichiarazione rese dalla donna, oggi moglie della cantante Paola Turci, a proposito della spending-review che lei stessa avrebbe imposto alla gestione della casa nel 2013, prima della quale i fagiolini arrivavano a costare «80 euro al chilo» e le casse di pesce venivano consegnate ogni giorno «anche se è noto che il Presidente non solo non lo mangia, ma prova fastidio anche solo per l’odore quando lo cucinano». Il periodo del fidanzamento con la Pascale coincide con quello in cui Berlusconi è costretto a passare più tempo in casa che fuori, anche a causa della condanna definitiva per frode fiscale che dopo l’estate del 2013 gli costa la decadenza dal Senato e l’affidamento ai servizi sociali. Insieme a Maria Rosaria Rossi, all’epoca senatrice e assistente del Cavaliere, Pascale costruisce il prototipo di “cerchio magico” degli anni più bui e dolorosi per la parabola politica di Berlusconi, in cui rivendica quella che lui chiama «agibilità politica». Prima che la storia arrivi ai titoli di coda, e che il cerchio magico Pascale-Rossi venga liquidato, l’ex presidente del Consiglio acquista per la compagna Francesca la residenza Villa Maria, nel territorio di Casatenovo, sempre in Brianza, appartenuta in passato all’ex calciatore e imprenditore Valentino Giambelli. La casa si sviluppa su 1140 metri quadri ed è circondata da un parco di 40mila. Costo dell’acquisto 2,5 milioni di euro, lavori di ristrutturazione per 29 milioni, la villa è stata poi venduta a Lavinia Eleonoire Jacobs, nipote del re del cioccolato svizzero Klaus. Il prezzo della rivendita non è noto ma è difficile immaginare che Pascale (e Berlusconi) abbiano accettato minusvalenze.
Silvio Berlusconi con la seconda moglie Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Bartolini, ora 66 anni. I due sono stati sposati dal 1990 al 2014 e hanno avuto tre figli
VERONICA
La fine del rapporto tra Veronica Lario e Silvio Berlusconi è entrata di diritto nella storia politica d’Italia di inizio millennio. Anche perché la rumorosa separazione tra il Cavaliere e l’attrice di cui si era innamorato all’inizio degli Anni 80 dopo averla vista in una replica del Magnifico Cornuto, a conti fatti, ha affiancato il berlusconismo di governo nell’ingresso nella fase del declino, scandita poi da inchieste della stampa e della magistratura che poi sono diventate, in parte, anche processi. La signora Lario ha partecipato ai funerali del Cavaliere, sul posto che le era stato assegnato era apparso un biglietto con la scritta “Veronica Bartolini”, mix tra il nome all’anagrafe (Miriam Bartolini) e quello d’arte (Veronica Lario). Negli ultimi anni, Veronica e Silvio si sono incontrati giusto lo stretto necessario, in occasione dei compleanni dei figli e dei nipoti. La cifre che hanno corredato le carte processuali del loro divorzio sono cambiate di continuo: l’assegno di mantenimento che Berlusconi doveva a Lario è stato di 1,4 milioni di euro al mese (Tribunale di Monza, 2015), poi di zero (con obbligo di restituzione da parte di Lario di una sessantina di milioni di euro, Corte d’Appello di Milano, 2017). La Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado ma un accordo extra-giudiziale tra i due ha escluso che l’ex moglie dovesse restituire la somma percepita dal 2015 al 2017 al fu marito, che comunque non ha più dovuto versare l’assegno di mantenimento. Durante uno dei ricoveri più lunghi di Berlusconi al San Raffaele, nel 2020, durante l’infezione da Covid, il nome di Veronica Lario figurava nell’elenco delle chiamate in entrata. Non è stata mai richiamata.
Silvio Berlusconi e le donne, quanti milioni ha speso dal 2010 a oggi: da Veronica Lario alla Pascale, divorzi e buonuscite. Libero Quotidiano il 16 agosto 2020
Quanto ha speso Silvio Berlusconi per le donne? Il calcolo, grossolano, l'ha fatto Tommaso Labate del Corriere della Sera e la cifra lascia decisamente storditi: 75 milioni di euro. Certo, il conto copre una buona fetta di anni, dal 2010 ad oggi, ed è pur vero che il Cavaliere, oltre che potente, per molto tempo è stato il tycoon italiano per eccellenza. Labate si riferisce all'elenco ci risarcimenti, assegni di divorzio, donazioni e prestiti senza restituzioni, compresi quello alla moglie di Marcello Dell’Utri (con la formula di un prestito infruttifero, quando il marito è finito condannato per mafia) e a Nicole Minetti, la consigliera regionale protagonista del caso Ruby e delle "cene eleganti" ad Arcore.
La porzione più grossa delle spese, però, riguarda ovviamente la sua seconda ex moglie, Veronica Lario (che dopo la lite giudiziaria per gli assegni di mantenimento milionari pare aver ricucito il rapporto con l'ex premier) e, buona ultima, Francesca Pascale. Alla napoletana, lasciata per Marta Fascina, Berlusconi ha promesso 20 milioni di buonuscita. O risarcimento morale, se preferite.
Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani e Domenico Agrizzi per mowmag.com il 19 Giugno 2023.
Amori ufficiali, ufficiosi, offensivi, inventati dalla stampa, illegali. Alcune volte, poche in verità, persino platonici.
(...)
A ogni modo, gli amori di Silvio sono stati carne, soldi e sputtanamenti. Storie bisbigliate da così tante persone da diventare grida all’interno di palazzi dai soffitti troppo alti. Parodie di amor cortese e nessuna poesia. Piuttosto storiacce da taverna. Ma anche le favolacce reclamano il diritto all’esistenza. Solo la mente di un demiurgo con problemi a casa potrebbe concepire l’inganno di Ruby, “nipote di Mubarak”. Neanche un re folle si spingerebbe a presenziare alla festa di una damigella (minorenne) quasi facendo “cucù”. La povera innocente non trovò niente di meglio di un nomignolo per dichiarare il suo affetto: “Papi”.
(...)
Chi ne ricorda il profumo dei piedi, chi la freschezza dell’alito al gusto di Iodosan. Poi le attrici, le escort, le giornaliste e tutte coloro di cui non sappiamo niente. Non lo sapremo mai. Non in questa vita. Chissà se saremo invitati a quel tavolo all’inferno, seduti tra Berlusconi e Lucifero. In una notte di racconti. Attendendo almeno un altro compare, l’amico e mai (per carità!) compagno. “Vladimir, cribbio, almeno la bottiglia portala tu, che alla fi*a ci penso io”. Nel sottosuolo, tra Lambrusco e bunga bunga. Ammesso, e non concesso, che alla prossima legislatura Silvio non risorga.
Carla Elvira Dall’Oglio (12 settembre 1940): prima moglie di Berlusconi. Sposati nel ’64, con lei ha avuto due figli, Marina e Pier Silvio. Si dice che sia la prima moglie a fare il vero uomo di potere. Poi si lascia per la segretaria, che ha aiutato il potente a consolidare il potere, infine ci si sposa per la terza volta con una moglie “trofeo”, giovane e bella. Berlusconi non ha seguito questa procedura. A noi piace, soprattutto nelle foto d’epoca con quel taglio a scalare alla Charlie’s Angels o alla Daisy di Hazard.
Veronica Lario (19 luglio 1956): Famosa per le foto con le tettone di fuori sparate in prima pagina da un giornale vicino al Cav. Fabrizia Carminati, che aveva una relazione con Berlusconi ma si era innamorata di un altro, insistette perché l’andasse a trovare in camerino durante la rappresentazione de “Il magnifico cornuto”. Era fortunato anche quando lo volevano scaricare.
Noemi Letizia (26 aprile 1991): Pare sia l’inventrice del soprannome “Papi”. Berlusconi si presentò al suo diciottesimo compleanno, ma la conosceva da prima. Oggi non la riconosce più nessuno a causa degli interventi di chirurgia estetica. Berlusconi disse che era molto amico del padre da lunghissimo tempo: lo zio di Mubarak.
Katarina Knezevic (21 maggio 1991): modella Montenegrina. Citazioni famose: "Non l’ho mai tradito" e "diventerò sua moglie". Montenegro, sapore vero.
Evelina Manna (1973): Di Silvio ricorda che “amava addormentarsi abbracciato ’a seggiolina’” e nessuno le ha spiegato che si dice “a cucchiaio” e che aveva “l’alito fresco al gusto di Iodosan”, lo sentiva con la nuca.
Susanna Petruni (18 febbraio 1961): Dagospia notò che indossava un gioiello a forma di farfalla uguale a quello che il cavaliere regalava alle partecipanti alle cene eleganti. Smentì (tutti i giornalisti sanno che una smentita è una notizia data due volte), attaccò Dagospia e rese la sua farfallina popolarissima.
Barbara Faggioli (5 giugno 1986): alla domanda se avesse partecipato ai Bunga Bunga, rispose: “Cercava amici per andare al cinema”. La famosa domanda: “Cinema o Bunga Bunga?”: cinema! Ma prima Bunga Bunga.
Elisa Toti (12 luglio 1979): in una intercettazione disse alla madre che Berlusconi la pagava per andare ad Arcore a vedere documentari. (Io cerco di essere surreale, ma queste sono meglio di Nino Frassica).
Michaela Biancofiore (28 dicembre 1970): Ha dichiarato: “Sono contro i trans e i gay ma non li vieterei”. Francesca Pascale deve ritenersi fortunata.
Darina Pavlova (30 maggio 1963): Fece uno scoop: “Il Cavaliere si alza spesso la notte perché ha sete”. Prostamol voleva comprare i diritti dello slogan.
Miriam Loddo (1983): detta “Il Loddo Berlusconi”. Ama farsi fotografare in pose anchilosanti.
Ioana Visan (1987): nei messaggi che si scambiava con le altre ragazze diceva: "Sono putta*a dentro, non c’è niente da fare”. Alcuni maligni dicevano che lo sembrava anche fuori, ma questo è altamente soggettivo. In ogni caso non c’è niente da fare. In un altro audio smentisce se stessa: “Sono un puttano*e di strada”. Come si fa a fare il puttano*e di strada, se lo sei solo dentro, è un mistero. Forse declamava poesie che erano un po' delle puttanate.
Patrizia D’Addario (17 febbraio 1967): ex-escort del giro di Tarantini. Diventò per un periodo l’idolo della sinistra perché ammise di avere scopa*o con Berlusconi. Faceva l’escort di strada (puttana fuori, non come la Visan) accompagnata dal pappone, tal Barba. Consegnò ai magistrati un vhs in cui faceva sesso con Barba e gli diceva: “Per colpa tua sono diventata una porca”. Immagino che i magistrati abbiano annuito con fare professionale.
Karima el Marhroug “Ruby Rubacuori” (1 novembre 1992): è la figlia della sorella di Mubarak. Aveva diciassette anni ma ne dimostrava 78. Alle cene eleganti Berlusconi le faceva arrivare il semolino tricolore.
Nicole Minetti (11 marzo 1985): A lei dobbiamo la descrizione del lato B. di Berlusconi: “È un culo flaccido e basta”. Meraviglioso il lapsus di Berlusconi: “La Minetti non è mai stata la mia igienista mentale”.
Sabina Began (22 ottobre 1974): Quella che uno la lascia e dice “sono incinta”, poi “ho perso il bambino”, poi “dopo Berlusconi non ho avuto più nessun uomo”. Il triplete delle scassaminchia a oltranza.
Francesca Pascale (15 luglio 1985): dopo la morte di Berlusconi ha detto: “Mi ha lasciato dentro un vuoto incolmabile”. Commento o ci arrivate da soli?
Lory Del Santo (28 settembre 1958): dice di non esser stata “berlusconizzata”: “Mi ha solo baciato la mano”. È certo però che “Drive In fosse il primo vero, organizzato, strutturato, luogo di ‘cucco’ di Berlusconi”. Si lamentò di un “bidone” datogli da due del Drive In a Capodanno: “Se comincia così poi non scopiamo tutto l’anno”.
Mara Carfagna (18 dicembre 1975): lei se ne stava lì, immobile col suo sguardo fisso, quando Berlusconi le disse “la sposerei se non fossi già sposato” e successe il pandemonio. Per molto tempo in tanti si sono chiesti se quello sguardo oltremodo fisso fosse sintomo di chissà che. Poi svelò il mistero: “Sono miope”. Non vede un cazzo.
Mariarosaria Rossi (8 marzo 1972): ha avuto molto potere nel cerchio magico, tanto da volere cambiare il nome del Bunga Bunga – fonte Corriere della Sera – in Squit Squit (senza la erre, che se no poi pensate male).
Licia Ronzulli (14 settembre 1975): ex potente del cerchio magico, adesso a capo dell’ala anti-Fascina di Forza Italia. Non oso pensare cosa ha detto guardando le immagini di Marina e Marta mano nella mano.
(...)
Le gemelle De Vivo (8 febbraio 1982): anch’esse parteciparono alle feste di Arcore e alloggiavano nel residence Dimora Olgettina. Che dire. Gemelle. Cosa possiamo dire di più che gemelle. Complimenti? Le nostre più vivissime congratulazioni? E daje? Gemelle. Punto.
Virginia Sanjust di Teulada (9 aprile 1977): nel 2011 dichiara al Fatto quotidiano che la relazione con Berlusconi era più di un’amicizia. Ultimamente è finita sui giornali per aver devastato la casa della nonna (l’attrice Antonella Lualdi) per una questione di soldi. Evidentemente, una volta, Berlusconi non era così generoso come poi divenne.
Alessandra Sorcinelli (20 marzo 1984): una di quelle che "Berlusconi mi ha rovinato la vita. Non ne voglio più sentire parlare, di quel vecchio".
Barbara Guerra (1978): Abbastanza bona.
Iris Berardi: Teneva un diario in cui scriveva: “Non mi sono fatta mancare nulla: droga, alcol, sigarette, sesso, orge ad Arcore, marchette, sesso con donne, sesso con due uomini contemporaneamente”. Minchia, fumava. Che vergogna.
Marysthell Garcia Polanco (1981): faceva i burlesque durante i bunga bunga vestita da Ilda Bocassini e da Obama. Quest’ultimo gli veniva facile perché era abbronzata anche lei.
Marta Fascina (9 gennaio 1990): moglie “morganatica”. Bruno Vespa ha dichiarato che ha visto la fede al dito di Berlusconi solo per Marta Fascina. Mai una scollatura, mai una gonna corta, mai una parola fuori luogo. L’anti bunga bunga. La redenzione. Il riposo del guerriero. Devotissima. Ai funerali hanno tutti notato il feeling tra lei e Marina Berlusconi, e pare che proprio le due donne siano il fulcro delle decisioni su Forza Italia. (Non lo dite alla Ronzulli che già sarà nervosa di suo).
Battilana, la donna che disse no a Silvio Berlusconi: «Una beatificazione inaccettabile». NELLO TROCCHIA su Il Domani il 14 giugno 2023
Dopo la morte di Silvio Berlusconi, quattro volte presidente del Consiglio e imprenditore di successo, è partita la beatificazione che si accompagna a una revisione dei fatti, ormai accertati e documentati.
Anche sulle notti del bunga bunga, sul circuito prostitutivo che ha animato le serate nelle sue ville, è partita la destrutturazione della verità.
«È assurdo assistere a questo tentativo di riscrittura dei fatti, ho incontrato molti giornalisti in passato con la paura anche solo di parlare della mia storia», dice Ambra Battilana Gutierrez.
Dopo la morte di Silvio Berlusconi, quattro volte presidente del Consiglio e imprenditore di successo, è partita la beatificazione che si accompagna a una revisione dei fatti, ormai accertati e documentati. Anche sulle notti del bunga bunga, sul circuito prostitutivo che ha animato le serate nelle sue ville, è partita la destrutturazione della verità.
«È assurdo assistere a questo tentativo di riscrittura dei fatti, ho incontrato molti giornalisti in passato con la paura anche solo di parlare della mia storia», dice Ambra Battilana Gutierrez. Nel 2011 aveva 18 anni quando è stata ad Arcore, una presenza di poche ore. Insieme a Chiara Danese, infatti, è l’unica ad aver detto no ai voleri del sultano. Di più, entrambe hanno continuato a credere nella giustizia raccontando quello che sapevano, sono state considerate totalmente credibili dai giudici.
L’ex presidente del Consiglio è stato assolto dall’accusa di concussione e prostituzione minorile, l’attività prostitutiva c’è stata, ma non sono state trovate le prove che Berlusconi conoscesse l’età della minorenne, Karima El Mahroug, e così è scattata l'assoluzione. Nell’altro processo, quello per corruzione giudiziaria, Berlusconi ha elargito prebende e soldi alle testimoni delle notti di Arcore, l’assoluzione è arrivata in primo grado per l’interpretazione della posizione giudiziaria delle ragazze, ma i pagamenti sono stati riscontrati. In questi processi è stata sentita anche Ambra Battilana, ritenuta totalmente credibile.
Oggi lei lavora negli Stati Uniti come modella, torniamo a quella serata del 22 agosto 2010 quando lei ha conosciuto l’uomo più potente d’Italia, cosa ricorda?
Avevo 18 anni e quel giorno avevo vinto la finale regionale di un concorso di bellezza. Il mio agente dell’epoca, mi fidavo purtroppo, mi aveva detto di incontrare Emilio Fede che mi propose subito di diventare meteorina. Durante una cena al ristorante mi arriva l’invito, sia a me che a Chiara, per andare insieme a festeggiare la vittoria il giorno seguente. Io pensavo a una cena, ci portarono in questa villa gigantesca, ricordo che ci chiesero i documenti. Era villa San Martino, la residenza dell’allora presidente del Consiglio, ma tutto questo l’ho saputo dopo, ero stanchissima perché avevo partecipato alle selezioni di miss Italia tutto il giorno.
Quando incontra Berlusconi?
Nel cortile incontriamo due persone molto anziane, una era una cantante e l’altra Maria Rosaria Rossi (senatrice forzista, prescritta per falsa testimonianza), c’era Emilio Fede che faceva battute strane su Chiara parlando continuamente di massaggi. Finalmente entriamo in casa e, a un certo punto, vediamo arrivare Berlusconi. All’inizio non l’ho riconosciuto, pensavo fosse un imitatore, ma per me era impensabile la sua presenza. Camminava con due vassoi in mano pieni di anelli, mi diceva: «Prendi, prendi». Io non stavo capendo niente, presi un anellino e lo ringraziai. A un certo punto arrivano tantissime ragazze in questo salotto, molte lavoravano in televisione. Lo baciavano in bocca e lo chiamavano ‘papi’. Sembrava un film. Fede guardava il nostro stupore e ci rassicurava.
Come è proseguita la serata?
Siamo andate a sederci per la cena attorno a un enorme tavolo dove troneggiava Silvio Berlusconi, intento a cantare e raccontare barzellette che non facevano ridere. Ma le altre ragazze ridevano per compiacerlo. Continuavo a guardare Chiara perché non capivamo quella situazione, non ci piaceva per niente, il mio agente si era allontanato e noi cominciavamo a sentire un certo disagio. Ma non era ancora successo niente.
Cosa è accaduto dopo?
La tavola era piena di giocattoli, a un certo punto arriva la statua di un Priapo. Alcune ragazze cominciano a simulare sesso orale, io ero in totale imbarazzo, avevo 18 anni e non sapevo come uscirne. A un certo punto, Berlusconi dice: «Ragazze, siete pronte per il bunga bunga?», tutte dicono sì e vanno via, Berlusconi ci accompagna in un’altra stanza. A un certo punto ci porta a vedere altre stanze, la sala discoteca, il teatro, la spa, per me era incredibile quello che stavamo vivendo. Saliamo le scale, Berlusconi da dietro ci palpeggia, noi ci giriamo di colpo e lui si ritrae. Arriviamo in un’altra stanza e ritroviamo le ragazze che si erano cambiate, chi era vestita da carabiniera, chi da infermiera, erano mezze nude, Nicole Minetti (poi diventata consigliera regionale e condannata in via definitiva per favoreggiamento della prostituzione, ndr) si era spogliata completamente. Altre ragazze volevano coinvolgerci perché così avremmo avuto un futuro in tv, ma noi volevamo solo andare via. Uscimmo e ci facemmo riaccompagnare a casa.
Cosa ha subito per aver ricordato quella serata?
Io torno a scuola e, dopo quattro mesi, un giorno entro in classe e c’era un silenzio assurdo. Il mio compagno di banco mi mostra un giornale, c’era un titolo sulle miss coinvolte nelle notti di Arcore, c’ero anche io. Si parlava di escort. Ricordo i paparazzi che salivano sui tetti per fotografarmi all’uscita di scuola, io non avevo fatto niente di male, niente. Perché venivo associata, insieme a Chiara, a queste ragazze? Non sapevo cosa fare, volevo raccontare la verità. Gli investigatori mi hanno ascoltata per otto ore nelle quali ho ricostruito quella serata. L’incubo non era finito, da allora ho pagato un prezzo altissimo, mi hanno trattata come una pazza, mi hanno dato della prostituta, sui giornali berlusconiani mi hanno massacrata. Sono stata calunniata da un’altra ragazza del bunga bunga (il reato si è prescritto, ndr), volevano demolire la mia credibilità. Ho testimoniato in tutti i processi raccontando la verità, ma ho sentito un isolamento totale.
Come ne è uscita?
Mi sono diplomata, ho cambiato città, ma quella storia mi inseguiva, sono andata in depressione e ho lasciato l’Italia, sono andata a Londra cambiando nome (usano il secondo cognome) e sono sparita. Aspetto ancora il risarcimento per i danni subiti, non ho ottenuto ancora niente. Successivamente mi sono trasferita negli Stati Uniti dove vivo e lavoro oggi, anche qui ho subito molestie e testimoniato nei processi contro Harvey Weinstein, sono stata la prima a denunciarlo.
Ne è valsa la pena?
Sì, perché le donne devono continuare a denunciare.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Dagospia il 12 giugno 2023. “VOLA ALTO PAPI” – LA PRIMA EX OLGETTINA A ROMPERE IL SILENZIO PER LA MORTE DI BERLUSCONI È MARYSTHELL POLANCO, CHE AFFIDA A INSTAGRAM LA SUA COMMOZIONE: “SILVIO ERA UN UOMO SPECIALE. LA SUA DELICATEZZA, IRONIA E IL RISPETTO CHE HA SEMPRE AVUTO PER ME RIMARRÀ NEL MIO CUORE. ABBIAMO PASSATO MOMENTI SPENSIERATI E DIFFICILI (NEL PROCESSO). GLI HO VOLUTO BENE È SEMPRE GLIENE VORRÒ…"
Comunicato stampa Escort Advisor il 12 giugno 2023.
Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa, saluta Silvio Berlusconi dedicandogli per qualche ora l'home page del sito. Non per una simpatia politica o altri motivi, ma per il contributo che ha dato alla semantica del settore del sesso a pagamento in Italia.
Se oggi la parola "escort" è entrata nel vocabolario collettivo ad indicare le professioniste che ricevono in appartamento, è anche grazie allo sdoganamento di questi anni nato dai Processi a carico di Silvio Berlusconi.
La parola "escort" nel mondo, anche anglosassone, è poco utilizzata e spesso ha altri significati. Nel gergo del settore si tende ad utilizzare parole più spinte e derivanti dal turpiloquio: "Nuten" in tedesco, "putas" in spagnolo, "loft girls" in inglese, per esempio.
La grande risonanza dei Processi a Berlusconi ha fatto sì che gli italiani abbiano iniziato a cercare su Google la parola "escort" senza remore. Una parola meno offensiva e più dignitosa per le operatrici del sesso. Probabilmente un caso unico in tutto il mondo degli incontri per adulti.
Un omaggio, quindi ad un uomo che pubblicamente ha contribuito a normalizzare, anche se a modo suo, un settore ancora oggi controverso.
Miriam Leone, protagonista di 1992, l'ex Miss Italia che Silvio Berlusconi imbarazzò negli studi di Porta a Porta. Estratto da huffingtonpost.it il 12 giugno 2023.
Bella, bellissima. Miriam Leone, che nella serie tv "1992", interpreta la parte di una starlette disposta a tutto pur di fare carriera (e non esista a "vendersi" tra gli altri a un imprenditore coinvolto nello scandalo di Mani Pulite), è un'attrice in carriera. Eletta Miss Italia nel 2008 è stata, tra le altre cose, conduttrice di Unomattina Estate e di Mattina in famiglia.
[…] Un'ascesa che porta inevitabilmente alla ribalta episodi del passato. Come la volta in cui l'allora premier Silvio Berlusconi negli studi di Porta a Porta non rimase indifferente […] . L'ex Cavaliere guardò la bella Leone fu immediatamente immortalato dai fotografi.
Mamma Rosa, mogli, fidanzate (e il ruolo chiave della figlia Marina): le donne della vita di Berlusconi. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
L’amore per la madre Rosa Bossi, i due matrimoni falliti con Carla Dall’Oglio e Veronica Lario, le relazioni con Francesca Pascale e Marta Fascina e il ruolo della figlia Marina Berlusconi nella sua vita
L’epitaffio che gli era più caro gliel’aveva scritto la mamma, dopo averci pensato su un’intera notte: «Fu un uomo buono e giusto, dolce e forte».
Silvio Berlusconi lo ricordava spesso, specie per giurare che, in quel momento, aveva preso un impegno solenne con la donna più importante della sua vita, dicendole: «Grazie, mamma: cercherò di essere proprio così».
Fra tutte le donne della sua vita, Rosa Bossi aveva un posto preminente anche nella narrativa della sua personale epopea. Nell’opuscolo elettorale «Una storia Italiana», Silvio raccontava di quando, incinta di lui in guerra, aveva affrontato un soldato tedesco per difendere una conoscente piazzandosi precisa davanti alla canna del fucile. Donna Rosa era il suo miglior spot elettorale quando girava i mercati e raccontava di avere gli occhi gonfi per il gran piangere, perché «i cattivi» mettevano in croce suo figlio. Pranzavano insieme ad Arcore tutti i lunedì. A tavola, lui le teneva la mano. Se prendeva l’aereo, per avvisarla che era atterrato salvo, le telefonava anche alle due di notte. Lei mancherà nel 2008, prima che le debolezze private dell’amatissimo primogenito diventassero pubbliche, o forse, come dice chi lo conosceva, prima che le debolezze private prendessero il sopravvento, perché finché c’era stata Rosa, lui non avrebbero mai dato adito a un pettegolezzo che potesse turbarla. Le fu risparmiato anche il divorzio da Veronica Lario, che Silvio vede sul palco del teatro Manzoni nel 1980. «Ho sentito un fulmine, ma non c’era il temporale», farà scrivere lui nell’opuscolo di cui sopra.
Berlusconi era già sposato con Carla Dall’Oglio, madre di Marina e Pier Silvio, conosciuta a una fermata milanese del tram. Nozze-lampo le loro, il 6 marzo 1965. Divorzieranno nel 1985 senza che mai lei rilasci un’intervista, una dichiarazione. «È stata una gran signora. Si è comportata con ammirevole riservatezza», commentò Silvio col settimanale Oggi, ricordando che invece il divorzio da Veronica era stato assai più doloroso. Prima delle «richieste di pubbliche scuse», o dell’indignazione per il «ciarpame senza pudore», però, Lario aveva incarnato un amore da fotoromanzo. Il debutto era stato su una copertina di Epoca del 1994, anno della «discesa in campo»: lei cammina sul prato di Macherio, piedi scalzi, abito fluttuante, fra i tre figli e varie caprette. Racconta: «Silvio mi fa sentire la presenza più importante del suo mondo più privato», ma rivela anche che, per i bambini, ha scelto una scuola che scoraggia la visione della tv, ovvero di ciò che ha fatto e fa la fortuna di famiglia. Sono i prodromi di un’indipendenza di pensiero che, in anni più turbolenti, faranno fantasticare di una «Tendenza Veronica». Si erano sposati nel 1990. Lei gli chiede il divorzio nel maggio 2009.
La nuova fidanzata, Francesca Pascale, viene ufficializzata nel 2012: ha 27 anni quando lui ne ha 76. L’ex soubrette di TeleCapri aveva fondato i circoli «Silvio ci manchi». Nel 2012, è ad Arcore e spiega che, in casa, «c’era bisogno di una donna: pagavano i fagiolini a 80 euro al chilo». Col tempo, sarà accusata di governare non più la dispensa, ma un «cerchio magico» che fa il vuoto intorno al fidanzato, lo influenza, lo gestisce. E poi, quando nel 2015 inizia a ristrutturare Villa Maria, a dieci chilometri da Arcore, primo passo di un allontanamento sentimentale e anche politico, si dirà che lì tiene un salotto anti Salviniano.
L’addio viene comunicato quando lui viene fotografato con la calabrese Marta Fascina, classe 1990, deputata di Forza Italia dal 2018. È marzo del 2020, i due escono da un resort svizzero, lei porta al guinzaglio Dudù. Su una mano, c’è tatuata la sigla «SB». È Marta l’ultima donna che accompagna alla fine Silvio Berlusconi, discreta e silenziosa. Sin dall’inizio, per le volte in cui compaiono insieme in Costa Azzurra o a Capodanno, pare avere la benedizione di Marina, una che per suo padre farebbe di tutto, come ha sperato chi l’ha invocata a capo del partito dopo di lui. E ora, dopo il matrimonio simbolico celebrato a marzo 2022 a Villa Gernetto , e fatto per suggellare l’amore senza terremotare l’asse ereditario, molti dicono che ci siano Marina e Fascina dietro il rimescolamento di carte che si è appena giocato dentro il partito e che, fra l’altro, ha depotenziato la senatrice Licia Ronzulli e le ha tolto l’ingresso libero alla villa di Arcore.
Di papà Berlusconi, Marina è stata la vestale e la sparring partner, non solo in quanto presidente di Fininvest: pronta a dare dello «sciacallo» a chi lo attaccava, a sottolineare «che l’amore di figlia certo non rende ciechi» o a dire (sulla sentenza Cir-Mondadori) che «siamo alla barbarie legalizzata». È la più esposta rispetto alle altre due figlie, pure amatissime e che non hanno mai mancato un ritrovo di famiglia, Barbara ormai al quinto bimbo, Eleonora con i suoi tre. Loro erano bambine, però, per dirne una, quando, nel 1998, lui rifiutò di vendere Mediaset a Rupert Murdoch per settemila miliardi di lire e disse: «Hanno prevalso le ragioni del cuore», ma intendeva dire che era prevalsa Marina. È lei che, più di tutti, ha riempito lo spazio lasciato vuoto da Donna Rosa.
Berlusconi “l’italiano” diventa musical e Londra si mette in fila per ridere delle gesta erotiche del Cavaliere Antonello Guerrera La Repubblica il 29 Marzo 2023
Lo spettacolo da oggi in scena al teatro Southwark Playhouse: ci sono anche Putin, Boccassini, Veronica Lario e il Bunga bunga. Abbiamo visto lo show in anteprima: ecco com'è..
Eccoci, fuori dal teatro, a pochi metri dal tenebroso grattacielo dove anni fa bazzicava Joseph Mifsud, il misterioso docente maltese della Link University di Roma coinvolto nel caso Russiagate e oggi svanito nel nulla. Invece in Italia, da giorni, anzi settimane, si parla del nuovo musical “Berlusconi” a Londra. Tutti ne hanno scritto senza vederlo. “Repubblica” invece, insieme a qualche decina di londinesi, ha assistito in anteprima a una delle prove finali - per affinare gli ultimi dettagli - dell’attesissimo show in cartellone da oggi al teatro Southwark Playhouse, in un vicolo della trafficata rotonda di Elephant & Castle a sud del Tamigi.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 27 marzo 2023.
(...) Dopo l’ultimo colpo di palazzo e la defenestrazione di Licia Ronzulli messa in opera da Marta Fascina con la benedizione di Marina figlia, ecco, siamo ormai alla nascita del terzo cerchio magico a trazione femminile: destino quanto mai contraddittorio per il più patriarcale e anzi fallocratico protagonista, con tanto di statuine priapesche fatte girare intorno alla tavola di Arcore, della recente storia italiana.
Per dire l’esorbitante coincidenza che sempre accompagna il racconto sul Cavaliere: proprio ieri, da Londra, è stato rilanciata la messa in scena di un musical di argomento berlusconiano che ruota su tre donne, l’ex moglie Veronica, l’ex Pm Boccassini, che indagò sugli scandali sessuali, e una giornalista che dovrebbe funzionare come filo conduttore di un’opera al femminile.
Con qualche pedanteria elencativa si fa notare che un precedente musical venne allestito in Danimarca otto anni orsono e in quel caso sul palcoscenico c’erano solo attrici e cantanti donne, una delle quali interpretava Berlusconi.
A quel tempo, primavera 2015, anno secondo dell’era Dudù, attorno al sovrano imperava il primo cerchio magico costituito, col favore di Marina Berlusconi es espresso con un certo numero di selfie, sull’asse Francesca Pascale-Mariarosaria Rossi. Sulla potenza di quest’ultima, fattasi preziosa depositaria dell’agenda, del telefonino e un po’ anche del cuore di Silvione, anche a costo di perdersi nel Grande Nulla vale la pena di ricordare che avrebbe addirittura scritto un nuovo inno per Forza Italia, “Gente che resisterà” il titolo; però poi sembra che la musica non fosse così originale e fu ritirato.
Questo gineceo a tutela venne spazzato via quando il Cavaliere, invero un po’ sfiancato dal ritmo elettorale impostogli, finì all’ospedale. Già in quella sede, secondo le cronache dell’estate 2016, di nuovo Marina, garante della monarchia famigliare aziendale e patrimoniale, procedette alla sbrigativa sostituzione di Rossi con Licia Ronzulli, che oltretutto offriva il vantaggio di essere infermiera. A quel punto Rossi aprì una pizzeria in provincia di Caserta, mentre Pascale restò a corte ancora per qualche tempo.
Tra il 2018 e il 2020, previa intermittente girandola di foto più o meno paparazzate in lussuosi centri di benessere, Pascale ebbe il benservito e nel suo ruolo, ancora una volta con il sostegno di Marina e dei parenti, si installò l’onorevole Marta Fascina, nuova, ieratica e muta “regina di cuori” di Forza Italia — estenuati, ma rassegnati ai continui ricambi, i giornalisti inevitabilmente erano costretti a sfidare i più vieti sessismi. Superati capricci, gossip e inedite liturgie pseudo-nuziali, il duo Fascina-Ronzulli non ha però retto alle ultime turbolenze e più in generale all’arrivo di Giorgia Meloni, che a Ronzulli sta antipatica, a Fascina no e a Marina neanche.
Ieri Berlusconi ha dovuto solennemente rivendicare la sua autonomia di giudizio, ma chissà quanti gli credono. Sia consentito di non innalzare il tono con qualche citazione da Re Lear. Tutto ciò è abbastanza triste, ma altrettanto umano e in fondo basta questo a purificarlo. Certo se ne può trarre l’ennesima lezione sulla vanità del potere e dei quattrini — ammesso che l’accumulo serva a qualcosa.
Carla Dall’Oglio, il necrologio della prima moglie di Berlusconi: «Grande uomo e straordinario papà». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023
Schiva e riservatissima, la prima moglie del Cavaliere, madre di Marina e Pier Silvio, scrive: «Ricorderò per sempre la bellezza degli anni trascorsi insieme»
Il necrologio della prima moglie di Berlusconi, Carla Elvira Lucia Dall’Oglio
«Carissimo Silvio, sei stato un grande uomo e uno straordinario papà per i nostri figli. Ricorderò per sempre la bellezza degli anni trascorsi insieme. Un abbraccio infinito». Un addio colmo di affetto quello di Carla Elvira Dall’Oglio, prima moglie di Silvio Berlusconi, e madre dei suoi figli Marina (1966), la primogenita del Cavaliere, e Pier Silvio (1969).
La coppia è stata sposata dal 1965 al 1985. Schiva, riservatissima, Dall’Oglio non ha mai concesso interviste sulla fine del matrimonio col Cavaliere e sulla figura di Veronica Lario (nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini), bellissima attrice che lo folgorò durante una recita sul palco del Teatro Manzoni di Milano («Ho sentito un fulmine — disse lui — ma non era un temporale»).
Come ha scritto Paola Di Caro su Sette , per Veronica, 20 anni più giovane, l’ex premier si trasferì a Villa Borletti, in via Rovani, a Milano, e chiuse il matrimonio con Dall’Oglio, nell’85. Da lei, nessuna polemica pubblica, nessuna esternazione, di lei pochissime fotografie, ma un rapporto che — complici i figli — è continuato civilmente e senza scosse. Si racconta che, sebbene il lascito dopo il divorzio fosse abbastanza contenuto, la signora non abbia mai lottato per ottenere di più. Sull’assegno di separazione sembra che abbia dato all’ex marito una sola indicazione: «Scrivici quello che vuoi». Poi, sono stati i figli a provvedere nel tempo a ogni eventuale bisogno, anche passando con lei estati nelle ville dell’ex premier, come quella alle Bermuda.
Chi è Carla Elvira Dall’Oglio, prima moglie di Berlusconi: si conobbero alla fermata del bus, poco dopo erano sposati. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023
I due si sposarono nel 1965 e rimasero insieme fino al 1985: di Dall’Oglio, estremamente riservata, circolarono negli anni pochissime foto e non parlò pubblicamente nemmeno dopo il divorzio
Quelle del necrologio apparso sul Corriere della Sera in cima a tutti gli altri sono le uniche parole attribuibili a Carla Elvira Dall’Oglio, in generale nella sua vita e, in particolare, da quando sposò Silvio Berlusconi nel 1965, divorziando poi nel 1985.
La prima moglie di Berlusconi è stata sempre un esempio di riservatezza. Ora, ha scritto: «Carissimo Silvio, sei stato un grande uomo e uno straordinario papà per i nostri figli. Ricorderò per sempre la bellezza degli anni trascorsi insieme. Un abbraccio infinito». C’è dell’affetto, e c’è dell’eleganza, nelle parole scelte per accomiatarsi dal pur ingombrante padre dei suoi due figli: una decina di anni fa, fu proprio Silvio Berlusconi a notare che Carla era stata un «gran signora e una madre perfetta» proprio perché si era «sempre comportata con discrezione esemplare anche dopo il divorzio». Era un complimento, il suo, con il quale sottolineava anche la differenza con la seconda consorte, con Veronica Lario, lasciando intendere che quell’ultimo divorzio era stato più doloroso per il clamore seguito alle dichiarazioni della ex, che discettava invece di «vergini che si offrono al drago» e di «ciarpame senza pudore».
Carla Elvira Lucia Dall’Oglio, nata il 12 settembre 1940, è mantovana di Moglia, seppure spesso definita ligure perché i genitori si erano trasferiti a La Spezia per un periodo. Carla, però, quando conosce Silvio Berlusconi, abita ormai nell’hinterland di Milano. Siamo nel 1964, nella piazza davanti alla Stazione Centrale, Carla è una ventiquattrenne castana e minuta, sta aspettando il tram, Berlusconi, che ha 29 anni ed è già un promettente imprenditore edile impegnato nei cantieri di Brugherio, passa di lì, la nota, si ferma, si presenta. Pochi mesi dopo, saranno marito e moglie.
Matrimonio il 6 marzo 1965, in Chiesa, con Carla che indossa un abito bianco in pizzo a maniche lunghe e assai accollato. La foto rimarrà nell’album di famiglia per decenni e finirà diffusa solo negli anni ’90, non certo a opera sua. I due sposi avranno Marina nel 1966, Pier Silvio nel 1969.
Nei primi anni ’80, Silvio inizia a uscire sui giornali nei ritratti che ne raccontano l’ascesa tra edilizia e tv private, e posa nella villa di Arcore acquistata da poco e arredata con preziosi cimeli settecenteschi. Con lui, in casa e nel parco, ci sono i due bambini, ma Carla mai.
Di Carla, col suo taglio stile Alexis di Dynasty ma con gioielli assai più discreti, circoleranno pochissime foto. E né ha mai parlato dopo la separazione che pure dovette essere dolorosa: non è un mistero che Silvio fosse ancora sposato con lei quando rimase folgorato dall’attrice Veronica Lario. Eppure, nulla è trapelato riguardo ai termini di quel primo divorzio. Tutto ciò che si sa è ciò che si suppone: che Carla sia stata liquidata con generosità e si sia ben guardata dall’infastidire pubblicamente l’ex marito.
Da allora, la prima moglie di Berlusconi ha vissuto soprattutto a Londra riuscendo a evitare fotografie, notizie, pettegolezzi. È comparsa una volta una decina di anni fa in Costa Azzurra, paparazzata in barca coi due figli, sullo yacht Suegno, capelli lunghi, occhiali scuri. Ha fatto suo il motto never complain never explain, mai lamentarsi mai dare spiegazioni. Al massimo, dare l’estremo saluto. Una scelta opposta rispetto a Veronica Lario: da lei, né messaggi di cordoglio pubblico, né necrologi.
(ANSA il 12 giugno 2023) - "Avanti alla morte dobbiamo essere tutti rispettosi e seri. Questo è il volere di Dio e dell'universo. Anche in guerra i nemici feriti o uccisi sono sacri. Silvio Berlusconi è stato il Maradona della politica oltre che del calcio.
Purtroppo quando ero piccola ed ero minorenne, dalla politica sono stata illusa ed utilizzata e non ho ricevuto alcuna tutela dalle istituzioni nè dai mass media nonostante la mia età .
Ma anche dal male può nascere il bene. Sono contro le speculazioni". Lo dice all'ANSA Noemi Letizia in merito alla morte di Silvio Berlusconi.
Dagospia il 12 giugno 2023. FLASH! IL MESSAGGIO STRAPPALACRIME DEI CINQUE FIGLI DI SILVIO BERLUSCONI MANDATO IN ONDA SULLE RETI MEDIASET: “DOLCISSIMO PAPÀ, GRAZIE PER LA VITA, GRAZIE PER L’AMORE, VIVRAI PER SEMPRE DENTRO DI NOI” - E SULLA TORRE MEDIASET SPUNTA LA SCRITTA: "CIAO PAPA'" E "GRAZIE SILVIO"FLASH! - TRA I MILLE MESSAGGI DI CORDOGLIO PER LA SCOMPARSA DI SILVIO BERLUSCONI, FINORA MANCA ALL'APPELLO LA DICHIARAZIONE DI UNA GRANDE PROTAGONISTA DELLA SUA VITA: QUELLA DI VERONICA LARIO, MADRE DI TRE DEI SUOI CINQUE FIGLI...
Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” Dagospia il 13 giugno 2023.
Marina Berlusconi e Veronica Lario, una figlia per amica e una moglie per nemica. […] Marina, l'erede, non si accontenterà dell'Italia del dolce necrologio. Vuole quello che non otterrà: il famoso cambio d'epoca, e cioè che «la verità storica cominci finalmente ad essere letta senza le lenti deformanti del pregiudizio e dell'odio». […] Anche Veronica non si accontenterà dei pensieri puliti del giorno del lutto.
Sono suoi tre dei cinque figli, Barbara, Eleonora e Luigi, e 10 dei nipoti che in tutto, compresa la pronipote, sono 16. E nelle foto di famiglia si possono riconoscere due mondi e due stili che […] non si somigliano tra loro […] Alcuni diventeranno donne e uomini adesso, accanto a una bara, nel funerale-manicomio che sarà ovviamente berlusconiano e dove tutti esigeranno ottime poltrone accanto alla famiglia […] E Veronica? Dove sarà Veronica?
[…] Marina e Veronica, dunque. La figlia padrona e la ex moglie sono le sole che, nel mondo più maschilista d'Italia, avevano già rotto il soffitto di cristallo quando la metafora non voleva ancora dire nulla. […] Anche Marta Fascina, l'ultima badante sessuale, l'ultima lupa che chissà cosa gli ha fatto firmare, padrona del partito, padrona della vita, padrona di tutto, come nella canzone di De André, «per sentirsi dire micio, bello e bamboccione». […]
[…] potete giurarci che la figlia guardiana continuerà a difenderlo come qualsiasi padre sogna di essere difeso da una figlia. Con la tenacia e la passione che tutti le riconosciamo, Marina ha già negato che, guardandolo troppo da vicino, vede male il padre per il quale stravede. […] E però se da vivo se lo portava sulle spalle come Enea portò Anchise, adesso che è morto, la figlia rischia di diventare più occhiuta e tenace di prima: non la custode, ma la prigione della sua memoria. È capitato spesso alle figlie femmine dei grandi italiani con qualità smodate di fare al padre questo torto d'amore.
Marina potrebbe sfuggire alla trappola che, come un destino e come una banalità, l'attende? Ha, nientemeno, la Fininvest e la Mondadori e, indirizzando gli studi su papà Silvio, potrebbe avvicinarci alla verità oppure correggendo, premiando e rettificando potrebbe allontanarci dalla verità di quell'uomo che da oggi appartiene alla storia d'Italia e non più a lei e alla famiglia Berlusconi.
In fondo, se ci pensate, è la capofamiglia di una famiglia che non è esagerata, non è vero. Cinque figli e 16 nipoti non sono grandi numeri nelle dinastie del capitalismo, specie se li si confronta con i numeri della cassa di casa che sono circa quattromila milioni. […] non c'è una sola grande famiglia del capitalismo italiano che, dopo i lutti, non abbia affidato i sentimenti ei risentimenti agli avvocati e alla carte giudiziarie. E si può dunque dire che la fine è nota: da un lato ci sarà una guerra tra storici d'Italia e dall'altro un guerra tra avvocati d'Italia.
Marina e Veronica dunque, con la figlia che vuol cambiare la storia che la ex moglie cambiò nel gennaio del 2007, quando scrisse a Repubblica una lettera di denunzia che era anche una lettera d'amore […] amore ferito e probabilmente amore già finito […] La signora Berlusconi, chiedendo rispetto per sé, lo chiedeva anche per lui. E fu l'ultimo e anche il più serio tentativo di salvarlo da se stesso: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata”.
Veronica difendeva in sé stessa anche Berlusconi perché era ancora berlusconiana, anche se di un berlusconismo ingentilito. […] È anche la donna alla quale più che alla sinistra, allo spread, a Merkel, a Sarkozy ea tutti i diavoli rossi del mondo, Berlusconi attribuì la fine dei suoi governi, la fine di un'epoca, e proprio a partire da quella lettera a Repubblica.
Qualche notte prima, durante la cerimonia per la consegna dei Telegatti, Berlusconi aveva detto a Mara Carfagna di essere pronto a sposarla subito, se non fosse già stato sposato. «A mio marito e all'uomo pubblico — scrisse Veronica — chiedo pubbliche scuse non avendone ricevuto privatamente e chiedo se debba considerarmi la metà di niente».
E ancora: «Devo dare alle mie figlie l'esempio di una donna che sa tutelare la propria dignità. E voglio aiutare mio figlio a mettere il rispetto per le donne tra i suoi valori fondamentali».
Cominciò così l'epopea di Noemi, di Ruby e delle Olgettine fino alle belle badanti e alla finta moglie Marta Fascina, appunto, sposata “per finta” che nel mondo di Berlusconi voleva dire “per davvero”. Le Olgettine divennero una sigla, un toponimo, le impiegate di concetto del famigerato bunga bunga […] Fellini lo girerebbe così il funerale: la processione sino al mausoleo di Arcore di tutte le sue donne finte e dunque vere, tutte vestite di bianco e con la stessa faccia, diecimila donne che sono tutte la stessa donna, benedette da loro due, la figlia e la moglie, quelle vere e dunque finte.
A Veronica Lario furono assegnati un milione e quattrocentomila euro al mese, ma la Cassazione dopo alcuni anni le tolse il vitalizio e le impose di restituire sessanta milioni a Berlusconi. È vero che sono disputa tra ricchi, anzi tra ricchissimi e forse quella montagna di danaro sporca la favola etica della donna tradita che i giornali di gossip dell'ex marito trattarono con la volgarità dei paparazzi che la inseguivano per mostrare quanto era ingrassata e quanto tramontava in quella donna bella e orgogliosa e quanto quegli occhi intensamente espressivi erano diventati segretamente dolenti: informazione, gossip o macchina del fango? […]
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” Dagospia il 13 giugno 2023.
[…] non si può depurare la biografia di Silvio Berlusconi dagli attacchi e dalle trappole che i suoi nemici gli hanno riservato sfruttando la sua passione […] per le donne. […] ogni dettaglio della vita intima di Berlusconi è finito su giornali e libri. […] A far partire questa caccia è stata l'ex moglie di Silvio, Veronica Lario, la quale, il 31 gennaio 2007, aveva affidato il suo sfogo di consorte tradita […] al giornale nemico per eccellenza del marito, La Repubblica. […]
Dopo poche settimane, era il 17 aprile 2007, sul settimanale Oggi, è apparso in copertina un'immagine di Silvio in compagnia di cinque ragazze a villa Certosa. Il titolo era inequivocabile: «L'harem di Berlusconi. Dalla Sardegna le incredibili foto di cui si parlerà per anni». Nel reportage si vedeva il fondatore di Forza Italia passeggiare in giardino con fanciulle con cui mostrava di avere fiducia.
L'uomo che aveva capito che la passione di Berlusconi poteva diventare un affare era stato Antonello Zappadu, un fotografo sardo che aveva lavorato anche per i giornali del Cavaliere. Zappadu non è uno qualunque. Figlio di un giornalista, Mario, aveva iniziato a fare foto a 15 anni e si era occupato soprattutto di cronaca nera. […] Amico dei banditi sardi (in particolare di Graziano Mesina), che usava come fonti, venne persino indagato (e prosciolto) per il rapimento del piccolo Farouk Kassam, delle cui fasi era informato quasi in tempo reale.
C'è chi prova persino a farlo fuori, tanto che girava con una pistola sotto il sedile dell'auto.
[…] Per lui la Costa Smeralda non aveva segreti e neppure villa Certosa. Che cosa accadesse là dentro lo sapeva all'istante. E così […] iniziò ad appostarsi sulle colline intorno alla dimora con teleobiettivi […] più volte pizzicò il povero Silvio […]
Dopo lo scoop di Oggi che vendette centinaia di migliaia di copie e consentì a Zappadu di mettere da parte un bel gruzzolo (si vociferò di 400.000 euro), il fotografo proseguì gli appostamenti. Nel 2009 […] il fotoreporter sardo mise in vendita altri scatti «rubati» nel buen retiro sardo di Silvio e che ritraevano, tra gli altri, il presidente ceco Mirek Topolànek desnudo e due ragazze in atteggiamenti saffici sotto la doccia.
Chi scrive conosce bene Zappadu avendoci lavorato insieme per Panorama. Lui fece scalo a Milano prima di andare a Parigi. E ci raccontò che stava andando a trattare la vendita delle nuove immagini con tabloid anglosassoni e francesi interessati a pubblicarle alla vigilia del G8 dell'Aquila, dove Berlusconi avrebbe fatto da padrone di casa. Riferimmo la notizia al giornale e la casa editrice prese in considerazione l'idea di acquistarle e pubblicarle ben prima del G8. Con due risultati: dare una notizia ed evitare che le foto venissero utilizzate per screditare oltre che l'immagine di Berlusconi anche quella del Paese alla vigilia del vertice. […]
Ma quando Silvio, impegnato su un set fotografico, fu informato della cifra richiesta da Zappadu (circa 1,5 milioni) imprecò a voce altissima e mandò a monte la trattativa. La sera l'avvocato Nicolò Ghedini presentò un'istanza di sequestro alla magistratura e le immagini vennero pubblicate sul sito del Paìs dopo poche ore. Ma l'assalto a Berlusconi era solo iniziato. E si preparava una manovra a tenaglia portata avanti dai due principali quotidiani italiani.
Pochi giorni prima della pubblicazione delle immagini di villa Certosa sul Paìs, La Repubblica aveva svelato la visita lampo dell'allora premier alla festa per il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia, una sconosciuta ragazza di Portici (Napoli), che chiamava Silvio «Papi». […] nessuno ha mai dimostrato che il legame tra l'anziano leader e la pulzella fosse men che lecito malgrado qualche intercettazione malevola.
A dar supporto alle allusioni intervenne ancora una volta la Lario, infastidita anche dalle polemiche per la presunta presenza di candidate-veline nelle liste di Forza Italia alle elezioni Europee. L'ex attrice sentì l'irresistibile bisogno di inviare l'ennesima lettera alla Repubblica e l'allora direttore Ezio Mauro ha raccontato ieri che la first lady con cui gli era «capitato di parlare qualche volta» lo aveva chiamato e gli aveva chiesto: «Se mando una lettera su mio marito lei la pubblica senza tagliarla?».
La risposta fu affermativa e ne nacque una prima pagina che il direttore tenne nascosta alla sua redazione sino a dopo le 20, temendo fughe di notizie. Il testo era sconcertante: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni […]. Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere… figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà…».
La metafora delle vergini e del drago fu cavalcata per mesi dai nemici del Cav e accese la fantasia dei media esteri quanto il bunga bunga. Mauro oggi si lamenta di essere stato accusato di «aver fatto saltare i confini tra privato e pubblico», ma rivendica che quel limite era stato cancellato dallo stesso Berlusconi e che loro si erano solo «infilati in quel varco sulla scia» della Lario.
Fatto sta che seguirono 10 ossessive e pruriginose domande scritte da Giuseppe D'Avanzo e pubblicate sul giornale sino a quando il Cavaliere non rispose. […] Ma i media erano pronti a un'altra clamorosa campagna. Ad anticiparla fu Massimo D'Alema in tv nella trasmissione di Lucia Annunziata, invitando l'opposizione a essere pronta ad «assumersi le sue responsabilità» perché sulla scena politica italiana si potute verificare delle «scosse». Era il 14 giugno 2009.
Sei giorni prima il pm di Bari, Giuseppe Scelsi, aveva raccolto in un verbale esplosivo le accuse della escort Patrizia D'Addario contro Berlusconi e le sue «cene eleganti». L'avvocato della D'Addario era Maria Pia Vigilante, ben nota per la sua professione a Scelsi, ma non solo a lui. La donna, impegnata nell'associazionismo progressista, aveva incontrato in quei giorni anche Alberto Maritati, ex magistrato ed ex sottosegretario del governo D'Alema e la direttrice del dorso pugliese del Corriere della sera, Maddalena Tulanti, una ex cronista dell'Unità ai tempi in cui il giornale era guidato da Baffino.
È la stessa D'Addario a raccontare, nella sua corposa autobiografia, scritta a quattro mani con la Tulanti (Gradisca, presidente), che l'11 giugno, tre giorni prima che l'ex premier parlasse di «scosse», aveva dato, attraverso il suo avvocato, la disponibilità a raccontare la sua verità al Corriere.
Il 15 giugno la decisione era presa e il 16 Fiorenza Sarzanini, all'epoca inviata di giudiziaria del quotidiano di via Solferino, insieme con la Tulanti incontrò a Bari la D'Addario nello studio della Vigilante. L'intervista uscì il giorno successivo. La escort diventò subito la campionessa delle femministe e della sinistra nonostante un curriculum rivedibile.
Nell'archivio del Tribunale c'è ancora un suo fotoromanzo erotico, intitolato Diavoli, dove Patrizia, in arte Patty love, recita a seno nudo, bendata e legata. La trama, come anticipato da Panorama nel 2010, è quasi profetica: Patty si concede a un regista per fare carriera e poi, sentendosi usata, preannunciando minacciosa: «Gli pagherò ogni attimo che mi ha toccata, palpata, posseduta».
Il primo che la D'Addario ha cercato di incastrare con le sue registrazioni è stato un tecnico comunale che in cambio di un'accelerazione di una pratica le aveva chiesto favori sessuali. Poi toccò al suo protettore, Giuseppe Barba, che la portava a prostituirsi sulla statale 98. Per vendicarsi dell'uomo, sposato con un'altra donna, inizialmente tappezza alcuni negozi con la foto dell'amante nudo.
Quindi presenta un'altra denuncia, questa volta allegando diversi filmati raccolti in una cassetta Vhs. Nel verbale d'ispezione i poliziotti annotano: «Nella scena viene ripreso un rapporto sessuale tra il Barba e la D'Addario e durante l'amplesso i due parlano di trovare una persona da sfruttare, “cui levare la pila” (cioè i soldi , ndr)». Durante il filmino a luci rosse Patrizia lo accusa: «Per colpa tua sono diventata una porca».
Barba finisce in prigione e dopo alcuni mesi la escort ritira la querela dichiarando di «convivere felicemente» con l'uomo che, a suo dire, le aveva puntato un coltello alla gola e spezzato un dito, e di «non avere alcun risentimento nei suoi confronti». Insomma, un continuo tira e molla che alla fine indispettisce avvocati e investigatori, che smettono di darle retta. Tre anni dopo D'Addario diventa la escort più famosa del mondo. Ma Berlusconi non cade.
E allora, nel 2010, dopo una spifferata sulle indagini in corso apparsa sul Fatto quotidiano, i giornali si buttano su un'altra inchiesta giudiziaria che, con le sue ramificazioni, dura tuttora e che è costata milioni di euro ai contributi, ma per cui Berlusconi è stato assolto. Stiamo parlando del cosiddetto Ruby-gate, concentrato sulle visite ad Arcore di una diciassettenne marocchina, Karima El Mahroug. La ragazza era sì giovane, ma non sprovveduta. E pareva ben più grande della sua età.
Tanto che all'epoca giravano in Rete video di sue performance come cubista non proprio da educanda. Intorno a lei girava un noto produttore di film porno e un manager di locali del divertimento, con un passato da finanziere. Fu proprio lui ad avvicinarci nella sua discoteca ea sussurrarci all'orecchio che con Berlusconi avevano quasi risolto. Lui e la fidanzata gli hanno trasmesso un cd in cambio di qualche milione di euro. Nessuna indagine dimostrò mai che quel materiale ricattatorio esistesse, né che Berlusconi avesse pagato per occultarlo.
Ciò non toglie che se certi soggetti agivano in codesta maniera era solo perché potevano contare sulla sponda di certa stampa alla ricerca ossessiva delle prove delle umane debolezze del Cav. Il tramonto politico di Berlusconi è iniziato con la discutibile saldatura tra media, magistratura e faccendieri di infimo livello, una sinergia che ha permesso che si costruissero inchieste che hanno portato in aula ragazze balbettanti costrette a parlare della loro intimità con il Cav. Un teatrino osceno che ha legato indissolubilmente il nome del Belpaese al bunga bunga.
Alessandra Ghisleri su Berlusconi: "Più dei tribunali, Veronica Lario". Libero Quotidiano il 13 giugno 2023
Alessandra Ghisleri la sondaggista che più ha collaborato con Silvio Berlusconi, fin dal 1999 quando il Cavaliere la chiamò che aveva solo 27 anni, rivela in una lunga intervista a La Stampa, alcuni aneddoti sul leader di Forza Italia, in particolare sulla rottura con la seconda moglie, Veronica Lario, dalla quale ha avuto tre figli, Barbara, Eleonora e Luigi. In quel periodo il Cavaliere era sotto attacco della magistratura ma, ricorda la direttrice di Euromedia Research, "nonostante tutto quel che accadeva la fiducia non veniva scalfita. A farlo, più di tutto, è stata la seconda lettera della moglie Veronica".
Una lettera che lo ha danneggiato e ferito più dei processi: "Mi chiamò nella notte dicendomi che dovevamo capire come gestire la situazione", racconta Alessandra Ghisleri. Perché il colpo non solo veniva sferrato dall'interno ma peggio ancora, "veniva dalla famiglia. Berlusconi era un uomo con 17 nipoti, ha sempre messo al centro della narrazione il valore della famiglia". E la frase sulle "vergini che si offrono al drago" è stato un durissimo colpo, "soprattutto per il voto delle donne, che era sempre stato un suo punto di forza".
All'epoca la Ghiseleri glielo disse. Del resto il Cavaliere "lo sapeva perfettamente. Ma sentiva anche una grandissima responsabilità. A novembre 2012 decise di ricandidarsi perché il partito era in calo. Nonostante tutto, senza lui a fare da traino, sarebbe stato spacciato".
Giuseppe Tito per l’ANSA il 12 giugno 2023.
E' stato un rapporto decisamente tormentato quello tra Silvio Berlusconi e le donne. In fondo - spiega chi gli è stato vicino in questi anni - rappresenta la metafora di una vita vissuta sempre al massimo e sopra le righe. Dall'amore profondo e dichiarato in tutti i modi possibili per la mamma Rosa Bossi fino alla rottura traumatica del secondo matrimonio con l'attrice Veronica Lario.
Pomo della discordia sempre il suo rapporto con l'universo femminile. Un rapporto che gli procurerà anche guai giudiziari e polemiche a non finire a causa delle feste burlesque nella sua villa di Arcore con le 'olgettine', le ragazze così definite perché vivevano nel residence milanese dell'Olgettina, fino alla vicenda Ruby, la giovane di origini marocchine - con cui secondo l'accusa avrebbe avuto dei rapporti quando lei era ancora minorenne - che costringerà il Cavaliere a subire una serie di processi conclusi il 15 febbraio 2023 con l'assoluzione.
E ancora il processo barese sulle escort e le ragazze di Gianpaolo Tarantini, con le deposizioni di Patrizia D'Addario. Poi due fidanzate giovani, Francesca Pascale e Marta Fascina. In mezzo tante turbolenze e anche amori al limite, come quello attribuitogli con la ragazza di Casoria Noemi Letizia, che andò a trovare per il suo diciottesimo compleanno utilizzando - quella era l'accusa - un aereo del servizio di Stato. Una china rimarcata proprio da Veronica Lario in una lettera aperta, nel 2007.
Una missiva, che fu l'anticamera della separazione e del divorzio dal Cav qualche anno dopo, in cui la Lario fece quasi un appello: 'Aiutatelo, è malato', scrisse tra l'altro. Il 'bunga bunga' party, termine coniato per le serate organizzate ad Arcore, è entrato nel linguaggio corrente in Italia per indicare feste licenziose e a sfondo sessuale. Ma la vita privata di Silvio Berlusconi è stata scandita anche dall'amore paterno per le figlie Eleonora, Barbara e Marina, la primogenita. E per i figli Piersilvio e Luigi.
Nati dai due matrimoni, il primo con Carla Elvira Lucia Dall'Oglio, il secondo, appunto, con Veronica Lario. I 5 figli sono sempre stati una stella polare per il Cavaliere, un punto di riferimento in una vita privata decisamente complessa. E anche in questo caso le donne sono sempre state in primo piano. Marina e Barbara sono entrate molto presto nella galassia imprenditoriale del padre, con ruoli di rilievo in Fininvest e nell'amata squadra di calcio del Milan.
Una attenzione e un affetto ricambiati in tutti i passaggi critici della sua vita, durante la malattia ed il delicato intervento al cuore nel 2016 e nella lunga fase della pandemia da Covid quando l'ex premier ha trovato più di una volta rifugio e protezione nella blindatissima villa di Marina in Provenza, dove ha trascorso molti mesi isolandosi anche dalle tentazioni di Villa Certosa, il suo storico e celeberrimo buen retiro in Costa Smeralda.
Estratto dell’articolo di Fosca Bincher per open.online il 16 aprile 2023.
Veronica Lario, ex moglie di Silvio Berlusconi, ha deciso di lanciarsi nel fitness nel 2023 dopo avere acquisito il controllo di una società – la Ippocampo srl – specializzata nella gestione di palestre.
La mamma di tre dei figli del Cavaliere, che in realtà si chiama Miriam Bartolini […], ha infatti acquisito tutte le quote dei soci di Ippocampo, che era già società collegata al suo gruppo imprenditoriale attraverso la controllata Equitago srl. Da quest’ultima Veronica-Miriam ha rilevato il 61% di Ippocampo, per poi acquistare anche le quote dei due altri soci di riferimento, Alessandro Antonioli (22%) e Roberto Ronchi.
L’operazione è avvenuta pagando al valore nominale i 20 mila euro di capitale sociale ai tre soci e poi scalando dal credito che la stessa Bartolini vantava dalla società e che i tre soci avrebbero dovuto altrimenti rimborsarle. In complesso l’investimento è di 307 mila euro.
[…] come messo nero su bianco dal presidente della società, Paolo Costanzo, «Ippocampo non ha ancora raggiunto l’equilibrio economico, non produce flussi di cassa e la situazione debitoria richiede ulteriori interventi finanziari […]».
[…] perché l’unica palestra aperta finora da Ippocampo è stata a Milano2 proprio in un palazzo di proprietà della ex signora Berlusconi.
Veronica ha deciso in contemporanea di prendere in mano le redini del suo gruppo, senza affidarle più a professionisti esterni. Il 7 febbraio scorso si è svolta infatti l’assemblea ordinaria de Il Poggio Srl, che è la sua capogruppo attiva nel mercato immobiliare come in quello mobiliare. Collegata in videoconferenza attraverso Zoom, Veronica ha liquidato il consiglio di amministrazione presieduto anche qui da Paolo Costanzo deliberando che la società d’ora in avanti sarà guidata da un amministratore unico: se stessa, Miriam Bartolini.
(AGI il 7 aprile 2023) - "Veronica Lario non deve restituire piu' nulla a Silvio Berlusconi. Quello che doveva dargli gliel'ha dato tre anni fa. La cifra di 60 milioni girata nei giorni scorsi e' completamente infondata". Paolo Costanzo, il commercialista della ex moglie del leader di Forza Italia, precisa l'entita' del 'dare e avere' tra i due ex coniugi dopo che nei giorni scorsi si erano diffuse voci sul web di una somma molto consistente che, dice, "non si comprende come sia stata calcolata".
Alla domanda su quale sia lo stato d'animo della signora Lario nelle ore in cui l'ex premier e' ricoverato in terapia intensiva all'ospedale San Raffaele, Costanzo risponde all'AGI: "Le condizioni di salute di Silvio Berlusconi suscitano grande preoccupazione e non e' opportuno trattare vicende prettamente materiali, peraltro prive di fondamento, quando e' il momento di rispettare i sentimenti privati e di stringersi attorno ai figli e ai nipoti che vivono le condizioni di Berlusconi con grande apprensione e preoccupazione".
Dall'unione tra Berlusconi e l'ex attrice, impegnati in un lungo e turbolento divorzio nelle aule di tribunale, sono nati Barbara, Eleonora e Luigi. I due hanno anche dieci nipoti.
In questi anni, Lario, dopo la lettera scritta a 'Repubblica' in cui parla delle "vergini offerte al Drago" poco prima che scoppiasse il caso Rub, riferendosi alle frequentazioni del Cavaliere con ragazze molto giovani, ha sempre mantenuto un profilo molto riservato. In queste ore, e' in ansia per l'ex premier anche per la sofferenza che traspare nei figli e nei nipoti.
Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per “la Repubblica” il 13 giugno 2023.
«E di cosa dovrei parlare? È triste, ho un peso sul cuore, le parole mancano, la morte è una cosa seria, diceva Totò». Francesca Pascale, per oltre dieci anni compagna di Berlusconi, oggi sposata con Paola Turci, è in casa, [...] Per la prima volta, forse, disarmata. [...]
Signora Pascale, però con Berlusconi ha diviso anni cruciali. Per lei, la prima vita pubblica. Per lui, la prima fase discendente.
«È vero. Ma oggi provo solo dolore, e quello non si spiega...». Si ferma. Le lacrime, le scuse. Sincere le une e le altre.
La vecchia ma inevitabile domanda: è stato anche un padre?
«Ora è un po’ come se avessi perso di nuovo mia madre: quello fu un vuoto devastante. E poi non voglio rischiare di ferire nessuno. Non la persona che amo e [...] nessuno dei familiari di Silvio Berlusconi che ho sempre rispettato profondamente. Ma certo è stato anche una guida».
Era giovanissima quando l’ha incontrato, poi siete stati una coppia ufficiale, e lei battagliava con Silvio su Salvini e Gay pride. Si può dire che gli deve molto?
«E lo riconosco. Mi ha dato tanto: e certo, non solo per gli agi, il lusso [...] Io parlo del mondo che mi ha fatto conoscere, degli scenari in cui mi sono ritrovata. Quante cose ho vissuto, forse essere incosciente, così piccola, mi ha aiutato...».
Per esempio?
«Mah, quante cose si affollano. Il pranzo con Gheddafi. La riconoscibilità internazionale di Silvio. Poi lo choc di vederlo andare ai Servizi sociali, [...] O quella volta che incontrai Putin nel corridoio: a pranzo il russo non volle le donne, non mi piaceva questa cosa. Poi lo vidi incrociare i miei cagnolini, dissi a Silvio per gioco: non è che si mangia i miei barboncini?».
[...] Tra l’altro, chi lo ha conosciuto sa di quale formidabile capacità di reazione fosse capace. Per questo sono sotto choc».
Uno choc anche oggi, con la sua vita radicalmente cambiata?
«Sì, perché siamo esseri umani: e se c’è stato l’affetto, un sentimento profondo a legare due persone, non lo puoi resettare, non siamo robot. Poi, onestamente, con Berlusconi potevi scontrarti, litigare, ma era difficile cancellarlo per sempre. Lo amavi o lo odiavi. Ed io investita di tutto, ovvio. Era la mia vecchia vita, oggi è morta con lui».
Lei non ha fatto niente per non attirarsi i flussi di opposti hater.
«Ah, lo so. Ci sono due cori, due grandi domande, che costellano la mia esistenza. La prima viene dalla vita precedente: ma come hai fatto a lasciarti lui e tutto quel mondo alle spalle? La seconda appartiene soprattutto agli amici di oggi: ma come hai fatto a metterti con lui, ad abbracciarti quel mondo? E io mi destreggio tra queste opposte visioni, non importa. Mi interessa lo sguardo di chi ho scelto, non le domande non dette: ma allora eri lesbica prima, lo sei diventata dopo. Mah, quanti giudizi. Per me conta solo l’amore, la verità dei sentimenti».
E il suo giudizio politico su di lui?
«[...] tutte le volte che non ero d’accordo, pur non contando nulla, non avendo alcun ruolo, lo dicevo. Negli ultimi tempi, gli rompevo anche l’anima [...] su certe follie leghiste [...]. E credo davvero lui non ne potesse più. Umano. Ma ero onesta, in gioia e dissenso, lui lo sapeva».
Ora andrà ai funerali?
«Sono ancora scossa. [...] sarò una dei tanti a salutarlo. Una donna che ha fatto un suo percorso, è andata per la sua strada, serena. Ma lui aveva un suo amore per la vita, credo che in fondo lo capisse».
Dagospia l'8 giugno 2023. Tratto da “Confessioni di un ex elettore” di Antonio Padellaro, editore Paper First.
“Nella primavera del 2014 tale Michelle Bonev sale alla ribalta della cronaca per una sua presunta liaison gay con Francesca Pascale. Ci sono pettegolezzi che decidiamo di non mettere in pagina. Affettuosità di ragazze un po’ accaldate che si scambiano bacini con l’impronta del rossetto sulla carta. Sono cose che, diciamolo, non fanno vendere una copia in più. A che serve infierire ancora?
Dopo aver pubblicato ogni più minimo particolare sulle cene eleganti di villa Certosa, quelle con il fallo di Priapo omaggiato in quanto simbolo del padrone (in tutti i sensi) di casa, il genere si è esaurito per consunzione. Lui è il classico tipo che quando entra in una stanza il suo uccello è già lì da due minuti (è la battuta che gira).
Dunque, la Pascale vuole ringraziarmi di persona per non avere violato la sua privacy (che quasi un decennio dopo sarà lei stessa a svelare tanto da farne un’icona del movimento omosessuale) e un’amica come Melania Rizzoli si offre di ospitarci una sera a cena.
Lui, il Cavaliere non era previsto ma penso si stesse rompendo le palle solo con Dudù a palazzo Grazioli che alle 21 in punto lo vedo venirmi incontro contento come una Pasqua come fossimo vecchi amiconi.
Eppure su Berlusconi - prima all’Espresso, poi all’Unità e infine al Fatto - ho scritto e sottoscritto qualsiasi cosa tranne, forse, che avesse crocifisso Gesù Cristo. E, invece, eccolo con un pacchetto da scartare: tre cravatte di Marinella, di quelle da annodare sui collettoni di agente immobiliare in carriera.
Sembra davvero contento di vedermi. Inizialmente mi sembra una cosa strana ma poi rifletto: questo non è uno come noi che si offende, questo si sente il supermaschio alfa che con un assegno potrebbe comprarsi l’Italia. Cosa gliene frega degli insulti? Neanche li legge più. E’ come se il Padreterno tenesse la contabilità delle bestemmie: ehi tu una volta mi hai dato del porco vai all’inferno.
Ci accomodiamo in salotto. Mi fa: “Guardi dottore che prima di venire ho parlato con il dottor Letta che mi ha riferito che lei viene da un’ottima famiglia di dirigenti dello Stato, mi ha parlato molto bene di lei, anzi le porto i suoi saluti”. Con una sola frase mi ha appena spedito tre messaggi.
Intanto, sa tutto di me e della mia storia familiare. Poi, che Gianni Letta ne sa ancora di più. E, infine, che ho davanti a me una persona che fa della squisita cortesia, come si diceva una volta, la sua arma migliore.
Francesca Pascale siede alla mia sinistra in un’atmosfera così poco formale che riesce a smorzare la tensione anche se mi è chiaro non trattarsi di un convivio ma, sotto certi aspetti, di un prudente, garbato, regolamento di conti.
Per tutta la serata io e lui ci scrutiamo: tu non oltrepassare il limite e io non oltrepasso il mio. Difficile che in passato gli sia capitato di trascorrere del tempo chiuso in una stanza con qualcuno che per anni lo ha descritto come il male assoluto, un demone che comprando e corrompendo da un ventennio è diventato padrone di altre vite (delle nostre vite). Me lo potrebbe rinfacciare ma non lo fa e io evito perfino qualsiasi velata allusione. Niente di personale, è la regola non scritta.
Francesca Pascale mi ringrazia carinamente per non avere pubblicato quello che definisce il delirio di una pazza o giù di lì. Nega l’esistenza di una relazione sentimentale con la Bonev, al che Berlusconi sogghigna e se ne esce con la battuta più riuscita della serata: “Peccato…”.
Anche lei ride e danno l’impressione di una coppia molto affiatata o molto furba o entrambe le cose. Lui indossa una giacca blu che fa pendant con una t-shirt da yacht man anni Sessanta, gli mancano solo i bottoni dorati: occhieggia la bella fidanzata che veste un elegante tailleur bianco.
Gli chiedo un commento su Matteo Renzi. “E’ un fuoriclasse ma cinico e crudele”. C’è tempo anche per un commento sull’esperienza ai servizi sociali della “Sacra famiglia” di Cesano Boscone che sta scontando in quel periodo. “Una esperienza triste” e affonda gli occhi nel piatto, mormora qualcosa come “una sofferenza vissuta in prima persona”, “mi ha arricchito spiritualmente”.
E’ difficile che alla mia presenza confessi che ne ha piene le palle di quegli anziani malridotti. Mi chiedo se sia sincero quando appare così provato o se reciti la parte. Anche qui, forse, entrambe le cose. Assapora con parsimonia il tiramisù, si lamenta dei chili presi, si sente appesantito. Gli domando del suo Milan e si esibisce in un show da applausi.
Si rianima: “Quell’Allegri lì mi spaccava lo spogliatoio, l’ho dovuto cacciare e Seedorf faceva lo stesso, litigava con tutti ma ora abbiamo questo ragazzo qui Filippo Inzaghi, un grande campione rossonero a vita che anche come allenatore me ne dicono un gran bene e vedrà torneremo grandi anche senza quel Balotelli lì”.
“Ora la faccio ridere” e parlando di Super Mario comincia a sceneggiare, come fosse una barzelletta, di quando lo ha convocato per dirgli che gli è costato un occhio della testa e che segna troppo poco. Il Caimano si alza per rendere più efficace la scena che mima.
“Dunque un giorno lo chiamo e gli dico: “Dimmi Balotelli qual è lo scopo del gioco del calcio? Lui non capisce o fa finta”. Il Cavaliere scuote vigorosamente la testa imitando Balo e rende l’idea dell’espressione dell’attaccante sempre piuttosto accigliato, sospettoso, tipico di chi non si aspetta gentilezze ma una pedata nel sedere.
“Dunque te lo dico io”- e l’ex premier continua il racconto del colloquio-monologo- “lo scopo del gioco del calcio è quello di buttare la palla in rete, vero? E per segnare occorre superare la difesa avversaria e poi tirare con forza all’angolino come ti riesce benissimo, giusto? Ma come puoi tirare all’angolino se te ne stai lontano a centrocampo, giusto? E allora caro Balotelli mi spieghi per quale cazzo di motivo giochi sempre così lontano dalla porta avversaria?”. Nostalgia carogna.
Estratto dell’articolo di Marianna Aprile per “Oggi” il 2 aprile 2023.
In piazza per difendere i diritti delle famiglie Lgbtq+ da circolari ministeriali e dalla mancanza di una legge che li riconosca davvero. In tv, nel salotto buono della politica, Otto e mezzo, a stroncare i primi mesi del governo Meloni, di cui fa parte anche il partito che pure aveva sempre votato e difeso, per convinzione e devozione nei confronti di Silvio Berlusconi, il suo ex compagno.
La Francesca Pascale che nelle ultime settimane ha puntellato le cronache sembra molto distante da quella di cui sentivamo parlare solo una manciata di anni fa. E questo perché ad appena 36 anni sta vivendo la sua seconda vita. Anzi la terza, ma di questa diremo in coda, perché è la sola che Pascale non ha dovuto né voluto condividere con il pubblico. Partiamo invece dalle due vissute, volente prima e nolente e un po’ dolente dopo, sotto i riflettori.
Quella accanto a Silvio Berlusconi comincia ufficialmente nel 2010, quando la loro relazione viene ufficializzata, nel pieno di un biennio di scandali che va dal compleanno di Noemi Letizia al caso Ruby Rubacuori, passando per gli audio e le denunce di Patrizia D’Addario. Francesca aveva 24 anni, Silvio 50 di più, e si frequentavano da molto tempo. […]
Forte dell’appoggio della primogenita di Berlusconi, Marina, Francesca prende letteralmente in mano il ménage di Arcore, fin lì affollatissimo e foriero di grane politiche, reputazionali e giudiziarie. Sfronda le frequentazioni private del compagno, poi inizia con quelle politiche acquisendo un peso sempre crescente nelle scelte di Forza Italia e attirandosi non poche antipatie.
Lo schema è simile a quello cui si assiste ora con Marta Fascina, la nuova compagna di Berlusconi (lui la chiama moglie, ma le nozze celebrate un anno fa erano solo simboliche). Tra Pascale e Berlusconi la complicità è, a lungo, granitica. «Come a tutte le persone che ho amato profondamente, non gli ho mai nascosto la mia bisessualità», ha detto. E negli anni che hanno trascorso insieme anche lui, per lei e pochissimi altri, non ha avuto segreti. Né limiti se oggi qualcuno racconta che nel 2014 accarezzarono persino il progetto di un figlio, con tanto di tentativo spagnolo per una procreazione assistita.
A separarli sarà però proprio quello che aveva rappresentato il pretesto per incontrarsi: la politica. Francesca (che in passato, dopo aver fondato nel 2006 il comitato Silvio ci manchi, è stata anche eletta col Pdl al Consiglio provinciale di Napoli) non digerisce l’avvicinamento di Forza Italia alla Lega di Matteo Salvini né alla destra di Giorgia Meloni. «La nostra relazione è finita anche perché trovavo incomprensibili le posizioni dei suoi alleati, con nostalgie fasciste e idee razziste e omofobe», ha detto di recente. […]
Per quegli strani incroci della vita, sarà proprio una di queste interviste (a Francesca Fagnani per Il Fatto Quotidiano) a traghettarla dalla vita nell’orbita di Silvio a quella che ora ha scelto di dividere con Paola Turci, cui si è unita civilmente il 2 luglio scorso a Montalcino. In quell’intervista Pascale disse (tra le altre cose): «Non sono né gay né etero. Sono libera. Lancerò un’associazione per la tutela dei diritti Lgbtq+, anche nel mio interesse».
Turci legge, rimane colpita. Era il 2 novembre del 2019 e appena 10 giorni dopo Paola avrebbe iniziato il suo tour (Viva da morire) dal teatro Colosseo di Torino. Francesca è in platea, dopo lo show si conoscono e scatta subito qualcosa. Anche i rumors su una relazione tra loro, che vengono paparazzate insieme a Fregene (Roma) nel marzo del 2020, proprio nel periodo in cui Berlusconi – da cui Pascale si era definitivamente allontanata nell’estate 2019 – ufficializza la sua relazione con Fascina. […]
Report: «Berlusconi condizionato da Fascina». E Forza Italia insorge: «Metodo vigliacco a urne aperte». Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.
«Un Berlusconi inedito, rivelato da una fonte di Forza Italia vicinissima al Cavaliere», promette Report annunciando la puntata.
E le rivelazioni, andate in onda domenica sera sul Raitre, sono in effetti diverse, alcune delle quali incentrate sull’influenza esercitata dall’ultima compagna dell’ex premier morto a giugno, Marta Fascina: «La figura di Marta, nel 2020, diventa di colpo imponente. Soprattutto in politica. La compagna partecipa a tutti gli incontri di Berlusconi e passa ogni ora del giorno a condizionarlo nelle relazioni con gli altri», sostiene la fonte anonima.
Insorge il partito contro un servizio mandato in onda a urne aperte: si vota anche a Monza per il seggio in Senato lasciato appunto da Berlusconi. «Report e Ranucci sono una sorta di “movimento politico” che agisce, finanziato dai cittadini con i soldi Rai, per colpire gli avversari. La cosa non ci meraviglia, ma ci indigna. E ci chiediamo come mai venga tollerata questa condotta», tuona Maurizio Gasparri. «Un giornalismo pessimo, politicizzato, scorretto, volgare, quello che contraddistingue la trasmissione Report. Non c’è critica, c’è denigrazione. C’è strategia politica di pessimo livello, in concomitanza con l’appuntamento al voto. Chiederemo conto alla Rai di tutto questo», avverte Raffaele Nevi, portavoce di Forza Italia.
Il passo formale sarà la richiesta di convocazione della commissione di vigilanza Rai. E lo annuncia la deputata Rita Dalla Chiesa che ne è componente: «Un conto è condurre trasmissioni scomode. Un altro conto è usare la clava contro un partito che stasera e domani ha chiamato, in alcuni comuni, gli elettori alle urne. Metodo vigliacco, del quale la Rai dovrà rispondere in commissione Vigilanza».
La fonte anonima intervistata da Report si concentra sull’influenza che Fascina, eletta deputata nel 2018 e rieletta nel 2022, avrebbe esercitato in ambito politico, suggerendo e sostenendo per esempio prima il tentativo di corsa al Quirinale di Berlusconi, poi influenzandone la decisione di far cadere il governo Draghi nella convinzione che fosse possibile un suo ritorno a Palazzo Chigi: «Nessuna strategia, sfizi di una donna convinta che Berlusconi sarebbe diventato di nuovo presidente del Consiglio». Poi le attribuisce «posizioni pro Putin» che avrebbero spinto l’allora leader di Forza Italia a criticare Meloni e il suo sostegno a Zelensky. Tutto attraverso un progressivo filtro agli incontri e alle telefonate del Cavaliere: «Gli diceva “lui è cattivo con te, non parlargli più”».
Per Report Berlusconi avrebbe poi cambiato posizione grazie a un patto tra la presidente del Consiglio e la figlia del cavaliere, Marina, che in cambio del ritiro della costituzione di parte civile del governo nei processi escort e Ruby ter, avrebbe assicurato posizioni più morbide sull’Ucraina. Una ricostruzione che Palazzo Chigi smentisce come «fantasiosa».
Un ultimo segmento del servizio di Report si concentra poi sul testamento olografo di Berlusconi, che la trasmissione ha fatto esaminare alla grafologa Patrizia Giachin: «La calligrafia nell’ultimo è diversa da quella dei testamenti precedenti».Dal Cav al cavillo. Così Marta Fascina si "blinda" nella villa di Arcore. La non-moglie di Silvio Berlusconi ha installato delle targhe a villa San Martino per proclamarla sua segreteria politica. Rendendola così inviolabile per legge. Un segnale che sembra rispondere alle parole di Paolo Berlusconi. E aumenta i malumori dentro Forza Italia. Simone Alliva su L'Espresso il 05 ottobre 2023
Blindata nella fortezza di Arcore, tra gli arredi stile tavernetta della “sala cinema” e la statuetta di Priapo da cui è nata la storiella del Bunga Bunga. Marta Fascina, quasi moglie di Silvio Berlusconi e ora quasi vedova, continua, nonostante il lutto inconsolabile, a restare in contatto con i suoi più fedeli, pronti a comunicarle dispacci via Whatsapp. Alessandro Sorte, Stefano Benigni e Gloria Saccani Jotti i deputati azzurri a cui nulla sfugge. Silente, invece con l’amico di sempre Tullio Ferrante con cui, dicono, è in rotta di collisione.
«A Villa San Martino è la padrona di casa», riporta al Fatto Quotidiano la voce di un dirigente di Forza Italia. Così padrona di casa che ha deciso di intestarsela. “Segreteria politica onorevole Marta Fascina" sono le due targhe di ottone che sovrastano l’entrata di alcune stanze. La deputata azzurra avrebbe dovuto lasciare Arcore a fine settembre, secondo gli accordi di famiglia. E magari tornare in Parlamento dove la last lady è assente da diverso tempo e, negli ultimi nove mesi, ha espresso appena 17 voti su un totale di 3.032, toccando lo 0,56% di presenze e guadagnandosi il secondo posto tra gli assenteisti del Parlamento. Invece resta lì. Una trovata ineccepibile quelle targhe di ottone. La “segreteria politica” ai sensi del secondo comma dell’articolo 68 della Costituzione rende il domicilio inviolabile: nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene. Istituire l’ufficio di rappresentanza dei parlamentari presso le proprie abitazioni private è una prassi consolidata. Meno istituirla in un’abitazione dove pende sostanzialmente una richiesta di sfratto.
Intanto dentro il partito il malumore monta, ben nascosto però. Ieri la moderata ministra dell'Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ospite a "Sky 20 anni" su Sky Tg24, sul possibile ritorno in Parlamento di Marta Fascina si è limitata a dire: «Sono certa che opererà per il meglio perché è una persona seria, la decisione che prenderà sarà quella giusta». Anche Giorgio Mulè, deputato Fi e vicepresidente della Camera a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, ha voluto attenuare: «Deve superare il dolore che sta vivendo, nei suoi tempi e nei suoi modi, una tragedia che sta vivendo intimamente. Paolo Berlusconi l'ha voluta spronare, per quello è stato forte, le ha voluto dare una scossa».
Prima o dopo, mormora una parlamentare azzurra, qualcuno chiederà apertamente le dimissioni. Ma lo dice sottovoce, non è il caso di fare polemiche a quattro mesi della morte del Cavaliere. La questione davvero bizzarra è che Fascina sia sempre più intenzione a rendere Villa Arcore residenza privata e sede del lavoro da parlamentare di Forza Italia. Un segnale chiaro: da qui non me ne vado.
Estratto dell’articolo di Fabrizio D’Esposito per “il Fatto quotidiano” sabato 30 settembre 2023.
[…] Benché inseguita dalle malignità materiali, molto materiali, sui cento milioni ereditati dal quasi marito nato il giorno di San Michele, il 29 settembre, lady Marta Fascina perpetua l’atavica tradizione del sud primordiale con una vedovanza eterna e invisibile, intessuta di lacrime a getto continuo.
E per farlo si è tumulata come una Marta vivente nella reggia brianzola di Arcore del quasi marito spirato il 12 giugno or sono, e sua volta tumulato nel noto mausoleo della stessa reggia.
Lei che, giorno e notte, notte e giorno, ha stretto come un tenero fiore la mano dell’Amato nelle sue ultime settimane terrene, si è rinchiusa a Villa San Martino sul modello delle famiglie delle borgate romane che non vanno in vacanza per paura di lasciare la magione e poi trovarsela abusivamente occupata.
Un destino triste, fatto sempre delle stesse albe e degli stessi tramonti, con mesti e brevi pellegrinaggi alle ceneri dell’Amato, che per lei sono comunque luce e calore, come ha scritto ieri per il compleanno: “Ogni giorno illumini e scaldi il mio cuore”. […]
Solo che il tempo passa e adesso i familiari epicurei e pragmatici del quasi marito reclamano la villa, trattandola come un’Olgettina qualunque residente a Milano due. E così oggi è il 30 settembre, presunta scadenza della permanenza nella reggia.
Pier Silvio […] ha già pronta una rinomata ditta di traslochi. Paolo, invece, il fratello meno sveglio di Silvio, le ha rinnovato un monito fermo e deciso: “Basta lacrime, è l’ora di uscire, vai in Parlamento”. […]
Ma nel cielo azzurro di Forza Italia volteggiano sempre rapaci di ogni dimensione. Si è rifatta sentire, per l’occasione, finanche Mariarosaria Rossi, col nome tutto attaccato ché in onore della Madonna del Rosario di Pompei. L’ex senatrice nonché badante di B. ai tempi pascaliani (non Blaise, ma Francesca) non le ha riservato alcuna pietà mariana e ha gettato altro acido sulle ferite insanabili del dolore di lady Marta: “Se per il grande dolore non se la sente di tornare in Parlamento faccia un passo indietro”.
Eh, già. Non solo vorrebbero retrocederla ad Olgettina locataria, seppur multimilionaria, oppure vederla errare in Transatlantico alla stregua di un anonimo peone, ma adesso le vorrebbero pure sottrarre la consolazione del seggio, conquistato in Sicilia senza alcuna fatica. Povera lady Marta: vogliono la sua decadenza da Arcore e dal Parlamento. Proprio come accadde all’Amato.
DAGOREPORT mercoledì 27 settembre 2023.
Paolo Berlusconi non ha mai avuto il Dna affabulatorio, ego-espanso e arci-narcisista da consumato maestro di teatro del fratello maggiore Silvio. E’ sempre stato un tipo di poche parole, poche donne, poca visibilità. Ecco perché ha suscitato curiosità e anche scalpore il richiamo all’ordine a Marta Fascina, ultima compagna del fratello defunto.
A Monza, durante un evento a sostegno del candidato alle suppletive Adriano Galliani, Paolo Berlusconi se n’è uscito come i dolori: “Basta con le lacrime, l'ho detto anche a Marta che è inconsolabile, ma che deve trovare la forza di tornare in parlamento perché è un suo diritto ma soprattutto un suo dovere”.
Eppure sono passati ormai quasi quattro mesi dalle esequie e la Fascina è ancora lì, rintanata nella reggia di Arcore, in gramaglie, a bagnare fazzoletti e lenzuola di lacrime. E Zio Paolino, in missione per conto dei Berlusconi tutti, ha fatto presente alla “vedova”, compagna degli ultimi tre anni della vita del Cavalier Pompetta, che magari gli “inconsolabili” solo loro: figli, fratelli e consanguinei vari.
Con il cuore a pezzi, son tutti tornati alle loro attività. Nessuno si è rinchiuso in casa con le tapparelle abbassate a disperarsi, rinunciando al dovere di partecipare come deputato eletto in Sicilia, pur avendola vista solo in vacanza da piccola, alle sedute della Camera, e magari comunicando ogni tanto il proprio strazio al fidato giornalista del Corriere.
Tradotto in soldoni: dietro la reprimenda di Paolo Berlusconi si può leggere un avviso di sfratto da parte della famiglia del Biscione. Cara Marta, a fine anno prepara le valigie, gira i tacchi e molla Arcore: con i 100 milioni di eredità intascati per aver tenuto stretta come una trappola per topi la mano di Silvio, puoi trovare, con il tuo amato papà al seguito, un'altra doviziosa dimora.
Dietro tale avviso di cambiare aria, c’è anche il desiderio di Piersilvio di prendere possesso della reggia brianzola, dove da tempo ha già un appartamentino in una dépendance. Il momento del passaggio di testimone da padre al figlio è giunto. (anche perché gran parte della servitù che cura la reggia è rimasta in servizio e tutto grava sul bilancio dei Berlusconi).
Il lutto "inconsolabile" di Marta Fascina ha stufato anche Forza Italia. Per i lavoratori "normali" sono previsti tre giorni di permesso retribuito in caso di grave lutto. La quasi moglie di Silvio Berlusconi non si fa vedere in Parlamento da mesi. E dopo il record di assenze, arriva persino la strigliata da Paolo Berlusconi. Simone Alliva su L'Espresso il 26 settembre 2023
«L'ho detto anche a Marta (Fascina, ndr), che è inconsolabile, ma che deve trovare la forza di tornare in Parlamento perché è un suo diritto ma soprattutto un suo dovere». A richiamare al dovere la deputata di Forza Italia, quasi moglie di Silvio Berlusconi e ora quasi vedova, è stato il fratello Paolo. Commosso ma sorridente, il quasi cognato in un passaggio del suo intervento a Monza per sostenere la candidatura alle suppletive in Senato di Adriano Galliani, ha toccato un argomento quantomeno spinoso per il partito di centro-destra: quello dell'assenteismo della deputata che negli ultimi nove mesi ha espresso 17 voti su un totale di 3.032, toccando lo 0,56% di presenze. La last lady si piazza così al secondo posto tra gli assenteisti del Parlamento, superata dal senatore della Lega Umberto Bossi che primeggia con lo 0,1% delle votazioni. Assente giustificato, tuttavia: dall'alto dei suoi 82 anni il Senatur vive in condizioni di salute che lo hanno tenuto spesso lontano da Roma.
Fascina invece risulta, appunto, «inconsolabile», dopo la morte del fidanzato e per questo in Parlamento non si fa praticamente mai vedere. Solo uno dei lussi della politica di Palazzo: se per i deputati valessero le regole dei contratti nazionali del pubblico e del privato impiego, la loro assenza non potrebbe protrarsi oltre i tre giorni di permesso per lutto familiare (previa presentazione del certificato di morte del parente).
Paracadutata in un collegio blindato a Marsala-Trapani, la candidatura di Fascina aveva suscitato non pochi malumori dentro il partito locale. «Un'imposizione dall’alto», si erano lamentati i dirigenti locali. Ma Fascina aveva cercato riparo con un'intervista a Libero definendo la sua candidatura «una decisione del partito condivisa con il nostro instancabile coordinatore regionale, Gianfranco Miccichè, che ho accettato con entusiasmo ed orgoglio. La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi in cui, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza». Sulle sue assenze qualcuno ha avanzato delle scuse credibili: Marta era impegnata a seguire «il tramonto politico e umano di Silvio».
A Fascina, completamente sparita dalla vita pubblica, Silvio Berlusconi ha lasciato un'eredità 100 milioni di euro. Laureata in filosofia, addetta stampa – cosa mai del tutto confermata – nel Milan allora gestito da Adriano Galliani. Calabrese, cresciuta a Portici in provincia di Napoli, nei primi mesi del 2018 Forza Italia l’aveva blindata per la Camera in Campania. In Parlamento da allora aveva già collezionato il 74% di assenze. Proprio ieri, sui social, il fratello d'anima (come va di moda di questi tempi) Tullio Ferrante, sottosegretario delle infrastrutture, 34 anni, compagno del liceo di Fascina a Portici, aveva dedicato un messaggio alla quasi-vedova Berlusconi per celebrare la sua ascesa in Parlamento: «A chi ha creduto in me catapultandomi nel sogno più intenso ed affascinante della mia vita: il mio padre politico, il grande Presidente Silvio Berlusconi. A Te e alla mia amica e sorella Marta Fascina, per sempre Grazie». Elemento modificato in mattinata. Il nome dell'amica e sorella Fascina, è magicamente scomparso.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera – Sette” venerdì 8 settembre 2023.
(...) Sapete chi sono i deputati più assenteisti in questo primo scorcio di legislatura? Quello che si è visto meno di tutti è Umberto Bossi, ma con la grande scusante di avere ormai quasi 82 anni e di viaggiare su una sedia a rotelle ormai da tempo, il sigaro fisso tra le dita, testimone di una Lega che fu.
Però non è di Bossi che voglio parlarvi. Perché è più interessante l’identità della seconda assenteista della Camera: che è Marta Fascina. La deputata di Forza Italia, quasi moglie di Silvio Berlusconi e ora quasi vedova, negli ultimi nove mesi ha infatti espresso 17 voti su un totale di 3.032, collezionando un imbarazzante 0,56% di presenze. A occhio non sembra possano davvero esserci giustificazioni plausibili per la bionda parlamentare ascesa al ruolo di last lady d’Arcore dopo essere stata eletta grazie al Cavaliere, candidata – o meglio: paracadutata – in un collegio blindato, Marsala-Trapani, dove in campagna elettorale non si fece praticamente mai vedere, mandando però a dire ai suoi elettori che «la Sicilia è una regione meravigliosa».
Sulle assenze dell’onorevole Fascina dai lavori in aula s’è sempre favoleggiato. Argomento spinoso, polemica minata: perché, a chiunque osasse sollevare il problema, veniva subito ricordato che Marta era impegnata a seguire «il tramonto politico e umano di Silvio».
Sì, certo. Il problema è che un po’ tutti abbiamo avuto un parente gravemente malato, però nessuno ha mai potuto permettersi di abbandonare il posto di lavoro, continuando a percepire, regolarmente, lo stipendio. Vediamo ora che succede. Le giornate sono lunghe e all’onorevole Fascina magari è tornata voglia di lavorare. Ma magari no (voi con 100 milioni di eredità mettereste la sveglia al mattino?).
Estratto dell’articolo di Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” venerdì 4 agosto 2023.
[…] Nelle ultime due settimane la loro frequenza si era diradata fino quasi a farle scomparire, ma il tormentato messaggio social che l’ultima compagna di Silvio Berlusconi ha lasciato l’altro giorno sul suo profilo di WhatsApp — che si concludeva con un disperato «Mi manchi amore mio, Diooooo se mi manchi!» — ha riacceso un interesse che pareva scomparso e ridestato curiosità che sembravano sopite.
Che fine ha fatto l’onorevole Fascina? Sì, si trova sempre a Villa San Martino. Al momento da sola, senza amici e familiari […] con lei c’è il cane Dudù, che gironzola dentro casa come faceva ai tempi in cui c’era anche il Cavaliere […] Non ha in programma alcuna vacanza né ha in mente di allontanarsi da Arcore, a meno di non cedere prima o poi al pressing, asfissiante e amorevole insieme, di chi le sta chiedendo di respirare un po’ di aria di mare.
Di più […] dal giorno del funerale di Silvio Berlusconi la compagna del Cavaliere non avrebbe mai più varcato il cancello della villa di Arcore e quindi non sarebbe mai uscita di casa. Pochissimi contatti col mondo esterno, pochissimi interlocutori politici (ha sentito qualche volta Antonio Tajani, qualche volta anche Matteo Salvini); a parlarci quotidianamente, chiamate in entrata e in uscita, sono i suoi genitori, i figli di Silvio Berlusconi («Li sento tutti indistintamente, sia i più grandi che i più piccoli», ha spiegato in privato) e qualche amico. Già, gli amici.
Alcuni di loro […] confessano di essere «preoccupati» per Fascina. «Vive immersa nel lutto. Non solo non ha finito di elaborarlo ma non ha nemmeno iniziato», dice uno di loro. […] «Chi le vuole bene è abbastanza preoccupato per questa ragazza. Non riesce a venire fuori da questa situazione, non riesce a farsi una ragione della morte di Berlusconi». Di politica, al momento, non c’è neanche da discuterne. Di partecipare alle sedute del Parlamento non se ne parla, di presenziare agli eventi del partito nemmeno.
[…] Si vedrà a settembre, nel momento in cui inizierà la marcia di avvicinamento alle assise di Forza Italia che porterà — nel periodo tra il primo dicembre 2023 e il 28 febbraio 2024 — all’elezione dei delegati comunali e provinciali da cui verrà fuori la platea congressuale che sceglierà il segretario. Il vecchio «blocco Fascina» — dal coordinatore della Lombardia Alessandro Sorte al numero uno degli juniores Stefano Benigni, passando per il sottosegretario Tullio Ferrante — non ragiona come area né pensa da corrente. […]
Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 21 giugno 2023.
Adesso che non c’è lui, chi è lei? Marta Fascina a nome di chi parla? Cosa vuole? Chi si crede di essere? Per Forza Italia è dunque tornata Marta “la muta”, la deputata semplice, l’onorevole Fascina, la “ragazza di Portici”, la compagna di Berlusconi, che, spiega da giorni, Antonio Tajani, “non ha bisogno di nessun ruolo formale”.
Ed è stato sempre Tajani, ieri, al Senato, durante la commemorazione solenne dedicata al suo Cav., […] a raccontare il miracolo Berlusconi, che era anche il miracolo Fascina: “Con Berlusconi il debole valeva quanto il più potente del mondo”. Ma il debole poteva anche farsi prepotente.
Debole all’inizio, spietata negli ultimi mesi, c’è nell’ascesa di Fascina tutta la specialità Berlusconi, le sue “zucche fatte ministro”, “una ex addetta stampa del Milan” trattata come Evita in Argentina. C’è insomma quel “fuori dall’ordinario” che, ancora, al Senato, ha fatto commuovere Licia Ronzulli, [...] la sola che ha fatto in tempo ad emanciparsi e diventare “la Ronzulli” e non più la “berlusconiana Ronzulli”. Sono stati i centimetri che avvicinavano Marta a Berlusconi, come erano prima quelli tra Licia e Silvio, a qualificare Marta, “nuova leader di Forza Italia”, ma ora che quei centimetri sono eterni, Marta chi è?
[...] non era vero che esistesse una corrente Fascina in FI, mentre era vero [...] che una parte di FI avesse scelto, per calcolo, di assecondare la dama del capo, la stessa che ha consentito a tre sconosciuti parlamentari, due di questi pure transfughi, Alessandro Sorte e Stefano Benigni, di essere nominati uno coordinatore di partito, l’altro addirittura tesoriere.
Il terzo, Tullio Ferrante, aggiungeva come merito l’essere “compagno di scuola” di Marta.
Ma era un merito? I giornalisti che, alla Camera, in queste ore, li cercano, non li trovano. In autunno, garantiscono in FI, dovrebbero perdere le cariche che “hanno ottenuto con il veleno” e che Tajani non potrà che “portargli via”.
Erano gli investigatori di Marta, ed erano loro che, nella speciale chat, spedivano verbali dettagliati, perfino fotografie, barattoli di aria insana che Marta faceva poi annusare al suo Silvio: “Guarda, tramano”. Lo scorso venerdì mattina, a piazza San Lorenzo in Lucina, quando Tajani prendeva per mano quello che restava dell’infinito, Sorte, Benigni e Ferrante non erano presenti.
Li raccontano angosciati, come nei drammi elisabettiani. [...] Rilasciano interviste dove chiedono “un ruolo per Marta”. Ma che ruolo può esserci per chi ha perso il sole? Fascina è sotto processo per abuso di berlusconismo, che è stata una fattispecie di reato non codificata, in attesa dell’apertura del sigillo, il testamento, che, dice un deputato di FI, ne sancirà la sua definitiva uscita di scena o rivelarsi la sua grazia se “solo nel testamento dovesse esserci…”.
Forza Italia desidera sapere se “Marta avrà la sostanza” o se sarà lei la “sostanza” di Marina Berlusconi, la figlia, l’erede, che le ha dato la mano durante il funerale. Oltre alla sostanza si teme infatti che Fascina possa ricevere delle quote nelle società di famiglia, e, a quel punto, esercitare potere sul partito, lo stesso che avrebbe esercitato, si maligna, a Mediaset. Tra le varie imputazioni se ne sarebbe aggiunta, a suo carico, un’altra ancora, la censura editoriale, il “cacciatelo”.
Per volere di Marta sarebbero state cancellate le ospitate, già concordate, di Luigi Bisignani, alle trasmissioni Quarta Repubblica e Stasera Italia. E’ quel Bisignani che nel suo ultimo libro, insieme a Paolo Madron, parla di Ferrante e Sorte come “Stanlio e Ollio” e di lei, di Marta, come la furba Marta.
Ci sarebbe la firma della Fascina, anzi, la sigla Vlsm, su quella cancellazione, e chi può dire che anche questo non sia veleno, ma non è stato veleno pure quello sparso su parlamentari di FI senza colpa, colpevoli di non essere graditi a Marta?
Vlsm sta per Villa San Martino, la villa che Marta ha condiviso con Silvio, la sua campana di vetro, che era già a prova di bunker atomico, quello che Marta avrebbe voluto per rifugiarsi in caso di raid nucleare.
In questi mesi, Marta ha rinnegato la sua simpatia per Putin, si è fatta meloniana quando occorreva, e ha cominciato a credere [...] “nelle bugie che raccontava”. Anche con Marta, tutta Forza Italia ha mentito. [...] Non le sarà perdonato nessun torto, quello che Marta ha inflitto per capriccio, per divertimento, solo per vedere uomini stimati umiliarsi di fronte a una ragazza che, per età, poteva essere loro figlia. Il processo a Fascina è l’unico vero processo “politico”, storico, che avrebbe meritato il politico Berlusconi. E’ iniziato. In memoria di lui, stanno già processando la protervia di lei.
Estratto dell’articolo di Dario del Porto, Giuliano Foschini, Emanuele Lauria, Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 20 giugno 2023.
Il posto al primo banco nel Duomo di Milano, le mani strette a Marina, le lacrime mentre il feretro lascia la piazza, il suo nome nelle prime righe del testamento. Di Marta Fascina si è detto dove è arrivata.
Poco, quasi nulla, si sa invece delle circostanze e del momento in cui è partita la scalata di questa ragazza silenziosa, che pesa attentamente le parole - alla Camera, e ad Arcore, la chiamavano "la muta" - e che invece, negli ultimi mesi di vita del suo famoso fidanzato, ha cambiato strategia, acquisendo potere, organizzando l'inner circle del Cavaliere e, infine, tentando di prendersi un pezzo di Forza Italia.
[…] Marta parla poco di politica ma spesso di Berlusconi: non nasconde la sua passione per "un certo modo di vedere il mondo", racconta una sua vecchia insegnante. "La comunicazione, l'apparire, arrivare... Marta era una ragazza poco esuberante ma attratta da queste cose". D'altronde il silenzio, che appunto le varrà il soprannome di "muta", è lo stesso che la madre e lo zio Antonio di Portici, dove vivono in un condominio, hanno sempre adottato in questi anni.
Anche dopo le nozze, quando i cronisti hanno cominciato a bussare alle loro porte. "Niente da dire", è la risposta che oppongono, sempre cortesi, sempre mettendo da parte le parole. "Quando è morto Berlusconi - racconta oggi uno dei condomini - abbiamo affisso un bigliettino nell'androne: "In segno di cordoglio per la perdita subita dalla famiglia Fascina - Della Morte". Nessun riferimento a Berlusconi. "Non ce n'era bisogno. E poi loro avrebbero preferito così...".
Finita la scuola superiore, Marta annuncia ai suoi (pochi) amici la volontà di trasferirsi a Roma per frequentare la facoltà di Scienze della Comunicazione. Nessuno è sorpreso. "Non era fatta per restare a Portici...". Qui accadono due cose: comincia a frequentare un certo tipo di feste. La si vede biondissima, riccissima e solare in una foto postata nell'ottobre del 2011 da Giacomo Urtis, il chirurgo estetico delle star.
È la festa di compleanno di Urtis, non esattamente un evento accessibile a tutti, ci sono i fotografi delle riviste patinate e un elenco di invitati strafamosi e quelli che Dagospia, la Cassazione sul gossip, chiama sarcasticamente "morti di fama". Accanto a lei c'è Stefano Ricucci, il "furbetto del quartierino".
Ma nel "periodo romano", ed è il secondo punto, Marta Fascina non dimentica Berlusconi. Diverse fonti raccontano che tanto timida era la ragazza nei rapporti sociali, quanto sfrontata, nel senso di appassionata e ammirata, sapeva essere nelle lettere a mano che scriveva di suo pugno al Cavaliere. Se effettivamente l'ex presidente del Consiglio - proprio in quei mesi travolto dagli scandali di Noemi Letizia, Patrizia D'Addario, dallo svelamento insomma del "ciarpame senza pudore" per usare la definizione di Veronica Lario - abbia letto o meno le lettere della giovane Fascina, non si sa.
È un fatto però che la ragazza di Portici riesca ad accedere a Palazzo Grazioli. "Il merito è di Lele Mora che Marta conosce a una festa", dice un deputato forzista di lungo corso. Altri invece giurano che Mora non c'entri niente, e che lei fosse nel gruppo delle "campane" che già frequentavano le residenze di Berlusconi. Ma tant'è: Marta Antonia Fascina finisce dal Cavaliere. Il suo.
L'anno dell'ascensione è fatto risalire al 2013. Nella vita di Marta succedono quattro cose. La più importante è la prima: conoscere Berlusconi. Partecipa alle cene eleganti, come documenta il "libro mastro" delle ospiti dell'ex premier, una sorta di rubrica dove sono elencati i nomi, i cognomi, i numeri di telefono delle ragazze e, nel caso delle più giovani (come Marta, appunto, che in quel momento ha 23 anni), anche i numeri dei genitori. Marta è a corte.
E intraprende il percorso, previsto dal protocollo del Sultano: la candidatura alle elezioni, il bonifico, l'arrivo ad Arcore. Marta è candidata a Portici, dove rientra tutti i weekend. Il candidato sindaco del centrodestra è Vincenzo Ciotola (morto nel 2017), in una sfida complicata, anzi politicamente quasi impossibile, per la forza del centrosinistra. Ciò nonostante, chi si occupò di quella campagna elettorale ricorda Fascina molto attiva nel comitato allestito in piazza Brunelleschi. […]
Marta fa parte di quel gruppo che chiamano "le campane" ma, a differenza delle altre, spicca per una qualità specifica: sa tacere. "In realtà ne aveva anche un'altra, la gentilezza", racconta a Repubblica una delle persone che più di altre frequentava le residenze di Berlusconi a quel tempo. "Quel suo essere incredibilmente cortese, affabile, quasi geisha, esattamente ciò che faceva impazzire Silvio. Francesca, invece, prese subito a imporre il suo carattere. Ricordo che spesso, per esempio, quando il presidente ripeteva le sue note barzellette a sfondo sessuale, si arrabbiava. "Basta!" gli urlava, "Non fai ridere nessuno". Un rimprovero che Marta mai avrebbe pronunciato. Anche perché non parlava mai...".
Arriviamo così al 2018. Si vota per le Politiche e in una notte, all'improvviso, il nome della semi-sconosciuta Fascina è imposto nella lista di quelli da far eleggere a tutti i costi. Per scelta personale e indiscutibile di Berlusconi, finisce iscritta nella sua Campania per un seggio alla Camera, spodestando Nunzia De Girolamo. A chi chiede: "Ma questa chi è?" (dicono che l'unico con cui sin lì ha scambiato qualche parola fosse soltanto Elio Vito), la risposta è una sola, minima, che chiude ogni discorso: "Un'amica di Galliani". Anche se l'amministratore delegato del Milan, in privato, giura di non aver nemmeno capito bene chi sia questa Marta. Anzi, pardon: l'onorevole Marta Antonia Fascina. […]
Estratto da open.online il 20 giugno 2023.
Marta Fascina è la donna dei misteri di Silvio Berlusconi. L’ex premier la chiamava “moglie” in pubblico ma i due non si sono mai sposati. Prima della morte di lui era stata accusata di volersi prendere il logo di Forza Italia. Lei, dopo la morte dell’ex Cavaliere, si è rinchiusa nel suo dolore. Mentre gli spifferi sul testamento l’hanno indicata come beneficiaria di un lascito pari a 100-120 milioni di euro e due ville.
E se il padre Orazio, dopo la presenza al capezzale di Berlusconi, è stato indicato come candidato alle elezioni europee per il partito, poco si sa della sua ascesa ai vertici del partito. E delle sue intenzioni future. Anche se c’è già chi le ha ritagliato addosso il ruolo di ambasciatrice di Mediaset presso il governo Meloni. Per conto di Marina Berlusconi, che dovrebbe ereditare il ruolo del padre.
Estratto dell’articolo di Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2023.
«Ce la farai, ce la faremo», sono le frasi che negli ultimi cinque giorni Marta Fascina ha pronunciato di più rivolgendosi a Silvio Berlusconi. E nessuno, forse, saprà mai se il Cavaliere ci avesse creduto, per l'ennesima volta, tanto al miracolo che all'incitamento; o se l'umore nero per una condizione fisica che faticava a recuperare non avesse avuto in realtà avuto la meglio, oltre che dentro il suo corpo, anche tra i suoi pensieri. La disperazione «per aver perso l'amore della mia vita», consegnata in pochissime parole alle voci amiche fuori dall'universo berlusconiano che hanno avuto la possibilità di sentirla durante le ore drammatiche della giornata di ieri, dicono poco o nulla della ragazza di trentatré anni a cui il destino ha consegnato, comunque vada, un posto nella storia.
(...)
Gli ultimi mesi Quanto grande sarà il posto nella storia lo diranno i prossimi giorni, le prossime settimane, i prossimi mesi. Gli ultimi, di mesi, hanno raccontato l'ascesa di Fascina, lo strettissimo legame instaurato con la famiglia Berlusconi, la fiducia di Marina e poi anche quella di Pier Silvio, ripagata con la scelta di chiudersi al San Raffaele senza mai abbandonare il Cavaliere, neanche per mezza giornata, a costo di ricevere dentro l'ospedale tutto quello che avrebbe potuto fare fuori, compreso parrucchiere ed estetista.
(…)
«La mia passione è la politica. E io sono nata col mito di Berlusconi», ha ripetuto talmente tante volte a chi cercava di decrittare i codici di una donna misteriosa, dosando in privato quelle parole che in pubblico non ha mai pronunciato (in Italia, forse, è il più famoso essere umano tra quelli di cui non si conosce la voce) e rivendicando «con grande orgoglio tutti i comizi di Berlusconi che ho seguito da sempre», in molti casi prendendo un pullman da Portici (provincia di Napoli) e macinando chilometri con una compagnia di giro che era più o meno sempre la stessa.
Nella compagnia c'era anche Tullio Ferrante, amico di studi e di partito, oggi nella delegazione forzista del governo Meloni; che con altre nuove leve, come il coordinatore della Lombardia Alessandro Sorte e il numero uno degli juniores azzurri Stefano Benigni, rappresenta quelli che in tanti hanno raccontato come «la corrente Fascina», l'ultima nidiata del berlusconismo, quelli che le telefonate con Arcore — fino alla settimana scorsa — le hanno fatte e ricevute, quelli del «datemi i nomi per le liste delle Europee», quelli del «preparatemi le cose in vista del vertice coi ministeri», l'ultima incompiuta in un'agenda che si è chiuso per sempre, inizialmente programmato per sabato scorso e poi rinviato a una data che il calendario degli umani non contempla più. «Non sono in guerra con nessuno, non faccio guerre con nessuno», ha spiegato nell'ultima settimana Fascina, dando voce alla volontà di Berlusconi, quella di sottrarre Forza Italia ai venti di conflitto permanente che hanno attraversato il partito negli ultimi anni. A lei il Cavaliere aveva spiegato che sì, il cambio di organigramma, le modifiche, i coordinatori nazionali, ma «senza più liti, chi perde il posto dovrà prima averne un altro».
Il caso sui social. Silvio Berlusconi, alla notizia della sua morte i social scatenati su Marta Fascina. L’ironia sulla possibile eredità. La compagna dell’ex Premier ha i fari dei social puntati addosso: gli utenti si chiedono se diventerà la leader di Forza Italia e, soprattutto, se erediterà parte del patrimonio. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2023
C’è chi la immagina addirittura felice per la scomparsa di Silvio Berlusconi, del quale è stata l’ultima compagna di vita. Marta Fascina in queste ore è nel mirino degli utenti social, specialmente degli utilizzatori di Twitter, scatenati nel fare battute sulla possibilità – o meno – che possa avere una parte dell’eredità del Cavaliere.
“Il mio pensiero va a Marta Fascina devo sapere se è stata inclusa nell’eredità anche se non erano legalmente sposati”, scrive qualcuno. Difatti, quello fra Silvio Berlusconi e Marta Fascina è stato un matrimonio non convenzionale. I due si erano uniti con
un «matrimonio simbolico», celebrato a Villa Gernetto di Lesmo, in Brianza, il 19 marzo del 2022. Ovvero, una cerimonia che ne ha ribadito l’affetto, l’amore romantico, ma che nulla ha a che fare con le leggi che regolano l’unione fra coniugi e la relativa possibilità di essere considerati eredi di un ingente patrimonio, come quello della famiglia Berlusconi.
Marta Fascina, dunque, per la legge italiana non è stata l’ultima delle mogli di Silvio Berlusconi. Di conseguenza, a meno che il Cavaliere non l’abbia ricordata con un apposito riferimento nel testamento, non ha nessuna chance di ereditare parte del patrimonio.
Eppure, su Twitter le battute si sprecano ed il nome di Marta Fascina diventa rapidamente un trend sul social dell’uccellino: c’è chi paragona le tre mogli del Cavaliere a personaggi della serie tv “Succession”, altri twittano meme in cui la si immagina gioire alla notizia della morte. Insomma, un umorismo sicuramente “nero”, al limite del macabro.
Chi è Marta Fascina, la “non moglie” di Silvio Berlusconi: “Sempre più potente in Forza Italia”. Redazione Web su L'Unità il 12 Giugno 2023
Marta Fascina è rimasta sempre vicino a Silvio Berlusconi, negli ultimi mesi e nelle ultime ore. All’esterno dell’Ospedale San Raffaele di Milano si è radunata una folla di persone, oltre a giornalisti e operatori tv. Allestito un presidio delle forze dell’ordine. Berlusconi aveva passato una “notte tranquilla” dopo l’ultimo ricovero di venerdì scorso. E invece stamattina la notizia: l’imprenditore ed ex Presidente del Consiglio è morto a 86 anni. Lo scorso 19 maggio era stato dimesso alla fine di una degenza di 45 giorni in seguito a una polmonite, complicanza di una leucemia mielomonocitica cronica di cui soffriva da tempo.
Fascina è nata nel 1990 a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. È cresciuta a Portici, in provincia di Napoli. Laurea all’Università La Sapienza di Roma in Lettere e Filosofia, alle elezioni politiche del 2018 era stata eletta alla Camera dei deputati, con il proporzionale, nella lista di Forza Italia, nella circoscrizione Campania 1. Era fidanzata con Silvio Berlusconi dal 2020. Aveva lavorato nell’ufficio stampa del Milan e poi nella Fondazione Milan.
Sarebbe stata introdotta, scriveva Vanity Fair, nell’universo berlusconiano da Adriano Galliani. Si sarebbe fatta inoltre tatuare le iniziali S. B. sull’anulare sinistro, come tra l’altro avevano fatto Sabina Began e Francesca Pascale, ex di Berlusconi. La prima volta che fu paparazzata con il Cavaliere fu a inizio 2020 in Svizzera, all’uscita del Grand Resort di Bad Ragaz. La conferma della relazione all’aeroporto di Olbia, qualche mese dopo, all’inizio delle ferie estive a Villa Certosa, in Costa Smeralda. Fascina e Berlusconi nel marzo del 2022 si erano legati in un matrimonio simbolico a Villa Gernetto a Lesmo, in Brianza. Il Cavaliere la chiamava comunque “moglie”.
Alle elezioni politiche dello scorso settembre Fascina è stata rieletta. “Il nostro presidente ha raggiunto risultati, in tutti i campi nei quali si è cimentato, che nessun altro premier ha mai conseguito”, raccontava in un’intervista a Libero lo scorso settembre, prima di essere rieletta, ha stravinto al collegio uninominale di Marsala. La sua candidatura, aveva spiegato, era “stata una decisione del partito condivisa con il nostro instancabile coordinatore regionale, Gianfranco Miccichè, una decisione che ho accettato con entusiasmo ed orgoglio. La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza”.
Fascina si sarebbe creata una rete piuttosto fitta di contatti all’interno di Forza Italia. Il Corriere della Sera si interroga se davvero non sia lei destinata a raccogliere l’eredità di Berlusconi nel partito. Pista che appare al momento inverosimile.
Marta Fascina, l’ultima compagna di Berlusconi: «Ho perso l’amore della mia vita». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023
La prima separazione con Carla Dall’Oglio nel 1985, poi colpo di fulmine e clamorosa rottura con Veronica Lario. Il legame con Francesca Pascale. E infine Marta Fascina
«Ce la farai, ce la faremo», sono le frasi che negli ultimi cinque giorni Marta Fascina ha pronunciato di più rivolgendosi a Silvio Berlusconi. E nessuno, forse, saprà mai se il Cavaliere ci avesse creduto, per l’ennesima volta, tanto al miracolo che all’incitamento; o se l’umore nero per una condizione fisica che faticava a recuperare non avesse in realtà avuto la meglio, oltre che dentro il suo corpo, anche tra i suoi pensieri.
La disperazione «per aver perso l’amore della mia vita», consegnata in pochissime parole alle voci amiche fuori dall’universo berlusconiano che hanno avuto la possibilità di sentirla durante le ore drammatiche della giornata di ieri, dicono poco o nulla della ragazza di trentatré anni a cui il destino ha consegnato, comunque vada, un posto nella storia. Carla la prima moglie, Veronica l’unica first lady, Francesca la donna che gli era al fianco all’epoca della condanna definitiva e dell’estromissione dal Senato e adesso Marta,the last lady , la moglie senza matrimonio, la compagna dell’ultimo pezzo di strada, la mano nella mano dell’ultimo miglio, la voce di quell’ultima speranza che si è spenta, insieme a tutto il resto, ieri mattina.
Quanto grande sarà il posto nella storia lo diranno i prossimi giorni, le prossime settimane, i prossimi mesi. Gli ultimi, di mesi, hanno raccontato l’ascesa di Fascina, lo strettissimo legame instaurato con la famiglia Berlusconi, la fiducia di Marina e poi anche quella di Pier Silvio, ripagata con la scelta di chiudersi al San Raffaele senza mai abbandonare il Cavaliere, neanche per mezza giornata, a costo di ricevere dentro l’ospedale tutto quello che avrebbe potuto fare fuori, compresi parrucchiere ed estetista. Sua è stata la gestione del tempo berlusconiano che rimaneva fuori dalle cure, suo il controllo dell’agenda, del libro delle visite, della lista delle chiamate in entrata e in uscita, dei messaggi ricevuti, di quelli a cui rispondere, delle persone da richiamare subito, dopo oppure mai; suo il primo occhio sul plastico ideale dell’ultima rivoluzione che l’ex presidente del Consiglio aveva in mente, la riorganizzazione di Forza Italia, la svolta «partitista» del partito che era nato «di plastica» e che il Capo avrebbe voluto ricalibrare in un partito vero, quasi novecentesco, tutto militanza e coordinamento, come a voler dare un buffetto alla storia del mondo che va da tutt’altra parte.
«La mia passione è la politica. E io sono nata col mito di Berlusconi», ha ripetuto talmente tante volte a chi cercava di decrittare i codici di una donna misteriosa, dosando in privato quelle parole che in pubblico non ha mai pronunciato (in Italia, forse, è il più famoso essere umano tra quelli di cui non si conosce la voce) e rivendicando «con grande orgoglio tutti i comizi di Berlusconi che ho seguito da sempre», in molti casi prendendo un pullman da Portici (provincia di Napoli) e macinando chilometri con una compagnia di giro che era più o meno sempre la stessa. Nella compagnia c’era anche Tullio Ferrante, amico di studi e di partito, oggi nella delegazione forzista del governo Meloni; che con altre nuove leve, come il coordinatore della Lombardia Alessandro Sorte e il numero uno degli juniores azzurri Stefano Benigni, rappresenta quelli che in tanti hanno raccontato come «la corrente Fascina», l’ultima nidiata del berlusconismo, quelli che le telefonate con Arcore — fino alla settimana scorsa — le hanno fatte e ricevute, quelli del «datemi i nomi per le liste delle Europee», quelli del «preparatemi le cose in vista del vertice coi ministri», l’ultima incompiuta in un’agenda che si è chiusa per sempre, inizialmente programmato per sabato scorso e poi rinviato a una data che il calendario degli umani non contempla più.
«Non sono in guerra con nessuno, non faccio guerre con nessuno», ha spiegato nell’ultima settimana Fascina, dando voce alla volontà di Berlusconi, quella di sottrarre Forza Italia ai venti di conflitto permanente che hanno attraversato il partito negli ultimi anni. A lei il Cavaliere aveva spiegato che sì, il cambio di organigramma, le modifiche, i coordinatori nazionali, ma «senza più liti, chi perde il posto dovrà prima averne un altro».
Il suo posto
Quale sarà il posto di Fascina in questa storia, ecco, lo si capirà, forse presto, forse no. Rispondendo a delle domande che è prematuro fare e farsi: c’è una volontà precisa di Berlusconi sull’unico asset della galassia non tutelato dal diritto societario, e cioè Forza Italia? Berlusconi se ha detto e che cos’ha detto, se ha scritto e che cosa ha scritto, se ha detto e scritto a chi l’ha fatto, se l’eredità politica ha uno o più eredi oppure nessuno: l’ultimo mistero Fascina è forse un mistero anche per lei, the last lady, la fine di una storia e basta o una serie che prevede altre stagioni? Una ragazza di trentatré anni piange disperata la fine di un amore, stretta ad Arcore nell’abbraccio dei familiari di Berlusconi e anche dei suoi, col padre Orazio che ha varcato i cancelli di una Villa San Martino segnata dal lutto. Domani è un altro giorno. E nessuno sa che giorno sarà.
DAGONEWS il 12 giugno 2023.
Cosa resta del brevissimo matrimonio “morganatico” tra Silvio Berlusconi e Marta Fascina? Una serie di lettere, il tatuaggio delle iniziali di lui sul dito di lei e 400mila euro volatilizzati in una sola giornata per quello che venne definito un “festival dell’amore” a Villa Gernetto, a Lesmo.
Le voci di un loro avvicinamento erano iniziate a circolare nel 2020. All’inizio i rumors vennero liquidati come dicerie, ma poco dopo i due vennero paparazzati mentre lasciavano un lussuoso resort svizzero insieme al cane Dudu.
Lei lo avrebbe conquistato con una serie di lettere e lui sarebbe capitolato all’inizio del 2020. Un anno dopo, nell’agosto del 2021, lei si lasciava fotografare con un look casual, a un tavolo mentre faceva finta di firmare, mettendo in bella mostra le iniziali di Silvio Berlusconi sull’anulare sinistro.
Nata in Calabria, ma cresciuta in provincia di Napoli, la Fascina si è laureata in Lettere e Filosofia all'Università La Sapienza di Roma e ha iniziato a lavorare per l'AC Milan come addetta stampa. Un’occasione ghiotta per entrare in contatto con il Cav. Quattro anni fa è stata eletta deputata nella circoscrizione Campania 1 e ha passato anni a lavorare sotto traccia.
Dopo alcune foto posate e photoshoppate con il Cav, l'anno scorso Fascina è convolata a finte nozze con Berlusconi a Villa Gernetto, a Lesmo, a nord di Milano.
Lei si è presentata con i capelli raccolti in uno chignon e in abito bianco firmato Antonio Riva: un vestito in pizzo francese con uno strascico lungo 3,5 metri che sarebbe costato 20mila euro. Silvio, invece, ha optato per un elegante abito blu Armani.
Gli ospiti, tra cui spiccavano Marcello Dell’Utri e Matteo Salvini, si sono poi gustati un pranzo preparato dal ristorante “Da Vittorio”: il menù prevedeva mondeghili di vitello al limone, gnocchi di ricotta e patate allo zafferano e paccheri “alla Vittorio” oltre a tagliata di manzo al vino rosso con patate e crema di carote alla cannella.
Una giornatina in allegria di cui si ricorda anche Confalonieri che accompagna al pianoforte il Cav che dedica una canzone alla "moglie".
Uno scherzetto per 60 persone costato a Silvio 400mila euro e non pochi scazzi in famiglia. Presenti alle nozze barzelletta il fratello dello sposo Paolo e i figli Marina, Barbara, Eleonora e Luigi. Come Dago-rivelato all’epoca, Pier Silvio non si presentò alla sceneggiata, ufficialmente perchè positivo al covid.
Estratto dell'articolo di corriere.it il 12 giugno 2023.
Dopo il nome di Marta Fascina, 33 anni, di solito, segue questa frase: «Che gli è stata sempre accanto». Ed è andata proprio così. Fino all’ultimo, la compagna di Silvio Berlusconi, morto oggi 12 giugno al San Raffaele di Milano, non ha mai lasciato da solo l’ex premier.
[…]
Ci si chiede se ora l’eredità politica di Forza Italia passerà a lei. Negli ultimi mesi Fascina aveva creato una nuova, fitta, rete all’interno del partito sostituendo nella gestione anche simbolica Licia Ronzulli, per anni la donna più potente della cerchia vicina a Berlusconi.
Ad aprile, Tommaso Labate scriveva sul Corriere:
«Nella testa e tra le mani della fidanzata che il Cavaliere chiama «moglie» — in accordo e raccordo con i figli — c’è […] Una delega piena, totale, che riguarda tutte le sfere […]».
«Fascina», prosegue Labate, «non sarebbe mai riuscita a far piazza pulita dei «falchi» di Forza Italia senza un accordo strettissimo con i figli del Cavaliere, a cominciare da Marina e Piersilvio; e senza la stretta dei bulloni nei rapporti con Antonio Tajani e con l’ala governista, che poi ha prodotto anche il ritorno sulla scena di Gianni Letta.
Ma è anche vero che la trentatreenne nativa di Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria) ma cresciuta a Portici (Napoli) non è più la ragazza schiva, timida e silenziosa che il gruppo parlamentare azzurro conosce dal 2018, anno del suo ingresso in Parlamento».
E il 3 giugno, Paola Di Caro scriveva:
«Fascina sembra diventare il deus ex machina di tutto: a lei si attribuisce la volontà di conquistare il simbolo del partito, di scalarlo attraverso uomini a lei vicini, di far fuori i nemici, compreso addirittura il coordinatore Antonio Tajani. Lei ha smentito con veemenza, e la descrivono infuriata, ma è chiaro che qualcosa sta succedendo».
Nei prossimi giorni, alcune di queste domande troveranno risposte.
Estratto dell’articolo di Pino Corrias per “il Fatto quotidiano” il 12 giugno 2023.
Marta Antonia Fascina e il suo mistero sono stati fabbricati a Taiwan. O almeno sembra. Marta guarda senza guardare. Parla senza parlare. Si sposa senza sposarsi. Ha la lucentezza del poliuretano. I capelli placcati platino. Nessuno spigolo. Colletti sigillati. […]
Da tre anni abita nel metaverso di Arcore, un altrove ben temperato, dove un tempo passavano femmine replicabili in serie, igieniste dentali, stallieri mafiosi, patate bollenti. La sua orbita è transitata dalla Calabria di Melito alla Campania di Portici, provincia di Napoli, dove un tempo brillavano i compleanni di Noemi Letizia, […]
Dal nulla, l’ombra silente di Marta si è addensata prima negli uffici del Milan, epoca Adriano Galliani & Barbara B., poi in quelli di Montecitorio. Infine direttamente nel cuore di Silvio, che di lì a un paio di anni di fidanzamento conclamato, avrebbe voluto regalarle niente meno che il Quirinale e arredarlo con i suoi enigmatici silenzi, ma ha dovuto ripiegare su villa Gernetto, Lesmo, provincia di Monza Brianza, con sobria cerimonia, tipo Prima Comunione o Ultimo Capodanno, con una autentica torta a tre piani, una fontana costruita con stampante 3D, 60 amici vestiti a festa, a fare finta di nulla, Gigi D’Alessio nei panni di Mariano Apicella, mentre Silvio sembrava felice come un bimbo di 86 anni.
Che lei da quel giorno chiama effettivamente Bimbo, “il mio Bimbo”, avendogli offerto per intero il giocattolo dei suoi 33 anni, ricambiata con un diamante a forma di cuore, che da quel 19 marzo 2022, le arreda l’anulare sinistro e che le signorine cuorinfranti di Forza Italia stimano di 12 carati.
Entrando nel cuore del Capo, […] Marta si è messa spalla a spalla con l’altra muta di casa, Marina, la primogenita del Capo […] estirpando nemico per nemico. A cominciare dalla più nemica di tutte, Licia Ronzulli, ex infermiera del Galeazzi di Milano, […] che si era messa a fare il bello e il cattivo tempo in villa e nel partito, filtrando le telefonate di tutti, comprese quelle di due vecchi compari come Fedele Confalonieri e Gianni Letta che la detestano […]
Marta […] imbracciò due inciampi di Licia – l’umiliazione del Bimbo per la mancata conquista del Quirinale e l’urticante elezione di Ignazio La Russa al Senato – per farla sparire da un giorno all’altro, proprio come la Ronzulli, a suo tempo, aveva sgomberato Francesca Pascale e Mariarosaria Rossi […] Cancellata anche nelle fotografie […]
Mai più ammessa a Arcore. Mai al San Raffaele, con Silvio degente per 45 giorni […] Sollevata dall’incarico di Coordinatrice di Forza Italia in Lombardia. Sostituita da due fedelissimi di Marta, Alessandro Sorte e Stefano Benigni […]
Battezzata da Silvio come “dono di Dio”, Marta Fascina ha storia misteriosa quanto i suoi eloqui. Nasce il 9 gennaio del 1990. Il babbo Orazio faceva il cancelliere al Tribunale di Salerno. La mamma l’insegnante. Studia a Napoli, si laurea in Lettere alla Sapienza di Roma, tesi sulla musica napoletana, piccola passione per la politica, enorme passione per Silvio B. al quale scrive decine di lettere senza risposta. Nel 2013 si candida per il Popolo delle libertà a Portici, raccoglie la bellezza di 58 preferenze.
Le bastano per inoltrare un messaggio a voce a Emilio Fede, famoso scopritore di talenti e di guai, per finire tra le segnalate a Arcore. Entra nell’elenco delle candidabili tra una Deborah, una Katia e una ex miss Molise, anno 2018. Al giro successivo, in qualità di favorita, riceve in dote il collegio blindato di Marsala, anno 2022, dove non mette piede, non fa comizi, “ma ci ha fatto una vacanza da piccola”, fa sapere l’ufficio stampa che nel frattempo le ha ripulito foto e social.
Con la qualifica di deputata […] può dedicarsi alle cure del Bimbo. Di fianco al quale compare sempre vestita castigatissima […] Durante il Covid si eclissa con Silvio in Costa Azzurra. […] nei quattro anni della sua prima legislatura ha presentato due smilze proposte di legge, purtroppo senza relatore, tre emendamenti, una interrogazione, tasso record di assenteismo al 72 per cento. […]
In compenso ha dimostrato un presenzialismo d’acciaio durante l’ultimo ricovero di Silvio, 45 giorni filati senza mai uscire dal San Raffaele: “Come avrà fatto per la ricrescita dei capelli?” si sono chieste le solite colleghe benevolenti. Ha chiamato il parrucchiere? Forse. Di sicuro ha convocato il padre e la madre, che in realtà sono separati da venticinque anni. Circostanza ben misteriosa che a molti ha fatto drizzare le antenne. […] i comunicati ufficiali di casa Arcore, non parlano più di compagna, ma di moglie. Si sono sposati davvero e questa volta in segreto? […]
Estratto dal “Fatto quotidiano” il 5 giugno 2023.
Come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. Così, della lunga intervista […] che Silvio Berlusconi ha rilasciato al direttore del “Giornale” Augusto Minzolini, colpisce una parola che sta nelle prime venti righe: “Moglie”.
La usa, l’ex premier, […] per parlare della dedizione che gli ha mostrato Marta Fascina, che è la sua fidanzata sì, ma sposata non è. […] Ma alla luce del grande potere che Fascina sta acquisendo anche dentro il partito […] l’insistenza sul legame familiare interroga parecchi.
Già nei giorni scorsi, un informatissimo lancio dell’AdnKronos raccoglieva le voci di parlamentari forzisti che si chiedevano se, per caso, Silvio fosse davvero convolato a nozze, dopo il “finto matrimonio” di un anno fa. Il mistero resta fitto. E […] avrebbe effetti ben più deflagranti degli annunci […] sull'asse tra conservatori e popolari per le prossime Europee.
Estratto dell’articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 5 giugno 2023.
Lo chiamano il Marta Power. O meglio: il Fascina Soft Power. Perché il comando della quasi consorte di Berlusconi (lui la chiama «mia moglie») in Forza Italia, ormai acclarato e quasi condiviso, non è di tipo monocratico. Anzi, l'assetto del partito azzurro dopo la "resurrezione" post-ospedaliera del Cavaliere prevede, oltre al leader principale, un quadrumvirato: Marta, Marina, Tajani e Gianni Letta, tornato in gran splendore come Eminenza Azzurrina e regista.
A gestire il cambiamento promesso e promosso da Berlusconi è comunque Marta. E a lei potrebbe riuscire quella riorganizzazione del partito per grandi aree e tre macro-regioni - Nord, Centro e Sud - che Silvio sogna da più di dieci anni.
Il Soft Fascina Power prevede, oltre a un ricambio dei coordinatori regionali […], la tripartizione del potere interno per cui al Nord gli azzurri saranno guidati da Alessandro Sorte (super tendenza Marta), al Centro da Alessandro Battilocchio (tajaneo doc) e al Sud da Tullio Ferrante, il più caro amico ed ex compagno di scuola di Marta, sottosegretario alle Infrastrutture e ormai di casa ad Arcore.
Se questo tipo di riorganizzazione andrà in porto, Forza Italia avrà un'architettura più piramidale e con un gruppo di vero comando molto ben definito. Nel quale […] rientrano insieme ai nomi di cui sopra anche altri: dal capogruppo dei deputati Barelli, vicinissimo a Tajani, all'eurodeputato Fulvio Martusciello uomo macchina e suggeritore di strategie, da Anna Maria Bernini ministra ma anche vice-coordinatrice nazionale a Gasparri e soprattutto Schifani che è il punto di riferimento dei presidenti regionali azzurri, ma stanno emergendo anche altre figure di peso: come la deputata Cristina Rossello, segretaria cittadina di Milano e avvocata di Marina Berlusconi. Per non dire di Stefano Benigni, altro fedelissimo di Marta, deputato e coordinatore nazionale del movimento giovanile, di cui Silvio non fa che dire un gran bene.
[…] «Un vero rilancio», lo chiama Berlusconi […] Il Fascina Soft Power […] si concentra comunque sul partito. E la nuova Forza Italia ha deciso di tornare all'antico, ripristinando le feste azzurre. La Festa Azzurra dei giovani sarà a Gaeta, dall'8 settembre. Alla fine dello stesso mese - a Telese, storica terra mastellata, nel beneventano - si svolgerà la Festa Azzurra nazionale.
E lì - medici e famiglia permettendo - Silvio vorrà esserci in presenza. Nel ricambio di tutto, come si sa, c'è anche stato il turn over alla guida delle comunicazione del Cavaliere, e dopo Paolo Emilio Russo, ecco Danila Subranni. C'è poi da sostituire, forse, il capogruppo in Senato. E se non sarà più Licia Ronzulli, toccherà a Mario Occhiuto o, meno probabilmente, a Roberto Rosso.
[…] Berlusconi […] Non ha nessuna voglia di insidiare Meloni - anzi i rapporti tra Giorgia e Marta sono più che cordiali - ma il vero autore dell'operazione primo presidente della Commissione Ue targato Ppe più destra vuole essere Silvio.
Una raccomandazione va facendo Berlusconi ai suoi: «Non attaccate Matteo Renzi. Se rinsavisce e molla la sinistra, le nostre porte per lui sono sempre aperte». Ma questo è un discorso futuribile. […]
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” il 3 giugno 2023.
L’operazione di Marta Fascina per mettere le mani su Forza Italia non si ferma. L’obiettivo della compagna di Silvio Berlusconi non è solo quello di piazzare i propri fedelissimi nei posti di responsabilità del partito, ma anche di silenziare ogni (presunta) voce fuori dal verbo di Arcore. Così ieri […] ha deciso di fare un salto di qualità nella militarizzazione di Forza Italia: sostituire il responsabile comunicazione di Berlusconi, Paolo Emilio Russo, con Danila Subranni, già responsabile dei rapporti con le tv.
La decisione di sostituire Russo (deputato e capogruppo in commissione Affari costituzionali, vicino a Licia Ronzulli) con Subranni è stata annunciata con un comunicato firmato Berlusconi, ma a volerlo è stata Fascina che ormai ha il controllo sul partito.
Secondo due dirigenti di FI, […] , la decisione era già presa da tempo, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la notizia, rivelata dal Fatto, della volontà di Fascina di prendere il simbolo di FI con atto notarile di Berlusconi.
La compagna dell’ex premier ieri ha replicato al Fatto definendo l’articolo “fantasioso e menzognero” […]. Poi ha fatto pubblicare la smentita al Giornale berlusconiano con tanto di intervista a tutta pagina. Ieri la decisione di sostituire Russo con Subranni. Raggiunto al telefono, Russo parla così della sua sostituzione: “Non ci vedo nulla di strano: da qualche mese sono deputato e in un ruolo piuttosto impegnativo. […]”.
Gli stessi due dirigenti di FI parlano di una “strategia del terrore” messa in piedi da Fascina per allontanare tutti coloro che la pensano diversamente […].
[…] Le prossime mosse di Fascina prevedono di sostituire anche la capogruppo al Senato Licia Ronzulli con uno tra Mario Occhiuto e Roberto Rosso.
La compagna di Berlusconi vuole allontanare tutti i coordinatori locali ronzulliani con la scusa che hanno un doppio incarico (tra presidenti di commissioni e membri del governo): i prossimi epurati saranno Giuseppe Mangialavori in Calabria, Ugo Cappellacci in Sardegna, Nazario Pagano in Abruzzo ma anche Francesco Paolo Sisto a Bari, Paolo Zangrillo in Piemonte e Sandra Savino in Friuli. Poi dovrebbe nominare tre responsabili per Nord, Centro e Sud Italia (Alessandro Benigni, Alessandro Sorte e Tullio Ferrante). Il controllo di Marta è capillare: diverse fonti riferiscono di sms assidui con la premier Giorgia Meloni.
Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “il Foglio” l’1 aprile 2023.
Marta Fascina esiste? Sta a Berlusconi come Clizia sta al poeta Montale: è il fantasma che lo cambia. C’è chi ha dubitato della sua esistenza, chi per anni ha cercato una sua foto. La prima, per molto tempo la sola, è stata scattata nel 2013. Era il comitato del Pdl, a Portici, provincia di Napoli.
È il comune dove ha abitato e frequentato il Liceo Flacco. In città: “Mai vista”. La sua casa di origine è in via San Cristoforo. A un chilometro di distanza, in via Libertà, è cresciuta Noemi Letizia, la ragazza che nel 2009 fece perdere la testa e il governo a Berlusconi. Il sindaco, di sinistra, Vincenzo Cuomo: “Che io sappia, mai tornata”.
È nata in Calabria a Melito di Porto Salvo, ma si è trasferita in Campania a otto anni ed è dunque solo un nome all’anagrafe. Un giornalista locale: “Mi dispiace. Niente”.
Nel febbraio del 2018, Mimmo De Siano, coordinatore regionale di Forza Italia in Campania, ricevette una chiamata. Era lui, il presidente, il Cav., e gli chiedeva di “tutelare” e candidare in posizione alta, anzi, altissima (elezione certa) la dottoressa Marta Antonia Fascina. L’accento è sulla i.
Venne inserita in ben due collegi plurinominali. A Napoli nord, al terzo posto (dietro Mara Carfagna) a Napoli sud, al secondo posto (al primo c’era Paolo Russo). Onorevole prima ancora di essere eletta. De Siano al telefono: “Presidente, obbedisco. Ma posso chiederle chi è?”.
E’ la terza donna. Giorgia Meloni a destra, Elly Schlein a sinistra e lei sopra, ad Arcore, l’isola di Utopia italiana. In un venerdì di marzo, a soli 33 anni (è già alla seconda legislatura) Marta ha chiesto al sire di ridimensionare Licia Ronzulli e di promuovere il deputato Alessandro Sorte, il suo tenero Mammolo, coordinatore regionale della Lombardia. Il sire ha accordato.
Un giorno, dicono a Villa Grande, a Roma, Berlusconi rivolgendosi ai suoi ospiti fece un segno che chi era presente non ha mai più dimenticato. Alzò il dito della sua mano destra, lo portò in alto, verso il capo, e disse: “Marta ha testa. Io amo la sua testa”. […] Marta ha baciato Silvio e da allora è Martaneve e vive chiusa nel suo castello con la golf cart: “Silvio, guida piano”.
[…] Altri assicurano che sia stata Marina a presentarla al padre. Sono congetture, come questa: “Ora anche Marina la teme”. Una terza versione: “Stava celata ad Arcore. Era il bromuro contro Francesca Pascale”. Questa è un’ulteriore variazione sul tema ed è raccolta sempre a Portici: “Si parla di una valanga di lettere spedite da Marta a Berlusconi. C’è chi l’ha vista alle Poste. Giorno per giorno. Continuamente. Assiduamente. Faceva la fila. Colla e francobollo. Ostinata. Berlusconi rimase stupito da tanta tenacia e chiese di conoscerla. In pratica esiste l’epistolario tra Silvio e Marta”.
[…] La madre è un ex insegnante in pensione. L’ex marito, il padre di Marta, è cancelliere presso il Tribunale di Napoli. L’altro figlio è Claudio, militare a Bolzano. Il 19 marzo del 2022, tutta la famiglia Fascina era a Villa Gernetto, a Lesmo, insieme a Gigi D’Alessio, Matteo Salvini, Sgarbi, Fedele Confalonieri e altri sessanta invitati per il primo “non matrimonio” tra Marta e Silvio.
Era più vero del vero anche se era finto, una promessa di unione, una stregoneria che ha incantato pure Confalonieri che scherzando avrebbe detto: “Solo Silvio poteva inventarsi l’über matrimonio”. Gli anelli nuziali erano d’oro, di Damiani. Il vestito della sposa lo ha cucito per l’occasione Antonio Riva.
Il padre di Marta ha perfino alzato la veletta e le ha avvicinato le labbra sulla fronte. Martaneve esiste. Alle ultime elezioni è stata eletta nel collegio di Marsala, ma per un consigliere regionale di FI: “E’ probabile che non sappia neppure come ci si arrivi a Marsala”. […]
Dopo la separazione di Berlusconi dalla Pascale molti hanno provato a raccontare questo ultimo e speciale rapporto. Ma si può raccontare il silenzio? Quando Giorgia Meloni e Salvini vengono invitati a Villa Grande, o ad Arcore, lei, Martaneve, c’è sempre ma sempre tace. Che biografia può possedere una donna di soli 33 anni che da cinque anni vive reclusa, e felice, tanto da temere la bomba atomica e commissionare un rifugio bunker? E’ vero che lo abbia commissionato ma nel suo caso è più simile alla campana di vetro. B
[…] gli episodi di vita parlamentare che riguardano l’onorevole Fascina sono alla fine tre. Nel dicembre 2021 stigmatizza il mensile tedesco Siegessaule Magazin, colpevole di aver pubblicato in copertina l’opera del blogger Riccardo Simonetti, un uomo travestito da Madonna. Per Martaneve era stato “profanato un simbolo”.
Dopo il fallimento della famigerata “operazione scoiattolo”, la ricerca di voti per fare eleggere Berlusconi presidente della repubblica, una sua frase stizzita: “Il nostro presidente dimostra di essere un gigante immenso in un teatro di personalità insignificanti, irrilevanti e passeggere”.
Durante la crisi del governo Draghi, e l’uscita dal partito di Renato Brunetta, pubblica sul suo profilo Instagram questo giudizio: “Roma non premia i traditori”. E’ accompagnata dal video de Un Giudice, la canzone di De Andrè, e dal verso: “Un nano è una carogna di sicuro…”. E’ convinta che il suo Silvio sia stato raggirato da donne che puntavano solo alla materialità, vittima di una congiura, e che lei sia la sua “purezza”. […]
Perfino questo lunedì, prima che Berlusconi venisse ricoverato al San Raffaele, i soli militanti che sono riusciti a sentire Berlusconi sono i fortunati di Bergamo dove il direttore d’orchestra è l’amico di Martaneve, Sorte.
Era stato convocato un comitato provinciale del partito quando improvvisamente Sorte dice: “Amici, abbiamo una telefonata”. Era Martaneve e annunciava: “Amici, il presidente vuole comunicarvi un importante cambiamento. Vai Silvio”.
Stava per essere ufficializzata la nomina di Sorte al posto di Licia Ronzulli, come coordinatore della Lombardia, ma il Cav. fa confusione con Alessandro Cattaneo che ha rimosso dalla carica di capogruppo alla Camera: “Ho deciso di nominare Alessandro…”. In sottofondo si sente la voce di Martaneve che suggerisce “Sorte, Sorte”. Ma lui, Berlusconi: “Alessandro Cattaneo”. A quel punto la telefonata si interrompe.
Non è escluso che possa essere una burla di Berlusconi, un modo per irridere chi dice “Non è più lui” o chi alza le braccia perché “ora bisogna cercare una nuova casa.
Forza Italia è finita. Marta vuole la guida”, un modo ancora per burlarsi, finanche, di Martaneve che ai deputati raccomanda: “Non dovete passare da Licia. Se avete richieste chiedete a me”. […]
Virginia Sanjust chiesto il processo per l'estorsione alla sorella: «Dammi 15 euro e ti restituisco le chiavi di casa». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera martedì 21 novembre 2023.
L'ex annunciatrice di nuovo sul banco degli imputati. L'episodio risale al 2022 ed è simile al precedente tentativo di estorsione nei confronti della nonna Antonella Lualdi
È di nuovo sul banco degli imputati Virginia Sanjust di Teulada, 46 anni. Con un copione che sembra ripetersi. «Dammi i soldi e ti ridò le chiavi» è quanto avrebbe detto Virginia alla sorella Beatrice, 45 anni, pretendendo 15 euro per restituire le chiavi di casa e della macchina, rubate qualche istante prima. Le accuse per cui la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio: estorsione e furto.
La precedente estorsione alla nonna nel 2020
L’episodio risale al 22 ottobre del 2022 ed è simile al tentativo di estorsione azzardato dalla Sanjust nei confronti della nonna, l’attrice Antonella Lualdi, l’8 marzo del 2020. Allora l’ex presentatrice - di recente arrestata e condannata a due mesi per un tentato furto dentro una Smart - minacciò la Lualdi di distruggerle casa se non le avesse dato dieci euro. La nonna, venuta a mancare lo scorso 10 agosto, si rifiutò. Condannata in abbreviato a un anno e cinque mesi, la Sanjust – dichiarata parzialmente incapace di intendere e volere, tanto che il figlio Giancarlo Armati, 25 anni, ne è stato nominato amministratore di sostegno - è stata assolta lo scorso ottobre in appello per via della scriminante della parentela in caso di estorsione con minacce.
La richiesta di soldi a Beatrice
Questo procedimento potrebbe chiudersi come il precedente? La risposta arriverà il prossimo 16 gennaio. Un passo indietro all’autunno di un anno fa. Virginia e Beatrice sonno ferme in macchina a Ponte Milvio. La Sanjust chiede dei soldi alla sorella. Che si oppone. Allora Virginia le sottrae le chiavi di casa e dell’auto. Beatrice, comunque, non si piega. E andrà in commissariato a denunciare la sorella. Denuncia che di recente, è stata ritirata.
Estratto da ilsussidiario.net il 14 marzo 2023.
A I Fatti Vostri la vicenda di Virginia Sanjust di Teulada, che presa da un raptus ha devastato la casa della nonna, Antonella Lualdi, per non averle dato 10 euro. Il programma di Rai Due ha ospitato in studio Giancarlo Armati, figlia di Virginia, mentre in collegamento vi era la signora Antonella: “C’era io all’udienza come figlio – ha esordito il ragazzo – perchè mi interessava sapere che fine avrebbe fatto mia madre. Io sono il suo amministratore di sostegno perchè mia madre ha sempre avuto un rapporto complicato con i soldi”.
Sul rapporto con la mamma: “E’ sempre rimasto lo stesso, un affetto reciproco importante”. La bisnonna, Antonella Lualdi, grande attrice negli anni ’50, ha invece ricordato così il momento della devastazione: “E’ successo che Virginia (la nipote Sanjust di Teulada ndr) si è presentata a casa, io ero indaffarata, non pensavo alle sue esigenze e ad un certo punto mi chiese tipo 10 euro ma io non avevo tra le mani quella cifra in quel momento”. La donna non le avrebbe dato i soldi e a quel punto la nipote le avrebbe devastato la casa: “L’ha preso come un rifiuto al suo affetto. Lei mi vuole bene e io voglio bene a lei, l’ho perdonata. Quella mattina io avevo altri pensieri, non pensavo ad un’esigenza reale, con 10 euro cosa si fa?”.
Antonella Lualdi l’ha denunciata: “Ma la sento ancora, nella maniera giusta. Gli affetti della famiglia li sento sempre. Perchè l’ho denunciata? Per calmare me stessa, ero preoccupata e non l’avevo mai vista reagire in quel modo”. Giancarlo Armati, il figlio di Virginia Sanjust di Teulada, ha aggiunto: “Non sono d’accordo con la figurazione fatta del reato, non era estorsione ma danneggiamento e violenza privata. Non esistono estorsioni per 10 euro”. La nonna Antonella ha ripreso la parola: “Virginia qualche piccolo accenno l’aveva avuto in passato ma di lieve entità, ma questa cosa non mi è piaciuta. Mi ha talmente preoccupata… ho sentito dei botti, io ero chiusa in camera, non volevo più uscire”.
Infine sulla condanna recente per Virginia Sanjust a 17 mesi dopo la devastazione della casa: “Siamo pronti a fare appello come detto sopra per l’estorsione”. Di nuovo Antonella Lualdi: “E’ mia nipote, le ho sempre voluto bene, ho sempre sorvolato, vuole che io con mia nipote non abbia questo sentimento? In quel momento non ho capito la gravità di quello che stavo facendo, lei ha sbagliato ma io ho sbagliato più di lei, solo che sono andata nel panico”. Il bisnipote ha commentato commosso: “Voglio solo dirle grazie”.
Antonella Lualdi: «Via i coltelli e porte chiuse. Così Virginia Sanjust ci terrorizza». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera l’8 marzo 2023.
Le aggressioni dell'ex signorina buonasera nei racconti di sua nonna alla polizia
L’appartamento romano di Ponte Milvio, dove l’attrice Antonella Lualdi aveva vissuto con l’amato marito Franco Interlenghi, era diventato una prigione. E per questo tre anni fa aveva deciso di denunciare la nipote Virginia Sanjust, 45 anni, ex «signorina buonasera». Ora la donna è stata condannata per tentata estorsione a un anno e 6 mesi e per stalking nei confronti dell’ex fidanzato. Il verbale di sua nonna racconta il terrore in cui era costretta a vivere l’intera famiglia.
È il 9 marzo 2020 quando Lualdi, 92 anni, si presenta in commissariato. «Ieri, verso le quattro di pomeriggio, Virginia è venuta a casa con sua mamma, mia figlia Antonella Interlenghi. All’inizio mi è parsa tranquilla. Antonella le aveva dato i soldi per le sigarette, 5 euro. Virginia infatti vive con una pensione, per i suoi problemi di salute. Comunque, vedendola tranquilla, abbiamo deciso che potessero rimanere», racconta. C’è una premessa: «Nel 2018 sono stata aggredita da Virginia, che mi ha provocato delle lesioni tali da impormi di andare al pronto soccorso». È successo anche in seguito. Lualdi non lo nasconde quando afferma che «Virginia è molto aggressiva. Abbiamo il terrore della sua presenza. Siamo stati costretti, per paura, a togliere i coltelli. E in casa viviamo tutti con le porte delle camere chiuse a chiave».
Ecco perché quel 9 marzo di tre anni fa l’attrice decide «di chiudermi a chiave in camera». La rabbia della nipote esplode: «Virginia ha cominciato a bussare con insistenza alla porta. Ha modi minacciosi. Vuole dei soldi, altrimenti dice che sfascerà casa. Visto il mio rifiuto, Virginia ha continuato a bussare con violenza, anche con dei calci. Dopo pochi attimi ho sentito il rumore di vetri rotti». Ad aprire quella porta, Lualdi proprio non ce la fa: «Da dentro la mia camera, ho chiamato le forze dell’ordine. Che sono arrivate subito. Ed hanno portato, insieme al personale sanitario, Virginia in ospedale».
Soltanto allora Lualdi esce dalla stanza e quasi non può credere a quello che vede: «Ho trovato la casa devastata. Lampade sradicate, quadri staccati dalle pareti e sfasciati in terra, le mensole in vetro del bagno infranto, cocci di vasi antichi e moderni ovunque». Mentre esplode la furia di Santjust la nonna ricorda che tutti erano chiusi nelle stanze: «Anche mia figlia Antonella si è rinchiusa, al sicuro. Lo scorso Natale Virginia ha picchiato la mamma per obbligarla a lavare i piatti e fare il bucato, abbiamo chiamato la polizia».
Ennesimo episodio di una lunga serie durata anni. Lualdi lo racconta ai poliziotti con disperazione: «La condizione di Virginia si è aggravata. Fa richieste di denaro, ha una condotta aggressiva e problemi con la droga». Il verbale si chiude con il racconto di due telefonate ricevute da Lualdi e Interlenghi dopo la devastazione dell’appartamento: «Ieri sera la Caritas ha telefonato a mia figlia per avvertirla che Virginia voleva dormire da loro. Anche un mio amico mi ha chiamato per dirmi di aver trovato Virginia a piazza Trilussa. Gli ha dato 20 euro per aiutarla ad andare a Capalbio».
Estratto da roma.corriere.it l’8 marzo 2023.
In piedi. Le mani dietro la schiena. L’espressione del viso sofferente. Così Giancarlo Armati, 24 anni, figlio di Virginia Sanjust di Teulada nonché suo amministratore di sostegno, ha ascoltato la sentenza di condanna a un anno e cinque mesi ai danni della mamma, 45 anni, assente ma rappresentata dal primogenito al momento della lettura del provvedimento.
L’accusa: la Sanjust avrebbe tentato di estorcere soldi alla nonna, la famosa attrice Antonella Lualdi, minacciando in caso di rifiuto di distruggerle casa. Come poi è successo.
Ad aver complicato la situazione processuale dell’ex annunciatrice di Rai Uno – figlia del barone Giovanni Sanjust di Teulada e dell’attrice Antonella Interlenghi - sono state le parole d'intimidazione rivolte ai familiari. L’ex conduttrice è stata invece assolta dall’accusa di violazione del domicilio dell’ex fidanzato. Che ha anche ritirato la querela, rinunciando a costituirsi parte civile. Giancarlo, nato dal matrimonio della Sanjust con l’ex agente del Sisde Federico Armati, e bisnipote della Lualdi, ha accolto l’esito con compostezza, sottolineando: «Faremo appello, perché consideriamo la sentenza ingiusta».
I fatti risalgono alla notte dell’8 marzo 2020. Virginia si trova nell’appartamento a Ponte Milvio della nonna. Nell’abitazione quella sera c’è anche la madre dell’imputata, accompagnata dalla sorella Stella e dai nipotini. Il clima in famiglia è teso, sono le ore drammatiche che precedono il lockdown dovuto all’emergenza Covid. La Sanjust, assai agitata, pretende soldi dalla Laudi sotto la minaccia di ritorsioni. La nonna si rifiuta, e la Sanjust reagisce mettendo la casa a ferro e fuoco. Strappa i quadri dalle pareti, distrugge anche le lampade e le finestre. La Lualdi, spaventata, chiama le forze e dell’ordine. Che quando arrivano, trovano l’ex attrice rinchiusa nella camera da letto. Soprattutto a lasciar interdetti gli agenti sono le condizioni dell’abitazione. Quadri divelti, mobili rotti, lampade sradicate. Uno scenario che gli agenti del commissariato Ponte Milvio descrivono con due parole: «Casa devastata».
(…)
Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per il Messaggero – Roma l’8 marzo 2023.
«Virginia voleva 10 euro, ma non li avevo. Ha avuto una reazione violenta, perché l'ha presa come una mancanza di affetto nei suoi confronti. E io in quel momento non l'ho capito. Ma l'ho già perdonata». Il cuore di una nonna è grande, e quello della diva della "Dolce vita" Antonella Lualdi ancora di più; anche se sua nipote Virginia Sanjust di Teulada, per ottenere da lei del denaro, aveva devastato il suo elegante appartamento in zona Ponte Milvio, l'8 marzo di tre anni fa.
La 45enne, ex annunciatrice e conduttrice di Rai 1, lunedì scorso è stata condannata a un anno e cinque mesi di reclusione dal Tribunale di Roma, al termine di un processo celebrato con rito abbreviato e, quindi, usufruendo dello sconto di un terzo della pena. Era accusata di tentata estorsione e danneggiamento, per aver ripetutamente preteso dalla nonna «la consegna di somme di denaro» - si legge nel capo d'imputazione - e, al suo rifiuto, avere minacciato «di distruggere l'abitazione» dell'anziana, che per paura si era rifugiata nella sua camera da letto, chiudendo a chiave la porta.
Come una furia, Virginia Sanjust di Teulada aveva distrutto mobili e suppellettili: «È vero che ho sfasciato casa di nonna, ma ritengo che la mia persona valga più delle case», si era giustificata. Antonietta De Pascale (il cui nome d'arte è appunto Antonella Lualdi) aveva deciso di denunciarla. Oggi l'attrice, considerata negli anni 50 una star al pari di Lucia Bosè e Gina Lollobrigida, ha 92 anni e vive solo per la Lazio, la sua grande passione.
Lo sa che sua nipote è stata condannata per tentata estorsione?
«Non ne sapevo nulla. Mi dispiace, anche perché per me la cosa si era chiusa lì. Non la chiamerei estorsione. Mi aveva chiesto semplicemente 10 euro, ma non li avevo. Così ha avuto una reazione violenta. Io in quel momento ero sola. Non ho mai avuto a che fare con queste cose. Mi è dispiaciuto che abbia preso questa piega».
È vero che Virginia le aveva sradicato delle lampade, staccato i quadri dalle pareti e rotto i vetri delle finestre?
«Sì, è vero. Ma non si è scagliata contro di me. Io in quel momento avevo mal di testa e non volevo parlare. Lei si è innervosita e l'ha presa come una mancanza di affetto nei suoi confronti. Voleva forse essere coccolata e io non l'ho capita. Non ci posso credere che mia nipote rischi di andare in carcere per 10 euro».
In carcere certamente non andrà, però lei all'epoca l'ha denunciata.
«L'ho fatto perché ero presa un attimo dalla rabbia. Non volevo che mi trattasse male. Poi ora non vivo più a Roma, sto da amici nel nord Italia».
Si è trasferita per evitare altri "assedi" da sua nipote?
«Voglio stare tranquilla. Non ho più voglia di lottare e combattere».
L'ha più sentita da allora?
«No, non ho voluto sapere più nulla, perché queste cose mi turbano. So che ha avuto un esaurimento nervoso e da un paio di anni suo figlio si occupa di lei. Bisogna trovare il modo di curarla: è una ragazza dolcissima e buona. Viene da una famiglia perbene...
(...)
Estratto dell’articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2023.
Da giovanissima «signorina buonasera» su Rai 1 nel 2003 a imputata vent’anni dopo di tentata estorsione ai danni della nonna materna e di violazione di domicilio nei confronti dell’ex fidanzato. È la parabola discendente di Virginia Sanjust di Teulada, 45 anni, figlia del barone Giovanni e dell’attrice Antonella Interlenghi nonché nipote [...] di altri due divi del grande schermo, Franco Interlenghi e Antonella Lualdi. Ora la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex annunciatrice tv per i fatti che nell’aprile 2020 ne avevano determinato l’arresto.
Sanjust […] l’8 marzo era finita ai domiciliari per aver devastato l’abitazione della nonna, Antonietta De Pascale, 91 anni, nota appunto come Antonella Lualdi, negli anni Cinquanta stella del cinema al pari di Gina Lollobrigida e Lucia Bosè. La misura cautelare […] era stata decisa anche perché […] l’ex conduttrice aveva perseguitato l’ex compagno, irrompendo in casa sua dopo aver rotto il vetro di una finestra con un vaso di coccio.
Il reato di stalking è stato adesso riconfigurato dal pm Antonio Verdi in violazione del domicilio e disturbo del sonno dei vicini. La carriera di Sanjust, che come imputata comparirà libera, inizia il 21 settembre 2003, quando l’allora 26enne debutta sul grande schermo come «signorina buonasera».
Nel 2004 divorzia da Federico Armati, all’epoca agente del Sisde, sposato nel 1998 e da cui ha avuto un figlio, Giancarlo.
Sempre nel 2004 diventa inviata speciale del programma «Una giornata particolare» su Rai 1: sembra l’inizio di una carriera di successo, ma nel 2008 finisce al centro di alcune polemiche per una «relazione particolare» (copyright della stessa Sanjust) con l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Poi nel 2014 il padre muore in un tragico incidente […] e da quale momento ha inizio un lungo anonimato. […]
A rompere l’equilibrio dell’ex «signorina buonasera», è la storia con un 40enne conosciuto nel 2019. I due si frequentano, ma lui rifiuta di trasformare il rapporto in una relazione stabile. Sanjust reagisce male. Lo disturba sul lavoro, si piazza nell’androne del condominio in Prati dove abita […]. Nel febbraio 2020 […] lui la denuncia. Ma il punto più basso Sanjust […] lo tocca con la nonna.
Quel giorno nell’appartamento a Ponte Milvio c’è una sorta di riunione di famiglia […]. D’un tratto la Sanjust chiede dei soldi alla nonna, minacciandola altrimenti di distruggerle casa. Antonietta De Pascale si oppone. La nipote allora dalle parole passa ai fatti, strappando dalle pareti quadri, danneggiandoli come fa anche con le lampade e le finestre. […]
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 31 gennaio 2023.
Da Signorina Buonasera, amata dagli italiani, a stalker indefessa. La parabola della vita di Virginia Sanjust di Teulada, conduttrice tv e figlia d’arte, indicata anni fa come presunta amica del cuore di Silvio Berlusconi, tocca uno dei punti più dolorosi.
Da qualche giorno l’ex presentatrice romana, di casa a PonteMilvio, è finita agli arresti domiciliari in una casa di cura. Sopraffatta da un disagio psicologico ha perseguitato per mesi una ex fiamma, un quarantenne come lei che dopo qualche giorno d’intesa ha preferito non avviare una relazione. Un rifiuto che la Sanjust avrebbe ripagato, appunto, con molestie e persecuzioni: da pedinamenti a intrusioni in casa, conditi con minacce e dall’ossessione di suonare a ripetizione il campanello di casa di lui.
L’OSSESSIONE
Più di sei mesi di tormenti che alla fine hanno spinto l’uomo a denunciare l’innamorata respinta. Gli episodi più gravi, ricostruiti a piazzale Clodio, risalgono a un anno fa, i primi di maggio. L’ex annunciatrice Rai forza una finestra, e in assenza del padrone di casa, si piazza in salone. «Punta su una convivenza con la forza», denuncia lui, «E’ instabile». Passano pochi giorni e l’uomo viene schiaffeggiato. A settembre scene analoghe. L’allontanamento da casa non basta: Virginia Sanjust di Teulada utilizzando un vaso di terracotta infrange la finestra e rientra in casa dell’uomo.
A dicembre la strategia si affina. Pochi giorni prima di Natale induce i vigili del fuoco a fare un intervento per rientrare nell’appartamento (che però si rivela appunto non il suo). Serviranno poi altre forze dell’ordine per allontanarla. Lo scorso fine gennaio altra aggressione. L’ex presentatrice si intrufola di nuovo nell’appartamento e cerca di allontanare lui. «Se vuoi vattene tu. Non ne posso più». Tra scampanelii, pedinamenti, tentativi di irruzione i blitz della Sanjust si sarebbero prolungati fino a un paio di mesi fa.
L’EPILOGO
La perizia disposta dai magistrati esclude l’incapacità della donna, figlia dell’attrice Antonella Interlenghi e del nobile sardo Giovanni Sanjust di Teulada, ma ne evidenzia le fragilità. Così gli arresti domiciliari in casa di cura, per i reati di stalking e violazione di domicilio, è stato applicato su richiesta del pm Antonio Verdi.
4 giugno 2009 – Donatella Briganti per Oggi
……Eh sì, Virginia conosce bene Berlusconi. Era stata proprio lei ad annunciare un discorso del premier a reti unificate. Lui era rimasto colpito al punto da mandarle un mazzo di fiori con un bigliettino: «Un debutto a reti unificate: evviva e complimenti!». Lei aveva telefonato per ringraziare e da lì la loro «affinità elettiva» era proseguita. Lui l'aveva anche invitata a colazione a Palazzo Chigi. «È vero», ammette, ma senza aggiungere altro.
Si erano comunque frequentati per tutti i mesi in cui lei lavorava in Rai. Si sentivano, si vedevano, e pare che lui si aprisse molto con lei. «Mi ha anche insegnato molto, ma il nostro è rimasto, tutto sommato, un rapporto superficiale. Niente di significativo, diciamo così».
Ma il suo ex marito, Federico Armati, come viveva questo rapporto? «Mi diceva: dai che così svoltiamo. Per lui era un'occasione da non perdere. Anche lui è un po' troppo materialista. Poi, nel tempo, ha cominciato a crearmi seri problemi, a fare denunce, fino a farmi togliere l'affido di mio figlio. Che è la cosa peggiore che mi potesse capitare».
Nei confronti dell'ex marito dice di provare sempre un senso di protezione materna, senza nemmeno sapere il perché. Di Berlusconi parla invece come di un amico che ha bisogno di aiuto. «Lui ora è in grande difficoltà. È circondato da persone che dimostrano una falsa riverenza verso il potere. Attorno a lui c'è un ambiente troppo ruffiano. Lui, invece, ha un grande cuore, un equilibrio fuori dal comune e sa essere molto paterno come era stato con me. Quando mi telefonava mi raccontava tutto quello che stava facendo, mi chiedeva se avevo bisogno di qualcosa, era molto gentile. Ma senza mai andare oltre.
"Potrei essere tuo nonno" mi diceva. Io sono sicura di averlo aiutato, anche se l'impatto con il suo mondo poi mi ha fatto male. Lui è vittima della sua troppa intelligenza, vorrebbe farcela e lotta con tutto se stesso per riuscirci. Ma ha sempre ricevuto troppi attacchi, anche dalla medicina che lo convince della necessità di curare all'estremo la sua immagine. È circondato da persone peggiori di lui, questo è il problema. E non ha il tempo nemmeno di rendersene conto. Così, purtroppo, non emergono le sue vere qualità».
Aggiunge: «Io invito il presidente a ritrovare se stesso e la fede. Perché proprio una delle prime cose che mi disse era questa. "Sai Virginia", mi confidò da subito, "io ho un po' perso la fede". Per forza, sei attorniato da un mare di vampiri che vogliono sempre qualcosa in cambio o vogliono solo i tuoi soldi! Ci credo che te ne allontani. Forse dovrebbe ammettere di aver sbagliato, di essersi fatto travolgere dal potere dei soldi. Ma alla sua età, dopo una vita, è molto più difficile».
L'ex marito di Virginia aveva testimoniato delle lunghe telefonate, dei regali e degli appuntamenti della sua ex moglie con il presidente. «Non ho letto il libro Intrigo di Stato, dove ho capito c'è lo zampino del mio ex marito. Ma in ogni caso lui ha esagerato e io ho fatto anche cinque denunce nei suoi confronti».
Sembra non avere peli sulla lingua. Si vede, però, che preferisce parlare di ciò che è spirituale. «Io mi sento vecchia, anzitempo», dice piano guardandosi e accarezzandosi il braccio. «Tutto quello che ho passato mi ha fatto invecchiare. Adesso non penso che alla mia anima. Ho già dato per ciò che riguarda il carnale. Ho vissuto il sesso e per me è ormai è passato, è solo un ricordo. Il mio corpo adesso è un oracolo, un altare sacro.
È molto più importante l'amore platonico, come quello che avevo per Berlusconi. Posso fare una provocazione? Berlusconi è l'uomo più impotente del mondo. È Ratu Bagus, invece, quello più potente. Perché il potere che ha il presidente è un falso potere se non accompagnato dalla fede. Quello spirituale, divino, è il potere vero. Quello che ha Ratu Bagus, che mi insegna a comunicare proprio con il divino. Dove non ci sono soldi, non c'è sfarzo, dove non c'è lusso, non c'è la bella vita ma la buona vita. Quella vera».
Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per roma.repubblica.it l'1 febbraio 2023.
"In altre occasioni sono state sporte denunce per fatti analoghi da uomini che lei aveva sedotto e poi aveva causato loro situazioni di disagio". A quanto pare non è la prima volta che Virginia Sanjust di Teulada viene segnalata per un rapporto controverso con le persone che ha frequentato. Adesso però rischia il processo anche per aver distrutto casa della nonna.
"E' vero che ho sfasciato casa di nonna, ma non ho estorto soldi. Ritengo che la mia persona valga più delle case", si è difesa l'ex volto televisivo adesso accusata di essersi introdotta a casa del suo ex, danneggiando anche l'appartamento di sua nonna, Antonietta De Pascale, in arte Antonella Lualdi, famosa attrice degli anni '50.
L'indagata discende infatti da una famiglia di artisti, considerando che il nonno e marito della Lualdi era l'attore Franco Interlenghi, la madre è Antonella Interlenghi, conosciuta con i film natalizi di Carlo Vanzina e apprezzata anche nelle fiction televisive. Ha anche un pizzico di sangue blu, visto che il padre è Giovanni Sanjust di Teulada.
Gli atti dell'inchiesta raccontano però della caduta dell'aplomb nobiliare ereditato dal genitore sardo. Sono numerose le testimonianze di poliziotti, carabinieri, vittime e vicini di casa che raccontano i fatti accaduti tra maggio 2019 e aprile 2020.
Una serie di eventi per cui era finita anche ai domiciliari in una casa di cura. Inizialmente la quarantenne avrebbe preso di mira un coetaneo che avrebbe deciso di troncare la relazione sentimentale intrapresa da poco.
"Il 14 dicembre del 2019 - si legge nell'annotazione delle forze dell'ordine - (la vittima ndr) aveva sentito i pompieri che cercavano di entrare in casa forzando la serratura. Tale intervento era stato operato su richiesta della Sanjust la quale aveva detto di voler rientrare in casa". All'arrivo dei militari dell'Arma "la Sanjust aveva reagito con violenza ferendo un carabiniere". Dopo un paio di settimane si era ripresentata a casa dell'uomo. E ancora il 31 gennaio del 2020, quando aveva citofonato ripetutamente, sedendosi nell'androne del palazzo per poi uscire accompagnata dai carabinieri.
(...)
(ANSA il 10 agosto 2023) - È morta l'attrice Antonella Lualdi, una splendida signora del cinema italiano. La notizia dal fratello Carlo contattato dall'ANSA. 92 anni, Lualdi era ricoverata in un ospedale fuori Roma, precisa Carlo, avvisato da Stella, una delle due figlie con Antonellina dell'attrice.
Popolarissima negli anni '50 e '60, aveva sposato il collega Franco Interlenghi cominciando un lungo sodalizio anche professionale. Lualdi aveva recitato per Ettore Scola, con Vittorio Gassman e in tanti film a cominciare da Miracolo a Viggiù di Luigi Giachino che l'aveva lanciata nel dopoguerra. Era nata a Beirut in Libano il 6 luglio 1931.
Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “Il Messaggero”l'11 ottobre 2023.
Antonella Lualdi avrebbe accolto con gioia la notizia dell'assoluzione di sua nipote. Ieri, infatti, la Corte d'appello di Roma ha ribaltato la sentenza di primo grado dello scorso marzo con cui era stata condannata a un anno e cinque mesi l'ex annunciatrice della Rai Virginia Sanjust di Teulada, accusata di tentata estorsione proprio ai danni di sua nonna (deceduta il 10 agosto scorso a 92 anni). I giudici l'hanno assolta anche alla luce della non punibilità per vincoli di parentela di questo tipo di reato […]
I fatti che hanno portato a processo la 46enne - conosciuta per i mazzi di fiori che le inviava Silvio Berlusconi - risalgono all'8 marzo del 2020. Il giorno della festa della donna - in piena pandemia - si era recata a casa della nonna, dove era presente anche sua madre Antonella Interlenghi, in cerca di soldi: aveva messo sottosopra l'appartamento della famosa attrice degli anni 50 Antonietta De Pascale (in arte Antonella Lualdi), che, dopo essere stata costretta a rifugiarsi in una stanza per sfuggire alla furia di sua nipote, aveva deciso di denunciarla.
Salvo, poi, perdonarla dalle colonne de "Il Messaggero" dopo aver saputo della condanna in primo grado: «Virginia voleva 10 euro, ma non li avevo. Ha avuto una reazione violenta, perché l'ha presa come una mancanza di affetto nei suoi confronti. E io in quel momento non l'ho capito. Ma l'ho già perdonata».
Era accusata di aver ripetutamente preteso dalla nonna «la consegna di somme di denaro» - si legge nel capo d'imputazione - e, al suo rifiuto, di avere minacciato «di distruggere l'abitazione» dell'anziana, che per paura si era rifugiata nella sua camera da letto, chiudendo a chiave la porta.
La Sanjust avrebbe distrutto mobili e suppellettili, «sradicato le lampade, staccando i quadri dalle pareti e danneggiandoli, infrangendo vetri». […]
Per il gip «il profilo di pericolosità sociale psichiatrica» dell'ex annunciatrice tv era compatibile con un ricovero in una struttura ad hoc. […]
La Lualdi, cinque mesi prima di morire, aveva perdonato sua nipote: «Io in quel momento avevo mal di testa e non volevo parlare. Lei si è innervosita e l'ha presa come una mancanza di affetto nei suoi confronti. Voleva forse essere coccolata e io non l'ho capita. L'ho denunciata perché ero presa dalla rabbia. Non volevo che mi trattasse male».
Da quell'episodio, però, non l'aveva più sentita. «So che ha avuto un esaurimento nervoso e da un paio di anni suo figlio si occupa di lei - aveva spiegato la nonna - Bisogna trovare il modo di curarla: è una ragazza dolcissima e buona. Viene da una famiglia perbene. Ha avuto un momento di difficoltà, a causa forse dello stressante lavoro che faceva in tv».
Estratto di Federica Pozzi per leggo.it il 16 ottobre 2023.
Ancora guai per Virginia Sanjust di Teulada, 46 anni, nipote di Antonella Lualdi ed ex signorina buonasera.
È stata sorpresa dai carabinieri a rovistare in un’auto - una Smart - che aveva appena aperto, forzando la serratura. «Cercavo soldi perché vivo in strada», ha detto ai militari.
Processata per direttissima, è stata condannata a due mesi e 20 giorni. [...]
Il figlio di Virginia Sanjust: «Mia madre è malata ma nessuno l'aiuta. È bulimica di soldi, vorrebbe più cappuccini e sigarette». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera mercoledì 18 ottobre 2023.
Giancarlo Armati, 25 anni, racconta al Corriere il difficile rapporto con l'ex annunciatrice Rai
Sono passate poche ore dall’arresto di Virginia Sanjust di Teulada 46 anni, sorpresa a rubare dentro una Smart. L’episodio, drammatico, è uno dei tanti momenti difficili di una donna che ha vissuto, fino ad oggi, la sua vita in modo estremo, dagli esordi in Rai come signorina buonasera nel 2003 alle sue vicissitudini recenti. Adesso di lei si prende cura il figlio, Giancarlo Armati, 25 anni, studente di Economia, nato dal matrimonio della Sanjust con lo 007 Federico Armati. Un compito complicato quello di Giancarlo Armati, che ha visto, in un certo modo, stravolto il ruolo di figlio, dovendo seguire la mamma, un po’ come farebbe un genitore.
Signor Giancarlo Armati, come vive oggi sua mamma, Virginia Sanjust di Teulada?
«Oggi mia mamma vive male come pochi di noi sarebbero capaci di fare. Tutto ciò, è complicato spiegarlo. Ma è una sua legittima scelta che si rinnova ogni giorno. Mamma ha avuto ogni tipo di possibilità, tante persone le hanno offerto la propria mano, ma ogni volta ha girato le spalle e ha reso impossibile aiutarla. Ha fatto terra bruciata».
Sembra un ribaltamento di ruoli tra madre e figlio. Lei ha il mandato di occuparsi di sua madre come amministratore di sostegno: come si trova in questa situazione?
«In questo momento non parlerei di ribaltamento dei ruoli. In quanto con mia madre Virginia, un essere speciale e fuori di ogni schema, i ruoli non sono mai stati quelli convenzionali. Mia madre appariva quando avevo due anni e io già vivevo con mio padre. Continua ad apparire oggi. Purtroppo anni fa ai miei occhi appariva un essere di infinita bellezza e generosità, oggi invece vedo una persona segnata dalla vita con la quale purtroppo è sempre più complicato entrare in connessione. Ma l’infinito amore e l’affetto senza se e senza ma rimangono immutati per entrambi».
A quando risale la sua nomina come amministratore di sostegno?
«Dal luglio del 2020 il tribunale di Grosseto mi ha nominato AdS di mia madre. Per me è stato un onore e una responsabilità, ma con tanta paura».
Perché hanno nominato lei?
«Sono la persona più adatta a svolgere questo compito per il rapporto tra me e mia madre. La sento tutti i giorni. Ovunque si trovi so per certo che mi chiamerà».
In cosa consiste il suo ruolo?
«Il mio compito principale è la gestione economica. Mia madre soffre di una sorta di bulimia nell’uso del denaro. Io provvedo a dividere le sue risorse e a dilazionarle giorno per giorno per evitare il più possibile che rimanga senza soldi. Se li dovesse gestire in modo autonomo li spenderebbe tutti il primo giorno del mese e poi rimarrebbe senza i 29 giorni successivi. Altri compiti sono quelli di seguire le molteplici problematiche giudiziarie e di raccordo con i sanitari competenti».
Quando le hanno detto che avrebbe dovuto farle da amministratore di sostegno, lei cos’ha provato?
«Mia mamma è stata felice perché sa che non l’avrei mai tradita. Purtroppo troppe persone a lei vicine hanno tradito la sua fiducia e troppe si sono approfittate. Pur essendo vero il fatto che molto spesso lei stessa con le sue problematiche e con il suo modo di essere e di vivere ha reso difficile, quasi impossibile, ogni tipo di rapporto con tutti quelli che erano lei vicini. E’ stata una donna molto amata ma non ha mai saputo mantenere nulla».
Perché l’altro giorno sua madre ha provato a rubare dentro un'auto?
«Non penso che abbia provato a rubare la Smart, non ne sarebbe capace. Probabilmente stava frugando al suo interno magari per cercare delle sigarette. Purtroppo non doveva essere lì. Doveva essere a casa sua a Capalbio dove a seguito di ripetuti ostracismi dei familiari ultimamente non vuole più andare. Ha ricevuto denunce e diffide dai suoi fratelli con cui ancora condivide la casa di campagna. Questo è un altro degli argomenti di cui mi occupo come amministratore. Speriamo che presto si possa dividere questa casa in cui oramai è impossibile la convivenza in comune. Mia madre soffre seriamente dal 2004, è stata sottoposta a decine di Tso a decine di ricoveri presso cliniche, ha vissuto anni in comunità e probabilmente nei precedenti ricoveri stava meglio di come sta oggi. Era più consapevole e reattiva. Domenica scorsa ho l’impressione che mia madre sia stata mandata via dall’ospedale perché nel personale medico è prevalso l’istinto di sbarazzarsi di un paziente indesiderato e costoso, anziché ricoverarlo e prendersene cura. Hanno mandato via mia madre, senza alcuna remora. Non escludo che mamma per una sorta di protesta abbia di proposito frugato nella Smart, apposta per essere notata e fermata.
Cosa dice sua madre della sua condizione di oggi?
«Parlo spessissimo con mia madre della vita che sta conducendo, delle persone e dei posti che frequenta. Di dove dorme. Fondamentalmente, specialmente quando è più lucida, mi dice che è così che vuole vivere. Vorrebbe solo più soldi. Più cappuccini e sigarette».
Come pensa che sua madre possa essere aiutata?
«Questa è la domanda delle domande. Riconosco ancora a mia madre, nonostante le sue evidenti problematiche, una sua autonomia di giudizio e a volte mi chiedo chi possa sostituirsi a lei per decidere al suo posto. Come amministratore coadiuvo e unitamente a lei, in alcuni casi particolari dopo l’autorizzazione del giudice, prendo delle decisioni, ma non mi sostituisco né lo farei mai. Informo mia madre di tutto e condivido con lei e con il tribunale ogni atto importante».
Avete immaginato un’idea di futuro ?
«L’ideale sarebbe un percorso in una comunità, possibilmente lontano dalla sua odierna realtà. Ma la comunità non ti accoglie se tu non dimostri e convinci seriamente delle tue reali intenzioni di fare un percorso serio insieme ad essa. Questa condizione fondamentale ad oggi purtroppo non è maturata in mia madre. Non credo comunque nella costrizione».
Che ricordo ha di sua bisnonna, Antonella Lauldi? E del suo bisnonno, Franco interlenghi?
«I miei bisnonni li ho frequentati poco. Un po' di più Antonella di cui ricordo con tenerezza la nostra ultima conversazione».
Che rapporto hanno sua madre e suo padre?
«Mio padre e mia madre hanno un rapporto importante che, nonostante tutto, dopo oltre 20 anni di separazione, è ancora vivo. Mio padre è una delle tre persone, insieme a me e mia nonna Antonellina, che Virginia sente ogni giorno da sempre. Sul rapporto tra i miei genitori si potrebbe scrivere un libro».
Signor Armati, che fa lei nella vita?
«Studio economia, mi mancano pochi esami alla laurea. Sono anche un arbitro di calcio iscritto all’Aia. Il mio futuro professionale? Nel mondo della produzione del vino, magari mettendo su una cantina come quelle toscane».
Estratto del'articolo di repubblica.it venerdì 20 ottobre 2023.
Non è stata cacciata dall’ospedale. Lo fanno sapere dal Sant’Andrea, dove ricordano che domenica 15 ottobre l’ex conduttrice Rai Virginia Sanjust de Teulada si era presentata al triage chiedendo di potersi fare una doccia. [...] I medici del reparto di Psichiatria, dopo aver spiegato alla 46enne che non era possibile lavarsi in ospedale, hanno chiamato i familiari.
Una versione che va contro a quella di Giancarlo Armati, figlio 25enne di Virginia Sanjust e suo amministratore di sostegno. Subito dopo la nuova condanna per la madre, 2 mesi e 20 giorni dopo essere stata fermata a rovistare in una Smart parcheggiata in strada, il ragazzo aveva puntato il dito contro l’ospedale e la decisione di non prendersi cura dell’ex volto Rai.
Dalla struttura di via di Grottarossa, riporta il Corriere della Sera, spiegano di aver accudito la donna. Di averle parlato a lungo. Di essersi trovati di fronte una donna lucida e collaborativa. Insomma, non una persona in preda a una crisi, come spiegato dal figlio. Insomma, Virginia Sanjust per i medici che l’hanno ricoverata e seguita più volte non era una paziente da prendere in carico, ma un caso sociale per cui allertare la famiglia o i servizi del Comune.
[...] 24 ore di distanza dall’arrivo in ospedale, l’ex conduttrice è stata fermata dai carabinieri mentre cercava di rubare dentro una Smart. Così è stata condannata.Dagospia venerdì 20 ottobre 2023. Lettera di Giancarlo Armati, figlio di Virginia Sanjust: Caro Dagospia,
in merito a quanto dichiarato dall’Ospedale Sant’Andrea per amore di verità e di giustizia mi vedo costretto ad entrare nello specifico anche nel tentativo di evitare che ciò si possa nuovamente ripetere, per mia mamma come per altre persone. Virginia come paziente psichiatrico dovrebbe assumere terapia farmacologica mensile e giornaliera. Quando è a Capalbio, a casa sua, viene raggiunta presso il suo domicilio giornalmente dai coscenziosi e umanissimi sanitari del locale CSM di Orbetello che si occupano di somministrarle i medicinali, fondamentali per stabilizzare una persona con le sue problematiche.
Ora sono oltre due mesi che Virginia non tornando a casa sua non prende la terapia e questo la fa stare molto molto male e le fa compiere atti a volte sconsiderati.
Al Dirigente medico, dott.ssa Iginia Mancinelli, che sembra non essersi accorta del suo stato, nonostante come ha detto, Virginia sia ben conosciuta in quel reparto, ho detto e ripetuto in ben due telefonate esattamente questo. Mamma deve prendere la terapia che non assume da troppo tempo. Qualsiasi altro dottore specialista nel campo lo sa perfettamente e si accorge quando il paziente non ha preso i medicinali.
La dott.ssa avrebbe quindi dovuto prendere in carico la paziente. Era domenica pomeriggio. Mettersi in contatto con i sanitari di Orbetello lunedì in prima mattinata, accertarsi di quando Virginia aveva preso l’ultima terapia e quali medicinali e quindi somministragliela affinché si stabilizzasse il suo umore. Il resto sono parole al vento. Spero il Sant’Andrea voglia accertare in modo approfondito la verità dei fatti. Aggiungo che proprio l’Ospedale in parola più volte ha messo Virginia alla porta oppure ha fatto in modo che potesse allontanarsi inosservata. Non soltanto in questo caso in cui vi si era recata in modo autonomo, ma anche diverse altre volte nelle quali è lì giunta con ambulanza (118) a seguito di richiesta delle forze dell’ordine oppure di gente comune che per strada aveva capito la gravità della situazione e aveva richiesto giustamente l’intervento dei sanitari. Penso non vi sia nient’altro da aggiungere.
Dagospia il 14 giugno 2023. DAGOREPORT: BERLUSCA IPSE DIXIT
Drive In.
«Iniziamo male l'anno!»
«Perché male?»
«Perché dovevano venire due di Drive In e ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!».
«Ah! Ma che te ne frega di Drive In?»
«Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l'anno, non si scopa più!» (1986)
Milan. «Il Milan? È un affare di cuore, costoso, ma anche le belle donne costano». (1986)
P2. «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo... Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta».
Politica 1 “Qualche volta sì, mi piacerebbe davvero farmi da parte, lasciare che gli altri se la cavino da soli. Mi viene in mente Ungaretti: “Lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata”. Per due o tre giorni, naturalmente. Non di più”.
Politica 2. “L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”.
Calcio&Politica. “Io il successo me lo sono meritato, come Franco Baresi che si è fatto i suoi miliardi giocando da grande difensore”.
Politica 3. “Non ho scelto io la politica: mi è stata imposta dalla Storia”.
Stampa. “Se i giornalisti facessero l'esegesi di quello che dice il signor Berlusconi, vedrebbero che ha sempre ragione”.
Unto dal Signore. “Sarebbe veramente grave che qualcuno che è stato scelto dalla gente, l'unto dal Signore, perché c'è qualcosa di divino dall'essere scelto dalla gente, possa pensare di tradire il mandato dei cittadini”.
Missionari azzurri. “Voi dovete diventare dei missionari, anzi degli apostoli, vi spiegherò il Vangelo di Forza Italia, il Vangelo secondo Silvio”.
Finanza. “Due persone, entrate in un ufficio, urlano: ‘Questa è una rapina’. E gli impiegati, sorridenti: ‘Meno male, pensavamo fosse la Finanza’.
Opposizione. “L'opposizione non è nel mio DNA”.
Arafat. “Arafat mi ha chiesto di dargli una tivù per la Striscia di Gaza: gli manderò Striscia la notizia”
Fiducia. “Io ho sempre fiducia, perché ho la fiducia incorporata”.
Madre Teresa. “Accusare me di corruzione è come arrestare Madre Teresa di Calcutta perché una bambina del suo istituto ha rubato una mela”
Gelli. “Quando ricevetti la tessera c'era scritto che ero apprendista muratore e io, che allora ero un grande costruttore di case, non potei fare a meno di farmi una grande risata.
Immagine. “Non sono un maniaco dell'immagine, cerco solo di essere professionale”.
Capelli. “Ne ho pochi perché il cervello si è ingrossato e me li ha spinti fuori”.
Editto Bulgaro. “L'uso che Biagi… Come si chiama quell'altro? Santoro... E l'altro?... Luttazzi… hanno fatto della televisione pubblica pagata coi soldi di tutti io credo sia un uso criminoso e credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza di non permettere più che questo accada”.
Romolo&Remo. “Ed Enea diede luogo a una dinastia da cui nacquero Romolo e Remolo”.
Cacciari. “Rasmussen è il primo ministro più bello dell'Europa. Penso di presentarlo a mia moglie perché è anche più bello di Cacciari”.
Schulz. “Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto! [...] Se questa è la forma di democrazia che intendete usare per chiudere le parole del presidente del Consiglio europeo, vi posso dire che dovreste venire a... come turisti in Italia, ma che qui sembrate turisti della democrazia, dei turisti della democrazia!”
Mussolini. “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”
Giustizia. “Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.
(commentando l'accusa a Giulio Andreotti di essere un mafioso)
Tacchi. “Ai miei tempi potevo dirmi abbastanza alto, oggi con le nuove generazioni confesso di essere sotto la media, ma certo questo non significa essere così nano come mi dipinge la satira”.
Calcio. “Si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi. Eppure, sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compero i giocatori [...]. Sembra che io non esista”.
Stakanov. “Se io lavoro, faccio tanti sacrifici... Se lo Stato poi mi chiede il 33% di quello che ho guadagnato sento che è una richiesta corretta in cambio dei servizi che lo Stato mi da. Ma se mi chiede il 50% sento che è una richiesta scorretta e mi sento moralmente autorizzato ad evadere, per quanto posso, questa richiesta dello Stato…”
Churchill. “Combatto il comunismo come Churchill combatteva il nazismo”.
Zapping. “Era tardi, mi era passato il sonno e in tv c'erano solo film preistorici. Ho fatto zapping in tv e sono finito su un canale dove si vedevano delle signorine che invitavano a telefonare. Ho voluto tastare il polso della situazione: «Mi consenta, signorina, ma lei il 9 e 10 aprile per chi voterà?».
Giussani. “Don Giussani mi diede un aiuto importante nel lasciare la mia professione, ciò per cui sentivo di aver talento, per il servizio agli altri e alla libertà. Mi disse: il destino ti ha fatto diventare l'uomo della provvidenza”.
Carfagna. “Se non fossi già sposato la sposerei subito…”
Thatcher. “Se fosse stata una bella gnocca me ne ricorderei”.
Il Punto G. “Ho scoperto che cos'è il punto G delle donne... È l'ultima lettera di shopping”
Medvedev. “Ho detto al Presidente [Medvedev] che Obama ha tutto per poter andare d'accordo con lui: perché è giovane, è bello e anche abbronzato e quindi penso che si possa sviluppare una buona collaborazione”.
Puttaniere. “Dite la verità: vi piace il presidente ferroviere, eh? [...] Ah sì? Io invece preferisco il presidente puttaniere”.
Franceschini. “Il genio della lampada viene interrogato da Franceschini che gli chiede la pace fra palestinesi e israeliani. Il genio risponde: è irrealizzabile, fammi una seconda richiesta. Allora fammi diventare intelligente come Berlusconi. Replica il genio: torniamo alla prima richiesta”.
Gheddafi. “In questi quindici anni io ho avuto modo di incontrare più volte Gheddafi e di legarmi a lui da una vera e profonda amicizia: al leader riconosco una grande saggezza”.
Bindi: “Lei è più bella che intelligente. Non mi interessa nulla di ciò che eccepisce.”
Ciulatina. Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: «Presidente, ma se lo abbiamo fatto un'ora fa...». Vedete che scherzi che fa l'età?”
Putin. “Medvedev e Putin sono un dono di Dio per il vostro Paese”.
Bunga bunga. “Lei sa che anche la sinistra voleva venire al bunga bunga, che vuol dire: andiamo a divertirci, a ballare, a berci qualcosa. Anche la sinistra è stata conquistata da questo mio modo di vivere”.
Putin 2. “Putin è una persona rispettosa degli altri, è un riflessivo, è un uomo profondamente liberale, è uno che mantiene la parola data, è veramente un democratico. Io lo conosco da più di quindici anni, lo considero quasi un mio fratello minore; ho con lui una grandissima cordialità, una grandissima confidenza. Ed oggi è indubitabilmente il numero uno tra i leader del mondo”.
Trump. “Credo di sapere perché gli americani l'hanno scelto. Donald Trump è entrato per molti anni come star della televisione nelle case degli americani, è diventato qualcuno a cui si dà del tu. Come gli italiani mi chiamano Silvio, lui lo chiamano Donald”.
Santelli. “Conosco Jole Santelli da 26 anni e non me l’ha mai data”.
Gay. “Stiamo sempre a parlare di lesbiche e di omosessuali. In fondo Morisi che ha fatto? Aveva solo il difetto di essere gay…
Putin 3. “Putin per il mio compleanno mi ha mandato 20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima. Io gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e con una lettera altrettanto dolce. Io l’ho conosciuto come una persona di pace e sensata”.
Sacro&Profano. “Tutte le cose di cui mi occupo sono profane; ma il Milan è sacro”
P2 Due. “Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo... Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta”
Giù dalla torre. [Alla domanda su chi "butterebbe giù dalla torre" tra Mammì, De Benedetti e De Mita] “Non butterei giù nessuno. Mi butterei io: sono convinto che correrei meno rischi che a stare con una banda del genere”.
De Benedetti. “Io sono amico di tutti gli imprenditori italiani, anche di De Benedetti: almeno così mi aspetto di leggere prima o poi sulla stampa che mi attacca”
P2&Gervaso. [Lei è stato iscritto alla P2 di Craxi e del C.A.F.?] “Basta! Non ne posso più! Mi iscrissi perché stremato dall'insistenza del mio amico Roberto Gervaso. Ricevetti la tessera di "apprendista muratore", dissi di rimandarla indietro. O mi fanno Grande Maestro o niente”
Bossi. “Bossi quando parla, sembra un ubriaco al bar…”
Politica. “Non ho scelto io la politica: mi è stata imposta dalla Storia”
Gioco torre 2. “Chi salvo fra Dini, D'Alema, Prodi, Veltroni e Bertinotti? Li butto tutti dalla torre e poi chiedo il Nobel per la pace”.
Mussolini. Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino
Calcio&Politica. “Se ci fosse un Croce, un De Gasperi o un Salvemini me ne andrei anche, ma non li vedo, e non vedo neanche un Van Basten in panchina.”.
Bertinotti. Rivolgendosi a Fausto Bertinotti, citando Ronald Reagan: “Tutti abbiamo letto Marx, c'è chi l'ha letto e chi l'ha capito. Chi l'ha letto è diventato comunista e chi l'ha capito è diventato liberale”.
Veltroni. “A Veltroni ho detto: sono il tuo Messia, ti libero dall'abbraccio mortale della sinistra”
Obama. “Vi porto i saluti di uno che si chiama... uno abbronzato... Ah, Barack Obama. Voi non ci crederete, ma sono andati a prendere il sole in spiaggia in due, perché è abbronzata anche la moglie. Vi do una ottima notizia: è uno molto bravo. E questo ci deve fare contenti”
Carfagna. “Mi permettete di essere inelegante? Mara Carfagna, una donna bella, dolce, intelligente, ma lasciatemelo dire: una donna con le palle!”
Tremonti. “Tremonti deve capire che il premier sono io. Qua dentro c'è solo una persona insostituibile. E quella persona non è lui”.
Minetti. “La Minetti non è mai stata la mia igienista mentale” [lapsus].
Grillo. “Lunga vita a Grillo. Il 95% dei suoi elettori sono voti sottratti alla sinistra. [...] A forza di togliere voti alla sinistra sta diventando il nostro miglior alleato”.
Renzi. “Ha fatto fuori più comunisti lui in due mesi che io in venti anni...”
Renzi 2. “Comunque, è certamente un gran lavoratore, solo che secondo me ha sbagliato lavoro. Avrebbe dovuto fare il presentatore televisivo”.
Meloni. “Giorgia è un fenomeno solo romano”.
Putin Bis. “Vladimir Putin è un leader eccezionale. Io sono legato da un'amicizia fraterna a lui. E lo conosco per quello che è realmente: è il contrario dell'immagine che i media di tutto il mondo gli hanno creato addosso. Mister Putin ha un grande rapporto con i cittadini russi. Lui vince le elezioni con una grande quantità di voti ed è amato dalla sua gente”.
Politica. “Se non vado in politica, mi mandano in galera e mi fanno fallire”.
Andreotti. [A chi gli chiede se aspirasse ad essere il «nuovo Andreotti»] “Certo che no. Io sono Silvio Berlusconi, voglio restare Silvio Berlusconi e mi sembra anche di esagerare un po'...”
Chiacchiere. “Non perdo tempo a smentire sciocchezze. Anzi, proporrò una tassa sulle chiacchiere”
Casa. “La sinistra deve smetterla di dire che devo rimanere a casa, perché questo mi crea un gran disagio, avendo venti case non saprei in quale andare.”
Miracoli. “Io sono semplicemente un imprenditore che fa miracoli.”
Terza età. “Ad 80 anni si cade in due stadi: il primo che fai la corte alle donne ma poi speri che non ci stiano; il secondo è ancora peggio, fai la corte alle donne ma non ti ricordi più per cosa...”
Bertinotti bis. “Bertinotti dice di amare tanto i poveri: li ama così tanto che li vuole raddoppiare.”
Bossi Bis. “Quando Bossi parla di peronismo io credo che si riferisca alla birra Peroni che è l'unico peronismo che conosce.”
Complex. “Ho un complesso di superiorità che devo frenare.”
Io Gesù. “Sono una vittima, mi sacrifico per tutti. Io sono il Gesù Cristo della politica.”
Virilità. “Sapete perché sono sempre così carino con le signore? Deriva dall'anagramma del mio nome: l'unico boss virile.”
Mai no. “Sono incapace di dire no. Per fortuna sono un uomo e non una donna.”
Stampa Bis. “Anche se camminassi sulle acque, l’indomani i giornali titolerebbero che Berlusconi non sa nuotare.
Ridere. “Diffidate da coloro che non sanno ridere.”
Stakanov Bis. “In una giornata io lavoro 27 ore.”
Silvio c’è. “Mi sta venendo un complesso di superiorità tanto che dico: Meno male che ci sono io.”
Napoleone. “So di essere stato e di essere di gran lunga il migliore presidente del Consiglio che l'Italia abbia potuto avere nei suoi 150 anni di storia.”
“Solo Napoleone ha fatto più di me.”
Rutelli. “Rutelli è più bello di me, ma le elezioni non sono un concorso di bellezza.”
Palumbo. “Vi presento l'on. Giuseppe Palumbo, di Forza Italia. Ecco un uomo che ha le m
(Agenzia Vista) - Ischia, 15 Ottobre 2017 - Berlusconi: "Quando andai con Gheddafi e i suoi architetti nei centri d'accoglienza in Libia... guardai dentro i bagni, non c'era il bidet. Così dissi a Gheddafi che bisognava metterli e lui mi chiese: cos'è il bidet? Allora io dissi: Datemi uno spazio come il vaso così ce li metto io, perchè avrò l'orgoglio di aver insegnato a questi scopatori africani che esistono i preliminari". Questa la battuta che ha fatto scandalizzare Mara Carfagna, pronunciata da Silvio Berlusconi durante il suo intervento alla convention di Forza Italia "Andiamo a Governare".
Estratto da ilgiorno.it il 12 giugno 2023.
La "battuta motivazionale" di Silvio Berlusconi ai giocatori del "suo" Monza: "Se vincete con Juve e Milan faccio arrivare un pullman di t...e" è solo l'ultima gaffe […] tra le tante del Cav […]. […]
A Wall Street: Investite da noi, abbiamo belle segretarie”
[…] nel 2003, per incoraggiare gli investitori a Wall Street, Berlusconi spiazzò tutti con una battuta sessista: "Investite da noi, ci sono tante belle segretarie. L'Italia è un paese straordinario per fare investimenti. Oggi ci sono molti meno comunisti in Italia e abbiamo bellissime segretarie”.
[…] "Obama? E' uno abbronzato e vi saluta"
Nel 2009, dopo l'incontro con il presidente americano, Berlusconi scherzò: "Obama è uno abbronzato e vi saluta. Vi porto i saluti di uno che si chiama… uno abbronzato… Ah, Barack Obama. Voi non ci crederete, ma sono andati a prendere il sole in spiaggia in due, perché è abbronzata anche la moglie”.
"Meglio belle ragazze che gay"
Clamorosa la gaffe nel 2010, quando era presidente del Consiglio, proprio nei giorni in cui esplose il caso Ruby. "Meglio belle ragazze, che gay" dichiarò il Cav pubblicamente. "Sono fatto così da sempre: qualche volta mi capita di guardare in faccia una bella ragazza, ma è meglio essere appassionato di belle ragazze che essere gay".
Quando giocò a nascondino con la Merkel
Tante le gaffe nei confronti dell'allora cancelliera tedesca Angela Merkel. Dal gioco a nascondino durante il vertice italo-tedesco di Trieste, nel 2008, fino all'arrivo al vertice Nato di Khel, nel 2009, con il cellulare incollato all'orecchio. Ad attenderlo c'è proprio la Merkel, cui il Cav fa segno di essere impegnato in una telefonata e che la saluterà in seguito.
Il gesto di ammirazione per la first lady Usa
Nel 2009 fece il giro del mondo la sua foto insieme alla first woman statunitense, Michelle Obama al G20 di Pittsburgh. Berlusconi, dopo una vigorosa stretta di mano con Barack Obama, fece un ampio gesto di ammirazione nei confronti della moglie.
[…] Sul palco all'addetta vendite: "Lei viene?"
Nel febbraio 2013 il Cav non riuscì a limitare la sua voglia di mostrarsi seduttore. L'occasione fu l'inaugurazione di alcuni impianti fotovoltaici in provincia di Venezia. Di fronte a una platea di operai accolse sul palco un'addetta alle vendite chiamata a simulare una proposta di contratto. "Lei viene?", chiese Berlusconi. "Sì - rispose la signora in evidente imbarazzo parlando di energia - a costo zero".
"E quante volte viene?", insistette Berlusconi continuando con l'evidente doppio senso. "Dipende dalle esigenze del contratto, anche quattro, cinque, sei volte", replicò la donna. E Berlusconi ("Mi sembra tutto sommato un'offerta molto conveniente") proseguì sullo stesso tono: "Questo impianto riscalda anche in bagno? anche in camera da letto?". E alla risposta nuovamente affermativa della venditrice si disse pronto a firmare il contratto, aggiungendo: "E le metto anche il mio numero di telefono, non si sa mai… ".
[…] La barzelletta: "Quanti uomini ha avuto? 4, settimana tranquilla"
Nel 2019, […] a Torino, Berlusconi racconta un'altra barzelletta, sempre sulle donne e sempre a sfondo sessuale: "Mi diceva il mio coordinatore qui presente che ieri è stato a una cena e ha parlato con una bellissima ragazza. Dopo essere entrato in intimità, le ha chiesto: 'Ma tu quanti uomini hai avuto? Lei si è messa a pensare e ha risposto, quattro. Beh - ha risposto - bella come sei non sono nemmeno tanti. E lei ha detto, beh è vero, devo confessare, è stata una settimana piuttosto tranquilla".
Estratto dell'articolo di Facci Filippo per “Libero quotidiano” l’8 aprile 2023.
Conobbi Silvio Berlusconi perché mi telefono dall’iperspazio nel 1996, io avevo 29 anni. M’invitò ad Arcore, mi disse che mi avrebbe mandato a prendere, anche perché io non avevo né auto né patente. [...] un domestico di Arcore mi parcheggiò in una stanza piena di libri antichi, e che poi, di lontano, vidi avvicinarsi una sagoma candida che avevo pensato fosse un inserviente, un giardiniere. Invece era lui,in tuta da ginnastica bianca di acetato; camminava piano, come dolente; e la prima frase che mi rivolse, poi, non fu «buongiorno» o «piacere», ma fu «Facci, Facci... non mi tira più l’uccello». Mentiva.
Pioggia di mazzette, ma la sinistra arrossisce per una battuta del Cav. In Europa impazza il Qatargate, ma a sinistra fanno la morale a Berlusconi perché a una cena ha fatto una battuta ai calciatori del Monza. Andrea Indini il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Borse piene zeppe di banconote. Mazzette per ripulire la fedina penale di uno Stato che, quando va bene, i diritti umani li calpesta. E ancora: Ong che "servivano a far girare i soldi", lusso sfrenato e vacanze da 100mila euro, un'inchiesta che, stando a quanto fanno trapelare gli inquirenti, "non sarebbe circoscritta solo ai quattro fermati ma riguarderebbe diversi europarlamentari a libro paga del Qatar". Eppure, anziché stare davanti a questo girone infernale di corruzione, a sinistra sbroccano (ancora una volta) per una battuta, tra l'altro fatta in un contesto conviviale, di Silvio Berlusconi. C'è chi, come Laura Boldrini, si strappa i capelli in nome del sessismo e chi, dalle parte di Verdi e Sinistra italiana, vorrebbe il Cavaliere "fuori per sempre dalla vita pubblica". E c'è chi chiama in causa persino la Meloni che, dopo aver incassato il via libera di Bruxelles alla legge di Bilancio, è in partenza per il Consiglio europeo e ha ben altro di cui occuparsi.
Ma veniamo alla battuta di Berlusconi che ha lasciato inorridite le anime candide della sinistra nostra. Parte tutto da un video registrato ieri sera e poi affidato ai social. Una volta online, la viralità ha fatto il suo corso. Contesto: cena di Natale del Monza. Nello spezzone incriminato si vede l'ex premier in piedi, in mezzo ai tavoli, chiacchierare disinvolto. "Abbiamo trovato un nuovo allenatore che era l'allenatore della nostra squadra Primavera - racconta - è bravo, simpatico, gentile e capace di stimolare i nostri ragazzi". Quindi la battuta: "Io ci ho messo una stimolazione in più e ai ragazzi ho detto: 'Ora arrivano Juventus e Milan. Se vincete con una di queste grandi squadre, vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di troie'". Nessuno ai tavoli si è stracciato le vesti né se l'è presa. Hanno riso, come è normale che sia.
A dare di matto ci ha, invece, pensato la sinistra. La grillina Chiara Appendino parla di "concetti miseri", addirittura "pericolosi". Laura Boldrini ci mette il carico da novanta ("Becero sessismo usato come goliardia") e ovviamente chiama in causa tutto il centrodestra: "Ricordo che Meloni, Salvini e Tajani volevano Berlusconi Presidente della Repubblica". È una gara a chi la spara più grossa. "Una vergogna per tutte le italiane e gli italiani", azzarda Marco Grimaldi (Alleanza Verdi e Sinistra). E poi +Europa: "Dagli anni Ottanta a oggi il nostro boomer nazionale attinge allo stesso inventario di insulti con cui ha sempre infestato le cronache politico-mondane". Su Twitter ci si mette pure Monica Cirinnà: "Conferma la cultura patriarcale che riduce le donne a oggetti, anticamera della violenza".
Tutti scandalizzati per quella che, per quanto possa essere considerata da alcuni sopra le righe, resta una battuta, tanto più pronunciata in un contesto tutt'altro che istituzionale. Nemmeno Berlusconi si sarebbe mai aspettato tanto clamore per quella che lui stesso considera "una semplice battuta 'da spogliatoio', scherzosa e chiaramente paradossale". E davanti a questo paradossale finimondo non gli resta che la compassione per i critici di professione. "Forse - azzarda l'ex premier - è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi ed anche così gratuitamente cattivi nell'attaccare i nemici". Ma, dopo tutto, cos'altro ci saremmo potuti aspettare? Così è la sinistra. Arrossisce quando si dicono le parolacce, ma quasi non batte ciglio davanti a un milione e mezzo di contanti.
(ANSA il 15 Dicembre 2022) – Tra battute, barzellette, e vere e proprie gaffes, tante volte il Presidente Silvio Berlusconi è stato accusato di sessismo, di cattivo gusto, per le sue parole nei confronti delle donne. Tutti ricordano le voci secondo le quali avrebbe definito Angela Merkel con un epiteto decisamente maschilista.
Comunque sempre smentite. Ma tante altre volte, come con la squadra del Monza, è stato lui stesso, davanti alle telecamere, a provocare molto sconcerto. Fece il giro del mondo la sua foto insieme alla first woman, Michelle Obama al G20 di Pittsburgh. Era il 2009 e Berlusconi, dopo una vigorosa stretta di mano con Obama, fece un ampio gesto di ammirazione nei confronti della moglie. Nel febbraio 2013 non riuscì a limitare la sua voglia di mostrarsi seduttore. L' occasione fu l'inaugurazione di alcuni impianti fotovoltaici in provincia di Venezia. Di fronte a una platea di operai accolse sul palco un'addetta alle vendite chiamata a simulare una proposta di contratto.
"Lei viene?", chiese Berlusconi. "Sì - rispose la signora in evidente imbarazzo parlando di energia - a costo zero". "E quante volte viene?", insistette Berlusconi continuando con l'evidente doppio senso. "Dipende dalle esigenze del contratto, anche quattro, cinque, sei volte", replicò la donna. E Berlusconi ("mi sembra tutto sommato un'offerta molto conveniente"), proseguì sullo stesso tono: "Questo impianto riscalda anche in bagno? anche in camera da letto? ". E alla risposta nuovamente affermativa della venditrice si disse pronto a firmare il contratto, aggiungendo: "E le metto anche il mio numero di telefono, non si sa mai… ".
La platea accompagnò tutto con scroscianti applausi e risate. Nel maggio 2018, altro palco, altra gaffe, stavolta a conclusione di un comizio elettorale ad Aosta. Omaggiato con alcuni regali locali portati da una giovane ragazza, presentata dal padrone di casa, il coordinatore regionale di Forza Italia, Massimo Lattanzi, Berlusconi disse: "Posso scegliere io? Preferisco lei". Peccato si trattasse proprio della figlia di Lattanzi che rispose "è mia figlia. Sei un buongustaio".
Poco convincente, poi, il tentativo di giustificarsi dello stesso Berlusconi: "Cosa bisogna inventarsi per far finta di essere ancora giovani" ha provato a sdrammatizzare. Infine, nel 2019, durante una iniziativa elettorale a Torino, un'altra barzelletta, sempre sulle donne, sempre a sfondo sessuale: "Mi diceva il mio coordinatore qui presente che ieri è stato a una cena e ha parlato con una bellissima ragazza. Dopo essere entrato in intimità, le ha chiesto: 'Ma tu quanti uomini hai avuto? Lei si è messa a pensare e ha risposto, quattro. Beh - ha risposto - bella come sei non sono nemmeno tanti. E lei ha detto, beh è vero, devo confessare, è stata una settimana piuttosto tranquilla".
Poco Cavaliere. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.
Non gli farò il favore di indignarmi per quest’ultima berlusconata fuori tempo massimo: l’antico cumenda che, davanti alla fidanzata in carica, impugna il microfono alla festa natalizia del Monza per promettere «un pullman di tr***» ai suoi giocatori come premio-partita. Forse perché conosco bene lo schema, lo stesso da almeno trent’anni. Lui, azzimato e in doppiopetto, che tende a esprimersi all’opposto di come si veste, rallegrando qualche platea di dipendenti con beceraggini gratuite sulle donne o sulle corna. A quel punto i critici si indignano e lui, invece di provare imbarazzo, li compatisce, trattandoli da moralisti ipocriti e tristi, incapaci di divertirsi come la gente semplice e vitale, che notoriamente sghignazza solo quando sente parlare di tr***. In questi trent’anni il suo mondo interiore sarà pure rimasto immobile, ma in quello esterno è successo di tutto. Certe battute non le fa più neanche Boldi e non solo per via del «Metoo», ma perché è proprio cambiata la sensibilità, il modo di rapportarsi al sesso e alle donne. Chi ancora le vede come un bottino di guerra e un mero oggetto di piacere, tanto da costruirci sopra una barzelletta, non è soltanto trucido. È sorpassato. Appartiene a un’altra epoca, in cui quelle battutacce le facevano i sessantenni, come il Berlusconi di allora, per sentirsi ancora giovani. Oltre una certa età, la volgarità diventa una forma di pigrizia dell’anima e non indigna nemmeno più. Mette solo tristezza.
Berlusconi ai calciatori del Monza, un caso la sua «battuta». Il Pd: «Parole indegne». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.
Promette alla squadra «un bus» di prostitute in caso di vittoria
«Parole indegne e ignobili» (Laura Boldrini, Pd), «concetti miseri ma soprattutto pericolosi» (Chiara Appendino, M5S), «che schifo!» (Teresa Bellanova, Italia viva), «che schifezza, che tristezza!» (Carlo Calenda, Azione), «che pena!» (Alessia Morani, Pd). A voler prendere il lato meno avvilente e forse più politico dell’intera vicenda, il video in cui si vede Silvio Berlusconi nell’atto di promettere «un pullman di tr…» ai giocatori del suo Monza realizza plasticamente, anche se per lo spazio di un tweet o di una dichiarazione alle agenzie, il miracolo di ricomporre il caro vecchio «campo largo» sognato da Enrico Letta prima che tutto il centrosinistra piombasse nell’incubo ante, pre e anche post elettorale.
Tutti insieme appassionatamente: tutte le forme di Pd, dall’ala Bonaccini («Le donne non sono un premio per gli uomini», il suo commento) al ramo Schlein passando per la fronda De Micheli e soprattutto per le decine di personaggi in cerca di un candidato/a; tutto il vecchio Movimento 5 Stelle, compresi espulsi, dissidenti, fuoriusciti, scissionisti; tutti i calendiani e i renziani, per una volta simmetricamente d’accordo con i fratoianniani (nel senso del rosso Nicola) e i bonelliani (nel senso del verde Angelo). Tutti insieme a celebrare l’ennesimo miracolo del sangue dell’antiberlusconismo che si scioglie ancora all’interno dell’ampolla, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia.
E poi c’è Berlusconi, che celebra sull’altare dell’insostenibile pesantezza di una battutaccia sessista il sacrificio di un pensiero, formulato sempre alla festa di Natale del Monza calcio, che gli avrebbe regalato un quarto d’ora di celebrità nel mondo della sinistra, dei sindacati, del progressismo mondiale. «Non voglio sponsor arabi perché in Qatar sono morti tanti lavoratori», ipse dixit, ma troppo tardi, tutti erano ormai concentrati sul resto.
Il resto, la promessa del «pullman di tr…» ai giocatori del Monza in caso di vittoria con una tra Milan, Inter e Juventus — regalo che, tecnicamente, avrebbe dovuto già essere elargito visto che con la Juventus il Monza ha già vinto ad agosto — è l’eterno ritorno dell’uguale. Lo show trito e ritrito, visto e rivisto, osannato e stroncato ma comunque con un suo pubblico, che fischia o applaude o tace a seconda del partito di appartenenza; come una volta, quando il Cavaliere era la prima gamba del centrodestra, così adesso, che è la terza.
A cambiare, semmai, è il mondo circostante, il progresso tecnologico che consente a ciascuno di prendere un telefonino dalla tasca, girare un video e mandarlo a chiunque. Li avessimo avuti prima, gli smartphone, di show come quello alla festa del Monza ce ne sarebbero a migliaia, in Rete, e non solo a decine. Non ce ne sarebbe stato bisogno sempre, sia chiaro. Bastarono le telecamere della Rai a immortalare la rispostaccia rifilata a Rosy Bindi durante un intervento telefonico a Porta a Porta di Bruno Vespa («Sento parlare l’onorevole Bindi, è sempre più bella che intelligente»). Mentre della celeberrima inaugurazione dell’Alta velocità Roma-Milano rimane la foto di un innocente Berlusconi col cappello da ferroviere, col resto — e che resto — tramandato per via orale dai sindaci delle grandi città che assistettero allo spettacolino direttamente dal treno. «Allora, cari sindaci? Vi piace il presidente ferroviere?». «Sìììììììììì!». «Io invece preferisco il presidente putt...re!».
Oggi come allora, Berlusconi ci rimane male. «Francamente non pensavo e nessuno poteva immaginare», ha scritto poi in un post su Instagram, «che una semplice battuta “da spogliatoio” scherzosa e chiaramente paradossale potesse suscitare commenti tanto malevoli quanto banali e irrealistici. Compiango questi critici. Forse è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi e anche così gratuitamente cattivi. Ma siamo a Natale e allora tanti auguri anche a loro». Una difesa talmente uguale alle altre che è impossibile non considerarla quantomeno sincera. E non si sa, con Berlusconi non s’è mai saputo, se tutto ciò è meglio o peggio di una scusa pelosa. Qualche mano caritatevole, stavolta, ha corretto il comunicato mettendo tra virgolette «da spogliatoio». Hai visto mai.
Berlusconi, parte il coro della sinistra: "Sessismo, lasci la politica". E Lui: "Tristi". Il Tempo il 14 dicembre 2022
La battuta di Silvio Berlusconi alla cena con i calciatori del suo Monza riunisce le opposizioni e soprattutto resuscita per un attimo la sinistra alle prese con scandali e cali drammatici nel consenso. Il video del discorso "motivazionale" in pieno stile Cav è diventato subito virale: "Abbiamo trovato un nuovo allenatore che era l’allenatore della nostra squadra primavera: bravo, simpatico, gentile e capace di stimolare i nostri ragazzi. Io ci ho messo una stimolazione in più, perchè ai ragazzi che sono venuti qui adesso ho detto ’adesso avete il Milan, la Juventus, eccetera, e se vincete con una di queste grandi squadre vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di tr...e", ha detto tra le risate generali del pubblico che lo ascoltava. Apriti cielo.
"Che schifezza. E che tristezza", ha commentato il leader di Azione Carlo Calenda, una volta che il video è diventato virale. "CHE SCHIFO le parole di Berlusconi ai giocatori del Monza. Una frase sessista in cui ancora una volta la donna è non un soggetto con piena dignità, ma un oggetto ad uso e consumo degli uomini, un premio per i valorosi. Una visione anacronistica e vergognosa", scrive su Twitter la presidente di Iv Teresa Bellanova.
"Chiedo a Giorgia Meloni cosa ne pensi lei, la prima donna presidente del Consiglio, di questa rivoltante volgarità", chiede invece la deputata M5s Chiara Appendino. Non poteva mancare l’ex presidente della Camera Laura Boldrini che parla di "parole indegne, ancora più ignobili se a proferirle è un senatore della Repubblica e leader di un partito. Becero sessismo usato come goliardia" dice l'esponente del Pd che chiosa: "Ricordo che Meloni, Salvini e Tajani volevano Berlusconi presidente della Repubblica".
"'Se vincete faccio arrivare un pullman pieno di t***e'. Berlusconi incoraggia così i giocatori del Monza che ridono divertiti. Invece non c’è niente da ridere. Conferma la «cultura» patriarcale che riduce le donne a oggetti, anticamera della violenza", twitta Monica Cirinnà, responsabile diritti del Pd. La sinistra arriva a invocare l'abbandono della politica del presidente di Forza Italia: "Non siamo sorprese, è il linguaggio con cui ha governato e impoverito l’Italia. È questo il personaggio, che non si smentisce, anzi, insiste, che Giorgia Meloni, Salvini e Tajani avrebbero voluto al Colle? Un vero maestro di vita e politica che dovrebbe uscire per sempre dalla vita pubblica", tuona Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra.
E Berlusconi? "Francamente non pensavo, e nessuno poteva immaginare, che una semplice battuta 'da spogliatoio' scherzosa e chiaramente paradossale, che ho rivolto ai calciatori del mio Monza potesse suscitare commenti tanto malevoli quanto banali e irrealistici. Compiango questi critici", ha scritto sui social il presidente di Forza Italia. "Forse è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi ed anche così gratuitamente cattivi nell’attaccare coloro che considerano nemici. Ma siamo a Natale. E allora tanti auguri anche a loro", è la stoccata finale.
Berlusconi e la Giustizia.
Quelli che…la puzza sotto il naso.
Garantista.
Diffamatore.
La Giustizia.
La Mafia.
Il caso Escort.
Il caso Ruby.
La figlia di Borrelli: "Via dal Famedio". L'odio anti Cav non si ferma mai. "Vorrei far cancellare il nome di mio padre immediatamente", ha detto Federica Borrelli (figlia dell'ex procuratore capo di Milano), criticando la scelta del Comune di Milano di rendere omaggio a Berlusconi iscrivendo il suo nome al Famedio. Orlando Sacchelli il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il Comune di Milano nei giorni scorsi ha deciso di rendere omaggio a Silvio Berlusconi iscrivendo il suo nome al Famedio, il "Pantheon" milanese posto all'interno del Cimitero Monumentale. Insieme al Cavaliere saranno aggiunti i nomi di altre personalità importanti: Marcello Abbado, musicista, il jazzista Franco Cerri, l'ex parlamentare Ombretta Fumagalli Carulli, la stilista Marta Marzotto ed altri.
Sui nomi (e in particolare su un nome, quello di Berlusconi) il sindaco Beppe Sala aveva invitato le forze politiche a evitare divisioni: "Se dobbiamo litigare o discutere su tante questioni magari facciamolo su altre. Ci sono tante cose che ci vedono divisi tra maggioranza e minoranza, su questioni del genere io tenderei a evitare ogni possibilità di divisioni e non vorrei lasciare malcontento che non serve". Ma la polemica, puntualmente, c'è stata.
A far clamore, più delle altre, sono state le parole di Federica Borrelli, figlia dell’ex procuratore della Repubblica di Milano ai tempi di Tangentopoli, Francesco Saverio Borrelli. Ne ha parlato perché quello di suo padre compare in quel lungo elenco di nomi omaggiati al Famedio. Molto duro lo sfogo su Facebook della donna, che è arrivata persino a chiedere di togliere il nome del genitore. "Vorrei far cancellare il nome di mio padre immediatamente! Non ho parole!".
"Nessun odio per la persona - ha spiegato al Corriere - credo che sia una questione di opportunità". Colpisce il livore della studiosa di lettere classiche figlia del celebre magistrato. Ecco come spiega la sua tesi: "Berlusconi è un personaggio che ha creato imbarazzi ad un intero Paese, e questa iscrizione crea ulteriore imbarazzo. Forse è un po' presto, il giudizio poteva essere sospeso ancora per qualche tempo, un po' di morigeratezza e rigore avrebbero forse dovuto consigliare di non proporre l’iscrizione di un personaggio divisivo che ha fatto ragionare e discutere. Come imprenditore ci possono essere tutti i motivi perché sia nel Famedio, però la sua non è proprio una figura limpidissima. Essendo un personaggio di cui si è parlato nel bene ma anche molto nel male, che ha chiuso la sua vita anche con accuse pesanti avrei voluto che si fosse evitata questa benemerenza, tanto più che alla scomparsa è stato celebrato con onori anche fin troppo ampi".
Come emerge dalle parole che ha scritto sui social, a Federica Borrelli non solo non va bene l'iscrizione al Famedio, ma persino gli onori resi al Cavaliere dopo la sua morte. Eppure sostiene di non nutrire "odio verso la persona".
Di Francesco Saverio Borrelli rimase celebre una frase: "Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave...". È l'esortazione che fece ai colleghi durante la cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario del 2002. Invitava le toghe a resistere alle "minacce" (a suo dire) della politica. Ventuno anni dopo la figlia di Borrelli vorrebbe "resistere" cancellando il nome di Berlusconi dal Famedio. Senza alcun odio per la persona. Sulla vicenda è intervenuto anche il Presidente del Senato, Ignazio La Russa: "Io stimavo molto il giudice Borrelli e sono sicuro che non approverebbe la scelta della figlia, che non conosco. Io me lo ricordo come una persona molto rispettosa degli avversari".
Il peggior crimine è condannare un cittadino innocente. Basta processi infiniti: prescrizione è civiltà. L'analisi del leader di Forza Italia: "Perseguire una persona non colpevole significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane e denaro dalla caccia ai veri criminali". Silvio Berlusconi il 12 Giugno 2023 su Il Giornale.
Scriveva Piero Calamandrei che nelle aule dei Tribunali il Crocifisso non dovrebbe stare appeso alle spalle del collegio giudicante ma, al contrario, «in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre giudicano e non dimentichino mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente».
Questo terribile pericolo - evocato dal più grande giurista italiano del '900, uno dei padri della nostra Costituzione - è esattamente la ragione per la quale noi abbiamo incluso il concetto di garantismo, insieme a quelli di liberalismo, di cristianesimo e di europeismo, fra i principi fondanti di Forza Italia.
Come ho spiegato nei tre articoli precedenti, a legare fra loro questi quattro concetti c'è l'idea di sacralità della persona. L'idea che ogni essere umano sia portatore di diritti assoluti, primo fra i quali quello alla libertà. Lo Stato esiste appunto per tutelare la libertà degli individui, e può limitare tale libertà solo quando questa limitazione è indispensabile per tutelare la libertà e i diritti degli altri da una violazione o una prevaricazione.
Lo Stato per i liberali è importante, non siamo certo anarchici, ma la principale funzione dello stato liberale è proprio quella di tutelare i diritti delle persone, diritto alla vita, all'incolumità personale, alla proprietà ecc., fermando e punendo chi li mette in pericolo. Lo Stato ha la titolarità dell'uso legittimo della forza, anche la forza delle armi nei casi estremi, ma soltanto allo scopo di tutelare la libertà e i diritti di ogni cittadino quando sono messi in pericolo.
Perseguire o condannare un innocente è il peggior crimine che lo Stato possa commettere. Significa privare un essere umano della libertà, degli affetti, del lavoro, dei beni, in molti casi della dignità e della considerazione sociale. Significa anche venir meno alla funzione stessa dello Stato, che rinuncia a perseguire i veri colpevoli, i veri criminali, e quindi a proteggere e a difendere la vita, le proprietà, i legittimi diritti delle persone. Significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane, denaro per accanirsi contro persone innocenti.
Tuttavia le istituzioni create dall'uomo sono per definizione imperfette, gli esseri umani sono fallibili, il miglior investigatore, il più onesto e professionale, può comunque commettere un errore. La realtà è spesso difficile da interpretare, chi crede di aver individuato un colpevole è naturalmente portato anche in buona fede - a cercare prove che rafforzino la tesi della colpevolezza, non certo quelle dell'innocenza.
Per questo è necessario un giudice terzo, distaccato rispetto sia alle ragioni di chi accusa che di chi si difende, in grado di applicare al caso concreto, serenamente e senza pregiudizi, la norma giuridica, che deve sempre essere generale e astratta. Per questo chi giudica non può essere collega e amico di chi accusa. Una netta distinzione fra le due funzioni, quella inquirente e quella giudicante, è l'unica garanzia che il giudice sia davvero equidistante. Cioè lontano tanto dall'accusatore quanto dall'accusato.
Ma la fallibilità umana può entrare in gioco anche in questo caso: non solo chi accusa, ma anche chi giudica, può sbagliare in buona fede (in Italia abbiamo una grande maggioranza di magistrati onesti e preparati), può essere condizionato da un pregiudizio, oppure per esempio dall'incapacità dell'accusato - anche se innocente - di far valere le proprie ragioni. Non bisogna mai dimenticare che una persona perbene soffre la condizione di imputato, e ancor più la carcerazione, in modo ben diverso da un delinquente abituale, che in qualche modo la mette in conto.
La paura, la vergogna, la sofferenza possono indurre anche a comportamenti controproducenti o autolesionisti. Per questo è necessario che vi siano più gradi di giudizio, perché gli eventuali errori di un giudice possano essere corretti da un altro giudice di livello superiore.
Per questa stessa ragione l'uso della carcerazione preventiva deve essere limitato al massimo e non dovrebbe mai essere ammesso se è finalizzato al solo scopo di ottenere una confessione.
La presunzione di innocenza non è un principio astratto, è una necessità concreta per il corretto funzionamento di un sistema giudiziario. Significa che nessun cittadino può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva e fino a quel momento non deve perdere nessuno dei suoi diritti. Tanto meno può essere messo in carcere, a meno che non ci siano forti e fondate ragioni per ritenere che possa fuggire o commettere altri gravi reati. Ma questa dev'essere l'eccezione, non la regola.
Significa anche che è l'accusa a dover provare la colpevolezza di un cittadino, non è mai la persona accusata a dover dimostrare la propria innocenza. Anche perché dimostrarla può essere estremamente difficile per chi non ha i mezzi, il denaro, gli strumenti di indagine a disposizione dell'accusa. Chi ha letto Kafka ricorderà lo smarrimento e l'impotenza del singolo di fronte all'imponenza dell'apparato giudiziario.
Per questo «in dubio pro reo» è uno dei principi cardine di ogni sistema giudiziario rispettoso delle persone: meglio rischiare di assolvere un colpevole che di condannare un innocente. È un concetto alla base della nostra idea di Stato liberale e cristiana: affonda le origini addirittura nella Bibbia (Dio era disposto a non punire Sodoma e Gomorra pur di non condannare dieci giusti).
Questo significa anche che un cittadino assolto da un tribunale in un grado di giudizio non dovrebbe essere ulteriormente perseguito: se un magistrato lo ha ritenuto innocente evidentemente esiste almeno un dubbio sulla sua colpevolezza. Per questo abbiamo proposto l'inappellabilità dei giudizi di assoluzione.
A tutto questo si aggiunge il fatto che nella pratica il processo è esso stesso una condanna, perché dura anni, perché getta sulla persona l'ombra del sospetto e dello stigma sociale, perché ne limita anche se innocente molti diritti e molte libertà, perché coinvolge inevitabilmente la famiglia, gli amici, il lavoro, ogni aspetto della vita. Su questo non aggiungo altro, perché entrerei nel merito di dolorose vicende personali delle quali non intendo parlare in questa occasione.
Ma è per questa ragione che i processi non possono durare all'infinito, una persona non può essere sottoposta a questa tortura per decenni. La prescrizione è una misura di civiltà.
Se poi la terzietà dei magistrati non è garantita, se chi accusa ed anche chi giudica è condizionato da pregiudizi, per esempio di tipo politico, il principio fondante del sistema giudiziario viene messo in discussione.
E quanto è successo in Italia, dove fin dagli anni '60-70 il Partito comunista compì un'opera sistematica di occupazione della magistratura con persone di sua fiducia, da inserire nei gangli vitali del sistema giudiziario.
Senza Berlusconi che ne sarà del garantismo? Il mondo della politica, dello sport, dello spettacolo e migliaia di persone per l'ultimo saluto al Cav. Piero Sansonetti su L'Unità il 15 Giugno 2023
Migliaia e migliaia di persone hanno partecipato ai funerali di Berlusconi. Il Duomo era gremito di personalità della politica, del mondo dello spettacolo, e del mondo dello sport. Fuori, in piazza, il popolo azzurro. C’è stata una polemica sui funerali di Stato, ma è una polemica molto stupida. Non capisco proprio come una questione di questo genere, quasi burocratica, possa diventare l’anima di uno scandalo. Se per fare lotta politica ci si deve opporre ai funerali, il paese è messo male.
Ha fatto benissimo Elly Schlein a presentarsi al Duomo. Per testimoniare la serietà del suo partito e il suo senso, alto, della dignità e dell’umanità. Io condivido quasi niente delle politiche che Berlusconi ha condotto in questi anni. Non credo che sia stato particolarmente divisivo, semplicemente è stato un leader di destra e – quantomeno sul piano sociale – le idee della destra sono lontanissime e in conflitto con le idee della sinistra.
Però gli riconosco il merito che ieri gli ha riconosciuto anche D’Alema: di avere combattuto per riformare la giustizia e togliere alle Procure il potere dilagante e illegale del quale oggi dispongono. Come saranno ora le battaglie libertarie e garantiste, in assenza di Berlusconi? Come si schiererà una destra che di garantista ha avuto sempre molto poco? E la sinistra, perduto il bersaglio, si convincerà a rinunciare al suo ruolo ancillare verso la magistratura? Piero Sansonetti 15 Giugno 2023
«Vi racconto il ’ 94 e la rivelazione garantista di Silvio». Tiziana Maiolo, editorialista dell'Unità. Tiziana Maiolo potrebbe scrivere un romanzo – dopo i libri che ha già pubblicato (“Tangentopoli”, “1992”) – sull’evoluzione del Berlusconi garantista. Errico Novi su Il Dubbio il 15 giugno 2023
Garantisti si può nascere. O si può diventare. «Berlusconi, prima del ’ 94, non era né garantista né, figurarsi, forcaiolo. Era sempre stato un liberale, con il tic di dover piacere a tutti. Non tifava Di Pietro, ma non avrebbe mai immaginato di fare, della giustizia, la propria guerra dei trent’anni. Lo capisce quando minacciano di arrestargli il fratello, Paolo. E lo capisce ancora meglio il 22 novembre del ’ 94 con l’invito a comparire scaraventatogli sulla testa dal Pool in pieno G7».
Tiziana Maiolo potrebbe scrivere un romanzo – dopo i libri che ha già pubblicato (“Tangentopoli”, “1992”) – sull’evoluzione del Berlusconi garantista. In questa conversazione ci limitiamo a dei flash. Lei, oggi editorialista dell’Unità dopo esserlo stata anche del Dubbio, oltre che del Riformista, veniva dal manifesto, dalla più autentica tradizione garantista della sinistra italiana, e si trovò a presiedere la commissione Giustizia della Camera come deputata di FI nel “mitico” ’ 94.
Dal manifesto a prima linea di Forza Italia sulla giustizia. Racconta.
Ero già in Parlamento dal ’ 92. Alla Camera. Come indipendente radicale nelle liste di Rifondazione.
Cioè, una deputata comunista, per giunta proveniente dall’eretico manifesto, reclutata dal Cavaliere?
Aveva l’ambizione di piacere a tutti. Era affascinato anzi dalle persone di sinistra. Ma credo sia stato qualcuno di Fininvest a segnalargli che, già come consigliera comunale a Milano, giravo di continuo nelle carceri. Avevo visto Gabriele Cagliari pochi giorni prima che si suicidasse. E al Berlusconi di inizio ’ 94 cosa importava delle carceri? Dentro c’erano già alcuni di Fininvest. Le indagini sulle aziende di Berlusconi erano già iniziate. Cominciava a essere preoccupato.
Tu eri radicale e comunista?
Te l’ho detto: al manifesto mi ero sempre occupata di giustizia, ero di sinistra ed ero radicale. In Comune a Milano entro nel ’ 90 con gli antiproibizionisti. Poi Pannella a inizio ’ 92, a pochi mesi dalle ultime Politiche della Prima Repubblica, inizia a lavorare alle candidature. Il figlio di Cossutta mi offre il collegio Milano- Pavia. Ne eleggono in tre, e passo anch’io.
Due anni dopo, il colloquio con Berlusconi.
Lo incontro a via dell’Anima, inizio ad affumicarlo: io fumo tantissimo, lui è un igienista. Mi chiede se sono impegnata anche per i diritti delle donne. Gli dico che mi sono sempre occupata di giustizia. Ti eleggono e diventi presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. Ma prima Berlusconi mi propone come sottosegretario con delega alle carceri. Aveva capito quale fosse la mia vocazione e gli interessava valorizzarla.
Ma?
Ma Scalfaro mi depenna.
E perché?
Dice che la mia nomina provocherebbe l’insurrezione dei direttori di tutte le carceri italiane.
Cioè, per l’ex giudice Scalfaro eri troppo garantista?
Al mio posto viene nominato Borghezio. Scalfaro preferì Borghezio a me.
A quel punto Berlusconi è già il garantista che conosciamo?
Non ancora. A lui interessava dare una svolta ispirata ai valori dell’impresa. Diffidava dei politici di professione: e si sbagliava, perché la politica va fatta seriamente. Oltre a persone di fiducia scelte tra i quadri di Fininvest, o della Standa, pesca nella società civile: imprenditori, primari, intellettuali. Certo non gli ultrà assiepati un anno e mezzo prima sotto palazzo di giustizia coi cartelli “Di Pietro facci sognare”.
Il decreto Biondi apre la storia di Berlusconi con la giustizia.
Avevano minacciato di arrestargli il fratello. Silvio non nasce garantista ma ce lo fanno diventare. Comunque sì, il decreto Biondi è il punto di svolta. Presentato il 14 giugno, ritirato tre giorni dopo. In mezzo, l’uscita televisiva del Pool: non possiamo più lavorare, dicono, chiederemo il trasferimento.
Fatto senza precedenti nelle democrazie liberali.
Decreto Biondi ritirato. Ma in una ventina, noi ribelli votiamo contro il ritiro. Serve a poco. È l’inizio della fine.
C’è un bel drappello garantista, con te alla Camera.
Alfredo Biondi, autentico liberale. Memo Contestabile, socialista. Poi Raffaele Della Valle, capogruppo di FI a Montecitorio, l’avvocato di Tortora. E ovviamente gli avvocati di Berlusconi: Dotti, mio compagno di liceo, e Previti. Ricordo gli avvocati garantisti di An. Uno di loro, Guarra, presiede l’altra commissione Giustizia, quella del Senato. Siamo stati anche noi a trascinare Berlusconi, a farlo garantista. Ma pesa soprattutto quello che gli capita di lì a poco.
Napoli, 22 novembre ’ 94.
Al G7 c’è la conferenza Onu sulla criminalità. Lui deve presiederla. Io sono lì con Biondi e Contestabile, come sempre. La sera prima andiamo al San Carlo. C’è anche Silvio. Iniziano a girare voci su un invito a comparire per Berlusconi. Lui stesso riceve una telefonata da un’ufficiale dei carabinieri. Non dà peso alla cosa. D’altronde, se non fosse finita la mattina dopo sul Corriere, non avrebbe avuto l’impatto devastante che ebbe.
E invece.
E invece alle 6 di mattina svegliano anche me: il Corriere apre con la notizia. Gliel’hanno voluto recapitare nel pieno di una conferenza Onu presieduta da lui. Passa per le forche caudine davanti alle telecamere. Berlusconi aveva priorità diverse dalla giustizia. Ce lo trascinano. Però ripeto: c’era terreno fertile. Intanto aveva studiato Legge. Era grande amico di Craxi. E ha vissuto la tragedia di Bettino. Fino all’operazione a cui Craxi avrebbe potuto sottoporsi a Milano, se solo i magistrati avessero accettato di lasciargliela fare senza arrestarlo. Dissero: venga a operarsi, ma poi lo arrestiamo. E lui resta a morire in Tunisia.
Sembra un po’ Braveheart, il film sull’eroe scozzese William Wallace: non voleva fare l’indipendentista. Finché non gli sgozzano la moglie.
Lui diceva di avere il sole in tasca. Era baciato dall’ottimismo. Poi il 22 novembre gli scaricano sulle spalle una zavorra tremenda, con quell’invito a comparire. Una zavorra che gli impedisce di governare. Fu una cosa scientifica.
Un atto politico.
Rivendicato anni dopo da Borrelli. Disse: mi domando se ne sia valsa la pena, di fare tutto quanto abbiamo fatto con Mani pulite, visto com’è andata a finire, cioè visto che poi al governo ci è andato Berlusconi.
Ghedini sbagliò a suggerirgli le leggi ad personam?
Pensiamo al lodo Schifani e al lodo Alfano: per me sono giusti. Norme così esistono in Francia e altrove. A me interessa questo. Una legge può pure servirti come scudo, ma vale anche per gli altri. E a me interessa capire solo se è una legge di per sé corretta. Perché mai dovrei scandalizzarmi del fatto che Berlusconi se ne può immediatamente servire?
Perché, anni dopo, Berlusconi si rifiuterà di sostenere il referendum di radicali e penalisti sulla separazione delle carriere?
A quel punto non sono più in Parlamento, faccio l’assessore a Milano. Devono aver pesato logiche di convenienza politica, che con gli anni Silvio aveva inevitabilmente imparato a praticare. Erano obiettivi suoi, in cui aveva sempre creduto. Si era convinto che in quel momento non gli sarebbe convenuto sostenerli.
Voleva piacere a tutti, anche ai comunisti. Anche a una radicale eletta in Rifondazione come te.
Alessandra Ghisleri lo ha appena raccontato. Dopo il discorso di Onna, col fazzoletto da partigiano al collo, le chiede il gradimento nei sondaggi. Lei gli dice: è al 75 per cento. E lui: e chi c’è, in quell’altro 25? Non tollerava di non piacere a tutti, proprio non lo poteva sopportare.
«Anche Berlusconi sabotò la riforma della giustizia per paura delle toghe». Parla l’ex presidente dell’Unione delle Camere penali Valerio Spigarelli: «L’avvocatura rimproverò al politico berlusconi di predicare bene ma razzolare male. Parole tante, atti concreti pochi». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 giugno 2023
Mancata “riforma epocale della giustizia” targata Berlusconi: ne parliamo con Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione camere penali che, tra l’altro, replica alla nostra intervista di ieri a Gaetano Pecorella.
Perché Berlusconi non è riuscito a fare la sua “riforma epocale della giustizia”?
Direi perché nei momenti fondamentali non ha dimostrato la volontà politica di farla.
Cosa avvenne nel 2000, con il referendum Partito Radicale-Unione camere penali sulla separazione delle carriere?
Le proiezioni erano ampiamente favorevoli alla nostra vittoria referendaria, che avrebbe dato una enorme forza politica per la riforma costituzionale da fare in seguito in Parlamento. Lui però disse a tutti di andare al mare.
Pecorella sostiene che era difficile spiegare alla gente per quali quesiti votare sì e per quali no.
La storia dei referendum ci insegna che si può vincere su alcuni quesiti e perdere su altri. Nonostante l’invito ad andare al mare 10 milioni di italiani votarono per la separazione delle carriere perché il quesito era facilmente comprensibile. Senza l’indicazione di Berlusconi avremmo vinto.
E allora perché Berlusconi fece quella mossa?
La spiegazione più logica è che essendo quel tema particolarmente inviso alla magistratura, evidentemente in quel momento ha preferito sacrificare questa battaglia e coltivare qualche altra cosa. Questo si ricollega ad un tema più generale: Berlusconi poi ha fatto molte leggi - al di là del fatto che gliele criminalizzavano tutte, anche quelle sacrosante - che avevano una diretta incidenza sulle vicende giudiziarie che lo riguardavano.
Per Pecorella è stata colpa dei suoi alleati.
Potrebbe essere anche questa una spiegazione: Lega e soprattutto Fini cercavano di accaparrarsi quella fetta di opinione pubblica che aveva eletto la magistratura a stella polare della politica. E c’era competizione da questo punto di vista. Ma come li aveva convinti a fare la legge Cirami e quella Pecorella li avrebbe potuti convincere anche a fare altro.
Ma perché l’ammiccamento alle toghe?
Il potere giudiziario in Italia conta, meglio «non scontrarsi troppo, non si sa cosa può accadere», diceva Cossiga, pure Fini anni dopo se n'è reso conto.
Comunque, sta di fatto che gli consegnaste la toga rossa. Come andò?
L’idea nacque prima del voto referendario. Fu una iniziativa del direttivo della Camera penale di Roma. Cominciammo a mandare un telegramma al giorno a Berlusconi e ad altri personaggi apicali di FI scrivendo: «È passato un altro giorno e non vi vediamo impegnati nella battaglia referendaria». Pecorella, che era uno dei destinatari, fece dichiarazioni pubbliche a favore del referendum ma Berlusconi decise come si è detto. Allora istituimmo il concorso “Toga rossa”, termine usato da Berlusconi contro i magistrati, lo dichiarammo vincitore e gliela portammo in via del Plebiscito dove ci ricevette un imbarazzatissimo Bonaiuti che se la prese. Questo fu il segnale di una avvocatura penale molto determinata su quel terreno, che rimproverò al politico, che predicava bene ma razzolava male, non solo di non averci aiutato ma addirittura di averci sabotato. Parole tante, atti concreti pochi. Del resto, sulla politica giudiziaria, abbiamo sempre specificato che gli slogan di Berlusconi erano controproducenti. Con Ettore Randazzo dicemmo parole che finirono su tutti i giornali: «La separazione delle carriere non è una clava da dare in testa alla magistratura» e «Berlusconi parli da premier e non da imputato».
Comunque, Berlusconi in quattro governi ebbe altre occasioni, che fallirono.
Certo, avvenne pure all’epoca della cosiddetta “riforma Castelli”, venduta come se fosse la separazione delle carriere. Ma non era affatto così, tanto è vero che è in vigore e non è cambiato nulla. Con alcuni costituzionalisti elaborammo una proposta che interessava anche il Csm, senza intaccarne la struttura costituzionale, ma anche quella rimase nel cassetto.
Perché?
Perché in quel momento facevano trattative sindacali al ribasso con Anm. Nitto Palma, prendendosela con i magistrati, disse: «Perché vi lamentate visto che abbiamo accolto il 90 per cento delle vostre richieste?». Puntavano alla pace giudiziaria invece l’Anm incassò e le Procure continuarono come prima.
Poi cosa accadde?
Nel terzo Governo Berlusconi avevano 100 voti di maggioranza alla Camera e avrebbero potuto portare a casa la riforma. Ma preferirono fare altre leggi che avrebbero dovuto garantire l’immunità. Nel 2010, il Ministro della Giustizia Alfano fu convinto, anche dall’Ucpi - io ero presidente allora - a presentare, chiavi in mano, con qualche aggiustamento, una proposta di riforma costituzionale elaborata dall’Unione. Si aprì un dibattito alla Bicamerale interessante. Intervenne anche il Procuratore generale di Cassazione, fratello di quell’Esposito che poi condannò Berlusconi, che disse che era d’accordo con la separazione delle carriere. Crollò però poco dopo il governo. Noi ci lamentammo del fatto che Berlusconi, che pure aveva i numeri per fare la riforma costituzionale, aveva scelto ancora una volta di fare altro. In quel periodo il presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano che aveva più volte parlato della necessità di riforme strutturali e quindi non le avrebbe avversate. Anche perché dello squilibrio nei rapporti tra poteri se ne stava rendendo ben conto con l’inchiesta Trattativa. Era quindi una copertura per andare avanti. Ma poi c’ è altro.
Cosa?
Sul piano del diritto sostanziale, alcune delle leggi fatte dai suoi governi sono in antitesi con l’idea del diritto penale liberale. Leggi reattive rispetto ai fatti di cronaca, innalzamenti strepitosi di pene, stabilizzazione e centralizzazione del 41 bis, introduzione di ipotesi di custodia cautelare obbligatoria poi bocciate dalla Consulta; il tutto per dare messaggi securitari all’opinione pubblica in contraddizione con i dati criminologici. Anche lui, sul piano del diritto penale simbolico e demagogico, ha dato il suo, e i penalisti gliel’hanno sempre contestato. Nel mitico dibattito da Santoro tra Travaglio e Berlusconi, lui rivendicò tutto questo. Peraltro, il populismo giudiziario nacque anche dalle trasmissioni Mediaset ai tempi di mani Pulite, e continua tuttora.
Pecorella però sostiene che alcune di quelle leggi non portano il nome di Berlusconi.
In un governo a guida mia tutte le leggi sono le mie, anche se le firma un mio alleato. E poi, se faccio un compromesso politico, evidentemente sacrifico quello che ritengo meno importante. Insomma, l’idea di Berlusconi come icona dell’idea liberale del diritto mi sembra eccessiva. Mi convince di più che sia stato emblema e vittima dello squilibrio tra il potere giudiziario e la politica nato da Tangentopoli, che poteva essere eliminato proprio facendo le riforme che non ha fatto e non le leggi ad personam che indubbiamente ci furono.
Da ilfattoquotidiano.it il 27 gennaio 2023.
È stato respinto dalla Cassazione il ricorso con il quale l’ex premier Silvio Berlusconi ha contestato la condanna civile a risarcire con 50mila euro l’ex procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo per danni da diffamazione, come stabilito dalla Corte di Appello di Brescia nel 2020. I fatti risalgono al 2006 quando, durante una conferenza stampa, l’allora Presidente del Consiglio accusò i pm del processo Mills (Robledo e Fabio De Pasquale) di essersi rifiutati “di fare la giusta rogatoria” alle Bahamas che, a suo dire, li avrebbe smentiti e li definì “magistrati indegni che con i soldi degli italiani tramano contro il premier nel pieno della campagna elettorale”.
Il 13 ottobre 2017 Berlusconi era stato condannato dal Tribunale civile di Brescia e la giudice Laura Frata motivò che era “documentale” che la rogatoria era stata chiesta e “difetta, pertanto, il presupposto per il legittimo esercizio del diritto di critica”, dando quindi ragione al procuratore che fece causa all’ex premier.
Berlusconi dovrà risarcire con 50 mila euro il pm Robledo per averlo diffamato durante il processo Mills. Respinto il ricorso in Cassazione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2023.
Era stato condannato nel 2020: aveva definito i pm "magistrati indegni che con i soldi degli italiani tramano contro il premier nel pieno della campagna elettorale"
Il ricorso con il quale l’ex premier Silvio Berlusconi ha contestato la condanna civile a risarcire con 50 mila euro l’ex pm della Procura di Milano Guido Robledo per danni da diffamazione, come stabilito dalla corte di Appello di Brescia nel 2020 è stato respinto dalla Corte di Cassazione. I fatti risalgono al 2006 quando, l’allora Presidente del Consiglio durante una conferenza stampa, accusò i pm del processo Mills di essersi rifiutati “di fare la giusta rogatoria” alle Bahamas che, a suo dire, li avrebbe smentiti e li accusò di essere dei “magistrati indegni che con i soldi degli italiani tramano contro il premier nel pieno della campagna elettorale”.
L’ex premier e leader azzurro era imputato per corruzione in atti giudiziari nel processo Mills, accusa dalla quale si salvò grazie all’intervenuta la prescrizione. Insieme al pm Guido Robledo anche il pm Fabio De Pasquale rappresentava la pubblica accusa, ma solo Robledo intraprese l’azione giudiziaria nei confronti di Berlusconi.
Secondo gli ermellini della Suprema Corte Cassazione, come si legge nella sentenza n° 2605 depositata oggi dalla Prima sezione civile – il ricorso avanzato dai difensori di Berlusconi, rappresentato dagli avvocati Fabio Lepri e Fabio Roscioli, “trascura di considerare che la decisione della corte bresciana ha accertato con motivazione puntuale, ampia e completa anche la falsità delle accuse rivolte ai pubblici ministeri di voler influenzare l’attività politica”.
Ad opinione dei giudicanti, con la decisione dell’appello, conforme a quella del primo grado emessa nel 2017, dalla corte bresciana “non è stato affatto negato l’esercizio del diritto di critica ” da parte di Silvio Berlusconi che “invece, nell’esaminare la fattispecie in esame, ha evidenziato gli elementi costitutivi della diffamazione sia sotto il profilo della non veridicità del narrato – in merito alle attività investigative di cui si lamenta il mancato svolgimento ed in merito alle accuse di sviamento e di asservimento degli inquirenti alla parte politica avversa -, sia sul piano della gravità e della sproporzione delle accuse“.
Proprio la gravità delle accuse rivolte ai pubblici ministeri, continua la Cassazione, ha portato “ad escludere la continenza e la ricorrenza della scriminante, rimarcando – di contro – l’esistenza di fisiologici strumenti predisposti per assicurare l’esercizio di difesa dell’indagato/imputato dinanzi al giudice”. Secondo i difensori di Silvio Berlusconi, invece, “sarebbe stata compressa la libertà dell’allora premier volta a mettere in discussione le scelte dell’accusa ‘coram populo'” dimenticando che il diritto di critica e il potere di impugnare costituiscono estrinsecazione di diritti fondamentali autonomi“.
Sempre ad avviso dei difensori, “il nucleo essenziale delle dichiarazioni di Berlusconi doveva ritenersi vero e pertanto anche nella parte giudicata illecita le dichiarazioni rese nel corso della conferenza stampa e della trasmissione radiofonica del 2006 dovevano ritenersi legittime“. Redazione CdG 1947
Cari magistrati, lasciate stare la storiografia. Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Marco Gervasoni il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Secondo il resoconto che ne fornisce Alessia Candito su Repubblica di ieri, la procura avrebbe riscritto la storia italiana dagli anni '70 in poi. Forza Italia sarebbe stata fondata dalla 'ndrangheta, che comunque già tirava le file dei politici della prima Repubblica, Bettino Craxi in primis: senza dimenticare l'immancabile Licio Gelli, i servizi deviati... e meno male che i Savi di Sion avevano judo. Ci sarebbe da chiudere qui, con il sorriso, ricordando come la storia del Craxi mafioso, che sceglie come sue erede Berlusconi, con contorno dell'immancabile stalliere di Arcore, fosse un cavallo di battaglia del giro Santoro-Travaglio che, prima di diventare fan di Putin, ci fecero parecchi soldi nel propinarlo a menti semplici: molte delle quali finirono parlamentari e addirittura ministri con i 5 stelle. Quindi, Forza Italia fondata dalla mafia e dalla 'ndrangheta assieme? E la camorra, era distratta? Ovviamente queste elucubrazioni si sono sempre scontrate con l'assenza di qualsiasi prova, come pare non ve ne siano neanche ora: tutto infatti nasce dalle dichiarazioni di pentiti ma, per fortuna, almeno oggi, non bastano le loro parole per far condannare qualcuno. Però qui vorremmo lanciare un altro monito. Noi, che di mestiere facciamo gli storici e la storia la insegniamo, ve lo chiediamo con reverenza, cari magistrati: non portateci via il lavoro. Non occupatevi di ricostruire la storia, perseguite i reati di individui e di organizzazioni ma non ricavate, dalle vostre indagini, giudizi storici. Anche perché, se dovessimo osservare, da un punto di vista metodologico, la vostra interpretazione storiografica, essa lascerebbe molto a desiderare. Prima di tutto, si fonda su una fonte sola: i pentiti. Che è come se si volesse ricostruire la storia del Terzo Reich solo con le testimonianze dei nazisti. Poi, non esercitate mai la disciplina del contesto, seguite i vostri fili, di intrighi, congiure e complotti, e non vedete il mondo che sta fuori. Nel caso specifico, prendere per buona la versione di un pentito, che accredita Craxi e Berlusconi a complottare con mafiosi durante il rapimento Moro, è risibile. Allora Craxi era a capo di un Psi piccolo e con poco potere, Berlusconi faceva ancora l'immobiliarista, e non è credibile che la Ndrangheta volesse la liberazione di Moro. E questo è solo un esempio. Bastava leggere un manuale di storia dei partiti, per considerarla una panzana colossale. Mettete in galera i colpevoli, se possibile, e liberate gli innocenti: al massimo, alla storia dedicatevi quando sarete in pensione.
Baiardo tira in ballo Berlusconi (Paolo), il ‘portavoce’ dei Graviano: “A colloquio con lui per mezz’ora”. Redazione su Il Riformista il 6 Febbraio 2023
Il presunto ‘profeta’ Salvatore Baiardo, il controverso personaggio già condannato per favoreggiamento della mafia, in particolare dei fratelli Graviano, e sedicente depositario di segreti sul boss Matteo Messina Denaro, la ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra di cui annunciò settimane prima la cattura dagli studi tv di “Non è l’Arena” su La7, torna a parlare sul piccolo schermo e tira in ballo la famiglia Berlusconi.
Sempre nel corso della trasmissione condotta da Massimo Giletti Baiardo ha infatti raccontato di un incontro con Paolo Berlusconi, fratello del leader di Forza Italia Silvio, avvenuto a Milano nel 2011. “Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz’ora”, ha raccontato l’ex tuttofare dei Graviano.
Baiardo ha raccontato che quella mattina “Paolo Berlusconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: ‘il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare’“. Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro.
Parole di Baiardo che erano state anticipate domenica mattina da un articolo a firma Lirio Abbate su Repubblica. Una ricostruzione dei fatti che l’ex gelataio ha riferito anche ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Firenze che tutt’oggi indagano sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993, inchiesta che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Nel 2020, scrive ancora il quotidiano, i magistrati fiorentini avevano tentato di sentire Paolo Berlusconi nell’ambito degli accertamenti svolti su quel presunto incontro, ma il fratello dell’ex premier si era avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato.
A verbale invece ci sono le dichiarazioni di due agenti di polizia che erano nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi a Milano nel 2011. In particolare, riferisce Repubblica, i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono il 24 luglio 2020 l’agente Domenico Giancame, il quale avrebbe ricordato che nel 2011 il fratello dell’allora premier avrebbe incontrato Baiardo.
Il poliziotto lo avrebbe riconosciuto attraverso una foto come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi il quale, alla fine della conversazione, che sarebbe avvenuta in via Negri, avrebbe detto all’agente, riferisce il quotidiano: “Tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo“.
L’altro poliziotto, Salvatore Tassone, sentito il 29 luglio 2021, avrebbe ricordato di aver visto Baiardo, in via Santa Maria Segreta e in via Negri a Milano, e che avrebbe chiesto di parlare con Paolo Berlusconi, riferisce ancora Repubblica, “per questioni inerenti il fratello Silvio“.
Disfatta per Esposito. Un'altra sconfitta sul caso Berlusconi. Il giudice che condannò il Cav perde in tribunale contro i testimoni che rivelarono i suoi atti ostili. Massimo Malpica il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.
Legittimo rospetto. Un po' indigesto, urticante, ma tocca mandarlo giù. Finisce male anche l'ultimo ringhio giudiziario di Antonio Esposito, il magistrato che presiedeva il collegio che, nel 2013, ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi nel processo Mediaset per frode fiscale. L'ex toga di Sapri aveva citato in giudizio - chiedendo un risarcimento danni per diffamazione di 150mila euro - tre dipendenti di un hotel di Ischia, rei di aver riferito all'avvocato di Berlusconi che stava preparando il ricorso per il Cav alla Cedu di aver conosciuto quel giudice in albergo, e di avergli sentito proferire insulti e contumelie contro Berlusconi e contro lo stesso proprietario dell'hotel, sindaco Fi di Lacco Ameno. Tutto falso, per Esposito, che oltre ai soldi chiedeva la pubblicazione della sentenza su due quotidiani nazionali.
E invece Silvia Albano, giudice monocratico del tribunale civile di Roma, gli ha dato torto su tutta la linea, come era già accaduto in sede penale, visto che Esposito non si era fatto mancare una querela contro i tre, conclusa con una richiesta di archiviazione del pm di Napoli accolta dal gip. Stessa storia a Roma, con la giudice che ha rigettato tutte le richieste dell'ex magistrato e lo ha condannato a pagare le spese legali.
Verdetto inevitabile perché, si legge nella sentenza, anche se le frasi avevano «indubbie potenzialità lesive dell'onore e della reputazione dell'Esposito», quest'ultimo «non ha fornito elementi idonei a provare la falsità di quanto riferito dai tre convenuti, come sarebbe stato suo onere fare». Peraltro i tre, querelati dopo una puntata di Quarta Repubblica che riportava le loro dichiarazioni, non le avevano raccontate in TV, ma riferite in una deposizione quando erano stati convocati per le indagini difensive, «in un contesto nel quale la falsità di quanto affermato sottolinea la giudice - avrebbe potuto comportare conseguenze penali». Dunque, non c'è da dubitare sulla veridicità di quelle affermazioni di Esposito. Che nei fine settimana trascorsi tra 2007 e 2010 in quell'hotel, riferendosi al proprietario avrebbe commentato, più volte: «Ah, sta con quella chiavica di Berlusconi». Inoltre, continua uno dei dipendenti, «affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi». E lo faceva così spesso, prosegue l'uomo, «che all'ingresso del ristorante invece di dire buona sera, era solito affermare: ancora li devono arrestare?». E per non lasciar spazio a dubbi, a un altro dipendente, nel 2009, confida: «A Berlusconi se mi capita l'occasione gli devo fare il mazzo così».
Da quando nel 2015 è andato in pensione, Esposito ha fatto causa un po' a tutti quelli che sostenevano che il Cav non gli andasse a genio. Con esiti non proprio positivi. Ha perso la causa contro il Mattino, per l'intervista nella quale lui stesso, all'indomani della condanna, ne anticipava le motivazioni. Stessa storia per la querela contro la Santanché, che aveva parlato di «sentenza politica» e di «colpo di Stato». E aveva perso pure in appello, a Milano, contro la signora Sandra Leonetti, che aveva raccontato al Giornale di aver sentito il giudice, a una cena, confidare che «Berlusconi mi sta proprio sulle palle», per aggiungere poi: «Se mi capita a tiro lo faccio nero». Solita musica. Esposito l'aveva querelata: «Mai dette quelle frasi». Ma i giudici l'hanno assolta «perché il fatto non sussiste».
L'assalto. Tutte le vicende giudiziarie di Berlusconi, l’uomo che ci ha difeso dalla repubblica dei Pm. Chissà cosa sarebbe successo nei tribunali in questi trent’anni se non ci fosse stato quest’uomo a svolgere il ruolo di catalizzatore. Tiziana Maiolo su L'Unità il 13 Giugno 2023
Abbiamo un gran debito con Silvio Berlusconi. Ci ha salvati dalla repubblica giudiziaria, quella che ha distrutto i partiti democratici della prima repubblica e che a lui, l’intruso usurpatore, ha messo i denti nel collo trent’anni fa senza mollarlo mai. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che avrebbe potuto ridargli giustizia, non è arrivata in tempo. E i procuratori di Firenze, che avrebbero voluto processarlo come mafioso e bombarolo, staranno masticando amaro, perché si è sottratto nel modo più definitivo possibile.
Ma in questi trent’anni lui è stato il condottiero che ha tenuto a bada gli aspiranti golpisti della repubblica giudiziaria. Lo ha fatto per sé e per tutti noi. Ci ha messo la propria storia e il proprio corpo. Non posso immaginare che cosa sarebbe successo nei tribunali se non ci fosse stato lui, catalizzatore e vittima sacrificale mai arreso. Ogni riforma sulla giustizia che verrà, dovrà avere le sue impronte e il suo nome, nel ricordo delle sue lotte, fin dal primo giorno.
Il mausoleo di Berlusconi ad Arcore, la storia della “Volta celeste” destinata al Cavaliere (e 36 familiari e fedelissimi)
Da principio era stato Saverio Borrelli, con la famosa invettiva “Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”. Poi lui si era candidato e aveva vinto, e il pool di Milano, di cui il procuratore era l’indiscusso capo, non glielo aveva perdonato. Ed era andato a cercare i reati, avendo individuato prima la persona che sicuramente, anche se non se ne aveva notizia, li aveva commessi. E fu così che quei capitani coraggiosi del palazzo di giustizia di Milano che non furono secondi a Berlusconi per capacità comunicativa, gli tesero il trappolone di Napoli. Il grande imprenditore che si era fatto statista, tanto da metter insieme nel 2002 a Pratica di mare Bush e Putin, era stato pugnalato nel modo peggiore, mentre presiedeva nel 1994 a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata.
Non erano ancora i temi (cioè i reati) su cui piccoli uomini in toga lo avrebbero poi iscritto al fianco di qualche coppola nei registri delle ingiustizie, dalla Sicilia fino alla Toscana. Nel 1994 Silvio Berlusconi era l’apprezzato capo del governo italiano stimato nel mondo. E il mondo intero, con rappresentanti di governo e anche della magistratura, era accorso a Napoli per discutere della criminalità organizzata e dei modi migliori per combatterla e sconfiggerla. C’erano i Falcone del mondo, quel giorno, lui purtroppo non c’era più. Ma “vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”, quel giorno, a consegnargli un invito a comparire. Sospettato di aver corrotto, da imprenditore, la guardia di finanza. Costretto a sfilare davanti alle telecamere del mondo con un foglietto infamante tra le mani.
Quanti anni dopo sarà assolto? Non lo ricordiamo neanche più. E da lì in avanti l’assalto giudiziario sarà la cifra politica con cui lo hanno combattuto i suoi antagonisti. Possiamo chiamarli nemici? Si, possiamo. Il mondo politico è stato vigliaccamente nelle retrovie, lasciando al circo mediatico-giudiziario, alle procure in combutta con i loro cronisti-servi, il compito di svolgere il lavoro sporco. Dopo le prime schermaglie, chiamiamole così per pudore, arrivano i bocconi grossi. Mentre Saverio Borrelli si rammaricava per aver distrutto i partiti della prima repubblica, dal momento che non ne era valsa la pena, visto che poi, invece di far trionfare Achille Occhetto, l’Italia aveva scelto nel 1994 Silvio Berlusconi.
Il primo boccone grosso partì ancora da Milano, di che stupirsi. E sarà l’unico ad andare a segno, fino a una cassazione che sarà la più discussa del secolo e processi che non finiranno mai, perché il presidente di quel collegio di tribunale ha riempito l’Italia di querele nei confronti di chi ha dubitato della correttezza di certe procedure. La storia dell’unica condanna, per reati fiscali, subita da Silvio Berlusconi, avrebbe potuto essere raddrizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, avrebbe potuto esser dichiarata una patacca, ed è un peccato che non ci sia stato il tempo. Chissà se si potrà esprimere anche “post mortem”. Silvio lo meriterebbe.
Bocconi grossi e bocconi grassi. Che dire dell’assalto morboso che ha vincolato, in un’assurda nemesi, il grande ammiratore delle donne, colui che ne ha amate tante, all’immagine di porco stupratore e sfruttatore di minorenni? Con un circo di uomini, e purtroppo anche di donne in toga pronti a sfogare le proprie frustrazioni sul boccone grasso? Ruby uno due tre, l’infinito delle fantasie proibite della politica giudiziaria che odia le donne, che calpesta le procedure pur di poter mettere i denti nel boccone grasso, che ha disprezzato l’”astuzia levantina” di una giovane immigrata senza che nessuno desse la patente di razzista alla pm che quella frase aveva pronunciato.
E la misoginia nei confronti di ragazze belle a un po’ carrieriste trattate dalle toghe maschili e femminili come puttane da quattro soldi pronte a farsi corrompere pur di non dire “quel che succedeva” nelle serate di Arcore. Ma nessuno hai mai saputo spiegare “quel che succedeva”, dal punto di vista dei reati contestati e poi caduti, la concussione e lo sfruttamento di prostituzione minorile. Così il processo diventava infinito, perché, assolto Berlusconi dai due reati fino in Cassazione, lui rimaneva imputato permanente in tutti i tentacoli di processi e processini, bis ter quater eccetera. Sempre assolto.
L’accusa più infamante, quella di sostegno alla mafia, l’hanno fatta correre lungo tutta la sua vita politica. Prima non importava. Inchieste aperte e archiviate all’infinito, promosse sempre dalla Dia, quasi che quell’organismo, istituito nel 1991 anche su spinta di Giovanni Falcone, si fosse poi trasformato fino a diventare uno strumento contro Berlusconi. Piano piano si è arrivati addirittura a indicare il presidente di Forza Italia come mandante delle stragi di mafia nel 1993.
Come già per Enzo Tortora, si moltiplicarono i “pentiti” costruiti in laboratorio, Graviano uno, Graviano due, il nonno e i cugini, testimoni di fantasiose transazioni economiche che non ci sono più. Montagne di carta straccia nelle mani di qualcuno che sperava di far carriera, come già per Tortora. Beh, ragazzi, è finita, cercatevi un altro boccone grosso e grasso. Tiziana Maiolo 13 Giugno 2023
"Sono l'uomo più imputato dell'universo". La persecuzione giudiziaria di Berlusconi, accusato di tutto tranne abigeato e furto di bestiame: 60 processi e 3mila udienze. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 13 Giugno 2023
Come disse di se stesso la mattina del 28 marzo del 2011 entrando in Tribunale a Milano per una delle tante udienze, «io sono l’uomo più imputato dell’universo». È difficile, infatti, fare un elenco preciso di tutti i procedimenti penali che negli anni sono stati aperti dalle varie Procure nei confronti di Silvio Berlusconi. Il loro numero dovrebbe essere intorno ai 60, esclusi però quelli a carico delle sue aziende. Solo per quest’ultime i magistrati hanno disposto almeno 400 fra perquisizioni e sequestri. Nel biennio 1994-96, tanto per dare qualche numero, vennero sottoposti a misura cautelare oltre 20 manager del biscione. Se allora elencare il numero dei processi nei confronti di Berlusconi è difficile, elencare il numero delle varie udienze è praticamente impossibile.
Secondo il giornalista Eugenio Cipolla, che anni addietro fece una ricerca in tal senso, finita poi nel libro “Condannate Berlusconi”, il numero dovrebbe oscillare, il condizionale è d’obbligo, fra le 2.500 e le 3.000. Nella sua vita Berlusconi è stato accusato, tranne l’abigeato ed il furto di bestiame, di quasi tutto il catalogo dei reati previsti dal Codice penale e dalle leggi speciali. Oltre ai “classici” reati contro la pubblica amministrazione, quindi abuso d’ufficio, peculato, corruzione e concussione, ci sono i reati fiscali, riciclaggio, frode e falso in bilancio, quelli contro il patrimonio, ricettazione e appropriazione indebita, quelli per mafia, concorso esterno e concorso in strage con l’aggravante mafiosa. Non manca la prostituzione minorile, il finanziamento illecito dei partiti, il vilipendio dell’ordine giudiziario, la violazione del segreto d’ufficio, la diffamazione.
Rileggendo la sterminata storia giudiziaria dell’ex premier balzano immediatamente all’occhio due circostanze alquanto singolari. La prima riguarda il fatto che i procedimenti penali a suo carico hanno avuto inizio quando egli decise di entrare in politica, la seconda è che la maggior parte dei Pm che hanno istruito i processi sono toghe di Magistratura democratica, la corrente da sempre legata a filo doppio al Pci-Ds-Pds-Pd, o comunque vicine ai gruppi associativi della sinistra giudiziaria. Anche in questo caso fare un elenco è molto difficile essendo centinaia i magistrati che in questi 30 anni si sono occupati di Berlusconi.
Qualche nome, però, si può fare. Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano, per i processi sui terreni di Macherio, la compravendita diritti tv Mediaset, e il Rubygate. Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo, per le indagini su mafia e riciclaggio. Gherardo Colombo, Pm milanese, per le tangenti alla guardia di finanza, lodo Mondadori, procedimento Imi-Sir. Francesco Curcio, procuratore di Potenza, per la corruzione nel caso Sergio De Gregorio e finanziamento illecito ai partiti. Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, per le stragi di mafia e l’inchiesta su Marcello Dell’Ultri. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, per mafia. Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta e Guido Lo Forte, procuratore di Messina, per mafia e stragi. Vincenzo Piscitelli, procuratore aggiunto a Napoli, per la corruzione nel procedimento Rai-Fiction. Maurizio Romanelli, procuratore aggiunto Milano, per violazione del segreto riguardo l’intercettazione Fassino-Consorte nel procedimento Unipol. Giovanni Salvi, procuratore a Catania, poi a Roma ed infine Pg della Cassazione, per la vicenda della diffamazione Lega coop. Nello Rossi, procuratore aggiunto Roma, per la compravendita di Alitalia. Giuseppe Scelsi, Pm a Bari, per l’inchiesta escort-Giampi Tarantini.
Il primo avviso di garanzia, passato alla storia per essere stato notificato a mezzo stampa il 21 novembre del 1994 mentre Berlusconi presiedeva il vertice del G8 a Napoli, ha riguardato l’’inchiesta per corruzione della guardia di finanza, poi conclusi in una archiviazione. In questo sterminato elenco meritano però di essere segnalati tre procedimenti. Uno è certamente il processo Ruby che poi è stato spacchettato in una serie imprecisati di filoni per le varie Procure fino ad arrivare al Ruby Quater. Il processo, con l’originale accusa di prostituzione minorile e poi di corruzione di testimoni, si è trascinato per una decina d’anni e si è concluso nelle scorse settimane con l’assoluzione di tutti gli imputati. L’altro è quello sui diritti Mediaset dove Berlusconi ha riportato la condanna che gli ha determinato l’affidamento ai servizi sociali con l’applicazione retroattiva della legge Severino, entra in vigore successivamente alla asserita commissione dei reati contestati, e con la conseguente decadenza dal Senato nel 2013.
E infine, quello per concorso esterno nelle stragi di mafia del 1993 che è ad oggi oggetto di coordinamento investigativo fra varie Procure, ad iniziare da Firenze dove il fascicolo è pendente da tempo immemore. Il titolare del procedimento? Il procuratore aggiunto Luca Turco, anch’egli casualmente toga di Magistratura democratica. Paolo Pandolfini
IL LUNGO ELENCO. Silvio Berlusconi e la giustizia: tutti i numeri di un “rapporto complicato”. Redazione su L'Espresso il 13 Giugno 2023
Una sola condanna definitiva. Decine tra archiviazioni, prescrizioni e assoluzioni. Con l’aiuto di leggi ad personam. Breve cronaca giudiziaria dell’imprenditore e politico tra i più controversi della storia repubblicana
Un rapporto complicato, quello tra Silvio Berlusconi e la giustizia. Il quattro volte presidente del Consiglio è passato attraverso decine di procedimenti penali (e non solo) uscendone quasi sempre incolume. Un’unica condanna definitiva, oltre a un risarcimento in sede civile a carico di Fininvest. Qui un riepilogo delle vicende giudiziarie che lo hanno visto protagonista, fino agli ultimi giorni di vita.
1 CONDANNA
Processo Mediaset (frode fiscale). Condannato nel 2013 a 4 anni di reclusione (con l’indulto, ne ha scontato solo uno ai servizi sociali)
Ne derivano:
INCANDIDABILITÀ (18 MARZO 2014)
Dopo l’espulsione dal Senato con la condanna, in base alla legge Severino, la Cassazione convalida l’incandidabilità alle Europee
SERVIZI SOCIALI (9 MAGGIO 2014)
Affidamento in prova ai servizi sociali presso l’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone fino al 6 marzo 2015
PIENA LIBERTÀ (8 MARZO 2015)
Riacquisizione della piena libertà, ma non della possibilità di candidarsi in base alla legge Severino
RIABILITAZIONE (12 MAGGIO 2018)
Il Tribunale di sorveglianza sancisce la riabilitazione, con la possibilità di candidarsi alle Europee del 2019 e al Senato nel 2022
8 PRESCRIZIONI
All Iberian 1 (finanziamento illecito)
Lodo Mondadori (corruzione giudiziaria)
Processo Mills (corruzione in atti giudiziari)
Caso Lentini-Milan (falso in bilancio)
Caso Unipol (divulgazione di segreto)
Bilanci Fininvest 1998-1992 (falso in bilancio)
Consolidato Fininvest (falso in bilancio)
Corruzione del senatore De Gregorio (corruzione impropria)
2 AMNISTIE
Bugie sulla P2 (falsa testimonianza)
Fondi neri Macherio (frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio)
13 ASSOLUZIONI
- Per non aver commesso il fatto:
Guardia di Finanza (corruzione)
- Per depenalizzazione del reato:
All Iberian/2 (falso in bilancio)
Sme-Ariosto/2 (falso in bilancio)
- Perché il fatto non costituisce reato:
Ruby 1 (Prostituzione minorile)
- Perché il fatto non sussiste:
Ruby ter (corruzione in atti giudiziari)
Ruby ter, Roma e Siena (corruzione in atti giudiziari)
Sme-Ariosto/1 (corruzione)
Telecinco (frode fiscale)
Medusa (falso in bilancio)
Mediatrade (frode fiscale e appropriazione indebita)
Mediatrade Roma (evasione fiscale)
Fondi neri Macherio (frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio)
10 ARCHIVIAZIONI
Caso Saccà (corruzione)
Voli di Stato (abuso d’ufficio e peculato)
Caso Sanjust (abuso d’ufficio e maltrattamenti)
Agcom-Annozero (abuso d’ufficio)
Diffamazione a mezzo stampa (accuse di rapporti tra coop e camorra)
Compravendita di senatori (corruzione)
Traffico di droga
Laurea di Antonio Di Pietro (diffamazione)
Concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio
Concorso nelle stragi del 1992 e del 1993
RISARCIMENTI
Nel 2013 la Cassazione conferma che Fininvest deve risarcire circa 500 milioni di euro alla Cir per la mancata acquisizione di Mondadori
PROCEDIMENTI IN CORSO (ESTINZIONE CON LA MORTE)
Processo Escort Bari (imputato per induzione a rendere false dichiarazioni all’autorità giudiziaria)
Inchiesta di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 (con Marcello Dell’Utri)
- Nella sentenza di condanna per Dell’Utri del 2013 per concorso esterno in associazione mafiosa si ricava il legame tra Berlusconi e Cosa nostra, con la mediazione di Dell'Utri stesso
- Berlusconi fu citato come testimone assistito nel processo Trattativa Stato-mafia, dov’era imputato Dell’Utri: a Palermo, nel novembre del 2019, si avvalse della facoltà di non rispondere
Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 13 giugno 2023.
Franco Coppi ha difeso Silvio Berlusconi in molti processi. E in questi anni sono diventati amici. «Mi mancherà, era un uomo straordinario, comunque la si pensi».
Chi vi presentò?
«Niccolò Ghedini. Si trattava di uno dei tanti processi legati al caso Ruby. Intervenni in appello. Assolto con formula piena».
Il famoso processo delle "cene eleganti". Ma lei se mi ricordo bene si rifiutò di sostenere che lo erano, eleganti.
«[…] La vicenda avrebbe potuto essere affrontata in fatto oppure in diritto, ho preferito percorrere una strada giuridica, perché l'altra era più accidentata».
Che rapporto avete avuto?
«Sul piano umano e personale, molto piacevole; dal punto di vista professionale Berlusconi aveva molta fiducia nell'operato dei suoi avvocati, non era ansioso e non era assillante.
Le accuse che gli sono state mosse sono cadute tutte quante tranne in Cassazione con il famoso processo sui diritti televisivi con una sentenza che ha dato luogo a molte polemiche e sulla quale ci sarebbe ancora molto da discutere».
Per quel processo venne messo alla prova, ai servizi sociali, in una casa per anziani.
«Ebbe un comportamento esemplare, ed è stato riabilitato. Me ne parlava e mi diceva che era stato un momento di arricchimento personale. Era circondato dall'affetto di quei vecchietti a cui portava sempre dei pensierini e tante storie con cui li intratteneva.
Ha partecipato con profonda convinzione e non con senso di noia o fastidio».
Quando lo ha visto l'ultima volta?
«Qui a Roma poco prima del ricovero, per fare il punto della situazione. C'erano state le sentenze favorevoli di Siena e di Roma. Il problema erano gli eventuali appelli di queste sentenze e le voci che circolavano su un fascicolo aperto dalla procura di Firenze sulle stragi di terrorismo del '93 su cui non abbiamo avuto nessun avviso di garanzia né conferme sul suo eventuale coinvolgimento. Era amareggiato».
C'è stato accanimento da parte della magistratura?
«Parto dall'idea che si vive in collettività e che si può essere chiamati a rendere conto, soprattutto se hai un ruolo pubblico. Non ho mai visto tutto questo come un complotto o come un attentato giudiziario alla vita politica del Paese. Non avevo tempo da perdere nel pensare a cosa ci poteva essere dietro alle accuse, mi bastava il davanti».
È stato ad Arcore?
«Sono andato ad Arcore anche perché avevo curiosità di conoscere una casa che fa parte della storia, tenendo conto che i primi proprietari erano i Casati e che in quella casa fu ospite Benedetto Croce. E su un caminetto c'è una sua foto con dedica alla marchesa Casati. Ho avuto la tentazione di rubarla». Bastava chiedere... «Non ho avuto il coraggio».
Però le regalava cravatte, giusto?
«Aveva casse di cravatte che si faceva fare da un artigiano di fiducia e le teneva per donarle ai suoi ospiti. A me dava tutta la cassa».
Cosa ha pensato quando ha saputo della sua morte?
«Mi mancherà. È uno di quei personaggi che fanno la storia».
Qualità ?
«Il non darsi mai per vinto e l'ottimismo».
Difetti?
«Si è fidato troppo di qualcuno che non meritava questa fiducia, ma era fatto così, troppo generoso».
Dalla rubrica delle lettere del “Foglio” il 13 giugno 2023.
Al direttore - E’ morto Silvio Berlusconi. Fra gli orfani che lo piangono anche la procura di Firenze.
Luca Rocca
Risposta di Claudio Cerasa:
Tempo fa ho avuto il piacere di dialogare con un magistrato importante, Piero Tony, ex capo della procura di Prato, e su Berlusconi mi confessò delle cose incredibili, a proposito della persecuzione contro di lui. Disse Tony: “Posso dire senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. E anche sul processo Ruby, che in linea teorica sarebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale.
Lo dico in maniera consapevole, perché ho partecipato in prima persona a una vicenda che mi ha colpito e che racconto solo perché alcuni mesi fa è già apparsa sulla stampa. Prato, uno dei miei vice è stato il bravissimo pubblico ministero che ha fatto a lungo parte del pool di magistrati che ha seguito a Milano il caso Ruby. Non appena arrivato a Prato, per trasferimento a sua richiesta, mi arriva una richiesta particolare dal Csm e dalla procura di Milano per far sì che il dottor A. S., nonostante la sua nuova collocazione, potesse essere ancora utilizzato dalla procura di Milano per seguire il processo Ruby che era ancora in corso.
In giuridichese la richiesta venne così formulata: ‘Applicazione extradistrettuale alla procura della Repubblica presso il tribunale di Milano’. Era il dicembre 2011. Mi chiedevano insomma, in virtù di un processo straordinario, di dare un mio uomo assolutamente prezioso in prestito a un’altra procura.
Mi permisi di rispondere così, vi leggo tra virgolette. ‘Gentile procuratore generale. Mi consenta di rilevare che l’impegno del dottor S. nel delicato processo a Milano non appare nemmeno paragonabile all’impegno quotidiano dei magistrati di questo ufficio anche a voler considerare tutto quanto si è appreso dai mass-media e si è commentato nelle sedi le più varie.
Al di là del possibile riverbero politico – che non compete alla magistratura – e giudiziario sulla persona dell’ex presidente del Consiglio dei ministri pare trattarsi, invero, di mere violazioni alla legge Merlin da parte di sole tre persone, violazioni in quanto tali di non eccezionale gravità e peso in relazione sia alle pene edittali sia alle aspettative delle parti lese sia alle esigenze dell’istruttoria dibattimentale così come prevedibile’.
Ovviamente non fui ascoltato, al cuor del Csm non si comanda; suppongo, ma per meri fatti concludenti, che la mia risposta sia stata severamente criticata seppure volesse solo essere lievemente provocatoria per l’orrore da me provato per quel trattamento ad personam.
Immagino che l’episodio possa farvi sorridere ma a me ha fatto venire in mente un qualcosa di più complesso che devo dire mi turba e mi ferisce. Penso che questo tipo di atteggiamento, il voler considerare ‘delicato’ un processo solo perché riguarda una persona particolare, sia veramente quell’atteggiamento ad personam che costituisce uno dei mali che stanno distruggendo l’efficienza e la credibilità della magistratura”.
Un dato ulteriore per chiudere il capitolo, ricordato ieri dal nostro Ermes Antonucci: nel corso della sua vita, Silvio Berlusconi è stato imputato complessivamente in trentasei procedimenti penali, ciascuno con i vari gradi di giudizio, neanche fosse Al Capone. Solo uno si è concluso con la condanna. Serve altro?
Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 13 giugno 2023.
Una guerra politico-giudiziaria durata più di 30 anni con un'unica battaglia persa, quella della condanna nel processo Mediaset a 4 anni, di cui tre condonati ed il resto trascorsi in affidamento ai servizi sociali, per la quale subì anche l'umiliazione della decadenza dal seggio del Senato e della incandidabilità per la legge Severino. Poi una lunga serie di proscioglimenti, assoluzioni e prescrizioni, talvolta grazie a leggi critiche perché ad personam e in due casi per amnistia. «La magistratura di sinistra vuole farmi fuori», ha detto più volte.
Nel 2011 aveva rivelato che i processi gli erano costati un miliardo (compresi i circa 500 milioni del Lodo Mondadori). Somma che nei 12 anni successivi deve essere ulteriormente accresciuto, basti pensare ai soli processi Ruby uno e ter in cui è stato assolto.
Un esercito Sono più di un gruppo di avvocati, tra i più quotati e pagati del Paese, che hanno lavorato per Berlusconi e per le sue società. Centinaia e centinaia i magistrati, gli investigatori, i testimoni, gli indagati e gli imputati che sono stati coinvolti nelle udienze. «I magistrati hanno sempre avuto per me un'ossessione patologica, prima quando ero un imprenditore di successo, un astro nascente a Milano, e poi le accuse si sono moltiplicate quando sono diventato presidente del Consiglio», dichiara il Cavaliere nel 2015.
«Mio padre è l'uomo più perseguitato del mondo, con 86 processi e più di 4.000 udienze», protesta la figlia Barbara il 15 febbraio 2023 dopo l'assoluzione nel primo grado del Ruby ter.
(...)
L'avviso di garanzia a Napoli I guai veri cominciano con il famoso avviso di garanzia notificato dal pool Mani pulite il 22 novembre 1994 mentre, appena sceso in politica e vinte le elezioni con la sua Forza Italia, presiede a Napoli il vertice Onu sulla criminalità transnazionale. È il punto di rottura, lo spartiacque dopo il quale la giustizia diventa il terreno di scontro che vede lui da una parte e dall'altra la sinistra e una fetta consistente della magistratura. Nell'inchiesta per corruzione l'allora premier è accusato di aver versato anni prima tangenti ad ufficiali della Guardia di Finanza che avevano eseguito delle verifiche fiscali in quattro società del suo gruppo imprenditoriale. Condannato nel 1998 in primo grado a 2 anni e 9 mesi di reclusione, prescritto in Appello nel 2000, Berlusconi è assolto definitivamente in Cassazione l'anno dopo.
All Iberian Il primo troncone del processo All Iberian terrà banco sui giornali per molti anni. Nel 1996 Berlusconi viene accusato di aver finanziato illecitamente tra il 1991 e il 1992 con 21 miliardi di lire il Psi di Bettino Craxi attraverso la società off shore All Iberian. Dopo la condanna in primo grado a 2 anni e 4 mesi, in appello (nel 1999) e in Cassazione (2000) viene prosciolto per intervenuta prescrizione. Nell'All Iberian 2, invece, la Procura di Milano lo accusa di aver corrotto con 600 mila dollari l'avvocato inglese David Mills affinché disse il falso nel procedimento per le tangenti Gdf e nel primo All Iberian.
Mills, che durante questo processo si separerà dalla moglie Tessa Jowel, che allora era ministro del governo di Tony Blair, è condannato a 4 anni e mezzo, ma ottiene la prescrizione nel 2012. Allo stesso modo si chiude quell'anno il processo al Cavaliere accusato della corruzione dell'avvocato che era stato arrestato nel 2008 dal Lodo Alfano, norma che prevedeva la sospensione dei processi per le quattro più alte cariche dello Stato, poi bocciata dalla Corte costituzionale dopo che aveva infiammato lo scontro politico.
Consolidato Fininvest Ma una nuova inchiesta è già matura: quella sul bilancio consolidato della Fininvest. L'ipotesi era che fossero state impiegate società estere del gruppo Fininvest per gestire circa 1.500 miliardi di lire fuori dal bilancio consolidato per una serie di scopi, come aggirare la legge Mammì sulla regolamentazione del sistema televisivo, coprire le perdite e pagare in nero calciatori e atleti della galassia sportiva che allora faceva parte dell'impero berlusconiano. Bisogna attendere il 2005 per vedere la fine del processo di primo grado a Milano e il proscioglimento di Silvio Berlusconi «perché il fatto non è più previsto come reato» dopo che il suo governo aveva depenalizzato il falso in bilancio, una legge che aveva portato al calor bianco la temperatura della politica.
La condanna e l'affidamento La condanna nel processo Mediaset è una ferita che non si è mai rimarginata per il Cavaliere, costretto a scontare l'anno residuo in affidamento ai servizi sociali recandosi, tra aprile 2014 e marzo 2015, in una casa di cura per anziani a Cesano Boscone, dove si presenta una volta alla settimana protetto dalla scorta ed inseguito dai giornalisti. Un'indagine enorme che nasce dalla vicenda della All Iberian e per la quale nella primavera del 2005 viene chiesto il rinvio a giudizio per una serie di imputati.
Riguarda i fondi neri, approvati su due società off shore, provenienti dalla compravendita dei diritti dei film di case cinematografiche americane destinate alle tv del Biscione. La prima sentenza termina ad ottobre 2012 con la condanna a 4 anni di Berlusconi e l'applicazione di tre anni di indulto, confermata nel 2013 in Appello e in Cassazione. A novembre 2013 essa porta alla decadenza da senatore e all'affidamento in prova. Nel 2018 Berlusconi ricorre alla Corte di Strasburgo dopo aver ottenuto la riabilitazione. Lodo Mondadori e Sme Ci sono poi i processi sulla corruzione di alcuni giudici romani per la vendita del colosso alimentare Sme e per il Lodo Mondadori dai quali uscirà indenne. Assolto nella vicenda Sme dall'accusa di corruzione fino in Cassazione (2007), per il Lodo Mondadori, dove è imputato con l'ipotesi di aver comprato nel 1991 la sentenza sulla proprietà della casa editrice, dopo il proscioglimento in udienza preliminare a Milano il processo si esaurisce per prescrizione in appello e in Cassazione.
Nel 2013, però, la causa civile promossa dalla Cir assegna alla società di Carlo De Benedetti un risarcimento di 500 milioni di euro a carico di Fininvest. Un boccone amaro difficile da digerire.
I processi Ruby Anche il fascino femminile è stato fonte di grattacapi giudiziari per Berlusconi. A Bari è in piedi il processo per induzione a mentire e per aver pagato, dice l'accusa, le bugie dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini agli inquirenti che indagavano sulle escort portate nelle sue residenze. Ma sono i processi Ruby sulle «cene eleganti» ad Arcore mentre era premier ad indignare lui ei parlamentari di FI che nel 2013 arrivano addirittura a manifestare nel palazzo di giustizia di Milano mentre Berlusconi è ricoverato al San Raffaele per l'uveite (i problemi di salute degli ultimi anni hanno causato il rinvio di parecchie udienze).
Nel Ruby uno è imputato di prostituzione minorile e concussione per aver avuto rapporti nel 2010 con l'allora 17enne Karima «Ruby» El Mahroug e per aver telefonato alla questura di Milano, dove la ragazza era stata portata dopo un fermo per furto, dicendo che era la nipote del premier Mubarak e mandando Nicole Minetti a riprenderla. Condannato in primo grado a 7 anni, viene assolto in Appello e Cassazione. Finisce di nuovo imputato per corruzione in atti giudiziari nel Ruby ter con l'accusa di aver pagato i silenzi e le falsità della marocchina e di una trentina di altri ospiti nelle serate del bunga bunga a Villa San Martino.
«Sto mantenendo le ragazze. Non pago, aiuto. Mi sento responsabile perché hanno commesso l'unico reato di accettare un invito a cena a casa del presidente del Consiglio e sono state rovinate», aveva detto ad aprile 2013 rivelando i sussidi da 2.500 euro in un'udienza del processo Ruby. Secondo i pm milanesi, le ospiti gli sono costate più di due milioni. Il 16 febbraio viene assolto, come prima era avvenuto anche nei processi-satellite a Roma ea Siena. Mi sento responsabile perché hanno commesso l'unico reato di accettare un invito a cena a casa del presidente del Consiglio e sono state rovinate», aveva detto ad aprile 2013 rivelando i sussidi da 2.500 euro in un'udienza del processo Ruby.
«Berlusconi come Enzo Tortora perseguitato dalla magistratura criminale». VITTORIO SGARBI su Il Quotidiano del Sud il 13 Giugno 2023
Vittorio Sgarbi senza mezzi termini: «Berlusconi vittima di ingiustizia per questo, dico che Silvio Berlusconi è un secondo Enzo Tortora».
Ho il ricordo di una persona di cui sono stato più vicino alla dimensione privata che a quella politica. Ed è stato perseguitato da una magistratura criminale che ha reso politico il privato. Per questo, dico che Silvio Berlusconi è un secondo Enzo Tortora.
Non sarei stato così vicino a lui se non fosse stato vittima di ingiustizia. Ha vissuto degli anni difficili perché quello che per chiunque è normale, per lui era considerato reato. E non potevo non essere vicino a lui perché l’inchiesta che lo ha investito è stato uno dei delitti di una politica giudiziaria, di una magistratura senza regole che gli ha reso difficile la vita. Creare dei reati finti per la sua attività politica è una vergogna insopportabile. Il mio ricordo è quello di un amico che ha fatto cose giuste ed è stato trattato come chi abbia commesso chissà quali delitti.
GARANTE DEMOCRATICO AGGREDITO DAI GIUDICI
Non doveva morire. È stato il garante della democrazia in Italia in un momento difficile, in cui l’azione giudiziaria si stava configurando come una dittatura che ha cancellato letteralmente i partiti. Tra il ‘92 e il ‘93 i partiti, non i colpevoli di reati, sono stati incriminati, e sono spariti. La magistratura ha stretto un patto con la sinistra che l’ha rappresentata. Berlusconi ha fatto la resistenza. Grazie a lui dalla Repubblica dei partiti si è evitata la dittatura, stabilendo il bipolarismo sul quale oggi si è stabilizzata la nostra democrazia. Non gli è stato perdonato.
Ed è iniziata subito una aggressione giudiziaria senza precedenti e senza fondamento. Le inchieste contro di lui erano tutte inchieste politiche fino a quella infame e subdola che ha investito il suo privato per screditarlo politicamente.
Un’azione intollerabile che il presidente della Repubblica avrebbe dovuto denunciare e fermare. Un’azione così scandalosa che dura anche oltre la sua morte, anche se Berlusconi è morto innocente . Ma sempre sotto inchiesta. Intollerabile. Dopo il caso Tortora lo scandalo più grande di un potere giudiziario che si fa potere politico.
Era un uomo forte, libero e innocente. Agiva in nome della vitalità e dello slancio. Hanno cercato senza riuscirci di abbatterlo – quindi era un vittorioso: ha vinto la battaglia ma ha ha perso la vita. La sua è stata una vita tormentata inutilmente.
L’INTUIZIONE SULLA MAGISTRATURA
L’intuizione sua più importante è stato capire che la politica italiana era vittima della magistratura. L’origine di tutto è stato Tangentopoli, il 1992. Anche Craxi, a sua volta, è stato al centro di una azione giudiziaria che si è fatta partito politico. A parte i corrotti, che c’erano, la magistratura ha cancellato i partiti politici con un vero e proprio colpo di Stato. La prima reazione è stata quella di Berlusconi. Ha tentato di resistere, stabilendo il bipolarismo. La storia è molto complicata, ma parte da un’aggressione politica che ha cancellato i partiti. E alla fine, Berlusconi ha vinto.
Un errore fu, alla fine, pensare di poter diventare presidente della Repubblica. È evidente che lui avrebbe dovuto indicare, a quel punto della sua vita, un presidente – ad esempio, Draghi. Ma si è chiuso su se stesso, perché cercava un risultato conclusivo che avrebbe anche cancellato tanti anni di pena. Io l’ho anche aiutato, ma gli ho fatto capire che non c’erano le condizioni.
Oggi succede che si dovrà creare un’area sostitutiva di Forza Italia con Forza Italia. Non sarà il partito che c’era con lui, ma sarà una grande area che rilancia un mondo di valori, e tiene insieme una quantità di persone che sono non di destra, ma di centro. Potrebbe essere il trionfo postumo di Silvio Berlusconi.
Il mio ricordo più bello con lui sono i viaggi. Ne abbiamo fatti tanti, anche per inaugurazioni incredibili. Quando inaugurammo Caravaggio a Milano, al Museo Diocesano, lui intervenne e parlò come se fosse un critico d’arte. Superbo. Sentendo la mia introduzione, capì i passaggi principali e li interpretò. Era un amico gentile, buono, riconoscente. Ci siamo divertiti.
Siamo stati gli ultimi protagonisti di “Amici miei”.
Berlusconi, quella stretta di mano tra il Cavaliere e Borrelli prima della «guerra». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023
Quando Berlusconi si perse nel labirinto del tribunale e per caso si imbattè nel capo del pool di Milano. Ma da allora lo scontro tra politica e giustizia ha paralizzato l’Italia.
Con in testa un miraggio di riforma liberale, con in pugno un esposto contro i giudici di Mani pulite: una brutta mattina Silvio B. si perse come una creatura di Kafka nei meandri del palazzo di giustizia di Milano e, perdendosi, incontrò il procuratore Borrelli.
La potremmo raccontare così, la scena che blocca i nostri successivi trent’anni in un fermo immagine di forcaioli e garantisti, berlusconiani e antiberlusconiani, di noi e loro. Piena com’è di simboli, gravida della nostra occasione perduta.
Mancano dieci giorni al voto cruciale del 27 marzo 1994, quello della sorprendente ascesa di un partito che non c’era, Forza Italia, e del suo inventore, Berlusconi. Il pool picchia già da due anni sui grandi gruppi imprenditoriali, la Fininvest non fa eccezione. Prima, Di Pietro e i suoi arrestano Paolo, il fratello minore di Silvio: il Cavaliere lo difende ma ha una reazione misurata, non vuole scontri a ridosso delle urne, «l’accadimento mi ha molto addolorato, ma spero di poter continuare ad avere fiducia nella magistratura», dice. Poi, il 9 marzo, quelli puntano a Dell’Utri e Publitalia. E qui Berlusconi perde le staffe, come se il buon Marcello fosse un suo arci-fratello o un nervo scoperto, chissà: «Il pool ha due anime», tuona, «una di giustizia e una di azione e repressione politica!». Nella seconda schiera mette i pm che considera «di sinistra», Gherardo Colombo in testa: in nuce accarezza già la strategia di dividere il gruppo degli «eroi popolari», magari tirandone qualcuno sul suo carro e dannando gli altri. Nel frattempo, fa un esposto al Csm in cui invoca un intervento su Mani pulite. E, con quell’esposto, accompagnato da un assistente più spaesato di lui, lo ritroviamo smarrito nel labirinto del palazzo di giustizia, vagando verso la Procura generale alla ricerca della stanza giusta. Saverio Borrelli sbuca da un angolo e lui gli si presenta compito: «Buongiorno, dottor Borrelli, sono Silvio Berlusconi».
«Eh, la conosco, la conosco benissimo!», è la replica del procuratore, pure cortese ma densa di sottintesi meno rassicuranti.
«È stato uno sfogo, sa… non c’è nulla di personale».
«Sono convinto che lei non intendesse condurre una guerra personale contro la Procura di Milano».
Segue stretta di mano: e, con essa, comincia la guerra, personalissima, tra Cavaliere e giudici. Il progetto, all’origine, era un altro. «Almeno a parole, voleva fare un partito liberale di massa», ricorda Giuliano Urbani, uno dei professori che Berlusconi si mise accanto in quegli inizi. La garanzia starebbe proprio nella qualità di quei nomi: con Urbani, Antonio Martino, Marcello Pera, Saverio Vertone, Lucio Colletti, un gruppo di intellettuali di origini assai diverse ma accomunati dall’idea che l’Italia potesse voltare pagina. Ma il sogno sfuma presto. «A un crescendo rossiniano di informazioni di garanzia (…) seguì una reazione di leggi cosiddette ad personam che i maligni ritennero ispirate dal solo intento di affrancare il premier dalle insidie della giustizia», scrive Carlo Nordio, attuale guardasigilli, non proprio un comunista. Berlusconi ha altre ambasce, insomma, che collocare il Paese sulle orme di Stuart Mill.
È una lunga linea di faglia, questa con la giustizia, che va seguita dal principio. Dando a Cesare quel che è di Cesare, nel senso di Previti. Definito dai maligni l’«avvocato degli affari illegali di Silvio», «Cesarone» sa sussurrare ai giudici. E s’incarica di inseguire il vero oggetto del desiderio berlusconiano: Di Pietro. Presi Gullit e Van Basten per un grande Milan, Silvio si convince che gli servono i «destri» del pool, Davigo e Di Pietro, per un governo a prova di pubblici ministeri. Il primo declina subito l’invito e induce l’amico Tonino a farlo a sua volta. Ma col pm più famoso (e ambizioso) d’Italia non finisce qui.
Il 7 maggio Previti riesce a combinare nel suo studio romano di via Cicerone l’incontro fatale (a dir poco inopportuno, visti i ruoli). Di Pietro ha ancora nelle orecchie la moral suasion di Borrelli e Davigo e rifiuta una poltrona da ministro degli Interni. Ma Berlusconi sostiene con Bruno Vespa che Tonino fosse molto intrigato: «Io e lei potremmo prendere l’80 per cento dei voti», gli avrebbe detto.
Chissà. Certo, il filo sottile non si romperà mai davvero. Neppure con l’invito a comparire del 21 novembre a Napoli, che Berlusconi vive quasi come un attentato e che, in qualche modo, sarà la premessa, benché non la causa provata, dell’uscita di Di Pietro dal pool, sempre dopo acconcia telefonata del sussurratore Previti. Disarcionato dal ribaltone di Bossi, il Cavaliere continua a farsi usbergo dietro l’ormai ex eroe popolare. Lo invita a Villa San Martino e poi dice in tv: «Mi ha confermato che nel modo più assoluto non ci sono prove a mio carico», sollevando lo sdegno di Borrelli, che accuserà di «defezione» il suo sostituto di punta d’un tempo.
Ma ormai altri sostituti e altre rogne s’approssimano. Dalla Sicilia torna carica come una molla Ilda Boccassini, che diventerà la personale Erinni di Silvio, suscitandogli contro nel tempo figure femminili micidiali come Stefania Ariosto o Ruby Rubacuori.
Processi e accuse s’accumulano. Barbara, cuore di figlia, ne conta ottantasei. La tentazione di difendersi da essi e non dentro di essi dev’essere irresistibile. Scrive ancora Nordio che Berlusconi, pur forte di un’amplissima maggioranza, «non approfittò per riformare la giustizia secondo quell’ordinamento liberale che aveva sempre professato (…). Non provò neanche a ridimensionare l’esorbitante figura del Pm (…). In compenso inondò l’ordinamento di leggi asseritamente garantiste ma sostanzialmente inutili. Avemmo così… la legge Cirami, la Cirielli, le Rogatorie. Gli avversari ebbero buon gioco a denunciare questi suoi tentativi di favorire con leggi, che dovrebbero essere generali e astratte, interessi personali e concreti». Per trent’anni Silvio B. rimase incastrato nel labirinto della giustizia. E in quel corridoio del Palazzo milanese noi ci siamo persi con lui.
Berlusconi nel mirino dei magistrati: solo dopo l'ingresso in politica... Filippo Facci su Libero Quotidiano il 13 giugno 2023
Questo epitaffio giudiziario di Silvio Berlusconi è stato scritto a Milano Due, dove tutto davvero incominciò - il salto economico, la tv - e dove vissero generazioni poi abbandonate dai figli, i quali, cresciuti, presero ad andarsene salvo tornare ad abitarvi negli ultimi lustri: perché i genitori erano morti ma anche perché si accorsero che in quel lusso verde e demodè, di cui Berlusconi aveva curato ogni dettaglio, si stava proprio bene. Milano Due però resta anche l’inizio e la fine dell’indubbio accanimento giudiziario (consacrato, innegabile, quasi un patrimonio nazionale riconosciuto) che varie procure italiane riservarono in pratica a ogni opera, impresa, iniziativa: a partire, retroattivamente, da Milano Due e dai capitali impiegati per finanziarla, che, secondo spifferi, calunnie, invenzioni, film e indagini (mai assurte a dignità di processo) sarebbero provenuti dal Sud e da Cosa Nostra, o da imprenditori in zona, o secondo altri dalla ‘ndrangheta. Se ne sta ancora riparlando in un’indagine in piedi a Firenze che annovera anche il solito concorso nelle stragi del 1993. Altri procedimenti, di cui è anche complicato far di conto, sono stati archiviati a Palermo e a Caltanissetta negli ultimi 25 anni: ma se il punto fosse questo, cioè il dare i numeri della contabilità giudiziaria di Berlusconi, ci sarebbe solo imbarazzo nel scegliere il criterio con cui calcolarla.
PERSECUZIONE - Lui, Berlusconi, sosteneva di aver subito 136 processi (per 3672 udienze) perché teneva conto di tutti i capi d’imputazione presenti anche all’interno di un singolo processo: e chi lo trovasse un criterio vittimista sappia che è lo stesso adottato dall’ex pm Antonio Di Pietro quando alla fine degli anni Novanta subi «42 processi» (diceva lui) che in realtà furono zero perché furono fermati in una decina di udienze preliminari. Nel caso di Berlusconi, ieri l’Ansa diceva che il numero «supera di gran lunga quota 30», il Fatto Quotidiano ne citava 36 (compresi due in corso, che andranno in estinzione) e il numero più attendibile, chiamandoli correttamente «procedimenti» e non processi (che implicano un rinvio a giudizio), appare 34: 13 tra sentenze di assoluzioni e proscioglimenti, 10 archiviazioni, 8 prescrizioni e 2 amnistiati. Ha avuto una sola, nota condanna definitiva nel 2013: 4 anni per frode fiscale (3 coperti da indulto) per una compravendita di diritti televisivi da presidente del Consiglio.
Decadde da senatore (Legge Severino) e scontò 10 mesi e mezzo di affidamento ai servizi sociali; la sua incandidabilità durò sei anni, e nel 2018 fu riabilitato dal Tribunale di Sorveglianza.
Calcolando dunque che Silvio Berlusconi è morto da vivo e di malattia, oltreché da incensurato perché riabilitato, e poi da senatore della Repubblica e da riferimento della vita politica e governativa, si potrebbe puerilmente dirlo: ha vinto lui.
Calcolare il prezzo di tanta resistenza è però più difficile che conteggiare i processi: ancora nel 2017 Berlusconi diceva che il difendersi gli era costato «770 milioni in avvocati» e nel 2011 l’aveva anche tradotto in lire: «600 miliardi». Ma in termini di consunzione psicofisica, e di vita e tempo perso, siamo all’incalcolabile. Anche una gelida elencazione di 29 annidi azioni mediatico-giudiziarie direbbe poco, e annoierebbe molto: quindi scegliamo di campionare un solo periodo, ossia il primo, quando annunciò la «discesa in campo» sino ai mesi successivi quando vinse le prime elezioni. Basta e avanza.
Si deve tener conto che dal 26 gennaio 1994, giorno in cui Berlusconi registrò il suo famoso videomessaggio del «miracolo italiano», il sostegno suo e delle reti Fininvest all’azione della magistratura non era mai stato in discussione. C’erano stati due micro-episodi di finanziamenti a partiti (al Psdi e alla Dc) che non ebbero seguito: da qui il sospetto, circolato per anni, che ai magistrati non interessasse Berlusconi anche perché viceversa interessava il sostegno delle sue televisioni: i telegiornali che più martellavano sugli arresti erano i suoi, e più di tutti il Tg5 di Enrico Mentana. Poi, dopo l’annuncio del 26 gennaio, cambiò tutto, anche se, proprio quel giorno, un sondaggio del Tg3 dava Forza Italia solo al 6 per cento. L’11 febbraio però arrestarono suo fratello Paolo Berlusconi (poi assolto) che era anche proprietario del Giornale: si era messo a disposizione tre giorni prima dell’arresto, ma una sua presentazione spontanea non interessò. La conduttrice del Tg2 delle 12 fece casino, confuse i nomi: annunciò l’arresto di Silvio. In due note, l’allora Pds disse che «Si vede che le fortune di Berlusconi non sono nate nel libero mercato» e che «l’arresto di Paolo Berlusconi comincia a svelare l’intreccio tra la famiglia Berlusconi e Tangentopoli». Ma Silvio non attaccava: al Maurizio Costanzo Show, ancora la sera del 22 febbraio, disse che avrebbe voluto nella sua squadra Antonio Di Pietro.
PROCURE E VELINE - Il 9 marzo tuttavia ci fu il «quasi» arresto di Marcello Dell’Utri, che fu impedito da un’anticipazione galeotta del Tg5, che fu messo in croce anche se anni dopo, nel 2002, il gip dell’inchiesta dichiarerà che proprio quel giorno si rese conto che «determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm». E quando Berlusconi cominciò a lamentarsi, il procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli disse pubblicamente: «Questa iperagitazione del Cavalier Berlusconi non so come interpretarla: si può prestare a molte interpretazioni, non tutte nel senso dell’assoluta tranquillità di coscienza da parte di chi si agita». L’editoriale di Repubblica titolò «Peggio di Craxi». E lo stesso quotidiano, il 19 del mese, diede spazio al pentito Salvatore Cancemi circa la notizia (in realtà vecchia, già pubblicata anche in libri) che il mafioso Vittorio Mangano negli anni Settanta era stato fattore nella villa di Arcore. Il verbale di Cancemi però ora era stato trasmesso da Palermo a Milano solo il 18 febbraio precedente, per finire su Repubblica («Berlusconi indagato per mafia») giusto una settimana prima del voto. Leoluca Orlando della Rete disse a proposito che «i voti della mafia andranno a Forza Italia e a Berlusconi».
AZZURRI NEL MIRINO - Il 21 marzo 1994 Augusto Minzolini della Stampa incrociò il pidiessino Luciano Violante, che chiacchierava con altri cronisti, e poi riportò (lui solo) alcune frasi dell’allora presidente dell’Antimafia che associavano Berlusconi e Dell’Utri a un’indagine della Procura di Catania su mafia e armi e stupefacenti. Ai tempi Minzolini era considerato il più bravo retroscenista italiano e non lavorava per la Fininvest: Violante dovrà dimettersi dall’Antimafia, ma il giorno dopo, in un comizio a Palermo, battè forse un record di durezza: Berlusconi «ripete la parola d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. È una chiamata alla mafia, quella che Berlusconi ha fatto». E mentre Violante pronunciava quelle parole, un pm di Palmi faceva perquisire dalla Digos la sede romana di Forza Italia per avere l'elenco dei presidenti dei Club e dei candidati alle elezioni: era un’inchiesta sulla massoneria.
Questo mentre a Milano degli agenti di polizia giudiziaria chiedevano gli elenchi dei presidenti di tutti i club.
Il giorno dopo ancora, 24 marzo, lo stesso pm di Palmi disse al Csm che la massoneria «appoggia Forza Italia» e questa sua dichiarazione fu sostenuta da Giovanni Palombarini di Magistratura democratica e da Tina Anselmi, ex presidente della Commissione P2, la quale si chiese inoltre: «In che misura l’ingresso di Berlusconi nella P2 e la sua presenza nel mondo finanziario sono due percorsi paralleli?».
EDITORIALISTI SMENTITI - Mancavano solo tre giorni al voto. Curzio Maltese sulla Stampa: «I toni di Berlusconi sono da tema scolastico da quarta elementare». Giampaolo Pansa sull’Espresso: «Vinceranno i progressisti... Che errore, Sua Emittenza! Potrà capitarle di essere sbranato... Ha presente il suo amichetto Bettino Craxi? Temo che a lei andrà molto peggio». Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: «Berlusconi si illude di essere il medico: viceversa, proprio lui è la malattia».
Berlusconi in sostanza era un problema superato in partenza. Il quotidiano La Voce, nel giorno delle elezioni, il 27 marzo 1994, riproporrà il vero nodo: «Si gioca sull’accoppiata che vede Prodi a Palazzo Chigi e Ciampi al Quirinale». E nessuno saprà mai se tutto quel bailamme giudiziario, allora e sempre, rubò o regalò voti a Silvio Berlusconi: ma i voti arrivarono lo stesso. La coalizione di Berlusconi superò il 40 per cento. Poi il Cavaliere cadrà, si rialzerà, cadrà ancora e si rialzerà infinite volte. Sarà durissimo a morire, e gli sopravviverà il suo mondo.
I processi a Berlusconi, l’avversario politico da eliminare per via giudiziaria. Rita Cavallaro su L'Identità il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi, così tanto amato dagli italiani e così tanto perseguitato dalla giustizia. Nei trent’anni della sua discesa in campo, avvenuta nel 1994, il leader azzurro è stato imputato in più di novanta processi. Fascicoli sparsi tra le procure d’Italia, che hanno contestato al Cavaliere una lunga sfilza di reati. Dalla corruzione alla concussione, dal falso in bilancio al vilipendio all’ordine giudiziario, dalla prostituzione minorile fino al concorso in strage. Le udienze contro Silvio hanno superato la cifra astronomica di oltre 3.800, in un accanimento giudiziario di vasta portata, pagato a caro prezzo con i soldi degli italiani che, nelle urne, inserivano la scheda con il voto per il Cav per poi scoprire, puntualmente, che il suffragio universale è solo un’illusione, se basta un pm di turno per rovesciare la democrazia.
Oltre 130 consulenti e 50 avvocati
Berlusconi ha speso una fortuna per dimostrare la sua estraneità a tutte le accuse che gli sono state mosse: lui stesso si è lamentato più volte con i suoi fedelissimi di aver dovuto assumere oltre 130 consulenti tecnici e una cinquantina di avvocati per affrontare il calvario giudiziario. Che, a lungo andare, ha avuto ripercussioni anche sulla sua salute. E perfino quando è finito in ospedale rischiando la vita, i suoi odiatosi lo hanno accusato di usare i ricoveri per far saltare le udienze, magari per puntare alla prescrizione.
Una sentenza pilotata
Nonostante i tentativi di quello che Berlusconi ha sempre definito il partito delle toghe, una sorta di strumento per eliminare per via giudiziaria l’avversario imbattibile alle elezioni, tutti i procedimenti contro il leader azzurro si sono chiusi con l’assoluzione o la prescrizione. Tranne uno. Non quelli sul bunga bunga nelle cene eleganti con le Olgettine, denominati Ruby, Ruby bis e Ruby ter, ma quello Mediaset sui diritti tv, finito con una condanna a quattro anni per frode fiscale sulla quale, però, è rimasta l’ombra della sentenza pilotata, come dichiarato in un audio choc dal giudice Amedeo Franco, relatore del dispositivo. È così che è stato fatto fuori il presidente di Forza Italia, decaduto da senatore sulla base della legge Severino. I suoi detrattori erano convinti di averlo seppellito, ma Silvio non si era mai fatto da parte. Aveva continuato a guidare il suo partito, forte dell’affetto dei suoi elettori, e alle ultime elezioni era riuscito a tornare sullo scranno del Senato, dal quale aveva passato il testimone della leadership del centrodestra a Giorgia Meloni. E oggi il suo testamento aprirà probabilmente una resa dei conti in Forza Italia.
Dagospia il 12 giugno 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1
Berlusconi? “Quando si perde un avversario e come perdere un pezzo di se stesso. Gli feci due interrogatori importanti: il primo nel processo Dell’Utri e una seconda, più distesa, nel ruolo di testimone, e fu un incontro cordiale”. Lo racconta a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l’ex magistrato Antonio Ingroia, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.
“E poi una volta Berlusconi mi suggerì: Ingroia, penso che lei abbia la stoffa per fare il politico, lasci la magistratura e segua questa strada”. Il Cavaliere le mancherà? "Sì - ha spiegato Ingroia a Rai Radio1 - e credo che mancherà anche all'Italia. Resteranno però delle tracce e dei segni che non faranno bene al nostro Paese."
Estratto da liberoquotidiano.it il 12 giugno 2023.
Luigi De Magistris si affretta nel fare le condoglianze alla famiglia di Silvio Berlusconi, morto questa mattina 12 giugno a 86 anni.
Poi però passa all'attacco: "Come una livella Berlusconi immortale lascia la vita terrena.
Sul piano umano condoglianze e vicinanza ai suoi cari, sul piano politico e pubblico la fiducia è in un’analisi oggettiva e che non si costruisca una specie di messia o di beato adorato da apostoli e discepoli", scrive in un post pubblicato sul suo profilo Twitter l'ex sindaco di Napoli e leader di Unione Popolare ed ex sindaco di Napoli. Parole che si commentano da sè. […]
Silvio Berlusconi, presunto innocente: come funziona il potere di Sua Emittenza. Claudio Rinaldi su L'Espresso il 7 gennaio 2022.
Imperiale e discreto, duro e candido, spietato e amichevole. Così ama presentarsi il Cavaliere. Vuole essere in cielo, in terra e in ogni luogo. Il ritratto datato 1993 dell’imprenditore che non era ancora entrato in politica ma preparava la sua “dittatura democratica”
Dittatura democratica. Questo caso consiste, innanzitutto, nella strabiliante posizione di predominio che Berlusconi occupa nel sistema italiano dei mass media: il suo gruppo controlla direttamente quasi la metà della audience tv un terzo delle vendite di periodici un quarto del mercato dei libri; nemmeno nel Terzo mondo è consentito a un unico soggetto di esercitare un simile potere sulla produzione delle notizie e delle idee. Ma il caso Berlusconi va al di là di queste nude percentuali. Esso consiste anche nel modo in cui Berlusconi esercita il suo strapotere. Sua Emittenza, come il padreterno del vecchio catechismo, è in cielo, in terra e in ogni luogo. Assorbe una quota spropositata del tempo degli italiani. Li segue dovunque essi vadano, gentile ma ossessivo. Più spesso li precede. Se poi nell’irresistibile marcia si profila un intoppo, un passo indietro, una rinuncia, allora smette di essere gentile. Perché vuole tutto. Quello di Berlusconi e uno dei poteri più diabolicamente intrusivi che si siano mai conosciuti.
La sciagurata arringa di lunedì 31 maggio al “Processo del lunedì” non è una storia di nervi saltati. È un esempio da manuale di questa folle ubiquità. Berlusconi non solo usa fino in fondo i suoi settimanali e le sue reti tv per le proprie battaglie economiche e politiche. Pretende anche di intasare i canali degli altri. Di farlo subito, in diretta, non appena lo punge vaghezza. Per coprire di insulti («facce da federali», «professionisti della mistificazione», «nipotini di Stalin») le stesse persone che costringe a dargli ospitalità. Il tutto su toni che nel volgere di 18 lunghi minuti variano dall’indignato all’amareggiato al contrito, secondo i dettami della tattica. Così ama presentarsi il potere berlusconiano: imperiale e discreto, duro e candido, spietato e amichevole. Un fenomeno raro, anzi unico. Indescrivibile, se non con ricorso ai concetti-limite del pensiero politico del Novecento: alla «dittatura democratica» di Lenin, alla «tolleranza repressiva» di Herbert Marcuse.
* Questo articolo è stato scritto da Claudio Rinaldi il 13 giugno 1993. Rinaldi è nato il 9 aprile 1946. Ha diretto L’Europeo, Panorama e, dal 1991 al 1999, L’Espresso. Sul nostro settimanale ha guidato una memorabile campagna con editoriali e inchieste e ha denunciato il rischio Berlusconi per la democrazia italiana. È morto il 4 luglio 2007
Francesca Brunati e Igor Greganti per l’ANSA il 12 giugno 2023.
Supera di gran lunga quota 30 il numero dei processi in cui Silvio Berlusconi è stato imputato. Processi, sparsi in tutta Italia, nei quali gli sono stati contestati reati che vanno dalla corruzione al concorso in strage, dal falso in bilancio alla concussione, fino al vilipendio all'ordine giudiziario e alla prostituzione minorile e che, eccetto uno in cui è stato condannato, si sono chiusi o con il non doversi procedere per prescrizione o con l'assoluzione.
Oppure con un'archiviazione o il proscioglimento in fase di indagine o in udienza preliminare. Facendo un quadro della storia giudiziaria del leader di Forza Italia, cominciata prima della sua decisione di scendere in politica e poi proseguita anche quando ha rivestito ruoli pubblici, l'unica condanna diventata definitiva è del 2013: 4 anni di carcere, 3 dei quali coperti da indulto, per la frode fiscale da 7,3 milioni di euro commessa con la compravendita dei diritti tv Mediaset quando era presidente del Consiglio. Condanna che lo ha costretto a chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali di 10 mesi e mezzo, al netto dello sconto per la liberazione anticipata, e lo ha portato alla decadenza da senatore per via della Legge Severino: la sua incandidabilità è durata sei anni, fino a quando, nel 2018, il Tribunale di Sorveglianza lo ha riabilitato.
Gli altri processi invece hanno seguito strade diverse: alcuni sono terminati con l'archiviazione o il proscioglimento già in fase di indagine preliminare, come è accaduto in quelli in cui il suo nome è stato accomunato alla mafia (escluso quello che era ancora in fase di indagine a Firenze) o nel caso Mediatrade.
Oppure con l'assoluzione con formule qualche volta piena oppure dubitativa, come per uno degli episodi di corruzione contestati nel caso Sme/Ariosto, o con la prescrizione, complice sia la tecnica dilatoria usata dalla sua difesa o dai legali dei suoi coimputati, sia la concessione delle attenuanti generiche, sia qualche norma come la ex Cirielli.
Basti citare il procedimento (prescritto) con al centro la vicenda dell'avvocato inglese David Mills, da lui pagato, è stata l'ipotesi, per essere teste reticente davanti ai giudici che lo stavano giudicando per le "Tangenti alla Guardia di Finanza" - caso noto anche per l'invito a comparire comunicatogli a voce nel novembre 1994 a Napoli durante una conferenza dell'Onu che presiedeva come capo del Governo e finito con l'assoluzione "per non aver commesso il fatto" - e per il caso All Iberian chiuso nel 1999 con un "non doversi procedere" per prescrizione in secondo grado. In primo grado il Cavaliere era stato condannato a 2 anni e 4 mesi per il finanziamento illecito al leader del Psi Bettino Craxi.
Ma sul curriculum giudiziario di Berlusconi sono intervenute anche amnistie che, per esempio, hanno cancellato una presunta appropriazione indebita per la vicenda della villa di Macherio.
Oltre alla difficile causa di separazione e divorzio da Veronica Lario, i processi più odiosi per Silvio Berlusconi sono stati, non tanto quelli sulla ipotizzata corruzione delle toghe (per il Lodo Mondadori ha versato alla Cir di De Benedetti quasi 500 milioni di euro) o sulla compravendita dei senatori, ma quelli che hanno riguardato gli scandali sessuali, ossia quello che era ancora in corso per induzione a mentire nell'ambito del caso "escort" di Bari e il caso Ruby.
E' uscito con una assoluzione piena e definitiva nel filone in cui rispondeva di prostituzione minorile e concussione ed è stato scagionato anche nei processi di Siena, Roma e Milano in cui era accusato di aver pagato le sue giovani testimoni e alcuni dei suoi ospiti per raccontare ai giudici che quelle che erano andate in scena ad Arcore erano solo cene eleganti e non feste hard. Per quelle stesse accuse, infatti, anche i giudici milanesi a metà dello scorso febbraio nella tranche principale lo hanno assolto, assieme a Karima El Mahroug, l'ex Ruby Rubacuori, e a una schiera di cosiddette ex olgettine, per una questione giuridica che ha cancellato qualsiasi giudizio nel merito e ha reso un reato, la contestata corruzione in atti giudiziari, impossibile da configurare.
(ANSA il 12 giugno 2023) - "Un momento di tristezza infinita. L'orgoglio di essergli stato amico e la speranza di essere stato in grado di dargli serenità attraverso le positive definizioni dei vari processi che aveva deciso di affidarmi". Così l'avvocato Federico Cecconi, legale del Cavaliere negli ultimi anni, in particolare nei processi sul caso Ruby ter a Milano, Siena e Roma, da cui è stato assolto, commenta la morte di Silvio Berlusconi.
(ANSA il 12 giugno 2023) - "Ogni personaggio ha le sue luci e le sue ombre. Certamente non gli si può non riconoscere un bel grado di genialità perché cose positive, innanzitutto per quel che riguarda le sue imprese, le ha fatte.
Poi trovatemi una persona alla quale non si possa rimproverare questo o quello. Certamente l'uomo, tenendo conto anche da dove è partito, è un personaggio che i suoi talenti li aveva e li ha saputi spendere bene". E' quanto afferma l'avvocato Franco Coppi, storico difensore di Silvio Berlusconi commentando in tribunale a Roma la notizia della morte dell'ex premier.
Ricordando la figura di Berlusconi, Coppi ha aggiunto che era "una persona fondamentalmente ottimista, con dimostrazioni di fiducia verso l'operato dei suoi difensori". Il suo storico difensore ha rivelato inoltre che il suo ultimo incontro risale a qualche mese fa.
"Aspettavamo che si ristabilisse per fare il punto della situazione su quelle che erano le sue vicende giudiziarie, che a dire la verità si stavano piano piano chiarendo - ha aggiunto lasciando piazzale Clodio -.
Era rimasto l'appello della sentenza di assoluzione di Siena, poi non sappiamo se per l'assoluzione di Milano per Ruby Ter se sarebbe stato proposto l'appello o meno e poi tutte le voci correnti che non eravamo stati in grado di controllare circa un suo coinvolgimento, a nostro avviso poco probabile, a Firenze: noi su questo on avevamo avuto nessuna indicazione nè formale né sostanziale".
Coppi ha detto che con lui Berlusconi "non faceva riferimenti al mondo del calcio perché sapeva della mia fede romanista incrollabile. E non scendevamo mai su quel terreno". Il penalista, che in passato ha difeso Giulio Andreotti, ha detto che è "difficile immaginare due persone più diverse l'una dall'altra. L'unico tratto comune era che entrambi sono stati difesi da me".
La fucilazione di Berlusconi Silvio Berlusconi, maggio 1998. Panorama il 12 Giugno 2023
Come Eravamo Giuliano Ferrara La fucilazione di Berlusconi
Da Panorama del 25 giugno 1998
Separazione delle carriere dei magistrati? Diritti della difesa sullo stesso piano di quelli dell'accusa? Neutralità politica della giustizia? Parole gonfie ma un po' vuote, ridicolaggini, bandiere garantiste che garriscono inutilmente al vento mentre la solita combriccola, questa volta capitanata da un giudice che aspira a fare l'accusatore, prepara la fucilazione nella schiena dell'imputato Silvio Berlusconi. Ecco a voi lo straordinario e fantastico caso del processone All Iberian, la grande rappresentazione della giustizia come piace ai Francesco Saverio Borrelli, ai Gerardo D'Ambrosio e ai Francesco Greco: colpiscine uno per educarne cento. La storia è nota, ma quel che conta sono le sfumature. A un certo punto della vicenda infinita di Mani pulite, e precisamente dopo che Berlusconi è entrato in politica (prima sfumatura), il pool accerta una doppia erogazione per 20 miliardi, estero su estero, di una società overseas chiamata All Iberian. I due conti destinatari sono nella disponibilità di un avvocato d'affari egiziano e di Bettino Craxi, segretario del Psi, inviato dell'Onu e Dio solo sa che cos'altro nel firmamento allora terso della classe dirigente italiana. Le società overseas sono molte, perfettamente legali, diffuse e assai operative in tutti gli scambi finanziari del sistema economico italiano, europeo e mondiale; questo lo sanno tutti, ma l' accusa gestisce il fatto come se ci si trovasse di fronte a chissà quali tesori nascosti, chissà quali segreti inconfessabili (seconda sfumatura). L'abbinata Berlusconi-Craxi è un boccone ghiotto per quei golosoni di Palazzo di giustizia. Su altre abbinate si può sorvolare, ma su quella no. La data dell' erogazione è il '91. Una data perfetta (terza sfumatura) per incastrare il Nemico pubblico numero uno del pool addebitandogli la violazione della legge del '75 sul finanziamento pubblico dei partiti e magari, connesso, un bel falso in bilancio su cui pestare con durezza. Infatti quell' erogazione, se fosse stata confermata come finanziamento a un partito, non sarebbe stata più reato per una data precedente l'89 (amnistia voluta e votata da tutti i partiti, compresi quelli che strillano). La legge che si presumeva violata, d' altra parte, era stata abrogata e sostituita con un'altra nel '92. Insomma, per il pool si è Al Capone a intermittenza, e l'etichetta di gangster vale per una piccola finestrella di anni lasciati lì a consumarsi nel freddo del diritto politico. La difesa ha sempre sostenuto che si trattava di una transazione commerciale e della transazione ha indicato i beneficiari, che però (quarta sfumatura) sono stati raggiunti dalle telecamere del Tg5, per appropriata conferma, ma non dal presidente della II sezione del tribunale di Milano, il giudice Marco Ghezzi. Gli inviti a comparire furono da lui emessi, questo è vero, ma una disponibilità alla rogatoria parigina (nessuno che abbia la testa sulle spalle ama comparire davanti a un tribunale italiano impegnato in un processo contro il capo dell' opposizione, di questi tempi) fu allegramente trascurata. Enrico Mentana con le rogatorie via etere sa essere più svelto e incisivo di quanto non riesca a un circuito di giustizia, a quanto pare. Eppure, è importante in un processo accertare se un versamento, che per l'accusa è un capo di reato, non sia in realtà una normale attività economica da parte di chi versa. O no? La quinta sfumatura riguarda la parte in commedia del giudice stesso. Il Ghezzi dovrebbe essere, e fino a prova contraria è, al di sopra delle parti. Ma si viene a sapere che il suo massimo desiderio professionale è di entrare nel pool milanese, diventare un buon accusatore e collaborare con Borrelli e Greco, cioè con l' accusa che sostiene il processo del cui destino egli è oggi il padrone. La cosa riesce a fare un po' di scandalo perfino in un Paese vaccinato al peggio come il nostro, e Ghezzi rinuncia. Ma la circostanza induce la difesa, comprensibilmente, a chiedergli di astenersi, cosa che lui sdegnosamente rifiuta. Come si può pensare che sulle sue decisioni influiscano gli orientamenti del pool, al punto da mettere in brache di tela qualunque argomento della difesa? Infatti, all' ultimo atto, quando Greco (sesta sfumatura) chiede per Berlusconi la pena che in genere si ottiene solo per rapine a mano armata con conflitto a fuoco (cinque anni e mezzo), la difesa fa uno scherzo tattico. La Fininvest, e si potrebbe sospettare che si tratti di Berlusconi con un altro cappello, dice: se c'è il falso in bilancio, io sono danneggiata, ma se sono danneggiata dovevate citarmi in giudizio e permettermi di costituirmi come parte civile, e visto che non mi avete citata... il processo è nullo. Sorpresa e scandalo: il processone boccheggia. Non c' è solo un errore di forma, che pure nel diritto è sostanza. Vengono fuori la pretestuosità e la goffaggine dell' imputazione di falso in bilancio, e l' accanimento della grave pena richiesta, anche perché il danneggiato sempre Berlusconi è, e l'essenza del reato di falso in bilancio riguarda la tutela dei soci o azionisti di minoranza (che in Fininvest non c'erano). Ma D'Ambrosio e Borrelli una soluzione ce l'avrebbero: processiamo Berlusconi due volte per lo stesso fatto. Una volta lo condanniamo per finanziamento illecito dei partiti e poi, dopo la prima condanna, lo processiamo e condanniamo per falso in bilancio. La cosa viene affidata ai giornali e (settima sfumatura) arriva alle orecchie di Ghezzi, che decreta lo stralcio secondo i desiderata della procura. Che il giudice sia indipendente è fuori discussione, perché il dottor Ghezzi è un uomo d' onore, ma che il pool festeggi le sette sfumature del diritto ambrosiano non lo può negare nessuno.
La persecuzione giudiziaria: una caccia di 30 anni a Berlusconi tra flop e false accuse. Imputazioni sempre uguali e diverse: per prendere di mira l’uomo d’azienda o il politico. Ma alla fine ha vinto lui, l’eterno imputato, morto con la fedina penale pulita. Luca Fazzo il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
L'imputato e il suo Avvocato se ne vanno a dieci mesi uno dall’altro, dopo avere combattuto con lo stesso male. Nell’agosto scorso, quando Niccolò Ghedini era morto di leucemia, Silvio Berlusconi aveva detto: adesso sono solo. Tanti avvocati intorno a lui, tutti bravi. Ma Ghedini era l’unico ad avere vissuto dall’interno, in prima linea, le ondate inesauribili dell’attacco. Ondate tutte uguali e tutte diverse, che ogni volta prendevano di mira un lato nuovo del Cavaliere, l’uomo di azienda, poi l’amico di Craxi, poi il politico, poi il presidente di calcio, poi il privato cittadino, inanellando accuse sempre più ardite, sostenute da una macchina investigativa dalle risorse illimitate.
Ghedini era lì, nella prima panca dei tribunali o nelle retrovie dello studio padovano, a studiare mosse e contromosse, nella ricerca continua del punto debole che avrebbe fatto crollare l’ennesimo teorema. Alla fine ha vinto lui, l’Avvocato. L’Imputato, l’eterno imputato, muore con la fedina penale pulita. Fallisce l’attacco del pool Mani Pulite, lanciato con il celebre avviso di garanzia al G7 di Napoli, passato in diretta al Corriere: assolto. Fallisce l’altro attacco dei pm milanesi, l’inchiesta che secondo qualcuno doveva costargli addirittura il controllo della Mondadori: nel 1995 Ilda Boccassini torna da Palermo, scopre che Francesco Greco e i suoi colleghi stanno indagando sui verbali di una signora, fa una scenata accusandoli di muoversi con troppo garbo, si impadronisce del fascicolo, trascina Berlusconi sul banco degli imputati dove viene assolto con formula piena. Quindici anni dopo è sempre lei, la Boccassini, a lanciare la battaglia finale, il «caso Ruby» che scaccia il Cavaliere da Palazzo Chigi e trasforma l’Italia in una barzelletta planetaria. Assolto anche lì, la Procura di Milano non si arrende, lo riprocessa, viene assolto di nuovo. Un mese fa, quando i giudici depositano le motivazioni della assoluzione, e spiegano che il processo non doveva neanche iniziare, molti giornali non scrivono neanche una riga, dopo un putiferio durato sei anni.
Per trent’anni, mentre tra Milano e Palermo si combatte l’attacco frontale a Berlusconi, nelle retrovie della magistratura non si sta a guardare: perchè per ogni Di Pietro ci sono dieci dipietrini, e poche procure rinunciano al loro attimo di gloria, al loro avviso di garanzia, ma anche lì zero tituli, nessuna condanna. I più svegli tra i pm tirano il processo così in lungo da incassare almeno una prescrizione che non è una condanna ma neanche una assoluzione, e fa sempre bella figura nel curriculum da inquisitore. E poi c’è lui, Fabio De Pasquale, il pm che ancora oggi può vantarsi di essere l’unico che ha fatto condannare Berlusconi. Nel 2018, quando il tribunale di sorveglianza riabilitò il Cavaliere, cancellando la condanna dal suo certificato giudiziario e rendendolo un incensurato, De Pasquale non commentò, e la procura generale non presentò nemmeno ricorso. De Pasquale - che pure degli inquisitori di Berlusconi è quello più in buona fede - sapeva che in fondo la riabilitazione era il modo migliore per togliere di mezzo una condanna su cui pesano ombre robuste, una oggettiva sbrigatività dei metodi con cui è stata raggiunta: primi tra tutti, i falsi ed i pasticci che permisero al fascicolo di arrivare davanti a giudici della Cassazione diversi dalla sezione cui era destinata. Anche di questo avrebbe dovuto occuparsi la Corte europea dei diritti dell’uomo, se in dieci anni avesse trovato il tempo di occuparsi del ricorso di Berlusconi, ora sepolto insieme all’autore.
Cosa resta, ora che il Cavaliere non c’è più, di questi anni di assedio? Un po’ di amarezza, qualche goccia di incredulità, e alcuni flash. I pm del pool che nel 1994 escono dalla stanza di Borrelli, schierati come gli Intoccabili, annunciando di essersi dimessi contro il «decreto salvaladri» di Berlusconi: una giornalista piange dalla commozione. O Berlusconi che è in quel momento capo del governo in aula, accanto a Ghedini, in una udienza interminabile del processo Sme, spesso con gli occhi chiusi. Presidente, non si annoia? «É l’unico posto dove mi riposo». Ghedini che dal suo studio manda un file che ricostruisce nome per nome l’elenco dei giudici che hanno accusato e condannato Berlusconi: dopo, chissà come mai, hanno fatto tutti carriera. Berlusconi che dopo un’udienza del processo Ruby affronta una muraglia umana di cronisti e fotografi, gente che ha la metà o un terzo dei suoi anni, e li inchioda per venti minuti, spiegando con ostinazione la sua verità, mentre Bonaiuti cerca invano di portarlo via.
E poi, ultimo flash, Berlusconi da solo in una stanza di Arcore, girocollo nero, un pomeriggio di dieci anni fa a parlare del processo Ruby, di quelli venuti prima e degli altri destinati ad arrivare.
A cercare di capire, parlando con un cronista invecchiato nei corridoi delle Procure, il perché di tanta rabbia, tanto accanimento. «Quella, la Boccassini, è comunista?». No, presidente, è la donna meno comunista sulla terra. «Allora perchè ce l’ha con me?». Solo il furore ideologico, solo lo spirito di fazione, rendevano spiegabile per lui l’odio e le risorse impiegate per dargli la caccia. E non era facile convincerlo che certo, esistono le toghe rosse, ma anche quelle bianche e quelle nere, e che a renderlo per tutte un bersaglio da abbattere era solo la sua fissazione di riportare la magistratura al suo posto, al ruolo assegnatogli dalla Costituzione. Perché a lui sembrava una cosa normale.
• Un racconto simbolico della giustizia italiana, un evento esemplare dei mali che affliggono il rapporto tra i poteri dello Stato: questa per Piero Sansonetti, direttore dell’Unità, la sintesi che si può fare della vicenda processuale e politica che per trent’anni ha avuto per protagonista Silvio Berlusconi.
"Io quello lo sfascio". Il crescendo dei toni da Ruby alle stragi. Un assalto condito di asprezze verbali e culminato con il delirante sospetto di aver organizzato gli attentati di mafia. Luca Fazzo il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.
«Quello è una chiavica, se mi capita sotto gli faccio il mazzo». Il giudice Antonio Esposito ora nega di avere detto prima di condannare Silvio Berlusconi le parole che un commensale gli aveva attribuito. Bisogna credergli. Il problema è che, in bocca a Esposito come a qualche altro centinaio di magistrati italiani, quel proposito suona verosimile, sintesi perfetta della convinzione profonda che nel paese sul finire del millennio si aggirasse un pericolo per la democrazia, e che compito salvifico dei giudici fosse rimediare ai danni combinati dagli elettori. «Io lo sfascio», aveva tuonato Antonio Di Pietro in una leggendaria riunione del pool Mani Pulite, la macchina da guerra che nel 1994 aveva lanciato per prima l'assalto al Cavaliere. Sono passati ventinove anni, e non c'è stato un giorno di pace.
Ora che tutto è finito fa una certa impressione andarsi a rileggere una per una le asprezze di cui l'assalto fu condito e le brutalità che lo resero possibile. Ancora più impressione fa catalogare il fango lanciato per decenni addosso al Cavaliere da un apparato perfettamente oliato in cui Procure e informazione andavano a braccetto, aiutandosi a vicenda nel trasmettere al paese e al mondo il racconto giudiziario di un Berlusconi immaginario, un personaggio mitologico in cui si incarnavano il mafioso, il corruttore, l'evasore fiscale, il falsificatore di bilanci, il cacciatore di ragazze, lo stragista.
Già, lo stragista. Neanche questa accusa alla fine è stata risparmiata: Berlusconi se ne va portandosi nella tomba l'accusa demenziale di avere ordinato le stragi di mafia del 1993, compreso l'attentato che avrebbe dovuto eliminare uno dei suoi migliori collaboratori, Maurizio Costanzo. É una inchiesta senza capo nè coda, portata avanti dalla Procura di Firenze sulla base di una sfilza di sillogismi, appoggiata sulle dichiarazioni di pentiti ormai morti che riferivano parole di mafiosi morti anche loro. Eppure anche mentre Berlusconi lottava contro il male che lo ha ucciso non gli sono state risparmiate pagine intere di verbali sfuggiti al segreto istruttorio, di rapporti della Dia depositati qua e là, tutti concordi nell'indicare Berlusconi e Marcello Dell'Utri come le menti raffinatissime che avrebbero commissionato chissà perchè a Totò Riina le bombe sul continente. Ora l'indagine verrà archiviata per «morte del reo», la formula insensata prevista dal codice penale: a meno che la Procura di Firenze non riconosca di avere inseguito calunnie e veleni scambiandole per verità possibili. Sarebbe un pregevole gesto postumo di onestà intellettuale.
Anche prima che Luca Palamara alzasse il velo dell'ipocrisia, era chiaro a tutti che dentro la magistratura e le sue correnti organizzate la parola d'ordine è stata per anni l'organizzazione dell'assalto finale al Cav, e che intere carriere si sono costruite sulla militanza nella Wagner incaricata dell'assalto (specularmente, nello stesso periodo, venivano affossati i pochi magistrati colpevoli di avere sconfessato i teoremi delle Procure). Sono accadute cose senza precedenti. I giudici del processo per i diritti tv che escono dalla camera di consiglio con centinaia di pagine di motivazioni già scritte. Il giudice del processo d'appello che manda i medici fiscali a Palazzo Chigi per verificare che Berlusconi abbia davvero un'infezione agli occhi (verissimo, scriveranno i dottori). La procura che indaga per mesi sulla morte per cause naturali di una povera ragazza, testimone del processo Ruby, dando agio ai soliti giornali di scrivere - tra le righe ma non troppo - che è stata avvelenata dal Cavaliere. Un'altra procura che indaga in segreto Berlusconi come finanziatore o finanziato di Cosa Nostra, non si è mai capito bene: l'indagine finisce in nulla, ma è tutta farina pronta per impastare la nuova inchiesta di Firenze. Nel frattempo si sgonfia anche l'indagine sulla presunta trattativa Stato-Mafia, lì Berlusconi non era indagato e i giudici ne approfittano per dire nella sentenza cose terribili su di lui: tanto non può difendersi.
Adesso dovranno cercarsi un altro nemico.
I fantasmi del povero Travaglio che vede Silvio dappertutto. Non potendosi citare per nome e cognome colui che non c’è più, ecco che diventa buona il pretesto per chiamare in causa, con il consueto spargimento di mangime avariato, il partito di cui colui che non c’è più fu il fondatore e il leader indiscusso. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 21 novembre 2023
Berlusconi non ha proprio confini del tempo né dello spazio, né della storia e della vita e della morte. Sarà stato quel fazzoletto a ripulire la sedia dove il direttore del Fatto era stato seduto, o sarà forse una di quelle invidiuzze nei confronti dell’uomo di successo che ti provocano un nocciolino che non va né su né giù. Fatto sta che ogni occasione è buona. Si tratti di un gelataio giocoliere che sta portandosi a spasso, dalla Sicilia alla Toscana, pubblici ministeri e giornalisti. Oppure l’occasione sia data, come è accaduto ieri, dalla condanna dell’avvocato Giancarlo Pittelli per concorso esterno in associazione mafiosa. Non potendosi citare per nome e cognome colui che non c’è più, ecco che diventa buona il pretesto per chiamare in causa, con il consueto spargimento di mangime avariato, il partito di cui colui che non c’è più fu il fondatore e il leader indiscusso.
Che cosa c’entra Forza Italia con la sentenza del processo “Rinascita Scott”? Assolutamente nulla. Anche sul piano dell’opposizione politica, come bersaglio è proprio sbagliato. Infatti, nonostante le buone previsioni dei sondaggi che danno al partito una costante crescita, persino nei lunedi sera di uno sempre ostile come Enrico Mentana, non si può proprio dire che Forza Italia sia oggi il centro del dibattito politico e neppure dello scontro con la sinistra. Certo, i suoi deputati e senatori si danno molto da fare per le garanzie e lo Stato di diritto. Ma sul piano giudiziario, nell’attesa della cassazione che dovrà decidere sulle eventuali manette al famoso gelataio, i fatti dicono una cosa sola, le tante assoluzioni nei confronti di Silvio Berlusconi, oltre al dato inoppugnabile che lui non c’è più. E allora che cosa significa quella fotografia di Giancarlo Pittelli con Marcello Dell’Utri e Nicola Cosentino, e quel titolo “En plein di Forza Italia”? Sul piano giudiziario un bel passo falso. Perché occorre ricordare che le persone oggetto del titolo scandalistico, un mezzuccio comunicativo proprio da giornaletto che deve farsi spazio nella concorrenza, sono state le uniche, oltre al senatore Tonino D’Alì, tra i tanti personaggi politici degli ultimi trent’anni di storia, a essere stati condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”, il reato che non c’è. Vogliamo ricordare la storia, da Giulio Andreotti a Corrado Carnevale, fino a Calogero Mannino e Antonio Gava, e Francesco Musotto e Bruno Contrada, fino a Silvio Berlusconi, archiviato cinque volte? E se vogliamo spostare lo sguardo sulla giornata di ieri, come tralasciare il fatto che in un processo con un terzo di assolti, il “buco” che segna il fallimento della Dda di Catanzaro è stato determinato dal crollo del “concorso esterno” nei confronti di una serie di amministratori locali?
E allora, i casi sono due. O Marco Travaglio continua ad avere notti insonni in cui immagina il cavaliere che va a tirargli i piedi, e allora se la prende con Forza Italia come face il lupo con l’agnello. Oppure il problema è proprio nel fallimento politico del reato che non c’è e di una certa concezione dell’antimafia militante, ben lontana dall’esempio di Giovanni Falcone cui ambiva Nicola Gratteri. Quel 60% di assolti nei due processi “Stige” e il 39% di innocenti del “Rinascita Scott” pesano come montagne. E allora bastoniamo un po’ Forza Italia. Tanto non c’è più Silvio Berlusconi con il suo fazzoletto a spolverare quella sedia.
Marcello Dell’Utri, un amico degli amici. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 29 ottobre 2023
È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
È stato uno dei processi più complicati e discussi della recente storia giudiziaria italiana. Con un imputato eccellente, anzi eccellentissimo, Marcello Dell'Utri, già senatore e tra i fondatori di Forza Italia, il partito “nuovo” di Silvio Berlusconi che nel 1994 dopo il crollo della Prima Repubblica ha stravinto le elezioni.
Da allora, niente nel nostro Paese sarebbe più stato come prima. Nemmeno la mafia.
Un percorso giudiziario lungo e difficile quello del processo Dell'Utri, iniziato nel lontano 1997. Dopo una condanna in primo grado nel 2004 a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, due in meno quelli inflitti nel 2010 dai giudici d'appello.
Poi l'annullamento della Cassazione, poi ancora un nuovo processo celebrato in appello fino alla definitiva condanna a sette anni. Nel 2014 il senatore Marcello Dell'Utri è entrato nel carcere romano di Rebibbia.
Per i giudici della Suprema Corte Marcello Dell’Utri ha avuto «un importante ruolo di collegamento tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra», cessato nel 1992 e non - come sosteneva la sentenza di primo grado - fino al 1998.
Nonostante trent'anni di indagini e molti processi è una vicenda italiana con ancora tanti punti oscuri, dove si mescolano storie di cavalli e di ”stallieri” come Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova definito “eroe” sia dal senatore che dal Cavaliere Berlusconi.
Misteri che si sono intrecciati fra Milano e Palermo per più di mezzo secolo.
Da oggi sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
Il processo di primo grado, l’inizio di una lunga vicenda giudiziaria. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 ottobre 2023
Le funzioni di Dell'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Con sentenza dell' 11 dicembre 2004, il Tribunale di Palermo ha condannato Marcello Dell 'Utri alla pena di anni nove di reclusione ritenendolo responsabile dei delitti, avvinti dal vincolo della continuazione: di concorso esterno in associazione per delinquere di cui agli artt.110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoria/e, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;
provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.
Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui all'articolo 416 commi 4° e 5° c.p. trattandosi di associazione armata ed essendo il numero degli associati superiore a dieci. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982; (capo a) di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà lgnazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;
provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare - a vantaggio della associazione per delinquere - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario.
Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell'art.416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi. (capo b)
Lo stesso imputato è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato d'interdizione legale durante l'esecuzione della pena, sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni da eseguirsi a pena espiata e condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite (Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo ) da liquidarsi in separato giudizio nonché al pagamento delle spese sostenute dalle stesse parti civili.
Detta sentenza - al cui contenuto si rinvia integralmente - ha esaminato la condotta di Marcello Dell'Utri ritenendola penalmente rilevante in relazione alle due contestazioni originariamente formulate nei suoi confronti ( 110, 416 c.p. e 110 e 416 bis c.p.) con riguardo ad un arco temporale compreso tra i primi anni '70 fino al 1998. In primo luogo il Tribunale ha ricostruito i rapporti esistenti tra Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano.
Dell’Utri aveva conosciuto Silvio Berlusconi nel 1961, anno in cui aveva lasciato Palermo ed era andato a Milano a studiare presso l'Università Statale. Nel 1970 era ritornato a Palermo ed era stato assunto presso la Cassa di Risparmio delle Province Siciliane a Catania dove aveva lavorato dal 2 febbraio 1970 al 25 febbraio 1971.
Nel maggio del 1973 - dopo un breve periodo di lavoro presso l'agenzia della stessa banca di Belmonte Mezzagno - era stato trasferito al Servizio di Credito Agrario presso la Direzione Generale di Palermo. Rientrato a Palermo aveva ripreso i rapporti con la società calcistica Bacigalupo che lui stesso aveva fondato nel 1957.
Nell'ambito di detta società aveva conosciuto Gaetano Cinà, padre di un ragazzo che giocava a calcio e che aveva mostrato un particolare talento, e Vittorio Mangano, amico di Cinà, che assisteva alle partite di calcio.
Lo stesso Mangano aveva confermato di avere conosciuto Dell'Utri all'epoca in cui era presidente della società calcistica appena citata e che a presentarglielo era stato Cinà che gli aveva detto che era un suo amico.
Dell’Utri aveva rammentato, in particolare, che la funzione di Mangano era stata quella di tutelare i giocatori della Bacigalupo "società prestigiosa costituita con la base dei ragazzi del Gonzaga", allorchè le partite si giocavano contro squadre composte da ''figli della società meno nobile palermitana". Nell'agosto del 1973 Berlusconi aveva proposto a Dell 'Utri di svolgere mansioni alle sue dipendenze e per tale ragione l'imputato aveva presentato la propria lettera di dimissioni dalla Cassa di Risparmio il 5 marzo 1974 con decorrenza dal mese di aprile successivo.
Le dimissioni erano state accettate formalmente dalla banca con delibera dell'8 aprile 1974. Fedele Confalonieri, sentito all'udienza del 31 marzo 2003, aveva anticipato l'inizio del rapporto lavorativo all'autunno del 1973, ricordando che Dell 'Utri era entrato alla Edilnord cinque o sei mesi dopo la sua assunzione avvenuta nell'aprile dello stesso anno.
Di fatto, le funzioni di Dell 'Utri erano state quelle di segretario personale di Berlusconi ; a lui Berlusconi aveva affidato il controllo dei lavori di restauro di Villa Casati ad Arcore, acquistata in quel periodo dall'imprenditore milanese e dove quest'ultimo si era trasferito intorno alla Pasqua del 1974.
SENTENZA D'APPELLO BIS
La prima sentenza di condanna a 9 anni di carcere per concorso esterno. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 ottobre 2023
L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici"
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Subito dopo l'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri, Vittorio Mangano era arrivato ad Arcore. Dell'Utri in sede di spontanee dichiarazioni aveva collocato temporalmente l'arrivo di Mangano ad Arcore nell'aprile del 1974, data è stata ritenuta corretta dal Tribunale in quanto Mangano aveva trasferito la propria residenza anagrafica a Milano dall' 1 luglio 1974 e Fedele Confalonieri aveva indicato detto arrivo nell'estate del 1974.
Mangano era stato assunto proprio grazie all'intermediazione dell'imputato così come era stato dichiarato da Dell'Utri nel corso dell'interrogatorio dinanzi al P.M. del 26 giugno 1996 ed anche in sede di spontanee dichiarazioni rese il 29 novembre 2004 e dallo stesso Silvio Berlusconi al Giudice Istruttore di Milano il 26 giugno 1987.
Il Tribunale ha ritenuto che il motivo dell'assunzione di Mangano ad Arcore era da ravvisarsi nella funzione di "garanzia" e di "protezione" di Silvio Berlusconi e dei suoi familiari; detta considerazione era stata confermata dal fatto che, dopo l'allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore, l'imprenditore si era munito di un servizio di sicurezza privata e che, come aveva dichiarato lo stesso Dell'Utri (v. verb. spontanee dichiarazioni in data 29 novembre 2004), a Mangano era stato affidato il compito di accompagnare i figli di Berlusconi a scuola.
La sentenza di primo grado ha poi delineato i rapporti esistenti tra Gaetano Cinà, soggetto con il quale Dell'Utri ha svolto il ruolo di intermediazione tra "cosa nostra" e Berlusconi, con esponenti mafiosi del calibro di Benedetto Citarda ( suo cognato avendo sposato la sorella Caterina Cinà), Girolamo Teresi, sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù ( che aveva sposato una delle figlie di Caterina Cinà Citarda), Giovanni Bontade ( fratello di Stefano Bontade, che aveva sposato un'altra figlia dei Citarda), Giuseppe Albanese, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Malaspina e Giuseppe Contorno uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ( anche loro mariti delle figlie del Citarda).
La sentenza di primo grado ha anche esaminato le dichiarazioni del collaborante Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, ( v. dich. rese da Di Carlo il 16 febbraio e 2 marzo 1998) della quale aveva fatto parte fin dagli anni '60 divenedone in seguito il consigliere e poi il sottocapo. Fin dall'inizio della sua collaborazione aveva riferito di avere conosciuto Dell'Utri nei primi anni '70 in un bar vicino alla lavanderia di Gaetano Cinà: era stato proprio quest'ultimo a presentargli l'imputato.
Aveva inoltre immediatamente raccontato di avere visto Dell 'Utri anche nell'incontro avvenuto a Milano nella primavera o nell'autunno del 1974 ed in seguito al matrimonio di Girolamo Fauci a Londra. Il collaboratore aveva dunque ricordato che poco dopo la presentazione di Dell'Utri da parte di Cinà aveva incontrato quest'ultimo a Palermo con Stefano Bontade e Mimmo Teresi che gli avevano proposto un incontro a Milano, dove dovevano recarsi, fissandogli un appuntamento negli uffici di Ugo Martello (latitante appartenente alla famiglia mafiosa di Bolognetta) siti in via Larga.
Si erano pertanto ritrovati tutti a Milano ed era stato m quell'occasione che Cina, Teresi e Bontade gli avevano proposto di accompagnarli ad un appuntamento con un industriale di nome Silvio Berlusconi, il cui nome in quel momento non gli aveva detto nulla, e con Marcello Dell'Utri che invece aveva conosciuto a Palermo.
L'incontro, organizzato da Cinà e da Dell'Utri (Di Carlo: "Dell 'Utri parla con Tanino ( Gaetano Cinà) e fanno questo incontro"), era avvenuto, secondo Di Carlo, nella primavera o nell'autunno del 1974. A detto incontro avevano partecipato Berlusconi, Dell'Utri, Cinà - che seppur non essendo ritualmente affiliato era presente in quanto era stato lui a "portare questa amicizia di Dell' Utri e Berlusconi a Bontade e Teresi" ed ovviamente Teresi, Bontade ed il collaboratore.
Secondo il racconto, arrivati nel luogo dell'appuntamento (un ufficio che aveva sede in un palazzo), era stato proprio Dell'Utri ad accoglierli ed a condurli in una sala, dove avevano atteso l'arrivo di Berlusconi. L'imputato aveva baciato Cinà ed aveva scambiato delle battute scherzose con Nino Grado, che dunque conosceva ed al quale infatti dava del tu. Poco dopo era arrivato Silvio Berlusconi. Durante l'incontro, dopo avere parlato di edilizia ( Di Carlo ha ricordato che Berlusconi aveva in corso la realizzazione di "Milano 2"), avevano affrontato il problema della garanzia. Stefano Bontade aveva rassicurato l'imprenditore valorizzando la presenza a suo fianco di Marcello Dell'Utri e garantendogli l'invio di "qualcuno".
Appena aveva lasciato l'ufficio Cinà, rivolgendosi a Teresi e Bontade aveva indicato Vittorio Mangano, che Di Carlo conosceva come uomo d'onore della famiglia di Porta Nuova ( all' epoca aggregata alla famiglia di Stefano Bontade) e che gli era stato presentato " ritualmente ... come "cosa nostra", nel 1972/1973. Mangano dunque era stato mandato ad Arcore per attestare la presenza di" cosa nostra": il collaboratore aveva escluso che la funzione svolta da quest'ultimo fosse stata quella di stalliere (''perché cosa nostra non ne pulisce stalle a nessuno '') Cinà gli aveva confidato di essere imbarazzato perché gli era stato detto di chiedere a Berlusconi la somma di 100.000.000, somma che, in effetti, gli era stata poi consegnata.
Di Carlo non aveva saputo riferire se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre ed aveva soggiunto che il denaro, non solo garantiva di non essere sequestrati, ma tutelava da tutto ciò che poteva accadere ad un industriale. Il Tribunale ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del Di Carlo, mettendo in evidenza come le stesse avessero ricevuto rilevanti riscontri esterni. In particolare è stata evidenziata la corrispondenza tra la descrizione dell'edificio in cui era avvenuto l'incontro appena evocato e le foto dei locali della Edilnord, società di Berlusconi che aveva da poco trasferito la propria sede in via Foro Bonaparte n. 24. Lo stesso giudice ha rilevato che Di Carlo era stato il primo a parlare, non solo dell'incontro tra Berlusconi e Bontade, incontro nel quale Dell'Utri e Cinà avevano svolto il ruolo di intermediari, ma anche della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci tenutosi a Londra nel 1980, partecipazione che era stato confermata dallo stesso Dell 'Utri.
[…] In conclusione il Tribunale ha ritenuto che fosse stata raggiunta la prova della "posizione assunta da Marcello Dell' Utri nei confronti di esponenti di "cosa nostra"; dei contatti diretti e personali con taluni di essi ( Bontade, Teresi Mangano e Cinà); del ruolo svolto dall'imputato quale mediatore con il "coordinamento di Gaetano Cinà, tra il sodalizio mafioso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi ed in particolare con il gruppo Fininvest; della ''funzione dì "garanzia" assunta da Dell 'Utri nei confronti di Berlusconi che temeva il sequestro dei suoi familiari, "adoperandosi per l'assunzione di Mangano presso la villa di Arcore quale "responsabile" e non già come stalliere, seppur consapevole dello spessore criminale di quest'ultimo, ottenendo l'avallo di Stefano Bontate e Girolano Teresì che "all'epoca erano già due degli uomini d'onore più importanti di "cosa nostra" a Palermo"; della protrazione dei rapporti dello stesso imputato con il sodalizio mafioso , per circa un trentennio, rapporti che, in alcuni casi, erano stati favoriti anche dall'intermediazione di Cinà; del rapporto di Dell 'Utri con Cinà con Vittorio Mangano, che nel tempo aveva assunto un ruolo di vertice nel mandamento di Porta Nuova ed al quale Dell 'Utri ha mostrato costante disponibilità, incontrandolo più volte; dell'avere, l'imputato, consentito, anche grazie al Cinà, che "cosa nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi , intervenendo per mediare i rapporti tra l'associazione mafiosa e la Fininvest in momento in cui il rapporto aveva palesato una crisi ( è stata citata come esempio la vicenda degli attentati ai magazzini Standa a Catania) e chiedendo ed ottenendo da Mangano favori (come nella vicenda Garraffa), promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.
L'attività posta in essere da Dell'Utri - in conclusione - aveva costituito "un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di " cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l 'opporunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, e di perseguire in modo più agevole i " suoi fini illeciti, sia meramente economici che latu sensu, politici". SENTENZA D'APPELLO BIS
Il processo d’appello, nuovi verbali e nuove testimonianze. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 31 ottobre 2023
Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi; è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Con sentenza del 29 giugno 2010 la Corte d'Appello di Palermo, assorbita l'imputazione ascritta al capo A) della rubrica ( art. 416 c. p.) in quella di cui al capo B) (art. 416 bis c.p.), nell'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in parziale riforma della sentenza di primo grado, limitatamente alle condotte commesse in epoca successiva al 1992, ha assolto Marcello Dell 'Utri per insussistenza del fatto.
In relazione all'unico reato permanente di concorso esterno in associazione di tipo mafioso per le condotte commesse sino al 1992, escludendo l'aumento di pena per la continuazione, ha ridotto la pena inflitta all'imputato ad anni sette di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata. Nel giudizio di appello - a seguito di una parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - sono stati acquisiti atti, verbali di dichiarazioni dibattimentali rese in altri processi ( Mario Masecchia), è stato disposto un nuovo esame di Aldo Papalia e di Maria Pia La Malfa, è stata ammessa la produzione dell'agenda dell'imputato relativa all'anno 1974, è stato disposto, ai sensi dell'art 603, II comma c.p.p, l'esame del collaboratore Maurizio Di Gati, che è stato sottoposto a confronto con Antonino Giuffrè. Si è acquisito poi il verbale di dichiarazioni spontanee rese da Dell'Utri nell'ambito del processo celebratosi a suo carico per il reato di calunnia aggravata; è stato ammesso l'esame di Gaspare Spatuzza, di Filippo e Giuseppe Graviano e di Cosimo Lo Nigro.
Sono stati acquisiti il dispositivo e la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio della sentenza della Corte d'appello di Milano nel processo celebratosi a carico di Dell 'Utri e di Vincenzo Virga per il delitto di tentata estorsione aggravata ai danni di Vincenzo Garraffa.
Preliminarmente deve rilevarsi che la difesa aveva sottoposto alla Corte d'Appello l'esame di alcune questioni preliminari di natura processuale riguardanti profili di inutilizzabilità di alcuni atti per violazione degli artt. 191 e 526 c.p.p. La Corte, dopo avere ritenuto fondate alcune di dette questioni (l'inutilizzabilità dell'esame dibattimentale reso Vittorio Mangano il 13 luglio 1998 e della deposizione di Giuseppe Messina nel corso dell'incidente probatorio che si era svolto nell'ambito di altro procedimento), ha riaffermato la legittima acquisizione:
delle dichiarazioni rese da Dell'Utri in data 26 giugno e 1 luglio 1996 nonché di quelle rese dallo stesso imputato al Giudice Istruttore di Milano limitatamente alle affermazioni che non riguardavano la responsabilità di altri, ma che erano inerenti allo stesso Dell 'Utri;
delle dichiarazioni rese da Silvio Berlusconi in data 20 giugno 1987 davanti al Giudice Istruttore di Milano limitatamente agli elementi favorevoli alla difesa di Dell 'Utri;
delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle udienze del 6 e del 13 novembre 2000 da Vincenzo Garraffa, persona offesa dal delitto di tentata estorsione aggravata e nei cui confronti era stata presentata denuncia per il delitto di calunnia (processo che si era concluso con un'archiviazione) e per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, che invece era pendente alla data delle suddette dichiarazioni;
delle dichiarazioni rese da Antonino Giuffrè nel corso delle udienze dibattimentali del 7 e del 20 gennaio 2003. In relazione poi all'eccezione difensiva di inutilizzabilità dei tabulati telefonici elaborati dal consulente del P.M. dott. Gioacchino Genchi e della relativa deposizione dibattimentale per le parti che avevano riguardato Dell 'Utri, parlamentare della Repubblica sulla base dell'irrilevanza del consenso prestato dal quest'ultimo nel corso delle dichiarazioni spontanee del 15 dicembre 2003 essendo l'immunità di cui all'art. 68 Cost. una garanzia irrinunciabile, la Corte d'Appello, ha sottolineato che i risultati dei tabulati ( che erano stati richiamati dal giudice di primo grado solo in due casi giudicato dalla Corte d'appello privi di ogni valenza accusatoria) e le dichiarazioni rese dal consulente non erano stati utilizzati in alcun modo per la decisione di secondo grado: la questione dunque era priva di rilievo.
La sentenza della Corte ha preso le mosse dall'analisi dei rapporti di Dell'Utri con Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, rapporti iniziati nei primi anni '70 e proseguiti fino ai primi anni '90. La difesa, nell'atto di appello aveva sottolineato che l'origine dei rapporti tra l'imputato, Vittorio Mangano e Gaetano Cinà era da collegarsi alla loro comune passione calcistica nel contesto della squadra calcistica del Bacigalupo.
Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004, aveva riferito che l'origine della conoscenza con il Mangano era da collegarsi alla necessità di tutelare i giocatori della Bacigalupo allorchè disputavano le partite di calcio m zone particolarmente degradate e con una tifoseria aggressiva. Mangano - secondo quanto aveva riferito l'imputato - aveva una forza dissuasiva nei confronti delle aggressioni dei tifosi avversari sui giocatori della Bacigalupo che si presentavano" tutti puliti, tutti graziosi " e che a volte vincevano le partite. Dell 'Utri aveva precisato che, mentre al Mangano lo legava un rapporto di conoscenza, Cinà era per lui un vero amico. Nella genesi del rapporti di Mangano con Dell'Utri, secondo la Corte, doveva poi spiegarsi il motivo dell'assunzione del primo ad Arcore nei primi degli anni '70 proprio grazie all'interessamento dell'imputato e con la collaborazione dell'amico Cinà.
La Corte ha ritenuto infondata la censura della difesa alla sentenza del Tribunale, nella parte in cui aveva sostenuto che Mangano era stato assunto ad Arcore per occuparsi, quale stalliere, degli animali ed in particolare dei cavalli e non già, come aveva ritenuto il giudice di primo grado, per garantire, su iniziativa concordata tra Dell 'Utri, Cinà e gli esponenti mafiosi, la sicurezza di Silvio Berlusconi e della sua famiglia. In particolare, secondo i giudici di appello, non era credibile che Berlusconi avesse affidato le funzioni di fattore o di curatore della manutenzione degli animali ad un perfetto sconosciuto. Dell 'Utri aveva dichiarato, nel corso delle spontanee dichiarazioni, che Berlusconi non aveva trovato in Brianza una persona che capisse di cavalli, di cani e di terreni sicchè aveva chiesto a lui se conosceva qualcuno in Sicilia.
Era stato allora che l'imputato si era rivolto a Mangano, che lui sapeva interessarsi di cani e non di cavalli; con tale affermazione era caduto in contraddizione in quanto nel corso dell'interrogatorio al P .M. del 26 giugno 1996 lo stesso Dell 'Utri aveva invece dichiarato che Mangano si intendeva di cavalli. Vittorio Mangano aveva accettato la proposta e si era trasferito a Milano con la famiglia. Secondo la Corte era innegabile che Mangano si intendesse di cavalli; la circostanza era emersa dalle concordi dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia: Mutolo, Cucuzza, Contorno, Calderone nonché dal tenore della conversazione intercettata il 14 febbraio 1980 a Milano all'Hotel Duca di York intercorsa tra Mangano e Dell 'Utri.
A parere della Corte, tuttavia, detta esperienza non giustificava l'assunzione di Mangano: Dell'Utri si era interessato a fare assumere Mangano non perché Berlusconi era alla ricerca di un fattore o di un responsabile della villa di Arcore, ma soltanto per assumere un soggetto dotato di un rilevante e noto spessore criminale al fine di tutelare Berlusconi da minacce ed attentati. Detta circostanza - secondo la Corte ( che condivideva le argomentazioni del Tribunale sul punto) - aveva trovato conferma nelle dichiarazioni rese dal collaborante Francesco Di Carlo che aveva parlato dell'incontro avvenuto a Milano al quale aveva partecipato il boss mafioso Stefano Bontade ed aveva affermato quest'ultimo aveva deciso di mettere al fianco dell'imprenditore milanese, per proteggerlo, Vittorio Mangano.
La Corte, sottolineando che il Tribunale non aveva stabilito, in base alle dichiarazioni del Di Carlo, se l'arrivo di Mangano ad Arcore aveva preceduto o seguito la riunione con Bontade, ha ritenuto che l'arrivo di Mangano ad Arcore era stato deciso all'esito di detta riunione che si era tenuta tra il 16 ed il 29 maggio 1974. Doveva invero tenersi conto del fatto che l'l luglio 1974 Mangano aveva trasferito la propria residenza ad Arcore e che Dell 'Utri, in sede di dichiarazioni spontanee del 29 novembre 2004, aveva riferito che Mangano era andato a lavorare per Berlusconi nel luglio- agosto 1974 (l'indicazione dell'anno 1973 era stata reputata dalla Corte un errore in cui era incorso l'imputato, atteso che da altre inequivocabili emergenze probatorie era risultato che l'anno in cui Mangano era andato a lavorare ad Arcore era il 1974).
La Corte d'Appello ha ritenuto che era emerso che Mangano era stato adibito alla sicurezza di Berlusconi e dei suoi familiari; ed invero, anche se l'imprenditore aveva alle sue dipendenze un autista, era stato Vittorio Mangano ad accompagnare i figli a scuola e talvolta la moglie a Milano. Lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese il 29 novembre 2004 aveva confermato che Mangano era " un uomo di fiducia assoluta tant'è che Berlusconi faceva accompagnare i bambini a scuola solo da lui neanche dal suo autista".
Quando il Mangano era stato arrestato alla fine del 197 4 per poche settimane, decidendo poi di lasciare il suo lavoro ad Arcore, Berlusconi aveva deciso di allontanarsi con la famiglia dall'Italia e si era organizzato con un numero considerevole di guardie private ed un pullman blindato, come avevano riferito il suo collaboratore Fedele Confalonieri e lo stesso Dell 'Utri ( v. interrogatorio reso il 26 giugno 1996).
L'imputato, nel corso dell'interrogatorio al P .M. appena citato, aveva ammesso che Berlusconi aveva subito minacce fin dai primi degli anni '70 e che esse erano cessate senza che vi fosse stato alcun intervento. Secondo la Corte, detta affermazione non era credibile; le minacce erano state messe in atto per chiedere denaro a Berlusconi e quest'ultimo si era rivolto a Dell'Utri per cercare di risolvere il problema. Dell 'Utri ne aveva parlato con Cinà che - così come aveva riferito il Di Carlo - aveva organizzato l'intervento di Stefano Bontade e l'invio di Mangano ad Arcore, per proteggere l'imprenditore milanese. […].
SENTENZA D'APPELLO BIS
La condanna confermata, ma la pena ridotta a 7 anni di reclusione. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 novembre 2023
Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
La Corte ha ritenuto che il coinvolgimento di un personaggio di rilievo come Bontade non poteva che essere avvenuto con l'intervento di Cinà, amico di Dell 'Utri, al quale quest'ultimo si era rivolto per risolvere il problema della sicurezza di Silvio Berlusconi, consapevole delle parentele mafiose che Cinà e la sorella Caterina avevano acquisito.
E difatti Caterina Cinà aveva sposato Benedetto Citarda, uomo d'onore della famiglia di Malaspina, una loro figlia aveva sposato Girolamo Teresi, sottocapo deila famiglia di Santa Maria di Gesù, a capo della quale vi era Stefano Bontade che Teresi aveva accompagnato all'incontro a Milano.
La presenza di Cinà all'incontro, secondo la Corte, aveva confermato il fatto che era stato proprio Cinà ad informare Bontade del problema della sicurezza di Silvio Berlusconi in tal modo organizzando l'incontro a Milano. In relazione a detto incontro, la Corte ha confermato il giudizio di piena attendibilità di Di Carlo che aveva formulato il Tribunale, rilevando che il collaborante aveva parlato di tale incontro, al quale era stato invitato da Cinà, da Bontade e da Teresi, fin dall'inizio della sua collaborazione.
La difesa aveva rilevato che le dichiarazioni di Di Carlo erano state l'unica fonte rappresentativa diretta dell'incontro e che il collaboratore non aveva alcun interesse a partecipare all'incontro caratterizzato da un profilo di particolare riservatezza.
La Corte ha reputato plausibili le giustificazioni date dallo stesso Di Carlo in ordine alla sua presenza all'incontro: il collaboratore aveva riferito che lui e Bontade erano legati da rapporti di stretta amicizia e che quest'ultimo era consapevole che Di Carlo sapeva comportarsi ed era abituato a trattare con industriali e persone di rilievo.
Del resto Cinà che, secondo il Di Carlo, aveva " portato quest'amicizia di Dell'Utri e Berlusconi a Bontade e a Teresi" non era un uomo d'onore e tuttavia era presente all'incontro. La difesa dell'imputato aveva rilevato che non era emersa alcuna certezza sulla collocazione temporale dell'incontro, atteso che Di Carlo era stato estremamente incerto sia in relazione all'anno ( 1974 o 1975 ) che alla stagione (autunno o primavera).
La Corte ha condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale ritenendo che l'incontro a Milano era avvenuto tra il 16 maggio 1974 ( arresto di Liggio) ed il 29 maggio 1974 (arresto del Bontade ).
Tale data era compatibile con le dichiarazioni di Dell 'Utri che aveva riferito che il Mangano era stato assunto ad Arcore tra maggio e giugno del 1974 ed anche con le risultanze anagrafiche che avevano registrato il trasferimento della residenza di Mangano ad Arcore l' 1 luglio 1975.
La Corte ha evidenziato che l'incontro non poteva essere spostato in un tempo compreso tra la fine del 1974 e la primavera del 1975 - come aveva prospettato il P.G. - atteso che nel gennaio del 1975 Mangano si era allontanato definitivamente da Arcore. L'incontro dunque veniva collocato tra il 16 maggio 1974 ed il 29 maggio 1974.
La difesa aveva contestato detta collocazione temporale, depositando documenti che dovevano provare impegni ed obblighi processuali di Bontade e di Teresi in quel periodo: la Corte, valutando le date delle udienze e gli obblighi del Teresi e del Bontade, ha concluso rilevando che gli obblighi e le prescrizioni dei due boss non erano tali da escludere la presenza di entrambi a Milano per partecipare all'incontro.
La Corte ha poi osservato che l'oggetto della discussione svoltasi nel corso dell'incontro era stato la garanzia di protezione che Berlusconi aveva inteso ricercare tramite Dell'Utri e che, all'esito di detto incontro, Bontade si era impegnato ad assicurargli. Era stato lo stesso Bontade ad indicare Marcello Dell 'Utri a Berlusconi, quale soggetto al quale rivolgersi per qualsiasi esigenza; gli aveva garantito inoltre che gli avrebbe mandato qualcuno che gli sarebbe stato vicino, facendo il nome di Mangano, soggetto che dopo poco dicembre 1975) era stato affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontade.
La Corte ha ritenuto che non era importante che Mangano fosse stato individuato o contattato da Cinà o da Dell 'Utri prima o dopo l'incontro, o se la sua designazione fosse stata successiva a detto incontro; ciò che era certo era l'assunzione di Mangano e la sua permanenza in servizio ad Arcore con un" incarico specifico deciso da Stefano Bontade uno dei capi più potenti della mafia siciliana dell'epoca", capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che da quel momento doveva essere chiaro che il Berlusconi era divenuto "intoccabile". […].
Nell'ultimo capitolo della sentenza, la Corte d'Appello ha sintetizzato le conclusioni alle quali era pervenuta e che erano consistite nella conferma della condanna dell'imputato in ordine all'unico reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso limitatamente alle condotte poste in essere fino al 1992. Era stato provato - secondo la Corte - che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto un 'opera di mediazione tra "cosa nostra" in persona del suo più autorevole esponente del tempo, Stefano Bontade, e Silvio Berlusconi.
In tal modo aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dalle ingenti somme di denaro sborsate per quasi due decenni dall'imprenditore milanese.
Dell 'Utri, dunque, non aveva cercato di soltanto di risolvere 1 problemi dell'amico Silvio Berlusconi, ma aveva mantenuto nel tempo con coloro che erano gli " aguzzini" dell'amico rapporti amichevoli, incontrando e frequentando sia Mangano che Cinà ed "a loro ricorrendo ogni qualvolta sorgevano problemi derivanti da attività criminali rispetto ai quali i suoi amici ed interlocutori avevano una sperimentata ed efficace capacità di intervento ".
Detta condotta - riconducibile secondo la Corte nel delitto contestato all'imputato - si era protratta oltre la morte di Stefano Bontade ( 1981 ), fino al 1992, data fino alla quale era rimasto provato il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi all'associazione mafiosa.
Dopo il 1992 non era stato possibile ravvisare - a parere della Corte - ''prove in equivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Dell'Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa ". Non era, poi, emerso alcun elemento concreto, ancorchè indiziario, in ordine ai pretesi rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed i fratelli Graviano, essendo stato reputato inconsistente il contributo che aveva offerto il collaborante Gaspare Spatuzza nel giudizio di appello.
La Corte ha infine ribadito che erano mancate prove sufficienti a supportare l'accusa rivolta a Dell'Utri di avere stipulato nel 1994 un patto politico -mafioso con " cosa nostra", nei termini rilevanti per l'ipotesi delittuosa di cui agli artt. 110,416 bis c.p. SENTENZA D'APPELLO BIS
L’annullamento in Cassazione, il processo Dell’Utri è da rifare. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 novembre 2023
Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992)
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponevano ricorso per Cassazione la difesa dell'imputato ed il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo, quest'ultimo limitatamente alla pronuncia di assoluzione per le condotte successive al 1992 e con riferimento a cinque ordinanze pronunciate nel 2008, 2009 e 2010 con le quali erano state decise questioni istruttorie. Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992), rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.
I giudici di legittimità preliminarmente hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo alle ordinanze con le quali la Corte d'Appello aveva respinto le istanze di rinnovazione del dibattimento proposte dalla difesa, rilevando che dette istanze avevano riguardato non già, come aveva sostenuto l'impugnante, prove acquisite nel corso di indagini difensive effettuate successivamente alla sentenza di primo grado, ma prove ''preesistenti'' a detta sentenza e che, in quanto tali, potevano essere introdotte nell'istruttoria in appello alla condizione" di vincere la presunzione di completezza dell'istruttoria già compiuta", così come previsto dall'art. 603, I comma c.p.p.
In particolare gli stessi giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso della difesa laddove era stata denunciata l'illogicità della decisione della Corte d'appello che non aveva ritenuto decisiva l'assunzione nella qualità di testi dei seguenti soggetti: - i domestici della Villa di Arcore di Berlusconi (al fine di confutare l'attendibilità del collaborante Di Carlo Francesco in ordine all'incontro tra Berlusconi e Bontade, che aveva costituito "l'antecedente logico e storico dell'assunzione di Mangano"ad Arcore); - coloro che si erano occupati della ristrutturazione degli uffici della Edilnord. Ha rilevato la Suprema Corte che la mancata descrizione degli arredi di detta società da parte dello stesso Di Carlo ben poteva collegarsi a diversi motivi e non già, necessariamente alla "falsità" delle dichiarazioni; Silvio Berlusconi, che nel giudizio di pnmo grado si era avvalso della facoltà di non rispondere ed in ordine al quale - secondo i giudici di legittimità - la difesa non aveva allegato elementi concreti da cui desumere che l'audizione "sarebbe stata concretamente idonea a vincere la presunzione di completezza della istruzione dibattimentale ed avrebbe apportato chiari elementi innovativi rispetto al panorama probatorio acquisito".
È stata poi ritenuta "ineccepibile" la motivazione del rigetto della domanda di ammissione della videoregistrazione della intervista del giudice Paolo Borsellino. E' stato poi ritenuto inammissibile il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa aveva dedotto la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ( motivo che veniva proposto anche con riferimento alla asserita violazione dell'art. 6 della Cedu) "specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi d'indagine e la violazione dell'art. 430 c.p.p. essendosi trovata, la stessa difesa, nell'impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici".
Si è ritenuto che la formulazione fosse generica e manifestamente infondata, tenuto conto, da un lato delle ragioni addotte dalla Corte d'Appello, che i giudici di legittimità hanno ritenuto di condividere e dall'altro della" riperimetrazione (in senso quantitativamente riduttivo) della rilevanza della questione posta dalla difesa dovuta alla riduzione della condotta ritenuta meritevole di condanna, condotta dalla quale è stata esclusa in maniera definitiva ( a seguito della inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale) la parte del concorso che era stato ipotizzato in relazione al presunto patto politico - mafioso".
Gli stessi giudici hanno poi ritenuto del tutto inammissibile il motivo di ricorso proposto dalla difesa che aveva lamentato la violazione dell'art. 6 Cedu ed hanno sostenuto, a tal proposito, come la difesa non aveva allegato rispetto a quali accuse era stato limitato, in concreto, il proprio mandato. Il Procuratore Generale della Cassazione ritenendo di riprendere il motivo di ricorso appena enunciato dedotto dalla difesa ( ma in realtà aggredendo "un punto nuovo e diverso rispetto alla questione sollevata dalla difesa'') - aveva fatto notare (nel corso della propria requisitoria e nelle note depositate ali 'udienza di trattazione del ricorso) che nel caso in esame era mancata l'imputazione, "nel senso che quella formulata era generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza Cedu e, secondo i giudici di merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi di prova:evenienza, quest'ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno); con la conseguenza che detto difetto, avrebbe coinvolto la stessa tenuta logica della motivazione e che doveva essere demandata al giudice del rinvio " la precisazione della condotta di rilevanza penale".
La Corte di Cassazione, ritenendo " impossibile apprezzare" detta richiesta sotto molteplici punti di vista, ha voluto sottolineare che non poteva trovare spazio la soluzione proposta dal Procuratore Generale di investire il giudice del rinvio del compito di precisare la condotta avente rilevanza penale, rilevando che sì operando si sarebbe attribuito a detto giudice un potere che non era previsto da alcuna norma.
Dopo avere ribadito l'infondatezza del motivo di ricorso della difesa rilevando che il fatto ritenuto in sentenza non era "altro" e non era "diverso" da quello contestato, ma era il medesimo, la Suprema Corte ha reputato fondata la censura difensiva relativa alla " tenuta della motivazione" per quanto concerneva una serie di fatti databili a partire dal 1978, rilevando che la motivazione, per quella parte, aveva risentito "della mancanza di sponda derivante dalla formulazione della imputazione "per grandi linee" e si era dunque articolata in una serie di condotte non sempre aderenti alla prospettazione accusatoria.
E' stata altresì dichiarata l'inammissibilità del secondo motivo ricorso per genericità e manifesta infondatezza nella parte in cui era stata dedotta la violazione del principio del " ne bis in idem" con riguardo a due processi che si erano conclusi con due sentenze di proscioglimento dell'imputato, emesse dal G.I.P. di Milano nel 1990. E' stato a tal proposito, rilevato che detta violazione era stata proposta alla Corte d'appello come motivo di impugnazione e che detto giudice aveva" correttamente" illustrato i motivi in base ai quali detta censura doveva reputarsi infondata. E' stata poi decisa l'inammissibilità del motivo di ricorso con il quale era stato censurato, in termini del tutto generici, il criterio di valutazione dei collaboranti di giustizia adottato dalla Corte d'Appello.
Orbene i giudici di legittimità con riguardo, ad esempio, al collaborante Cucuzza, hanno sostenuto che le dichiarazioni rese da quest'ultimo, in quanto confermate da riscontri esterni (la presenza di Mangano ad Arcore e le dichiarazioni di Galliano e di Di Carlo), erano state poste a fondamento della condanna del Dell'Utri per il concorso esterno relativo al primo periodo, mentre lo stesso collaborante non era stato ritenuto autore di affermazioni sufficienti ed idonee a provare l'esistenza di un patto politico con "cosa nostra" in quanto le stesse si erano presentate come frutto di un ricordo confuso in contrasto con quanto riferito da altri collaboratori. […].
Fatte le superiori premesse i giudici di legittimità hanno rilevato che la consapevolezza e volontà del fine perseguito dall'imputato, indicato e motivato dalla Corte d'Appello come fine di conservazione proprio del sodalizio mafioso, con particolare riferimento all'acquisizione di "nuove e proficue relazioni patrimoniali" era stata individuata nelle forme proprie del dolo diretto e ciò in linea con la citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; dolo che non era contraddetto dal fatto che fino al 1978 l'imputato era stato mosso anche dalla volontà di risolvere il problema della sicurezza dell'amico Berlusconi e che, in relazione al quel periodo temporale era stato caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volontà che la condotta in esame si sarebbe posta "nella linea del perseguimento dei fini ultimi dell' associazione criminale", come la Corte d'Appello aveva motivato citando i significativi incontri tra Dell 'Utri e soggetti mafiosi di vertice. La Corte di Cassazione, in tale prospettiva ha rievocato gli episodi riportati nella sentenza della Corte d'appello che apparivano idonei a supportare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto di Dell'Utri e che non potevano in alcun modo giustificare la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa che intendeva, invece, attribuire all'imputato il ruolo della vittima costretta soltanto a subire. Sono stati indicati pertanto: - l'incontro presso il ristorante milanese "Le Colline Pistoiesi" avvenuto tra il 1975 ed il 1976, incontro che la Corte d'Appello - con motivazione reputata del tutto logica dai giudici di legittimità - aveva ritenuto sintomatico della considerazione in cui Dell'Utri era tenuto all'interno di "cosa nostra" "quale soggetto affidabile" da potere coinvolgere in relazioni estremamente riservate del sodalizio mafioso, perché riguardanti personaggi come Mangano, il quale lo aveva presentato come il suo "principale" e Antonino Calderone che accompagnava a Milano il fratello che era un boss mafioso che ricopriva un ruolo apicale all'interno dell'associazione mafiosa; -la partecipazione di Dell'Utri alla cena con Stefano Bontade avvenuta nella villa di quest'ultimo intorno al 1977, evento che era stato reputato indicativo dei rapporti che Dell 'Utri intratteneva con i boss mafiosi, rapporti che non consentivano di considerarlo una "vittima".
La Corte di Cassazione ha voluto mettere in risalto che l'importanza attribuita correttamente dai giudici di merito ai suddetti episodi, non aveva assunto il significato del superamento della tesi ribadita in giurisprudenza secondo cui le frequentazioni e le vicinanze con soggetti mafiosi non costituivano prova del concorso esterno. Detti episodi, cioè, erano stati ritenuti capaci di "colorire" prove di altro spessore costituite ''primariamente " dalla promozione dell'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, dal raggiungimento, in quella sede, dell'accordo per la protezione di Silvio Berlusconi e dal versamento per alcuni anni, da parte di quest'ultimo, tramite Dell'Utri, di cospicue somme di denaro a "cosa nostra".
Detti comportamenti, sono stati reputati dalla Suprema Corte indicativi del fatto che Dell'Utri "avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dell'intera operazione". Proseguendo l'esame dell'elemento psicologico del delitto in contestazione, la Suprema Corte ha sostenuto l'illogicità e la incompletezza della motivazione nella parte relativa alla disamina del dolo nel periodo successivo al 1978 specificando inoltre che "nel quadriennio e quinquennio successivo ali' allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale berlusconiana, si è rilevata addirittura una carenza di motivazione riguardo ali 'elemento oggettivo che, se solo superabile, renderebbe rilevante e da emendare anche la carenza dei requisiti ulteriori del reato".
Per il periodo successivo al ritorno di Dell'Utri a Publitalia, in relazione ai numerosi elementi che la Suprema Corte ha ritenuto problematici e che riguardavano "essenzialmente i comportamenti riluttanti di Dell'Utri verso cosa nostra nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti ali 'attività imprenditoriale di Berlusconi", è stata richiesta ai giudici del rinvio una valutazione "unitaria e non parcellizzata" che sia in grado di dare "un senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti".
Da un lato, cioè, la condotta dell'Utri che si era risolta oggettivamente in un arricchimento di "cosa nostra", ma che negli anni '80 era "divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici" nei riguardi degli esponenti mafiosi ed "in contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall'altro lato il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzione e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile ed in linea con la tesi secondo cui Dell'Utri avrebbe accettato e perseguito l'evento del rafforzamento del sodalizio mafioso recando un contributo alla realizzazione del programma comune.
La prova della suddetta finalizzazione non poteva - secondo l'assunto dei giudici di legittimità - ritenersi acquisita negando o misconoscendo , così come era stato fatto nella sentenza della Corte d'Appello la valenza di emergenze che si sono contraddistinte, "ali 'apparenza, come segni del contrario e cioè di una possibile caduta della precedente unitarietà d'intenti". Di detti comportamenti la Suprema Corte ha chiesto una "nuova giustificazione probatoria ad opera del giudice di rinvio "essendo apparso il ragionamento effettuato dalla Corte di merito insufficiente nella parte in cui, anzichè motivare sulle cause di certe prese di distanza da parte di Dell'Utri nei confronti di cosa nostra anche in costanza degli attentati, si era soffermata sulle conseguenze delle prime (le prese di distanza nei confronti dell'associazione mafiosa) e dei secondi (gli attentati) e sulla "asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti " nonostante" quegli eventi". Riprendendo l'argomento della prescrizione la Corte di Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso con il quale la difesa dell'imputato - rilevando che i pagamenti non si erano protratti oltre 1986 - aveva asserito che il reato si era prescritto.
La Corte di Cassazione ha rilevato:
-che la Corte d'Appello, sulla base delle dichiarazioni rese da Ferrante, la cui credibilità sul tema era stata adeguatamente analizzata, aveva sostenuto che i pagamenti si erano protratti con cadenza semestrale o annuale fino al 1992, con la conseguenza che il termine di prescrizione - ove in sede di rinvio venisse data una congrua motivazione sull'elemento psicologico del dolo nel periodo già indicato- decorreva da tale data;
-che il delitto in esame aveva natura permanente e che la permanenza cessava "nel momento in cui il concorrente aveva perso il potere e la capacità di far cessare gli effetti pregiudizievoli del proprio comportamento antigiuridico il quale, però, deve ritenersi abbia visto il momento d'inizio della rilevanza causale nella data del raggiungimento dell'accordo o della rinnovazione dell'accordo col quale ha prodotto un rafforzamento della mafia";
-che il patto - diversamente da quanto ritenuto dalla difesa - non era il fatto consumativo di un reato istantaneo, "ma un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio " per cui i suoi effetti antigiuridici hanno conservato efficacia permanente individuabile nei pagamenti che i giudici di merito avevano ritenuto procrastinati, secondo quanto riferito da Ferrante, "fino a tutto il 1992;
che, dunque il giudice del rinvio aveva il compito di "nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata, se il concorso esterno contestato è oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico del ricorrente anche nel periodo di assenza dell'imputato dall'area imprenditoriale Fininvest e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 ed il 1982); se il reato contestato è configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche nel periodo successivo a quello indicato" e di pronunciarsi eventualmente a seconda della decisione adottata, sulla prescrizione del delitto - che non è oggetto di rinvio sull'an - ai sensi dell'art. 129, I comma c.p. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
E il ricorso della procura generale è giudicato “inammissibile”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 novembre 2023
Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Il Procuratore Generale ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello sia in ordine all'intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992 sia con riguardo a cinque ordinanze con le quali venivano decise questioni istruttorie.
La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile la prima censura del P.G. con la quale aveva preteso di sollecitare una diversa valutazione del risultato di prova in ordine alla data fino alla quale si erano protratti i pagamenti; hanno sottolineato i giudici di legittimità che la Corte d'Appello aveva considerato, in particolare, che le dichiarazioni di Galliano, riguardanti la protrazione di pagamenti a "cosa nostra" fino al 1995, erano rimaste prive di riscontri obiettivi.
I giudici di legittimità hanno poi ritenuto manifestamente infondata la seconda censura con la quale il P.G. ricorrente aveva censurato la valutazione della Corte d'appello che, secondo l'assunto dell'accusa, aveva trascurato di considerare il movente politico degli attentati ai magazzini Standa di Catania, movente che era stato affermato nelle sentenze rese dai giudici di Catania che avevano giudicato quei fatti. Secondo i giudici di legittimità la Corte d'Appello aveva svolto un ragionamento diverso e non esposto a censure ed aveva dato atto della tesi sostenuta dall'accusa in ordine al movente politico degli attentati del 1990 ai magazzini Standa compiuto dal Santapaola ( così come aveva riferito il collaborante Siino) ed aveva anche considerato la volontà di "cosa nostra" palermitana a partire dagli '80 di avvicinare l'onorevole Bettino Craxi. Gli stessi giudici di merito avevano tuttavia ritenuto che detta volontà era stata estremamente imprecisa atteso che - secondo quanto riferito da Siino - Brusca nel 1991 aveva incitato il boss mafioso Santapaola ad effettuare azioni intimidatorie contro Berlusconi e che Riina, tra il 1992 ed il 1993, aveva iniziato ad attuare una politica stragista: "segno di assenza di contatti politici" .
Secondo la Suprema Corte la motivazione adottata dai giudici di merito era stata del tutto logica. Del resto - hanno osservato i giudici di legittimità - anche ove si fossero accertate le finalità politiche perseguite dai mafiosi attraverso gli attentati in questione, ciò non avrebbe escluso la necessità di individuare un ruolo del Dell'Utri nella composizione della vicenda relativa agli attentati alla Standa di Catania, ruolo che la Corte di appello aveva escluso sulla base di quanto era emerso nel processo catanese in cui non era stato provato né il pagamento di pizzo, né l'esistenza di trattative avviate nell'interesse della parte offesa. In relazione poi alla testimonianza di Garraffa Vincenzo, l'inattendibilità della stessa è stata reputata dai giudici di legittimità del tutto plausibile e completa, atteso che la Corte d'appello aveva evidenziato come le notizie sui movimenti di Dell 'Utri in merito agli attentati non potevano essere appresi da Garraffa da terzi che erano stati menzionati nella sentenza in quanto li aveva conosciuti m un periodo successivo ai suddetti movimenti.
È stata poi ritenuta del tutto fattuale e non rispettosa dei criteri contenuti nella sentenza Mannino in tema di valutazione indiziaria, la considerazione del P.G. in ordine al riconoscimento della validità delle asserite intromissioni di Alberto Dell'Utri nella vicenda degli attentati alla Standa. Anche il terzo motivo di ricorso è stato giudicato inammissibile. I P.G. aveva definito un esempio di parcellizzazione della valutazione della prova, il criterio che aveva adottato la Corte d'Appello nella ricerca, e successiva esclusione, del patto politico mafioso del 1993- 1994, sulla base delle negazione della valenza probatoria di circostanze ed incontri avvenuti nel 1994 che la Corte d'Appello aveva ritenuto ininfluenti rispetto ad un patto che doveva avere avuto ad oggetto le consultazioni elettorali del marzo 1994. Il P.G. aveva rilevato che detto patto non doveva essere inteso in senso notarile, ma avrebbe comportato "sollecitazioni ed incontri" tra la mafia e Dell'Utri anche successivi alle elezioni per ottenere i risultati legislativi sperati a seguito di un clima politico favorevole che si era formato.
La Corte di Cassazione ha ritenuto detta doglianza inammissibile m quanto non specifica sulle ragioni di fatto che avrebbero dovuto sostenerla ed ha rilevato che la prova non poteva fermarsi all'accertamento dell'insorgere di "favorevoli contingenze determinate dal futuro assetto politico complessivo, non precisabili al momento della promessa e volte a sollecitare l'attuazione della consuete provvidenze legislative da cosa nostra ".
Manifestamente infondato è stato poi ritenuto il quarto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva messo in rilievo come il giudice di primo grado non aveva considerato che Cannella, a causa delle pressione che su di esso aveva esercitato Cesare Lupo, aveva riferito meno di quello che sapeva sul coinvolgimento di Dell 'Utri nel tentare di inserire esponenti di Sicilia Libera, partito " nato per volontà della mafia", all'interno delle liste di Forza Italia. I giudici di merito - a parere della Suprema Corte - avevano dato una motivazione del tutto plausibile: avevano in particolare rilevato che in ogni caso le dichiarazioni del Cannella non erano idonee a provare il coinvolgimento dell'imputato nelle attività politiche relative al periodo 1993-1994.
Le dichiarazioni rese dal Calvaruso in ordine al coinvolgimento di Mangano nel sostenere le iniziative di Cannella, per la nascita del nuovo movimento politico favorevole alla mafia, non avevano assunto alcun rilievo atteso che il collaborante aveva collocato la sospensione della decisione di uccidere il Mangano nel 1994 , data successiva all'espletamento delle elezioni del marzo del 1994.
Inammissibile, per manifesta infondatezza è stato ritenuto il quinto motivo di ricorso con il quale il P.G. aveva criticato la valutazione delle dichiarazioni rese da Cucuzza effettuata dalla Corte d'Appello che aveva escluso che potessero considerarsi riscontro esterno a quanto aveva riferito Galliano, sull'incontro avvenuto tra Dell 'Utri e Mangano, finalizzato ad ottenere promesse favorevoli in esecuzione del presunto patto politico stipulato ed avvenuto (secondo il Cucuzza) nella seconda metà del 1994; la Corte d'Appello aveva invece ritenuto che la data dell'incontro non era stata riscontrata da alcun elemento oggettivo.
Il P .G. ricorrente aveva preteso che i giudici di legittimità accreditassero delle congetture sul motivo per il quale si erano verificate le discrasie tra le dichiarazioni di Cucuzza e quelle di Galliano sulla data dell'incontro, senza indicare " il tema specifico al quale queste dichiarazioni afferirebbero " e rimettendo alla Corte di Cassazione, sui punti critici della sentenza impugnata, un'alternativa ricostruzione della vicenda. Veniva ritenuto inammissibile, per manifesta infondatezza, il sesto motivo di ricorso per Cassazione, con il quale il P.G. aveva censurato la valutazione della Corte d'Appello in ordine alle annotazioni, fatte sull'agenda della segretaria di Dell'Utri, che non potevano costituire prova degli incontri tra Dell 'Utri e Mangano.
Il P.G. ricorrente, con un ragionamento reputato dai giudici di legittimità "congetturale ed indimostrabile", aveva ritenuto che almeno un incontro poteva essere effettivamente avvenuto nel novembre del 1993 tra l'imputato ed il Mangano "non essendo stato provato il contrario".
[…] La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile, reputando il ragionamento seguito dalla Corte d'Appello ''plausibile e rispondente ai criteri della logica e della razionalità", il settimo motivo di ricorso relativo al ragionamento seguito dai giudici di merito nella parte in cui non aveva ritenuto che fossero stati provati i rapporti tra Dell 'Utri ed i fratelli Graviano (arrestati nel 1994 insieme ai loro favoreggiatori Giuseppe D'Agostino e Salvatore Spataro ), rapporti utili al fine di provare il legame di natura politica tra il Dell 'Utri e la mafia riferibile al 1994.
Veniva rilevato dal P.G. che i giudici di merito dovevano sospettare che D'Agostino (le cui dichiarazioni, secondo lo stesso procuratore, erano entrate nel dibattimento in quanto oggetto di contestazione effettuatao nell'interrogatorio di Dell'Utri), non avesse detto la verità in dibattimento, considerato che, per ben due volte nel 1996, aveva riferito al p.m. di avere chiesto ai Graviano di dargli una mano per inserire il figlio nella società calcistica Milan Calcio. La menzogna poteva essere legata al fatto che - subito dopo l'arresto dei Graviano - si aveva interesse ad escludere ogni rapporto tra i boss mafiosi e Dell 'Utri. Era stato anche censurato dal P.G. il fatto che le dichiarazioni di Spataro erano state ritenute non attendibili e che il provino del figlio di D'Agostino di cui avevano parlato i tecnici del Milan era stato collocato nel 1992 e non nel 1994.
La Cassazione ha a tal proposito rilevato che:
- non era stato rispettato il principio dell'autosufficienza del ricorso che imponeva di allegare la copia integrale o la trascrizione integrale del contenuto dell'atto ( l'interrogatorio di D'Agostino: n.d.r.);
-le dichiarazioni rese dal D'Agostino nel corso delle indagini preliminari erano state valutate corrispondenti a quelle rese m dibattimento dallo stesso D'Agostino, negative di interessamenti di Graviano presso Dell 'Utri e la società Milan Calcio in favore del figlio;
- il tema in questione sarebbe stato utile per dimostrare non già accordi di rilievo penale, ma relazioni di contiguità e frequentazione tra l'imputato e soggetti gravitanti in ambienti mafiosi ed in quanto tali non idonee ad integrare l'ipotesi delittuosa in contestazione;
- non era stato neppure indicato come "l'ipotetico favore fatto da Dell'Utri a Graviano nel gennaio del 1994 relativamente alla questione d'interesse calcistico potesse costituire elemento di riscontro individualizzante dell'accusa principale, rappresentata dalla realizzazione di un patto politico che avrebbe dovuto riguardare le elezioni del marzo del 1994 con soggetti mafiosi neppure coincidenti con quelli menzionati".
E' stata poi ritenuta manifestamente infondata ( ai limiti della "soglia assolutamente prossima all'inammissibilità " e peraltro infondata nel merito), la censura con la quale il P.G. si era lamentato della negativa valutazione fatta dalla Corte in ordine all'attendibilità intrinseca del collaborante Spatuzza Gaspare. Detta censura - ha ritenuto la Corte di Cassazione - aveva proposto un accertamento sul fatto che si sottraeva al sindacato demandato ai giudici di legittimità. Questi ultimi hanno ritenuto che la Corte d'Appello aveva fondato il proprio giudizio sull'attendibilità del collaborante appena citato su di un "ragionamento logico e completo" ritenendo che Spatuzza, prima di parlare dell'incontro che aveva avuto con Graviano presso il bar Doney ( nel corso del quale quest'ultimo gli aveva rivelato che avevano ottenuto ciò che volevano dal mondo politico grazie a persone come Berlusconi e Dell 'Utri), aveva lasciato trascorrere troppo tempo. Il collegamento, poi, tra detto incontro e quello precedente avvenuto tra gli stessi soggetti a Campofelice di Roccella nel 1993, nel corso del quale Spatuzza era stato convocato dal Graviano per progettate un nuovo attentato per " smuovere" i politici di Roma, era stato frutto di personale convincimento operato dallo stesso collaborante.
[…] E' stata giudicata inoltre inammissibile la doglianza con la quale il P.G. aveva chiesto alla Corte di Cassazione di interpretare le intercettazioni secondo il significato che era stato loro attribuito dal Tribunale e non già dalla Corte d'appello, interpretazione che costituiva un giudizio di fatto devoluto al giudice di merito, non sindacabile da parte della Cassazione ove la ricostruzione fosse stata frutto di un'operazione logica e completa da parte del giudice di merito.
La Corte d'appello - nel caso in esame - aveva messo in rilievo non solo la distanza di tempo (cinque anni) intercorsa tra le conversazioni ed il patto politico mafioso che dette conversazioni avrebbero dovuto dimostrare ed il fatto che Dell'Utri era stato eletto in un collegio del Nord e non già nel collegio Sicilia-Sardegna; ma anche che la conversazione intercettata nel 1999, da cui si era desunto l'impegno elettorale di "cosa nostra" in favore di Dell 'Utri, non aveva provato l'esistenza di un patto a monte e la sua natura sinallagmatica.
La Corte di Cassazione ha messo in rilievo che il motivo di ricorso proposto dal P .G. non aveva sostanzialmente aggredito i passaggi della sentenza impugnata ove i giudici di merito avevano spiegato le ragioni per le quali non sussistevano le ragioni per configurare - dopo il 1992 - la condotta di concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell'Utri; quest'ultimo - anche ove avesse eventualmente accettato l'appoggio elettorale di " cosa nostra" - non aveva posto in essere alcun comportamento " capace di determinare, anche istantaneamente, un concreto effettivo rafforzamento del sodalizio mafioso di riferimento misurabile ex post in termini apprezzabili e non rapportabili semplicemente alla causalità psichica".
Inammissibile è stata reputata la decima doglianza con la quale il P.G. aveva contestato il ragionamento della Corte d'Appello nella parte in cui aveva ritenuto che le dichiarazioni di Mangano, rese alla fine 1993 o nel 1994 sugli incontri politici che aveva avuto con Dell 'Utri erano state frutto di millanterie. La Corte d'Appello aveva poggiato detta convinzione sul fatto - desunto da prove testimoniali - che Mangano era considerato all'interno di cosa nostra un chiacchierone. I giudici di merito avevano ritenuto che con la condotta millantatrice, Mangano aveva cercato di accreditarsi presso i boss Bagarella e Brusca come utile collegamento con Dell'Utri in modo da sfuggire alla condanna a morte decisa dallo stesso Bagarella.
Neppure - a parere della Corte di Cassazione - poteva reputarsi capace di inficiare il ragionamento della Corte d'Appello il fatto, dedotto dal P.G, secondo cui Mangano era presente ad una cena ad Arcore la notte di Sant'ambrogio del I 974 essendo "tali fatti già ritenuti provati a capaci di dimostrare l'esistenza di un concorso esterno riferibile in epoca antecedente al 1992, sulla base di una condotta del Del/' Utri diversa da quella del patto politico-mafioso ".
[…] Veniva dichiarata altresì inammissibile la undicesima censura che costituiva la riproposizione dei motivi di gravame già sottoposti alla Corte d'Appello e che detto giudice aveva respinto sostenendo in diversi passaggi della sentenza - invero non aggrediti specificamente, secondo i giudici di legittimità, con il ricorso del P.G. - che non sussistessero gli estremi per la configurazione del concorso esterno nella condotta ascritta all'imputato nel periodo successivo al 1992. Il P.G. aveva censurato l'operato del giudice di secondo grado nella parte in cui, disattendendo i principi affermati nella sentenza delle Sezioni Unite della Corte del 2005, aveva ritenuto che non sussistessero le prove per poter configurare il patto politico mafioso patto, patto che invece nel caso in esame poteva desumersi :
-dai rapporti tra Dell'Utri e gli" emergenti" fratelli Graviano;
-dai plurimi rapporti esistenti tra Mangano e Dell 'Utri anche prima dell'epoca indicata (1994) dal Cucuzza, rapporti di cui vi era traccia nelle annotazioni dell'agenda del 1993, epoca in cui il D'Agostino aveva ricevuto dal Graviano la promessa di ottenere tramite amicizie milanesi l'inserimento del figlio nella formazione giovanile del Milan;
- dal summit di mafia, tenutosi alla fine 1993, di cui aveva parlato Spatuzza, nel corso del quale Graviano - all'epoca latitante - aveva annunciato allo stesso Spatuzza "una cosa politica" dalla quale tutti avrebbero tratto vantaggi;
-dall'incontro avvenuto nel gennaio del 1994 tra Graviano e Spatuzza al bar Doney nel corso del quale il primo aveva comunicato al secondo di avere ottenuto quello che il gruppo voleva, grazie alla serietà di Berlusconi e di Dell'Utri;
- dal fatto riferito da La Marca secondo cui Mangano, che era andato da Dell 'Utri alla vigilia delle elezioni del 1994, era tornato invitando il collaborante a votare Forza Italia, perché gli avevano "qualche possibilità per il 41 bis";
-dai due incontri che il Mangano aveva avuto con Dell 'Utri a Como dopo le elezioni dei 1994, così come aveva riferito il collaborante Cucuzza, all'esito dei quali vi era stata la promessa della emanazione di provvedimenti legislativi favorevoli in materia di regime carcerario (" 41 bis") ed di misure cautelari per il delitto di associazione mafiosa;
-dalle dichiarazioni del collaborante Giusto Di Natale che aveva riferito di avere visto Giuseppe Guastella, reggente di Resuttana, tornare euforico da un incontro con Mangano, che aveva dato buone speranze, dopo avere parlato con Dell'Utri, di "cose politiche".
[…] Secondo la Corte di legittimità la sentenza impugnata, passando in rassegna le dichiarazioni dei collaboranti aveva ritenuto che esse non contenessero elementi da cui desumere un impegno preciso in tema di interventi legislativi che Dell'Utri aveva preso net confronti del Mangano. […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS
Il nuovo appello, sotto esame la “condotta” di Dell’Utri sino al 1992. CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 novembre 2023
La Corte di Appello di Palermo aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992
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La sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla Corte di Cassazione il 9 marzo 2012 segna il percorso logico - giuridico che questa Corte, quale giudice del rinvio, dovrà seguire nell'esaminare la condotta di Marcello Dell'Utri al fine di verificare se essa, nell'arco temporale compreso tra il 1978 ed il 1992 - nei termini che saranno di seguito specificati - possa essere ricompresa nell'unico reato di natura permanente di concorso esterno in associazione mafiosa.
Deve essere brevemente rammentato che il Tribunale di Palermo con la sentenza dell' 11 dicembre 2004 aveva ritenuto la condotta di Marcello Dell 'Utri penalmente rilevante per le ipotesi originariamente formulate nei suoi confronti in due distinti capi d'imputazione, concorso esterno in associazione (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982 ( capo a) e concorso esterno in associazione mafiosa (reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi (capo b).
In particolare, erano stati individuati due snodi investigativi che avevano entrambi condotto all'affermazione della responsabilità dell'imputato. Il primo aveva riguardato i rapporti di Dell'Utri con i boss mafiosi Stefano Bontade e Girolamo Teresi e la funzione di mediatore che Dell'Utri, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà (condannato dal Tribunale alla pena di anni sette di reclusione per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p.) ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, aveva svolto tra" cosa nostra" e Silvio Berlusconi, anche dopo la morte di Bontade e Teresi.
Era stato ritenuto dal giudice di primo grado che Dell 'Utri, in tal modo, aveva apportato un consapevole e rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale aveva procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata dai soldi provenienti dall'estorsione posta in essere nei confronti dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il quale in cambio aveva ricevuto un'ampia protezione dall'associazione mafiosa.
Il secondo tema di indagine e di responsabilità aveva riguardato la condotta, posta in essere da Dell'Utri nel periodo successivo al 1992, che si era tradotta nella promessa fatta da quest'ultimo all'associazione mafiosa, di futuri benefici anche legislativi in tema di giustizia, m cambio di un appoggio elettorale.
La Corte di Appello di Palermo, pervenendo ad una soluzione parzialmente confermativa di quella del Tribunale, aveva confermato l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo per la parte relativa all'opera di mediazione svolta da Dell 'Utri in favore di Silvio Berlusconi e della consorteria mafiosa, assicurando al primo un'ampia protezione personale ed anche imprenditoriale ed alla seconda cospicui guadagni costituiti dal pagamento di somme di denaro versate dall'imprenditore, fino al 1992.
Non aveva ritenuto invece che sussistessero elementi probatori capaci di convalidare la tesi dell'accusa con riguardo al secondo tema d'indagine dello scambio politico - mafioso che Dell'Utri avrebbe asseritamente concluso nel 1994 con "cosa nostra" ritenendo che non erano rinvenibili a carico dell'imputato prove inequivoche e certe di concreti e consapevoli contributi a lui riconducibili aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa. CORTE D'APPELLO BIS
Sospetti, soldi sporchi ma collaboratori di giustizia poco attendibili. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 05 novembre 2023
La deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale
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Deve rilevarsi preliminarmente che la rinnovazione dibattimentale disposta dal Collegio con l'ordinanza del 17 ottobre 2012, ammissiva della deposizione testimoniale del collaboratore di giustizia Gaetano Grado richiesta dalla Procura Generale (ordinanza alla quale si rinvia e che fa parte integrante della presente decisione), non ha determinato l'ampliamento della condotta delittuosa attribuita a Dell'Utri, al quale tendeva il Procuratore Generale.
Il Collegio, infatti, ha ritenuto che le dichiarazioni rese da Grado non consentono di esprimere un giudizio di attendibilità intrinseca del collaborante, con ciò restando preclusa ogni valutazione delle dichiarazioni rese anche da Bruno Rossi, l'altro collaboratore di giustizia (pure ammesso con la stessa ordinanza), che avrebbero dovuto fornire un riscontro esterno alle propalazioni del primo.[…].
Deve essere precisato che il tema di approfondimento prospettato dal P.G, con la richiesta di esame del collaboratore Grado, tema relativo agli investimenti di "cosa nostra" nella realizzazione di "Milano 1" e di "Milano 2" che sarebbero stati effettuati da Dell'Utri con denaro che lo stesso avrebbe ricevuto da "cosa nostra" nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi e, dunque durante l'epoca del predominio dei corleonesi e di Totò Riina, non si era tradotto - diversamente da quanto sostenuto dalla difesa - nella formulazione di " un accusa nuova (..) o in fatto diverso rispetto a quello contestato ".
Il riciclaggio del denaro di "cosa nostra" in attività imprenditoriali milanesi rientranti nel gruppo Berlusconi che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stato effettuato da Dell'Utri al quale detto denaro veniva consegnato a Milano da "spalloni" siciliani, occultato all'interno delle autovetture con le quali costoro partivano dalla Sicilia, avrebbe avuto un preciso valore probatorio sotto rilevanti profili, già, peraltro sinteticamente esposti nell'ordinanza del 17 ottobre 2012 con la quale, ritenendone "la decisività al fine della valutazione della condotta contestata", questa Corte aveva ammesso l'esame testimoniale di Grado e di Rossi.
L'investimento di ingenti somme di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali del gruppo Berlusconi da parte di Dell 'Utri sarebbe rientrato - ove provato - a pieno titolo nel contributo atipico del concorrente esterno così come indicato nel capo d'imputazione, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa dell'imputato. Ed infatti, a Dell'Utri è stato contestato di aver messo a disposizione di "cosa nostra" le proprie conoscenze acquisite presso il sistema economico siciliano ed italiano nonché "l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale"; val la pena di sottolineare che i soggetti appartenenti all'associazione mafiosa indicati nel capo d'imputazione insieme a Dell'Utri (Stefano Bontade e Mimmo Teresi e poi Salvatore Riina) sono proprio gli esponenti mafiosi che Grado aveva evocato nelle sue dichiarazioni. Non può non essere sottolineato che il tema degli investimenti di Dell'Utri di denaro di "cosa nostra", proveniente dalla Sicilia e trasportato in contante a Milano da esponenti mafiosi, era già emerso nel corso delle indagini che hanno condotto al presente procedimento, sulla base delle dichiarazioni rese dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, presso il quale Dell'Utri era andato a lavorare nel 1978 allontanandosi per un certo periodo dal gruppo imprenditoriale facente capo a Berlusconi.
Il Tribunale, allorquando si era soffermato sulle dichiarazioni di Rapisarda, con motivazioni che questo Collegio ritiene del tutto condivisibili, dopo avere sottolineato che l'imprenditore non poteva essere considerato "un teste totalmente affidabile", aveva tuttavia precisato che le sue dichiarazioni, sfuggivano al giudizio di inattendibilità solo allorchè avevano trovato conferme esterne.
Orbene Rapisarda ha dichiarato nel corso dell'istruzione dibattimentale che, alla fine del 1978, primi del 1979, era passato dall'ufficio di Dell'Utri della Bresciano di Via Chiaravalle ed aveva notato l'imputato insieme a Bontade e Teresi; questi ultimi stavano ''facendo delle sacche" ed avevano soldi in contanti sul tavolo.
I soldi dovevano essere consegnati a Berlusconi con il quale Dell 'Utri stava parlando a telefono e, dal tenore della conversazione, Rapisarda aveva capito che l'imprenditore milanese si stava lamentando con Dell'Utri per non avere ancora ricevuto i soldi. Rapisarda non aveva saputo dire quanto fosse il loro ammontare, ma all'incirca riteneva che si fosse trattato di dieci miliardi di lire.
“Rapisarda: I soldi, i soldi .... ho visto i soldi. Nel 1979 ... '78/'79 io mi recai dal notaio Sessa in via Lanza 3, vicino a Piazza Castello, uscendo di là dentro... uscendo di là dentro a Piazza Castello incontrai Stefano e Mimmo Teresi, i quali mi dissero: «Pigliamoci un caffè .... » e compagnia bella. Parlando parlando mi dissero che avevano appuntamento con Dell' Utri e che dovevano fare delle operazioni, mi dissero che li aveva chiamati per le televisioni e compagnia bella .... tanto che io rimasi, perchè le televisioni li avevo fatto pure io, quindi ... Comunque io ero già nel periodo in cui avevo un mandato di cattura addosso, lo sapevo benissimo, stavo cercando di mettere a posto alcune cose per andarmene"; P .M. : Quindi è poco prima della sua fuga? "; Rapisarda:" Si, poco prima della mia... gennaio '79. L 'incontro fu alla fine di dicembre, non credo che era già gennaio '79. Dopo un po' di giorni, ricordo che una sera andai nell'ufficio di Dell'Utri e trovai Stefano Bontade e Mimmo Teresi che avevano... stavano facendo delle sacche, avevano dei soldi sul tavolo .. "; P.M. : " Quindi avevano soldi in contanti"; Rapisarda:" Si. E lui era al telefono, come Marcello Dell'Utri mi ha detto, con Silvio Berlusconi, il quale diceva ... anzi si era lamentato perchè doveva andare ... quella sera doveva portare i soldi subito "; P .M. : "Questo perchè non lo ha detto precedentemente? Perchè non mi risulta che lei ne abbia parlato"; Rapisarda : "E non l'ho detto perchè sa ... "; P.M.: "Cioè, il fatto dei dieci miliardi lo aveva già riferito, ma questa circostanza non era stata riferita"; Rapisarda: "E questa circostanza ... si era lamentato anzi che era tardi e doveva portare ... dovevano portare questi soldi da cosa ad Arcore""; Presidente:"Mi scusi, si era lamentato chi, signor Rapisarda? "; Rapisarda : " Lui, il dottor Dell'Utri"; P.M.:"Allora, ritorniamo indietro perchè ci sono delle cose di cui lei non ha mai parlato e quindi è il caso che ne parli approfonditamente, anzi la invito se ha delle altre dichiarazioni da fare, parli tutto oggi e non farne altre in altre occasioni. E allora voglio sapere: l'incontro con Teresi e Bontade si colloca sempre in questa .. "; Rapisarda· "In questa ottica, dopo questa prima cosa sono rimasti .. "; P .M.:" Quindi siamo nel gennaio del 1979? "; Rapisarda: "Si, '79 ": P.M.:" Lo stesso giorno lei vede questi sacchi di .... "; Rapisarda: "No, credo che siano passati.... io stavo per... credo che è stato alcuni giorni dopo, io penso che sono andato via dopo tre/quattro giorni da questo fatto, sono andato via dall'Italia. Quindi lei faccia il conto, io sono andato via il 16 febbraio del '79 alle ore 21. 00 e questo fatto deve essere stato otto giorni prima ... sette giorni prima. E io ero lì, sapevo che avevo questo disastro addosso e stavo cercando di ... (... )"
Rapisarda ha ancora parlato di investimenti di denaro da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali di Berlusconi ed in particolare nelle attività di Canale 5 , nel frammento delle dichiarazioni relative all'incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980 a Parigi presso l'Hotel George V , tra lui e Dell 'Utri che aveva dato appuntamento a Bontade e Teresi.
L'imputato, in quell'occasione, aveva chiesto ai due boss mafiosi la somma di 20 miliardi di lire " ...perché Canale 5 aveva bisogno di soldi". Rapisarda ha precisato, in maniera dettagliata, che "la proposta venne fatta per l'acquisto dei film e per sviluppare le televisioni".
I due boss mafiosi gli avevano risposto che avrebbero valutato la richiesta e che, secondo lui, Bondate e Teresi erano già "dentro con i soldi", avendo visto con i suoi occhi tempo prima la consegna del denaro alla Bresciano, alla quale si è già fatto cenno. L'argomento degli investimenti da parte di "cosa nostra" in attività imprenditoriali riconducibili a Berlusconi con l'intervento di Dell'Utri non sarebbe stato di poco rilievo, in quanto avrebbe fornito un'ulteriore conferma del ruolo assunto da quest'ultimo nei confronti della consorteria mafiosa e anche dell'amico Berlusconi e la sua consapevolezza di agire rafforzando il potere economico di "cosa nostra" tutelando gli interessi del gruppo imprenditoriale dal quale non si era mai distaccato, neppure quando era andato a lavorare da Rapisarda.
Se dette dichiarazioni avessero ricevuto una conferma esterna nelle propalazioni di Gaetano Grado, il loro peso probatorio avrebbe sicuramente inciso sulla valutazione della condotta dell'imputato: è questo il motivo per il quale questo Collegio ha ritenuto rilevante l'esame testimoniale di Grado (e di Rossi) richiesto dalla Procura Generale. Tuttavia così non è stato in quanto il giudizio di inattendibilità intrinseca del collaborante ha escluso ogni valutazione della circostanziata deposizione resa da quest'ultimo e i fatti da lui enunciati non possono considerarsi idonei a superare neppure la soglia di mero indizio.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Gaetano Grado e gli incontri milanesi degli Anni Settanta. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 06 novembre 2023
I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda. Tuttavia, allorché il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
In ordine a Grado non può essere trascurato che con sentenza definitiva (acquisita agli atti del presente giudizio all'udienza del 30 ottobre 2012) relativa alla strage di Viale Lazio, il G.U.P. del Tribunale di Palermo del 12 dicembre 2008 aveva espresso un giudizio positivo sull'attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaborante, concedendogli l'attenuante della collaborazione di cui all'art. 8 D.L. 13.5.1991, n. 152.
Nel corso della sua deposizione testimoniale (v. trascrizione dell'udienza del 30 ottobre 2012) resa nel presente giudizio di rinvio, Grado - dopo avere riferito fatti che erano caduti sotto la sua diretta percezione o che aveva appreso da altri esponenti mafiosi ed avere spiegato le ragioni della propria collaborazione e cioè che non credeva più in "cosa nostra" che aveva coinvolto nelle " stragi'' " donne, bambini", escludendo che dette ragioni fossero state dettate da motivi di convenienza personale ( stava invero per concludere il periodo di detenzione in carcere), ha affermato, con una particolare enfasi, alcune circostanze che ne . hanno irrimediabilmente annullato l’attendibilità soggettiva.
Richiamando, seppur brevemente le dichiarazioni, va ricordato che il collaboratore - fratello di Antonino Grado, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù a capo della quale vi era Stefano Bontade e che aveva guidato l'auto con la quale Di Carlo, Teresi, Cinà e lo stesso Bontade si erano recati all'appuntamento a Milano nel 1974 con Dell'Utri e Berlusconi - ha dichiarato che nel 1969 era entrato ritualmente a fare parte della suddetta famiglia; aveva iniziato il suo percorso di collaborazione da dieci anni e si era accusato di delitti per i quali non era neppure indagato; aveva partecipato inoltre alla strage di Viale Lazio avvenuta il 1 O dicembre 1969 con Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino e Damiano Caruso; si era reso responsabile degli omicidi di "tanti rappresentanti" della famiglia mafiosa dei corleonesi nell'ambito della guerra di mafia iniziata dopo la morte di Stefano Bontade, avvenuta il 23 aprile 1982.
Ha precisato che la rottura con i corleonesi era avvenuta dopo " la scarcerazione del processo dei 114" e che era stato lui a dire a Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti di eliminare Salvatore Riina " perché spadroneggiava". Ha poi evidenziato che il fratello Antonino, scomparso "a lupara bianca" e che viveva a Milano, era uno dei più grandi "trafficanti di eroina"; il "boom" del commercio di detta sostanza era stato nel 1970 ed il fratello aveva continuato a trafficare fino a quando non era scomparso nel 1984.
Grado nel corso della sua deposizione ha in primo luogo dimostrato di conoscere fatti rientranti a pieno titolo nelle vicende oggetto del presente procedimento (l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, il coinvolgimento di Gaetano Cinà in detta vicenda ed il ruolo di quest'ultimo che, pur non essendo intraneo a "cosa nostra", sapeva più di quanto potesse sapere un uomo d'onore e che aveva saputo che era stato inserito nella famiglia mafiosa di Resuttana, solo dopo la guerra di mafia) e anche gli interessi economici di Bontade, Teresi e dello stesso fratello Nino Grado. Il collaborante ha in particolare ricordato che il fratello e Bontade, avevano investito nella realizzazione di "Milano l" e di "Milano 2" ( "Grado:" Ma guardi, su Milano Stefano Bontade a quanto ne sappia io, che mi diceva mio fratello e poi me lo confermava pure Stefano, era che stavano facendo Milano 1 e Milano 2 ").
Ha poi parlato del denaro da investire che veniva portato in contante dalla Sicilia a Milano da Vittorio Mangano o da un "certo" Rosario D'Agostino in auto o anche in altri modi e che gli investimenti erano avvenuti fin dal 1972/1973. In relazione alla destinazione di detti soldi appare rilevante sottolineare che Grado ha riferito che i soldi, giunti a Milano, venivano consegnati a Marcello Dell 'Utri. Lo aveva saputo da Stefano Bontade, dal fratello Nino Grado e da Vittorio Mangano : il denaro veniva investito nella costruzione di "Milano 1" o di " Milano 2", ma poi non sapeva che fine facesse .(Presidente:"( ... ) suo fratello e il Mangano le dissero mai a chi portavano il denaro?; Grado:"si,si";Presidente:" Glielo dissero? E che cosa le dissero?"; Grado" Si, mi dissero che lo portavano a Marcello Dell'Utri che era il riferimento di .. il referente di Berlusconi ").
Gaetano Grado ha riferito di avere tentato di recuperare i soldi investiti dal fratello su "Milano l" e "Milano 2", di essere stato arrestato nel 1989 e di avere conosciuto nel carcere di Vasto un ragazzo napoletano di nome Rossi che sarebbe stato scarcerato di lì a poco. Al carcere aveva conosciuto anche Giacomo Cavalcante che era capo della famiglia di cui faceva parte il Rossi, una famiglia "perdente".
Poiché quest'ultimo aveva mostrato di tenerlo in considerazione, Grado gli aveva chiesto di fargli un favore: uccidere un uomo, "un certo Vittorio Mangano a Milano" ed il Rossi gli aveva detto di si. Ha parlato poi delle tangenti pagate per le antenne televisive alla famiglia di Santa Maria di Gesù, ( Grado: " Un certo Salvatore Cucuzza, che pigliava soldi dalle antenne televisive di Berlusconi e che - per una buona parte - venivano presi da Stefano Bontade "), della destinazione di dette somme dopo la morte di Bontade affermando che, secondo la regola mafiosa, era naturale che i soldi andassero ai Pullarà atteso che costoro erano reggenti. ( P.G.:" - Le risulta che dopo Stefano Bontade questi soldi finivano a Pullarà? "; GRADO:" Ma naturalmente, se era lui il reggente, certo che li pigliava Pullarà''); ha inoltre mostrato di essere a conoscenza degli attentati a Berlusconi ed in particolare di quello avvenuto ''prima dell '80" per il quale si era voluto realizzare " un messa in scena": avevano fatto esplodere una bomba "carta" di "polvere di cave" che gli aveva annerito solo il cancello.
Per quel gesto tuttavia erano riusciti a prendere - tramite Mangano - dei soldi a Berlusconi. Grado poi ha dichiarato di essere a conoscenza di un tentativo di sequestro, ad opera dei calabresi, dei figli di Berlusconi e di quello che aveva fatto Stefano Bontade per impedirlo. I fatti narrati avrebbero costituito, con tutta evidenza, una conferma alle attività di investimento di cui aveva parlato Rapidarda, essendo riferibili non solo alla fase in cui erano vivi i due boss mafiosi Teresi e Bontade, ma anche al tempo in cui il potere era andato nelle mani di Totò Riina vincitore nella guerra di mafia.
Tuttavia, allorchè il collaborante si è soffermato sul tema dei traffici di stupefacenti, le dichiarazioni hanno assunto un tale grado di mendacio che, senza alcuna esitazione, non può che formularsi su di lui un giudizio di inattendibilità soggettiva. SENTENZA D'APPELLO BIS
Cosa Nostra, Dell’Utri e “l’estorsione imposta” a Silvio Berlusconi. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani il 07 novembre 2023
Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione
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È stato invero ritenuto che Marcello Dell'Utri, in tale periodo ha prestato, con coscienza e volontà, un rilevante contributo all'associazione mafiosa "cosa nostra" consentendo ad essa di rafforzarsi economicamente grazie al pagamento del prezzo dell'estorsione imposta a Berlusconi, che non si era sottratto alla richiesta di denaro per garantirsi protezione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano "adeguatamente rappresentato come la condotta dell'agente, riferita agli anni che vanno da 1974 fino alla fine del 1977" aveva costituito un "antecedente causale" alla conservazione del sodalizio criminoso che si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e rafforzarsi.
"E' indubbio - ha osservato la Suprema Corte - che l'accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell'Utri, con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di cosa nostra vada ad inserirsi in un rapporti di causalità, nella realizzazione dell'evento del finale rafforzamento di cosa nostra".
Reputa il Collegio, seppur considerando che questo periodo non rientra tra le condotte devolute al nuovo esame essendosi formato su di esso un giudicato, che sia necessario soffermarsi comunque sui tre fatti storici essenziali nella ricostruzione della condotta di Dell'Utri, individuabili proprio in tale periodo e ciò in quanto le considerazioni che saranno svolte costituiscono l'antecedente logico-giuridico dell'esame della condotta successiva dello stesso imputato (1978-1992), che viceversa rientra nella valutazione richiesta dai giudici di legittimità a questa Corte, quale giudice del rinvio.
Detti fatti storici definitivamente accertati sono costituiti:
a) dall'incontro avvenuto a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974 tra lo stesso Dell 'Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi ed il collaborante Di Carlo, nel corso del quale è stato raggiunto l'accordo di reciproco interesse tra "cosa nostra", rappresentata autorevolmente dai boss mafiosi Bontade e Teresi e l'imprenditore Berlusconi, accordo che era stato realizzato proprio con la mediazione di Dell'Utri che aveva coinvolto l'amico Gaetano Cinà il quale, grazie ai saldi collegamenti con la consorteria mafiosa, aveva garantito il realizzarsi dell'incontro stesso;
b) dall'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta non già per garantire la presenza di uno stalliere o di un uomo che curasse la villa o i cani di Berlusconi, ma quale dimostrazione del presidio mafioso di protezione e controllo del ricco imprenditore che temeva per la sua sicurezza e per quella dei suoi familiari;
c) dal pagamento di somme da parte dell'imprenditore a "cosa nostra" al fine di ricevere protezione in virtù del suddetto patto. Detti fatti storici devono essere richiamati in quanto essi non hanno esaurito i loro effetti solo nel periodo storico di riferimento, già coperto da "giudicato" e come tale non più discutibile, ma hanno sicuramente permeato di profondo significato tutto il periodo di contestazione del reato successivo.
SENTENZA D'APPELLO BIS
Quel faccia a faccia fra il Cavaliere e il capomafia Stefano Bontate. SENTENZA D'APPELLO BIS su Il Domani l'8 novembre 2023
Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi
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Tra il 16 ed il 29 maggio 1974 è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato ad un incontro organizzato da lui stesso e da Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano ed aveva siglato il patto di protezione di Berlusconi.
Esso dunque ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l'imprenditore Berlusconi e "cosa nostra" con la mediazione costante ed attiva dell'imputato che - come sarà esposto di seguito - non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti e che, in particolare, ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento.
Appare necessario soffermarsi sui soggetti con i quali Dell 'Utri ha concluso quell'incontro al fine non solo di chiarire da chi era rappresentata la componente soggettiva dell'accordo al quale ha partecipato Dell 'Utri, ma anche per sottolineare che i soggetti di quell'accordo saranno i suoi riferimenti mafiosi privilegiati per tutto il periodo in esame fino al 1992 (con l'esclusione solo di Bontate e Teresi vittime della guerra di mafia del 1981).
Tra questi soggetti l'unico che Dell 'Utri ha definito suo amico è Gaetano Cinà che, anche se non è stato ritualmente inserito in " cosa nostra", ha assunto costantemente ruoli talmente delicati - anche prima della sentenza di condanna inflittagli dalla sentenza del Tribunale di Palermo - da poter essere considerato di fatto fin da allora appartenente alla famiglia mafiosa di Malaspina. Se così non fosse stato, del resto, sarebbe stato del tutto inimmaginabile che Bontate e Teresi gli avrebbero consentito di partecipare all'incontro del 1974 e che Filippo Alberto Rapisarda, avrebbe provato il timore, di cui lui stesso ha parlato, di rifiutargli la raccomandazione che Cinà gli aveva fatto al fine di fargli assumere alle sue dipendenze Dell'Utri.
Lo stesso imputato, seppur negando di essere stato assunto a seguito della raccomandazione di Cinà, nel corso delle dichiarazioni spontanee, non aveva potuto negare di avere notato che Rapisarda, allorché si era presentato con Cinà, era rimasto impressionato dalla presenza di quest'ultimo.
Se Dell'Utri non avesse attribuito a Cinà una contiguità con l'ambiente mafioso, non si spiegherebbe il motivo per il quale, dopo l'attentato della notte del 29 novembre 1986, dopo avere parlato con Berlusconi e Confalonieri, lo aveva chiamato immediatamente per avere notizie.
Deve poi rilevarsi che in quell'occasione Cinà aveva dato all'amico Dell'Utri una risposta in termini chiari sulla matrice dell'atto intimidatorio ed aveva escluso così il coinvolgimento del Mangano. Appare evidente che l'imputato non si era fatto accompagnare o aveva chiamato Cinà in quanto titolare di una lavanderia o solo come suo amico dai tempi della squadra calcistica della Bacigalupo: l'imputato era sicuramente a conoscenza che Cinà intratteneva stretti rapporti con soggetti autorevoli di "cosa nostra" che potevano fare effetto su Rapisarda o che potevano consentigli di avere notizie certe sui mandanti dell'attentato.
Altro soggetto presente all'incontro era il boss mafioso Stefano Bontate, capo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e che aveva fatto parte fino a poco tempo prima del "triumvirato", massimo organo di vertice di "cosa nostra" del quale facevano parte anche Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio. Anche Girolamo Teresi era un soggetto attivo all'interno dell'associazione criminale in quanto sottocapo della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù. Alla riunione era presente inoltre il collaboratore Francesco Di Carlo, uomo d'onore della famiglia di Altofonte, di cui ha fatto parte fin dagli anni '60 e della quale, nel 1973/74, era divenuto consigliere ed in seguito sottocapo.
Dell'Utri, partecipando all'incontro di pianificazione, ha siglato in modo definitivo un patto con " cosa nostra" che - come sarà in seguito argomentato da questo Collegio - proseguirà, senza interruzioni, fino al 1992. In virtù di tale patto i contraenti ("cosa nostra" da una parte e Silvio Berlusconi dall'altra) ed il mediatore contrattuale (Marcello Dell'Utri), legati tra di loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale dell'imprenditore mediante l'esborso di somme di denaro che quest'ultimo ha versato a "cosa nostra" tramite Marcello Dell 'Utri che, mediando i termini dell'accordo, ha consentito che l'associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro.
V'è da aggiungere che nella prima fase dell'accordo, fintantoché i protagonisti non erano mutati e cioè prima della guerra di mafia e della morte di Bontate e Teresi, Dell 'Utri, nella sua condotta di mediazione tra le parti, era entrato in diretto contatto con i boss mafiosi Bontate e Teresi incontrandoli personalmente e discutendo con loro i termini dell'accordo e anche intrattenendosi in rapporti conviviali.
Su tale circostanza e cioè sull'esistenza della prova dell'incontro del 1974 la Corte di Cassazione ha dedicato un passaggio della decisione affermando che la tesi difensiva dell'inattendibilità di Di Carlo, che di tale incontro è la principale fonte dichiarativa, era infondata e che il collaboratore Di Carlo " nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito; che il suo racconto in ordine alla circostanza dell'incontro di Milano fra le menzionate parti interessate abbia presentato credibilità anche oggettiva e che sia stato riscontrato obiettivamente da un pluralità di elementi. " (pag. 99).
L'acclarata esistenza di un interlocuzione diretta di Dell'Utri con gli esponenti di "cosa nostra" Bontatee Teresi all'epoca della definizione dei termini dell'accordo costituisce - per i motivi che saranno spiegati in altro paragrafo - la differenza unica e del tutto peculiare rispetto a quello che sarà il paradigma contrattuale nell'accordo che l'imputato manterrà con l'associazione mafiosa anche dopo la morte di costoro e con l'ascesa dei corleonesi e del capo Salvatore (Totò) Riina, con il quale invece non si sono mai registrati contatti diretti. L'incontro, dunque, segna l'inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell'Utri e "cosa nostra" fino al 1992.
E' da questo incontro che l'imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito ( da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l'ombrello di protezione mafiosa, assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all'obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione. SENTENZA D'APPELLO BIS
Lo “stalliere” e i cavalli di Arcore, l’assunzione di Vittorio Mangano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 09 novembre 2023
È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
È stato definitivamente accertato che l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, avvenuta nell'estate del 1974, è stata decisa non tanto per la nota passione di Mangano per i cavalli, ma per garantire un presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore milanese (pag. 100 sentenza Cass.). Detta decisione è stata presa all'esito della più volte citata riunione tenutasi a Milano tra il 16 ed il 29 maggio 1974, sulla base di un accordo "di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia tramite Dell'Utri che di quell'assunzione è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà" (pag 102- 105).
Orbene, reputa il Collegio, che la presenza di Mangano ad Arcore e la decisione sottesa all'assunzione costituiscono un altro dei passaggi fondamentali di quella parte della decisione che a seguito della sentenza dei giudici di legittimità è ormai divenuta definitiva e che, secondo questo Collegio ha assunto un rilievo determinante in quanto - seppur temporalmente collocato in un periodo in cui ogni valutazione di merito è definitivamente preclusa - ha permeato di significati decisivi il periodo successivo e cioè quello oggetto del giudizio di rinvio compreso tra il 1978 ed il 1992.
Vittorio Mangano, che era andato ad Arcore nel maggio/giugno 1974 dopo l'incontro di Milano esclusivamente per proteggere l'imprenditore e la propria famiglia (la Corte di Cassazione ha indicato gli argomenti per i quali era da escludersi ogni altro scopo dell'assunzione che era seguita all'incontro ed ha anche indicato le dichiarazioni di Galliano e di Cucuzza a conferma di quelle di Di Carlo), era stato assunto su indicazione di Dell 'Utri.
Quest'ultimo, seppur confermando detta circostanza (Dell'Utri: "Il Mangano venne assunto alle dipendenze del dr. Berlusconi su mia indicazione") ,ha affermato che la finalità di detta assunzione era stata quella, definitivamente esclusa dalla Corte di Cassazione, di trovare un soggetto che potesse " mandare avanti la Villa Casati".
Dell'Utri ha sempre negato che Mangano fosse un amico per lui (come invece lo era stato il Cinà) ed ha anzi affermato di esserne intimorito, tanto da sopportare i contatti con lui.
Deve essere solo accennato (la disamina dei rapporti con Mangano sarà oggetto di successiva trattazione) che il rapporto tra i due non si è mai interrotto almeno fino al 1992 ed ha subito delle forzate interruzioni per i periodi di detenzione del Mangano che già nel dicembre 1975 e cioè dopo meno di un anno dal momento in cui aveva definitivamente lasciato Arcore, veniva affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova all'epoca formalmente aggregata al mandamento di Santa Maria di Gesù, comandato da Stefano Bontate.
La continuità della frequentazione, l'avere pranzato in diverse occasioni con lui sono circostanze che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura. Del resto, Dell 'Utri non ha mai mostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro. L'incontro milanese del 1974 lo aveva posto a contatto con mafiosi del calibro del Bontate e del Teresi che erano i capi di "cosa nostra".
Né può affermarsi che Dell'Utri, fin da momento in cui Mangano era stato assunto nella Villa di Arcore, non già come stalliere o custode, ma solo per realizzare concretamente il patto di protezione stipulato tramite lo stesso Dell'Utri tra "cosa nostra" e Berlusconi, non fosse stato consapevole del fatto che Mangano era un soggetto dotato di una particolare caratura criminale. Va rammentato che nel 1975 Mangano, anche se non in maniera traumatica - come lui stesso ha affermato - era stato allontanato dalla Villa di Arcore non solo in quanto coinvolto come basista nel tentato sequestro del principe D' Angerio, ma perché era stato arrestato seppur per pochi giorni. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I pagamenti di Silvio Berlusconi a Cosa Nostra per avere protezione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 10 novembre 2023
È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontade e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell 'Utri
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È stato infine definitivamente accertato che a seguito dell'incontro del 1974 erano iniziate le richieste di pagamento da parte di "cosa nostra" a Berlusconi, quale prezzo per la protezione e corrispettivo del patto stretto tra i mafiosi (Bontate e Teresi) e l'imprenditore Berlusconi con la mediazione del concorrente esterno Dell'Utri. Del versamento di somme - ha evidenziato la Corte di Cassazione ( pag. 103) - hanno parlato Di Carlo, Galliano, Scrima e Cucuzza, con dichiarazioni che sono state reputate «capaci di riscontrarsi in maniera reciproca».
Appare necessario riprendere seppur in estrema sintesi, le modalità ed i passaggi dei pagamenti e ciò - solo anticipando il paragrafo che sarà dedicato ai pagamenti relativi al periodo oggetto del giudizio di rinvio ( 1979-1992) - in quanto reputa questo Collegio che dette modalità, detti passaggi e le ragioni sottese agli stessi pagamenti sono del tutto sovrapponibili a quelli realizzati nell' epoca successiva, così come del tutto coincidenti sono gli atteggiamenti di Dell 'Utri nel periodo coperto da giudicato rispetto a quelli relativi al periodo compreso tra 1978 ed il 1992.
Francesco Di Carlo (v. dich. rese all'udienza del 16 febbraio 1998) ha riferito che, proprio a seguito dell'incontro milanese, Cinà gli aveva confidato il suo imbarazzo perché dopo l'incontro gli avevano fatto chiedere a Berlusconi la somma di lire 100.000.000, somma che gli era stata consegnata. Non sapeva se oltre a quella somma ne erano state consegnate delle altre e spiegava che il denaro serviva ad avere la garanzia, non solo di non essere sequestrato, ma per tutto quello che poteva accadere ad un industriale.
Antonino Galliano, nipote di Raffaele Ganci e vicino al figlio di quest'ultimo Domenico, uomo d'onore ritualmente affiliato alla famiglia mafiosa della Noce della quale era stato anche reggente per un certo periodo, ha riferito di avere saputo da Cinà dell'incontro milanese avvenuto tra quest'ultimo, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Dell'Utri e Berlusconi e del fatto che quest'ultimo era stato rassicurato da Bontade che "per maggiore sicurezza" gli aveva mandato Mangano. Secondo Galliano, Berlusconi aveva deciso di fare un regalo a Stefano Bontade ed aveva consegnato a Cinà, due volte all'anno, presso lo studio di Dell'Utri, la somma di 50.000.000 di lire. Salvatore Cucuzza, uomo d'onore dal 1975 appartenente alla famiglia del Borgo e che dal giugno del 1994 ( dopo la sua ultima scarcerazione) aveva affiancato per un certo periodo di tempo Vittorio Mangano nella reggenza del mandamento di Porta Nuova, ha riferito di aver saputo dallo stesso Mangano che quest'ultimo, grazie ali' interessamento di Cinà, era andato a lavorare ad Arcore da Berlusconi.
Lo stesso collaborante ha poi dichiarato che l'imprenditore versava 50.000.00 di lire che erano stati consegnati in un primo momento a Mangano che tramite Nicola Milano li faceva pervenire alla famiglia di Santa Maria di Gesù.
Della consegna di somme di denaro al Mangano ha parlato anche Francesco Scrima, uomo d'onore dellafamiglia mafiosa di Porta Nuova, che aveva conosciuto Mangano in carcere nel 1975, presentatogli come uomo d'onore.
Il collaborante lo aveva incontrato di nuovo nel 1988-1989 presso il carcere di Palermo "Ucciardone" ed anche in seguito fuori dal carcere presso i fratelli Milano con i quali il Mangano intratteneva rapporti. Mangano aveva parlato a Scrima della propria attività di stalliere svolta ad Arcore negli anni '70 e si era lamentato con lui, nel 1988/1989, del comportamento, che aveva giudicato scorretto, tenuto nei suoi confronti da parte di Ignazio Pullarà, reggente della famiglia S.Maria del Gesù, che si era appropriato delle somme che versava Berlusconi e che Mangano riteneva spettassero a lui.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I pentiti raccontano dei “regali” ai boss con Marcello Dell’Utri mediatore. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'11 novembre 2023
La Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato: «La non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato»
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In conclusione, con la pronuncia di annullamento, la Suprema Corte ha ritenuto definitivamente accertato - in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all'attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza , collaboranti gravitanti all'interno di" cosa nostra" - i seguenti fatti:
-"l'assunzione - per il tramite del Dell'Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di "cosa nostra";
- "la non gratuità dell'accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo essendosi posto anche come garante del risultato";
-il raggiungimento dell'accordo di natura ''protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quell'assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso dal Cinà”. (pag 105)
In relazione ai pagamenti è di particolare rilievo sottolineare che la Corte di Cassazione ha poi condiviso l'operato dei giudici della sentenza annullata nella parte in cui avevano ritenuto che le divergenze dei collaboratori in ordine all'ammontare dei pagamenti (Di Carlo aveva riferito che l'imprenditore aveva versato L. 100.000.000, Galliano aveva dichiarato che la somma, corrisposta a titolo di regalo, era pari a L. 50.000.000 e Cucuzza aveva parlato di un versamento annuo di L. 50.000.000), dovessero essere considerate alla stregua di dettagli, trattandosi di racconti "indiretti" che potevano avere subito "variazioni e/o interpretazioni in occasione dei passaggi di confidenze dall'uno all'altro soggetto" considerato inoltre il notevole lasso di tempo intercorso dalla notizia che era pervenuta Galliano ( dieci anni) e la conclusione dell'accordo.
Il nucleo essenziale che era indiscutibilmente emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori e che era rimasto" invariato e ripetuto" - secondo i giudici di legittimità (pag. 105) era costituito dalla "ricerca e dal raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e "cosa nostra'' per il tramite di Cinà e di Dell'Utri volto a realizzare una proficua reciproca collaborazione di intenti".
Orbene le condotte fin qui delineate e consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di "cosa nostra" al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l'associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell'imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all'imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Sono stati ritenuti significativi i rapporti intercorsi tra Dell'Utri ed esponenti acclaratamente mafiosi come Bontate, Teresi, Mangano e soggetti sostanzialmente mafiosi come Cinà, con i quali ed in favore dei quali l'imputato ha posto in essere condotte risultate utili sia per Berlusconi che per l'intera associazione mafiosa alla quale è stato consentito di mantenere e rafforzare il potere economico ed anche il prestigio tramite il contatto con un imprenditore dell'importanza di Silvio Berlusconi.
Tali rapporti intrattenuti con Bontate, Teresi, Cinà e Mangano da parte di Dell'Utri, per il significato concreto che hanno assunto nella conclusione del patto del 1974, lungi dal rientrare tra quelli definiti dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza del 12 luglio 2005, n. 33748, come espressione di relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico sociale, ma di per sé estranee all'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, sono stati considerati dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento, rilevanti e significativi proprio nella realizzazione della condotta tipica dell'imputato in ordine al delitto contestatogli.
Acclarata la conclusione alla quale era pervenuta la Corte di Cassazione, che aveva attribuito alla condotta del Dell'Utri, nel periodo compreso tra il 1974 e la fine del 1977 una definitiva connotazione di rilevanza penale, deve evidenziarsi che lo stesso giudice di legittimità ha rilevato invece un vizio di motivazione della sentenza della Corte d'Appello sia con riferimento al "periodo di quattro anni almeno in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana ed aveva lavorato alle dipendenze di Rapisarda; sia alla questione del dolo che avrebbe assistito la fase dei successivi pagamenti, fino al 1992.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Lontano dal Cavaliere, Marcello cambia lavoro ma non quegli “amici”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 12 novembre 2023
Malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "Cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Affrontando il tema oggetto del giudizio di rinvio, deve in primo luogo esaminarsi la condotta tenuta da Dell 'Utri in seguito al suo allontanamento da Silvio Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze dell'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, periodo in ordine al quale la Corte di Cassazione ha rinvenuto un "vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso (pag.112). Tanto premesso deve essere evidenziato, seguendo le considerazioni della Suprema Corte nella sentenza di annullamento (pag. 116) e in linea con altre pronunce dello stesso giudice di legittimità (v. anche Cass. 10 maggio 2007, n. 542) che il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso è un reato permanente, un reato cioè in cui " l'agente ha il potere di determinare la situazione antigiuridica ed anche di mantenerla volontariamente nonché di rimuoverla così dando luogo egli stesso (...) alla riespansione del bene giuridico compresso", pag. 117).
Detto bene giuridico - costituito dall'integrità dell'ordine pubblico - nel caso in esame è stato violato allorché Dell'Utri ha promosso e propiziato quel patto concluso nel 1974 tra Berlusconi, costretto a pagare somme di denaro rilevanti a "cosa nostra" e la stessa associazione che, con tali sicuri e lauti guadagni, ha esteso la propria forza economica ed il proprio potere sostituendosi a sistemi di tutela istituzionali. Deve qui precisarsi dunque che fintantoché il concorrente esterno ha protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha voluto e di cui si era fatto garante presso i due poli ai quali si è fatto più volte cenno (Berlusconi da un parte e "cosa nostra" dall'altra) si è manifestata la permanenza del reato posto in essere.
Il dies a quo del reato di concorso esterno è stato individuato - in modo del tutto condivisibile - dalla Suprema Corte nella "realizzazione dell'accordo mafia- imprenditore" ed "era destinato a cessare quando e se fossero cessati i comportamenti che l'imputato teneva in esecuzione dell'accordo (...), sempre ovviamente restando impregiudicata l'analisi de/l'atteggiamento psicologico" (argomento sul quale si ci soffermerà in seguito).
La Corte di Cassazione, seppur evidenziando che la Corte d'Appello con la sentenza annullata, "in linea di principio" uniformandosi ali' orientamento testè richiamato, aveva ancorato la cessazione del concorso esterno di Dell 'Utri al 1992 e cioè alla data di effettuazione degli ultimi pagamenti da parte di Berlusconi alla mafia tramite Dell 'Utri in esecuzione del patto di protezione, ha poi precisato che il suddetto giudice non aveva tenuto conto o comunque non aveva motivato sulle ragioni in base alle quali una prima fase di cessazione della condotta in esame non poteva essere individuata nel periodo 1978- 1982 durante il quale Dell'Utri non era rimasto più alle dipendenze del Berlusconi, soggetto in favore del quale il patto con la mafia era stato stipulato.
Questo giudice del rinvio quindi - in relazione al periodo suindicato (1978-1982) dovrà colmare detta lacuna "ove ricorrano gli elementi, con specifiche indicazioni di quale sia stato il comportamento, nel periodo, da parte di Dell 'Utri, non potendo darsi ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con Berlusconi, rapporti che non provano l'intromissione di Dell 'Utri in affari penetranti per la vita dell'imprenditore dal quale si era allontanato atteso che di ciò non risultano esplicitate neppure la ragione e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono comunque avvenuti materialmente dunque anche ad opera di terzi a partire dal 1978 "(pag. 118).
In relazione al protrarsi di detti pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" nel periodo successivo al ritorno di Dell'Utri nell'area imprenditoriale berlusconiana, la motivazione della Corte d'Appello - dal punto di vista oggettivo - essendo logica e congrua aveva superato il controllo di legittimità, "richiedendo invece una opportuna chiarificazione solo se si sia trattato di un prosecuzione senza soluzione di continuità dopo l'allontanamento di Dell'Utri ovvero di una ripresa dopo un 'interruzione".
Questo passaggio della sentenza induce a fare una considerazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto che era stato correttamente individuato dai giudici di merito il fatto oggettivo che Berlusconi, dopo il ritorno di Dell'Utri all'interno della propria area imprenditoriale, abbia versato a "cosa nostra" ingenti somme di denaro e ciò fino al 1992 data in cui è stato accertato l'ultimo pagamento; oggetto di esame demandato a questo giudice di rinvio è solo l'esame dell'elemento soggettivo dell'imputato.
Questo Collegio dovrà verificare se s1 sia trattato di una prosecuzione di pagamenti, senza soluzione di continuità, ovvero se vi sia stata un'interruzione durante il periodo di attività lavorativa svolta presso Rapisarda e poi una successiva ripresa al momento del ritorno di Dell'Utri dall'amico Berlusconi. Sarà necessario, in altri termini verificare - propno per la riconosciuta natura permanente del reato di concorso esterno - se Dell 'Utri, nel periodo in cui è stato alle dipendenze di Rapisarda, abbia palesato condotte che abbiano manifestato una sua precisa volontà di allontanarsi non solo dall'attività imprenditoriale berlusconiana, ma anche e soprattutto da quel contesto mafioso criminale con il quale era sceso a patti, favorendo un accordo che, se da un lato aveva garantito all'imprenditore amico protezione, dall'altro aveva rafforzato e conservato il sodalizio mafioso. E' stato già rilevato che la condotta che ha espresso il concreto, specifico, consapevole e volontario contributo dell'imputato è stato quello di mediare tra gli interessi di esponenti di spicco di cosa nostra e Berlusconi, favorendo la conclusione dell'accordo milanese del 1974.
I rapporti con tali esponenti di "cosa nostra" (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano), protagonisti dell'accordo milanese che ha sancito l'inizio della condotta di concorso esterno per l'imputato, non rientrano tra le "relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee tuttavia ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" ( SS.UU Cass. 12 luglio 2005, 33748, Mannino). Tali rapporti con i soggetti appena citati sono stati ritenuti penalmente rilevanti e significativi. Sono stati invero i rapporti con costoro che hanno consentito di attribuire a Dell 'Utri la veste di concorrente esterno ed è proprio all'associazione mafiosa di cui i soggetti appena citati facevano parte, con ruoli diversi, che Dell'Utri ha fornito un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che ha avuto l'effettiva rilevanza causale ai fin della conservazione e del rafforzamento delle capacita operative di "cosa nostra".
Orbene, deve rilevarsi che la disamina delle condotte tenute da Dell'Utri ha dimostrato, a parere del Collegio (che poi si soffermerà anche sulla effettività della prosecuzione dei pagamenti in favore di "cosa nostra" anche durante detto periodo) che, malgrado Dell 'Utri avesse deciso di lasciare Berlusconi e fosse andato a lavorare con Rapisarda in contesto imprenditoriale del tutto differente, non ha mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti mafiosi, intranei a "cosa nostra", con cui aveva agito in precedenza. Dell'Utri, in altre parole, non ha mai cessato la sinergia con quei partecipi interni a "cosa nostra" che lui - seppur a fronte di accertati rapporti - ha sempre negato di conoscere (Teresi e Bontate) o con cui aveva rinnegato di avere avuto legami di amicizia ( Mangano) o con i quali ha affermato di avere condiviso nient'altro altro se non una comune passione per il calcio ed un'amicizia dai profili affatto illeciti (Cinà).
Quella sinergia è proseguita anche dopo il suo allontanamento da Rapisarda e si è interrotta (attenendosi al limite segnato dal decisum della Suprema Corte) nel 1992 e ad essa - per i motivi che saranno spiegato in seguito- sono stati sempre coniugati i pagamenti di Berlusconi di somme di denaro alla stessa consorteria mafiosa. Appare necessario - al fine di spiegare l'irrilevanza che per Dell’Utri ha avuto il periodo di lavoro con Rapisarda nei suoi comportamenti nei confronti dei soggetti che con lui avevano concluso il patto del 1974 – prendere le mosse dalla genesi del suo rapporto di lavoro con Filippo Alberto Rapisarda.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
La raccomandazione mafiosa per farlo assumere dall’immobiliarista Rapisarda. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 13 novembre 2023
Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri (Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà
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Marcello Dell'Utri era andato a lavorare dall'imprenditore Filippo Alberto Rapisarda alla fine del 1977 dopo avere lasciato l'incarico di segretario personale del Berlusconi. Rapisarda, in quegli anni, era a capo di uno dei maggiori gruppi immobiliari italiani che comprendeva: la Bresciano s.p.a. (società della quale Dell'Utri veniva nominato amministratore delegato, come dichiarato dallo stesso imputato all'udienza del 26 giugno 1996); la Cofire s.p.a. (Compagnia Fiduciaria di Consulenze e Revisione) della quale Dell'Utri era divenuto consigliere; la Inim s.p.a (Internazionale Immobiliare) costituita dopo l'assunzione del concordato fallimentare della Facchin e Gianni, di cui Rapisarda era socio al 60per cento insieme ad Alamia Francesco Paolo socio al 30per cento e Caristi Angelo socio al 10per cento (v. dich. di Rapisarda) e tra i cui consiglieri vi erano Marcello e Alberto Dell'Utri.
Appare necessario mettere immediatamente in evidenza che, malgrado vi fosse stato un netto cambiamento nella vita lavorativa di Dell'Utri, quest'ultimo non aveva in alcun modo deciso di mutare il suo rapporto con gli esponenti mafiosi con cui aveva concluso il patto, volendo in modo del tutto consapevole fornire il proprio contributo di mediatore - concorrente esterno al fine di garantire la permanenza degli effetti del suddetto patto. Ogni tentativo di intravedere un atteggiamento diverso e non omogeneo alle condotte che la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione ha ricondotto nell'alveo del delitto di cui agli artt. 11 O, 416 bis c. p. è del tutto vano.
Anche lontano dall'area imprenditoriale di Berlusconi, Dell'Utri ha continuato ad interagire con gli esponenti di "cosa nostra" con i quali è stato accertato definitivamente ha commesso il delitto di concorso esterno in associazione, mantenendo con loro rapporti acclaratamente rilevanti dal punto di vista penale. E non solo.
L'imputato ha tenuto nei confronti degli stessi soggetti mafiosi la medesima cordialità autentica senza dare alcun segnale concreto e serio di un voluto e deciso distacco. Condividendo le argomentazioni della Corte di Cassazione, nella trattazione del periodo in esame, non si farà alcun cenno, al fine di spiegare le ragioni per le quali si ritiene che vi sia stata una permanenza della condotta delittuosa di concorrente esterno, ai rapporti di amicizia con l'imprenditore Berlusconi che invero ben potevano essere mantenuti anche in un momento in cui le strade professionali si erano divise.
Quel che si vuole sottolineare è che, in primo luogo, trattandosi di reato permanente nel quale il contributo causale del concorrente non si esaurisce in una prestazione precisa ed occasionale, ma si svolge in un arco di tempo rilevante, mai è stata registrata nel periodo in esame una condotta che abbia solo fatto dubitare che Dell'Utri, andato a lavorare da Rapisarda, abbia voluto rimuovere la situazione antigiuridica iniziata nel 1974 con il patto mafioso al quale lui aveva partecipato e che aveva promosso.
Già la genesi del rapporto di lavoro con Rapisarda è assolutamente significativa del valore attribuito da Dell'Utri ai rapporti di protezione mafiosa. Marcello Dell'Utri, dopo avere lavorato con Berlusconi per diversi anni ed essendo certamente consapevole delle sue doti personali, doti che gli consentiranno di realizzare i progetti imprenditoriali e politici sicuramente significativi nella storia italiana, ha ritenuto che il suo curriculum personale e la sua sola presenza, non erano sufficienti a impressionare positivamente l'imprenditore Rapisarda e per questo motivo si era fatto accompagnare da Gaetano Cinà, che lui ben sapeva essere se non ritualmente mafioso, sicuramente vicino o contiguo a "cosa nostra".
Escludendo che la presenza di Cinà sia stata collegata a eventuali intenzioni delle consorteria mafiosa di riciclare denaro nelle imprese di Rapisarda, tramite Dell'Utri (già la Corte d'Appello nella sentenza annullata ed Tribunale nel giudizio di primo grado, avevano negato qualsiasi condotta di riciclaggio di Dell'Utri nelle imprese del Rapisarda), ciò che assume rilievo è il dato incontrovertibile che Dell'Utri si è presentato da Rapisarda con Cinà, senza un'apparente ragione.
Il 5 maggio 1987, nell'ambito di altro processo svoltosi a Milano per il fallimento della società Bresciano ed anche il 22 settembre 1998, nel corso delle dichiarazioni rese nel presente giudizio dinanzi al Tribunale, Rapisarda ha riferito di avere assunto Dell'Utri su richiesta di Cinà, che aveva conosciuto insieme a Bontate ed a Teresi e che, consapevole dunque delle frequentazioni mafiose intrattenute da Cinà, non si era sentito di negargli il favore.
Lo stesso Rapisarda ha dichiarato di avere conosciuto tempo prima, "tra il '75 ed il '76" Dell'Utri tramite la cognata del Prof. Giacomo Delitala. Nel 1977, forse in primavera (Rapisarda: "in primavera credo”), Cinà e Dell'Utri erano andati da lui e gli avevano rappresentato la situazione di grave crisi che attraversava Berlusconi. Era stato in quell'occasione che Cinà gli aveva detto che i fratelli Dell'Utri dovevano lavorare (Rapisarda: " ( .. )Dopo qualche giorno venne con Marcello Dell'Utri; P .M.: "Venne chi? "; Rapisarda:" Cinà (. .) portò Marcello Dell'Utri e mi disse che lui doveva lavorare perché da Berlusconi in questo momento va tutto male, non prendono soldi e Berlusconi sta per ... non ha possibilità. Questa era ... e per questo passò subito da me''). Dopo avere chiarito la propria consapevolezza dei legami mafiosi che aveva Cinà, Rapisarda ha ammesso di avere dovuto assumere Dell'Utri ( Rapisarda: "avevo del timore'') proprio perché era consapevole del gruppo mafioso che vi era dietro Cinà.
Aveva poi ribadito le medesime motivazioni che avevano determinato l'assunzione di Dell'Utri nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale in cui aveva dichiarato che non se l'era sentita di dire di no a Cinà per il timore che nutriva nei suoi confronti ( Rapisarda:"Non me lo sono sentita di dirgli di no(..) perché avevo del timore"; P.M.:" perché?"; Rapisarda:" e cosa vuole un ambiente di quel genere lì, lei gli dice no e diventa un 'offesa, io memore ... ricordo di Palermo che appena uno diceva no a uno di questi diventava un 'offesa"v. dichiarazioni rese all'udienza del 22 settembre 1998, cit. ). Rapisarda era infatti consapevole che Teresi e Bontate facevano parte di "quell'ambiente mafioso " e per questo motivo non aveva mai voluto avere contatti con loro. Riteneva che Cinà appartenesse alla " famiglia" di Stefano Bontate. (Rapisarda: "Guardi allora le dico che Stefano .. Tanino Cinà fa parte della famiglia di Stefano Bontate, perciò è inutile che ..'').
Rispondendo alla richiesta di chiarimento formulata dal P .M. sul significato che doveva attribuirsi al temine "famiglia" il Rapisarda aveva spiegato che tale significato era collegato all'emisfero dei rapporti mafiosi (Rapisarda: "che le famiglie sono le famiglie mafiose") e ricordava tuttavia che tra Cinà e Bontate esistevano anche rapporti familiari di diverso tipo. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Minacce e picciotti, le “vanterie” di Dell’Utri per non farsi dire di no. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 14 novembre 2023
Dell'Utri: «Ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria. Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Dell'Utri, sentito nell'ambito dello stesso processo "Bresciano" il 20 magg10 1987 (in ordine alle ragioni dell'utilizzabilità dell'interrogatorio acquisito dal Tribunale all'udienza del 18 marzo 2003, si rinvia alle considerazioni svolte nel paragrafo dedicato nella sentenza della Corte d'appello, pagg. 143-149, che questo Collegio condivide integralmente e peraltro non hanno costituito oggetto di specifico motivo di ricorso dinanzi alla Suprema Corte), ha confermato di avere iniziato a lavorare nel gruppo societario del Rapisarda negli uffici di Via Chiaravalle, nell'ottobre del 1977.
Aveva deciso di lasciare la Edilnord e Berlusconi perché dal Rapisarda guadagnava il doppio ed aveva un maggiore spazio di iniziativa e di autonomia, in quanto da Berlusconi svolgeva l'attività di" segretario personale" e non un'attività "dirigenziale o di qualsiasi livello nel campo edilizio ".
Dell 'Utri ha ricordato che aveva rivisto Rapisarda "prima dell'estate del 1977'' forse presso gli uffici di quest'ultimo a Milano dove era stato accompagnato da Marcello Caronna ed in seguito in occasione di un pranzo sempre prima dell'estate del 1977.
Nel settembre dello stesso anno si erano incontrati ancora ed era stato allora che Rapisarda gli aveva manifestato il suo entusiasmo per l'acquisto della Bresciano s.p.a. che lui aveva ritenuto un ottimo affare. Già nel gennaio del 1978, tuttavia, Rapisarda si era reso conto che la società non poteva lavorare perchè mancavano i soldi e lui non poteva più impegnarsi.
Il 26 giugno 1996 Dell 'Utri, nel corso delle indagini preliminari relative al presente processo, ha dichiarato che Gaetano Cinà lo aveva accompagnato da Rapisarda, ma ha negato che il primo lo avesse raccomandato, così come aveva dichiarato Rapisarda che lui reputava un megalomane. ( Dell'Utri:" "E' vero che io e Cinà andammo da Rapisarda. (...) Non è vero che Cinà ci (Dell 'Utri si riferiva al fratello Alberto ed al Marcello Caronna) abbia raccomandati a lui.
Il Rapisarda è una persona megalomane"(...) " E' vero che sono stato designato dal Rapisarda amministratore delegato di una società del suo gruppo, la Bresciano s.p. a ma non è vero che Rapisarda lo fece su sollecitazione del Cinà. Anzi Cinà mi diceva che ero pazzo a lasciare Berlusconi per andare a lavorare con il Rapisarda'').
Orbene, appare del tutto singolare che Dell 'Utri, laureato presso l'Università Statale di Milano, che aveva svolto un'attività lavorativa presso la Cassa di Risparmio per le Province Siciliane e che dal 1973 aveva iniziato a lavorare con Berlusconi a Milano, avesse scelto proprio il titolare di una lavanderia per recarsi da Rapisarda e che abbia individuato in Cinà, non solo il soggetto con cui partecipare ad incontri di mafia, ma l'interlocutore con cui discutere delle proprie scelte lavorative.
E' lo stesso imputato che ha affermato di avere parlato con Cinà della proposta di lavoro del Rapisarda e che Cinà lo aveva sconsigliato di andare a lavorare da quell'imprenditore (Dell'Utri: " ..quando Cinà mi dice : "io lo conosco questo tizio, è un truffaldino" gli dico " vieni con me che se lo conosci, te lo faccio vedere se è lui, ma io penso che tu sbagli persona. Questo qui sta in un palazzo principesco" v. dich. spont. 29 novembre 2004, cit).
Appare indiscutibile che la presenza di Cinà abbia palesato ancora una volta il fatto che Dell'Utri abbia fatto ricorso ad un soggetto notoriamente collegato ad ambienti mafiosi per realizzare senza difficoltà gli obiettivi che si era prefissato.
La ragione di simile accompagnamento dunque non può che essere spiegata con la consapevolezza che aveva l'imputato dell'effetto convincente che la presenza di Cinà avrebbe avuto su Rapisarda che difatti, come dichiarato dallo stesso Dell'Utri era rimasto "impressionato" dal suo accompagnatore (Dell'Utri: "Siamo andati a trovarlo ed ho riscontrato che effettivamente si conoscevano ed il Rapisarda è rimasto anche impressionato di vedere che era con me Cinà" (v. dich. spontanee cit.
Che l'impressione di Rapisarda nel vedere arrivare Dell'Utri con Cinà era determinata dai legami di quest'ultimo con la consorteria mafiosa, di cui Rapisarda era consapevole, è testimoniato (non solo dalle chiare ammissioni dello stesso imprenditore), ma anche da quanto riferito dallo stesso Dell'Utri che nel corso delle spontanee dichiarazioni del 20 novembre 2004. Dell'Utri spiegando le affermazioni di Rapisarda che aveva asserito che l'imputato gli aveva detto di conoscere esponenti mafiosi essendosi interessato di mediare tra questi ultimi che minacciavano Berlusconi, e lo stesso Berlusconi, ha affermato, in modo del tutto inverosimile che lo aveva fatto per vantarsi e non essere da meno del Rapisarda.
Appare rilevante evidenziare la circostanza che Dell'Utri, uomo di indiscutibile intelligenza e - cosi come è risultato dalle sue dichiarazioni e dalle considerazioni svolte dalla difesa - dotato di un personale patrimonio culturale, giustificando quanto aveva riferito a Rapisarda in ordine ai suoi rapporti con esponenti mafiosi, ha spiegato che si era trattato solo di una "vanteria".
Deve dunque essere sottolineato con riferimento ai rapporti intrattenuti dall'imputato con soggetti mafiosi, che Dell'Utri ha ritenuto di "vantarsi" di simili contatti non reputandoli dunque frequentazioni riprovevoli e delle quali invece non vi sarebbe stata alcuna ragione di fame cenno e meno che mai di vantarsene (Dell'Utri: (...) ritornando alla domanda dell'Ufficio riguardante le minacce a Berlusconi e la mia presunta mediazione presso mafiosi, debbo dire che io queste cose a Rapisarda le dissi; dissi che avevo mediato tra gli autori delle minacce e Berlusconi ma lo dissi per vanteria.
Rapisarda si vantava di conoscere questo e quello, io feci la stessa cosa. Rapisarda si vantava di essere amico dei Bono "( v. dich. del 26 giugno 1996). Che poi Dell'Utri, come lo stesso aveva dichiarato, si era presentato da Rapisarda con Cinà per dimostrargli che non poteva essere lui quel truffaldino di cui Cinà gli aveva parlato è assolutamente inverosimile, ma tuttavia dimostra la considerazione m cm Dell 'Utri teneva Cinà.
Dell'Utri, dunque, coinvolgendo Cinà, ha dimostrato di non avere interrotto i legami con colui che gli aveva consentito di entrare in contatto con il boss Stefano Bontade e che aveva partecipato alla conclusione del patto scellerato del 1974. Appare evidente allora che non assume alcun rilievo la considerazione della difesa che ha sottolineato che non era stato Cinà ad "introdurre" Dell'Utri presso il Rapisarda, in quanto i due erano stati presentati nel 1975 dalla cognata del professor Giacomo Delitala.
Detta circostanza - riferita anche dallo stesso Rapisarda - non incide in alcun modo sui motivi già evidenziati sottesi alla decisione di farsi accompagnare da Cinà, motivi che attengono all'atteggiamento, mai mutato di Dell 'Utri, nei confronti di coloro con i quali aveva stretto il patto di protezione del 1974. Né può affermarsi dunque che l'avere deciso di farsi accompagnare da Cinà poteva essere considerato un fatto rimproverabile sul piano "per così dire etico", ma non rilevante sul piano penale, come ha proposto la difesa ( che ha peraltro sottolineato che Cinà era estraneo all'associazione).
Ed invero - al di là di ogni considerazione sulla mafiosità di Cinà che peraltro è stato condannato in questo processo per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., proprio per gli inequivocabili comportamenti mafiosi che aveva assunto negli anni- quel che deve essere messo in evidenza è Cinà è uno di quei soggetti appartenenti a "cosa nostra" con i quali Dell 'Utri ha agito quale concorrente esterno al fine di realizzare il fatto criminoso collettivo in virtù del patto del 1974.
L'aver continuato mantenere rapporti con quest'ultimo non può essere relegato alla sfera dei rapporti sconvenienti dal punto di vista etico, assumendo (rectius: mantenendo) viceversa il significato penalmente rilevante, sotto il profilo dell'assenza di condotte significative della volontà di interrompere la permanenza del delitto contestatogli. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Il ritorno del “figliol prodigo”, Marcello ancora alla corte del Cavaliere. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 15 novembre 2023
La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante dal gennaio del 1978 al 1980/1981 e l'atteggiamento assunto da Dell 'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
La Cassazione, ha individuato il periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare per Rapisarda abbandonando l'area imprenditoriale di Berlusconi, nel quadriennio compreso tra l'inizio del 1978 ed il 1982. Deve rilevarsi che l'impegno professionale di Dell'Utri presso la Bresciano s.p.a. è stato in effetti di gran lunga inferiore.
Dell'Utri, infatti, ha dichiarato (v. dich. del 20 maggio 1987) che già dopo due mesi dall'inizio del suo nuovo lavoro si era reso conto del fatto che il destino della Bresciano era già segnato e che la società era destinata a fallire; anche Rapisarda già nel gennaio del 1978 aveva capito che la società non poteva lavorare perché mancavano i finanziamenti. Il 26 giugno 1996 lo stesso Dell'Utri ha dichiarato di essere stato amministratore delegato della Bresciano s.p.a. dal gennaio 1978 sino alla fine del 1979 allorché la società era fallita e di non avere avuto ''più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda" dopo avere esaurito la propria attività di curatore fallimentare. Ed ancora nel corso della telefonata del 14 febbraio 1980 Dell 'Utri, parlando con Vittorio Mangano dall'Hotel Duca di York , aveva manifestato la propria preoccupazione per la situazione grave in cui lui si trovava a seguito del fallimento della società e delle vicissitudini in cui era incorso il fratello Alberto (Dell'Utri: " Ho dovuto pagare per mio fratello soltanto otto milioni solo per la perizia contabile, sto uscendo pazzo poi ho bisogno di soldi per me per gli avvocati perché sono nei guai ... perché sempre il discorso del pazzo là ( ... ) l'ufficio non c'è più l'ho levato. Dov'ero prima io lei ci venne. La società fallita, è venuto il Tribunale, curatore sigilli, eccetera ed hanno chiuso tutto .. e quindi sono in mezzo ad una strada'').
Va ancora evidenziato che Rapisarda, per sfuggire ai provvedimenti restrittivi per il fallimento della società Venchi Unica, nel 1979 ( il 16 febbraio 1979, secondo quanto dichiarato dallo stesso Rapisarda) si era recato in Venezuela. In seguito era andato in Francia dove - dopo essere stato ospitato da un amica bulgara- era andato a vivere in una casa che aveva affittato Alberto Dell 'Utri in Avenue Foch a Parigi. Secondo quanto riferito da Rapisarda , nei primi mesi del 1980 Dell 'Utri lo aveva incontrato a Parigi all'Hotel George V ; nella stessa occasione Dell'Utri aveva dato appuntamento a anche Bontade e Teresi. Era stato allora che Rapisarda aveva sentito Dell'Utri chiedere ai due boss mafiosi 20 miliardi di lire per l'acquisto di film per Canale 5.
Le dichiarazioni di Rapisarda possono ritenersi attendibili in ordine al suo allontanamento in Venuezuela ed in Francia, abbandonando dunque l'Italia, per sfuggire all'arresto sia in relazione all'incontro con Dell'Utri. Deve in primo luogo rilevarsi che lo stesso Dell 'Utri ha dichiarato di essere a conoscenza di detti luoghi di latitanza affermando (v.int del 26 giugno 1996) che, a seguito del fallimento della Venchi Unica 2000, il fratello Alberto era stato arrestato e che Rapisarda era andato m Venezuela.
Detta circostanza era basata su una sua personale deduzione atteso che un atto di vendita, concluso nel periodo in cui Rapisarda era latitante con alcuni soggetti venezuelani, era stato stipulato in Venezuela. Aveva poi saputo da alcuni funzionari della Questura di Roma che Rapisarda era andato in Francia e che aveva utilizzato il passaporto del fratello Alberto (v. int 26 giugno 1996). Anche Giorgio Bressani, che aveva svolto il ruolo di direttore di cantieri di Rapisarda, all'udienza del 21 maggio 2001 nel dibattimento di primo grado ha riferito di avere conosciuto Marcello Dell 'Utri ed ha parlato della fuga con Rapisarda in Venezuela e degli incontri di Rapisarda con Dell'Utri a Parigi durante la sua latitanza. Orbene ciò che interessa rilevare e che può considerarsi accertato è che nel febbraio del 1979 Rapisarda ha abbandonato l'Italia e le sue attività lavorative per non essere arrestato.
Ed ancora deve essere evidenziato che lo stesso Dell 'Utri, nel corso delle spontanee dichiarazioni del 29 novembre 2004, seppur formalmente riassunto da Berlusconi l' 1 marzo 1982 , ha dichiarato che il rapporto di lavoro con Rapisarda era finito nel 1980 e che era tornato da Berlusconi alla fine del 1980/1981 (Dell'Utri:" .. io sono tornato da Berlusconi nell '80, nell '81 per la precisione, a fine '80, quanto è finita l'avventura Rapisarda ") Alla luce delle suddette circostanze ( il fallimento della Bresciano, la latitanza dell'imprenditore Rapisarda nel 1979, le stesse ammissioni di Dell'Utri) può affermarsi che il rapporto lavorativo di Dell'Utri con Rapisarda non era in realtà durato "quattro anni" fino al 1982, ma si era di fatto interrotto nel 1980.
La durata dell'allontanamento del tutto irrilevante (dal gennaio del 1978 al 1980/1981) e l'atteggiamento assunto da Dell'Utri nei confronti di coloro che erano stati i protagonisti del patto del 1974, consentono di affermare che detta parentesi lavorativa non ha assunto un particolare rilievo nella vita di Dell'Utri che difatti, poco dopo, senza mai interrompere i rapporti né con gli esponenti mafiosi di riferimento né con l'amico Berlusconi, tornava a lavorare con quest'ultimo, senza mai avere smesso di fare da tramite l'imprenditore e "cosa nostra". SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Il racconto di Calderone, la cena al ristorante fra i boss e Dell’Utri. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 16 novembre 2023
Calderone ha dichiarato di avere effettuato soprattutto con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania. In occasione di uno di essi aveva partecipato insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale"
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La Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento ha ritenuto che la Corte d'appello aveva reso una motivazione ampia e logica sulla "natura e la qualità dei rapporti che Dell'Utri ha dimostrato di continuare ad intrattenere con Mangano e con Cinà, anche dopo l'allontanamento del primo dalla villa di Arcore: rapporti che la Corte ha argomentato sulla base di elementi oggettivi (colloqui telefonici, partecipazione a cene e ad un matrimonio ) essere stati - quantomeno nella relativa fase temporale - di natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra l'estorto (asseritamente Dell'Utri) e l'estortore ( cosa nostra) (pag. 108).
Prima di procedere all'esame della telefonata avvenuta il 14 febbraio 1980 tra Dell'Utri e Mangano e ribadendo le considerazioni della Corte di Cassazione che ha ritenuto del tutto estranea ai rapporti tra Dell 'Utri e Mangano ogni connotazione di costrizione del rapporto e di timore del primo nei confronti del secondo, deve mettersi in evidenza la ininterrotta prosecuzione dei suddetti rapporti anche dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore.
In detto periodo e cioè dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore, ma prima dell'inizio dell'attività lavorativa di Dell'Utri da Rapisarda, si colloca la cena al ristorante milanese "Le colline pistoiesi". Di essa ha parlato Antonino Calderone, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Catania, che dal 1975 aveva accompagnato il fratello Giuseppe che era a capo dell'organismo direttivo di "cosa nostra" a Milano. Calderone, ha dichiarato di avere effettuato soprattutto dal 1975 con il fratello alcuni viaggi a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia che si stava consumando a Catania.
In occasione di uno di essi aveva partecipato nel 1976 (forse il 24 ottobre 1976, giorno del suo 41 A compleanno), presso il ristorante già richiamato, insieme a Nino Grado e Vittorio Mangano, era presente anche Dell'Utri. Calderone ha ricordato che Mangano gli aveva presentato l'imputato come il suo "principale". L'episodio - confermato da Dell'Utri che tuttavia aveva riferito che Mangano gli aveva presentato dei suoi amici senza fargli il nome - era stato considerato dalla Corte d'Appello, con motivazione ritenuta dalla Corte di Cassazione "ampia e logica", come segno della continuità dei rapporti tra Dell'Utri e Mangano che avevano una natura del tutto diversa da quella esistente tra vittima ed estortore e cioè di natura cioè consuetudinaria e progettuale oltre che sintomatica di una affidabilità reciproca degli interlocutori". (v. pag 108 sent. Cassazione)
La stessa natura consuetudinaria e progettuale era stata attribuita ai "colloqui telefonici" intercorsi tra gli stessi protagonisti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
E in una telefonata lo “stalliere” propone un affare al suo “principale”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 17 novembre 2023
Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano
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Passando adesso all'esame della telefonata intercorsa tra Dell'Utri e Mangano dall'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano, in uso al Mangano, nel febbraio del 1980, e dunque nel periodo in esame in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale di Berlusconi, deve immediatamente rilevarsi che tale chiamata ha palesato la precisa volontà di Dell'Utri di non interrompere la consuetudine e la progettualità del rapporto intercorso con Mangano e soprattutto la permanenza del medesimo atteggiamento psicologico dell'imputato nei confronti di coloro che, come Mangano, erano collegati al patto mafioso di protezione concluso nel 1974 con "cosa nostra".
Deve rilevarsi che Dell 'Utri avrebbe avuto innumerevoli motivi per interrompere il rapporto con Mangano, peraltro nel periodo in cui quest'ultimo si era allontanato da Arcore (deve essere rammentato inoltre che Mangano era stato arrestato il 27 dicembre 1974, per espiare una pena definitiva relativa ad una condanna per truffa e scarcerato il 22 gennaio 1975 si era allontanato da Arcore) e Dell'Utri aveva smesso di lavorare per l'imprenditore Berlusconi per andare da Rapisarda.
Il rapporto, però, prescindeva da connotazione personali (quali ad esempio la risalente conoscenza ai tempi della squadra di calcio Bacigalupo di cui Dell'Utri era presidente e che Mangano seguiva per passione) ed aveva sullo sfondo il ruolo che a Mangano era stato assegnato da Bontade all'esito della riunione del 1974 e che Dell'Utri aveva promosso.
Deve essere rammentato che Mangano è stato assunto ad Arcore proprio su indicazione di Dell 'Utri e che detta presenza - a seguito delle decisioni prese alla riunione milanese del 1974 - ha assunto il significato di assicurare un presidio mafioso all'interno di Villa Casati al fine di proteggere l'imprenditore Silvio Berlusconi (fatto ormai accertato in modo definitivo a seguito della sentenza della Corte Cassazione, malgrado le dichiarazioni di diverso tenore rese dall'imputato il 26 giugno 1996 nel corso delle quali seppur ammettendo di avere fatto assumere Mangano ad Arcore ha negato che quest'ultimo aveva avuto il compito di proteggere Berlusconi ed i suoi familiari, dichiarando che doveva essere adibito solo all'allevamento dei cavalli ed alla cura delle piante).
Fin dalle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 29 novembre 2004 l'imputato ha sottolineato in maniera chiara che Mangano - a differenza di Cinà - non era suo amico (Dell'Utri: " Il Mangano non è mai stato un mio amico nel senso di frequentazione, un conoscente perché veniva lì come tanti tifosi e padri di ragazzi venivano a seguire le partite la domenica ( ... ) mentre per me il Cinà è stato un amico''). Tuttavia, ha sempre mostrato nei suoi confronti una assoluta cordialità che era sicuramente conosciuta da "cosa nostra" che, proprio per il rapporto che Mangano aveva con Dell'Utri, aveva revocato la condanna a morte che era stata decisa da Bagarella. Quest'ultimo, invero, aveva deciso di graziarlo proprio per la sua amicizia con Dell'Utri, a sua volta amico di Berlusconi, imprenditore in continua ascesa e che, in seguito, avrebbe manifestato anche una speciale versatilità anche nel mondo della politica: Mangano era dunque per il boss Bagarella ancora utile.
Non è in alcun modo significativo l'assunto della difesa secondo la quale il contenuto della conversazione intercorsa tra Mangano e Dell'Utri era privo di valore atteso che i due interlocutori avevano parlato di "un argomento di nessuna rilevanza ai fini dell'imputazione (la vendita di un cavallo)" , atteso che da un lato il contenuto del dialogo contiene riferimenti e frasi che assumono invece un preciso significato al fine di provare la permanenza dell'atteggiamento dell'imputato e la sua prosecuzione dei rapporti con i soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione; dall'altro che il tono del dialogo ha lasciato trasparire una continuatività dei contatti tra i due interlocutori ed una progettualità comune non dissimile a quella che era esistita nel 1974.
Dell'Utri, invero, si era rivolto al Mangano con un tono tipico di rapporti, per usare le stesse parole della Corte di Cassazione di "natura consuetudinaria e progettuale" ( pag. 108), e che appartiene a coloro che non hanno mai interrotto i loro rapporti (Dell 'Utri : "Chi mi disturba? lo stavo lavorando qua, per cui ... Dov'è, dov'è?"; Mangano : "Sono in albergo. Ha telefonato Tony Tarantino?"; Dell'Utri: "Mah, ieri c'ho parlato. Avevo telefonato io, però"; Mangano: "Oggi doveva telefonare per darci l'appuntamento per me"; Mangano: "Esatto, mi disse che alle quattro mi chiamava"; Mangano: "Alle 4. lo invece, siccome forse lui deve andare fuori, comunque ... "; Dell'Utri: "eh") e che intendono costruire progetti comuni (Mangano : "Eh, ci dobbiamo vedere?: Dell'Utri: "Come no? Con tanto piacere"; Mangano: "Perché io le devo parlare di una cosa ... "; Dell'Utri:" Benissimo"; Mangano: "Anzitutto un affare"; Dell'Utri: "Eh beh, questi sono bei discorsi").
Il frammento del dialogo che rileva, al fine di poter affermare che l'allontanamento per un periodo peraltro di gran lunga inferiore al quadriennio indicato dalla Corte di Cassazione, dall'area imprenditoriale berlusconiana è stato del tutto insignificante sulla permanenza del reato già commesso, è quello in cui Mangano ha indicato Berlusconi come il datore di lavoro (''principale'') di Dell'Utri in un periodo (1980) in cui quest'ultimo era formalmente alle dipendenze di Rapisarda. Per Mangano, che ha dimostrato di avere mantenuto i contatti con Dell'Utri e che era messo a parte da quest'ultimo anche delle vicissitudini del fratello Alberto e della società in cui lo stesso Dell'Utri aveva lavorato con Rapisarda, Berlusconi in quel momento (1980) era ancora il "principale" di Dell'Utri (Mangano: "Ne hai tanti di soldi. Non buttatevi indietro"; Dell'Utri: "No, no, non scherzo! Sono veramente in condizioni di estremo bisogno"; Mangano: "Vada dal suo principale! Silvio!").
Sempre nel corso della medesima conversazione, i due interlocutori hanno fatto riferimento a Cinà e a luoghi soliti di incontro ( "Mangano: "va bene a che ora ci vediamo'"; Dell'Utri: "Quando dice lei''; Mangano: "No, va bene"; Dell'Utri: "Dov'è lei. Al solito in Via Moneta"'; Mangano: "Eh si"; Dell'Utri: "(..) e allora telefona a Tonino (nel corso del suo interrogatorio del 26 giugno 1996 Dell'Utri ha identificato "Tonino" nell'amico Gaetano Cinà affermando che la trascrizione del nome era inesatta e che lui ed il Mangano avevano parlato di "Tanino" Cinà).
Orbene, emerge con tutta evidenza che Dell'Utri, seppur nel periodo in cui si era allontanato professionalmente da Berlusconi, aveva continuato ad avere contatti con Mangano e Cinà, non mostrando alcun comportamento indicativo della volontà di porre fine all'esecuzione dell'accordo interrompendo in primo luogo i contatti con i soggetti che di quell'accordo erano stati i protagonisti.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Il matrimonio londinese di Girolamo "Jimmi" Fauci, trafficante di droga. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 18 novembre 2023
Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa
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Infine deve e essere esaminata la vicenda della partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 della quale ha parlato Francesco Di Carlo che vi aveva preso parte in qualità di testimone dello sposo, indicando tra i presenti Dell'Utri, Cinà e Mimmo Teresi che era stato testimone della sposa. Il Collegio ha ritenuto del tutto irrilevante che Dell'Utri si trovasse causalmente a Londra per motivi personali (era stata per tale motivo rigettata la richiesta di integrazione probatoria proposta dalla difesa che intendeva depositare il manifesto di una mostra che in quei giorni si teneva a Londra), attribuendo invece particolare rilievo, al fine di esaminare il periodo 1978/1982, alle seguenti circostanze:
- che Dell 'Utri avesse continuato ad intrattenere rapporti con gli stessi soggetti con i quali aveva concluso il patto di protezione del 1974 (Teresi e Cinà);
- che "cosa nostra" riponeva in Dell'Utri ancora nel 1980 la stessa fiducia manifestargli nel 1974;
- che gli fosse consentito di partecipare ad un matrimonio in cui era presente un latitante del calibro di Di Carlo.
Sotto il primo profilo deve rilevarsi che Dell'Utri non ha esitato ad accettare l'invito di Cinà a recarsi al matrimonio di Girolamo ("Jimmi") Fauci con una cittadina inglese celebratosi a Londra il 19 aprile 1980. Non è rilevante il fatto, che ha costituito un motivo preciso di censura, che Dell'Utri sia stato o meno invitato da Fauci (la difesa ha contestato che Dell'Utri fosse nella lista degli invitati, mentre Di Carlo ha riferito di ricordare che l'imputato era tra gli invitati in quanto Fauci aveva considerato che era necessario, vista la presenza di Di Carlo, invitare soggetti di cui potersi fidare (Di Carlo: "ma certo che era invitato (Dell'Utri) ma a parte tutto le dico che Jimmi lo ripeto mi aveva detto chi c'erano, va bene, e questo erano nomi che mi potevano vedere non erano persone che chi sa avrebbero cominciato a parlare: l'abbiamo visto là oppure che avrebbe fatto lo sbirro, come si suol dire'').
Ciò che interessa (ed è circostanza assolutamente incontrovertibile) è che Dell'Utri, seppur non essendo stato invitato dagli sposi, si sia presentato al matrimonio, ed abbia partecipato anche al ricevimento.
Detta circostanza ha palesato la pervicace volontà dell'imputato di non volere interrompere la permanenza dei contatti con soggetti che lui ben sapeva a quale società mafiosa appartenessero neppure rifiutando l'invito ad un matrimonio come quello di Jimmi Fauci soggetto condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti e per Dell'Utri un perfetto sconosciuto.
Sotto il secondo profilo, assume rilievo determinante la circostanza riferita da Di Carlo che ha dichiarato che, fuori dalla chiesa, Mimmo Teresi rivolgendosi a Dell 'Utri gli aveva comunicato che Di Carlo era latitante e gli aveva detto che, ove quest'ultimo si fosse trovato a passare da Milano, lui (Dell 'Utri) si sarebbe dovuto mettere a disposizione. Dell'Utri non si era tirato indietro e gli aveva dato il suo numero di telefono (Di Carlo Francesco: «E c'era davanti la chiesa c'era anche Marcello Dell'Utri che ci siamo risalutati con una stretta di mano, poi con Mimmo Teresi, Teresi, io, Mimmo Teresi e Dell'Utri ci siamo appartati un po' e Mimmo Teresi parlando ci ha detto, dice: tu lo sai che Franco - perché io avevo da 3 mesi che ero latitante ufficialmente, poi il latitante cercavo di farlo sempre per passare inosservato, visto il mestiere - ha detto, tu lo sai che è latitante - lui mi ricordo ha detto... si, si, perché non ha un'espressione abbastanza facile il dottore Dell'Utri, almeno per me, quello che... e dice: chi sa viene a Milano, chi sa Franco si trova a passare a Milano, mettiti a disposizione. Dice: si. M'ha dato il numero di telefono, l'ho scritto in maniera che non ... pero' ... sia di un ufficio e sia di casa, proprio, Mimmo mi ha detto: ci ha abitazione, ci ha tutto, ne ha fatto dormire tanti, non ti preoccupare se... Poi non l'ho usato mai, non ci sono stato mai, anche se andavo a Milano sapevo dove andare''). SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
E il pentito Francesco Di Carlo ricorda che volevano “combinare” Marcello. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 19 novembre 2023
Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo
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Le affermazioni di Di Carlo, collaboratore sul quale la Corte di Cassazione ha ritenuto che "la Corte di merito aveva (abbia) prodotto, ( ...) una giustificazione completa e rispondente ai criteri di razionalità e della plausibilità in ordine al fatto che il Di Carlo, nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito, "sono di assoluto rilievo atteso che esse hanno dimostrato che, malgrado Dell'Utri avesse abbandonato l'imprenditore Berlusconi, "cosa nostra" continuava a considerarlo un soggetto del tutto affidabile.
Va poi rilevato - esaminando l'ultimo profilo - che Dell'Utri ha partecipato ad un matrimonio in cui testimone dello sposo era proprio un soggetto latitante. E mentre detta circostanza poteva non essere conosciuta agli altri invitati al matrimonio, molti dei quali peraltro di nazionalità inglese, ciò non poteva essere ignoto a Dell'Utri anche prima che glielo comunicasse Teresi davanti alla chiesa (Di Carlo, peraltro aveva dichiarato che l'imputato quando Teresi, all'ingresso della chiesa gli aveva chiesto se era a conoscenza della latitanza del Di Carlo e l'imputato aveva risposto di si).
La notizia della latitanza di Di Carlo era stata resa nota peraltro il 6 febbraio 1980, come dichiarato dallo stesso collaboratore (Di Carlo: ".. (..) ma giusto che mesi prima, perché io sono latitante ufficialmente è uscito in televisione il 6 febbraio, quella me la ricordo la data 6 febbraio poi lui (Jimmi Fauci n.d.r.) mi sembra in aprile perciò c'è nemmeno due mesi").
Orbene, com'è noto, "cosa nostra" riserva i contatti con i latitanti solo a soggetti sui quali riporre la propria fiducia. Dell'Utri dunque sicuramente rientrava tra quelli atteso che Teresi e lo stesso Di Carlo si erano avvicinati a lui senza alcun timore.
Ed ancora - v'è da rilevare - che nel 1980 Dell'Utri era con Cinà e con lui si recava in un luogo ove avrebbe incontrato sia Teresi che Di Carlo protagonisti entrambi dell'incontro milanese del 1974.
Di Carlo, considerato soggetto "meritevole di pieno credito" dalla Corte di Cassazione (che ha ritenuto valide le argomentazioni in tal senso esposte dalla Corte d'Appello) ha riferito che Teresi, nel corso del matrimonio, gli aveva tessuto le lodi di Dell'Utri e gli aveva detto che avevano intenzione di combinarlo (Di Carlo: «ci prepariamo per andare all'altare con Teresi, comunque e siamo appartati mi dice: bonu picciottu: In gergo cosa nostra si capisce un bonu picciottu e che ... a disposizione una persona di qua, me ne parla bene, dice noi con Stefano abbiamo intenzione di combinare a Dell'Utri, e allora io ... tu che ne pensi»).
Rileva il Collegio che la richiesta di ospitalità avanzata da Teresi a Dell'Utri e l'apprezzamento manifestato da Teresi nei confronti dello stesso imputato, non sembrano argomenti sui quali Di Carlo aveva motivi di mentire.
In relazione alla disponibilità offerta da Dell'Utri di aiutarlo ove si fosse trovato a Milano, il collaboratore ha precisato di non avere avuto mai la possibilità di sperimentarla avendo sfruttato la disponibilità di altri soggetti che lo avevano ospitato. In relazione al gradimento manifestato da Teresi sulla persona di Dell 'Utri al punto da volerlo fare entrare stabilmente in cosa nostra, reputa il Collegio che non sussistono motivi per ritenere che tale affermazione sia frutto della fantasia di Di Carlo.
Del resto Dell 'Utri era tenuto in grande considerazione sicuramente dagli esponenti di "cosa nostra" atteso che è colui che ha stretto con "cosa nostra" un patto di particolare rilievo per la vita dell'associazione mafiosa, patto che - per le valutazioni che saranno di seguito esposte - non ha mai tradito assicurando con la sua costante attività di mediazione fino al 1992, cospicui e sicuri guadagni all'associazione mafiosa mediante i pagamenti di somme di denaro versate da Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I ricordi di Angelo Siino su quei viaggi dei “palermitani” a Milano. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 20 novembre 2023
Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate
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Anche Angelo Siino ha riferito un episodio che può essere collocato nel periodo in esame e che dimostra come Dell'Utri non si fosse mai allontanato dal nucleo mafioso con il quale aveva interagito ed al quale aveva consentito di rafforzarsi con la sua opera di mediazione.
Il collaboratore, la cui attendibilità intrinseca è stata accertata in importanti e numerosi processi, che è conoscitore profondo delle logiche di "cosa nostra" nella gestione degli appalti negli anni '90, all'udienza del 9 giugno 1998 ha riferito che nella seconda metà degli anni '70 aveva più volte accompagnato a Milano in macchina Stefano Bontate.
In occasione di uno di detti viaggi, aveva incontrato Dell'Utri che scendeva le scale di Via Larga, dove vi era l'ufficio di Ugo Martello, insieme allo stesso Martello, a Stefano Bontate e, forse, a Mimmo Teresi (della cui presenza il Siino non era certo).
L'incontro è stato correttamente collocato dai giudici di primo grado nel periodo 1977- 1979 ed in ogni caso nel periodo in cui l'imputato lavorava già per Rapisarda atteso che Dell'Utri gli aveva fatto cenno ad una società di costruzioni in cui lavorava "un certo Alamia". Ancora una volta è emersa la conferma della precisa volontà di Dell 'Utri di mantenere i rapporti con i soggetti mafiosi protagonisti del patto mafioso del 1974.
Deve mettersi in evidenza che il Tribunale - contrariamente a quanto affermato dalla difesa all'udienza dell'11 febbraio 2013 - non ha ritenuto Siino "poco attendibile", ma, dopo avere indicato il valore processuale che avevano assunto nei processi le sue dichiarazioni e le sue conoscenze, aveva rilevato che le sue affermazioni relative al fatto che Dell'Utri aveva curato gli interessi di Ciancimino non potevano essere riscontrate dall'incontro di cui aveva parlato ("Pertanto, il Collegio non è in grado di collegare quell'incontro ad una circostanza specifica e di dare un significato alla frase usata dal Ronfate (secondo cui Dell'Utri avrebbe "curato" gli interessi di Ciancimino), rendendola suscettibile di autonomo riscontro. Quello descritto non è il solo viaggio fatto dal Siino in compagnia di Stefano Ronfate: pag 748 ).
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
E Marcello fu invitato a cena nella villa del “principe di Villagrazia”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 21 novembre 2023
Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico
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Infine, devono essere rammentate le dichiarazioni di Di Carlo che ha parlato di una cena avvenuta nel 1979 nella villa di Stefano Bontate a Palermo alla quale avevano preso parte una ventina di persone tra le quali Di Carlo, Marcello Dell'Utri, Bontate, Mimmo Teresi e Totuccio Federico.
Di Carlo ha precisato che in quell'occasione non si era parlato di affari illeciti.
La circostanza - ai fini dell'approfondimento del tema della permanenza dei contatti tra Dell 'Utri e gli esponenti mafiosi con i quali aveva stretto il patto del 1974 - è del tutto irrilevante, ma ciò che preme sottolineare, ancora una volta, è non solo la sinergia delittuosa con boss mafiosi del calibro di Bontate, ma anche la omogeneità ideologica e culturale tra Dell'Utri e Bontate con il quale l'imputato condivideva anche momenti di convivialità.
Né può attribuirsi alcun rilievo al fatto che Dell'Utri abbia negato di conoscere Teresi e Bontate, considerato il fatto che la sua partecipazione ali' incontro milanese del 1974 con costoro è stato ormai accertato definitivamente con la sentenza della Suprema Corte e che dei rapporti tra Dell'Utri e Bontate hanno parlato non solo collaboratori di giustizia come Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo, ma anche Angelo Siino, collaboratore di giustizia di acclarata attendibilità che ha riferito dell'incontro avvenuto mentre l'imputato scendeva le scale dell'ufficio di via Larga insieme a Bontate e a Ugo Martello.
Ritornando alle dichiarazioni di Di Carlo, quest'ultimo all'udienza del 16 febbraio 1998, dopo avere descritto la villa di Stefano Bontate, ha riferito che, in occasione di una cena organizzata, nel 1979 o in un periodo di poco anteriore, aveva incontrato Dell'Utri. (Di Carlo :" ... una cantina .. ecco uno scantinato, ma non era uno scantinato .. perché di solito il scantinato si pensa un garage, una cosa, è bellissimo l'ha fatto per ricevere amici di cosa nostra o persone, infatti c'era un grandissimo tavolo, una cucina che era metà sala di questa . . . questa Corte, potevano entrarci pure 100 persone, ed aveva questa, l'aveva fatto per ospitare o per fare mangiate, come le chiamavano loro, riunione e cose, ma no riunioni a livello di cosa nostra, perché le riunioni si facevano in altri posti, però aveva fatto qua in questo modo, e una sera mi hanno invitato, ci sono stato più di una sera, una volta eravamo pochissimi, mentre quella sera ho visto più di venti persone, venti o qualcuno in più, e mi ricordo una cena che c'era Marcello Dell'Utri"; PM: "Una cena, quante persone erano presenti, se ricorda se erano presenti altri uomini d'onore? ";Di Carlo:" Si, uomini d'onore ce n'erano tantissimi, ma c'era pure qualcuno che non era uomo d'onore"; PM: Chi era presente tra gli uomini d'onore, che lei ricordi? Di Carlo:" C'era i soliti Mimmo Teresi, c'era l'avvocato, chiamiamolo avvocato, fratello di Stefano Bontate ( ... ) C'era Totuccio Federico, non so se c'era Mannoia, non mi ricordo veramente, c'era un altro dei Teresi, che era vicino, che abitava vicino da Stefano Bontate, c'era uno che ci dicevano a 'nciuria , ma forse si chiama Gambino, pure Giuseppe Gambino, della Guadagna della famiglia di Stefano, aveva a 'nciuria che lo chiamavano sempre, il cogn,ome dopo l'ho saputo .. ( ... ) P.M . . "Senta, lei ha detto che questo incontro è avvenuto quando? Di Carlo:" Ma verso il '79, mi sembra ";PM: " Come? ";Di Carlo :" Verso il '79 , se non faccio sbaglio"; PM: "Ricorda in che periodo è avvenuto(..) Senta signor Di Carlo, nell'interrogatorio del 14 febbraio 97 lei specificamente ha indicato che questa cena di cui sta parlando adesso, leggo:" avvenne all'incirca nel 1977, data che ricostruisco basandomi sulle circostanze di fatto che allora avevo già conosciuto Gimmi Fauci e che tale conoscenza , come ho detto, era avvenuta nel '76 "; Di Carlo :" No, più avanti è stato, '77 ... più avanti è stato ... o fine '78, fine, quando dico fine ... settembre o '79, non è '77 "; PM: "Non è '77? "; DI CARLO: " No, no '') . Tale circostanza rileva non solo perché attesta la prosecuzione dei rapporti con gli esponenti mafiosi di speciale calibro, ma perché conferma una constante cordialità dei rapporti che è del tutto incompatibile con il rapporto (invero escluso dalla Suprema Corte) tra estorto ed estortori. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I boss Bontate e Teresi sistemano la questione delle antenne televisive. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 22 novembre 2023
La vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Rinviando ad un esame successivo la vicenda della "messa a posto" delle antenne televisive, deve rilevarsi che si colloca proprio nel periodo in esame - in cui l'interesse di Dell'Utri sarebbe dovuto essere rivolto alle sorti dell'impresa di Rapisarda - la richiesta che, secondo quanto ha riferito il collaborante Di Carlo, Dell 'Utri ha rivolto a Cinà di occuparsi della" messa a posto "per l'installazione delle antenne televisive.
Di Carlo ha riferito che Cinà si era rivolto a lui per avere un consiglio su come comportarsi ed ha collocato - seppur in modo non del tutto certo - il dialogo tra il "'77-'78'' (Di Carlo:" ... Poi un 'altra volta solo ho avuto discorsi con Tanino al riguardo però siamo più avanti, non so quanti anni sono passati che aveva il problema che ci hanno detto di mettere antenne là, cosa dovevano mettere, per la televisione aveva questo problema. P.M. Chi aveva questo problema?" ; Di Carlo :" Gaetano Cinà "; PM: "Eh, si, ma a chi ... chi si era rivolto a Gaetano Cinà? "; Di Carlo: "Di nuovo ... Dell'Utri": P.M. "Dell'Utri Marcello?"; Di Carlo:" Sì, e siccome non era ... non era nella zona di Stefano da metter questa cosa e allora ... ecco, siamo sempre là, Tanino non capiva che pure che non era nella zona di Stefano, una volta che è interessato Stefano può dirlo sempre a Stefano e Stefano ci pensa lui anche che è un 'altra zona lo dice, sa come mettersi d'accordo con altri capi mandamento o meno ". ( ... ) PM: Ma erano già istallate o era un 'intenzione di istallare queste ... "; Di Carlo:"Mi sembra che era intenzione di istallare queste ... PM : "Ricorda il periodo in cui ... "; Di Carlo:"Se erano istallate e non dicevano prima erano guai"; P.M: "Dopo quanto tempo dall'incontro di Milano avvenne questo discorso?"; Di Carlo: "Non lo so se era '77-'78 questo discorso'').
La richiesta era poi stata risolta da Bontate e Teresi che avevano" sistemato tutto". L'episodio, da collocarsi con ogni probabilità nel 1979- 1980 in relazione all'interesse del gruppo Fininvest nel settore delle emittenti private ( risale proprio in quegli anni la prima trattativa di Fininvest per l'acquisto da parte di Rete Sicilia s.r.l.. società collegata a Fininvest, di TVR Sicilia), dimostra che Dell'Utri, malgrado fosse stato ancora alle dipendenze di Rapisarda, aveva continuato ad avere contatti con Cinà e a cercare, attraverso quest'ultimo, di mediare tra gli interessi di "cosa nostra" e Berlusconi.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I giudici: «Berlusconi non ha mai smesso di pagare per non avere problemi». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 23 novembre 2023
E’ fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare
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Alla luce delle considerazioni fin qui esposte reputa il Collegio che è dimostrato come Dell 'Utri, nel periodo di tempo in cui era rimasto alle dipendenze del Rapisarda (sostanzialmente interrotto nel 1980 a seguito del fallimento della Bresciano s.p.a. di cui Dell 'Utri era amministratore delegato e della fuga di Rapisarda dapprima in Venezuela e poi in Francia) non ha mai interrotto i rapporti con i soggetti che avevano stretto con lui il patto che aveva dato la spinta psicologica iniziale nel pregresso accordo per il sodalizio mafioso e con i quali aveva agito nella veste di concorrente esterno.
Né sussistono motivi per ritenere che il breve allontanamento dall'area imprenditoriale berlusconiana abbia fatto mutare la natura dei rapporti con tali soggetti non essendo emersi comportamenti di Dell 'Utri che abbiano mostrato la sua volontà di rimuovere o interrompere la situazione antigiuridica che aveva posto in essere fino agli inizi del 1978, prima di abbandonare l'area imprenditoriale di Berlusconi.
Dopo avere messo in evidenza il mantenimento dei suddetti rapporti, al fine di potere affermare che il concorrente esterno Dell'Utri abbia protratto volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli aveva ''propiziato e del quale si era fatto garante presso i due poli " è necessario accertare che l'imputato non abbia cessato le condotte che aveva tenuto in esecuzione dell'accordo e che tali condotte siano state sempre supportate dal medesimo atteggiamento psicologico.
La Corte di Cassazione, sempre con riferimento a tale periodo ha mvero rilevato "una carenza di motivazione riguardo all'elemento oggettivo" non essendo "state esplicitate neppure le ragioni e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono avvenuti materialmente dunque ad opera di terzi a partire dal 1978 ". L'arco temporale di cui si deve dare prova dei pagamenti è dunque circoscritto al periodo 1978/1982, essendo stato definitivamente accertato che per il periodo successivo i pagamenti erano avvenuti (resterà da esaminare l'elemento psicologico dell'imputato), considerato che la Corte di Cassazione infatti ha ritenuto che la motivazione del giudice di merito non si era esposta a censure per quanto riguardava l'affermazione della effettività oggettiva della protrazione dei pagamenti da Berlusconi a "cosa nostra" negli anni '80 e poco oltre (1983) fino al 1992.
Poiché, ad avviso di questa Corte territoriale, i pagamenti garantiti a"cosa nostra" in cambio della protezione all'imprenditore, oggetto del sinallagma contrattuale dell'accordo del 1974 (che ha visto protagonista Dell 'Utri quale mediatore tra le parti Berlusconi da una parte e "cosa nostra" dall'altra) costituiscono l'antecedente causale anche dei pagamenti effettuati in seguito, al fine di affermare la permanenza del reato e l'assenza di soluzione di continuità anche nel periodo di allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi, appare necessario ripercorrere, seppur brevemente le modalità di tali pagamenti fin dall'inizio e cioè fin dal 1974.
Deve a tal proposito essere rammentato che Di Carlo - ritenuto soggetto meritevole di pieno credito nel presente processo atteso che il suo racconto sull'incontro del 1974 ha presentato credibilità oggettiva ed è stato riscontrato obiettivamente da una pluralità di elementi (v. sent. Cass. Pag, 99) ha riferito che la prima consegna di denaro era stata fatta a Gaetano Cinà subito dopo l'incontro del 1974: 100 milioni di lire che Cinà aveva chiesto personalmente a Dell'Utri e che quest'ultimo gli aveva consegnato.
Galliano aveva parlato di un "regalo" che Berlusconi aveva voluto fare ai suoi interlocutori mafiosi di 100 milioni di lire l'anno che venivano pagati in due rate da 50 milioni e che - su incarico di Stefano Bontate - venivano ritirate da Cinà presso lo studio di Dell 'Utri. Anche Cucuzza ha parlato delle somme che venivano consegnate da Berlusconi; ha solo ricordato che Mangano gli aveva confidato che era lui a ricevere le somme ( 50 milioni di lire all'anno) che tratteneva per una parte, consegnandone un'altra parte a Nicola Milano per il mandamento di Santa Maria di Gesù. Fin qui la Corte di Cassazione ha ritenuto che le motivazioni della Corte d'Appello avevano resistito alle censure di legittimità.
Orbene, reputa questa Corte territoriale che, anche in relazione al periodo in esame ( 1978-1982) non sussista dubbio alcuno sulla prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a "cosa nostra" sulla base dell'accordo mafia-imprenditore che aveva dato inizio alla condotta di concorso esterno dell'imputato nel 1974. Ed invero l'allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale di Berlusconi e la sua assunzione alle dipendenze di Rapisarda non ha in alcun modo inciso sulla permanenza del reato sia sul piano obiettivo e materiale, che sul piano soggettivo.
La prova risiede ad avviso del Collegio non solo nell'assenza (di cui si è già parlato) di alcun comportamento dell'imputato da cui potere desumere il suo voluto distacco non solo dai protagonisti dell'accordo mafioso del 1974 che lui stesso aveva richiesto e determinato svolgendo la sua opera di mediazione tra l'imprenditore e "cosa nostra"; ma soprattutto nel fatto che l'esecuzione del suddetto accordo che prevedeva da un lato la protezione di Berlusconi e dall'altro la sistematica acquisizione di proventi economici da parte dell'associazione mafiosa è sempre proseguito senza soluzione di continuità. La circostanza è di particolare rilievo atteso che la protezione ha costituito nucleo essenziale e fondamentale del patto e il motivo del corrispettivo dei pagamenti da parte dell'imprenditore stesso. Deve mettersi immediatamente in evidenza che non può attribuirsi alcun rilievo, al fine di escludere che era venuta meno la ragione di pagamenti, al fatto che Berlusconi dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore si era munito di un servizio di protezione privata: l'imprenditore invero ha sempre manifestato in modo chiaro di essere convinto del fatto che per la propria attività - che si stava espandendo sul tutto il territorio nazionale - la protezione istituzionale o privata non era sufficiente. Berlusconi ha sempre accordato una personale preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità ( circostanza questa richiamata anche dalla Corte di cassazione: pag 103).
Anche in epoca successiva a quella in esame, nel corso di una conversazione del 17 febbraio 1988, l'imprenditore dialogando con l'amico Renato Della Valle aveva ancora manifestato la sua disponibilità a pagare somme di denaro, pur di non essere tormentato da minacce estorsive (Berlusconi:" ... ma io ti dico sinceramente che, se fossi sicuro di togliermi questa roba dalla palle, pagheri tranquillo).
Ed ancora parlando con Dell'Utri la notte dell'attentato del 29 novembre 1986 ( attentato che l'imprenditore aveva definito un "una cosa anche . .. rispettosa ed affettuosa") aveva detto che se lo avessero chiamato telefonicamente lui avrebbe consegnato anche trenta milioni. Ridendo aveva riferito all'amico che aveva manifestato detta sua disponibilità anche ai Carabinieri che erano rimasti scandalizzati ( Berlusconi: "Stamattina gliel'ho detto anche ai Carabinieri .. gli ho detto. "Ah, si? In teoria se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo! (ride) Scandalizzatissimi: "Come trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!".
Dico: "Ma no, su per trenta milioni". Acclarata l'accettazione di Berlusconi a pagare somme di denaro pur di non ricevere atti di intimidazione o ritorsione, deve rilevarsi che la protezione da parte di "cosa nostra" dell'imprenditore era continuata anche in seguito all'allontanamento di Mangano da Arcore e di Dell'Utri da Berlusconi e prima della morte di Bontate e Teresi. Il collaborante Angelo Siino ( v. dich del 9 luglio 1997), la cui attendibilità, come è stato già rilevato, è stata acclarata ali' esito di numerosi processi, ha invero ricordato dell'intervento effettuato da Stefano Bontate per impedire un progetto di sequestro ai danni di Berlusconi o di un suo familiare ad opera di mafiosi calabresi, nella seconda metà degli anni '70 ("1977, ma sicuramente prima del 1979 "). Siino aveva accompagnato Bontate a Milano, erano passati da Roma a prendere Vito Cafari, massone calabrese vicino alla 'ndrangheta, e si erano poi diretti a Milano, dove avevano incontrato dei calabresi ("certi Conde/lo'') che " dovevano fare da tramite con questi personaggi di Locri " che avevano intenzione di sequestrare Berlusconi o un suo familiare.
Bontate era interessato alla vicenda mentre il Cafari faceva solo da tramite con i calabresi. Siino ha riferito di non avere assistito alla discussione con questi ultimi e Bontate, ma avere appreso il motivo ed il contenuto dell'incontro dallo stesso Bontate durante il viaggio di ritorno.
Aveva tuttavia notato che al pranzo che vi era stato dopo l'incontro tra i commensali ( Siino, Bontate, Cafari, un soggetto latitante ed altri due o tre personaggi di Locri) vi era un clima teso. Bontate, faceva battute e lui aveva capito che non aveva alcuna considerazione dei calabresi che "per lui non erano nessuno ". Il boss mafioso era molto contrariato del fatto che i calabresi ( "quelli di Locri") si erano interessati a Berlusconi che lui considerava " a lui vicino " ed aveva detto che, ove non avessero smesso di " inquietare" Berlusconi, "gli avrebbe fatto vedere lui". E' ancora significativo che Bontate aveva riferito a Siino che i fratelli Pullarà avevano "protetto Berlusconi dalle ingerenze calabresi dalle vessazioni che gli facevano i calabresi"; per questo motivo avevano ricevuto dall'imprenditore milanese "notevoli riscontri, rientri in denaro"; ricordava che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione gli stava costando un prezzo talmente alto da sradicarlo, da togliergli le radici, distruggendolo - gli aveva detto che i Pullarà " ci (a Berlusconi) stanno tirando u radicuni ". Lo stesso Bontate aveva riferito a Siino che i Pullarà una volta in discoteca avevano difeso il fratello di Berlusconi o lo stesso imprenditore, dalle offese rivolte dai calabresi. Le circostanze fin qui esposte dimostrano due fatti estremamente rilevanti: 1) la protezione garantita nel 1974 era proseguita senza sosta e senza registrazione di alcun allentamento dell'interesse degli esponenti mafiosi che quel patto avevano concluso, patto che, deve essere rammentato, costringeva l'imprenditore Berlusconi a versare cospicue somme a "cosa nostra"; 2) Ignazio e Giovan Battista Pullarà già prima della morte di Bontate, avevano preteso il pagamento di somme di denaro da Berlusconi per proteggerlo, somme che, come meglio verrà in seguito esposto, erano in concreto collegate a forniture di materiali teatrali che gli stessi fornivano all'imprenditore.
Se è vero - com'è vero - che la protezione era proseguita in virtù dell'accordo del 1974 e se è vero che il sinallagma "contrattuale" aveva previsto che la protezione dell'imprenditore avesse come corrispettivo il pagamento di somme di denaro da parte di Berlusconi, è fin troppo evidente che non essendo emerso in alcun modo un ripensamento dell'imprenditore - che anzi aveva sempre affermato di volere pagare pur di essere lasciato in pace - né lamentele dell'organizzazione mafiosa, deve ritenersi che Berlusconi non abbia mai smesso di pagare.
Detta conclusione è non solo del tutto logica, ma soprattutto fondata anche sulle dichiarazioni rese dai collaboranti Galliano, Anzelmo e Calogero Ganci e si collega peraltro anche al pagamento in epoca successiva delle somme, pagamento in ordine al quale la Suprema Corte ha chiesto a questo un nuovo esame solo sulla sussistenza dell'elemento psicologico essendo definitivamente accertata la loro oggettiva protrazione. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Quando l’amico interviene per chiedere uno sconto a Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 24 novembre 2023
È emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
In relazione all'attività in concreto svolta da Dell'Utri, reputa il Collegio che deve mettersi in evidenza che in relazione alla causale di detti pagamenti, i giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte d'Appello in passaggio della sentenza annullata aveva tenuto conto e giustificato come "possibile" la tesi di Galliano secondo cui i pagamenti di Berlusconi erano stati fatti per la protezione, e non anche per l'installazione dei ripetitori ritenendo acquisite «prove rassicuranti della effettività dei pagamenti e non altrettanto rassicuranti circa la aggiunta della causale dei ripetitori alla causale della protezione».
Ciò che era stato ritenuto rilevante e certo era che Berlusconi aveva continuato a pagare a "cosa nostra" con continuità somme di denaro cospicue per la propria protezione. Orbene ad avviso di questa Corte territoriale non può negarsi che proprio nel periodo in esame in cui Dell'Utri era passato alle dipendenze di Rapisarda si era profilato un interesse di Berlusconi per le emittenti private.
A tal proposito - a riprova del fatto che l'allontanamento dall'area berlusconiana non aveva comportato alcuna interruzione dell'interesse di Dell 'Utri per il mantenimento del patto siglato nel 1974 - va ricordata la richiesta fatta dall'imputato a Cinà, così come dichiarato da Di Carlo, di occuparsi della "messa a posto" delle antenne televisive nel " 1977/1978", anni in cui si delineava l'interesse di Fininvest per le emittenti private in Sicilia. Del pagamento del pizzo per le antenne si è continuato a parlare anche in seguito ed in particolare - quando Riina ( come si vedrà nel paragrafo relativo al periodo compreso tra il 1983 ed il 1992) aveva preteso il raddoppio della somma e Dell 'Utri aveva detto a Cinà che avrebbe pagato tale somma, ma che per i ripetitori in Sicilia a pagare dovevano essere i titolari delle emittenti locali e non la Fininvest.
Orbene reputa questo Collegio - considerato che Galliano aveva riferito che le somme erano date solo per la protezione dell'imprenditore con ciò escludendo che la causale dei pagamenti era collegata solo al "pizzo per le antenne" - che non è rilevante indagare quale sia stata questa causale (antenne e/o protezione personale) dei pagamenti, ma che sta necessario accertare che sia avvenuta (rectius: proseguita) l'oggettiva e materiale consegna di denaro nel periodo in questione, la "materialità del comportamento dell'imputato", così come chiesto dalla Suprema Corte (pag.110).
Del resto il patto concluso grazie alla mediazione di Dell'Utri prevedeva una protezione dell'imprenditore che non era limitata all'incolumità della sua persona, ma anche a tutto ciò che ad un imprenditore poteva accadere nello svolgimento della sua attività e dunque, eventualmente, anche per l'affare imprenditoriale dei ripetitori televisivi.
Alla luce degli elementi probatori emersi nel corso del giudizio e costituiti essenzialmente dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia può immediatamente anticiparsi che la consegna del denaro da Berlusconi a "cosa nostra" non si era mai arrestata ed il ruolo di mediatore di Dell'Utri non si era mai interrotto.
Per la sua generale protezione è emerso che Berlusconi ha sempre pagato a "cosa nostra" e che Dell'Utri, non ha mai smesso di controllare che il rapporto sinallagmatico venisse rispettato, pronto ad intervenire per tutelare le ragioni del Berlusconi che in un certo periodo si sentiva eccessivamente pressato ("tartassato") o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma.
Del resto la stessa natura giuridica di reato permanente e non istantaneo, richiede che fintantoché il concorrente esterno protragga volontariamente l'esecuzione dell'accordo che egli ha propiziato e di cui si sia fatto garante, presso i due poli più volte evocati (Berlusconi - "cosa nostra"), si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere; evenienza che la giurisprudenza richiamata dalla sentenza di annullamento della Corte di Cassazione (pag. 118), ha riassunto nella locuzione secondo cui " la suddetta condotta partecipativa (esterna) si esaurisce, quindi con il compimento delle attività concordate": Cass. 17.7.2002. n. 21356).
Volendo mettere m luce la "materialità del comportamento dell'imputato in tale periodo" (pag. 110 sent. Cass.) deve rilevarsi che le modalità di pagamento nel periodo in esame, precedente e di poco successivo alla morte di Stefano Bontate avvenuta il 23 aprile 1981, sono emerse essenzialmente dalle dichiarazioni dei collaboranti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata.
Le loro dichiarazioni - evocate nella sentenza annullata ed anche in quella di primo grado solo - contengono elementi significativi a riprova del fatto che i pagamenti non si sono mai interrotti neppure quando Dell'Utri era andato a lavorare per Rapisarda. Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, all'udienza del 9 gennaio 1998, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele, capo della suddettafamiglia, relative ai pagamenti effettuati da Berlusconi a "cosa nostra".
Il collaboratore, dopo aver parlato dei pagamenti effettuati da Dell'Utri a Stefano Bontate, ha proseguito nel suo racconto riferendo che dopo la morte di quest'ultimo i pagamenti non si erano interrotti, ma erano stati effettuati ai Pullarà, Ignazio e Giovan Battista, che erano divenuti (prima Giovan Battista e, dopo il suo arresto, Ignazio) reggenti del mandamento di Santa Maria di Gesù ed avevano ereditato i rapporti intrattenuti da Stefano Bontate e Mimmo Teresi (Ganci :"Cinà quando fu contattato da Dell'Utri (1984-1985: n.d.r.) aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi. Poi dopo la morte di queste persone questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà, Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire").
Ciò era avvenuto fino al 1984-1985 allorchè Cinà era stato chiamato da Dell'Utri che si era lamentato perché si sentiva "tartassato " dai Pullarà (dei pagamenti successivi al 1982 si parlerà in seguito nel paragrafo relativo all'elemento soggettivo sotteso a tali pagamenti) Le dichiarazioni di Ganci hanno dunque messo in evidenza che i pagamenti da parte dell'imprenditore milanese non si erano interrotti nel periodo in cui Dell 'Utri era andato a lavorare da Rapisarda. Il collaborante ha indicato una chiara successione nella gestione di tali pagamenti da parte di Dell'Utri ( Bontate-Pullarà) che lascia intuire che i termini del patto contrattuale erano rimasti i medesimi e che in seguito alla morte "dei mandanti della Guadagna", cioè di Bontate e Teresi, erano cambiati solo i percettori delle somme che erano divenuti i Pullarà e ciò senza soluzione di continuità.
Ha parlato dell'interesse mostrato da Dell'Utri per la situazione delle antenne televisive, ma lo ha riferito al 1984-1985, periodo successivo a quello in esame. Dalle sue dichiarazioni è emersa con tutta evidenza che Dell 'Utri, anche nel periodo in esame in cui aveva lasciato professionalmente Berlusconi, aveva continuato a mediare tra gli interessi di cosa nostra e 'imprenditore milanese, intrattendo rapporti non più con Bontate, ma con i Pullarà.
Del resto non vi era alcuna ragione per la quale gli esponenti mafiosi non si rivolgessero a lui visto che Dell'Utri non aveva mai mostrato alcun atteggiamento che lasciasse presumere la sua volontà di interrompere i contatti con coloro che avevano con lui siglato il patto del 1974, ponendo fine alla situazione antigiuridica che lui stesso aveva contribuito a creare. Con tali soggetti - come è stato già messo in evidenza - aveva continuato ad interagire mantenendo identico atteggiamento di cordialità e soprattutto di progettualità. Ma vi è di più. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Le lamentele di Dell’Utri per i Pullarà che “tartassano” Silvio Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 25 novembre 2023
La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali ( a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo")
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Il fatto che Dell'Utri nel 1984 si sia lamentato con Cinà per il comportamento assunto dai Pullarà che "tartassavano" Berlusconi (la decisione di Riina di estromettere i Pullarà dai rapporti con Dell'Utri sarà oggetto del paragrafo successivo riguardante il periodo 1983-1992) conferma che tali richieste erano state state incalzanti e vessatorie e che dunque non si erano mai arrestate. Il termine "tartassamento" indica proprio l'incalzare di richieste vessatorie mai interrotte e protratte nel tempo, che mettono a dura prova il destinatario.
Né può esprimersi alcun dubbio sulla legittimazione dei Pullarà a ricevere i pagamenti, considerato che costoro avevano iniziato la pressione sull'imprenditore addirittura prima della morte di Bontate. Deve a tal proposito rammentarsi che Siino, allorchè era m compagnia dello stesso Bontate, aveva sentito quest'ultimo confidargli che per la protezione accordata ai Berlusconi, i Pullarà lo stavano pressando oltre misura al punto di sradicarlo, togliergli le radici vitali ( gli stavano "tirando u radicuni").
La gestione dei Pullarà era, infatti, piuttosto fuori dalle regole di "cosa nostra" (Riina infatti li sostituirà con Cinà) ed era collegata a pretese economiche che, se da un lato avevano come corrispettivo la protezione dell'imprenditore milanese, dall'altro servivano al raggiungimento di loro interessi personali (a detta di Ganci i Pullarà intrattenevano rapporti con Dell'Utri ''per conto di una ditta milanese per cose di spettacolo").
Il fatto che i pagamenti a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi erano proseguiti senza interruzione e che Dell'Utri non aveva voluto interrompere il suo rapporto con gli esponenti mafiosi che ricevevano tali pagamenti e ciò anche nel momento in cui si era allontanato per andare a lavorare da Rapisarda, è emerso anche dalla dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci.
Alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Raffaele Ganci, Anzelmo era divenuto reggente del mandamento insieme all'altro figlio di Ganci, Domenico ("Mimmo''). Anche Anzelmo ha riferito di avere saputo da Raffaele Ganci che Cinà riscuoteva i soldi da Dell 'Utri e che quest'ultimo aveva intrattenuto dapprima rapporti con Stefano Bontate e in seguito dopo la morte di quest'ultimo, con i Pullarà (Anzelmo: "ho saputo da Mimmo Ganci .. , da Ganci Raffaele che lui si interessava a riscuotere dei soldi da Marcello Dell'Utri e che questi in passato aveva intrattenuto rapporti non meglio definiti con Bontate e Teresi, ripresi, dopo la morte di costoro, da Ignazio Pullarà. Questo so. So che erano stati vicini diciamo.
Che si conoscevano, che si frequentavano, per quali rapporti non lo so''). Anche il collaborante aveva saputo che Dell 'Utri in seguito si era lamentato con Cinà in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà, uomo d'onore che aveva sostituito Bontate nella reggenza dellafamiglia di Santa Maria di Gesù.
(Difensore: "senta lei a domanda del Pubblico Ministero, ha parlato di rapporti con Bontate e Teresi. Mi vuole spiegare a quali anni lei si riferisce?"; Anzelmo:" Evidentemente prima dell'"81 quando poi Stefano Bontatefu ucciso. A me lo raccontò questo, Ganci Raffaele nel contesto di queste lamentele che portava Tanino Cinà''). Anzelmo non aveva saputo riferire, tuttavia, i motivi per i quali Dell'Utri si sentiva "tartassato " da Pullarà, ma evocando detto termine aveva confermato che l'imputato, anche dopo la morte di Bontate e durante la gestione dei Pullarà, gestiva il patto di protezione di Berlusconi. In relazione al periodo in esame hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano, uomo d'onore "riservato", appartenente dal 1986 alla famiglia della Noce e nipote di Raffaele Ganci.
All'udienza del 19 gennaio 1998 Galliano ha ricostruito con precisione i pagamenti effettuati da Berlusconi fin dall'inizio, riferendo che subito dopo il primo incontro del 1974 i soldi versati da Berlusconi a "cosa nostra" erano consegnati a Gaetano Cinà che si recava presso lo studio di Dell 'Utri per riceverli. Cinà li consegnava a Stefano Bontate che li teneva per la propria famiglia: la somma era pari a 50 milioni di lire in due soluzioni.
Tutto ciò era avvenuto senza soluzione di continuità fino alla morte di Bontate (1981) ( Galliano: "Sin dal primo incontro Berlusconi decide di fare questo regalo alla mafia palermitana; P.M.: "Ho capito Questa somma per quello che lei ha appreso dal Cinà, da Gaetano Cinà veniva consegnata materialmente da chi a chi?"; Galliano:" .. cioè veniva consegnata prima allo Stefano Bontate. Poi dopo la guerra di mafia ... " (...) P.M.: "Materialmente questi soldi venivano ritirati per conto di cosa nostra da chi?" Galliano: "Da Gaetano Cinà nello studio di Marcello Dell'Utri"; P.M.: .. e si trattava, lei ha detto di 50 milioni all'anno in due soluzioni "; Galliano:"si"; P.M." venticinque l'uno"; Galliano:" Esatto") Dopo la morte di Stefano Bontate il denaro veniva consegnato da Dell 'Utri a Cinà che lo dava a Pippo Di Napoli.
Quest'ultimo lo faceva avere, tramite Pippo Contorno uomo d'onore della stessa famiglia, ad uno dei Pullarà che all'epoca era divenuto uno dei rappresentanti della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (P.m: "poi quando la guerra di mafia viene ucciso Stefano Bontate e allora (..) questa dazione continua sempre da Dell'Utri a Cina ? "; Galliano:" Si"; P.M. : "e Cinà a chi li porta?": Galliano:" Li porta a Pippo Di Napoli che a sua volta Pippo Di Napoli li girava ad un uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù che li portava al .. in quel periodo a Pullarà al rappresentante della famiglia'').
Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare - sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori Ganci , Anzelmo e Galliano, considerati attendibili dalla Corte di Cassazione, sul rilievo che si riscontrassero reciprocamente - che nel periodo compreso tra il 1978 ed il 1982 allorchè l'imputato aveva interrotto i rapporti professionali con Berlusconi per essere assunto alle dipendenze di Rapisarda, non vi è stata alcuna interruzione del pagamenti che anzi erano continuati senza soluzione di continuità con le stesse modalità che erano state contemplate nel patto originario: i soldi dunque, tramite Cinà, al quale Dell 'Utri li consegnava pervenivano a Stefano Bontate.
La morte di Stefano Bontate aveva determinato una successione dei rapporti facenti capo al reggente dellafamiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù al quale erano subentrati i Pullarà, che Dell 'Utri aveva riconosciuto come sua controparte e come successori di Bontate e Teresi nel patto concluso nel 1974. Orbene, rammentando ancora una volta che Dell'Utri - che quel patto aveva concluso - non ha mai mostrato alcun atteggiamento di distacco dall'associazione avendo mantenuto negli anni in cui s1 era allontanato dall'area berlusconiana, contatti continui con gli stessi soggetti con i quali il patto di protezione era stato concluso e che i pagamenti erano proseguiti senza soluzione di continuità da Berlusconi a "cosa nostra" senza che si sia registrato alcuna modifica nella "causa" del patto, deve concludersi affermando che il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso dunque è rimasto configurato sotto il piano obiettivo e materiale e anche soggettivo, manifestando la sua natura permanente.
In relazione all'elemento soggettivo deve rilevarsi che Dell'Utri infatti con la sua immutata condotta aveva mantenuto lo stesso elemento psicologico del reato, sapendo e volendo che "cosa nostra" rafforzasse il suo potere economico grazie alla sua intermediazione con l'imprenditore Berlusconi che aveva sempre continuato a pagare.
La continuità dei rapporti con " cosa nostra" e la medesima connotazione che detti rapporti avevano mantenuto, supportata dagli elementi probatori concreti ed inconfutabili già esposti nel periodo in esame è del resto coerente e logica con il dato definitivamente accertato della sussistenza dei pagamenti avvenuti "negli anni '80 e poco oltre" fino al 1992, sulla cui realtà oggettiva non è richiesta alcuna indagine atteso che la Corte di Cassazione ha demandato a questo Collegio, quale giudice di rinvio, unicamente "la questione del dolo" che avrebbe assistito la suddetta fase dei pagamenti. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Muoiono i boss storici e cambiano gli “equilibri” con Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 26 novembre 2023
Il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti con l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Dopo avere chiarito che i pagamenti di Berlusconi a "cosa nostra" si erano protratti senza soluzione di continuità anche nel periodo in cui Dell'Utri si era allontanato dall'area imprenditoriale berlusconiana per andare a lavorare da Rapisarda, deve adesso affrontarsi il problema indicato dalla Cassazione come "la questione del dolo" nei pagamenti successivi al suddetto periodo fino al 1992.
La Corte, invero, seppur ritenendo che la motivazione del giudice di merito era stata rispettosa dei parametri normativi sia in ordine all'affermazione della effettività della protrazione dei pagamenti "negli anni '80 e poco oltre" da parte di Dell'Utri sulla base della nota causale del patto di protezione con la mafia, sia sul tema dell'attendibilità dei collaboratori di giustizia, ha affermato che le stesse fonti di prova che avevano consentito di pervenire alla suddetta conclusione, coniugate ad eventi oggettivi, quali ad esempio gli attentati subiti da Berlusconi nell'arco temporale in esame avevano evidenziato "elementi di una certa torsione o avvitamento dei rapporti tra le parti interessate all'interno dei quali quei pagamenti avrebbero dovuti essere reinterpretati".
Detti "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte, hanno riguardato aspetti problematici collegati sia ad atteggiamenti di Dell'Utri verso "cosa nostra" che la Suprema Corte ha definito "riluttanti" che ad attività intimidatorie poste in essere nei confronti delle proprietà di Berlusconi , eventi che apparentemente potrebbero sembrare contrapposti agli elementi probatori acquisiti in relazione alla condotta di Dell'Utri che negli anni '80 si era comunque risolta in un arricchimento di "cosa nostra".
L'esame di tali eventi demandato dalla Cassazione a questa Corte è necessario al fine di affermare o escludere la persistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto che - così come è stato sostenuto la Suprema Corte - non può ritenersi acquisita misconoscendo o negando, così come era avvenuto nella sentenza annullata, "la valenza di emergenze che si connotano segni di una possibile caduta della precedente unitarietà degli intenti".
Ove, all'esito di detto esame, non fosse possibile individuare l'elemento soggettivo necessario del dolo diretto, si andrebbe incontro ad un delimitazione cronologica del reato permanente al 1982.
Gli "eventi oggettivi" individuati dalla Suprema Corte che devono essere esaminati da questo giudice di rinvio al fine di individuare o di escludere una diversa interpretazione dei rapporti che esistevano tra le parti interessate possono essere riassunti secondo i profili che seguono.
In primo luogo viene in evidenza l'attentato di via Rovani del novembre del 1986 subito da Berlusconi che, secondo la Corte di Cassazione, non poteva essere spiegato, così come aveva fatto la Corte d'Appello, come una prassi tenuta dalla consorteria mafiosa per non allentare la tensione con la propria vittima. Secondo i giudici di legittimità, detto costrutto era del tutto irrazionale atteso che non sarebbe stato spiegato come una vittima potesse essere contemporaneamente considerata concorrente esterno nella associazione che aveva messo in atto dette pressioni, anche contro di essa.
Era stato inoltre considerato l'atteggiamento scostante assunto da Dell'Utri nei confronti di Cinà in relazione al quale Antonino Galliano aveva riferito di un incontro avvenuto nel 1986 tra esponenti mafiosi e del fatto che, nel corso di tale incontro Cinà si era lamentato di detto atteggiamento assunto da Dell'Utri nei suoi confronti ed aveva comunicato che non voleva più recarsi a Milano per riscuotere le somme dall'imputato. Ed ancora la conversazione intercorsa il 24.12.1986 tra Alberto Dell'Utri e Cinà nel corso della quale quest'ultimo aveva descritto al suo interlocutore l'atteggiamento assunto nei suoi confronti da Marcello Dell 'Utri che lo faceva aspettare o che spariva per non incontrarlo.
Inoltre la risposta del Riina che - informato di tale atteggiamento assunto da Dell'Utri - aveva posto in essere azioni intimidatorie nel 1987 sì da ottenere da un lato la riconsiderazione del Cinà presso Dell'Utri e dall'altro l'imposizione del doppio della somma versata in cambio della protezione. Sono state indicate poi le dichiarazioni di Ganci Calogero, riferite al 1984-1985 che aveva riferito delle lamentale fatte da Dell'Utri a Cinà in guanto si sentiva tartassato dai fratelli Pullarà, uno dei quali era reggente della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e dopo la morte di Bontate aveva iniziato a riscuotere le somme da Dell'Utri per poi essere rimosso dall'incarico dallo stesso Riina che lo aveva sostituito con Cinà.
Devono poi essere considerati gli attentati di matrice mafiosa ai magazzini Standa di Catania appartenenti alla Fininvest che la Corte d'Appello aveva svalutato nell'ottica di provare un interessamento di Dell'Utri per comporre la questione sottostante con "cosa nostra" e che secondo i giudici di legittimità, dovevano essere valutati "nell'ottica della tesi difensiva del potere essi rappresentare o meno l'espressione di un rapporto tra Berlusconi e la mafia non più regolato da un reciproco interesse e di riflesso quale causa o quale effetto - poco importa - di un rapporto di Dell'Utri con cosa nostra comunque non più convergente nel perseguimento di comuni interessi". Infine il mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che erano stati garantiti l'accordo del 197 4 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell'Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi.
Dopo la morte di costoro, vi era stato l'avvento della reggenza stragista e caratterizzata da una cifra criminale più alta di Salvatore Riina che aveva eliminato Bontate (ucciso) e Teresi (scomparso con il metodo della lupara bianca) nel 1981. Orbene, reputa il Collegio che al fine di esaminare ed interpretare gli elementi probatori indicati dalla Corte di Cassazione apparentemente contrapposti ai pagamenti che comunque erano stati fatti da Berlusconi a "cosa nostra", sia necessario, prima di valutare la permanenza dell'elemento psicologico, descrivere le modalità con i quali tali pagamenti sono stati effettuati "negli anni '80 e poco oltre", fino al 1992.
Tale descrizione, apparentemente superflua, (va rammentato che la Suprema Corte ha demandato a questo giudice di rinvio solo la valutazione dell'elemento soggettivo del dolo), appare invece necessaria al fine di verificare un dato di particolare significato e cioè se dal raffronto tra le modalità di pagamento nel periodo in esame (1983-1992) con quelle già sperimentate in epoca precedente (1974-1977) (ed in ordine alle quali era stata acclarata dalla Suprema Corte la responsabilità penale di Dell'Utri per il ruolo di mediatore che aveva svolto tra gli interessi di Berlusconi a ricevere una generale protezione e quelli di "cosa nostra" che assicurava la richiesta protezione ricevendo in cambio cospicue somme di denaro dall'imprenditore), era possibile registrare una modifica rilevante di tali modalità e della condotta delle parti interessate. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
I ricordi di Calogero Ganci e le confidenze del padre. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 27 novembre 2023
Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce, ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà...
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Per le modalità di pagamento nel periodo successivo alla morte di Bontate vengono in rilievo essenzialmente le dichiarazioni dei già citati collaboranti Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Antonino Galliano, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce a capo della quale vi era Raffaele Ganci ed in ordine ai quali, come è stato già rilevato, la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine alla loro attendibilità così come era stata ricostruita nella sentenza annullata. Si è trattato di collaboratori "tutti uomini d'onore i quali, in ragione di tale loro posizione soggettiva, avevano avuto modo di apprendere, ora dalla voce di Cinà (Di Carlo e Galliano) ora dalla voce del reggente Biondino (Ferrante) fatti attinenti alla vita del sodalizio, in parte sovrapponibili ed in parte strettamente concatenati" (pag. 107).
Preliminarmente deve rilevarsi che il nucleo essenziale delle dichiarazioni è stato ritenuto dalla Corte d'Appello - con motivazioni che la Suprema Corte ha condiviso - quello della consegna di denaro da parte dell'imprenditore milanese, tramite Dell 'Utri, a "cosa nostra" per l'ampia protezione che quest'ultima assicurava a Berlusconi. Tanto premesso, e prendendo le mosse dalle dichiarazioni di Calogero Ganci, uomo d'onore della famiglia della Noce rese all'udienza del 9 gennaio 1998 deve rilevarsi che quest'ultimo ha riferito circostanze apprese dal padre Raffaele. In particolare il collaboratore ha ricordato che il padre gli aveva parlato del fatto che Dell 'Utri nel 1984-1985 si era rivolto a Cinà "per aggiustare la situazione delle antenne televisive". Dell'Utri, cioè, voleva "mettersi a posto con cosa nostra al fine di ottenere, in cambio del versamento di una somma di denaro, protezione per le suddette antenne in Sicilia".
In quella stessa occasione Dell'Utri si era lamentato con il Cinà per essere stato "tartassato" dai fratelli Pullarà, come già detto, uomini d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù ai quali era stata affidata da Salvatore Riina la reggenza del mandamento dopo la morte di Bontate e Teresi.
È stato già messo m evidenza che i Pullarà avevano avanzato pretese nei confronti dell'imprenditore milanese, al quale garantivano protezione, anche prima della morte di Stefano Bontate, per vicende personali collegate a forniture di materiali per lo spettacolo. Siino aveva ricordato che Bontate - proprio per sottolineare che la protezione dei Pullarà stava costando un caro prezzo a Berlusconi - aveva detto che i Pullarà "ci (a Berlusconi: n.d.r.) stanno tirando u radicuni" (il significato della frase è stato già spiegato).
Prescindendo da detti rapporti di tipo personale che avevano con Berlusconi, ciò che è emerso è che, dopo la morte di Stefano Bontate, i Pullarà avevano ereditato i rapporti che Dell'Utri aveva intrattenuto fino a quel momento con Bontate, ucciso nella guerra di mafia nel 1981. Come è stato messo in rilievo nel precedente paragrafo, Ganci ha infatti dichiarato proprio detta circostanza e cioè che, dopo la morte di Bontate e di Teresi, Dell'Utri aveva continuato i rapporti, che lui prima aveva intrattenuto con i due boss mafiosi deceduti, con i fratelli Pullarà (Ganci: "Guardi io mi ricordo che quando fu contattato dal Dell'Utri venne a dire al Di Napoli che il Dell'Utri aveva avuto rapporti con il mandante della Guadagna, quindi io mi riferisco a Stefano Bontate, Mimmo Teresi, poi dopo la morte di queste persone, io questi rapporti li ha intrattenuti con i Pullarà. Pullarà Giovanni e Pullarà Ignazio, questo le posso dire'').
Già da questo frammento della dichiarazione è emerso, con tutta evidenza, che il mutamento dei vertici di "cosa nostra", non aveva modificato in alcun modo l'impegno finanziario del gruppo Berlusconi nei confronti dell'organizzazione criminale mafiosa e che dunque i pagamenti erano sempre proseguiti. Se così non fosse stato Dell'Utri, lamentandosi con Cinà del comportamento dei Pullarà, non avrebbe detto che si sentiva "tartassato" termine - come già si è detto - che presuppone un'azione continuata nel tempo che aveva creato in lui un vero e proprio malessere (P.M.: senta in relazione al malessere di cui lei ha parlato io volevo sapere per quale motivo vi era questo malessere da che cosa nasceva questo malessere, se lei lo sa chiaramente, tra il Pullarà ed il Dell 'Utri, e se può indicarci per quale motivo la sostituzione del Pullarà con il Cinà poteva essere vantaggiosa, poteva essere vantaggiosa da Riina e dallo stesso Dell'Utri"; Ganci: "E allora, il Dell'Utri con il Cinà si era confidato per dire che si sentiva tartassato da richieste forse di denaro oppure di .... cioè di pressione di forniture queste cose no, si era rivolto al Cinà perché erano amici si conoscevano ( ... )".
Dell'Utri dunque non aveva chiamato l'amico Cinà perché, stanco delle pressioni subite dai Pullarà, aveva deciso di non pagare più, ma lo aveva chiamato, da un lato per fare presente che i Pullarà stavano esagerando nelle richieste estorsive; dall'altro per chiedergli protezione per l'attività imprenditoriale collegata alle emittenti televisive. (Ganci: " .. . Dell 'Utri si riferì, contattò Cinà, appunto perché con i Pullarà non ci voleva avere a che fare più, perché si sentiva tartassato, qualcosa del genere "(. .) Avv. "E lei sa se in seguito alla estromissione dei Pullarà e l'intervento di Cinà il Dell'Utri si era lamentato mai per queste richieste di soldi che praticavate?" Ganci: "che io sappia, no").
Tale lamentela era stata comunicata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo con Totò Riina. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Totò Riina e il desiderio di avvicinare Bettino Craxi attraverso Berlusconi. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 28 novembre 2023
Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi
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Riina, risentito per non essere stato informato dei rapporti dei Pullarà con l'impresa milanese e preoccupato di salvaguardare una sì rilevante fonte di rafforzamento per l'associazione mafiosa, aveva estromesso i Pullarà dalla gestione dei rapporti con Dell'Utri, ed aveva delegato la gestione di tali rapporti con l'imputato solo a Gaetano Cinà di cui Dell 'Utri si fidava da anni.
Cinà - secondo quanto riferito a Calogero Ganci dal padre - s1 recava a Milano un paio di volte all'anno per ricevere da Marcello Dell 'Utri una somma che tuttavia Ganci non sapeva precisare. Tale somma veniva consegnata da Cinà a Pippo Di Napoli che a sua volta la dava a Raffaele Ganci che la faceva pervenire a Riina.
Reputa il Collegio che già da dette dichiarazioni è emerso che i pagamenti erano continuati senza soluzione di continuità e che l'atteggiamento di Dell'Utri nei confronti di "cosa nostra" non era in alcun modo mutato, avendo l'imputato continuato ad assicurare i pagamenti a "cosa nostra" nella assoluta consapevolezza di contribuire in modo rilevante, alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio mafioso, rivolgendosi ove necessario, come aveva sempre fatto, all'amico Cinà sia per la messa a posto delle antenne televisive, sia per lamentarsi dei Pullarà.
Riina che riceveva i soldi da Dell'Utri, tramite Cinà e Raffaele Ganci, non aveva fatto mistero del fatto che l'interesse che lo spingeva a curare questo canale di approvvigionamento era anche quello di natura politica. Dell'Utri, per il boss mafioso, rappresentava un contatto determinante con Silvio Berlusconi e dunque - a suo avviso - con l'onorevole Bettino Craxi. Il fatto che Dell'Utri avesse continuato a versare somme a "cosa nostra" per la protezione di Berlusconi è emerso anche dalle dichiarazioni di Francesco Paolo Anzelmo, uomo d'onore dal 1980, appartenente alla stessa famiglia mafiosa della Noce alla quale apparteneva il Ganci e della quale - alla fine del 1986, a seguito dell'arresto di Ganci Raffaele - era divenuto reggente insieme all'altro figlio del Ganci, Ganci Domenico ("Mimmo").
Anche Anzelmo era venuto a conoscenza delle lamentele di Dell'Utri nei confronti dell'atteggiamento assunto dai Pullarà nei suoi confronti; aveva infatti saputo, tra il 1985 ed il 1986 da Raffaele Ganci, che Cinà si era interessato a riscuotere i soldi da Dell'Utri e che aveva riferito a Di Napoli che Dell 'Utri si era lamentato con lui in quanto si sentiva tartassato da Ignazio Pullarà. Anzelmo non sapeva riferire, tuttavia, i motivi per cui il Dell 'Utri si sentiva pressato da Pullarà.
Di Napoli, ricevuta la notizia dal Cinà ne aveva parlato con Raffaele Ganci e quest'ultimo ne aveva parlato con Riina che aveva estromesso il Pullarà affidando la gestione dei rapporti solo al Cinà. Il denaro (L. 200.000.000 suddivise in due rate semestrali) veniva ritirato da Cinà che si recava a Milano da Dell 'Utri; Cinà a sua volta lo consegnava al Di Napoli; quest'ultimo lo dava a Ganci Raffaele che lo faceva pervenire a Riina che li depositava nella " cassa comune".
Reputa il Collegio che è sicuramente significativo un frammento della dichiarazione in cui Anzelmo ha sottolineato quale era stato il motivo del pagamento della somma di denaro con ciò confermando che, malgrado fossero mutate le parti contrattuali mafiose ( Bontade e Teresi), non vi era stata alcuna modifica del patto stipulato anni prima da Berlusconi e Dell'Utri e "cosa nostra".
Anzelmo, invero, ha dichiarato che Dell 'Utri pagava per la "tranquillità", per impedire che potesse succedere qualcosa a Berlusconi (Anzelmo: "i soldi Dell'Utri diciamo li dava per questa situazione per tranquillità"; Presidente: "Signor Anzelmo, mi scusi, quando lei parla di tranquillità a cosa allude?"; Anzelmo: ".... ( .... ) che non ci succede niente, che non succedeva niente'').
Il collaboratore ha precisato che la protezione serviva per gli impianti televisivi di Canale 5 (Anzelmo; "È a titolo pizzo che ce lo richiedeva diciamo. Questa situazione l'ha gestita Tanino Cina' e la chiuse con duecento milioni l'anno"; Difensore: " Ma per quale attività del Dell 'Utri ? Erano somme del Dell 'Utri o Dell 'Utri? "; ... Anzelmo: " Ma quale somme del Dell'Utri. Erano somme dì Canale 5 questi per i ripetitori che c'erano in Sicilia. Quali somme del Dell'Utri. Questa era tutta una situazione che veniva di là").
Il collaborante - così come aveva fatto Calogero Ganci - ha riferito che Riina, tuttavia, perseguiva anche un altro scopo ( Anzelmo: "ma le ripeto che l'interesse di Riina non era di questi soldi. Aveva altri scopi''), quello di avvicinare l'onorevole Craxi al quale il Berlusconi era legato. Riina infatti per le elezioni politiche del 1987 aveva ordinato di votare il PSI. Anche se Riina aveva estromesso Pullarà dal contatto diretto con Dell 'Utri, e ciò per non compromettere il rapporto, aveva tuttavia versato ai Pullarà la somma di 50.000.000 di lire ( Anzelmo: "ma guardi se io le dico che ... che poi tra l'altro Totò Riina incassando quei duecento milioni ci mandava i cinquanta milioni a Ignazio Pullarà ''), per far loro capire che non era stata una questione di soldi. In relazione al periodo in esame, hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese da Antonino Galliano che ha dichiarato di avere incontrato, alla fine del 1986, Gaetano Cinà presso la villa di Giovanni Citarda (uomo d'onore della famiglia di Malaspina) dove Pippo Di Napoli trascorreva la propria latitanza.
Il collaboratore ha ricordato di avere accompagnato Mimmo Ganci, che all'epoca sostituiva il padre Raffaele nella "conduzione del mandamento della Noce" e che Riina aveva " mandato a chiamare". Presso la villa vi erano Pippo Di Napoli e Gaetano Cinà. Era stata quella l'occasione in cui Cinà si era lamentato di non volere più andare da Dell 'Utri a ritirare i soldi perché quest'ultimo aveva assunto nei suoi confronti un atteggiamento distaccato, facendolo attendere o lasciando la busta con i soldi al suo segretario.
Cinà aveva registrato questo mutamento di atteggiamento dopo la morte di Bontade e quindi dopo 1'81 '-82' ( Galliano."Succede che Dell'Utri, diciamo, dopo questi omicidi. cioè dopo 1'81 ', 82' incomincia ad avere l'atteggiamento ritroso nei riguardi del ... del Cinà. E questo, diciamo, era una doglianza del Cinà dice non mi tratta più come una volta, non mi riceve più come una volta e quindi io non ci voglio andare più").
Mimmo Ganci aveva ritenuto la questione degna di rilievo in quanto, tramite Berlusconi, si poteva entrare in contatto con l'onorevole Craxi ed aveva dunque deciso di informare Riina. Galliano ha precisato di avere saputo in un secondo tempo che Raffaele Ganci era ben consapevole del fatto che Dell'Utri consegnava a Cinà il denaro. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Le minacce telefoniche e la bomba a Catania “firmata” Nitto Santapaola. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 29 novembre 2023
Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi
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Ganci aveva parlato delle doglianze riferite da Cinà con Riina e quest'ultimo aveva avuto una reazione violenta, sulla quale appare necessario soffermarsi atteso che dai passaggi che la descrivono, possono trarsi rilevanti considerazioni (che costituiranno, tuttavia oggetto di specifica trattazione) sulla matrice degli attentati posti in essere ai danni di Berlusconi ai magazzini Standa della provincia di Catania.
Riina, che non aveva avuto mai rapporti diretti con Marcello Dell'Utri, a differenza di quanto era accaduto in precedenza tra quest'ultimo e Bontate e che considerava l'imputato solo un tramite con Berlusconi che per lui rappresentava solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere vivo il legame con l'onorevole Craxi, aveva messo in atto due azioni ritorsive che a suo avviso avrebbero ridimensionato l'atteggiamento arrogante che Dell'Utri, secondo quanto aveva riferito Cinà, aveva assunto nei confronti di quest'ultimo, atteggiamento che secondo il boss mafioso Dell'Utri, non poteva permettersi di avere.
Aveva incaricato Mimmo Ganci di recarsi a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia allo stesso imprenditore. Mimmo Ganci, dunque, agli inizi del 1987, si era recato a Catania in compagnia di Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce, per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata a Berlusconi. Dopo qualche settimana costoro erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore (al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.
Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo in una "proprietà" dell'imprenditore. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere a Berlusconi che ad agire fossero stati i catanesi (Galliano: "Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese'').
Mimmo Ganci aveva poi confidato a Galliano che in effetti aveva mandato la lettera e fatto la telefonata. Dopo gli atti d'intimidazione, Cinà era stato convocato "urgentemente" a Milano da Dell'Utri che gli aveva chiesto di interessarsi per risolvere la questione (Galliano: "Marcello Dell'Utri convocò nuovamente il Gaetano Cinà urgentemente a Milano e gli spiegò ... quello che era ... che avevano subito. Prima la bomba, poi la telefonata, e cioè la lettera .. poi la telefonata e se si poteva interessare nuovamente come la prima volta''). Tornato a Palermo, Cinà aveva riferito la richiesta di Dell'Utri a Di Napoli, quest'ultimo ne aveva parlato con Ganci che aveva riferito il fatto a Riina. Il boss, ''per tenere i rapporti in maniera tranquilla", aveva raddoppiato la somma dovuta dal Dell'Utri ( da 50.000.000 a I 00.000.000), somma che doveva essere consegnata in due rate semestrali. Il pagamento doveva essere fatto per proteggere l'imprenditore e non per l'installazione delle antenne ("P.M.:"Quindi i cento milioni annuali non c'entravano nulla con il pizzo ... "; Galliano :"No come ho detto poco fa erano questi ... erano soltanto a fronte di un regalo diciamo per l'interessamento avuto da parte di ... prima di Stefano Bontate e poi diciamo da ... da parte di Totò Riina, diciamo''). Cinà si era dunque recato a Milano per parlare di tale decisione con Dell'Utri che dopo gli aveva riferito che Berlusconi era d'accordo per il raddoppio della somma, ma che per il pizzo delle antenne il denaro doveva essere richiesto ai responsabili delle emittenti locali. Il Galliano ha riferito che i soldi da quel momento vemvano consegnati da Dell'Utri a Cinà, quest'ultimo li consegnava a Di Napoli che li dava a Ganci, il quale su incarico di Riina ne consegnava una parte alla famiglia di Santa Maria di Gesù, e quindi ai Pullarà (e dopo all'Aglieri) mentre la restante parte era divisa in tre quote: "una alla famiglia di San Lorenzo, quindi a Salvatore Biondino che era, diciamo l'autista, diciamo di Totò Riina, una parte darla alla famiglia di Malaspina e una parte alla famiglia della Noce cioè a mio zio").
Nel 1988, Galliano aveva assistito alla consegna del denaro da Di Napoli a Ganci Raffaele allorchè quest'ultimo era uscito dal carcere. In relazione al tempo dei pagamenti, Galliano ha dichiarato che il denaro era arrivato da Dell'Utri fino al 1995 e che per le elezioni del 1987 il Riina aveva dato disposizioni di votale per il P.S.I.; il motivo per il quale vi era stata quell'indicazione di voto era legato al fatto che si sapeva che vi era stato un accordo con "esponenti nazionali del Partito Socialista" per dare un aiuto ai "carcerati", "per la mafia .. per aiutare la mafia".
Le dichiarazioni di Galliano appaiono rilevanti non solo perché hanno costituito un'ulteriore conferma dei pagamenti di denaro che da Dell'Utri transitavano nelle casse di "cosa nostra", ma perché hanno vieppiù palesato che le ragioni di detti pagamenti erano sempre costituiti dall'ampia protezione garantita a Berlusconi sia prima che dopo la morte dei boss Bontate e Teresi. Sulla consegna del denaro da Fininvest nel periodo 1989/1990 sono state esaminate le dichiarazioni di Giovan Battista Ferrante e di Salvatore Cancemi, che hanno confermato le dichiarazioni di Ganci, Galliano e Anzelmo. Ferrante, uomo d'onore dellafamiglia di San Lorenzo dal 1980, ha dichiarato di non avere mai conosciuto né Dell 'Utri né Cinà, ma di avere saputo che Raffaele Ganci consegnava somme di denaro a Biondino provenienti da Canale 5 con cadenza semestrale o forse annuale.
Lui stesso aveva assistito a qualche consegna del denaro: cinque milioni di lire, non collegati al pagamento di pizzo imposto dalla famiglia mafiosa di San Lorenzo ai ripetitori Finivest o agli uffici di Canale 5.
La consegna di denaro era avvenuta almeno dal 1988/1989, possibilmente anche in epoca precedente ed era proseguita fino al 1992. Le dichiarazioni di Ferrante coincidevano con quelle di Galliano in particolare nella parte in cui il primo collaboratore aveva affermato che Raffaele Ganci, dopo la propria scarcerazione avvenuta il 28 novembre 1988, aveva nuovamente gestito la situazione relativa ai soldi che arrivavano da Fininvest per mezzo di Dell 'Utri e di Cinà ed aveva provveduto lui stesso a dividerli tra le tre famiglie mafiose ( Noce, San Lorenzo e Malaspina) dopo avere preso i soldi per quella di Santa Maria di Gesù.
Della corresponsione di somme provenienti da Berlusconi ai fratelli Pullarà ne aveva parlato anche il collaborante Francesco Scrima, uomo d'onore della famiglia di "Porta Nuova" che aveva dichiarato nel periodo in cui era stato in carcere con Vittorio Mangano, tra il 1988 ed il 1989, quest'ultimo gli aveva manifestato il proprio risentimento per il fatto che Ignazio Pullarà, durante la sua reggenza a Santa Maria di Gesù, dunque dopo la morte di Bontate, si era appropriato del denaro proveniente da Berlusconi e che secondo Mangano spettava a lui.
Anche Salvatore Cucuzza - nel periodo di codetenzione con il Mangano che il Tribunale ha collocato temporalmente durante il maxi processo tra il febbraio 1986 ed il dicembre 1987 - aveva raccolto le confidenze dello stesso Mangano. Quest'ultimo gli aveva manifestato il suo disappunto per il fatto che, dal momento della sua detenzione ( dal 1980 in poi), non aveva più ricevuto le somme di denaro provenienti da Berlusconi (50 milioni di lire) che lui sin da epoca precedente alla morte di Bontate aveva percepito e che in seguito ( dopo la morte del Bontate) erano state date a coloro che avevano avuto la reggenza del mandamento di Santa Maria di Gesù e cioè ai fratelli Pullarà.
Salvatore Cancemi - le cui dichiarazioni sono state ritenute complessivamente già in primo grado prive di un autonoma significatività probatoria - ha confermato l'esistenza di consegne di denaro dalla Fininvest a "cosa nostra" anche in epoca successiva alla morte di Bontate e Teresi, prima attraverso i fratelli Pullarà e poi tramite Cinà. I pagamenti erano avvenuti in un periodo compreso tra il 1989- 1990 fino all'epoca delle stragi del 1992. Cancemi ha poi precisato che le somme di importo pari a 200 milioni di lire all'anno venivano consegnate a Cinà e, tramite Di Napoli, a Raffaele Ganci che le dava infine a Salvatore Riina ed ha ricordato di avere assistito alla loro divisione tra le famiglie di Santa Maria di Gesù e di Resuttana. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Un attentato contro Berlusconi “fatto con rispetto, quasi con affetto”. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 30 novembre 2023
Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Il 28 novembre 1986 - undici anni dopo l'attentato subito da Berlusconi ai danni della villa di Via Rovani - ancora ai danni di detta villa, in fase di restauro, si verificava un secondo attentato, seppur di non particolare gravità (Berlusconi: “fatta con molto rispetto, quasi con affetto”: v. conversazione intercorsa con Dell'Utri il 29.11.1986). Alle 00,12 del 29 novembre 1986, cioè subito dopo l'attentato, Silvio Berlusconi chiamava Dell'Utri e gli rappresentava che - a suo avviso - il responsabile del gesto, così come lo era stato 11 anni prima, era Vittorio Mangano. Dell'Utri, mostrando qualche perplessità (Dell'Utri: "perché non si spiega proprio spiega proprio'') diceva all'amico che non sapeva che Mangano fosse libero (''fuori'').
Il 30 novembre 1986 nel corso di una telefonata intercorsa sempre tra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo riferiva al primo di avere parlato con Cinà e che quest'ultimo aveva escluso che la responsabilità dell'attentato potesse attribuirsi a Mangano, perché era detenuto.
Dell'Utri, tranquillizzando Berlusconi, concludeva la telefonata dicendogli che gliene avrebbe parlato di persona (Dell'Utri:" "Dunque, io stamattina ho parlato con quello lì... e poi ho visto Tanino ( .. ) che è qui a Milano. Ed invece è da escludere quella ipotesi .. perché è ancora dentro. Non è fuori. ( .) . E Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò .... perché ..... di persona. E quindi, non c'è proprio ... guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!"; Berlusconi: "ho capito''). Dell'Utri, dunque, da un lato escludeva la possibilità che l'artefice dell'attentato potesse essere stato Vittorio Mangano; dall'altro sottolineava a Berlusconi che poteva stare tranquillissimo e che in ogni caso, al riguardo, vi era qualcosa di cui doveva parlargli di persona.
Orbene, il motivo di detta rassicurazione è collegato al fatto che l'attentato di Via Rovani è del tutto estraneo ai rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con "cosa nostra" e non è in alcun modo collegabile a quegli elementi di "avvitamento" nei rapporti tra le parti, indicati dalla Suprema Corte.
L'attentato, infatti, non era stato commesso da Riina e ad esso non può essere attribuito alcun significato rilevante nell'indagine della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo nella condotta di Dell'Utri. Come è stato già evidenziato dalle dichiarazioni di Galliano è emerso invero che tale attentato era stato commesso dalla mafia catanese di Nitto Santapaola. Deve essere ricordato che alla fine del 1986 Cinà in quella riunione tenutasi presso la villa di Giovanni Ci tarda ( uomo d'onore della famiglia di Malaspina e nipote di Cinà), Galliano - dopo avere appreso delle consegne di denaro da Dell 'Utri a Cinà e da quest'ultimo dapprima a Stefano Bontate e dopo la morte di Bontate ai Pullarà - aveva sentito Gaetano Cinà, che era "molto arrabbiato", lamentarsi del fatto che Dell'Utri aveva assunto un atteggiamento "ritroso" nei suoi riguardi, comunicando che, per questo motivo, aveva deciso che non sarebbe più andato a ritirare i soldi da Dell 'Utri a Milano.
Questo atteggiamento era iniziato subito dopo la morte di Stefano Bontate "cioè quindi dopo 1'81, '82". Mimmo Ganci - intuendo che la vicenda era rilevante, (Galliano "attraverso Berlusconi potevamo arrivare a Craxi'') ne aveva parlato con Salvatore Riina. E così agli inizi del 1987 Mimmo Ganci su ordine di Riina si era recato a Catania per imbucare una lettera intimidatoria indirizzata al Berlusconi e per effettuare, sempre da Catania, una telefonata di minaccia all'imprenditore. Ganci era andato con Francesco Spina, uomo d'onore della famiglia della Noce; dopo qualche settimana erano tornati nuovamente a Catania per fare una telefonata intimidatoria diretta ad Arcore ( al numero telefonico che gli aveva dato il Cinà) allo stesso Berlusconi.
Riina aveva ordinato che la telefonata e la lettera provenissero da Catania in quanto in quel periodo la mafia catanese di Nitto Santapaola aveva effettuato un attentato a Berlusconi posizionando un esplosivo nella "proprietà "di quest'ultimo. Riina - dopo averne parlato con il boss catanese - aveva fatto credere all'imprenditore che ad agire fossero stati i catanesi. (Galliano:" Il Riina quando li manda a Catania, li manda a Catania per due motivi: uno perché, dice, che quando aveva parlato con ... quando Riina parla con i catanesi .. i catanesi avevano messo in quel periodo una bomba in una proprietà del Berlusconi e quindi questo fatto cadeva a fagiolo ... diciamo .. autorizza ... i catanesi autorizzano, diciamo, i palermitani a imbucare la lettera e fare la telefonata a Catania per far capire che sempre le intimidazioni provengano dalla mafia catanese ").
Orbene appare evidente che l'attentato alla proprietà di Berlusconi la notte del 28 novembre 1986, poco prima che Ganci si recasse a Catania per mettere in atto le azioni intimidatorie nei confronti di Berlusconi (lettere e telefonate anonime), non era stata opera dei mafiosi palermitani, ma dei catanesi che avevano messo una bomba in una proprietà di Berlusconi). Riina, che ben conosceva la matrice di detto attentato, aveva ritenuto che l'azione di intimidazione che lui aveva ordinato a Mimmo Ganci sarebbe stata ricondotta alla mafia catanese. Detta circostanza doveva essere stata riferita a Dell'Utri da Cinà allorché l'imputato lo aveva chiamato per avere notizie dell'attentato, apprendendo che non poteva essere stato Mangano perché era in galera.
Come è stato già rilevato il giorno successivo, quando Dell'Utri aveva chiamato Berlusconi escludendo categoricamente la responsabilità di Mangano, gli aveva anche detto di stare tranquillissimo e che poi gli avrebbe spiegato di persona perché il coinvolgimento di quest'ultimo era categoricamente da escludere (Dell'Utri:" e Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere ma proprio categoricamente .. comunque poi ti parlerò ... perché .. di persona'').
Orbene appare del tutto evidente che detto attentato non può m alcun modo significativo di "avvitamento o torsione" dei rapporti tra le parti interessate, proprio perché dette parti non erano protagoniste dell'attentato. Deve essere rilevato che Riina aveva fatto sì che le proprie azioni intimidatorie e cioè le lettere e le telefonate minatorie - di rilievo molto modesto rispetto all'attentato alla villa (anche questo invero non era stato di particolare gravità (Berlusconi: "fatta con molto rispetto, quasi con affetto") - creassero un turbamento in Dell'Utri per fargli cambiare atteggiamento nei confronti di Cinà e pagare una somma più alta; aveva però voluto escludere che tali azioni fossero riconducibili a lui.
Va invero ricordato che Dell 'Utri, malgrado avesse assunto un atteggiamento "ritroso" nei confronti di Cinà, secondo quanto riferito da quest'ultimo, facendolo aspettare per consegnargli la busta con i soldi, ha sempre onorato il patto del 1974. Non può tuttavia negarsi (l'argomento sarà oggetto di un successivo paragrafo) che la successione di Riina a Stefano Bontate aveva cambiato i rapporti interpersonali tra i protagonisti del patto. Riina, uomo dalle caratteristiche totalmente diverse da Bontate, che non ha mai avuto rapporti diretti e personali con Dell'Utri e che considerava quest'ultimo solo una disponibile fonte di guadagno ed anche un modo per tenere viva la possibilità di un legame con l'onorevole Craxi (attraverso Berlusconi), non aveva tollerato l'atteggiamento arrogante di cui si era lamentato Cinà.
Orbene dopo le azioni intimidatorie, Dell'Utri aveva chiamato a Milano Cinà per riferirgli quello che era successo. Cinà era tornato in Sicilia, aveva parlato con Di Napoli che aveva convocato Mimmo Ganci il quale si era rivolto al boss Riina. Era stato allora che quest'ultimo aveva ordinato che la somma doveva essere raddoppiata e che doveva chiedersi a Dell'Utri chi doveva pagare per la "messa a posto" delle emittenti televisive.
La richiesta di raddoppio della somma era stata accettata da Berlusconi e comunicata tramite Dell 'Utri che tuttavia per le televisioni aveva risposto che dovevano rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare che l'attentato alla villa di via Rovani, non ha lascito trasparire alcun mutamento dei rapporti tra le parti interessate; e se vi era stato un aumento della richiesta da parte di Riina, esso era da collegarsi non già all'attentato che era stato opera dei catanesi, ma alla volontà di Riina di riequilibrare i rapporti tra Dell'Utri e Cinà e di aumentare nel 1987 la somma che l'imprenditore in ascesa versava fin dal 1974. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Nessun problema, si raddoppia il “pizzo” da versare a Cosa Nostra. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani l'01 dicembre 2023
Berlusconi sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Il discorso riferito da Cinà, che aveva ingigantito i toni della questione e che aveva detto addirittura che non voleva più ritirare i soldi da Dell 'Utri, aveva preoccupato Riina che non aveva tollerato un simile gesto da parte di Dell'Utri e che temeva che i rapporti tra quest'ultimo e Cinà potessero interrompersi. Riina, come è stato più volte rilevato, considerava il rapporto con Dell'Utri di massima importanza non solo per i guadagni cospicui che da esso derivavano, ma anche in quanto Dell'Utri era il tramite con Berlusconi che avrebbe consentito a Riina di arrivare a Bettino Craxi.
E così, di fronte ad un atteggiamento che a lui era sicuramente sembrato di arroganza nei confronti non tanto di Cinà, ma di "cosa nostra", aveva deciso di rispondere mandando a Catania Mimmo Ganci per inviare le lettere e fare telefonate minatorie a Berlusconi di cui si è già detto. Anche tali az1om, del tutto sproporzionate rispetto al reale atteggiamento che Dell'Utri aveva tenuto nei confronti di Cinà, non appaiono significative di un mutamento dei rapporti esistenti tra Dell'Utri e "cosa nostra".
Del resto lo stesso Riina, non aveva voluto collegare le lettere e le telefonate minatorie del 1987 a lui ed alla famiglia mafiosa che rappresentava ed aveva fatto in modo che si credesse che l'attentato, le lettere e le telefonate avevano la stessa matrice mafiosa catanese. Il gesto, tuttavia, aveva avuto i suoi effetti in quanto Dell'Utri, che non aveva rapporti diretti con Riina a differenza di quanto era avvenuto con Bontate e Teresi, aveva chiamato Cinà per risolvere la questione. La risposta di Riina era stato il raddoppio della somma che da 50 milioni di lire era divenuta 100 milioni di lire.
I rapporti tuttavia erano rimasti immutati e Dell'Utri aveva continuato a pagare fino al 1992 senza alcuna lamentela. Né al raddoppio della somma deve attribuirsi un significato di vessazione considerato che se è vero che la richiesta era seguita alle minacce ricevute da Berlusconi, è pur vero che l'entità della somma era rimasta uguale dal 1974, eppure la posizione imprenditoriale di Berlusconi era mutata ed i suoi interessi, anche in Sicilia con le emittenti private erano in continua ascesa. Dell Utri non è mai parso riluttante nei pagamenti e anche di fronte al raddoppio della richiesta non aveva opposto alcun rifiuto, chiedendo solo che per le antenne " cosa nostra" doveva rivolgersi ai titolari delle emittenti locali. [...].
L'AVVENTO DI SALVATORE RIINA E DEI CORLEONESI
La Corte di Cassazione, infine, ha individuato come possibile elemento di torsione dei rapporti tra Dell'Utri e "cosa nostra" il "mutamento sostanziale degli equilibri esistenti rispetto a quelli che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi con l'intermediazione di Dell’Utri (e di Cinà) e "cosa nostra" che aveva a capo i boss mafiosi Bontate e Teresi. ", mettendo in evidenza che l'avvento della reggenza stragista era stato caratterizzato da una cifra criminale più alta voluta da Salvatore Riina.
Deve essere messo immediatamente in evidenza che l'esame del paradigma mafioso mostra in generale una tale complessità del fenomeno, risultante dall'insieme di infiniti aspetti, che non è possibile affermare, con rigido automatismo, che al mutamento soggettivo dei vertici mafiosi consegua un sostanziale mutamento degli equilibri nella gestione degli affari di "cosa nostra".
La mafia invero non è un fenomeno congiunturale, ma strutturale e continuativo seppur nel diverso svolgimento delle attività criminali che invero interessano diversi campi del vivere sociale. Fintanto che l'azione criminale sul territorio persiste nel districarsi tra crimine, accumulazione, arricchimento, gestione di potere, intimidazione e contestuale ricerca di mediazione, non può che affermarsi che si è di fronte all'agire mafioso tipico che può tuttavia estrinsecarsi in un intreccio di diverse attività.
Tanto premesso, reputa il Collegio che non può in alcun modo affermarsi - per le ragioni che già hanno costituito oggetto di esame - che la morte di Stefano Bontate e Girolamo Teresi ed il sopravvento di Totò Riina e dei corleonesi abbia mutato gli equilibri che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi e "cosa nostra" con l'intermediazione di Dell'Utri.
Ed invero gli equilibri sanciti nel patto del 1974, che prevedevano il pagamento di una somma di denaro da parte dei Berlusconi a "cosa nostra" con la costante mediazione di Dell'Utri che aveva assicurato, da un lato la generale protezione dell'imprenditore, dall'altro profitti e guadagni illeciti utili al rafforzamento e/o alla conservazione dell'associazione mafiosa che per circa un ventennio aveva mantenuto contatti con il facoltoso imprenditore, sono rimasti del tutto immutati nel corso degli anni e, quantomeno, fino al 1992.
L'unico cambiamento sostanziale del patto del 1974 ha riguardato la componente soggettiva che, nel 1981 nel corso della guerra di mafia, è cambiata in seguito all'eliminazione di Bontate e Teresi seguita dall'avvento di Totò Riina. Detta successione, tuttavia, dal punto di vista della "causa" illecita del patto, ha comunque lasciato immutato il mancato riconoscimento del monopolio statale (o privato, ma lecito) nella ricerca della protezione.
Berlusconi, infatti, sia con Bontate che con il capo corleonese, ha sempre manifestato costantemente la sua personale propensione a non ricorrere a mezzi ufficiali di tutela, contando sempre sulla mediazione di Dell'Utri. Quest'ultimo, nel tempo, ha pagato all'amico Cinà, ai Pullarà (dai quali si era sentito vessato e "tartassato") e poi di nuovo a Cinà, accordando a Riina l'aumento della posta cosi come gli era stato richiesto.
La caratteristica tipicamente egemonica e dittatoriale storicamente riconosciuta ai "corleonesi" (i mafiosi cioè provenienti da Corleone) ed al loro capo Riina si è espressa totalmente al di fuori del patto stretto tra "cosa nostra" da una parte e Dell'Utri e Berlusconi dall'altra. Detto patto è rimasto del tutto estraneo alla guerra di mafia svoltasi tra il 1981 ed il 1983 che ha visto vincitori i corleonesi che, per conquistare un potere assoluto all'interno di " cosa nostra", avevano eliminato fisicamente i loro avversari (tra i quali Bontate e Teresi) stringendo nuove alleanze ed imponendosi con uno spargimento di sangue che è rimasto unico nella memoria della storia mafiosa siciliana.
La strategia di Totò Riina, seppur caratterizzata da una cifra criminale elevata ed efferata, non ha mai palesato nessuna volontà di modificare il rapporti con Berlusconi e con Dell'Utri. Basti pensare che, seppur azzerando i vertici mafiosi delle famiglie avversarie (comprese quelle che facevano parte della " commissione"), Riina ha consentito che il pagamento del prezzo dell'estorsione venisse riscosso dai fratelli Pullarà, uomini d'onore originariamente appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù passati poi ai corleonesi e ai quali poi lo stesso Riina aveva affidato la reggenza del mandamento; tale decisione ha manifestato la precisa volontà di mantenere immutato il rapporto estorsivo che era stato fino a quel momento di Bontate e Teresi Ed ancora, milita proprio a favore della volontà di mantenere sostanzialmente intatto il patto del 1974, il fatto che Riina, subito dopo avere ascoltato le lamentele di Dell'Utri in ordine al "tartassamento" subito dai Pullarà, abbia pensato di estrometterli dal rapporto con Dell'Utri, ripristinando l'antico rapporto di consegna di denaro che era stato deciso nel 1974 proprio a seguito dell'incontro milanese.
Né dalla richiesta del raddoppio della somma chiesta da Riina, può desumersi un mutamento dei rapporti tra le parti interessate, atteso che a fronte di tale richiesta - fatta in risposta all'atteggiamento riottoso di Dell Utri del quale si era lamentato Cinà e per adeguare la somma già percepita alla crescita economica delle società dell'imprenditore milanese - non era intervenuto nessun rifiuto e nessuna lamentela da parte di Dell 'Utri che aveva accettato di pagarla senza nulla obiettare. Riina, invero, aveva un fortissimo interesse al mantenimento del rapporto con Dell 'Utri, essendo ben noto il suo legame personale e professionale con Berlusconi che Riina considerava vicino a Bettino Craxi. […]. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Dell’Utri e i “rapporti di vicinanza” con Vito Ciancimino e Arturo Cassina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 02 dicembre 2023
L'altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino. Deve rilevarsi che qui si tratta di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
L’altro fatto accaduto nel contesto temporale in esame che ha palesato una contiguità significativa con personaggi mafiosi, è la visita presso la Banca Popolare di Palermo di Dell 'Utri e Vito Ciancimino nel 1987.
Deve in primo luogo rilevarsi che qui non si tratta di valutare rapporti di "vicinanza" di un soggetto nei confronti di un esponente dell'associazione mafiosa "cosa nostra", relazioni di per sé riprovevoli da un punto di vista etico sociale", ma di per sé estranee, tuttavia l’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa" (v. sentenza "Mannino "), ma piuttosto di esaminare contatti che, seppur non rilevanti penalmente, tradiscono il medesimo atteggiamento che l'imputato ha costantemente tenuto nel corso del periodo oggetto del presente giudizio nei confronti di "cosa nostra" e dei suoi associati.
Scilabra, sentito all'udienza del 17 ottobre 2012 ha reso dichiarazioni che, per i motivi che saranno di seguito espressi, devono ritenersi attendibili e sulla base delle quali è possibile affermare che nel 1987 Dell'Utri si sia recato con Vito Ciancimino, che era stato Sindaco di Palermo e già condannato per mafia, presso la Banca Popolare di Palermo, rivolgendosi a Scilabra, direttore generale dell'epoca, per chiedere un finanziamento, non garantito, di venti miliardi di lire.
La vicenda di Scilabra ha preso le mosse da una sua intervista su “Il Fatto Quotidiano” il 23 ottobre 2010 a seguito della quale, lo stesso veniva sentito dai magistrati della D.D.A. della Procura della Repubblica di Palermo il 29 ottobre 2010. All'udienza del 17 ottobre 2012 Scilabra, direttore generale della Banca Popolare di Palermo dal 1975, dinanzi questa Corte territoriale, confermando quanto dichiarato ai PP.MM. ha affermato che nel 1987 (la data era stata in precedenza indicata nel 1986), su indicazione di Arturo Cassina, azionista della Banca Popolare di Palermo di cui Scilabra aveva ricevuto Marcello Dell 'Utri e Vito Ciancimino.
Cassina era "agganciatissimo" a Vito Ciancimino, in quanto quest'ultimo era Sindaco di Palermo e Cassina svolgeva lavori nell'edilizia pubblica (''faceva manti stradali, fognature ... sostanzialmente era agganciatissimo a Ciancimino "). L'oggetto della visita era stato la richiesta di un finanziamento di venti miliardi di lire che dovevano essere restituiti in 36 mesi.
Dell'Utri aveva proposto quest'operazione e Ciancimino, secondo Scilabra, aveva svolto il ruolo di "mediazione, di presentazione ". Nelle dichiarazioni rese il 29 ottobre 2010 al P.M. (confermate all'udienza del 17 ottobre 2012) Scilabra aveva ricordato che era stato Ciancimino a presentargli Dell 'Utri, che si era definito come consulente del gruppo di Berlusconi (Scilabra: "prima Ciancimino mi presentò Dell'Utri: “Direttore sa qui c'è la possibilità di fare grosse operazioni perché se tutte le Popolari vi mettete in pool fate un 'operazione in pool poniamo di un miliardo l'anno .. venti popolari fate una bella operazione .. gli interessi vengono pagati in maniera sostanziosa").
Dell'Utri aveva chiarito i termini dell'operazione fornendo precisi dettagli: si trattava di una richiesta di 20 miliardi da restituire in 36 mesi. Scilabra gli aveva detto che doveva sentire i colleghi delle altre sedi della Sicilia e prospettava il rientro della somma con un'operazione di revolving (Scilabra: "dico .. questi venti miliardi rientrano con un operazione di revolving ... cioè io vi do 20 miliardi .. tu dopo i quattro mesi lavori ... me ne restituisci due intanto paghi gli interessi").
Dell'Utri non aveva assecondato la proposta del direttore ed aveva detto che l'operazione doveva essere secca in "36 mesi", senza che da ciò potesse derogarsi. Scilabra ha ricordato che, ancor prima di chiamare la Centrale Rischi della Banca d'Italia, aveva considerato che un 'operazione in questi termini, priva di garanzie, non si poteva fare (Scilabra:" io la fattibilità l'ho considerata immediatamente perché non si fa un 'operazione revolving a "babbo morto", ma dove è scritto in quale trattato di tecnica bancaria è scritto... operazioni revolving sono revolving perché c'è un'entrata ed un'uscita di denaro ed il banchiere deve vedere come vanno le cose ... in 30 mesi si fallisce e buonanotte e il banchiere non ne capisce un tubo'').
Scilabra, così come aveva detto a Ciancimino e a Dell'Utri, aveva chiamato le altre banche popolari della Sicilia (Carlo La Lumia e Giuseppe Di Fede della Banca Popolare di Canicattì, il direttore della Banca Popolare di Augusta, Gaetano Trigilia, direttore della Banca di Siracusa, Francesco Romano della Popolare di Carini), ma i colleghi delle altre banche non avevano considerato conveniente l'operazione ("non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio'') ( v.dich. rese il 20 ottobre 2010 ai PP.MM).
La Centrale Rischi presso la Banca d'Italia rispondendo alla richiesta di controllo che Scilabra aveva inoltrato sui conti Fininvest, gli aveva riferito che in quel momento il debito della Fininvest si stava impennando.
Le risposte che forniva la Centrali Rischi venivano date su alcune strisce di carta che venivano conservate per dieci anni. Ciancimino era ritornato dopo qualche giorno e, venuto a conoscenza della risposta negativa, aveva offeso Scilabra dicendogli che non sapevano fare i banchieri e che erano delle banche di nessun valore (Scilabra:" poi lui con me quando gli ho dato a risposta mi ha detto "siti bancaredde" ( siete banchette) ... non contate niente '').
Scilabra ha ricordato che in un primo momento un suo amico giornalista de "Il Sole 24 ore" gli aveva chiesto di rendere un'intervista su "queste vicende palermitane" in quanto lui era "memoria storica della Sicilia".
L'intervista tuttavia non era stata fatta perché il direttore Gianni Riotta aveva detto che in quel momento non era possibile, comunicandoglielo "con nota riservata". Scilabra allora si era adirato ("allora m'incazzo'') ed aveva deciso di parlare ugualmente; era stato così che, tramite amici che conosceva, avendo in mente di scrivere un libro aveva reso l'intervista sul Fatto Quotidiano.
Su queste basi deve essere espressa una valutazione positiva, sia in punto di credibilità soggettiva sia in punto di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Scilabra che appaiono sicuramente spontanee e coerenti.
Né esse appaiono ricollegarsi ad alcuna situazione di coercizione e di condizionamento, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa che, nel corso dell'udienza del 17 ottobre 2010 aveva chiesto al testimone se era stato "sollecitato" a chiedere di fare l'intervista al Sole 24 Ore e al Fatto Quotidiano. Scilabra ha spiegato i motivi che lo avevano spinto a parlare di tali circostanze. Il tono e le frasi adoperate hanno manifestato la spontaneità e la genuinità della risposta: aveva "finalmente" deciso di dire la verità.
Era stato spinto a parlare da un senso civico; ad un certo punto della sua vita aveva avuto coraggio e non aveva tollerato, alla sua età e dopo aveva lavorato per 43 anni, che ancora si ci chiedesse se Dell'Utri e Ciancimino si conoscevano o meno. (Scilabra: Nella vita arriva il coraggio, ad un certo momento. Questa è la risposta"; Avvocato:" È arrivato così ali 'improvviso?". Scilabra:"Eh, si! Che vuole! Dopo quarantatre anni di lavoro e ancora parliamo se si conoscevano, se non si conoscevano .. (..) Dell'Utri ed il sindaco di Palermo "Presidente:" cioè Ciancimino ? Scilabra:" Si''. (v. dich. rese all'ud. del 17.10.2012).
Non può non sottolinearsi che il racconto del teste sulla Banca Popolare di Palermo e più in generale sul sistema del credito siciliano negli anni in cui lui aveva ricoperto la carica di direttore è dettagliatissimo ed è stato costellato da commenti che possono provenire solo da un soggetto che ha vissuto un'esperienza lavorativa con serietà e competenza.
La visita di Ciancimino e di Dell'Utri presso il suo ufficio non ha assunto nell'intero racconto dei fatti una centralità assoluta e lo Scilabra lo ha descritto senza alcuna enfasi. Appare invero del tutto impensabile che Scilabra, a settantatrè anni, direttore generale dal 1975 della Banca Popolare di Palermo abbia mentito inventando un incontro che non era mai avvenuto e che poi a distanza di due anni abbia ancora una volta ribadito quanto aveva dichiarato in precedenza dinanzi a questo Collegio, con lo stesso tono deciso e spontaneo.
La difesa aveva chiesto di produrre documentazione riguardante la situazione economico finanziaria della Fininvest per gli anni 1986 e 1987 e ciò al fine di contestare le affermazioni dello Scilabra che nel descrivere la situazione economico finanziaria della Fininvest aveva riferito fatti che non corrispondevano alla realtà.
Il Collegio ha rigettato detta richiesta di integrazione probatoria ritenendola non decisiva. Rinviando alle motivazioni contenute nell'ordinanza del 23 novembre 2012, deve qui solo sottolinearsi che, com'è noto, non sempre a bilanci apparentemente in attivo o, come ha dedotto la difesa nella nota difensiva del 17 ottobre 2012, che manifestano un indebitamento "nei confronti delle banche di entità modesta", si accompagna una reale forza finanziaria ed un liquidità della stessa società.
È possibile dunque, malgrado tali bilanci vi sia la necessità di chiedere la concessione di un prestito di somme di denaro meglio se non accompagnate da sicure garanzie.
Deve rilevarsi che Scilabra ha riferito che Ciancimino aveva un suo personale interesse a che Dell'Utri ottenesse il prestito di 20 miliardi, in quanto dal buon esito dell'operazione avrebbe ottenuto una somma per la sua intermediazione ( Scilabra:"non è stato detto ... ma io ho capito che c'era la sensalia").
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO BIS
Una zona grigia fatta di raccomandazioni, mediazioni e amicizie pericolose. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 03 dicembre 2023
Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento. Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Il rapporto di Ciancimino con l'ing. Cassina avrebbe potuto facilitare la concessione del prestito, appare dunque spiegabile il motivo per il quale Dell'Utri avesse deciso di ricorrere ad un banca siciliana chiedendo, nel 1987 un prestito "secco" a trentasei mesi, di venti miliardi.
A fronte dei rilievi della difesa sulla attendibilità delle dichiarazioni di Scilabra, rileva il Collegio che non sono emerse ragioni di astio o di rancore nei confronti di Dell 'Utri che Scilabra neppure conosceva.
La difesa infine ha messo in evidenza che Scilabra non aveva assunto un serio contegno nel corso delle dichiarazioni rese davanti ai PP.MM., rilevando che si era fatto delle risate come se raccontasse barzellette. Orbene rileva il Collegio che, contrariamente a quanto sottolineato dalla difesa non può attribuirsi alcun rilievo negativo al tono adoperato da Scilabra nel corso delle dichiarazioni e ad alcune affermazioni iperboliche che lo stesso ha pronunciato quale ad esempio "lo posso dire che se io potessi li ammazzerei fisicamente? No l'arrestassi - che vuole che le dica io a Berlusconi lo ammazzerei".
È stato proprio il tono adoperato dal teste m alcuni tratti dissacratore, in altri accoratamente disilluso, m altri ancora amareggiato per le sorti della Sicilia, che ha conferito credibilità alle dichiarazioni che lo stesso ha reso.
Lo stesso Scilabra, anche chiedendo con tono scherzoso l'eliminazione di alcuni passaggi di tali dichiarazioni di contenuto, chiaramente provocatorio, pronunciate ridendo ( P .M.:" no, siamo in registrazione quindi"; Scilabra : "tagliamola ( ridendo)") e rivolte in larga misura non a Dell 'Utri, ma semmai a Berlusconi, ha spiegato - anche nel corso del presente giudizio - che lo sfogo si inseriva in un contesto di rammarico" di un vecchissimo liberale" (v. dich rese all'ud. del 17.10.2010) per la situazione in cui si trovava l'Italia e in cui alla fine degli anni '80 si erano trovate le banche siciliane, compresa la sua, banche che erano state acquistate dai " signori padani".
I toni, invero, non sempre consoni ad una deposizione testimoniale hanno tuttavia tradotto fedelmente quello che Scilabra intendeva dire e non hanno mai oscurato la serietà delle circostanze riferite ( si pensi ad esempio al passaggio in cui, volendo sottolineare che le altre banche popolari avevano ritenuto del tutto impensabile che potesse essere accolta la richiesta di finanziamento nei termini prospettati da Dell'Utri , Scilabra ha dichiarato: "non mi hanno fatto pernacchie per miracolo di Dio"; o quando ha ricordato la sua arrabbiatura allorchè aveva ricevuto la nota con cui il giornalista Riotta gli aveva comunicato con una nota che non gli avrebbe fatto rilasciare alcun intervista sui fatti siciliani di cui Scilabra avrebbe voluto parlare; o ancora deve essere rammentata la definizione data ai figli di Cassina come degli assoluti incompetenti - "niente cretini tutti, tutti un pugno di cretini uno più cretino dell'altro perché lì la persona intelligente era Pasquale Nisticò il marito della figlia Giovanna il braccio destro " - e che Scilabra reputava responsabili di avere estromesso il cognato ed avere portato al crollo la Banca).
Né la spontaneità e l'assenza di ragioni di astio nei confronti di Dell'Utri, chiaramente emerse da quanto fin qui esposto, possono essere annebbiate, come prospettato dalla difesa, dal giudizio civile proposto da Dell'Utri nei confronti di Scilabra a seguito dell'intervista sul Fatto Quotidiano, atteso che tale giudizio, successivo alle dichiarazioni rese da quest'ultimo al PP.MM, non ha inciso in alcun modo sul contenuto delle stesse che difatti sono state confermate nel presente giudizio.
Peraltro sarebbe giuridicamente illogico fare dipendere l'attendibilità di chi rende dichiarazioni accusatorie nei confronti di un soggetto dalla presentazione della denuncia per il reato di calunnia da parte da parte dell'accusato.
Vè da rilevare che oltre a tale irrilevanza, deve considerarsi che tale atto non è compreso tra quelli indicati nell'art 238 c.p.p. ed il Collegio, ha rigettato anche per tale motivo la richiesta di acquisizione dell'atto di citazione relativo a quel giudizio ( v. ordinanza del 23 novembre 2012 al cui contenuto si rinvia). Ed ancora non appare significativo, per escludere credibilità al racconto del teste, il fatto che Vito Ciancimino, nel periodo in cui Scilabra aveva collocato la visita in banca, era sottoposto con decreto della Sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo del 5 luglio 1985, alla misura della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel Comune di Rotello (Campobasso) per la durata di quattro anni e che lo stesso Ciancimino, si era allontanato da tale Comune, nell'arco di tempo compreso tra il 1986 ed il 1987, solo in 5 occasioni per comparire dinanzi alle autorità giudiziarie in occasione di diversi procedimenti penali o per predisporre difese.
Rileva invero il Collegio che le modalità dei permessi concessi a Ciancimino durante la misura di prevenzione alla quale era sottoposto escludono qualsiasi incompatibilità di tale misura con la breve visita di Dell'Utri e Ciancimino (Scilabra: "un quarto d'ora, venti minuti'') che si era svolta a Palermo, dove quest'ultimo era stato autorizzato a recarsi.
Ed infatti, deve mettersi in rilievo da un lato che i permessi sono stati concessi per presentarsi davanti le autorità giudiziarie palermitane; dall'altro che il periodo di tempo concesso per ciascuno dei permessi è stato compreso tra i nove giorni ed i quindici giorni. ( v. documentazione depositata all'udienza del 5 dicembre 2012).
Deve infine considerarsi che dell'esistenza di rapporti esistenti tra Ciancimino e Dell'Utri ha parlato anche Angelo Siino che, nel corso del giudizio di primo grado all'udienza del 9 giugno 1998, ha affermato che Stefano Bontade gli aveva confidato che Dell'Utri aveva rapporti con Ciancimino ed Alamia con i quali aveva una società di costruzioni (Siino:" diceva .. al Dell'Utri così parlammo chiaramente e ci ho detto : Si lo conoscevo, conosco il fratello, l'avevo visto al Don Bosco, eravamo compagni di scuola" lui mi disse che si occupava di questioni finanziarie e poi aveva una società riguardante costruzioni e mi feve un accenno anche a Vito Ciancimino e mi pare un certo Alamia, con cui avevano a che fare, con cui Dell'Utri aveva a che fare).
E cosi mentre il Tribunale non era stato "in grado" di attribuire a tale frase uno specifico significato, nel presente giudizio di rinvio essa si pone come una conferma alle affermazioni di Scilabra.
Le considerazioni fin qui svolte hanno consentito di ritenere che le dichiarazioni di Scilabra sono del tutto attendibili e che, dunque, Dell'Utri si sia recato con Ciancimino, soggetto della quale all'epoca già si conosceva lo spessore criminale, presso la Banca Popolare, per chiedere un importante finanziamento, nei termini già chiariti.
Nel richiedere tale finanziamento Dell'Utri aveva scelto di andare con Ciancimino in quanto costui non solo era intraneo a "cosa nostra", ma era principalmente amico del presidente della banca e ciò al fine di ottenere vantaggi che altrimenti non avrebbe potuto ottenere.
La condotta di Dell'Utri mostra come ancora una volta come l'imputato, così come era avvenuto allorchè si era fatto accompagnare da Cinà dall'imprenditore Rapisarda, abbia scelto di chiedere appoggio ad esponenti di cosa nostra per realizzare propri interessi personali.
Il fatto del suo rapporto di conoscenza con Ciancimino e della sua richiesta di finanziamento presso la Banca Popolare di Palermo, ove si era recato con quest'ultimo - a fronte del quadro probatorio emerso e sulla base del quale è stato ritenuto provato che l'imputato ha fornito il contributo "atipico" del concorrente esterno dal 1974 al 1992 - assume una rilevanza del tutto marginale, ma consente di affermare che Dell'Utri ha chiesto appoggio, seppur nella forma di una semplice "raccomandazione", ad esponenti di cosa nostra in situazioni (recupero delle somme in nero del contratto di sponsorizzaizone, concessione di un prestito "secco" di venti miliardi da restituire in trentasei mesi) in cui riteneva si prospettasse come necessario un aiuto per superare limiti che si erano presentati alla realizzazione dei suoi interessi.
SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
La sentenza: colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio». SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS su Il Domani il 04 dicembre 2023
La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello su Marcello Dell’Utri, del presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte
Le considerazioni fin qui svolte consentono di affermare la responsabilità penale dell'imputato per l'unico delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, assorbita l'imputazione di cui al capo a) della rubrica in quella di cui al capo b) per un periodo di tempo compreso tra il 1974 ed il 1992. Ed invero a seguito della sentenza della Corte di Cassazione ( con riguardo al periodo 1974-1977) era stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontate e Teresi avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a "cosa nostra" per ricevere in cambio protezione.
Tale accordo era stato raggiunto proprio in virtù dell'opera di mediazione svolta da Dell'Utri - che aveva fatto ricorso a Gaetano Cinà - tra l'associazione mafiosa e Berlusconi. In seguito all'incontro e su indicazione dello stesso imputato, si era verificato l'arrivo ad Arcore di Vittorio Mangano che non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi ed i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore.
Esisteva poi la prova dei pagamenti che Berlusconi aveva fatto proprio in virtù di quell'accordo e dei quali avevano parlato Di Carlo, Galliano, Cucuzza e Scrima; Galliano in particolare aveva rammentato che Cinà gli aveva riferito che era stato lui a ritirare le somme e Di Carlo aveva dichiarato che dopo l'incontro del 1974 Cinà gli aveva riferito il suo imbarazzo perché gli era stato detto di chiedere, per la protezione, la somma di 100 milioni di lire.
Svolgendo detta attività di mediazione, Dell'Utri, che aveva contatti diretti non solo con l'amico Cinà, ma anche con i boss Teresi e Bontate ed anche con Vittorio Mangano ( che lui aveva segnalato per farlo assumere ad Arcore), aveva contribuito con assoluta consapevolezza e volontà al rafforzamento dell'associazione mafiosa; quest'ultima con la costante opera di mediazione di Dell'Utri aveva realizzato il proprio programma economico essendo entrata in contatto con l'imprenditore Berlusconi dal quale riceveva cospicue somme di denaro.
All’esito di questo giudizio di rinvio, questa Corte territoriale ritiene che deve affermarsi la responsabilità penale dell'imputato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa anche con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992. Seguendo il percorso tracciato dalla sentenza della Corte di Cassazione e sottoponendo a nuova valutazione i fatti e le circostanze indicate in tale pronuncia è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno per tutto il periodo in esame ed anche nel periodo in cui Marcello Dell'Utri era andato a lavorare da Rapisarda lasciando l'area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo fino al 1992.
Con riferimento al primo segmento temporale, non può non rammentarsi come Dell'Utri avesse cercato l'appoggio di Cinà anche con riferimento a tale rapporto lavorativo, facendosi accompagnare da quest'ultimo dall'imprenditore Rapisarda. Lui, l'imputato, che avrebbe potuto contare sui suoi titoli professionali, si era fatto accompagnare presso l'imprenditore che sarebbe stato il suo nuovo datore di lavoro da Gaetano Cinà, titolare di una lavanderia a Palermo e soggetto al quale lo stesso imputato già da anni consegnava i soldi di Berlusconi per farli pervenire a" cosa nostra".
Nello stesso periodo sono stati registrati contatti rilevanti con i soggetti con i quali Dell'Utri aveva stretto il patto nel 197 4 o che a tale patto erano in altro modo direttamente collegati ( Vittorio Mangano, assunto proprio a tutela dell'imprenditore e della sua famiglia) e ciò a riprova della sua volontà di mantenere la situazione antigiuridica che aveva egli stesso determinato.
Il ruolo di agevolazione dell'esecuzione della parte patrimoniale dell'accordo (in ordine al quale la Corte di Cassazione aveva ritenuto che la sentenza annullata avesse omesso di fornire un'adeguata motivazione) è emerso altresì dalle dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia, Galliano, Ganci ed Anzelmo che hanno dichiarato che dopo la morte di Bontate, i rapporti che facevano capo a quest'ultimo erano stati ereditati dai fratelli Ignazio e Giovan Battista Pullarà, con ciò confermando una prosecuzione del rapporto sinallagmatico che era stato concluso nel 1974 e la continuità dei pagamenti non essendo peraltro emersi fatti o circostanze che ne hanno lasciato intravedere un'interruzione.
Le dichiarazioni rese da Brusca, che aveva parlato di una ripresa di tali pagamenti nel 1986 a seguito di una loro interruzione dopo la morte di Bontate, sono risultate in assoluto contrasto con le concordi dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia che avevano riferito che i rapporti che facevano capo a Bontate erano stati ereditati dai Pullarà ( con ciò palesando una continuità dei pagamenti) e per la loro incertezza e contraddittorietà, inidonee a superare quanto era stato probatoriamente accertato sulla base delle suddette dichiarazioni.
In relazione poi al periodo successivo al 1982 è stato dimostrato che il patto concluso nel 1974 aveva subito solo un cambiamento della componente soggettiva mafiosa: dopo la morte di Bontate, avvenuta nell'aprile del 1981 era subentrato Totò Riina che con i corleonesi era stato vincitore della efferata guerra di mafia.
Gli accadimenti, sui quali la Corte di Cassazione aveva chiesto un nuovo giudizio da parte di questo giudice di rinvio, non hanno palesato alcun mutamento o torsione nei rapporti tra Dell'Utri-Berlusconi e" cosa nostra", essendo emerso l'interesse delle parti a salvaguardare un equilibrio prezioso per entrambe. Deve rilevarsi che le uniche doglianze che, nell'arco di un ventennio sono state registrate da parte di Dell'Utri, hanno riguardato solo il comportamento dei fratelli Pullarà che, secondo l'imputato, avevano esagerato con le vessazioni e dai quali si era sentito "tartassato".
La lamentela sull'atteggiamento vessatorio dei Pullarà era stata esposta da Dell'Utri, ancora una volta all'amico Cinà, e - pervenuta a Riina- aveva avuto come conseguenza l'estromissione dei Pullarà dal rapporto con l'imputato e la sostituzione con Cinà, senza che vi fosse stata mai una condotta di Dell'Utri di recessione dal patto.
E' stato altresì messo in luce come l'imputato non abbia mai cessato di mediare tra gli interessi di Berlusconi e "cosa nostra" garantendo l'esecuzione del patto anche rivolgendosi - a seguito dell'attentato subito dall'amico imprenditore nel 1986- immediatamente a Cinà per sapere quale fosse la matrice dello stesso e rassicurando Berlusconi sull'estraneità di Vittorio Mangano alla vicenda.
Né è possibile affermare che Dell'Utri sia stato una vittima, associata in tale destino all'amico Berlusconi: i rapporti cordiali e di amicizia che Dell'Utri (ed anche la famiglia di quest'ultimo) ha intrattenuto con Gaetano Cinà, cioè con colui che aveva personalmente raccolto i soldi che provenivano dall'imprenditore Berlusconi; i rapporti intrattenuti con Vittorio Mangano, rapporti di assoluta confidenza e mai condizionati dal timore evocato dall'imputato, l'atteggiamento di mediazione sperimentato, sempre attraverso Cinà, con Totò Riina nel periodo successivo alla morte di Bontate e fino al 1992, sono del tutto incompatibili con il rapporto che lega l' estortore e la vittima. Già la Corte di Cassazione, per il periodo compreso tra il 197 4 ed il 1977 aveva ritenuto di " natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto tra estorto ed estortore" i rapporti intrattenuti da Dell'Utri con i soggetti mafiosi già evocati.
La permanenza della condotta delittuosa ed il riproporsi senza rilevanti mutamenti, se non quelli collegati alla successione nel tempo di Riina a Bontate e Teresi, consentono di affermare con decisa convinzione che anche per il periodo successivo, oggetto del presente giudizio di rinvio, non si sono neppur intravisti indizi che potessero far insorgere il dubbio che Dell'Utri avesse assunto il nuovo ruolo di vittima e non più di intermediario tra gli interessi di Berlusconi e di "cosa nostra".
Il procuratore Generale aveva avanzato una richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale chiedendo di sentire, nella qualità di testimone, Silvio Berlusconi perché, genericamente, riferisse su fatti attinenti al presente processo. La Corte aveva ritenuto non indispensabile e non decisiva detta deposizione e pertanto aveva rigettato, per le motivazioni esposte nell'ordinanza del 25 luglio 2012, alla quale si rinvia, detta richiesta. Deve rilevarsi solo rammentarsi che nel corso del giudizio di primo grado, Berlusconi si era avvalso della facoltà di non rispondere e che la Corte d'Appello della sentenza annullata aveva rigettato la richiesta di ammissione della prova testimoniale rilevando proprio che Berlusconi si era avvalso di tale facoltà.
La Corte di Cassazione aveva ritenuto "affidata ad ipotesi e congetture della difesa la denuncia di manifesta illogicità della motivazione della Corte" che invece aveva reso una congruente motivazione del rigetto. Peraltro in questo processo non era stato allegato alcun elemento che poteva far ritenere che la deposizione testimoniale di Berlusconi fosse idonea a superare la completezza della istruzione dibattimentale: questo Collegio ha ritenuto pertanto che non sussistessero valide ragioni per ammettere la richiesta del P.G. Dell'Utri ha sempre svolto un proprio ruolo di mediatore mantenendo il canale di collegamento tra "cosa nostra" e Berlusconi ed accogliendo le richieste di pagamento ed anche il raddoppio di detto pagamento disposto da Riina.
La consuetudine della condotta e dell'atteggiamento assunto dall'imputato nei confronti di soggetti appartenenti al sodalizio mafioso ed ai quali ha fatto ricorso per tutelare gli interessi delle attività imprenditoriali di Berlusconi, hanno mostrato che Dell'Utri, per venti anni, ha contribuito al rafforzamento ed alla conservazione del sodalizio mafioso incidendo effettivamente sulle concrete capacità operative dello stesso, che difatti, non ha mai voluto rischiare di mettere in crisi il rapporto con l'imputato.
I vantaggi che sono derivati dall'opera di mediazione svolta da Dell'Utri sono stati di enorme rilievo anche per il tempo in cui si sono protratti e per l'importanza del soggetto che era costretto a pagare per ricevere un'ampia protezione. La peculiarità del comportamento di Dell'Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di "cosa nostra" non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell'intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo.
Qui non si tratta di "ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale , ma di per sé estranee ali 'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione", si tratta di valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all'associazione mafiosa, ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un'attività di sostegno all'associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento
Né può sostenersi che Dell'Utri, dopo avere intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontate, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall'associazione mafiosa: l'imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da "cosa nostra" , che l'efficacia causale della sua attività per il mantenimento ed il rafforzamento della stessa associazione criminale. Dell'Utri, pertanto, va ritenuto penalmente responsabile "al di là di ogni ragionevole dubbio" della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992. SENTENZA CORTE D'APPELLO BIS
Le motivazioni. La trattativa tra Stato e Mafia non è mai esistita, perché Mori e De Donno sono stati assolti in Cassazione. Non ci sono più scuse per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier per il quale Borsellino si era scontrato con i colleghi della Procura di Palermo e che, secondo l’ex comandante del Ros “avrebbe potuto cambiare l’Italia”. Paolo Comi su L'Unità il 14 Novembre 2023
Non ci sono più scuse a questo punto per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier “Mafia e appalti”, come richiesto in questi mesi dal generale dei carabinieri Mario Mori, all’epoca comandante del Ros che aveva lavorato a quell’indagine per la quale Paolo Borsellino si era scontrato duramente con i colleghi in Procura a Palermo.
“Avrebbe potuto cambiare l’Italia”, ha commentato l’altro giorno Mori dopo il deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha definitivamente messo una pietra tombale sulla Trattativa Stato-mafia.
“Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”, scrive il collegio di piazza Cavour, presidente Giorgio Fidelbo, che ha confermato, ma per “non aver commesso il fatto”, l’assoluzione in appello di Mori e del capitano Giuseppe De Donno dopo la condanna in primo grado.
Nessuna ‘Trattativa’, dunque, ma un vero depistaggio durato 30 anni sulla stragi di mafia, ad iniziare proprio da quella dove perse la vita Borsellino e gli agenti della sua scorta. Ma veniamo ai fatti. Secondo la tesi della Procura di Palermo, amplificata per anni dal Fatto Quotidiano, i carabinieri del Ros attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino avevano veicolato la minaccia di Cosa nostra al governo.
Per la Cassazione, invece, l’iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere la mafia a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell’obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla “contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista” attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall’arresto di Totò Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.
Per i giudici, però, dalla motivazione della sentenza d’appello emerge una contraddizione logica insanabile tra l’elemento soggettivo (ovvero l’intenzione) che animava gli ufficiali del Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia risultante dalla loro condotta.
La Cassazione sottolinea infatti che anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come evidenziato dalla sentenza impugnata dalla Procura generale di Palermo, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello Stato oggetto di contestazione.
La Procura di Palermo, in particolare, per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato aveva messo sul piatto la mancata proroga del ‘carcere duro’ a circa 300 detenuti, di cui solo un piccolissima percentuale legati a Cosa nostra, su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca Giovanni Conso. La Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che la minaccia mafiosa sia stata “veicolata” da Mori a Francesco Di Maggio, in quel periodo vice capo del Dap, e da egli riferita a Conso.
Dichiarata poi la prescrizione, essendo stato riqualificato il reato di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo, per Leoluca Bagarella, condannato in appello a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Riina, al quale furono inflitti 12 anni di reclusione.
“La minaccia prospettata dall’organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da “Cosa nostra” in quel periodo, aveva obiettivamente un’attitudine ad intimorire e a turbare l’attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l’ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale”, puntualizza quindi la Cassazione riguardo il dialogo avviato con Ciancimino, ricordando che non aveva lo scopo di veicolare alcuna minaccia né di scendere a patti con la mafia.
Un concetto sempre sostenuto da Mori in questi anni e che aveva espresso anche in Procura a Palermo dopo l’uscita di scena del procuratore Pietro Giammanco, colui che la mattina del 19 luglio 1992 chiamerà al telefono Borsellino per dirgli che avrebbe dovuto indagare sul dossier mafia appalti. Borsellino, purtroppo, morirà a via d’Amelio nel pomeriggio senza aver saputo che quel dossier era stato già archiviato. Paolo Comi 14 Novembre 2023
Trattativa Stato-mafia: sono uscite le motivazioni della sentenza di Cassazione. Stefano Baudino su L'Indipendente lunedì 13 novembre 2023.
Dopo oltre sei mesi dall’uscita del verdetto, la Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha chiuso un processo lungo e pieno di colpi di scena: quello sulla “Trattativa Stato-mafia”. Ad aprile i giudici, annullando senza rinvio la sentenza di Appello, avevano definitivamente assolto dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per “non aver commesso il fatto”, prescrivendo i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”. All’interno delle 95 pagine di motivazioni, i giudici scrivono che, nel contesto dell’invito al dialogo lanciato ai vertici di Cosa Nostra dal Ros dei carabinieri tra le stragi di Capaci e di Via D’Amelio tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, risulta che gli ufficiali “si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa senza sollecitarla”. E che, allo stesso modo, in occasione della minaccia mafiosa rivolta al governo Berlusconi “da Brusca e Bagarella con l’intermediazione di Vittorio Mangano”, Marcello Dell’Utri “si sarebbe limitato a riceverla senza sollecitarla”. La sentenza, che arriva dopo due pronunce ben diverse – in primo grado uomini dello Stato e mafiosi erano stati condannati insieme a pene ingenti, mentre in Appello i mafiosi erano stati condannati e i membri delle istituzioni assolti “perché il fatto non costituisce reato” – ha già scatenato aspre polemiche.
Nelle motivazioni, i giudici indirizzano varie stoccate ai giudici di primo e secondo grado, affermando che “la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado” avrebbero “optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. La Corte ha sancito come “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia (che non viene, dunque, affatto smentita come passaggio storico, ndr) non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. I giudici di appello, in particolare, secondo la Cassazione non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”.
Gli ermellini ritengono che il Ros abbia agito, in quel frangente, con l’obiettivo di frenare l’escalation di violenza perpetrata da Cosa Nostra dall’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) in avanti: “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa Nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale, non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”, scrive la Corte, pur ricordando che, come già rilevato dalla sentenza di Appello, quella del Ros fu “molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence”. Secondo i giudici, insomma “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra” non può “essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa Nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”. La Suprema Corte asserisce poi che non sia provato che il generale Mori abbia riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra all’allora guardasigilli Giovanni Conso per il tramite di Francesco Di Maggio, che era vicecapo del Dap. Secondo la Procura, infatti, sarebbe stato proprio questo il tassello che avrebbe convinto Conso, nel novembre del ’93 (in seguito alle stragi di Roma, Milano e Firenze) a non prorogare 334 decreti di 41-bis ad altrettanti mafiosi reclusi. La Cassazione, a tal proposito, boccia le ricostruzioni dei giudici di secondo grado, che avrebbero “invertito i poli del ragionamento indiziario”, poiché “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”.
In merito alla figura dell’ex senatore Marcello Dell’Utri – già condannato in passato per concorso esterno in associazione mafiosa, essendo stato la “cerniera” tra l’ex capo di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi quando, nel 1974, il mafioso e l’allora imprenditore stipularono un “patto” che garantì a Berlusconi la protezione sul versante familiare ed economico e alla mafia ingenti pagamenti dal “Cavaliere” almeno fino al 1992 – gli ermellini scrivono che “entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. Evidenziando quanto già sancito nella pronuncia di assoluzione per Dell’Utri in secondo grado, aggiungono che “secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con l‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.
Molte sono le considerazioni critiche che, pur nel rispetto di una pronuncia definitiva, possono essere sollevate sul suo dettato, specie in correlazione con sentenze precedenti. In primis, il fatto che la “trattativa” inaugurata dal Ros dei Carabinieri convinse i mafiosi a ritenere che la strategia delle bombe fosse la più funzionale a ricattare lo Stato non è solo il pensiero dell’accusa (a cui, evidentemente, si contrappone la Cassazione), ma un dato sancito da numerose pronunce emerse negli ultimi anni. Già nel 1998, i giudici della Corte d’Assise di Firenze, che si esprimevano sulla strage di via dei Georgofili del 1993, avevano scritto che “l’iniziativa dei Ros” aveva “tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa‘” che ebbe l’effetto di convincere “definitivamente” i boss mafiosi “che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. Ancor più a fuoco la sentenza “Tagliavia” della Corte d’Assise d’Appello di Firenze del febbraio 2016 – divenuta irrevocabile nel 2017 -, che considera “provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”.
Una serie di perplessità dal punto di vista tecnico-giuridico vengono invece sollevate dall’ex pm Antonio Ingroia, che è stato il rappresentante della pubblica accusa al processo: «Con tutto il rispetto per i giudici della Cassazione, questa sentenza ha passaggi molto deboli in punta di diritto – ha detto in un’intervista al Fatto Quotidiano –. Mi sembra che si fosse pregiudizialmente deciso di chiudere questo capitolo. E di doverlo chiudere con l’assoluzione più ampia possibile per gli uomini dello Stato». Nello specifico, Ingroia ritiene che «la Cassazione non può cambiare la formula assolutoria» soltanto «perché il medesimo fatto non è provato al di là di ogni ragionevole dubbio», poiché ciò può essere fatto «solo nei confronti di chi è stato condannato». Questo, aggiunge Ingroia, «lo prevede la giurisprudenza della stessa Cassazione: i precedenti citati sono tutti casi di annullamento di sentenze di colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio è un criterio solo per chi viene condannato, non per chi è stato assolto». E i Ros «erano stati assolti in Appello». Ingroia inquadra come «l’ennesima contraddizione» della pronuncia il fatto che essa «da una parte, per assolvere i carabinieri, valorizza percorsi alternativi attraverso i quali le minacce sarebbero arrivate al governo. Dall’altra, però, dice che il reato di minaccia non è stato consumato. Ecco perché occorreva un altro processo. Ed ecco perché per me questa è una sentenza che odora di politica. Non mi spiego altrimenti questa sentenza saracinesca». [di Stefano Baudino]
Trattativa Stato-mafia, le motivazioni della Cassazione: “Interlocuzione dei Ros con Ciancimino puntava a fermare le stragi, non istigò i boss”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 10 novembre 2023
Quando nel 1992 i carabinieri del Ros aprirono un dialogo con Cosa nostra avevano come obiettivo solo quello di far cessare le stragi. L’apertura di questa interlocuzione non ha provocato “una istigazione a minacciare lo Stato” nei ranghi della mafia. E dunque Totò Riina non decise di mettere altre bombe per lanciare un messaggio alle Istituzioni, solo perché si sentì rafforzato dal dialogo cercato dai militari: aveva già intenzione di mettere a ferro e fuoco il Paese. È questo uno dei punti fondamentali della sentenza della Corte di Cassazione sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Sono 95 pagine che il consigliere estensore Fabrizio D’Arcangelo ha scritto in quasi sette mesi. Tanto è passato da quando, il 27 aprile del 2023, la sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo aveva messo un punto a una complessa vicenda processuale iniziata quasi 15 anni fa.
Le decisioni della Suprema corte – In pratica la Suprema corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. Per gli ermellini i carabinieri andavano assolti in via definitiva, ma per non aver commesso il fatto. Il fatto è il reato contestato, cioè la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato: l’accusa per i militari era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – nel dettaglio erano i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia di Cosa nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state allegerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti. Un reato che secondo i supremi giudici non è stato commesso da Mori e da De Donno, e per estensione anche da Subranni, che non aveva fatto ricorso contro la sentenza d’Appello. Se i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia proveniente da Cosa nostra, allora la condotta dei mafiosi da consumata è diventata soltanto tentata: ecco perché la Suprema corte aveva riqualificato il reato per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per Antonino Cinà, il medico di Totò Riina che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi in cambio di uno stop alle bombe. La riqualificazione del reato aveva fatto scattare la prescrizione (quantificata in 20 anni) delle condanne emesse in secondo grado a 27 anni per Bagarella e a 12 anni per Cinà. Per quanto riguarda Marcello Dell’Utri, accusato di aver trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi, la Corte si era limitata a far diventare definitiva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, che era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale aveva chiesto di confermare.
“Indizi insussistenti sui carabinieri” – La parte più delicata della sentenza, ovviamente, è quella relativa ai carabinieri. “Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di Cosa nostra”, scrivono i giudici della Suprema corte. E per spiegare la decisione di optare per la più ampia formula di non colpevolezza, gli ermellini tornano indietro di trentuno anni. “Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi essere stata idonea ex se a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”, si legge a pagina 79 della sentenza. Il riferimento è ai colloqui avuti da Mori e De Donno con Vito Ciancimino nell’estate del 1992. “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”. Dunque secondo la Suprema corte la decisione dei carabinieri di andare a parlare con Ciancimino non provocò in Riina la volontà di minacciare lo Stato con altre bombe. “Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo – scrivono i giudici della Cassazione – bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”.
“Cosa nostra voleva già fare le stragi” – Per rafforzare il suo convincimento sui carabinieri che non hanno indotto Cosa nostra a organizzare altre stragi, la Cassazione sottolinea come Riina avesse già deciso di mettere a ferro e fuoco il Paese: “Le stesse sentenze di primo e di secondo grado, del resto, esprimono, non certo incongruamente, il convincimento che Cosa nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, sin dall’omicidio dell’On. Salvo Lima stesse realizzando una propria strategia terroristica, volta all’ottenimento di concessioni da parte dello Stato, e che, dunque, sarebbe proseguita, anche a prescindere dall’intervento degli imputati appartenenti al nucleo operativo dei Ros”. Secondo la Suprema corte “nelle condizioni di contesto descritte dalla sentenza impugnata, non è possibile affermare l’esistenza di un preciso rapporto di causalità tra l’azione dei pubblici ufficiali e la genesi del ricatto mafioso”: insomma non è provato che il dialogo coi carabinieri abbia provocato in Riina la decisione di alzare il tiro. È la famosa esclamazione “si sono fatti sotto“, che il capo dei capi avrebbe pronunciato alla presenza di Giovanni Brusca: secondo il pentito si riferiva proprio alle Istituzioni, nei panni dei militari. Ma per i giudici, “non è configurabile, sul piano logico, prima ancora che giuridico, l’istigazione o la determinazione di un proposito criminoso che è già in corso di esecuzione”. E ancora, sostiene la corte, “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può, pertanto, essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”.
“In Appello carenza di certezza dell’indizio” – I giudici, poi, smentiscono che il generale Mori avrebbe riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra – altre stragi se non si fossero migliorate le condizioni carcerarie dei boss detenuti – fino al cuore del governo, cioè all’allora guardasigilli Giovanni Conso, attraverso Francesco Di Maggio, che era il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa era per questo motivo che a un certo punto il ministro della Giustizia aveva lasciato scadere più di trecento provvedimenti di 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Anzi, più che smentire, la Suprema corte boccia le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello, accusata di aver “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio“. Secondo gli ermellini, in pratica, i giudici del processo di secondo grado non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”. A sostenerlo erano sia il sostituto procuratore generale della Cassazione che gli avvocati difensori: “L’argomento del ‘nessun altro avrebbe potuto‘ si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo”. Secondo la Suprema Corte, i giudici dell’appello hanno commesso un errore a ritenere “che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo” di Mori “e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi“. Dunque è per questo che la Suprema corte ha deciso di assolvere i carabinieri con la più ampia formula possibile: “Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso. Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a Cosa nostra è, all’evidenza, insussistente”. La Cassazione conferma che “l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come rilevato dalla sentenza impugnata, è stata molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence (pag. 2190 della sentenza impugnata)”, ma “tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o di agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare concorso nel reato di minaccia al Governo”.
“Forza Italia garantista, non minacciata dalla mafia” – Sulla figura di Dell’Utri, già assolto in Appello dall’accusa di aver trasmesso al primo esecutivo di Silvio Berlusconi le minacce mafiose, i giudici scrivono: “Entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. E ricordano come l’imputato sia già stato assolto in Appello per non aver commesso il fatto: “Secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con ‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.
Le critiche alle sentenze di merito: “Approccio storiografico” – Per il resto in vari passaggi i giudici della sesta sezione penale criticano le sentenze emesse dai loro colleghi della corte d’Assise e della corte d’Assise d’Appello. “Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”, si legge a pagina 72 della sentenza. E ancora: “La Corte di assise di appello, dunque non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, in quanto ha posto a fondamento della dimostrazione dell’avvenuta consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di adeguata efficacia dimostrativa, quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo”. La Cassazione riconosce “l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito” ma poi aggiunge che “deve tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice penale non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale”. E ancora, si legge nelle motivazioni della Suprema corte “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. Secondo la Cassazione “tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”.
Il verdetto che ha confermato le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros. Trattativa Stato-Mafia, pubblicate le motivazioni della sentenza. "Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a cosa nostra è, all'evidenza, insussistente", si legge nelle 95 pagine redatte dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Rainews.it il 10 novembre
La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui mette la parola fine al processo per la presunta trattativa tra pezzi dello Stato e boss di cosa nostra, confermando le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, e Giuseppe De Donno.
"La Corte di assise di appello" ha "invertito i poli del ragionamento indiziario" in quanto "l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio", inoltre la Corte di assise di appello di Palermo "non ha osservato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto".
Con queste motivazioni - si legge nel verdetto 45506 della Cassazione depositato oggi - gli 'ermellini' hanno confermato l'assoluzione nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia degli ex Ros Mori, Subranni e De Donno e per l'ex parlamentare Marcello Dell'Utri.
Ad avviso degli 'ermellini', "come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, tuttavia, l'argomento del 'nessun altro avrebbe potuto' si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo".
Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell'appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere "che solo Mori potesse aver rivelato l'informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all'interno di cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo" di Mori "e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi".
Sul punto, gli 'ermellini' rilevano che le difese degli imputati avevano fatto presente nel giudizio di appello che "per quanto emerso nel giudizio di primo grado, la consapevolezza della spaccatura interna a Cosa Nostra, tra l'ala stragista e l'ala moderata non sarebbe stata esclusiva di Mario Mori, ma fosse una conoscenza acquisita per lo meno in qualificati ambienti investigativi".
"Questo dato - segnala il verdetto - emergerebbe dalla nota dello Sco del 12 agosto 1993, a firma Manganelli, relativa a una 'profonda spaccatura' negli esponenti di maggior spicco di Cosa Nostra e dalla nota della Dia del 10 agosto 1993, a firma De Gennaro, in ordine all'esistenza, secondo le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, di 'un profondo contrasto tra mafia stragista ed un'altra, invece, pacifista e quasi rassegnata".
Tale spaccatura, secondo le difese, aggiunge il verdetto "sarebbe, peraltro, risultata dalle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica in dibattimento e dalle dichiarazioni di Paolo Borsellino in una intervista del 3 luglio 1992".
Per la Cassazione, "fermo restando il riconoscimento per l'impegno profuso nell'attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza" emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 "e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico".
"Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l'accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell'oltre ragionevole dubbio".
''Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di 'Cosa nostra'''.
È quanto scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione nelle 95 pagine di motivazioni della sentenza, depositata oggi, che lo scorso 27 aprile ha reso definitive le assoluzioni per gli ex ufficiali del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno e per l'ex senatore Marcello Dell'Utri nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
''Invero, la mera apertura di un'interlocuzione con i vertici di 'cosa nostra' non può ritenersi essere stata idonea 'ex se' a determinare i vertici dell'organizzazione criminale a minacciare il Governo - si legge - in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza. L'interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di 'cosa nostra' e la ricerca dell'apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale - sottolineano i supremi giudici - non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato''.
''Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre 'Cosa nostra' a rivolgere minacce al Governo - affermano i giudici della Cassazione - bensì al perseguimento dell'obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest'ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla 'contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista' mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l'arresto di Salvatore Riina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un'insanabile contraddizione logica tra l'elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell'interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta''.
''Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell'autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l'altrui intento criminoso - concludono i supremi giudici che hanno assolto gli ex vertici dei Ros con la formula 'per non aver commesso il fatto' - Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a 'Cosa nostra' è, all'evidenza, insussistente''.
Mafia, la Cassazione stronca il teorema contro Berlusconi. "Più storiografia che fatti". Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. Luca Fazzo l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.
Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. È questa la sentenza - per alcuni aspetti memorabile - con cui la Cassazione non si limita ad assolvere definitivamente i carabinieri del Ros, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e persino un paio di boss di Cosa Nostra imputati nel processo Stato-Mafia, ma condanna invece i colleghi che a quel processo hanno dedicato sentenze colossali in cui invece che delle prove - assenti, ipotizzate - si occupavano di scrivere a modo loro la storia d'Italia. Un giudizio che rimbalza sulla vera responsabile di questa impresa titanica, la Procura di Palermo che ha portato sul banco degli imputati i vertici del Ros dei carabinieri, servitori dello Stato come Mario Mori e Antonio Subranni, con accuse che la Cassazione liquida con un solo aggettivo: «Insussistenti».
Passaggio chiave delle motivazioni, che investe sia le condanne pronunciate in primo grado che le assoluzioni in appello: «Le sentenze hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Invece anche quando si tratta di fatti di estrema rilevanza, il giudice deve limitarsi «all'accertamento dei fatti oggetto dell'imputazione». Questo a Palermo non è avvenuto: i giudici «hanno finito per smarrire la centralità dell'imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell'accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell'economia del giudizio». E quando hanno affrontato i reati, i giudici siciliani si sono dimenticati che la colpevolezza va dimostrata «ogni ragionevole dubbio».
Solo in questo modo, dice la Corte, si è potuto sostenere che il governo - prima Ciampi, poi Berlusconi - abbia preso decisioni in ossequio alle minacce di Cosa Nostra. A queste minacce le sentenze hanno dedicato un ruolo cruciale, ma le hanno ricostruite in modo «minimale», affogando il dettaglio in un mare di fatti irrilevanti: «Le motivazioni delle sentenze hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5.237 pagine in primo e 2.971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Sono parole che oggettivamente travalicano anche il galateo che tra magistrati prevede in genere di non infierire sui colleghi. Ma davanti allo «smarrimento» dei giudici siciliani la Sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ritenuto fosse doveroso parlare chiaro.
Tutto, nella ricostruzione dei pm palermitani (con in testa Antonino Ingroia e Nino Di Matteo) ruotava intorno alle concessioni che Cosa Nostra avrebbe ottenuto dal governo per fare cessare la stagione delle stragi: di quelle pretese Mario Mori sarebbe stato il mediatore, e per questo gli è stata distrutta la carriera. Ma la Cassazione dice che analizzare le divisioni interne alla Cupola fu semplicemente una «operazione di intelligence», e che Mori non recapitò mai alcuna minaccia. Fece il suo lavoro, insomma. Peraltro le spaccature interne alla mafia erano ben note al governo anche da altre fonti.
Altri aspetti delle sentenze Stato-Mafia vengono demolite dalla Cassazione, che le accusa di avere «invertito i poli del ragionamento indiziario» in quanto «l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio». Ma sono vizi già visti e criticati in altri processi. Ad essere inedito, e contundente, è quell'aggettivo: «storiografico». Il diritto, la giustizia, sono un'altra cosa, manda a dire ieri la Cassazione.
«Totale mancanza di prove». Così muore il processo Trattativa. Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Mori, De Donno e Dell’Utri: un processo non può diventare una lezione di storia, scrivono i giudici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 novembre 2023
«Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Una leggera stoccata al processo “trattativa” da parte dei giudici della Cassazione, che hanno confermato, ma per «non aver commesso il fatto», l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno.
Una sentenza, quella della Corte Suprema, che ha voluto sottolineare come i giudici di merito - pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato - hanno assunto, sia nelle motivazioni di primo che di secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da «offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Ed è così. Da ribadire che la tesi giudiziaria della Trattativa Stato-mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese.
Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente "trattativista". Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Non a caso i giudici della Cassazione, nelle motivazioni che hanno sigillato definitivamente la fine della "guerra" giudiziaria nei confronti degli ex Ros, sottolineano che secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere, "ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».
Ma andiamo sul punto. Gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, hanno sì o no veicolato la minaccia mafiosa al governo? La risposta dei giudici supremi è un categorico no. Secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere "cosa nostra" a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell'obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla «contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista» attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall'arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.
Secondo i giudici emerge, quindi, dalla motivazione della sentenza impugnata, una contraddizione logica insanabile tra l'elemento soggettivo (ovvero l'intenzione) che animava gli ex ufficiali dei Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia mafiosa risultante dalla loro condotta. Sempre i giudici supremi, sottolineano che anche se l'apertura di un dialogo con i vertici di "cosa nostra", come evidenziato dalla sentenza impugnata, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un'operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo.
Ma qual è l’unica “prova” che la procura di Palermo aveva in mano per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato? È la non proroga del 41 bis a circa 300 detenuti (solo una piccolissima percentuale erano mafiosi) su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Conso. Ebbene, la Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" che la minaccia mafiosa sia stata «veicolata» da Mori a Di Maggio (all’epoca vice capo del Dap) e da quest'ultimo riferita al Ministro Conso. Onde per cui, per quanto riguarda cosa nostra, nei confronti di quest’ultimi, la minaccia deve essere ritenuta integrata nella sola forma del tentativo.
I giudici ermellini hanno quindi dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione. I giudici, come detto, hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione.
Qual è stata la minaccia tentata? La Cassazione spiega che «La minaccia prospettata dall'organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da "cosa nostra" in quel periodo, aveva obiettivamente un'attitudine ad intimorire e a turbare l'attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l'ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale». Ora il capitolo è finalmente chiuso. Nessun reato hanno commesso gli ex Ros e il dialogo avviato con Don Vito non era volto a veicolare alcuna minaccia né scendere a patti con la mafia. Ed era quello che hanno sempre sostenuto gli ex ros e riferito subito alla procura di Palermo dopo la “caduta” dell’allora procuratore Pietro Giammanco.
Giustizia, la sinistra sulle barricate come ai tempi di Berlusconi. Cristiana Flaminio su L'Identità il 18 Luglio 2023
Non dite a Giorgia Meloni che non s’è inventata niente. Il partito conservatore, in Italia, esisteva già ed è il Pd. Sono pochi, pochissimi, i capisaldi di una sinistra in perenne stato di confusione, che non sa dove andare né a chi affidarsi. Uno di questi è la magistratura. Tutto deve cambiare, dall’economia fino al costume, ma l’amministrazione della giustizia deve rimanere uguale a se stessa. Più conservatori di così. Anche perché, questo, è un argomento capestro. Se c’è un’eredità che ci ha lasciato il trentennio che va da Tangentopoli ai giorni nostri è che chiunque tenti di ragionare sulla giustizia, di sicuro avrebbe qualcosa di oscuro, losco, da nascondere. Alla faccia del garantismo. La Guerra dei Trent’anni non è finita, come dice Marina Berlusconi. E nemmeno va in soffitta l’armamentario dem che, da tre decadi, sibila e tuona e rimbomba, nel dibattito politico.
Walter Verini, senatore Pd e membro della commissione Antimafia, ha bollato le parole di Marina Berlusconi come “messaggio inquietante che si inserisce in una situazione inquietante”. Le parole hanno un peso. Verini, in un post chilometrico pubblicato sui social, calca la mano: “C’è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l’impegno contro le mafie e per la legalità. La responsabilità principale è del governo della maggioranza, che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli”. Dopo aver passato in rassegna il codice degli appalti e tutte le novità ritenute dubbie, sotto il profilo della legalità, il senatore evoca il “manganello” e denuncia: “In questi giorni abbiamo assistito con grande preoccupazione ad attacchi diretti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Da parte dello stesso Guardasigilli, da parte delle fonti di Palazzo Chigi e Via Arenula. Da parte di professionisti del manganello verbale contro magistrati e giornalisti. Si, perché sotto attacco stanno magistratura e giornalismo, in particolare quello d’inchiesta”.
Tutti sotto attacco, tutti sotto accusa. Chiaramente, se le cose stanno così, il Pd, è pronto a ritirare il pass, a Meloni, per le manifestazioni in ricordo di Paolo Borsellino: “Come si fa ad apprestarsi a ricordare l’anniversario della strage di via d’Amelio, il sacrificio di Paolo Borsellino mentre il tuo governo, certi ministri come quello della Giustizia offrono questi segnali, colpiscono strumenti di legge, norme, meccanismi che nacquero proprio su impulso di martiri e simboli come Falcone, Borsellino, La Torre, Chinnici e tanti altre vittime, magistrati, politici, servitori dello Stato?”. Giorgia, scansati. I conservatori non stanno con te. Ma dall’altra parte.
Gli odiatori di Marina: sospetti e veleni sul dolore di una figlia. Stefano Zurlo il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.
Un pezzo di sinistra demonizza la denuncia per difendere le iniziative della procura
Poche voci e molte trame. La sinistra giudiziaria prova a elaborare la lettera infiammata che Marina Berlusconi ha scritto al Giornale. Un messaggio colmo di indignazione per l'incredibile trattamento che i pm di Firenze, sempre all'eterna ricerca dei mandanti occulti delle stragi, sta riservando a Silvio Berlusconi anche da morto. Tanto da far gridare alla figlia del Cavaliere: «Vogliono la damnatio memoriae».
C'è forse spaesamento anche nell'opposizione davanti a un'inchiesta che sembra non volersi più fermare, con Marcello Dell'Utri per l'ennesima volta nel mirino investigativo, ma ci sono anche riflessioni importanti di leader che «salvano» Marina ma scomunicano la sua invettiva e c'è anche chi legge in controluce un intervento così autorevole, interpretandolo in connessione con altre circostanze. Così Repubblica non si limita a raccogliere l'amarezza di una figlia ferita, ma cuce diversi frammenti, sposando l'ipotesi del doppio concorso esterno in Forza Italia. In sostanza, Marina detta la linea da fuori e l'esterno Carlo Nordio, il Guardasigilli voluto da Giorgia Meloni, si rivela sempre più vicino a Forza Italia che in quest'ultimo giro di valzer sulla mafia ha sposato in toto le sue parole, mentre proprio la premier ha mostrato una certa freddezza.
Repubblica sottolinea che proprio Nordio sta meditando una mossa non proprio indolore: l'invio di ispettori a Firenze per capire le ragioni di tanto accanimento, come chiesto in un'interrogazione parlamentare da Pietro Pittalis di Forza Italia. Insomma, ci sarebbe un allineamento, se non un asse, fra Marina Berlusconi, Forza Italia che ha appena incoronato Antonio Tajani come segretario, e il ministro della Giustizia che invece non avrebbe più il feeling dei primi giorni con gli altri pezzi della maggioranza.
A sinistra dunque si studiano le mosse degli avversari e anche lo sfogo drammatico di Marina, a un mese dai funerali, viene considerato parte di un possibile disegno. Poi ci sono le dichiarazioni di battaglia: «In merito alla lettera di Marina - spiega Giuseppe Conte - stiamo parlando di una figlia che parla anche della memoria del padre e questo è da rispettare. Però qui il problema vero è l'attacco che questo governo fa alla magistratura nel momento in cui le indagini della incrociano il comportamento di un esponente di governo».
Per il capo dei 5 Stelle dunque il messaggio della figlia del Cavaliere è l'occasione per puntare il dito contro la maggioranza che ogni volta proverebbe a mandare in fuorigioco la magistratura e le sue sacrosante indagini. «Questo - conclude Conte - ci riporta al passato, alla massima conflittualità con la magistratura che è tipica di questo centrodestra che si presenta sempre con le stesse modalità».
Altrettanto duro Walter Verini, senatore e capogruppo del Pd nella commissione Antimafia: «Quanto dichiarato al Giornale da Marina Berlusconi contiene una parte che merita rispetto. Ma complessivamente contiene un messaggio inquietante e che si inserisce in una situazione inquietante». Per Verini non ci sono dubbi: «C'è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l'impegno contro le mafie e la lotta per la legalità. La responsabilità principale è del governo e della maggioranza che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli». Per il senatore, in questa situazione non si capisce come la premier voglia celebrare il sacrificio di Paolo Borsellino.
Ma oggi, per l'anniversario, Giorgia Meloni sarà a Palermo, anche se solo alle manifestazioni ufficiali.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 18 luglio 2023.
Il Giornale: “Marina dice basta”. Perbacco, roba grossa. Stiamo parlando di Marina B., primogenita del noto pregiudicato da poco scomparso, che manda un messaggio alla Meloni (e a chi altri?) perché “riformi la giustizia” e la renda “uguale per tutti” (prospettiva peraltro agghiacciante per il Gruppo, che con una giustizia uguale per tutti sarebbe rovinato da 40 anni).
La signora naturalmente è libera di dire le scempiaggini che vuole, anche perché, a dispetto delle apparenze, è molto spiritosa. Ci vuole un bel sense of humour per essere a capo del maggior gruppo editoriale d'Europa e insultare i rari giornalisti che scrivono la verità sulle stragi chiamandoli “complici dei pm” […]
O per definire “delirante” l’”accusa di mafiosità” a uno che si tenne in casa per due anni un mafioso travestito da stalliere (quello che accompagnava a scuola Marina e Pier Silvio perché non facessero brutti incontri) e che la Cassazione ha accertato aver “concluso” nel 1974 un “accordo di reciproco interesse” con “Cosa Nostra, rappresentata dai boss Bontate e Teresi” (altro che “non è emerso nulla di nulla”).
O che “i conti Fininvest sono passati per anni al setaccio senza risultato” (a parte una mega-frode fiscale da 368 milioni di dollari accertata dalla condanna in Cassazione e tre falsi in bilancio certificati da giudici che hanno dovuto assolvere B. perché si era depenalizzato il reato). O che pm cattivi e “giornalisti complici” vogliono infliggere al caro estinto “la damnatio memoriae”.
[…] la pena della Roma antica cancellava ogni traccia di un personaggio […] Invece i pm cattivi e i giornalisti complici fanno di tutto per ricordare B. per quello che era: un frodatore, finanziatore della mafia e corruttore seriale. Se non lo fosse stato, la Marina non sarebbe presidente della Mondadori, scippata al legittimo proprietario De Benedetti da una sentenza comprata dagli avvocati di B. con soldi di B., che dovette poi pagare mezzo miliardo di danni. […] Forza Italia attende con ansia le letterine di Marina e Pier Silvio, che decidono persino chi deve succedere a Papi in Senato […] La Repubblica del Banana finirà solo quando tal Marina dirà “Basta” e tutti risponderanno in coro: “E chi se ne frega”.
Marina Berlusconi, gli insulti di Travaglio: "Rovinati da 40 anni". Libero Quotidiano il 18 luglio 2023
Con ogni probabilità non vedeva l'ora, Marco Travaglio, di poter cannoneggiare su Marina Berlusconi come fatto per 20 anni abbondanti contro il padre, Silvio Berlusconi. All'indomani dell'intervista della primogenita del Cav sul Giornale, il direttore del Fatto quotidiano apre il suo editoriale con uno sfottò dichiarato: "Marina dice basta. Perbacco, roba grossa". Ma è solo l'inizio della colata di fango sulla presidente di Fininvest e Mondadori, "colpevole" di aver puntato il dito contro la Procura di Firenze che sta indagando sul fondatore di Forza Italia scomparso un mese fa per le stragi di mafia del 1993. Ovviamente, Travaglio difende a spada tratta le toghe.
"La primogenita del noto pregiudicato da poco scomparso - è la lettura del direttore - manda un messaggio alla Meloni (e a chi altri?) perché 'riformi la giustizia' e la renda 'uguale per tutti' (prospettiva peraltro agghiacciante per il Gruppo, che con una giustizia uguale per tutti sarebbe rovinato da 40 anni). La signora naturalmente è libera di dire le scempiaggini che vuole, anche perché, a dispetto delle apparenze, è molto spiritosa. Ci vuole un bel sense of humour per essere a capo del maggior gruppo editoriale d'Europa e insultare i rari giornalisti che scrivono la verità sulle stragi chiamandoli 'complici dei pm' (complice, nella lingua italiana, è chi sta coi ladri, tipo i frodatori fiscali; nella lingua arcoriana, chi sta con le guardie)". Gli strali di Travaglio profumano di coda di paglia, ma tant'è.
Dopo la consueta raffica di sentenze a uso politico, Travaglio affronta il tema della damnatio memoriae che secondo Marina guiderebbe i magistrati contro il padre. "Qui c’è un equivoco: la pena della Roma antica cancellava ogni traccia di un personaggio, come se non fosse mai esistito. Invece i pm cattivi e i giornalisti complici fanno di tutto per ricordare B. per quello che era: un frodatore, finanziatore della mafia e corruttore seriale. Se non lo fosse stato, la Marina non sarebbe presidente della Mondadori, scippata al legittimo proprietario De Benedetti da una sentenza comprata dagli avvocati di B. con soldi di B., che dovette poi pagare mezzo miliardo di danni".
Quindi, Travaglio chiude la sua riflessione al veleno con quello che sembra un auspicio: "Forza Italia attende con ansia le letterine di Marina e Pier Silvio, che decidono persino chi deve succedere a Papi in Senato, come se avesse comprato e lasciato in eredità pure il seggio parlamentare. La Repubblica del Banana finirà solo quando tal Marina dirà 'Basta' e tutti risponderanno in coro: 'E chi se ne frega'". Ovviamente, ma questo il direttore non lo scrive, la speranza di Travaglio è che questo avvenga il più tardi possibile: sai quanti editoriali al curaro ancora?
Dell'Utri dribbla il tritacarne dei pm e li sfida. "Non rispondo, prima depositate tutte le carte". L'ex senatore non si presenta all'interrogatorio in Procura a Firenze. Luca Fazzo il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.
Lui, di suo, avrebbe voluto andarci. L'occasione di vedere in faccia i pm che lo accusano di essere il mandante di tre stragi per un totale di dieci morti e sessanta feriti, Marcello Dell'Utri non voleva perdersela: per curiosità, se non altro. Ma le strategie processuali vincono sull'indole umana, così Francesco Centonze, difensore dell'ex senatore di Forza Italia, ha fatto sapere per tempo alla procura di Firenze che l'interrogatorio fissato per ieri si sarebbe risolto in una perdita di tempo, essendo Dell'Utri intenzionato a avvalersi della facoltà di non rispondere. Il procuratore aggiunto Luca Turco e il suo sostituto Luca Tescaroli hanno convenuto che a quel punto tanto valeva lasciar perdere.
La Procura, ovviamente, a questo punto va avanti per la sua strada. L'accusa di concorso in strage, che colpiva anche Silvio Berlusconi, dopo la morte del Cavaliere ha Dell'Utri come unico indagato. Ora i pm si apprestano a tirarne le fila, anche sulla base dei documenti sequestrati nella casa e nell'ufficio di Dell'Utri lo scorso 12 luglio, quando la Dia ha eseguito l'ordine di perquisizione.
La scelta di non rispondere alla convocazione dei pm punta probabilmente a rimarcare che non esiste un terreno su cui è possibile un chiarimento, che non ci sono dettagli da confermare e da smentire. L'accusa di avere ordinato insieme a Berlusconi a Cosa Nostra le stragi del 1993 per spianare la strada all'ascesa di Forza Italia è, secondo Dell'Utri, talmente lunare che non si vede come possa venire smentita con fatti concreti. Gli elementi già noti a sostegno della tesi della procura sono, d'altronde, le relazioni di servizio della Dia di Firenze, piene di sillogismi, di deduzioni logiche, di ipotesi che strada facendo diventano certezze. La difesa di Dell'Utri però non esclude che vi sia dell'altro, che i pm abbiano carte o testimonianze sfuggite alla fuga di notizie. E in qualche modo la decisione di ieri è una sfida ai pm a depositare tutto, come dovranno fare al momento della chiusura delle indagini. Solo allora comincerà la battaglia punto per punto tra accusa e difesa. Sapendo che il vero obiettivo della Procura di Firenze non è solo accusare Dell'Utri ma attraverso di lui arrivare a una condanna postuma («damnatio memoriae, l'ha definita Marina Berlusconi nella sua lettera al Giornale) del Cavaliere.
A rendere tutto più surreale, insieme alla enormità dell'accusa, c'è il fatto che - almeno per quanto se ne sa finora - nel carniere dei pm fiorentini non c'è un solo testimone diretto. A parlare di contatti tra esponenti di Cosa Nostra e la coppia Berlusconi-Dell'Utri sono solo pentiti di mafia che non parlano per conoscenza propria ma riferendo ciò che avrebbero saputo da altri mafiosi: che però o sono morti o non hanno confermato le rivelazioni. Come si può replicare a verità di terza o quarta mano? Anche per questo Dell'Utri è rimasto a casa.
L’Antimafia a casa di Dell’Utri: “Stragi di mafia per favorire Forza Italia”. Stefano Baudino su L'Indipendente il 14 luglio 2023.
Sono comparse nuove carte con elementi potenzialmente esplosivi sui rapporti tra Cosa Nostra e Forza Italia. Negli scorsi giorni, la Direzione Investigativa Antimafia si è infatti presentata a casa di Marcello Dell’Utri, ex braccio destro di Silvio Berlusconi ed ex senatore del suo partito, per eseguire perquisizioni e sequestri. Il politico, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, è ancora indagato come presunto mandante esterno delle stragi con cui Cosa nostra, nel 1993, colpì le città di Roma, Firenze e Milano (in concorso con Berlusconi, morto lo scorso 12 giugno). La convinzione dei pm è che tali attentati avrebbero avuto lo scopo di “indebolire il governo Ciampi” allora in carica, diffondendo “il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Il quale, secondo i magistrati, avrebbe avuto a tale scopo un ruolo di primo piano.
Gli agenti della Dia hanno eseguito un decreto di perquisizione nella casa di Dell’Utri, disposto dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal pm Lorenzo Gestri, perlustrando anche gli uffici dell’ex senatore in via Senato e procedendo ad alcuni sequestri. Dal documento, il cui contenuto è stato reso noto da Repubblica, emergono le accuse mosse nei confronti di Dell’Utri, che, se mai in futuro troveranno conferma, potrebbero contribuire a riscrivere la storia d’Italia. Dell’Utri è infatti accusato di aver istigato e sollecitato il boss Giuseppe Graviano “ad organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi, al quale ha fattivamente contribuito Dell’Utri”, nella cornice “di un accordo, consistito nello scambio tra l’effettuazione, prima, da parte di Cosa nostra, di stragi, e poi, a seguito del favorevole risultato elettorale ottenuto da Berlusconi, a fronte della promessa da parte di Dell’Utri, che era il tramite di Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del Governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni”. Dalla mafia palermitana, Forza Italia avrebbe ottenuto “l’appoggio elettorale in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994”.
I magistrati fiorentini parlano insomma di un “accordo stragista” dalla precisa finalità politica. Soffermandosi sull’attentato mafioso organizzato allo Stadio Olimpico per il 23 gennaio 1994, fortunatamente fallito a causa di un guasto tecnico, i magistrati evidenziano come tale episodio si collochi temporalmente a soli tre giorni di distanza dal famoso annuncio berlusconiano della “discesa in campo”, trasmesso in pompa magna il 26 gennaio. Quella bomba, per i pm, doveva essere “funzionale a dare il colpo decisivo alla compagine governativa, in quel momento al potere (governo Ciampi), eliminando decine di carabinieri”, con la finalità di “avvantaggiare Berlusconi e Dell’Utri“.
Secondo la ricostruzione della Procura, Dell’Utri e Berlusconi avrebbero beneficiato “degli effetti dello stragismo in un contesto nel quale erano alla ricerca di una via d’uscita da una doppia congiuntura sfavorevole: la crisi economica-finanziaria del gruppo Fininvest e la dissoluzione del loro referente politico tradizionale”, ovvero i socialisti e alcune fazioni della Dc. Che poi erano gli stessi partiti che la mafia aveva rimpinguato di voti fino alla “rivoluzione” di Mani Pulite che, di fatto, li demolì. Le bombe si interruppero proprio in quel gennaio ’94: per i pm, la causa dell’interruzione del piano stragista sarebbe proprio “l’assicurazione di Dell’Utri e Berlusconi” offerta dopo il sostegno della mafia a Forza Italia, che andrebbe a comprovare “sul piano logico, l’esistenza dell’accordo con Dell’Utri”, permettendo “di escludere che l’azione dei corleonesi sia stata posta in essere autonomamente alla mera ricerca dell’instaurazione di un rapporto con Dell’Utri e il suo referente, il deceduto Silvio Berlusconi”. I magistrati ricordano che “Dell’Utri è portatore di un profilo particolarmente adatto per alimentare intese stragiste”, ricordando come l’ex senatore abbia “svolto un ruolo di trait d’union tra il Cavaliere e la criminalità mafiosa dal 1974 al 1992, che è risultato far ricorso alle sue conoscenze mafiose per alimentare la nascita di Forza Italia”. Proprio per aver svolto il ruolo di intermediario sfociato nel “patto di protezione” sottoscritto da Berlusconi e i vertici di Cosa Nostra negli anni Settanta, Dell’Utri è stato condannato definitivamente a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2014.
I magistrati fiorentini continuano ad indagare anche su un altro versante: l’enorme quantità di denaro versata negli ultimi anni da Silvio Berlusconi a Dell’Utri, che ora, oltre che per concorso in strage, risulta indagato anche per trasferimento fraudolento di valori e mancata comunicazione della variazione del patrimonio. Già lo scorso marzo vi avevamo raccontato che i consulenti dei pm hanno individuato una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per un ammontare di 28 milioni di euro. Tra questi flussi trova inoltre posto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese chiesto e ottenuto dall’ex senatore. Gli inquirenti ritengono tali erogazioni una “contropartita a beneficio di Dell’Utri per le condanne patite e il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto”. L’ex senatore, infatti, non ha mai chiamato in causa Berlusconi – che secondo gli investigatori si sarebbe anche fatto carico delle sue spese processuali – davanti ai magistrati nella cornice dei procedimenti in cui è stato coinvolto. A questo proposito, la Dia aveva già parlato della sussistenza di “una sorta di ricatto non espresso, ma ben conosciuto da tutti, e idoneo al persistere delle dazioni”. Per alcune di queste movimentazioni di denaro, risulta peraltro indagata per trasferimento fraudolento di valori anche la moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti. Le donazioni di Berlusconi all’ex senatore sono proseguite anche post-mortem: con l’apertura del testamento, si è scoperto che Dell’Utri beneficerà di un ulteriore lascito di 30 milioni di euro dal Cavaliere.
C’è poi un ultimo elemento che ha attirato l’attenzione dei magistrati. Si tratta del contenuto dell’intercettazione di un colloquio tra Marcello Dell’Utri e il forzista Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, datata 15 ottobre 2021. In quel periodo, Micciché si stava muovendo per raggiungere un accordo politico tra Forza Italia e Italia Viva di Matteo Renzi al fine di presentare liste comuni per le elezioni Amministrative palermitane. Nel corso della telefonata, gli interlocutori parlavano della futura elezione del Presidente della Repubblica. I magistrati scrivono che “Gianfranco Micciché, riportando quanto gli aveva confidato Matteo Renzi“, diceva a Dell’Utri: “Berlusconi mi ha detto dieci volte ‘Io ho bisogno solo di un Presidente della Repubblica che dia la grazia a Marcello‘”. Nel corso del dialogo, inoltre, sarebbe emerso “che Berlusconi, secondo Micciché, ha riferito a Matteo Renzi, nel corso di una cena effettuata a Firenze, che: ‘Marcello è in galera per colpa mia’”. Renzi, che ora potrebbe essere sentito dalla Procura di Firenze, ha attaccato i magistrati: “La Procura guidata da Turco sostiene che le stragi di mafia del 1993 fossero finalizzate a sostenere Berlusconi. Siamo oltre il ridicolo”.
Ad ogni modo, per ora, queste restano solo accuse. Dell’Utri sarà sentito dai magistrati a Firenze: il suo interrogatorio è già stato fissato per il prossimo 18 luglio. [di Stefano Baudino]
L'ossessione dei pm per Berlusconi: perquisito Dell'Utri per le stragi del '93. Blitz della Dia su ordine dei pm di Firenze in casa e ufficio dell'amico del Cav. Il solito teorema: i due dietro le bombe di mafia. Indagata anche la moglie dell'ex senatore. Luca Fazzo il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.
Sono passati trent'anni dalle stragi di mafia del 1993, più di vent'anni dalle prime rivelazioni dei «pentiti» che accusavano Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri di essere i mandanti di quegli orrori. E secondo la Procura di Firenze l'ex senatore Dell'Utri conserverebbe chissà perché ancora in qualche cassetto le prove in grado di incastrarlo, i documenti che mancano a chiudere il cerchio di una accusa da ergastolo. Così l'altro giorno il procuratore aggiunto Luca Turco e il suo collega Luca Tescaroli mandano la Dia a Milano a perquisire la casa e lo studio di Dell'Utri. A mezzavoce, i due pm fiorentini fanno sapere che è uno degli ultimi passaggi prima di chiudere l'inchiesta che si trascina da anni. Una inchiesta che aveva due indagati, e oggi ne ha uno solo: perché il bersaglio vero, Silvio Berlusconi, è morto il 12 giugno, togliendo alla Procura l'ultima chance di processarlo per strage. Ma il contenuto del decreto di perquisizione e soprattutto l'elenco delle carte che sono state materialmente portate via dimostrano chiaramente che nel mirino c'è sempre Berlusconi, tutto ruota intorno a lui: la colpevolezza di Dell'Utri nel teorema dei pm fiorentini regge solo se è colpevole anche il Cavaliere. E viceversa.
Si presentano in sette, gli uomini del centro toscano della Direzione investigativa antimafia, nella casa milanese di Dell'Utri. Sono le otto di mercoledì mattina. Quando gli annunciano la visita della Dia, l'ex senatore chiama subito il suo difensore Francesco Centonze, il legale che lo ha assistito negli ultimi anni, e che gli è accanto nel ricorso che la Corte europea dei diritti dell'Uomo non si decide a mettere in calendario. I poliziotti consegnano il decreto e si mettono al lavoro. Svuotano armadi e scrivanie, si fanno consegnare le chiavi della cassaforte e aprono anche quella. Si capisce in fretta cosa cercano. Non si illudono di trovare le foto di Giuseppe Graviano, il boss mafioso che secondo loro era l'interfaccia di Dell'Utri. No, cercano le prove dei rapporti economici, politici, privati di Dell'Utri con Berlusconi. Trovano lettere private tra il fondatore della Fininvest e il suo braccio destro, e sequestrano anche quelle. Cercano estratti conto, bonifici, movimenti di soldi tra i due. Ma è l'intera storia di una amicizia durata mezzo secolo che i pm sembrano voler ricostruire.
Cosa trovano? «Elementi utili», fa sapere Repubblica che ieri rivela in esclusiva l'avvenuta perquisizione. Carte già acquisite in altre inchieste già finite in niente, fa sapere l'avvocato Centonze. Ma più di quello che trovano è significativo quello che gli inquirenti cercano. La Procura fiorentina (o almeno Turco e Tescaroli: non si sa cosa ne pensi il nuovo Procuratore, Filippo Spiezia) è convinta che la prova regina del ruolo di Berlusconi e Dell'Utri siano i passaggi di soldi, il «prezzo del silenzio», la ricompensa a Dell'Utri per avere passato anni in carcere senza accusare l'amico. Sono interventi avvenuti alla luce del sole, dall'acquisto della villa sul lago di Como ai trenta milioni in eredità. Ma la Procura non si accontenta, pensa che ci sia dell'altro, movimenti esteri, fiduciarie occulte. E questa caccia al «tesoro» colpisce anche Miranda Dell'Utri, la moglie dell'ex senatore, che si ritrova anche lei indagata: trasferimento fraudolento di valori, sarebbe l'accusa.
Passare al setaccio i rapporti personali e di soldi tra Dell'Utri e Berlusconi serve ai pm per mettere l'ultimo tassello all'accusa: le stragi del 1993 e il fallito attentato all'Olimpico del 23 gennaio 1994 avevano come obiettivo «indebolire il governo Ciampi» e «diffondere il panico tra i cittadini in modo da favorire l'affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri». Una «pista già a prima vista del tutto incredibile e fantasiosa», la definisce il difensore Centonze, sulla quale «atti e documenti coperti da segreto istruttorio continuano ad essere oggetto, in tempo reale, di illegittima rivelazione e di successiva pubblicazione su organi di stampa».
Su mafia e Cavaliere trent'anni di assalti sempre finiti in nulla. Toghe all'ultima carica a mezzo stampa. Hanno già fatto flop le inchieste siciliane nate dalle dichiarazioni dei pentiti; sono crollate le tesi della trattativa Stato-Cosa Nostra; sono già cadute tutte le accuse sulle bombe di Milano, Roma e Firenze. Luca Fazzo il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.
Bisogna partire da un dato di fatto: tutte le volte, nessuna esclusa, che le procure della Repubblica hanno cercato di dimostrare il triangolo Berlusconi-Mafia-Stragi ne sono uscite con le ossa rotte. L'ostinazione con cui gli inquirenti di Firenze tornano in questi giorni all'attacco, con la perquisizione della casa e dello studio di Marcello Dell'Utri e con l'invito a comparire - fissato per martedì prossimo - dell'ex senatore azzurro si può spiegare solo con la convinzione che questa sia l'ultima occasione utile. Solo così si capisce come i pm Luca Turco e Luca Tescorali abbiano deciso di andare avanti, a testa bassa, anche dopo la morte di Berlusconi. O adesso, sembrano voler dire, o mai più.
Ad andare a finire in nulla sono state le inchieste siciliane, quelle che sull'onda dei pentiti del dopo-Buscetta (il primo Salvatore Cancemi) andarono per prime a ipotizzare rapporti criminali di cui non venne trovata alcuna prova, e poi quelle successive, il Moloch della trattativa Stato-Mafia, dove Berlusconi non era mai stato formalmente indagato ma proprio per questo, visto che non poteva difendersi, si ritrovò alla mercé dei giudici: leggendarie le motivazioni della sentenza di primo grado, che condannava Dell'Utri e en passant faceva a pezzi il Cavaliere, «perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo» come quello preteso da Cosa Nostra per dire stop alle stragi.
Invece non era vero niente, né le leggi né la trattativa, e alla fine sono stati tutti assolti, compresi i boss mafiosi. Intanto un po' di gente, compresi eroici servitori dello Stato, avevano avuto vita e carriera distrutte, ma amen. Non meglio era andata a Firenze, dove le inchieste sulle tre stragi andate a segno nel 1993 (via Georgofili, via Palestro a Milano, il Velabro a Roma) avevano già una prima volta ipotizzato, sempre sull'onda delle dichiarazioni di Spatuzza e dei suoi emuli, un ruolo di mandanti di Berlusconi e Dell'Utri, ed erano state archiviate. Ora Turco e Tescaroli ci riprovano, con una inchiesta raccontata in diretta sui media, prorogata di sei mesi in sei mesi, ora (si dice) prossima alle conclusioni. Ma di recente hanno dovuto fare i conti anche loro, per la prima volta, con un giudice. Ed è andata malissimo.
È successo quando Berlusconi era già morto da una manciata di giorni, alla fine del mese scorso. Turco e Tescaroli chiedono di arrestare Salvatore Baiardo, quello strano tipo che va in televisione a dire di sapere tutto dei rapporti tra Graviano e Berlusconi, e fa vedere presunte foto di presunti incontri che poi spariscono nel nulla. Nel mirino dei pm sembra esserci Baiardo, ma il vero obiettivo è il Cavaliere: secondo Turco e Tescaroli, tutte le manovre del figuro hanno come obiettivo permettere a Berlusconi e Dell'Utri di sfuggire alle indagini, contestano a Baiardo «l'aggravante di avere agevolato Cosa Nostra interessata a non compromettere le figure di Berlusconi e Dell'Utri, entrambi parti dell'accordo stragista». Ma il giudice che riceve la richiesta la respinge al mittente: l'accordo stragista è una teoria non dimostrata. La Procura non si è arresa e ha fatto ricorso al Riesame, l'udienza è oggi, si vedrà come andrà a finire.
Il problema vero è che ogni volta, per mettere toppe agli strappi di questa tela, tessuta tra le Procure e i loro house organ, bisogna mettere mano alle date, spostare in avanti o indietro i fatti, gli accordi, gli obiettivi che avrebbero generato la stagione delle bombe. Perché se il teorema è che servivano le stragi per aprire la strada a Forza Italia qualcosa non torna, la prima bomba in via dei Georgofili è de 27 maggio 1993, ma basta leggere il libro di un testimone insospettabile come Vittorio Dotti per sapere che di Forza Italia a quella data non c'era neanche il nome. Così nella nuova versione del teorema tutto si sposta di sei mesi, e si dice che la bomba all'Olimpico era una specie di superspot per il lancio di Forza Italia, «si colloca tre giorni prima dell'annuncio ufficiale di Berlusconi di scendere in campo». Così tutto rimane nella nebbia, nei verbali di pentiti morti che citano le confidenze di altri morti, su un patto in cui non si è mai capito quali siano le leggi che Berlusconi regalò alla mafia. Luca Fazzo
Zero in storia. Ormai è una vicenda che non suscita tanto indignazione quanto fastidio. Augusto Minzolini il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.
Ormai è una vicenda che non suscita tanto indignazione quanto fastidio. La Procura di Firenze - la più politicizzata del Belpaese - ha ritirato in ballo Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri per le stragi di mafia secondo un teorema ricco di congetture ma di nessuna prova. L'indagine dei magistrati che è già sfociata in un avviso di garanzia per Dell'Utri e in una perquisizione della sua casa (per sequestrare le lettere private tra lui e il Cav) ha una struttura più simile al soggetto di una fiction, si tratti della Piovra o Gomorra, che non alla più scalcagnata delle iniziative giudiziarie. La «tesi» - folle per usare un eufemismo - insinua che quelle vicende sanguinose facevano parte di un piano di Cosa Nostra per screditare il governo Ciampi e aprire la strada all'avvento di Silvio Berlusconi.
Ora, chiunque abbia vissuto o studiato quegli anni che ormai appartengono alla Storia, saprebbe che quando sono cominciate le stragi il Cav non era per nulla convinto di entrare in politica. Pregava un giorno sì e un altro pure Mario Segni e Mino Martinazzoli affinché organizzassero un'alleanza contro la sinistra. Le stragi dal punto di vista temporale non potevano avere nessuna relazione con la sua decisione - assunta malvolentieri come unica «ratio» - di gettarsi nell'agone. Anche l'attentato fallito (in realtà fu un avvertimento della mafia per dimostrare di cosa fosse capace) rientrava nella strategia delle cosche mafiose per perseguire l'unico obiettivo che in quella fase avevano in mente: attenuare il regime di 41 bis in carcere. Sono tutti elementi che le toghe di Firenze dovrebbero sapere visto che sono stati appurati in altri processi se non vogliono meritarsi un roboante «zero» in Storia.
Il resto è fuffa. Com'è fuffa la narrazione che la Procura di Firenze ha tentato di imbastire attorno alla figura di Salvatore Baiardo (personaggio che ha la stessa credibilità di un soldo bucato), alla foto inventata di Berlusconi con i Graviano e ad altre amenità da fumettone mafioso. L'unica verità in questa storiaccia giudiziaria - non potrebbe essere definita altrimenti - che si basa su un canovaccio ormai stantio, è che c'è un pezzo di magistratura che vuole sporcare la memoria di Silvio Berlusconi e con lui l'immagine di Forza Italia e del centrodestra nel presente. Un maldestro tentativo di «damnatio memoriae» che porta dieci giorni fa la Procura di Milano a ricorrere in Cassazione nel processo Ruby ter e ora alla reiterazione della solita fantasia sulle stragi di mafia da parte di quella di Firenze. Iniziative diverse dietro le quali solo un cieco non vede un'unica regia perché il movente delle inchieste, purtroppo, è solo politico, condito, ovviamente, dal protagonismo esasperato (e dal narcisismo ideologico) che anima certe Procure. Una patologia giudiziaria che fa perdere il senso del limite, che non ha rispetto neppure per i morti. E che, appunto, non suscita non solo indignazione ma pure fastidio, nausea. Per cui non deve stupire che il capo della Procura di Palermo, De Lucia, sia disponibile oggi a rivedere il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e che il leader di Magistratura indipendente, Piraino, apra la porta al ritorno dell'immunità parlamentare per restaurare l'equilibrio tra i Poteri. I tempi cambiano e il troppo storpia anche in magistratura: solo le toghe rosse restano sempre uguali a se stesse.
Cari figli di Silvio, non lasciate oltraggiare vostro padre pure da morto. La lettera del critico d'arte e parlamentare agli eredi del Cav. Vittorio Sgarbi il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.
Cari Marina, Piersilvio, Eleonora, Barbara e Luigi, cari figli, e caro Paolo,
non scrivo per lamentare che non abbiate risposto al mio video messaggio sulla necessità di una Commissione parlamentare d’inchiesta per accertare la natura delle indagini giudiziarie su vostro padre, fin dalla prima: l’avviso di garanzia a Napoli, che si consumò nel nulla ma che portò alla caduta del primo governo Berlusconi. Esse sembrano aver avuto più un intendimento politico che giudiziario, a guardarle bene, tutte, fino alla più grave sui rapporti con la mafia, iniziata, archiviata, riproposta, rigenerata, con finti pentiti e finti testimoni. L’onore di vostro padre, e anche il mio, e di tutti gli esponenti di Forza Italia, è stato offeso dall’insistente riferimento alle origini mafiose di Forza Italia, ribadite in diverse affermazioni e dichiarazioni di magistrati, con il peccato originale dell’assunzione di Vittorio Mangano, e con le ricorrenti insinuazioni sulle bombe di Firenze. Potevate contare sull’oblio, con il distacco di chi pensa che, con la morte, tutto finisca: il male e il bene. Ma adesso credo che questo atteggiamento non possiate permettervelo, e con voi tutta Forza Italia.
Il processo per mafia, il più osceno, continua per interposta persona, e riguarda, anche nell’aldilà, vostro padre. La perquisizione della casa e dell’ufficio di Dell’Utri, indagato con la moglie da procuratori di cui si conosce la visione e la propensione ai teoremi, è una proroga di indagini che, senza pudore, legano l’attentato a Maurizio Costanzo, le bombe a Firenze, Milano, Roma all’obiettivo di «diffondere il panico e la paura tra cittadini in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri... nel quadro di un accordo, consistito nello scambio tra l’effettuazione, prima, da parte di Cosa nostra, di stragi, e poi, a seguito del favorevole risultato elettorale ottenuto da Berlusconi, a fronte della promessa, da parte di Dell’Utri, che era il tramite di Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, di collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni, ricevendo altresì da Cosa nostra l’appoggio elettorale per le elezioni politiche del marzo ‘94».
In realtà queste posizioni, nel pieno rispetto della Costituzione, erano sostenute anche da Pannella, dai radicali, da me stesso e Tiziana Maiolo che fummo indagati per associazione mafiosa in Calabria, soltanto per le nostre posizioni politiche.
Conosco quindi bene la storia, e sono certo che una commissione parlamentare accerterebbe la vera natura di queste inchieste. Anche l’attuale provvedimento contro Dell’Utri, colpevole per definizione, investe il suo «ruolo di trait d’union tra il Cavaliere e la criminalità mafiosa dal 1974 al 1992 che è risultato far ricorso alle sue conoscenze mafiose per alimentare la nascita di Forza Italia». Un teorema che riguarda quarant’anni di rapporti tra Dell’Utri e vostro padre. Oggi, invece di archiviare inchieste fantasiose, più adatte a sceneggiature cinematografiche, si interpretano anche le indicazioni testamentarie come prove a danno di Berlusconi, loro ossessione, in quanto «le erogazioni costituiscono una contropartita a beneficio di dell’Utri per le condanne patite e il suo silenzio nei processi penali che lo hanno visto e lo vedono coinvolto». Non è accettabile. L’unico reato è la sistematica diffamazione da parte dei magistrati. Proprio per difendere l’impresa più appassionata e storicamente meritoria di vostro padre, che è stata Forza Italia, occorre reagire e resistere contro una aggressione politica, attraverso l’azione giudiziaria, con l’unica risposta politica, nella difesa dell’autonomia dei poteri in una democrazia reale, che è l’istituzione della commissione parlamentare per verificare la legittimità e il fondamento delle inchieste giudiziarie. Non c’è altro futuro per Forza Italia, e per chine ha ereditato lo spirito e i valori.
Vostro padre è stato un campione di resistenza. Cercate di essere degni di lui.
Fatelo con lui e per lui. Non lasciatelo oltraggiare anche da morto.
(ANSA il 17 luglio 2023) - "Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia 'uguale per tutti'. Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no": Marina Berlusconi, con un intervento a sua firma sulle pagine del Giornale, interviene nel dibattito sulla riforma della giustizia e porta la sua "testimonianza" e una "denuncia, innanzitutto come figlia". "La persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa - scrive -, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta".
Il riferimento della presidente di Fininvest e Mondadori è all'inchiesta della Procura di Firenze sulla stragi del 1993-94 che "ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l'accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai".
Secondo Marina Berlusconi, "siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti. Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia".
" È una storia - prosegue rivolgendosi al direttore del Giornale Augusto Minzolini - che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti". E allora "l'avviso di garanzia serve così solo a garantire che l'indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell'inchiesta.
Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell'accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali". E' un "fine pena mai". Nemmeno con la morte.
"Ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo" aggiunge, ricordando quanto fatto dal padre contro la criminalità.
"Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l'avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae. No, purtroppo - constata - la guerra dei trent'anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m'illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci".
La lettera di Marina Berlusconi: "Papà perseguitato anche dopo la morte. Gli assurdi teoremi di certi pm intoccabili". "Caro direttore, ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi?" Marina Berlusconi il 17 Luglio 2023 su Il Giornale.
Caro direttore,
ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l'accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai.
Siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti.
Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia: la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta. È una storia che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti. È così che certi pubblici ministeri invertono totalmente il percorso che la ricerca della verità dovrebbe seguire. Partono da un teorema, per quanto strampalato, e a questo adattano la realtà dei fatti, anche stravolgendola, per dimostrare la fondatezza del teorema stesso. Che poi alla fine questo non trovi il minimo riscontro importa poco. Perché nel frattempo gli organi di informazione amici avranno diligentemente pubblicato le carte dell'accusa, anche quelle in teoria segrete, facendo di tutto per presentarne le ipotesi come fossero verità assolute. L'avviso di garanzia serve così solo a garantire che l'indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell'inchiesta. Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell'accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali. Eppure, e lo dico con tutta l'amarezza di cui sono capace, è un meccanismo diabolicamente efficace. Una condanna a un «fine pena mai» anche senza una prova, anche senza una sentenza, anche dopo la vita stessa.
La scomparsa di mio padre non ha mutato nulla. Dopo oltre vent'anni di inchieste, dopo una mezza dozzina di indagini chiuse su richiesta degli stessi pubblici ministeri perché non c'era - non poteva esserci - alcun elemento di prova, e subito riaperte in modo da dilatare strumentalmente qualsiasi termine di scadenza, dopo che i conti della Fininvest sono stati passati per anni al setaccio senza risultato, ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo. Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa Nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?
Io conosco molto bene l'uomo che era mio padre, il suo orrore per ogni forma di violenza, la sua profonda considerazione per ogni singola persona, nessuno sa meglio di me come la capacità di amare e il desiderio di essere amato fossero l'essenza stessa della sua vita. Ma se qualcuno non si accontenta del buon senso o di quel che sostiene una figlia, mi spieghi perché, dopo oltre un quarto di secolo in cui decine di pm hanno dedicato le loro giornate a mio padre, non è emerso nulla, nulla di nulla. Invece, non basterebbe una pagina di questo giornale, caro direttore, per elencare le leggi contro la criminalità organizzata varate dai governi Berlusconi. Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l'avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae.
No, purtroppo la guerra dei trent'anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m'illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia «uguale per tutti». Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no.
Ha ragione Marina: i Pm inseguono i nemici. Il leader Iv sulla lettera al «Giornale» della figlia di Berlusconi: "Difendo la memoria da avversario". Matteo Renzi il 23 Luglio 2023 su Il Giornale.
Caro Direttore,
la lettera che Marina Berlusconi ha inviato al Suo giornale per stigmatizzare il tentativo di criminalizzare anche post mortem il padre Silvio ha suscitato una vasta eco nel dibattito politico.
In particolar modo qualcuno vi ha voluto leggere una strisciante polemica all'interno della maggioranza che governa il nostro Paese viste anche le dichiarazioni tranchant che Giorgia Meloni ha dedicato all'argomento in un punto stampa.
Non sono mancati poi i retroscenisti abituati a scorgere complotti ovunque che hanno sostenuto come Italia Viva usi la giustizia come argomento sul quale tessere alleanze con una parte della maggioranza. Rispetto le opinioni di tutti e sto volutamente alla larga dalle letture più politicistiche. Mi limito a una semplice considerazione, forse persino banale.
Se facciamo uno sforzo per attenerci alla realtà, e solo a quella, cancellando ogni implicazione, retropensiero, elucubrazione ci rendiamo conto che la lettera di Marina Berlusconi è la doverosa e nobile denuncia di una figlia che difende il padre, ma anche di una cittadina che chiede una giustizia giusta e invita i PM a perseguire i reati, non a inseguire i nemici.
Caro Direttore, io non ho mai votato Silvio Berlusconi a differenza di molti lettori del Suo quotidiano. E Berlusconi ha votato la fiducia ai governi Monti, Letta, Gentiloni ma mai al mio governo. Anzi, la scelta di Berlusconi di rompere il patto del Nazareno ha causato la fine della mia esperienza alla guida del Paese. Dunque io non posso essere tacciato di complicità o di essere in debito con la memoria del Presidente Berlusconi. Ho sempre sostenuto che in politica lui non potrà avere eredi perché il Cavaliere è stata una figura più unica che rara. Tutto ciò premesso, posso dire a voce alta e senza timore di apparire di parte che contestare a Silvio Berlusconi una qualsiasi forma di partecipazione nella drammatica vicenda delle stragi del 1993 è semplicemente folle. Le stragi dei Georgofili, di Roma e Milano, il fallito attentato a Maurizio Costanzo: davvero c'è chi vede una responsabilità di Berlusconi in tutto questo?
O c'è piuttosto il desiderio di affibbiare al politico che non si ama non già - come sacrosanto - la qualifica di avversario ma quella di nemico, anzi direttamente di mafioso. È il racconto che i professionisti dell'antimafia e le toghe ideologizzate (le stesse che hanno fatto la guerra a Falcone al CSM e che hanno consentito un indecoroso depistaggio sulla strage di via D'Amelio in cui morì Borsellino) hanno sempre fatto: fuori la mafia dallo Stato. Anziché combattere tutti insieme contro la mafia si preferisce indicare gli avversari come mafiosi così da rivendicare una presunta superiorità etica. Come se i premier sgraditi, da Andreotti a Berlusconi, potessero essere messi all'indice non per le proprie idee ma per una folle accusa di mafia.
Ha fatto bene Marina Berlusconi a criticare l'assurdità di queste infamanti accuse. Perché non è di una indagine che si sta parlando ma di un tentativo - quello di una minoritaria parte della magistratura - di alimentare la narrazione che i vertici delle istituzioni più lontani dalla sinistra avessero rapporti con la mafia.
Perquisire la casa di Dell'Utri trent'anni dopo - e dopo che comunque Dell'Utri ha trascorso anni in carcere - appare come il tentativo di alimentare la visibilità mediatica di una indagine che non ha sostanza e che non ha credibilità. In queste ultimi mesi i procuratori Turco e Tescaroli hanno interrogato quattro volte Massimo Giletti su questa storia ma non hanno trovato mezz'ora di tempo per firmare le ordinanza di sgombero di un edificio occupato abusivamente nel cuore di Firenze nonostante avessero esplicita richiesta in tal senso di Digos e Comune. Una bambina di cinque anni è sparita e la responsabilità morale della vicenda della piccola Kata sta in capo a chi poteva (e doveva! In Italia vige o no il principio di obbligo di esercizio dell'azione penale?) intervenire subito e non lo ha fatto. Reputo squallido che la procura di Firenze si preoccupi di infangare la memoria di Berlusconi ma non si occupi di garantire la legalità nella città che dai tempi dell'Istituto degli Innocenti accoglie i bambini, non li fa sparire per colpa del racket dell'abusivismo. E chi ricorda la vicenda del piccolo Patriarchi sa che non è la prima volta che la Procura di Firenze ignora gli allarmi di chi la legalità la difende davvero: in quel caso furono i Carabinieri a chiedere ai Pm fiorentini di intervenire ricevendo un rifiuto e la conseguenza fu la tragica morte di un bambino di sette anni.
Qualcuno dirà: tu dici questo perché attacchi i Pm fiorentini. No, non è vero. Ho un conto aperto con i Pm fiorentini, certo, perché nelle indagini su di me loro hanno violato la legge, come ha spiegato cinque volte la Corte di cassazione, e forse anche la Costituzione: lo vedremo quando la Consulta comunicherà le proprie decisioni, mi auguro il prima possibile. Ma proprio per questo le mie vicende con il procuratore Turco le affronto nelle aule giudiziarie dove spero che egli venga penalmente condannato per falso.
Se scrivo questo non è perché attacco i Pm fiorentini, ma perché conosco quel Pm. E so che l'ideologia per lui viene prima della realtà.
Non ho paura di dire la mia allora per difendere chi non può più parlare come Silvio Berlusconi. Ne difendo la memoria - da avversario - perché così facendo rendo un servizio non solo alla sua storia personale ma direi ancora prima elle Istituzioni di questo Paese. Bisogna smetterla di considerare gli avversari come mafiosi e combattere tutti insieme contro la mafia ora e sempre. Le dinamiche tra Forza Italia e la Premier non mi interessano. Ma spendere la mia parola per Silvio Berlusconi nasce dal desiderio di riportare tutti alla realtà e al rispetto.
Senza il quale ogni gioco democratico diventa lotta nel fango.
Marina Berlusconi-Meloni, indiscrezioni: la telefonata, sinistra stroncata. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 23 luglio 2023
Sarà per la prossima volta. Mentre l’opposizione non trova il bandolo di un progetto unitario, a certa stampa collaterale non resta che tifare nella disgregazione delle forze di maggioranza. E magari soffiare su qualche differenziazione confidando che ne nasca un incendio talmente forte da far venir giù l’intera casa del centrodestra. Il tema preso a pretesto è il confronto che si è generato dalla lettera, accorata e profonda, che Marina Berlusconi ha pubblicato lunedì sul giornale. L’argomento è l’esercizio postumo di accanimento giudiziario che vede suo papà Silvio, fondatore di Forza Italia, tirato dentro, a un mese dalla morte, nelle indagini sulle bombe di mafia del ‘93.
La tesi è quella più volte emersa negli ultimi 30 anni, per poi spegnersi puntualmente in quanto supportata da nulla, ossia che quegli attentati abbiano costituito un vento alle vele per la nascente Forza Italia. Tesi lunare, appunto. E la primogenita del quattro volte presidente del Consiglio ha denunciato l’opera di damnatio memoriae, sottolineando che i governi Berlusconi furono molto efficaci nella lotta alla mafia (ricordare, per dirne solo una, sotto quale esecutivo fu assicurato alle patrie galere Bernardo Provenzano).
E finiva, quella lettera, con una constatazione e un auspicio: «Un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia ‘uguale per tutti’».
RIFORMA NECESSARIA
Argomento che nasce da un duplice slancio: quello di una figlia che ha visto per tre decenni (e vede tutt’ora) la lapidazione giudiziaria di un padre che con le sue imprese ha segnato la società e la politica italiana; e quello di cittadina, senz’altro. Perché la necessità di una riforma della giustizia è assai sentita. Di tutto questo i giornalisti hanno chiesto conto a Giorgia Meloni, che replica: «Marina Berlusconi non è un soggetto politico». Certo frase lapidaria, evidentemente gravata da un eccesso di sintesi.
Perché quanto rivendicato da Marina Berlusconi è il fondamento della storia politica del centrodestra, e rappresenta il senso pieno di certe iniziative giudiziarie dalla sfumatura politica che dalla nascita della Seconda Repubblica hanno visto come bersaglio quasi esclusivo il fondatore di Forza Italia. E anche perché, come confermato sia dal sentimento degli elettori, è impossibile scindere Fi dalla figura di Berlusconi nel senso più ampio, figli compresi e non solo perché sono garanti del debito finanziario del movimento.
POLEMICA FANTASMA
Tuttavia, nella dicotomia lettera-commento non v’è nulla di catastrofico. Ma tanto è bastato per far scattare la ridda di retroscena. Il Fatto Quotidiano dà conto di una Forza Italia in procinto di “far ballare” la premier. Dagospia racconta che Marina avrebbe preso «male, anzi malissimo!» la «rispostaccia» di Giorgia Meloni. Repubblica, ieri, riprendeva Dago addirittura prefigurando dubbi, da parte della figlia maggiore di Berlusconi, di continuare a sostenere Forza Italia. La Stampa pubblicava un pezzo di Lucia Annunziata, titolo eloquente: “Giorgia&Marina, le incompatibili”. Che sia in corso un effetto domino? Nient’affatto, ovviamente.
Ed è la stessa Marina Berlusconi a sottolinearlo, con una nota diffusa ieri (qualcuno parla anche di una telefonata tra le due) che strappa via il romanzo di presunte ostilità: «Alcuni media hanno voluto vedere dietro questa lettera intenzioni che non ho mai avuto, così come mi hanno incomprensibilmente attribuito reazioni che non ho mai provato di fronte a commenti del presidente Giorgia Meloni, per la quale nutro il massimo rispetto e la massima stima. Così stanno le cose. Tutto il resto sono strumentalizzazioni fuori dalla realtà». Poco più tardi, la stessa premier, a domanda di Affaritaliani.it se il caso sia chiuso, replica: «Non c’è mai stato un caso». Seppellito con una risata. Con grande sofferenza dei soffiatori di discordia.
"Marina ha ragione. I pm non si fermano neppure al cimitero". Il senatore Fdi: "La lettera della figlia del Cav richiama la politica alle sue responsabilità". Francesco Curridori il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.
«Trovo la dichiarazione di Marina Berlusconi un atto di umana pietà di fronte al quale tutti si devono inchinare». A dirlo è l'ex presidente del Senato, Marcello Pera, oggi senatore di Fratelli d'Italia, che considera la lettera del presidente di Fininvest «un fatto che richiama la politica alle sue responsabilità».
Perché?
«Marina Berlusconi parla di patologie e aberrazioni della giustizia, di attentato alla civiltà giuridica. Il fenomeno, quindi, è di carattere politico-istituzionale. Bisogna chiedersi: quanto dura e quando si ferma un'indagine? Non si ferma neppure di fronte al cancello di un cimitero? Se dopo quasi 30 anni non si trova nessun atto di accusa provato davanti a un giudice, è lecito chiedersi se l'indagine persegue la giustizia oppure alimenta soltanto i giornali?».
Tutto questo è frutto di una serie di storture del sistema giudiziario?
«Certo, ci sono varie e palesi storture. La prima riguarda l'avviso di garanzia che, come sostiene Marina Berlusconi, garantisce solo i giornali e non l'imputato. La seconda riguarda l'uso di indiscrezioni o di dichiarazioni di personaggi fatte fuori dall'Aula e mai davanti a un giudice. Una stortura, questa, che serve solo a far proseguire le indagini. Un'altra stortura riguarda le accuse mosse a un imputato che hanno tutto l'aspetto di una narrazione storica. Quando si dice che gli attentati preparavano il campo a Forza Italia si racconta un fatto storico privo di qualunque supporto e palesemente falso per milioni di italiani. Ora, su queste storture, deve intervenire la politica. Con tutto l'equilibro e il confronto che occorre, ma l'intervento è necessario».
Ma, sul tema giustizia, il governo pare abbastanza deciso a intervenire...
«Sì, l'agenda Nordio ha proprio questo scopo e, pertanto, dobbiamo portarla avanti e sostenerla. Deve arrivare in Aula e va esaminata come si fa con ogni importante riforma, però, penso che questa non sia sufficiente. Una vera riforma della giustizia, infatti, non si attua per via ordinaria, ma tramite modifiche di tipo costituzionale».
A quali riforme si riferisce?
«Anzitutto, il Consiglio Superiore della Magistratura deve cambiare la composizione, la natura e i suoi scopi e, per farlo, è necessario toccare la Costituzione. Stessa cosa bisogna fare anche per i giudizi sulle attività deviate dei magistrati che non possono essere affidati a una sezione del Csm. È necessario creare un'Alta Corte di giustizia che valuti i comportamenti dei magistrati».
Anche la separazione delle carriere necessita di una riforma costituzionale?
«Certo, non può attuarsi veramente senza una riforma costituzionale così come prevede l'articolo 111 in cui si stabilisce che l'accusa e la difesa sono parti e che solo il giudice è terzo e imparziale. Anche qui bisogna precisare in Costituzione in quale modo si attua questa separazione. Lo status del pubblico ministero, poi, non può essere esattamente uguale a quello del giudice che emette la sentenza».
È percorribile la strada dell'inappellabilità delle sentenze?
«Se lo Stato, tramite un suo giudice autonomo, indipendente, terzo e imparziale, ha assolto qualcuno che ha portato a processo, non si capisce perché il pm, organo dello Stato, non si debba fermare e debba sempre poter ricorrere in appello».
Ma cosa impedisce ai giudici di essere imparziali?
«Per arrivare a una vera terzietà bisogna fare in modo che il giudice, che è imparziale, sia inibito dall'orientare le indagini fatte dal pm perché, se questo avviene, si torna al giudice istruttore e non al giudice terzo del giusto processo che prevede la Costituzione».
Una riforma come il lodo Alfano potrebbe servire utile a cambiare il clima alquanto arroventato tra magistratura e politica?
«Il clima è rovente perché certi pm hanno un canale privilegiato con i giornalisti che alimentano questa tensione. Trovo irresponsabile che il Pd, per bocca del senatore Verini, definisca inquietante il messaggio di Marina Berlusconi. Qui, di inquietante c'è solo la deviazione dalla funzione propria di una parte della magistratura. Anche l'opposizione dovrebbe collaborare per correggerla».
La politica fa quadrato intorno alla Berlusconi: "Lettera sacrosanta, questo sistema è malato". Coro di sì, Paita (Iv): "Fa bene a denunciare la damnatio memoriae". Fabrizio De Feo il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.
«Caro direttore, ma la guerra dei trent'anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità?».
La domanda che Marina Berlusconi fa risuonare nel dibattito pubblico con la lettera a il Giornale, non è soltanto, per dirla con le sue parole, «una testimonianza, e una denuncia» contro «la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa», ma un invito a perseguire davvero la riforma della giustizia perché «un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare».
Di fronte alle parole della primogenita di Silvio Berlusconi, Forza Italia si stringe attorno a lei e rilancia la richiesta di cambiare davvero la giustizia italiana. «Marina Berlusconi fa bene a difendere la memoria di suo padre» dice Antonio Tajani «perché mi pare che da parte di alcuni ci sia una sorta di accanimento anche dopo la sua morte. Ricordo le parole di Grasso che elogiò Berlusconi per il suo atteggiamento di fermezza nei confronti di mafia, camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita. Adesso costruire teoremi secondo i quali Forza Italia sarebbe nata perché la mafia... lasciamo perdere, sono barzellette alle quali nessuna persona di buon senso può credere». La presidente dei senatori azzurri Licia Ronzulli giudica la lettera «un monito a fare in modo che la giustizia non sia più, mai più, un'arma da usare contro l'avversario politico. Che ci sia una giustizia con la G maiuscola, al servizio dei cittadini. E per farlo, serve solo una grande, profonda riforma, che possa cambiare tutto questo e invertire la rotta. Solo così potremo uscire da questo girone dantesco che paralizza l'Italia, solo così onoreremmo la memoria del presidente Berlusconi, che per ottenere questa riforma ha dedicato 30 anni della sua vita. Fino all'ultimo giorno».
Paolo Barelli, capogruppo alla Camera, riannoda il nastro della storia, sottolineando che «Forza Italia è sempre stata dalla parte giusta, il rispetto della legalità e la lotta - a più livelli - al crimine organizzato sono nel suo Dna». Giorgio Mulè, nella maniera decisa che lo contraddistingue, fotografa così l'origine di Forza Italia: «Di sicuro noi non siamo eredi di un partito nato da uno scambio con la feccia dell'umanità. Noi siamo gli eredi di un partito fondato da Silvio Berlusconi che ha avversato e combattuto quella feccia dell'umanità su tutti i fronti». Solidarietà anche dalla senatrice Michaela Biancofiore, presidente del gruppo parlamentare Civici d'Italia: «Mi sono molto commossa per la lettera accorata di Marina Berlusconi in difesa della memoria e della vita di suo padre, che combacia drammaticamente con un'analisi chirurgica dello stato della giustizia in Italia. Marina ha ragione soprattutto quando denuncia la volontà della damnatio memoriae nei confronti di suo padre». Maurizio Gasparri, invece, parla come «testimone diretto» dell'impegno antimafia di Berlusconi. «Ho avuto l'onore di essere Ministro accanto a lui quando abbiamo reso permanente il carcere duro, il 41 bis, nell'ordinamento penitenziario italiano». «Siamo di fronte ad un sistema della giustizia malato dove c'è parte della magistratura e certa stampa che, con una delle accuse più infamanti ovvero quella di mafiosità, persevera in un accanimento addirittura post mortem'! Inaccettabile», chiosa il deputato azzurro Roberto Pella. E la senatrice di Iv, Raffaella Paita: «Ha ragione Marina, quando dice che la guerra dei 30 anni non è ancora finita. Ha ancora ragione quando parla di damnatio memoriae da parte della procura di Firenze».
Quel teorema giudiziario sul Cav stragista non ha alcuna logica politica…Il progetto della procura? Berlusconi sarebbe stato accusato di essere un mandante di attentati. Ma l’ipotesi processale non sta in piedi neanche dal punto di vista della vicenda politica e dell’andamento delle stesse operazioni criminali della mafia. Fabrizio Cicchitto su Il Dubbio il 17 luglio 2023
L’originario progetto della Procura antimafia di Firenze era probabilmente quello di prendere due piccioni con una fava e di fare dei fuochi d’artificio ad alta visibilità: due avvisi di garanzia, uno a Berlusconi, l’altro a Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose del 1993.
A parte l’effetto mediatico, ci sarebbe stato anche un effetto politico notevole: lo storico leader del centrodestra e comunque il capo di uno dei tre partiti fondamentali del governo, sarebbe stato accusato di essere un mandante di attentati: un botto politico non da poco, altro che la Santanchè.
Sennonché, per un estremo e anche tragico paradosso, Berlusconi ha fatto un dispetto a questi magistrati che lo hanno braccato dal ’94 ad oggi e ha vanificato l’obiettivo finale della Procura di Firenze. Rimane evidentemente aperta tutta un’altra questione che riguarda la politica e specialmente la memoria. Essendo venuto meno l’obiettivo principale, ora si punta a Marcello Dell’Utri. Però siccome uno degli obiettivi fondamentali di tutta questa storia è quello mediatico, già oggi è evidente che i primi effetti sono molto ridotti. Repubblica è rimasta appesa al suo annuncio ma non ha né sconvolto l’opinione pubblica, oramai assuefatta a questi fuochi d’artificio, né ha trascinato per ovvie ragioni giornali concorrenti su questo terreno.
Ma, a parte queste osservazioni in un certo senso preliminari, veniamo al merito. In primo luogo si tratta di una minestra riscaldata perché nel passato ben altre quattro volte ipotesi di reato di questo tipo sono state avanzate e respinte dalla stessa magistratura. Innanzitutto l’ipotesi processale non sta in piedi neanche dal punto di vista della vicenda politica e dell’andamento delle stesse operazioni criminali della mafia. Il primo attentato, quello di via dei Georgofili, è del 27 maggio 1993. Allora neanche lontanamente Berlusconi pensava di entrare in politica, tant’è che anche nei mesi immediatamente successivi egli interpellò Mario Segni e Mino Martinazzoli affinché scendessero loro in campo. Ciò è confermato anche dal libro di memorie di Dotti che poi con Berlusconi arrivò ad uno scontro frontale.
Colta questa sfasatura temporale, che non è cosa da poco, c’è poi la questione di fondo: come si può pensare che alcuni attentati e più di 200 morti (bisogna conteggiare gli effetti degli attentati falliti: quello contro Maurizio Costanzo e quello all’Olimpico che avrebbe dovuto colpire circa 200 carabinieri) avrebbero avuto l’effetto ipotizzato nell’avviso di garanzia a Dell’Utri, cioè la destabilizzazione del governo Ciampi e poi la vittoria elettorale e politica di Berlusconi?
Nessuno poteva ipotizzare in anticipo quali sarebbero stati gli effetti di attentati che avrebbero dovuto provocare la morte di centinaia di persone, fra cui un numero molto rilevante di carabinieri. Sarebbe potuto avvenire esattamente l’inverso di quello ipotizzato. L’opinione pubblica, terrorizzata dal massacro di un numero rilevante di carabinieri, avrebbe potuto stringersi proprio intorno al governo in carica presieduto da un personaggio della statura di Carlo Azeglio Ciampi che anzi sarebbe stato una sorta di usato sicuro mentre nessuno considerava Berlusconi come una personalità particolarmente attrezzata ad affrontare una situazione di emergenza sul terreno dell’ordine pubblico.
Poi vanno esaminate le conseguenze successive. Qualora Berlusconi fosse arrivato al governo anche grazie a chi aveva provocato la morte di un numero rilevante di persone, sarebbe stato totalmente nelle mani della mafia. Ovviamente la mafia avrebbe chiesto l’immediato cambiamento delle leggi da essa aborrite e in primo luogo il 41 bis. Invece è avvenuto esattamente il contrario. Berlusconi e i suoi ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia hanno ulteriormente accentuato la gravità delle leggi antimafia. A questo proposito prendiamo in considerazione la testimonianza di un personaggio al di sopra di ogni sospetto per quanto riguarda i suoi rapporti con Berlusconi: Pietro Grasso, da presidente del Senato, pur di favorire l’estromissione di Berlusconi, ha consentito forzature inaudite. Contro Berlusconi fu fatta valere la legge Severino con applicazione retroattiva (la legge era del 2012, il reato fiscale per cui Berlusconi fu condannato risaliva al 2002).
Tuttavia le cose non si fermano qui. Allora, in sede di dibattito, i grillini chiesero che venisse eliminata la clausola del voto segreto e Pietro Grasso li seguì totalmente. Ebbene Grasso, da presidente dell’Antimafia, il 13 maggio del 2012 così si espresse: “Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni di mafiosi. Siamo arrivati a quasi 40 miliardi di euro”.
A questo punto, qualche persona di buon senso può pensare che qualora Berlusconi avesse usufruito di quel “contributo stragista” da parte della mafia poi avrebbe potuto fare il furbo in questo modo sul terreno legislativo? Non oggi, a ricasco delle spericolate iniziative di Giletti, ma anni fa, con Berlusconi ancora al governo, non uno ma dieci Baiardo avrebbero latrato nei suoi confronti esprimendo ricatti di tutti i tipi. Se tutto ciò non è avvenuto, ciò vuol dire che le cose sono andate in senso opposto a quello ipotizzato in questo avviso di garanzia. D’altra parte, siccome viviamo in Italia e non in Colombia, nessuna persona normale può pensare di riuscire a farsi strada sul terreno del consenso politico ed elettorale a colpi di attentati e di carabinieri uccisi. Solo i mafiosi nella versione corleonese hanno pensato di poter fare nei confronti dello Stato la stessa operazione che con successo avevano realizzato all’interno della mafia uccidendo migliaia di appartenenti alle cosche rivali e quando, prima ancora del ’93, hanno adottato questa linea estremista nei confronti dello Stato andando incontro a una serie di terribili disfatte testimoniate dal fatto che centinaia di essi sono ancora all’ergastolo e al 41 bis. Ciò è avvenuto malgrado che qualcuno ha cercato di intorbidire le acque con quella trattativa Stato-mafia azzerata non solo dalla Cassazione ma dalla realtà di ciò che ai capimafia è successo dagli anni Ottanta ad oggi.
Purtroppo un ristretto nucleo di magistrati pensa di trasferire sulla politica le tecniche stragiste dei mafiosi malgrado essi siano andati incontro ad una evidente disfatta. Purtroppo c’è un estremismo giustizialista che è la malattia infantile di uno spicchio di magistratura inquirente, di alcuni appartenenti alla polizia giudiziaria e di alcuni cronisti giudiziari.
Sono passati tanti anni con vittorie e sconfitte del Berlusconi politico. Possibile che costoro ancora non abbiano capito che le vere bombe di Berlusconi stavano nella novità costituita dal suo personale carisma, dai messaggi nazional-popolari espressi dalle sue tv, dalla sua capacità nell’uso politico di una grande squadra di calcio? Altro che tritolo. A volerci mettere un po’ di fantasia potremmo dire che si è trattato perfino della traduzione nazional-popolare del pezzo più imprevedibile e più fuori dagli schemi del ’68. I magistrati, invece dei papielli di Totò Riina e di Ciancimino junior, leggano il libro di Mario Perniola dal titolo “Berlusconi o il ’68 realizzato”.
Le parole della primogenita di Silvio Berlusconi. La lettera di Marina Berlusconi, un grido di sdegno contro i Pm di Firenze. Scrive Marina Berlusconi: “La persecuzione di cui mio padre è stato vittima e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aver reazioni da cui la nostra giustizia è afflitta”. Nelle sue parole un grido di dolore. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Luglio 2023
Marina Berlusconi ha lanciato un grido di dolore e di sdegno. A un mese dalla scomparsa di suo padre Silvio la magistratura ha ricominciato a perseguirlo – per interposto imputato – per un reato tremendo e assurdo e cioè essere stato l’artefice o il complice di attentati incredibili perché non hanno precedenti né ragioni comprensibili, operati sul continente dalla mafia che dopo secoli di esistenza come organizzazione criminale si sarebbe trasformata in organizzazione politico militare. La Suprema Corte di Cassazione ha già sentenziato in maniera definitiva che non è mai esistita alcuna trattativa tra la Repubblica italiana e una entità detta Cosa Nostra, trasformatasi in una via di mezzo tra l’Olp palestinese, le Brigate Rosse eterodirette e l’IRA irlandese, terrorizzando il Paese con uccisioni indiscriminate e insensate come la mafia non ha mai fatto.
Una parte della Magistratura, sostiene Marina Berlusconi, non intende recedere e agisce contro un uomo che, con ogni evidenza, ha lasciato questo mondo. Quel che dice Marina Berlusconi nella lettera pubblicata ieri dal Giornale, è straziante perché ha a che vedere con questioni che non possono o non dovrebbero investire lei, Marina Berlusconi e ciascuno degli altri figli, familiari e amici, colpiti nella memoria di un padre o una persona cara scomparsa.
Marina ipotizza una causa ispiratrice, e cioè che, alcuni magistrati che non rappresentano affatto l’intero corpo della magistratura, sentano come un dovere quello di distruggere, specialmente dopo la morte, un uomo che hanno costantemente avversato e perseguito. Ma contro cui non hanno cessato di cercare prove o indizi per istruire processi.
Scrive Marina: “La persecuzione di cui mio padre è stato vittima e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aver reazioni da cui la nostra giustizia è afflitta. È una storia che vede una sia pur piccola parte, della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari veri o presunti”.
E Marina ricorda che lo stile delle campagne contro suo padre e non soltanto contro suo padre, è diventato il modus operandi della politica, condotta attraverso alcuni magistrati e alcuni loro galoppini destinati a tanta carriera quanti etti di scoop si ritrovavano sul computer. Il primo passo è lanciare l’accusa non provata, come è avvenuto a molte vittime di mani pulite totalmente innocenti (per non dire di quelli che si sono suicidati e che sono stati suicidati come Raul Gardini che si fa una sauna e distrattamente si spara alla tempia, dopo aver recapitato una valigia a Botteghe Oscure). Avvisi di garanzia e campagna mediatica fanno il giudizio di piazza con le tricoteuses sotto la lama che cade. Le eventuali assoluzioni, se anche arriveranno come accadde col primo avviso di garanzia del primo governo Berlusconi, passano direttamente al dimenticatoio. Le altre, a volte, ritornano.
Come il caso del senatore Dell’Utri che a Berlusconi morto si trova di nuovo sul groppone bombardamenti da Stato sovrano mai accaduto in Italia come le bombe di via Palestro a Milano, la bomba allo Stadio Olimpico di Roma, o anche quella nei pressi del Velabro, al Maurizio Costanzo show. Aggiungo da vecchio cronista competente nonché per quattro anni magistrato del Parlamento come presidente di una commissione d’inchiesta: perché non c’è qualcuno che mostri la volontà tecnica e politica di trovare le radici e le ragioni di quella stagione di attentati senza senso come fu senza senso l’immane apparato militare che uccise Falcone a capaci o quello altrettanto mostruoso per Borsellino? Chi, perché, come, per quali interessi, secondo quale logica ha commesso una tale sequenza di orrendi crimini, tutti in cerca di ragione prima ancora che di mandante, perché chi pur avendo il dovere e il potere di farlo, non lo fa? Possibile che nessuno ha letto tutto ciò che è stato scritto e documentato sulla più gigantesca fuga di capitali della storia che fu quella dell’unione sovietica da cui traggono sostentamento migliaia di oligarchi ricchi sfondati e assassini? Qualcuno potrà chiedere che relazione c’è? Ecco, già sarebbe un inizio.
Paolo Guzzanti
Giustizia, “Marina Berlusconi dà voce ai perseguitati dalle Procure”: le reazioni del mondo politico alla lettera della primogenita di Silvio. La presidente di Fininvest e primogenita di Berlusconi invia una lettera aperta a il Giornale, nella quale ricorda la persecuzione giudiziaria cui è stato sottoposto il padre, anche dopo la sua scomparsa. Immediate le reazioni di solidarità, da parte del mondo politico. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2023
“Ma la guerra dei trent’anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l’accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai“. Queste le parole di Marina Berlusconi in una lettera aperta inviata al Giornale.
Alle parole della presidente di Fininvest e primogenita di Berlusconi segue, naturalmente, un coro di solidarietà da parte del mondo politico.
“Siamo intolleranti alla mafia, la mafia ci fa schifo” e “ricordo che nei gruppi parlamentari di Fi ci sono due donne che sono figlie di vittime della mafia, Rita Dalla Chiesa e Caterina Chinnici”, dice il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a Sky Tg24. “Marina Berlusconi fa bene a difendere la memoria di suo padre, mi pare veramente un accanimento quello di dover tornare a dire sempre le stesse cose“, ha aggiunto Tajani, ribadendo che “sono sciocchezze campate in aria” le teorie secondo cui Fi “sarebbe nata perché faceva comodo alla lotta della mafia”.
“Le parole chiarissime e lucidissime di Marina Berlusconi affidate al ‘Giornale’ mi spingono a diffondere un passaggio del mio intervento previsto per il Consiglio nazionale di Forza Italia di sabato scorso. L’impegno antimafia di Silvio Berlusconi e dei governi da lui presieduti con Forza Italia sono una pietra angolare nella lotta alle cosche“, afferma il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, Giorgio Mulé.
“La lettera di Marina Berlusconi al Giornale non è solo il grido di una figlia addolorata contro un accanimento e una persecuzione giudiziaria senza precedenti, che prosegue anche dopo la morte. Non è solo un atto d’accusa contro quel mondo giudiziario, che per trent’anni ha colpito senza tregua Berlusconi, cercando di distruggerne immagine e onore, fallendo ma non cessando di accanirsi anche oggi che il presidente di Forza Italia non è più tra noi. La lettera di Marina Berlusconi è un monito a tutti noi, alla politica, alla maggioranza, al governo, a fare in modo che la giustizia non sia più, mai più, un’arma da usare contro l’avversario politico. Che ci sia una giustizia con la G maiuscola, al servizio dei cittadini. E per farlo, serve solo una grande, profonda riforma, che possa cambiare tutto questo”, dichiara la presidente dei senatori di Forza Italia, Licia Ronzulli.
“Una lettera, una testimonianza autentica, che dà voce a tutti i figli di innocenti perseguitati dalla giustizia. Ha ragione Marina, per alcune Procure la persecuzione contro Silvio Berlusconi” è un’ossessione”, dice Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia.
“Credo ci sia voluto tanto coraggio a scrivere una lettera cosi’ forte e al tempo stesso intima. La ringrazio – afferma la senatrice Raffaella Paita, coordinatrice di Italia Viva e presidente del Gruppo Azione-Italia Viva al Senato – perché è una testimonianza che vale più di tante nostre parole. Ha ragione Marina, quando dice che la guerra dei 30 anni non è ancora finita. Ha ancora ragione quando parla di damnatio memoriae da parte della procura di Firenze”. “Questo è il momento di riformare davvero la giustizia. Senza timidezze. Italia viva andrà avanti, ci assumeremo la piena responsabilità e ci metteremo il coraggio che ad altri sembra mancare. Non accetteremo mai riformicchie”, conclude Raffaella Paita.
“La lettera di Marina Berlusconi, sulle persecuzioni che Silvio Berlusconi continua a subire anche dopo la sua scomparsa, andrebbe letta nelle scuole dove si formano i nuovi magistrati. Perché così imparerebbero il valore della verità e il dovere di non alimentare quelle che giustamente anche Marina Berlusconi considera manovre politiche che deviano il corso della giustizia. Ci battiamo da anni contro accuse farneticanti”, sottolinea il senatore Fi Maurizio Gasparri.
Estratto dell’articolo di G. SAL. per “La Stampa” il 17 luglio 2023.
Nell'autunno 2022 fu Nino Di Matteo […] a convincere […] Massimo Giletti a rivolgersi alla Procura di Firenze per raccontare che Salvatore Baiardo gli aveva mostrato una vecchia foto a suo dire di Silvio Berlusconi con il boss mafioso Giuseppe Graviano.
Giletti si era recato al Csm e Di Matteo […] lo aveva avvertito […] della necessità di portarla a conoscenza della Procura che indaga sulle stragi del 1993. Lo stesso Di Matteo mise immediatamente a conoscenza il procuratore di Firenze dell'accaduto.
È stato lo stesso Giletti a ricostruire la vicenda negli interrogatori resi a Firenze. In quello del 21 aprile, appena successivo alla chiusura della trasmissione «Non è l'arena» su La7 mentre preparava una puntata su Dell'Utri, Giletti non riesce a trattenere l'emozione π…].
La Procura di Firenze ha perquisito invano la casa di Baiardo […] alla ricerca della foto. Poi ne chiesto l'arresto con due accuse: favoreggiamento in favore di Berlusconi e Dell'Utri, indagati per aver istigato le stragi, e calunnia ai danni di Giletti. Il gip ha negato l'arresto. La Procura ha fatto ricorso. Il tribunale del riesame ha rinviato a settembre la decisione.
Morte Berlusconi, parla Salvatore Borsellino: "Sapeva la verità sulla morte di mio fratello, non la conosceremo mai". Dopo la scomparsa del leader di Forza Italia, il fratello di Paolo Borsellino torna a parlare delle stragi del '92 e del '93 di cui Berlusconi fu accusato di essere mandante: "Spero che non riposi in pace". Marianna Piacente su Notizie.it Pubblicato il 13 Giugno 2023
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Rispose così Silvio Berlusconi ai giudici che gli chiesero cosa sapesse della trattativa Stato-mafia. La Procura di Palermo aveva scoperto incontri tra Silvio Berlusconi e alcuni esponenti di Cosa Nostra. Le indagini avevano parlato chiaro: scambio di denaro in cambio di protezione. Ma nessuna sentenza condannò mai il leader di Forza Italia.
Le accuse a Silvio Berlusconi
Nel 2016 il boss Giuseppe Graviano (Martidduzzu) parlò a un compagno di cella durante l’ora d’aria dicendo: «Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo è stata l’urgenza […]» e la Procura di Firenze decise di aprire nuove indagini su Berlusconi, accusandolo di essere mandante esterno delle stragi del 1992 e del 1993. L’inchiesta non andò avanti. Nel 2020 sempre Graviano raccontò ai giudici di un investimento di un suo parente nelle aziende di Berlusconi e di importanti cene condivise. L’allora difensore di Berlusconi, il legale Niccolò Ghedini, respinse le accuse del mafioso sostenendo che le sue dichiarazioni erano «totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie». Bastò a far cadere le accuse e scivolare la questione nel dimenticatoio, una volta per sempre.
Parla il fratello di Paolo Borsellino
Dopo la morte del politico, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo ucciso da Cosa Nostra con una bomba in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio del 1992, decide di lasciare una dichiarazione a Fanpage.it. Eccone un estratto:
«Non sono cristiano. Ma, se devo dire una cosa, voglio sperare che (Berlusconi, ndr) non riposi in pace. Così come non riposano in pace tutte le vittime delle stragi di mafia nel nostro Paese, su cui c’è ancora un forte punto interrogativo. Berlusconi era ancora indagato dalla Procura di Firenze (insieme a Dell’Utri, ndr) come mandante esterno delle stragi del 1992 e del 1993. Purtroppo ormai non potrò confidare in una giustizia, […] ci sono dei segreti riguardo la verità sulle due stragi. Con la scomparsa di Berlusconi, si chiuderanno ora probabilmente le inchieste per morte dell’indagato e la verità non verrà mai fuori. Tuttavia, si può sperare che i Graviano decidano di collaborare con la magistratura. Se finora hanno confidato nell’aiuto di Berlusconi per uscire dal carcere, spero che adesso, resa vana la loro speranza, decidano di collaborare. Ma sarà molto difficile».
«Stragista! Mafioso!». Ecco perché Silvio resterà un imputato ombra...Le illazioni metagiudiziarie sulla trattativa, dall’intervista a Borsellino messa in onda in versione alterata, all’accusa di essere stato il mandante delle stragi di Cosa Nostra. Eppure Toto Riina lo voleva ammazzare. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 giugno 2023
Silvio Berlusconi è stato l’imputato ombra del processo trattativa, ma anche indagato per oltre un quarto di secolo come mandante delle stragi mafiose. Si tratta dell’accusa più grave e infamante che abbia mai ricevuto. Ovviamente non è stata trovata una sola mezza prova utile per poter chiedere un rinvio a giudizio, ma il solo fatto di aver aperto le indagini, dà la stura al dubbio che lui possa essere stato addirittura la vera mente degli attentati.
Poco importa capire il nesso logico con i vari teoremi che di volta in volta vedono prima la Cia, poi la P2, dopodiché l’eversione nera, Gladio e di nuovo Berlusconi. Teoremi che nel complesso confliggono con la vera natura della mafia corleonese, la quale – come indicò Giovani Falcone – non solo non amava essere eterodiretta, ma aspirava a sottomettere il potere economico e politico.
La prima manipolazione mediatica che ha creato il nesso addirittura con la strage di Via D’Amelio, è stata nel 2000 quando il giornalista Sigfrido Ranucci ha trasmesso su Rainews una parte dell’intervista dove Borsellino parlava di Mangano, Dell’Utri e Berlusconi. In questo contesto, è nata una prima polemica. Paolo Guzzanti ha scritto un articolo di fuoco contro Ranucci, osservando che l’intervista mandata in onda dalla Rai fosse falsificata all’evidente scopo di attribuire alle dichiarazioni di Borsellino significati diversi da quelli espressi dall’originale. A quel punto, sempre nel medesimo articolo, Guzzanti ha commentato: «Qualcuno l’ha manipolata. Se non è stata la Rai, chi ci ha messo le mani?». Ne è scaturita una querela da parte di Ranucci.
I giudici, però, hanno assolto Guzzanti, ma nel contempo hanno discolpato Ranucci di essere stato lui l’autore della manipolazione, che è «obiettivamente vero, nei suoi elementi essenziali, il fatto che l’intervista mandata in onda da Rainews, è frutto di una alterazione». E infatti, chi ha ascoltato quell’intervista alterata, sembrava che Borsellino stesse indagando su Berlusconi. Ovviamente non è così. Tutt’altro. Ma tanto basta per creare la prima suggestione. E come si sa, la verità dei fatti non conta. Oramai nell’immaginario collettivo risulta che Borsellino mise il naso sui presunti legami di Berlusconi con la mafia. E che guarda caso, poi è stato ucciso.
Tra riaperture e inevitabili archiviazioni, siamo arrivati a ben cinque inchieste su Berlusconi come mandante delle stragi. Nel 1998 il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta dispose con articolato provvedimento l’iscrizione nel registro degli indagati di Berlusconi e Marcello Dell’Utri (sotto le sigle di Alfa e Beta) in base ad una serie di risultanze che delineavano una notizia di reato a loro carico, quali mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Poco prima, la Procura di Firenze aveva disposto l’iscrizione dei due sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un procedimento relativo a fatti di strage commessi a Roma, Firenze e Milano dal maggio 1993 all’aprile 1994. Ovviamente archiviate. Ma la procura di Firenze non si è arresa ed è arrivata, ad oggi, alla quinta inchiesta.
Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, Forza Italia ancora non era nata. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico.
“Era solo una palazzinaro!”, ha detto Riina intercettato al 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e i ripetitori in Sicilia. Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino, Tullio Cannella e Malavagna hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992. Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti e soprattutto da Brusca, Siino e Cannella sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario.
Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante - stando alle emergenze sulle leghe meridionali - avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente. Totò Riina odiava a morte Berlusconi. Soprattutto perché fu il suo governo a rendere ordinario il 41 bis. Un profondo odio che si evince dalle intercettazioni di quando era al carcere duro.
Gli augurava la morte ogni giorno. Ha detto che se fosse uscito dal carcere, la prima cosa sarebbe stata quella di ammazzarlo. Alla fine Berlusconi è riuscito a seppellire anche lui. Ora però è morto. Fino a quando una certa giustizia non smetterà di inseguire il terrapiattismo giudiziario, rimarrà l’imputato ombra anche dall’oltretomba.
Silvio Berlusconi è già entrato nella storia oscura d’Italia. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 12 Giugno 2023
Silvio Berlusconi è morto. Il quattro volte presidente del Consiglio si è spento all’età di 86 anni all’ospedale San Raffaele di Milano. «Il presidente è da tempo malato di leucemia mielonocitica cronica», aveva rivelato il suo medico, Alberto Zangrillo, lo scorso aprile, quando Berlusconi venne ricoverato a seguito di un’infezione polmonare. Poi le dimissioni a fine maggio e l’ultimo ricovero dopo poche settimane. Le varie forze politiche, dalla maggioranza all’opposizione, hanno espresso vicinanza per colui che è stato prima imprenditore, poi volto del futuro della politica italiana e contemporaneamente simbolo di continuità con il passato primorepubblicano. Infine, gli scandali giudiziari e il tentativo di ritornare alle origini imprenditoriali. L’acquisto calcistico del Monza nel 2018 non lo ha però allontanato dai palazzi romani: nel giro di pochi mesi ha accarezzato il sogno del Quirinale salvo poi “accontentarsi” della vittoria alle elezioni dello scorso settembre, che gli sono valsi un seggio da senatore a Montecitorio oltre che un posto all’interno della coalizione di governo.
Le origini e l’ascesa politica
La locuzione latina Mors tua vita mea sintetizza al meglio l’ascesa politica di Silvio Berlusconi, avvenuta sulle macerie della Prima Repubblica. Quest’ultima stava cadendo sotto i colpi della scoperchiatura della “democrazia limitata”: l’entrata nel vivo di Tangentopoli e la rivelazione dell’esistenza dell’organizzazione paramilitare Gladio, nata da un accordo tra la CIA statunitense e i servizi segreti italiani per contrastare “l’eversione atlantica” e dunque l’indipendenza dai comandi di Washington, furono soltanto due degli eventi che rivelarono al mondo la natura imperfetta della democrazia italiana. Nel giro di pochi anni, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni oltre che nei cosiddetti partiti di massa stava crollando. Fu da questo contesto di caos che nacque la cosa: l’ascesa istituzionale di Silvio Berlusconi, considerato dalla parte di opinione pubblica a lui favorevole il volto nuovo, e dunque il futuro, della politica italiana.
Nato a Milano nel settembre del 1936, Berlusconi iniziò la sua attività imprenditoriale nel campo dell’edilizia, salvo poi lanciarsi verso il mondo della finanza e della comunicazione. Tra Fininvest e Mediaset nacque un impero che in pochi della vecchia guardia politica furono in grado di notare e soprattutto non sottovalutare. Una fitta rete di amicizie, conoscenze, competenze e “intuiti imprenditoriali” che il Cavaliere aveva costruito in circa trent’anni si rivelarono fondamentali per stravolgere le regole del vigente gioco politico. La macchina organizzativa che ruotava intorno a Forza Italia, il partito fondato dal Cavaliere nel 1994, era in grado di intercettare i bisogni e gli interessi nascenti della nuova società italiana, scossa dagli stravolgimenti di fine Prima Repubblica, per inserirli nel proprio programma con le tutele o le soluzioni del caso. Berlusconi fu abile nell’occupare lo spazio vuoto lasciato dal crollo dei grandi partiti di massa, che avevano indirizzato i propri elettori verso un’ideologia precisa. Senza guide sottoforma di principi e valori, gli elettori si affidarono a colui che rappresentava il catalizzatore dell’ormai consolidato interesse primario: il consumo. Il partito divenne dunque un’azienda e coloro che lo alimentavano dei semplici acquirenti, le cui preferenze erano facilmente intercettabili attraverso il sondaggio, lo strumento messo a punto in Italia proprio da Berlusconi e diventato oggi quasi una legge non scritta data la sua abilità nel prevedere gli esiti delle elezioni, come dimostra la diffusione del termine “sondocrazia” (governo del sondaggio).
Attraverso il sondaggio, il Cavaliere rilanciò il rapporto diretto tra politica e cittadinanza, esauritosi negli ultimi anni dopo almeno due decenni di saldo binomio. I quesiti rivolti agli italiani, nonché i programmi sui canali Mediaset, erano il modo per entrare nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Una presenza non più fisica ma comunque percepibile, che alimentava i culti del bello, del vincente e del consumo tanto cari agli italiani di fine millennio. Si era di fronte all’ascesa del partito personale, guidato da capi più che da leader, che culminò nella vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994 e nella conseguente nascita del primo governo Berlusconi. Ne seguirono altri tre, in carica dal 2001 al 2011 (esclusa la parentesi del Prodi II, alla guida dell’Italia tra il 2006 e il 2008).
I rapporti con la mafia
Silvio Berlusconi era ritornato a far parlar di sé lo scorso marzo, quando dalla procura fiorentina è stato prodotto un documento in cui si accerta come indecifrabile l’origine di 70 miliardi di lire – versati per la maggior parte in contanti – che tra il febbraio 1977 e il dicembre 1980 hanno riempito le casse delle società guidate dall’imprenditore milanese. Nella relazione scritta dai consulenti dei magistrati fiorentini, vengono riesaminate quelle operazioni anomale presentate già al Processo a carico dell’ex braccio destro del Cavaliere, Marcello Dell’Utri, riconosciuto e dunque condannato nel 2014 come mediatore tra i vertici della mafia palermitana e Silvio Berlusconi. In quell’occasione, la Corte di Cassazione scrisse che “grazie all’opera di intermediazione svolta da Dell’Utri veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata da Cosa Nostra palermitana. Tale accordo era fonte di reciproco vantaggio per le parti che a esso avevano aderito grazie all’impegno profuso da Dell’Utri: per Silvio Berlusconi esso consisteva nella protezione complessiva sia sul versante personale che su quello economico; per la consorteria mafiosa si traduceva invece nel conseguimento di rilevanti profitti di natura patrimoniale. Tale patto non era stato preceduto da azioni intimidatorie di Cosa Nostra palermitana in danno di Silvio Berlusconi e costituiva piuttosto l’espressione di una certa espressa propensione a monetizzare per quanto possibile il rischio cui era esposto”.
Il patto fu stipulato nel 1974, in occasione di un incontro tenutosi a Milano tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, l’allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontate (rappresentante della fazione palermitana) e il mafioso Francesco di Carlo. Un accordo rimasto effettivo fino al 1992, sopravvissuto perfino all’esito della Seconda guerra di mafia, quando i corleonesi di Riina sconfissero i palermitani di Bontate. I magistrati di Firenze pongono poi la loro lente sui continui versamenti di denaro effettuati da Berlusconi a Dell’Utri nel corso dell’ultimo decennio. La consulenza individua una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per 28 milioni di euro. Difficile poter appurare le reali motivazioni sottese ai versamenti; una nota della DIA, inserita nella relazione, mette nero su bianco che è “sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l’assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza, per quanto riguarda l’ultimo periodo”, dovuta dal Cavaliere all’ex senatore “per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi“.
Il mandato (in)compiuto
Le campagne elettorali di Silvio Berlusconi si ricordano, tra le varie cose, anche per le sognanti promesse agli elettori. Celebri le dichiarazioni sulle pensioni a mille euro o sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto, su cui di recente è tornato a discutere il governo Meloni per aggiungere un nuovo capitolo alla sua storia infinita. Anche nel programma presentato alle ultime elezioni da Forza Italia c’è stato spazio per una serie di progetti (da miliardi di euro) relativi a giovani, infrastrutture scolastiche e sgravi fiscali. Questo dopo aver condotto, durante le esperienze alla guida dell’Italia, una sorta di caccia alle streghe verso la cultura. Si pensi alla manovra economica, in discussione al Parlamento durante il Berlusconi IV, che conteneva un articolo riguardante l’eliminazione di alcune istituzioni culturali. Tra queste, l’Ente teatrale italiano, nato nel 1942 e soppresso con il decreto-legge n. 78 del 31 maggio 2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”. La manovra prevedeva inizialmente la riduzione del 50% del contributo pubblico per altri 232 tra enti, istituzioni, fondazioni culturali e centri di ricerca. Il tutto a fronte di un ritorno nelle casse dello Stato di nemmeno 20 milioni di euro, cifra che copre appena l’assegno di fine mandato (o liquidazione) di 450 deputati.
Da buon fondatore di un partito personale, Silvio Berlusconi ha poi cercato di trasformare la Repubblica parlamentare italiana in presidenziale. Un impegno vano dal 1995, anno in cui rivelò alla Camera dei Deputati la sua idea, ripresa anche la scorsa estate. Durante le campagne elettorali del nuovo millennio, Silvio Berlusconi promise poi di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutelava i dipendenti dall’essere licenziati senza una giusta causa. Un obiettivo sì raggiunto ma dal governo di centrosinistra di Matteo Renzi, dopo che l’esecutivo tecnico di Mario Monti aveva iniziato a intaccare la norma. Lo stesso esecutivo che era stato chiamato a sostituire l’ultimo governo Berlusconi su pressione di Bruxelles, in quello che è passato alla storia come il “golpe bianco” della Banca Centrale Europea (BCE). Era l’estate del 2011: l’Italia si ritrovava a fare i conti con la furia speculativa contro i titoli di stato quando dall’Unione europea arrivò una lettera che intimava al governo “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e privatizzazioni su larga scala”. Giulio Tremonti, l’allora ministro dell’Economia, dichiarerà successivamente che quell’estate il suo governo ricevette due lettere minatorie: una da un gruppo terroristico, l’altra dalla BCE. «Quella della BCE era peggio», aggiunse sarcasticamente. Ad ogni modo, dopo la lettera, l’esecutivo Berlusconi IV annunciò una serie di riforme strutturali e di tagli di bilancio per cercare di “rassicurare” sia i mercati sia l’Unione europea, tuttavia i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani continuarono a salire. Il panico per un eventuale default dell’Italia avvolse l’opinione pubblica; il 10 novembre 2011 Berlusconi perse la maggioranza in Parlamento e quattro giorni dopo rassegnò le dimissioni.
Durante i suoi quattro mandati, sono state varate decine di leggi ad personam, ovvero dei provvedimenti che hanno beneficiato direttamente il Cavaliere o una delle sue aziende. Una delle prime leggi adottate durante il soggiorno a Palazzo Chigi del 1994 fu il cosiddetto decreto Biondi, che vietava la custodia cautelare in carcere per i reati contro la pubblica amministrazione e quelli finanziari. Mentre l’atto veniva approvato dal Consiglio dei ministri, alcuni ufficiali della Guardia di Finanza stavano confessando di essere stati corrotti da quattro società del gruppo Fininvest. Il provvedimento impedì l’arresto dei responsabili, provocando la scarcerazione di 2764 detenuti, 350 dei quali coinvolti in Tangentopoli. Nel 2002, invece, su Berlusconi pendevano cinque processi per falso in bilancio quando la sua maggioranza al governo approvò una legge che incaricava il governo di riformare i reati societari: il risultato fu la cancellazione di tutti i processi relativi alla materia. Nel 2010, durante l’ultima esperienza a capo di Palazzo Chigi, il Cavaliere fece approvare una legge che rese automatico il “legittimo impedimento” a comparire nelle udienze per sé stesso e i suoi ministri per una durata di 6 mesi, prorogabili a 18.
La “diplomazia del cucù”
Silvio Berlusconi si è più volte detto soddisfatto della propria politica estera, caratterizzata dalla cosiddetta “diplomazia del cucù” e dunque dall’atteggiamento goliardico adottato nelle riunioni internazionali perché «rendeva più di quello freddo e formale». Il reale obiettivo della “politica dell’amicizia” era quello di far diventare l’Italia il ponte di collegamento tra Washington e Mosca. Il 28 maggio 2002 si tenne a Roma, su insistenza di Berlusconi, quella che viene considerata la fine della contrapposizione che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda: il vertice NATO in presenza del presidente russo Vladimir Putin, di cui è diventata celebre la foto della stretta di mano col presidente statunitense George W. Bush, proprio su intercessione di Berlusconi. In quell’occasione, a meno di un anno dall’11 settembre 2001, venne inaugurata una nuova visione degli equilibri mondiali, basata sulla lotta comune al terrorismo. Nella realtà dei fatti, però, il rapporto tra Washington e Mosca non ha mai abbandonato le tensioni da guerra fredda. In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, l’ex presidente del Consiglio ha cercato di far leva sulla storica amicizia con Putin per tentare la soluzione diplomatica al conflitto, attirando critiche dall’Italia e dagli Stati Uniti.
Celebre e chiacchierato fu, invece, il rapporto di amicizia con il dittatore libico Muammar Gheddafi. Il primo incontro ufficiale avvenne nel 2002, quando Berlusconi era presidente del Consiglio italiano. In quell’occasione, Gheddafi fu ricevuto con tutti gli onori a Roma, dove pronunciò un discorso di ammirazione per il Cavaliere e l’Italia, auspicando un avvicinamento politico che in effetti avvenne nel corso del decennio successivo. Vennero siglati diversi accordi tra i due Paesi, riguardanti ad esempio la gestione dei flussi migratori e la lotta al terrorismo. Il 30 agosto 2008 fu firmato a Bengasi un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione. Fu proprio in virtù di questo patto che Muammar Gheddafi indirizzò la sua ultima lettera, prima della cattura e dell’assassinio, all’amico Silvio Berlusconi. Nella missiva, veniva chiesto al presidente italiano di esercitare pressioni sulla NATO per fermare i bombardamenti sulla Libia. «Avrei sperato che da parte tua ti interessassi almeno ai fatti e che tentassi una mediazione prima di dare il tuo sostegno a questa guerra» […] «ma credo che tu abbia ancora la possibilità di fare marcia indietro e di far prevalere l’interesse dei nostri popoli», scrisse Gheddafi per poi concludere: «Spero che Dio onnipotente ti guiderà sul cammino della giustizia». Berlusconi però, stretto tra la morsa dei mercati internazionali e della volontà imperialistica della Francia e della NATO, finì col supportare l’operazione, concordando sulla necessità di una “pressione supplementare” su Muammar Gheddafi.
Con la morte di Silvio Berlusconi si chiude un cerchio, lungo decenni, della politica italiana. Sulle macerie della Prima Repubblica, l’imprenditore milanese si è affermato come guida di un popolo che non aspettava altro che un nuovo modello da seguire, un sogno per cui lavorare duro e sopportare il mito della carriera. «Gli anni ’80 sono uno stato mentale: possono tornare e durare per sempre», ripete Leonardo Notte (Stefano Accorsi) in 1992. In televisione e in politica, la vendita dei sogni e dei bisogni da soddisfare ha dato i suoi frutti, tanto da assicurare al Cavaliere quattro mandati e ampi consensi tra la popolazione, alla disperata ricerca di un anestetizzante per affrontare la vita. [di Salvatore Toscano]
Silvio Berlusconi, le visite del Padrino e la retta annuale: “Cinquanta milioni per la protezione”. Lirio Abbate su La Repubblica il 13 Giugno 2023
Negli anni 70 l'incontro con Bontate e l'amico Dell'Utri. E l'invio di Mangano come stalliere perché era terrorizzato dai sequestri di persona
Negli anni Settanta Silvio Berlusconi era terrorizzato dai sequestri di persona e aveva chiesto protezione a Cosa nostra. Era così preoccupato che non pensò affatto di rivolgersi alle forze dell'ordine, ma al suo amico Marcello Dell'Utri che a sua volta gli portò in casa il più importante dei "padrini" palermitani: Stefano Bontate.
E Berlusconi gradì molto quella visita e la soluzione che Cosa nostra gli prospettò.
È morto Silvio Berlusconi, il tramonto di un’epoca. Il leader di Forza Italia aveva 86 anni ed era stato ricoverato nei giorni scorsi. Enrico Bellavia su L'Espresso il 13 Giugno 2023
Cala il sipario su un’esistenza controversa che ha incrociato la storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Silvio Berlusconi è morto a 86 anni, dopo un secondo ricovero al San Raffaele. Il leader di Forza Italia era stato dimesso il 19 maggio scorso dopo 45 giorni tra terapia intensiva e degenza per complicazioni di un’infezione legata alla sua patologia. Era tornato in ospedale il 9 giugno alla vigilia di un vertice di partito per l’aggravarsi del quadro cardiovascolare.
Lo stato di salute, del resto, era già compromesso per il lungo strascico delle conseguenze post Covid che già nei mesi scorsi lo avevano condotto più volte al ricovero.
IL DOSSIER
Quella del politico, fondatore e capo indiscusso di Forza Italia, con intorno una corte di fedelissimi, soggetti a ricambi periodici, è stata l’ultima vita, dal 1994 in poi, del quattro volte presidente del Consiglio.
Prima e anche durante, nonostante il formale distacco dalle cariche aziendali, c’è stata la l’ascesa tanto formidabile quanto opaca dell’uomo che ha scardinato il monopolio televisivo della Rai. Che ha creato l’impero Mediaset consegnandolo nelle mani dei figli Marina e Piersilvio all’alba della famigerata discesa in campo.
Dagli esordi come imprenditore delle tv alla discesa in campo, dalla politica agli affari. Così l'Espresso ha messo Silvio in prima pagina
Che ha impresso un profondo cambiamento nella società italiana e che ha fatturato l’onda lunga di quel successo, tirandosi fuori dallo tsunami seguito alla dissoluzione dei partiti tradizionali per gli effetti della stagione di Tangentopoli nel 1992 smettendo i panni del munifico finanziatore e indossando quelli dell’uomo di governo. Scelta necessaria. Funzionale alla difesa dei propri interessi. Da qui la creazione del partito con l’ambizione di guidare il Paese.
Con l’infittirsi dei colpi giudiziari che hanno riguardato ogni aspetto delle sue attività, le controffensive si sono alimentate di leggi costruite apposta per fargli da scudo, stratagemmi per ritardare la celebrazione dei processi, interventi sul codice per spuntare le armi giuridiche brandite dai magistrati con i quali ha ingaggiato una campagna che non ha mai conosciuto momenti di tregua.
Il ritorno al Senato dopo le dimissioni per gli effetti della legge Severino, gli aveva regalato una sorta di rivincita ma era coinciso con un forte indebolimento della forza trainante della coalizione di centrodestra.
L’uomo che aveva sdoganato portando al governo i post missini di Alleanza nazionale, che aveva portato il furore leghista nella stanza dei bottoni, aveva dovuto incassare prima la smania di primato di Umberto Bossi e poi aveva dovuto mandare giù il boccone amaro della cessione della leadership del gruppo all’astro nascente Giorgia Meloni sul filo di nervi sempre tesi.
Come già in passato, a dettar legge nel partito era la cerchia ristretta, ora capeggiata dalla compagna, simbolicamente moglie, Marta Fascina, regista dell’ennesimo avvicendamento di incarichi ancora in corso di definizione. Il suo imprimatur a scelte prospettate e perseguite dall’inner circle, da tempo ormai, era la prassi per rendere operative le decisioni strategiche di una forza che un tempo faceva incetta di nuovi acquisti e si trovava adesso nelle basse fortune della diaspora inarrestabile.
Che la sua creatura fosse costantemente a un passo dalla dissoluzione, con lo spazio politico di volta in volta insidiato da nuove creature centriste, era insieme la sua paura e il suo cruccio.
Spavaldo al limite dell’improntitudine riusciva a utilizzare senza inibizioni tanto la leva della ragionevolezza quanto quella della minaccia pur di ritardare l’appuntamento con rese dei conti date sempre per definitive e puntualmente rinviate. Almeno quanto l’individuazione di un delfino, autenticamente corrispondente all’identikit che aveva disegnato sul proprio ritratto.
Al suo cospetto, tolti i fidati consiglieri, da Fedele Confalonieri a Marcello Dell’Utri fino a Gianni Letta, non riusciva a trovare mai uomini sufficientemente attrezzati a cui consegnare il testimone. Troppo grande gli era sembrata la sua impresa per incontrare un omologo più giovane in grado di emulare i propri talenti.
A partire da quello che in epoca di capitalismo rampante gli aveva riservato una piazza d’onore nell’empireo dei nuovi ricchi.
La forza dei soldi, del resto, è stata sempre dalla sua. E sulla capacità di trovarli e moltiplicarli ha fatto affidamento anche in politica. Gli era in soccorso l’esperienza degli esordi. Il debutto da palazzinaro, l’incetta di aree, la discutibile origine delle proprie fortune, a partire dal finanziamento delle proprie avventure, i 20 miliardi di lire che boss del calibro di Giuseppe Graviano con obliqui messaggi rivendicavano come loro, la paura dei sequestri e l’accoglienza riservata allo stalliere palermitano Vittorio Mangano, emissario delle cosche siciliane. La P2 e poi l’appoggio del Psi di Craxi, il benevolo via libera all’espansione di quella che agli inizi era solo una tv via cavo per gli inquilini del nuovo sogno edilizio meneghino. Il biscione e la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. L’acquisto del Milan nel 1986.
Quindi l’avvento di Mani pulite, la spasmodica ricerca di un leader al quale affidare il traghettamento sulla fine del millennio del proprio impero, fino alla decisione di fondare un partito e provare a sbancare il Parlamento con il mito dell’uomo nuovo. In mezzo, molte inchieste e processi, condanne, leggi ad personam, il rumoroso divorzio dalla moglie, lo spacchettamento del tesoro di famiglia e la promozione in Parlamento di sodali, compari, amici e amiche. L’amicizia con Putin, quello strizzare l’occhio agli uomini forti a qualunque latitudine. Fino al tramonto della sua stella politica con la cessione della leadership del centrodestra a Matteo Salvini e l’appoggio sofferto al governo Draghi. Quindi il vassallaggio obbligato a Giorgia Meloni.
Gli scandali, l’amicizia, nel complice silenzio, con Marcello Dell’Utri, le olgettine e le cene eleganti, sono il contorno di una concezione del potere che passa per quella che Giuseppe D’Avanzo gli imputò come dismisura, ovvero la cifra dell’eccesso di comando. Le barzellette sconce e le figuracce internazionali, le pietose bugie restano in fondo a una storia che iniziò con un revolver sulla scrivania del suo ufficio nel 1977, immortalato in uno dei primi scatti della sua vita pubblica dal fotografo Alberto Roveri. Invano per anni, tra quintali di faldoni, quando i riflettori si erano accesi da un pezzo e cerone e filtri già ne ritoccavano il volto, cercarono in tanti la prova regina, la pistola fumante che lo portasse ai margini della vita pubblica consegnandolo all’irrilevanza del vinto.
Grazie a mille sotterfugi e a diecimila astuzie quella pistola si è solo intravista. Consegnandolo forse al mito dell’archetipo italiano dell’impunito.
Silvio Berlusconi e la mafia: vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla). Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018
Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella campagna elettorale
C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.
Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico.
Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.
Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…).
Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998».
Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio. La pena è ridotta a sette anni di reclusione.
La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione.
La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.
Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo.
Mangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976.
Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti.
Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…)
In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».
IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA
Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani.
Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica.
Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi».
Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri».
«Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.»
Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”».
Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti».
Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”».
L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).
SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO
Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive.
Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose.
Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova.
Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi.
Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.
IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA
Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento.
(…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…).
Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…)
Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…)
La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia».
Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa.
Ogni pentito parla di anni specifici, mentre ignora cosa succede prima o dopo, e quantifica solo la cifra incassata dal proprio clan, che varia nel corso del tempo. In particolare, Di Carlo rivela l’accordo del 1974 e il ruolo di Mangano; gli altri pentiti legati a Bontate confermano i pagamenti fino alla sua morte, nel 1981; Ganci, Anzelmo e Galliano descrivono i pagamenti degli anni Ottanta, nell’era dei corleonesi; Ferrante parla di un periodo ancora successivo, dal 1988 al 1992. Soltanto i giudici possono unire i singoli tasselli di verità e ricostruire un quadro d’insieme, che si rivela rigorosamente in linea con le regole e le logiche di Cosa nostra. Un mosaico completato da riscontri oggettivi, in alcuni casi letteralmente esplosivi. Come gli attentati mai denunciati da Berlusconi.
LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO
Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia.
Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire.
Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra.
«L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»
L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.
Trent’anni più uno. Le tristi celebrazioni per la strage di Capaci e l’illusione che la mafia sia cambiata. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 2 Giugno 2023
Per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone le cerimonie sono state più fiacche del solito, perché non faceva cifra tonda. Eppure era il primo anniversario successivo all’arresto di Messina Denaro, che mette la Sicilia di fronte alle sue responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata
Ma sì, fatemi scrivere qualcosa sull’anniversario della strage di Capaci. Ma come, qualcuno obietterà, oggi? che è già giugno? Non ci potevi pensare una settimana prima, dieci giorni fa, che adesso noi si parla d’altro?
No, ci penso adesso che non ci pensa più nessuno, che sono terminate le celebrazioni, anche quest’anno, di quel 23 maggio dell’ora e sempre. Che poi sono state celebrazioni tristi, quelle per Giovanni Falcone e co., perché era il trentunesimo anniversario, e i numeri primi nella retorica delle commemorazioni non sono mai popolari. L’anno scorso sì che era bello: 1992-2022, l’ho letto dappertutto, insieme a «per sempre con noi», «per non dimenticare». Solo che il per sempre non esiste neanche in amore, pensa te nell’antimafia. E poi, abbiamo già dimenticato dove eravamo ieri, figurati il resto.
Sì, vorrei scrivere qualcosa su questo anniversario, sull’aria malinconica che c’era in queste manifestazioni in tono minore, con sindaci, politici, militanti, dirigenti, influencer e testimonial che si guardavano per dire, e adesso? Chi ci arriva al qurantennale? O magari, un po’ prima, al trentacinquesimo? E come ci arriviamo, soprattutto? Qui bisogna inventarsi qualcosa. E infatti a Palermo sono riusciti a trasformare il corteo in un pomeriggio ad alta tensione, con la polizia che ha caricato le persone che manifestavano. Le manganellate ai cortei antimafia. Ecco, questa mancava.
A proposito. Nella mia città, Marsala, al sindaco qualcuno avrà spiegato che c’è una sorta di tara che garantisce l’impunità ogni tot di manifestazioni antimafia che si organizzano. Solo così si giustifica la quantità di incontri con magistrati, giornalisti, scrittori, tutti rigorosamente antimafia, organizzati nel 2022. E le intitolazioni, soprattutto. Piazze, larghi, vie, rotonde, un intero quartiere popolare, il rione Sappusi, che è un grande luogo di spaccio a cielo aperto. Magari erano convinti che i nomi dei poliziotti della scorta di Falcone o di Borsellino aiutassero a reprimere il fenomeno. È finita con le targhette delle vie scollate dopo un po’, come fragili post-it, mentre il crack continua a girare bellamente.
E quindi, sì, mi fa tenerezza il mio Sindaco che ancora, nel 2023, organizza le manifestazioni per il «trentennale delle stragi», vorrebbe che non finissero mai, e l’altra volta sono entrato nella sua stanza e c’erano nello scaffale tutti i libri presentati quest’anno, le biografie, gli illustri saggi, sempre a tema mafia, antimafia e dintorni, ed erano messi con la copertina in evidenza, nel modo opposto, insomma, che tutti conosciamo su come si mettono i libri in una libreria, quasi a voler creare uno scudo. I libri a questo servono, ormai, non a essere letti, ma a essere esposti, come un altarino.
A Castelvetrano è stata esposta anche la teca che contiene i resti della Quarto Savona Quindici, l’auto di scorta del giudice Falcone. La vulcanica Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonino, gira l’Italia con questo cubo trasparente, portandola come testimonianza della violenza mafiosa.
La teca con i rottami dell’auto è stata collocata nella piazza centrale della città, che è la città dei Messina Denaro, per un paio di giorni, con le scuole in pellegrinaggio tipo La Mecca, e le autorità e loro accompagnamenti vari. Pure il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è arrivato, la prima mattina, ma il fatto è che poi, verso le 13, è andato a pranzo, ed è rimasto in piazza tutto l’apparato di sicurezza, i carabinieri, i poliziotti, si sono fatti tutti un po’ più rilassati, come quando aspetti la campanella che svuota la classe, e allora hanno cominciato a farsi i selfie davanti la teca dell’auto, uno, due, tre foto ricordo e ho pensato a Padre Puglisi, anzi al Beato Padre Puglisi, che non ha pace neanche da morto, gli hanno tagliato dei pezzetti, e le teche con i «frammenti sacri» del suo corpo girano per la Sicilia, e la gente le bacia, le tocca con il fazzoletto bianco, chiede una grazia, la grazia dell’antimafia. Magari si fanno anche loro un selfie. E con questi selfie, come il mio sindaco, si fanno un altarino, da qualche parte.
Ma, dicevamo di Piantedosi, che è arrivato a Castelvetrano, poi a Palermo, per dire una cosa banale: «La mafia è cambiata». È il nuovo refrain, dato che non si può più dire: «Stiamo facendo terra bruciata intorno a Messina Denaro», ora che l’hai preso davvero. La mafia è cambiata. Ma quando mai. È sempre la stessa. È tornata quella di prima, semmai, ma da tempo, dopo l’ultima strage, roba di un’era mafiologica fa. Ed è sempre quella, la mafia, silenziosa, invisibile, borghese.
Forse è questa la condanna che dobbiamo scontare, mi dico:
Ogni anno ricordare Capaci.
Ogni anno sentire come una fitta nel cuore.
Ogni anno manifestare.
Ogni anno ascoltare ministri dire sempre le stesse cose.
Si è persa un’occasione, in questo anniversario del trentunesimo. Perché bastava un po’ di impegno per accorgersi che era in realtà il trentesimo più uno, che si celebrava. Perché è il primo anno che ricordiamo la strage di Capaci, ma con Messina Denaro dentro, il più pericoloso dei latitanti, l’ultimo dei Corleonesi, e questo ci dovrebbe spingere a cambiare tutto, anche il nostro modo di ricordare e commemorare, ed invece sembra quasi a volte – perdonatemi – che ci manca più Messina Denaro che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, a noi altri, perché fin quando il boss era libero e fuori, noi si aveva l’alibi per parlare del grande cattivo che muove i fili, del male che si aggira per la Sicilia e l’Italia, per toccare i tasti facili della caccia all’uomo. E adesso che il grande cattivo è dentro, nemici non ce ne sono più, e siamo orfani. Ci resta solo la memoria, che è una brutta bestia quando è lasciata solo alla nostra responsabilità, quando non abbiamo più qualcuno con cui prendercela.
Si poteva dire: sono i 30 anni+1 dalla strage di Capaci, con l’arresto di Messina Denaro siamo all’anno zero. Aboliamo allora la parola antimafia, cominciamo a parlare di responsabilità. Aboliamo le manifestazioni con le scuole intruppate e torniamo a farli studiare, questi giovani, che non sanno nulla, perché nulla gli insegniamo. Seppelliamo i resti dei nostri morti. Torniamo a considerare la memoria come qualcosa in movimento perenne, di vivo, una specie di pianta che va nutrita, e non un fossile da museo, un ritratto da appendere alle pareti, un oggetto di modernariato per fare bella figura nei nostri salotti.
Invece siamo tornati nel loop, nella comfort zone, solo che adesso è più triste. Ci vuole un pensiero sovversivo, per cambiare la lotta alla mafia, oggi, un atteggiamento diverso, radicalmente opposto, un ribaltamento del tavolo. Abbandonare soprattutto la retorica della speranza, della terra che cambia. Ecco, l’ho detto. «Lasciate ogni speranza o voi che è entrate» è l’iscrizione che Dante Alighieri trova all’ingresso dell’Inferno, nella sua Commedia. Mi ricordo che nel mio manuale di letteratura, al liceo, la nota di testo parlava di una «terrificante scritta».
Non so, ma a me, nell’anno 30+1, questa frase non mette paura. Mette pace. «Lasciate ogni speranza o voi che entrate» la vorrei vedere scritta all’ingresso del Paradiso. Perché la speranza è un inganno, in nome della speranza di una Sicilia libera dalla mafia in questi anni sono stati compiuti anche i più gravi misfatti. E allora mi piacerebbe che un giorno quest’isola mia fosse un paradiso, cioè un luogo dove non c’è bisogno di speranza, la puoi lasciare all’ingresso, perché già c’è tutto: le strade che non crollano, il lavoro, le scuole con le mense, persino i treni (in quel caso l’unica speranza sarebbe quella che arrivino in orario, anziché, come ora, che magari intanto arrivino).
«Lasciate ogni speranza o voi che entrate», non pensate che sarebbe un bel manifesto per una nuova antimafia? Lasciate ogni speranza, le ideologie, gli slogan. State semplicemente nelle cose, vivete il quotidiano, senza fretta. Siate oggi, qui, attenti, sereni, responsabili, per il trentunesimo anniversario, come per il trentaduesimo, per il 23 maggio, come per il 24, e il 19 e il 20 e il 21 luglio, e anche il 30 febbraio se dovesse esistere, un giorno, lasciate anche lì che non entri con voi la speranza.
Ma poi speranza di che? Che arrivino i giudici, i buoni, la cavalleria, i martiri, l’esercito, gli eroi, le vittime, i sacrificati, i «fautori della svolta», i preti-coraggio, i giornalisti scortati, le reliquie, le teche, i ministri? Costruitelo voi, questo benedetto cambiamento che volete vedere nel mondo.
Di Pietro racconta ‘Tangentopoli’. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Da CARMEN SEPEDE su isnews.it il 17 Dicembre 2018
Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di ‘Mani pulite’ ha fatto nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta
Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool ‘Mani pulite’, oggi a Campobasso, nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese. ‘Tangentopoli’ e i rapporti tra Stato e mafia.
“Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.
Al suo fianco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco.
“Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò ‘Mani pulite’ è riuscita solo per metà”.
Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. “Arrivava dall’ufficio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho rifiutato, perché se avessi accettato sarei stato un ‘padreterno’, ma corrotto”.
L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il ‘dipietrese doc’ – che non so una parola di inglese”.
Se ‘Mani pulite è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”.
Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del ‘Pilla’ Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l’ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.
Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro – e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.
Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 28 maggio 2023.
Siamo ormai un paese piombato in un clima surreale. Ieri cercavamo esecutori e mandanti delle bombe del 1993 messe a Milano, Firenze e a Roma e che procurarono morti e feriti. Oggi che abbiamo arrestato l’ultimo dei mandanti (Messina Denaro) un bravo pubblico ministero, Luca Tescaroli, autore della requisitoria nel processo per la strage di Capaci svoltosi a Caltanissetta, si domanda come mai le bombe sono improvvisamente finite ed i mafiologi di professione gli fanno eco.
Domande surreali per chi conosce i fatti anche se legittime per chi vive nella nuvola dei mandanti occulti, una sorta di “entità centrale” come irresponsabilmente ha detto Pietro Grasso senatore della Repubblica. Vorremmo aiutare Tescaroli a dipanare quella matassa che incatena la sua tradizionale lucidità e bacchettando anche quelli che attaccano lo Stato senza fare nomi e cognomi.
Dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio fu inviato a tutte le autorità un anonimo in cui si diceva quel che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Dobbiamo alla intelligenza politica del senatore comunista Lucio Libertini se abbiamo ancora quell’anonimo scritto sottomano perché venne trasformato per intero in una interrogazione parlamentare. In quello scritto si diceva che dopo altri omicidi e confusione l’offensiva della mafia si sarebbe fatta più forte sino ad ottenere alcuni risultati. E così avvenne. Nel novembre del1993, dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma, il ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Conso, liberò dal carcere duro ( il famoso 41 bis ) trecento mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti e da quel momento il ministero dell’interno, grazie ad una gestione lassista dei programmi di protezione da parte di una commissione di cui ancora oggi non si conoscono i nomi, liberò sino al 2005 ben 10 mila mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti come ci venne comunicato dal ministro Mastella rispondendo ad una nostra interrogazione parlamentare.
Quella gestione lassista fu tale innanzitutto negli anni novanta quando il parlamento, inorridito da quel che si vedeva e si sentiva, nel 1999 approvò una modifica per cui i pentiti avrebbero dovuto comunque scontare un terzo della pena prima di avere i benefici della normativa premiale. Nel frattempo però gli assassini di Falcone, eccezion fatta di Giovanni Brusca, erano già usciti dal carcere. Senza dilungarci vorremmo suggerire a Luca Tescaroli qualche considerazione. L’uscita di 300 mafiosi dal 41 bis e, da quella data, il via libera della commissione ministeriale ad una gestione molto permissiva dei programmi di protezione con i risultati ricordati non sono motivi sufficienti a mettere fine alle bombe?
Che altro potevano aspettarsi i mafiosi da una folle politica stragista che certo non poteva continuare all’infinito? Lo stesso mancato scoppio della bomba messa all’Olimpico a nostro giudizio non fu un errore ma un messaggio preciso di come quelle scelte fatte dal governo aveva evitato un’altra strage. Forse bisognerebbe capire più a fondo chi durante il governo Ciampi, e poi successivamente, mosse i fili perché a quelle bombe si rispondesse liberando migliaia di pentiti e togliendo 300 irriducibili dal carcere duro. Ma questo forse è più compito degli storici che di un pubblico ministero ancorché bravo come Luca Tescaroli. Ma dopo trent’anni non sarebbe utile e saggio smettere di alludere permanentemente a contiguità criminali di tutto ciò che è alternativo alla sinistra?
E non forse sarebbe altrettanto utile e saggio denunciare l’ignobile costume di quanti affermano la collusione dello Stato con pezzi della criminalità senza mai fare nomi e cognomi? La politica recuperi visioni e qualità di comportamenti se vuole riprendere quel primato da tempo smarrito. Il paese ne ha veramente bisogno.
Dossier Mafia-Appalti. Non sapremo mai come andò. Un mese è già trascorso dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia. Eppure, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano di un millimetro. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Maggio 2023
Non deve essere per nulla facile, dopo averla cavalcata per anni, vedere l’inchiesta che ti ha portato successo e visibilità sciogliersi come neve al sole. A distanza di un mese dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano un millimetro e continuano imperterriti nella tesi dei “mandanti occulti” dietro le stragi del 1992-93. Chi contraddice questa narrazione, finalizzata a metter in “ombra le dichiarazione di Giuseppe Graviano sulle presunte responsabilità stragiste di Silvio Berlusconi” lo farebbe utilizzando come “arma di distrazione di massa” l’inchiesta mafia appalti, archiviata il 13 luglio 1992 da Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s e all’epoca Pm del processo Trattativa.
Per “mafia e appalti” si intende il rapporto giudiziario che venne depositato dai carabinieri del Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991 sulla “mafia imprenditrice” la quale, invece di imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, era diventata essa stessa imprenditrice con società riferibili ad appartenenti a Cosa nostra. Nel rapporto del Ros si affrontava soltanto la prima fase, quella della aggiudicazione delle commesse pubbliche, attorno ad un tavolo denominato “tavolo di Siino”, da Angelo Siino, poi diventato collaboratore di giustizia e definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ma, più precisamente, dei corleonesi.
Roberto Scarpinato, che firmò l’archiviazione di questo fascicolo, a cui teneva molto Paolo Borsellino, affermò che le indagini erano state fatte “in parte con le intercettazioni dell’Alto commissariato, in parte con intercettazioni che erano state fatte dall’ufficio istruzione”. Entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale tutti i filoni confluirono in unico procedimento.
Nel febbraio del 1991, il Ros depositò allora un’informativa, circa 900 pagine con intercettazioni, riepilogativa delle indagini che erano state fatte.
Scarpinato disse che le intercettazioni “erano state autorizzate in altri procedimenti per il reato di cui all’articolo 416 bis codice penale. Quindi per la normativa del tempo non potevano essere utilizzati in altri procedimenti se non a carico di soggetti indagati per il reato di cui all’articolo 416 bis secondo comma promotori organizzatori non per i semplici partecipi”.
Ferma restando l’inutilizzabilità, ai fini di prova, delle intercettazioni effettuate dall’Alto commissariato, le intercettazioni autorizzate con il vecchio codice (quindi prima del 24 ottobre 1989) dal giudice istruttore avrebbero potuto essere utilizzate anche nei procedimenti disciplinati da quello nuovo. L’articolo 242 delle norme transitorie aveva infatti precisato che si dovesse continuare ad applicare il vecchio codice nei casi tassativi ivi previsti.
Alla pagina 5 della richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992, firmata da Scarpinato, si legge che “non si erano, prima del 24 ottobre 1989 realizzate le condizioni prescritte dall’art. 242 delle norme di attuazione del c.p.p. per il proseguimento dell’istruttoria con il rito abrogato. Di conseguenza, gli atti dianzi indicati e le relative intercettazioni confluivano nel procedimento 2789/90 N.C. già instaurato secondo le regole del nuovo rito”. Dalla medesima richiesta di archiviazione (pagina 2) risulta che le intercettazioni “confluite” nel procedimento nuovo rito 2789/90 erano diverse, come ad esempio quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) relative alla vicenda Baucina/Giaccone, quelle nel procedimento 1020/88 (vecchio rito) relative alla vicenda SIRAP e al ruolo di Angelo Siino, o quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) pendente davanti al giudice istruttore contro Giuseppe Giaccone per la vicenda Baucina.
Dalla pagina 6 della richiesta di archiviazione risulta altresì che al procedimento 2789/90 venivano acquisiti copia degli atti dei fascicoli più importanti, come le audizioni della Commissione regionale antimafia dedicata alla situazione dei Comuni delle Madonie.
Pertanto, tutte le intercettazioni effettuate nella vigenza del vecchio rito, fatte tutte “confluire” nel procedimento 2789/90 nuovo rito, erano senz’altro utilizzabili per come scritto da Scarpinato nella richiesta di archiviazione. Paolo Pandolfini
La giustizia che funziona. Magistrati alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia: la storia dei pm fiorentini. Matteo Renzi su Il Riformista il 30 Maggio 2023
Ricordare il trentennale della strage dei Georgofili è stato per i fiorentini come me un tuffo al cuore. La camminata notturna tra Palazzo Vecchio e il luogo della strage ha visto la partecipazione di tanta gente, soprattutto giovani. E la cerimonia è stata impreziosita dalla presenza di Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta di Falcone, che ha trasmesso la sua grandezza d’animo a noi e ai ragazzi persino davanti alla Quarto Savona 15, l’auto su cui viaggiava il marito, totalmente distrutta dal tritolo di Giovanni Brusca, auto che la Polizia di Stato ha voluto esporre quest’anno sotto la Galleria degli Uffizi.
Il giorno dopo presso il Palazzo di Giustizia è arrivato il Presidente Mattarella. Dal palco si sono alternati il Presidente della Corte d’Appello, Nencini – cui va dato merito dell’ottima iniziativa – il procuratore nazionale antimafia Melillo, il professor Palazzo, la Prima Presidente della Cassazione Cassano, il Vice presidente Csm Pinelli, la Presidente della Corte di Cassazione Sciarra. Un parterre de roi che ha saputo riflettere e far riflettere in modo eccellente. E il ricordo sullo sfondo dei grandi Pm fiorentini. Mentre ascoltavo gli interventi pensavo a come Firenze abbia avuto una straordinaria storia di Pm credibili, integerrimi, capaci.
E molti erano presenti in sala: Crini, Nicolosi, Quattrocchi, la stessa Cassano. Qualcuno invece ci ha lasciato troppo presto a cominciare dai due magistrati che con coraggio indicarono la strada: Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Se la strage dei Georgofili non è rimasta impunita è perché allora a Firenze ci furono Pm straordinari, magistrati capaci alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia. La verità giudiziaria sui Georgofili è stata scritta perché c’erano loro. Persone serie che rendevano gli uffici giudiziari di Firenze un’eccellenza.
A questo serve una giustizia che funziona: a renderci orgogliosi di essere italiani. A prendere i veri colpevoli. A non confondere la verità giudiziaria con le proprie idee personali. Spesso le cattive abitudini di pochi di loro oscurano il lavoro dei tanti. E allora – nel ricordo dei Vigna, dei Chelazzi, dei bravi investigatori – si renda onore a quei Pm che fanno
bene il loro dovere, anche oggi. Che i ragazzi delle scuole della magistratura possano conoscere la loro storia, la loro grandezza, la loro nobiltà.
Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista
I "torbidi retroscena”. L’ultima trovata dei Pm fiorentini contro Berlusconi e Dell’Utri: “Denegata strage” Tiziana Maiolo su L'Unità il 30 Maggio 2023
Siamo arrivati a contestare il reato di “denegata strage”, alla procura di Firenze. Perché ormai, dopo quattro archiviazioni, essendo ormai impossibile dimostrare il fatto che le bombe del 1993-94 hanno avuto come mandanti Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, si indaga per sapere come mai nel gennaio 1994, proprio alla vigilia delle elezioni vinte da Forza Italia, Cosa Nostra abbia abbassato le armi. Che cosa c’è dietro questa ”denegata strage”? Una risposta arriva dalla saggezza di un illustre pensionato.
Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia e già presidente del Senato, lo ha detto chiaro, domenica scorsa da Lucia Annunziata. L’ho chiesto io a Gaspare Spatuzza, dopo che lui aveva iniziato a collaborare con la magistratura. Come mai, gli ho domandato, come mai dopo che era fallito l’attentato allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, non ci avete riprovato? Perché, dopo quel giorno, sono cessate le bombe di Cosa Nostra? La sua risposta fu semplice: io prendevo ordini da Giuseppe Graviano, e quattro giorni dopo lui fu arrestato a Milano.
Erano stati i carabinieri, arrivati da Palermo al comando del capitano Marco Minicucci, a mettere le manette ai polsi del boss di Cosa Nostra e del fratello, mentre i due erano con le fidanzate al ristorante “Gigi il cacciatore”. Un’operazione pianificata e solo casualmente portata a termine nel capoluogo lombardo. Solo per quel motivo quindi, e perché i boss dei corleonesi uno dopo l’altro stavano entrando all’Ucciardone e nelle altre carceri a loro destinate, direttive per nuove stragi non ne arrivarono più. Lo Stato aveva vinto. Pure, di anniversario in anniversario, di comitato parenti vittime in comitato parenti vittime (due giorni fa si ricordava la data della strage di Brescia, 28 maggio 1974), non si placa l’ossessione di chi non si arrende alla realtà della sconfitta di Cosa Nostra a opera dello Stato.
Quella parte della storia non c’è più, fatevene una ragione. E spiace aver visto lo stesso Presidente Sergio Mattarella, nella stessa giornata in cui aveva impartito una bella lezione su don Milani e reso giustizia alla ministra Roccella dopo il silenzio della sinistra sull’assalto al suo libro, seduto ad applaudire ogni sciocchezza più o meno togata sulla strage dei Georgofili. Lì avrebbe avuto occasione, il Capo dello Stato, anche nella sua veste di numero uno del Csm, per menar vanto, per mostrare l’orgoglio di uno Stato più forte delle mafie e di una magistratura che sappia separare il grano dal loglio, i fatti dalle opinioni. I fatti sono che da tempo ogni bomba, ogni strage, ogni omicidio di mafia degli anni novanta ha avuto processi e condanne. Ogni tassello è andato al proprio posto.
Ma nel frattempo sui “torbidi retroscena” che aprono “inquietanti interrogativi”, refrain banale di chi “dà buoni consigli non potendo dare cattivo esempio”, si sono costruite carriere. Sciascia li chiamava professionisti dell’antimafia, noi li abbiamo soprannominati “fantasmi”, perché gli anni passati sono ormai trenta. Del resto non viviamo nel Paese che si sta ancora baloccando, questa volta insieme alla giustizia dello Stato Vaticano, sulla scomparsa di una povera bambina nel 1983? Per lo meno, in questo caso antico, il mistero esiste davvero, al contrario di quanto accaduto nei processi di mafia, dove i “pentiti” abbondano per numero e per loquela.
Prendiamo Gaspare Spatuzza, per esempio. Il collaboratore è considerato uno dei più attendibili, soprattutto dopo che, addossandosi la responsabilità di uno dei più gravi e simbolici delitti dei corleonesi, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, ha svelato il più grave complotto di Stato. Quello di chi, forze dell’ordine, magistrati e giornalisti, aveva voluto pervicacemente credere alla parola fasulla di Enzo Scarantino pur di offrire all’opinione pubblica una qualsiasi “verità” su quel delitto. Una comoda verità. Che ha però coinvolto persone innocenti e le ha tenute nelle carceri speciali per quindici anni. Più che “professionisti”, gli inquirenti del tempo sono stati degli incapaci. A voler essere generosi. A non voler applicare nei confronti di tutto il gruppo dei promotori ed estimatori del “processo trattativa” gli stessi metodi complottistici che loro hanno usato, e continuano a usare nei confronti degli altri.
Prendiamo il procuratore Tescaroli. Era giovane al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ventisette anni, ma aveva votato presto la sua attività, professionale e pubblicistica, a inseguire la dimostrazione del teorema che vuole i capitali delle società di Silvio Berlusconi inquinati dalla mafia. Un’intera carriera, partita da Caltanissetta per approdare a Firenze passando per Roma, che pare destinata solo agli insuccessi, se si eccettua una modesta vittoria su una causa di diffamazione. Addirittura, in questo gioco di specchi di fascicoli aperti e chiusi, lo stesso pm ha più di una volta chiesto l’archiviazione. E né Berlusconi né Marcello Dell’Utri sono mai arrivati a ricoprire l’habitus di imputati di stragi.
Perché è difficile dimostrare l’indimostrabile con la tessitura di un patchwork, fin dai tempi dell’operazione “Oceano”, messa in piedi da alcuni uomini della Direzione Nazionale Antimafia, l’organismo che ha onorato della sua attenzione il leader di Forza Italia non molto tempo dopo la propria nascita nel 1991. Ed è ancora la Dia un anno fa, a “rinverdire” le stanche indagini del dottor Tescaroli con un’informativa che, se gli efficienti uomini dell’antimafia lo consentono, fa un po’ ridere. Attraverso un confronto (cercato ossessivamente) tra le celle telefoniche e i cellulari, tentano di dimostrare che se in un certo periodo dell’estate Giuseppe Graviano era in Sardegna, sicuramente era vicino a Berlusconi. E che se il boss, o suoi parenti, erano in Toscana, magari da quelle parti c’era anche Dell’Utri o un suo congiunto.
Tutto fa brodo, perché chiuso un fascicolo se ne può aprire un altro. E si può sostenere senza pudore che, se ci fossero stati gli (indimostrabili) incontri, la coincidenza chiuderebbe il cerchio, perché proprio in quel periodo Berlusconi preparava la propria entrata in politica. Il regalino ai Due Luca procuratori, Turco e Tescaroli, porta la firma del primo dirigente della polizia di stato Francesco Nannucci. Il quale sarà deluso dal fatto che in un anno nulla sia stato dimostrato a supporto della sua non originale tesi. Anche perché nel frattempo hanno pensato bene a entrare in concorrenza con le spifferazioni di Stato sia Giuseppe Graviano dal palcoscenico del processo di Reggio Calabria “’Ndrangheta stragista” che Salvatore Baiardo in esibizione tv da Giletti e Ranucci, con le successive smentite su Tik Tok.
Esilarante prima e dopo. Così i pm specializzati in patchwork possono continuare a cucire i pezzetti scombinati dell’inchiesta eterna. Il procuratore aggiunto Tescaroli lamenta da sempre di non riuscire a far carriera perché è un inquisitore “scomodo”. Tanto da essersi fatto raccomandare, per arrivare alla posizione che occupa oggi, dall’ex magistrato Palamara (il terzo Luca della storia), come confermato dallo stesso, che fu il potente capo del sindacato delle toghe e membro del Csm, in una dichiarazione a Paolo Ferrari su Libero.
E non viene il dubbio, al procuratore aggiunto di Firenze, del fatto che forse un magistrato che non riesce a portare a termine le proprie indagini ma è costretto ad aprire e chiudere continuamente con archiviazioni sempre la stessa vicenda da trent’anni, non sia affatto “scomodo”, ma forse da biasimare? E non teme il ridicolo, essendo ormai ridotto a contestare il reato di “denegata strage”, per lasciare agli storici la propria verità? Tiziana Maiolo
I soliti deliri del pm anti Cav nell'anniversario della strage. Tescaroli in un libro per i 30 anni dell’attentato agli Uffizi di Firenze: "Bombe finite quando vinse lui". Felice Manti su Il Giornale il 27 Maggio 2023
L'anniversario di una strage diventa il pretesto per paventare un «nesso eziologico», un rapporto causa-effetto, tra la fine della strategia stragista della mafia e la vittoria di Silvio Berlusconi. Una pista investigativa battuta a vuoto resuscita, non con prove certe e verificate ma nella prefazione scritta dal pm Luca Tescaroli del libro Georgofili: le voci, i volti, il dolore a trent'anni dalla strage sulla bomba che esattamente 30 anni fa all'1:04 del 27 maggio 1993 sventrò via dei Georgofili nel cuore di Firenze. Con il sostituto procuratore Luca Turco, il pm indaga sui presunti «mandanti esterni» che pianificarono l'esplosione di un Fiorino imbottito con oltre 300 chili di tritolo a due passi da piazza della Signoria. Che sfregiò la Galleria degli Uffizi. Morirono Dario Capolicchio, Angela Fiume, Fabrizio e le figlie Nadia e Caterina, di soli 50 giorni. Per Cosa nostra furono condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Da anni si sostiene che ci sia un'unica regia dietro la stagione stragista iniziata per cancellare carcere duro e benefici ai pentiti. La morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli attentati di Roma a Maurizio Costanzo e alle basilica di San Giorgio al Velabro e San Giovanni, le bombe in via Palestro a Milano e appunto Firenze sarebbero legate anche al fallito attentato, il 23 gennaio 1994, allo stadio Olimpico. «Perché non venne più riproposto? - si chiede Tescaroli - Il 27 e il 28 marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale e lo stragismo si arenò». Come se la presunta trattativa tra lo Stato e i boss (smontata da sentenze recentissime) «fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali». Come a dire che quella vittoria non solo appagò i boss, ma fu favorita dalle bombe. Cosa aggiunge Tescaroli, che di recente ha nuovamente indagato Berlusconi e Marcello Dell'Utri? Che occorre continuare a indagare «per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso», plasticamente rappresentata dalla famigerata polaroid fantasma scattata nell'estate del 1992 che sarebbe in mano al manutengolo dei Graviano, Salvatore Baiardo. E che ritrarrebbe assieme Berlusconi, Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Baiardo è un propalatore di fesserie che va seminando a pagamento bugie e calunnie a Report e La7», dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri. E se questa vicenda fosse una bufala, che ne sarebbe della residua reputazione di chi gli ha dato credito, sui giornali, in tv e in Procura? Possibile che già nel '92 i boss trattassero con un Berlusconi imprenditore, disinteressato alla politica? È corretto che un magistrato riproponga su un libro uno scenario ampiamente smentito da indagini e sentenze? Ci sono segreti investigativi incautamente rivelati? Esiste un profilo di inopportunità, financo meritevole di un'indagine disciplinare? A Via Arenula e al Csm l'ardua sentenza. Altri pm come Antonino Di Matteo hanno passato dei guai per intemerate televisive più innocue. E dire che Tescaroli (penna del Fatto quotidiano) prese un clamoroso abbaglio - come Di Matteo - sul finto pentito Vincenzo Scarantino che lo depistò su Borsellino quando era a Caltanissetta («Nonostante questa sentenza noi gli crediamo ancora», disse il pm dopo l'ennesima assoluzione) e si impuntò sul ruolo di Bruno Contrada, prosciolto dalle accuse sul suo ruolo nelle stragi. A seguire ipotetiche ricostruzioni si sono persi trent'anni, mentre la verità sulle bombe di Capaci e via D'Amelio latitano e l'uccisione del giudice calabrese Antonino Scopelliti è senza verità. Oggi il Csm vuol capire se le toghe in Emilia-Romagna avrebbero chiuso un occhio sui rapporti tra Pd e boss. Invece l'antimafia si è ridotta a inseguire i fantasmi, a ipotizzare indicibili accordi tra Ros e mafia per la cattura di Messina Denaro. A blaterare di credibilità su Chiara Colosimo («Sconcertante che sia stata eletta all'Antimafia») come fa l'europarlamentare Pd Franco Roberti. Che come i suoi predecessori alla Procura antimafia (Pietro Grasso e Federico Cafiero de Raho) si è buttato in politica a sinistra? Tu chiamale, se vuoi, coincidenze.
Mai accettare ricostruzioni di comodo. La mafia, i falsi miti e i pm che hanno scelto di perdere la faccia: il Riformista voce fuori dal coro. Matteo Renzi su Il Riformista il 27 Maggio 2023
I lettori de “Il Riformista” che hanno avuto la pazienza di seguirci in questi giorni sanno bene che il nostro quotidiano ha dedicato questa settimana a riflettere sulla mafia e su come la narrazione trentennale di questo Paese abbia creato falsi miti e veri scandali.
Nel ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli uomini della scorta, abbiamo scelto di contestare la ricostruzione allucinante che ha offerto Roberto Scarpinato, senatore, ex pm, grillino, che ha insultato l’intelligenza degli italiani offrendo un racconto di quegli anni viziato dall’ideologia, dalla faziosità, dall’odio politico. Scarpinato è uno di quei (pochi) pm che non sazio di perdere i processi ha scelto di perdere la faccia. E Luca Palamara glielo ha ricordato con dovizia di particolari proprio su queste colonne. Abbiamo pubblicato, poi, con Pandolfini, una riflessione a puntate sui diari di Falcone e Torchiaro ha intervistato Claudio Martelli che volle Falcone al Ministero dopo che i suoi colleghi lo avevano umiliato negandogli l’agibilità professionale a Palermo.
Questo giudizio contrasta con la tiritera a reti unificate, ispirata dal travaglismo, che per anni ci ha consegnato una politica impegnata a far fuori Falcone mentre tutti dovremmo ricordare che la guerriglia a Giovanni Falcone l’ha iniziata prima di tutto una parte del CSM. Lo ha ucciso la mafia, sia chiaro. Ma i suoi detrattori gli ferirono l’anima in modo ingiusto.
E poco importa se siamo accusati dai cantori del pensiero unico giustizialista di fare un giornale di parte. Avevamo promesso di fare de “Il Riformista” non il gazzettino di Italia Viva, ma una voce fuori dal coro. E per questo continueremo a dire la nostra ostinatamente contro corrente.
In molti casi indugiando anche sulle emozioni di chi scrive. Lo ha fatto bene ieri Claudia Fusani raccontando la notte di trent’anni fa in Via dei Georgofili quando la Mafia colpì al cuore l’Italia. E oggi il Presidente della Repubblica sarà a Firenze proprio per la cerimonia in ricordo di quella strage.
In quelle ore – scendendo in piazza come tutti – imparai che davanti al dolore mafioso si reagisce insieme, non dividendosi. Quel corteo che dal Liceo Dante ci portava verso una Piazza Signoria talmente piena da impedire l’afflusso di tutti i ragazzi mi ha segnato la vita. Avevo 18 anni, una maturità in arrivo e tanti sogni nel cassetto.
Sapere che il tritolo aveva colpito al cuore la mia città un anno dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino non mi portò solo a iscrivermi a giurisprudenza. Mi insegnò che non avrei mai dovuto accettare una ricostruzione di comodo sulla mafia, da qualunque parte essa provenisse. “Il Riformista” continuerà a farlo, con buona pace di chi ci teme e di chi ci insulta.
Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista
Quel boato a notte fonda che non potrò mai scordare. Attentato dei Georgofili, quei ragazzi che, poco distante dal luogo della tragedia, aspettavano il giorno in cui sarebbero diventati carabinieri. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Domani il 27 maggio 2023
Pur essendo trascorsi ormai trent'anni, non riesco ancora a dimenticare quel boato fortissimo che fece tremare le possenti mura dell'antico convento dei padri domenicani annesso alla basilica di Santa Maria Novella a Firenze. Il convento ospitava dal 1920 la scuola sottufficiali carabinieri ed io quell’anno, poco più che ventenne, stavo ultimando il 44esimo corso biennale di formazione. La cerimonia di chiusura del corso, con la consegna dei gradi, era prevista per il 28 maggio.
Anche la sera del 26 maggio, pur mancando solo due giorni al termine del corso, il “contrappello” era passato puntuale alle 22.30. Ed alle ore 23.00 era risuonato il silenzio. I fumatori, o chi semplicemente non aveva sonno, come il sottoscritto, avevano aspettato che il sottufficiale di giornata spegnesse le luci ed erano andati in bagno per scambiare qualche parola con il collega che difficilmente, terminato il corso, avrebbe poi più rivisto. Le tecnologie dell'epoca non agevolano certamente i rapporti.
Poco dopo la mezzanotte, comunque, tutti erano tornati al proprio letto. La stanza era grandissima ed ospitava quasi una ventina di allievi. Il fortissimo boato, era circa l’una di notte, provocò uno spostamento d'aria che spalancò con violenza le enormi finestre che davano sul cortile principale. Le luci delle camerata si accesero immediatamente e ci fu dato l'ordine di metterci in divisa. Dopo poco, infatti, iniziò a circolare la voce che ci fosse stata una perdita di gas che aveva provocato una immane esplosione in centro.
Rimanemmo per qualche ora a disposizione e quindi ci venne detto di toglierci la divisa e tornare a letto. La mattina successiva, dopo l'alza bandiera, ascoltammo i racconti di chi era andato sul posto, in particolare del personale del quadro permanente, che descriveva macerie e distruzione ovunque proprio dietro piazza della Signoria, precisamente in via dei Georgofili, distante circa 500 metri in linea d’aria dalla nostra scuola. Ci sarebbero state anche alcune vittime. Di una bomba si iniziò a parlare solo in tarda mattina.
La notizia ci sconvolse tutti. Era difficile pensare alla cerimonia del giorno successivo. I superiori decisero che, anche se in tono minore, la cerimonia ci sarebbe stata comunque perché non doveva passare il messaggio che l’Arma subiva il ricatto dei terroristi.
Nessuna grande uniforme, allora, tutti con la divisa ordinaria e con il gonfalone del comune di Firenze listato a lutto. Si respirava però un’aria molto diversa da quella del 15 gennaio precedente quando i carabinieri del Ros avevano catturato a Palermo Totò Riina, il capo dei capi. Terminata la cerimonia ed indossati i gradi ci salutammo fra la commozione generale. Dopo qualche breve giorno di licenza avremmo raggiunto i reparti. Senza scordare mai quella notte di fine maggio del 1993.
La strage 30 anni fa. Attentato di via dei Georgofili, a Firenze per la prima volta la mafia sparò nel mucchio. David Romoli su L'Unità il 27 Maggio 2023
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa, 1993, Cosa nostra alzò il tiro più di quanto avesse mai fatto in precedenza. Portò l’attacco allo Stato nel continente, adottò la strategia dello stragismo indiscriminato, prese di mira non solo persone e cose ma i beni culturali del Paese, la sua ricchezza. La bomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, a un passo dall’Accademia dei Georgofili, poco dopo l’una di notte. Uccise l’intera famiglia del guardiano dell’accademia, incluse le due figlie, 9 anni la più grande, appena 50 giorni la piccola. Ci rimise la vita anche uno studente di 22 anni, nell’incendio che coinvolse le abitazioni circostanti. I danni al patrimonio culturale furono ingenti: crollò la Torre dei Pulci, fu danneggiato più o meno gravemente un quarto delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi.
L’ordigno era stato preparato a Palermo da Gaspare Spatuzza, il bombarolo di Cosa nostra, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, e di lì portato a Prato. Il gruppo di attentatori, oltre che da Spatuzza, era composto da Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno e Francesco Giuliano, tutti “uomini d’onore” dei mandamenti di Brancaccio, quello dei Graviano, e di Corso dei Mille. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono un furgone Fiat Fiorino, lo spostarono a Prato per caricare l’esplosivo, nella notte fu parcheggiato in via dei Georgofili da Giuliano e Lo Nigro che lo fecero poi esplodere a tarda notte. Ogni strage ha i suoi misteri, veri o presunti che siano: quello di via dei Georgofili sarebbe costituito da un centinaio di chili di esplosivo T4, tra i più deflagranti, che sarebbe stato aggiunto ai circa 150 kg trasportati dalla Sicilia da mani sconosciute.
Non era il primo atto nella strategia d’attacco decisa dall’ala dura dei corleonesi, quella che faceva capo a Luchino Bagarella, dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio di quello stesso anno. La sera del 14 maggio una Fiat Uno rubata e imbottita d’esplosivo era stata fatta esplodere in via Fauro a Roma, molto vicino agli studi dove veniva registrato il Maurizio Costanzo Show. A salvare il conduttore e la moglie, Maria De Filippi, era stata la decisione di lasciare gli studi su una macchina diversa dal solito. A premere il fatale pulsante erano i soliti Lo Nigro e Benigno che restarono spiazzati dalla macchina sconosciuta. Benigno premette il pulsante con un provvidenziale attimo di ritardo. Costanzo e De Filippi rimasero illesi, 24 persone rimasero invece ferite.
Il tentativo di assassinare il più popolare conduttore della tv italiana nel cuore della capitale, lontano da Palermo, era un segnale chiaro di quanto si fosse alzato il livello dello scontro. Costanzo prendeva di mira continuamente Cosa nostra: la decisione di toglierlo di mezzo poteva ancora sembrare consona allo stile della Cosa nostra dominata dai bellicosi e spietati corleonesi. Via dei Georgofili segnava invece un passo in avanti drastico sulla strada della guerra totale. Per la prima volta Cosa nostra sparava nel mucchio, falciava non magistrati, poliziotti o rivali interni ma passanti qualsiasi. Sceglieva lo stragismo.
L’attentato fu rivendicato, come tutti quelli di Cosa nostra in quella fase, dalla fantomatica “Falange Armata”. Nessuno, dal premier Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del consiglio “tecnico” nella storia della Repubblica e capo di un governo costituitosi meno di un mese prima, al ministro degli Interni Nicola Mancino, ebbe mai dubbi sulla matrice mafiosa della strage anche se inevitabilmente, nell’ultimo anno della prima Repubblica, in una fase segnata da massima incertezza e altrettanto elevato rischio, il sospetto di commistioni con soggetti diversi dalle cosche dell’isola era inevitabile.
Il 27 luglio il gruppo dinamitardo colpì ancora, stavolta con una prova di forza anche più temibile perché prese di mira contemporaneamente le due principali città italiane, Roma e Milano. L’attentato più grave fu quello di via Palestro, nel capoluogo lombardo. La sera del 27 luglio i vigili del fuoco intervennero dopo che un agente aveva segnalato che da una Fiat Uno parcheggiata di fronte al Padiglione d’arte contemporanea usciva del fumo. L’autobomba esplose mentre i vigili erano al lavoro: uccise due di loro, un agente e un immigrato che dormiva su una panchina lì vicino, danneggiò le opere del Padiglione che però se la videro anche peggio quando, poche ore dopo, esplose anche una sacca di gas formatasi perché il crollo precedente aveva spezzato le tubature. Anche qui non manca il mistero di turno. Chi materialmente abbia portato in loco l’autobomba e provocato il botto è a tutt’oggi ignoto. I bombaroli in trasferta avevano preparato tutto prima di spostarsi a Roma ma la fase esecutiva non la gestirono loro. Un testimone oculare vide uscire dalla macchina esplosiva una bionda elegante. Possibile che Cosa nostra si fosse affidata a una femmina?
A Roma non ci furono vittime ma il livello degli obiettivi colpiti bastava e avanzava. I picciotti rubarono tre Fiat Uno il 28 luglio. Lo Nigro lasciò la prima, imbottita d’esplosivo, di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Spatuzza e Giuliano parcheggiarono la seconda autobomba di fronte a San Giovanni in Laterano. Poi se ne andarono tutti insieme sulla terza Fiat, guidata da Benigno. Esplosero a distanza di 4 minuti l’una dall’altra, ferirono 24 persone e danneggiarono seriamente le due chiese. Ma il vero effetto esplosivo fu psicologico dal momento che erano state colpite due delle chiese più famose e antiche di Roma.
Prima di passare all’azione, nel pomeriggio, Spatuzza aveva inviato due lettere vergate da Graviano, indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero. Promettevano sfracelli. Minacciavano di distruggere “centinaia di vite umane”. Non era solo un modo dire. Ci provarono davvero pochi mesi dopo allo stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio 1994, una domenica. L’autobomba, in quel caso, avrebbe dovuto esplodere alla fine della partita, mentre passava un furgone pieno di carabinieri di stanza. Con la folla in uscita dallo stadio le vittime, con e senza divisa, sarebbero state innumerevoli. Il telecomando non funzionò, la strage più efferata fu evitata da un caso miracoloso.
Poi, all’improvviso tutto si fermò. Le bombe smisero di esplodere. Difficile dire cosa fosse cambiato. Qual era l’obiettivo di Cosa nostra? Probabilmente si trattava di quello che Giovanni Bianconi definisce “un dialogo a suon di bombe” finalizzato a ottenere l’abrogazione o l’allentamento del 41 bis, l’allora neonato regime di carcere duro per i mafiosi. Nel caos di quell’anno è possibile che si siano intrecciate anche altre mire, miraggi golpisti inclusi. Ma probabilmente quel che decretò la fine dello stragismo mafioso fu la sconfitta dei duri, Bagarella e i Graviano, arrestati e messi in scacco da quella parte di Cosa nostra che aveva subìto senza crederci troppo la guerra totale decisa da Totò “u Curtu” e proseguita dal feroce cognato Leoluca Bagarella. E se c’era un boss che da quella strategia proprio non era convinto era proprio l’uomo chiamato “u Tratturi”, il trattore: Bernardo Provenzano. David Romoli
L'attacco di Cosa Nostra al cuore del Rinascimento. La strage dei Georgofili 30 anni dopo, la fine del mondo era arrivata a Firenze: la poesia di Nadia e il tramonto di Messina Denaro. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Maggio 2023
Ogni volta che ci passo, ed è quasi ogni settimana, è come un clic nella testa. Osservo l’olivo e i suoi rami, dolcissimi seppur di bronzo, e ricordo che le macerie, quella notte arrivano più o meno lì, a circa quattro metri. Il palazzo del Pulci non c’era più, solo massi, anche enormi, arredi, cose della vita. I vigili del fuoco erano lì sopra, messi in fila, quasi una catena. Fu un momento di silenzio surreale in quella fine del mondo: “Ecco, tieni, prendi, dai, via via …”. Si passavano un fagotto chiaro, un bombolotto di stracci, l’ultimo vigile della catena entrò nell’ambulanza che era riuscita ad arrivare fino in via dei Girolami. Poi sparì tra le sirene. Noi tutti si rimase lì. Muti, come muti eravamo da ore.
Fazzoletti bagnati sul naso, l’odore del tritolo, del sangue, della paura e della morte dentro le ossa, la pelle, il cervello. Sapevamo che in quel fagotto c’era una bambina e non poteva che essere la più piccola delle due sorelline. Si chiamava Caterina Nencioni. La speranza che fosse sopravvissuta a quell’inferno durò meno di mezz’ora. Aveva 50 giorni. Nadia, la sorella di 9 anni, il babbo Fabrizio, un vigile urbano, la mamma Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili motivo per cui ebbe assegnato l’appartamento nella Torre, furono estratti dopo ore in quella lunga notte che non finiva mai. Era l’una di notte. Lavoravo come cronista di nera e giudiziaria alla redazione di Repubblica a Firenze.
Il lavoro finiva sempre tardi e cenare tra le 23 e la mezzanotte quasi la norma. Stavo guardando un film, “Sotto tiro”, Nick Nolte che fa il fotoreporter, il fronte sandinista, i ribelli, l’attore che sta per essere giustiziato… bum. Un boato enorme fa tremare i vetri di casa poco dopo Porta Romana, sconquassa la dolce notte di maggio. Partono sirene, allarmi, il centro storico piomba nel buio totale. I telefoni del “giro di nera” – polizia, carabinieri, vigili del fuoco e vigili urbani – non rispondono, occupati, staccati. Riesco finalmente a parlare con una stazione distaccata dei vigili del fuoco. “Probabile grossa esplosione di gas, in pieno cento storico, vicino agli Uffizi…”. Un veloce giro di telefonate con il capo della redazione di Firenze e i colleghi Fabio Galati e Gianluca Monastra. Non si capisce nulla. Claudio Giua, il caporedattore, ci dice “avviciniamoci il più possibile agli Uffizi…”.
Lascio il motorino vicino al Ponte Vecchio, e già davanti a palazzo Pitti vedo gente che cammina confusa, piangono, si stringono, qualcuno è a terra, spaventati, altri scappano, chiedo, non riescono a parlare, tengono le mani sulle orecchie. Ci saranno seicento metri tra ponte Vecchio e via dei Georgofili, stradine e vicoli che si conoscono a memoria e che invece non riconoscevo più: colonne di fumo, polvere, sirene, gente accovacciata in terra che chiedeva aiuto, che non sapeva dov’era. Non so dire quanto tempo fosse passato dalla prima esplosione. Di sicuro la zona non era stata ancora trincerata né messa in sicurezza. si vedeva qualche uomo in divisa che cercava di spingere le persone lontano, oltre l’Arno. Cos’era stato? Gas? Oppure? Ed era finita lì?
Via Lambertesca era coperta da una strana polvere, era tutto grigio, l’odore insopportabile, le fiamme, cadono tegole dai tetti. Si prova a prenderla un po’ più larga, in Chiasso del Buco si entra, anche in chiasso dei Baroncelli fino ad un “dove” irriconoscibile, via Lambertesca, appunto, all’angolo con via dei Georgofili. Quella che prima sembrava “nebbia” da qui è chiaro che sono macerie e polvere. La fine del mondo era arrivata a Firenze, a cento passi da piazza della Signoria. I colleghi junior, io, Fabio e Gianluca, rimaniamo lì, un cellulare in tre. Il caporedattore intanto ha avvisato Roma che è necessario ribattere perché “l’esplosione, se anche fosse gas, ha attaccato il cuore del Rinascimento”. I senior, si erano aggiunti Paolo Vagheggi e Franca Selvatici, vanno in redazione, in via Maggio, a scrivere. Noi restiamo lì, vedere, capire, annotare, restare lucidi. Non fu facile. Tutto è stato irripetibile. E indimenticabile. Metto qui in fila qualche frammento di quella notte. Quelli per me decisivi. Via via che si posa un po’ la polvere, cessano gli allarmi e turisti e residenti sono ormai lontani, resta il rumore dei generatori elettrici e delle pompe d’acqua, l’odore di qualcosa che è anche gas ma non solo e una montagna di macerie davanti agli occhi.
Il cratere lasciato dal Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo (tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina) verrà fuori solo dopo giorni (3 metri di larghezza e due di profondità). Quella notte si vedono solo macerie e macerie e macerie. I periti scrissero che l’esplosione provocò “la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto bellico”. Alzando gli occhi, davanti a quella che era la torre del Pulci, ci sono finestre aperte e soffitti a cassettoni anneriti. Una casa affittata da studenti. I vigili del fuoco hanno provato a salvare Dario Capolicchio ma le fiamme avevano già mangiato la casa. Gas, solo gas? Dopo un po’ di tempo, non so dire quanto, ma prima che venga estratto il fagotto con i resti della piccola Nadia, cammina in questa devastazione il capo della Digos, Franco Gabrielli, con un paio di uomini. Hanno gli occhi all’insù, sono sgomenti, guardano la parete antistante all’accademia rimasta miracolosamente in piedi.
“Considera – riflettono – che l’esplosivo in questo imbuto di strade ha raddoppiato la potenza. E i danni”. La parete è bucherellata come una groviera. Fori concavi, tutti anche se più o meno grandi. “Ecco perché non può essere un’esplosione di gas. L’esplosione è stata esterna ai palazzi”. E solo una bomba può aver fatto quel macello. È stato forse il primo vero sopralluogo. Si attende il procuratore, Piero Luigi Vigna. Ha firmato alcune tra le inchieste più importanti di terrorismo e sequestri di persona. Prima di Vigna, s’intravede Gabriele Chelazzi, il suo sostituto “preferito” (senza nulla togliere agli altri che poi seguiranno le inchieste e i processi: Fleury, Crini e Nicolosi). Chelazzi si lascia avvicinare, sta camminando solo nel piazzale degli Uffizi, buio totale. “Lo senti cosa c’è sotto i piedi? Vetri, camminiamo su un tappeto di vetri. Hanno voluto colpire il cuore di Firenze, dell’arte, del Rinascimento”. Chi? “Non lo so ma…”. Ma un anno prima c’era stata Capaci, poi via D’Amelio e due settimane prima, il 14 maggio, in via Fauro a Roma, una macchina era stata imbottita di esplosivo per Maurizio Costanzo. Attentato fallito. Se Falcone diceva follow the money, Chelazzi ha sempre preferito unire i punti. Mi piace pensare che il primo momento in cui hanno unito i punti sia stato quando ho visti Vigna, Gabrielli, Chelazzi appoggiati al colonnato degli Uffizi, testa bassa, facce tese: quella notte cambiò le loro vite professionali.
Qualche flash back, andata e ritorno dall’angolo tra via Lambertesca e via dei Georgofili quella notte-mattina del 27 maggio 1993. Le parole mafia e Cosa Nostra presero tecnicamente cittadinanza sui fascicoli dell’indagine (strage di stampo mafioso) nel giro di un paio di settimane. Forse un mese. Chelazzi univa i puntini, appunto, ed aveva iniziato dal 1992. Quando due mesi dopo, la notte del 27 luglio 1993, prima a Milano e poi a Roma 3, il tritolo esplose in via Palestro e poi a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la “linea” di Chelazzi disegnò una figura chiara: Cosa Nostra stava attaccando il cuore dello Stato, il patrimonio artistico e religioso e lo faceva fuori dalla Sicilia. Un salto di qualità senza precedenti. Circa sei mesi dopo – era ottobre – il procuratore Vigna convocò i giornalisti nel suo ufficio. Lo faceva raramente. In quel periodo un po’ di più. In quella stanza, c’erano tutti “i ragazzi” e “le ragazze” della sua squadra: Chelazzi, Crini, Nicolosi, Margherita Cassano (oggi procuratore generale in Cassazione) e Silvia della Monica che aveva passato le sue ai tempi del mostro di Firenze.
“Questa procura – ci disse – ha sollevato conflitto per la titolarità di tutte le stragi in continente di Cosa Nostra”. Vinse il procuratore Vigna, a parità di numero di morti (5 a Firenze e 5 a Milano), prevalse l’interpretazione che eravamo di fronte ad un unico disegno stragista, da via Fauro fino a San Giovanni passando per Milano. Non fu facile. I professionisti dell’antimafia nicchiarono: “Cosa ne sa Firenze…”. Iniziò così uno dei periodi più duri ed entusiasmanti di quella procura e di quella squadra di magistrati ed investigatori. Tutte eccellenze. Le indagini, l’arresto di Brusca, l’inizio della sua collaborazione, le indagini dal basso che misero in fila i nomi del gruppo di fuoco Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e poi i mandati, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano. Un centinaio gli imputati chiamati nell’aula bunker di Firenze nell’ex convento di Santa Verdiana. In questa aula per la prima volta Giuseppe Brusca parlò del “papello” con le richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo Stato per cessare la stagione delle bombe e delle stragi.
Ma torniamo a quella notte. Sono le quattro del mattino quando la catena di braccia in fila porta fuori il fagotto bianco con i resti della piccola Caterina. Appena 50 giorni. Albeggia. Sono stati sgomberati alberghi e abitazioni. Il centro storico di Firenze è un campo di battaglia. La polvere sta calando. Le fiamme sono spente. L’odore, quello no, è ovunque. La luce del giorno misura la tragedia. E la montagna di macerie. S’intravedono i poveri resti di vite che sono state felici: fotografie, quaderni, libri, peluche, abiti. Repubblica è uscita in prima pagina: “Bomba nel cuore di Firenze. Il sospetto su Cosa Nostra”. I giornali stranieri chiamano in redazione, “Firenze come Palermo?”. Il 16 gennaio scorso è stato arrestato l’unico boss che ancora mancava all’appello: Matteo Messina Denaro. I carabinieri e la procura di Palermo hanno voluto chiamare l’indagine “Operazione tramonto”. Tramonto è il titolo di una bellissima poesia scritta da Nadia, 9 anni, il 24 maggio, tre giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/ tutto è finito”. Probabilmente c’è ancora da scoprire su quegli anni. Non è finita. Tra i tanti insegnamenti di quei giorni e di quell’inchiesta c’è che esiste una verità storica e una processuale. Quasi mai coincidono.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
30 anni fa la strage di Firenze: un filo la lega alla Trattativa Stato-mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 26 Maggio 2023.
Il 27 maggio 1993, un boato risvegliò Firenze poco dopo l’una di notte. Un Fiorino imbottito con 250 chili di tritolo esplose sotto la Torre dei Pulci, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Tra le macerie furono ritrovati i corpi di cinque vittime, tra cui quelli di due piccole bambine. L’attentato porta ufficialmente la firma degli uomini di Cosa Nostra, ma non rappresenta un passaggio estemporaneo. La strage di Via dei Georgofili – uno dei tanti episodi dimenticati che hanno segnato la storia recente del nostro Paese – è al contrario un tassello fondamentale della strategia stragista attraverso cui la mafia ricattò lo Stato italiano, che aveva avuto la sciagurata idea di lanciare segnali di dialogo ai suoi rappresentanti. Un progetto eversivo che, molto probabilmente, coinvolse anche entità esterne alle gerarchie mafiose, unite nell’ottica della “destabilizzazione”.
La strage di Via dei Georgofili fu anticipata da un fallito attentato andato in scena il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro, a Roma. L’obiettivo di Cosa Nostra era in quel caso quello di uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, impegnato a promuovere la lotta alla mafia all’interno delle sue trasmissioni, a cui aveva partecipato anche il giudice Giovanni Falcone. Al momento della detonazione, avvenuta alle 21.40, Costanzo era appena uscito a bordo di un auto dal Teatro Parioli, dove registrava il suo Maurizio Costanzo Show, ma si salvò miracolosamente insieme alla sua compagna Maria De Filippi.
Tredici giorni più tardi, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio, l’attentato di Firenze provocò invece conseguenze molto più gravi, lasciando a terra cinque morti. A perdere la vita, insieme ai loro giovani genitori, furono anche Nadia e Caterina Nencioni, due bambine rispettivamente di nove anni e cinquanta giorni di vita, e uno studente di ventidue anni, Dario Capolicchio, che morì bruciato vivo. Quaranta le persone rimaste ferite. Il venticinque per cento delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi subì danni, così come la Chiesa di S. Stefano e Cecilia. Insomma, venne lanciato un attacco frontale allo Stato con modalità del tutto simili a quelle che, per tutti gli Settanta fino allo strage di Bologna, avevano caratterizzato gli attentati della “strategia della tensione“. La strage, come avverrà per molti altri attentati che caratterizzarono quella stagione, sarà rivendicata dalla misteriosa sigla della “Falange Armata”.
Per l’attentato, tra i mandanti vennero condannati i membri della Commissione di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Tra gli esecutori materiali puniti dalle condanne, spiccano invece i nomi di Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. In seguito alle rivelazioni di quest’ultimo, che confermò le sue responsabilità nell’attentato, venne processato e condannato anche il boss Francesco Tagliavia, responsabile di aver fornito l’esplosivo per l’attentato.
Proprio la sentenza del processo “Tagliavia” ha ufficialmente collegato le modalità e la tempistica dell’attentato in Via dei Georgofili alla cosiddetta “Trattativa Stato-mafia“, inaugurata dai vertici del Ros dei Carabinieri nella primavera del 1992, nei giorni intercorsi tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino. All’invito al dialogo, trasmesso ai mafiosi dall’ex sindaco mafioso corleonese Vito Ciancimino, Totò Riina rispose con il famoso “papello”, in cui Cosa Nostra chiedeva allo Stato importanti benefici carcerari (tra cui l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo) in cambio della fine delle violenze.
“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des; L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia; l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi”, scrisse nel 2012 la Corte d’Assise di Firenze. “Iniziata dopo la strage di Capaci – ricostruirono i giudici -, la trattativa si interruppe con l’attentato di via D’Amelio […] Per tutto il resto del 1992 Cosa Nostra restò in attesa che si ripristinassero i canali interrotti e fermò. Senza però mai rinunciarvi, ogni ulteriore iniziativa d’attacco, motivata dal fatto che proprio lo Stato, per primo, si era fatto sotto“. Dunque, “per stimolare una riapertura dei contatti e dare prova della sua determinazione, e anche perché furente per l’arresto di Riina, dal maggio del ’93 […] l’ala più oltranzista […] riprese a far esplodere le bombe […] in modo che lo Stato capisse e si piegasse. Ed era certo che lo Stato avrebbe capito proprio perché la trattativa era stata interrotta”.
Tale verità, nel 2016, è stata ufficializzata anche dalla sentenza di Appello, in cui si legge che “l’esistenza” della Trattativa è “comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi” ed è “logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista“, dal momento che il ricatto “non avrebbe senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. I giudici hanno dunque considerato provato che, in seguito alla prima fase della trattativa, che si arenò dopo la strage di via D’Amelio, “la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.
La storia ci consegna poi altre due pagine che paiono significative. All’indomani delle bombe di Via Fauro e agli Uffizi, il Consiglio dei ministri presieduto da Carlo Azeglio Ciampi – in cui Giovanni Conso ricopriva la carica di ministro della Giustizia – scelse di destituire dal ruolo di capo dell’Amministrazione penitenziaria, senza nessun margine di preavviso, Nicolò Amato, strenuo difensore della “linea dura” sull’applicazione del 41-bis. Come suo successore venne individuato il “morbido” Adalberto Capriotti, magistrato cattolico legato al Vaticano, estremamente garantista. Pochi mesi dopo lo scoppio, nel mese di luglio, delle bombe di Via Palestro a Milano e delle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma – nuovi episodi della strategia stragista – il ministro Giovanni Conso decise di non rinnovare il “carcere duro” a 334 mafiosi, restituendoli dunque al carcere ordinario.
Sulla “Trattativa Stato-mafia” è nato un processo che ha visto imputati, per il reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, uomini delle istituzioni – tra cui gli ufficiali del Ros – e i vertici della mafia. In primo grado i Carabinieri hanno subito ingenti condanne, in Appello sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato“, mentre in Cassazione (la sentenza è stata emessa lo scorso 27 aprile) sono stati assolti in via definitiva “per non aver commesso il fatto“. Dopo essere stati colpiti dalle condanne nei primi due gradi di giudizio, a causa della riqualificazione del reato in “tentata minaccia”, i boss di Cosa Nostra hanno invece potuto beneficiare della prescrizione. Immediata era stata la reazione dell’Associazione dei familiari delle vittime di Via dei Georgofili dopo l’uscita del verdetto: “Il fatto storico, inoppugnabile, che resta, è che la trattativa Stato-mafia, interrotta con la cattura di Riina, portò alle stragi del 1993, e al sangue innocente di Caterina e Nadia Nencioni, dei loro genitori, e di Dario Capolicchio”. [di Stefano Baudino]
1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni. Lirio Abbate su La Repubblica il 26 Maggio 2023
Il 27 maggio la strage di via dei Georgofili a Firenze inaugurò la stagione delle bombe mafiose contro i monumenti. Per quell’attentato sono stati condannati gli esecutori e chi li armò. Ma la caccia ai mandanti occulti non si è mai fermata
Ci sono ancora i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri scritti sul fascicolo dell'inchiesta sui mandanti delle stragi del biennio 1993 e 1994. Un'inchiesta prorogata più volte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta dei magistrati della procura di Firenze. I pm l'hanno motivata fornendo al gip nuovi elementi che sostengono la necessità di continuare ad indagare sull'ex premier e sul suo amico e co-fondatore di Forza Italia.
All'inizio ci sono state le dichiarazioni in aula a Reggio Calabria del boss Giuseppe Graviano, autore delle stragi, il quale ha saputo calcolare le uscite pubbliche, lanciando messaggi a Berlusconi e allo stesso tempo sostenendo che l'ex presidente del Consiglio non aveva rispettato "i patti" con la famiglia Graviano. Il boss di Brancaccio, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella sono i protagonisti delle bombe a Roma, Milano e Firenze. E dopo vent'anni di detenzione trascorsi in silenzio, Giuseppe Graviano ha iniziato a lanciare pesanti messaggi dal carcere rivolti a Berlusconi, nel tentativo di tornare libero, o ancor di più, di ottenere una grossa somma di denaro. Tutta questa storia, legata anche alla strage di via dei Georgofili del 26 maggio 1993, ha portato i pm fiorentini ad indagare sui due fondatori di Forza Italia, per accertare se vi sia stato un dialogo fra loro e i boss di Cosa nostra. Non risulta alcuna denuncia per calunnia presentata contro il capomafia palermitano.
Prima che iniziasse a fare dichiarazioni in aula, Giuseppe Graviano, intercettato anni fa nella sala colloqui con il figlio Michele, si sentiva potente, grazie ai segreti di quella stagione delle bombe al Nord, e parlando di Berlusconi e dei suoi affari diceva: "Queste persone così potenti dipendono da me". Dopo di che fu visto alzarsi dalla sedia, allargare le braccia e battersi il petto con la mano destra scandendo: "Qui tutto dipende da me". Sono trascorsi gli anni, e qualcosa è cambiato. È sceso in campo il factotum dei Graviano, Salvatore Baiardo, anche lui in giro a seminare messaggi dal tono ricattatorio e allo stesso tempo il boss ha modificato la sua strategia in carcere: non più silenzio, ma sussurri.
Il 1993 è stato uno degli anni più bui della vita della Repubblica, con Roma, Milano e Firenze che divennero scenario di stragi terroristico eversive. Le bombe provocarono la morte di dieci innocenti, il ferimento di 96 persone, danni ingenti e irreparabili al patrimonio artistico. Portarono distruzione, paura e insicurezza, nell'arco di 75 giorni, dal 14 maggio al 28 luglio. L'aggressione mafiosa rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia. All'1,04 del 27 maggio in via dei Georgofili esplode un ordigno collocato in un Fiorino. Muoiono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina, e lo studente Dario Capolicchio, mentre dormivano nelle loro abitazioni. In 38 restano feriti, e viene distrutta la Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, e gravemente danneggiati la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, con danni patrimoniali enormi, per circa trenta miliardi di lire. Gli effetti dell'esplosione si sono propagati per circa dodici ettari nel centro di Firenze. L'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha temuto in quel periodo che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese.
I processi che si sono conclusi con pesanti condanne hanno accertato alcune verità. I magistrati evidenziano come "dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione delle stragi". Per questo motivo vanno ricordati "alcuni interrogativi rimasti insoluti le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti mandanti a volto coperto".
Come ha detto nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta sulle stragi, partecipando ad un incontro all'università di Pisa: "Si continuerà a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e del pericolo generato per la nostra democrazia, è la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere, la ricerca della verità senza di che non c'è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti". I quesiti irrisolti e gli spunti investigativi riguardano i contatti fra un appartenente all'estrema destra come Paolo Bellini, condannato per la strage del 2 agosto a Bologna e i mafiosi corleonesi nel periodo in cui pensavano alle bombe al Nord. I pm vogliono accertare il ruolo e l'identità di una donna che avrebbe preso parte alla strage di Milano, e se la decisione dei vertici di Cosa nostra di queste stragi fu condivisa con soggetti estranei. E perché dopo aver fallito l'attentato all'Olimpico il 23 gennaio 1994 la campagna stragista si fermò. A marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale, Silvio Berlusconi divenne il presidente del Consiglio e lo stragismo marcato Cosa nostra si arenò. Le indagini adesso proseguono.
Trent’anni dalla strage dei Gergofili a Firenze: l’ultimo miglio per la verità. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’autobomba mafiosa sterminò una famiglia e uccise uno studente. La procura toscana lavora ancora al filone politico della strategia di Cosa nostra. Ecco cosa c’è da sapere su quella stagione di tritolo e patti. Enrico Bellavia su L'Espresso il 25 Maggio 2023
Il 27 maggio, ma in realtà accadde nella notte tra il 26 e il 27, è il 30° anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Cinque i morti e 48 feriti. Persero la vita: la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito vigile urbano di San Casciano Val di Pesa, Federico Nencioni e le loro figlie, Caterina di appena 50 giorni e Nadia Nencioni, 9 anni. Rimase ucciso anche lo studente palermitano Dario Capolicchio che dormiva con la fidanzata. La ragazza rimase ferita ma si salvò. La madre, Giovanna Maggiani Chelli, scomparsa nel 2019, ha speso la sua vita per la verità sull’eccidio.
La strage di via dei Georgofili arriva a un anno di distanza dall’estate siciliana degli eccidi siciliani del 1992, Capaci e via D’Amelio. Ma il disegno mafioso e non solo è unico. La Cosa nostra corleonese di Totò Riina, dopo il colpo subito con la conclusione del maxiprocesso, all’inizio del 1992, decide di sbarazzarsi dei vecchi collegamenti politici e di eliminare chi l’aveva ostacolata e minacciava di farlo ancora.
Comincia il 12 marzo 1992 con l’eurodeputato Salvo Lima, uomo di Giulio Andreotti in Sicilia e affonda la candidatura del sette volte presidente del Consiglio alla presidenza della Repubblica. All’indomani della strage di Capaci sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro.
La campagna di sangue e tritolo, l’esplosivo che sarà la firma macabra di tutti gli eccidi, consumati e tentati, continua con la strage di Capaci e 58 giorni dopo il 19 luglio del 1992, prossimo 31° anniversario, con l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta (5 poliziotti, tra cui Emanuela Loi, unica donna delle scorte morta in servizio) in via D’Amelio a Palermo.
Lo Stato reagisce con il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi detenuti che vengono trasferiti a Pianosa e all’Asinara. Nel mirino ci sono altri politici, Calogero Mannino (Dc), Claudio Martelli (Psi) e il magistrato Piero Grasso che scampa a un attentato.
Ma sul finire del 1992, Cosa nostra sposta l’attenzione dalla Sicilia al centro nord del Paese. Colpendo il patrimonio storico per dare una prova di forza distruttiva e gettare nel panico istituzioni e popolazione.
Le prove generali, quasi un avvertimento, il 5 novembre del 1992 quando viene fatto trovare un proiettile di artiglieria al Giardino dei Boboli a Firenze.
Il 15 gennaio del 1993 viene arrestato Totò Riina ma la strategia continua. La realizzano: Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, oggi tutti in carcere.
Il primo attentato avviene a Roma, in via Ruggero Fauro ai Parioli, il 14 maggio del 1993: scampano alla morte Maurizio Costanzo e la moglie. Segue, pochi giorni dopo, l’attentato ai Georgofili.
Il 27 luglio 1993 a Milano, un’altra autobomba uccide in via Palestro altre cinque persone. In contemporanea, sempre il 27 a Roma le bombe che non fanno vittime a San Giorgio al Velabro e alla Basilica di San Giovanni.
È in preparazione un ultimo attentato eclatante in via dei Gladiatori a Roma, in occasione di una partita all’Olimpico contro un bus di carabinieri che dovrebbe fare almeno 200 morti. Inizialmente è stato datato a ottobre, poi certamente al 23 gennaio 1994.
Il 26 gennaio del 1994 scende in campo Silvio Berlusconi: con il celebre annuncio tv: “L’Italia è il Paese che amo”
Il 27 gennaio del 1994 a Milano vengono arrestati Giuseppe Graviano e il fratello Filippo. Da quel momento le stragi finiscono.
Perché?
Questo è il cuore del problema: ci si arrovellò il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che in tempi record tra il 1996 e il 2002 concluse i processi contro i mandanti e esecutori mafiosi e morì, stroncato da un infarto, nel 2003 mentre lavorava alla ricostruzione del contesto politico delle stragi. Un lavoro che è tuttora in corso.
Cosa sappiamo?
Nel 2008 inizia a collaborare ufficialmente con la giustizia Gaspare Spatuzza, luogotenente di Graviano. Riscrive lui la vera storia della strage di via D’Amelio e racconta quel che sa, per avervi partecipato, alla ricostruzione delle stragi al Nord. Chiama in causa tra gli altri Francesco Tagliavia. Nella sentenza di condanna di quest’ultimo, a Firenze, 2016, poi ribadita ulteriormente in Cassazione nel 2017, si fa esplicito riferimento alla trattativa.
Ma cos’è questa trattativa?
È pacifico che i carabinieri del generale Mario Mori trattarono con Vito Ciancimino per far cessare le bombe mafiose. Secondo il generale Mario Mori, processato e assolto, il dialogo con l’ex sindaco di Palermo iniziò tra la strage di Capaci e via D’Amelio e si protrasse fino a quando Ciancimino, nel dicembre del 1992 fu arrestato. Un’iniziativa del tutto normale nell’ambito delle prerogative di chi cerca informazioni nell’interesse dello Stato, hanno sostenuto i carabinieri.
Per i magistrati di Palermo, fu proprio la trattativa a convincere i boss dell’arrendevolezza dello Stato e della necessità di altri attentati per far cessare il regime di carcere duro per i mafiosi detenuti.
Cosa non sappiamo?
Gli interrogativi sono molti e riguardano sia le stragi sia il contesto. Perché i boss si esposero alle stragi fin dal 1992, sapendo che la reazione dello Stato sarebbe stata dura, quale calcolo li indusse ad accettare il rischio?
I mafiosi avevano avuto rassicurazioni e da chi?
Spatuzza ci dice che Graviano aveva un canale aperto con Silvio Berlusconi, frattanto entrato in politica legato a un investimento del padre sulla nascita di Milano due. Graviano conferma l’investimento attribuendolo al nonno e lancia segnali senza ammettere un contatto diretto con Berlusconi e con Marcello Dell’Utri. Il suo uomo di fiducia, Vincenzo Baiardo che ne ha custodito la latitanza nel 1993 e nel 1994 fino all’arresto parla invece di contatti mediati da lui e poi al conduttore tv Massimo Giletti avrebbe fatto vedere una foto con Berlusconi e Graviano. Ma lui nega l’esistenza della foto.
A che punto sono le indagini?
Chiuse e riaperte più volte ruotano intorno allo stesso punto: la mafia puntò sul cavallo nuovo, forse per i trascorsi legami. Le stragi cessarono per questo. Ma, la procura di Palermo, ritiene che il nuovo corso fu determinato proprio dalle stragi. Le indagini stanno intanto verificando tutti i movimenti dei Graviano negli anni 92-93 durante la stagione delle bombe. Le vacanze in Versilia e in Sardegna e a Omegna, il paese in cui si era trasferito Baiardo, sul lago d’Orta in Piemonte.
Le misteriose presenze raccontate da Spatuzza e venute fuori dalle inchieste, aprono scenari di compartecipazione al disegno stragista da parte di altri apparati. Spatuzza racconta di un uomo estraneo a Cosa nostra visto nel garage dove si preparava l’autobomba per Borsellino. Dalle testimonianze è emersa la presenza di una donna ben vestita sul teatro della bomba di via Palestro. Nessuno ha mai parlato di donne operative in Cosa nostra. Gli investigatori hanno rintracciato una donna che si dice estranea a tutto che ha condiviso con un suo ex compagno una formazione paramilitare che ricorda molto quella della struttura Gladio.
È doveroso scandagliare in tutte le direzioni, senza riguardi per nessuno. Difficile rintracciare la pistola fumante. Illusorio pensare che Cosa nostra abbia agito su ordine di qualcuno, non è mai accaduto.
Ancora una volta ci viene in soccorso la dottrina di Giovanni Falcone che per i delitti politici di Palermo (Reina, Mattarella, La Torre) parlò di una convergenza di interessi tra mafia e politica. Del resto, senza la politica la mafia sarebbe un’organizzazione criminale e basta. E in molte regioni, anche del Nord, la politica non riesce a liberarsi dell’abbraccio mortale con la mafia.
C’è ancora molto da sapere sulle bombe del 1992-1993. Lo dobbiamo alle vittime e alle generazioni che sono venute dopo. Troppe pagine oscure della nostra storia sono un’ipoteca sul futuro. Ecco perché accanto alle doverose cerimonie è importante non dimenticare che non si tratta solo di celebrare il rito degli anniversari ma di esigere verità su quel che è accaduto. E fin dove è arrivato il livello di compromissione tra mafia e Stato.
Estratto dell'articolo da affaritaliani.it lunedì 2 ottobre 2023.
"Per l’ennesima volta, leggiamo sulla stampa dichiarazioni del signor Salvatore Baiardo che alludono a rapporti di amicizia con la famiglia Berlusconi, nella realtà mai esistiti, e a presunti finanziamenti di origine malavitosa al Gruppo Fininvest, parimenti inesistenti. Non possiamo quindi che ribadire per l’ennesima volta la falsità assoluta delle sue dichiarazioni, acclarata, del resto, da sentenze passate in giudicato ed ulteriori provvedimenti giurisdizionali".
Con queste lapidarie affermazioni l'avvocato Giorgio Perroni, storico legale della famiglia Berlusconi, smentisce categoricamente l'intervista rilasciata da Salvatore Baiardo ad Affaritaliani.it. […]
(ANSA lunedì 2 ottobre 2023) - "Questa fotografia non esiste. Con Giletti si era parlato se c'erano eventuali foto con i Graviano", "ma i Graviano non hanno mai voluto farsi fotografare". E ancora, "è vero che ho incontrato Paolo Berlusconi", per "un aiuto economico ad aprire una gelateria. C'era un rapporto di amicizia con la famiglia Berlusconi" ma "in quei periodi il Cavaliere era inavvicinabile", "non sono riuscito a parlargli. Non è vero che volevo ricattare i Berlusconi. Paolo si è avvalso della facoltà di non rispondere", ma "se l'avessi minacciato mi avrebbe sicuramente denunciato".
Così Salvatore Baiardo parlando con Affaritaliani.it. "Io ho parlato degli incontri - sottolinea l'ex gelataio di Omegna, amico dei fratelli Graviano - così come ne ha parlato lo stesso Graviano nelle ultime deposizioni nel processo sulla 'ndrangheta stragista. Queste cose sono avvenute a Milano, non sul lago d'Orta come dicono i giornalisti. Ma di cosa parlassero non lo so, io li accompagnavo, poi se Graviano mi diceva che parlavano di certe cose… lo diceva lui".
Secondo l'ex gelataio "nelle tre puntate in cui c'è stato Baiardo, e nelle interviste esterne con il Baiardo il programma 'Non è l'Arena' ha fatto visualizzazioni mai fatte, e uno share della madonna - aggiunge -. Non mi sento responsabile della chiusura di 'Non è l'Arena'. Perché Giletti mi ha voltato le spalle? Perché io non sono più voluto stare al suo gioco. Il motivo per cui ho parlato delle foto non posso dirlo, ma qualcuno capisce sicuramente perché non sono più stato al gioco di Giletti e non sono più andato nella sua trasmissione".
Per Baiardo con la morte di Matteo Messina Denaro "uscirà qualcosa sui misteri che ancora ruotano attorno alle stragi e alla trattativa Stato-mafia. Però usciranno a metà dicembre, quando pubblicherò il mio libro. E' anche agli atti che io abbia conosciuto Messina Denaro. Poi ci sono altre cose che non sono agli atti e che ho messo nel libro". "Io ho solo detto chi vedevo, non vedevo, facevo, non facevo in quegli anni - conclude -. Chi se lo immaginava che raccontare oggi cose accadute nel 1989-1990 potesse suscitare un simile polverone. Non avevo interesse a raccontarlo prima, l'ho fatto quando me l'hanno chiesto, nel 2012-13".
Baiardo: "Giletti mi ha voltato le spalle. La foto con Berlusconi non esiste". L'intervista di Affaritaliani.it all'ex gelataio tuttofare dei boss Graviano, al centro dell'indagine sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 di Eleonora Perego il 2 Ottobre 2023 su Affaritaliani.it.
Salvatore Baiardo ad Affari: "GIletti mi ha voltato le spalle. La foto di Graviano con Berlusconi? Non esiste"
Ha deciso di rompere il silenzio Salvatore Baiardo, tuttofare dei boss mafiosi Graviano, indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze nell'ambito della nuova inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993.
Lo ha fatto dopo la decisione del tribunale del Riesame di Firenze, che ha accolto il ricorso della Procura ritenendo fondate le accuse di calunnia nei confronti del conduttore Massimo Giletti e del sindaco di Cerasa, Giancarlo Ricca, disponendo gli arresti domiciliari. Gli stessi non hanno ritenuto sufficientemente provata l’accusa di favoreggiamento a favore di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Uno dei cuori dell’indagine è sempre la fotografia che ritrarrebbe il boss Graviano con l’ex premier e il generale Francesco Delfino. Immagine che secondo il tribunale “sicuramente è stata fatta vedere” a Giletti, al contrario di quello che Baiardo ha detto ai magistrati, sostenendo che il giornalista si fosse inventato tutto (da qui l’accusa di calunnia). Secondo i giudici proprio quella foto può aver causato la chiusura di “Non è l’Arena”. Ma Salvatore Baiardo, in attesa della decisione della Corte di Cassazione – che si dovrà pronunciare perché la misura diventi esecutiva – ha voluto nuovamente replicare, parlando con Affaritaliani.it.
Ranucci e Travaglio ci provano ancora con i pentiti di mafia. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Felice Manti il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.
Se la mafia agisce sostanzialmente indisturbata in questo Paese è perché si passa più tempo a inseguire i fantasmi che a cercare i colpevoli. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Oltraggiando i morti di mafia prima ancora che la verità. Ieri sera Report ha mostrato un’intervista di Paolo Mondani tutt’altro che rubata del 2 marzo scorso a Salvatore Baiardo, manutengolo del boss Giuseppe Graviano e sedicente favoreggiatore della sua latitanza. Tema, la famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con una polo scura, lo stesso Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, scattata nella primavera del 1992 nei pressi del lago d’Orta (prima delle stragi di Falcone e Borsellino) o forse a luglio dopo via d’Amelio, dallo stesso inaffidabile mafioso. È l’ennesima inchiesta sul Cavaliere, aperta dalla Procura di Firenze, che vorrebbe dimostrare il folle teorema sul ruolo di possibile fiancheggiatore di Cosa nostra nella stagione stragista del ’92-’93 tramite una Forza Italia ancora inesistente. Ai pm Baiardo ha detto che sono fesserie, ai giornalisti dice che le foto esistono.
Ma la storia giudiziaria non si fa con i se, né con foto fantasma. E infatti in tribunale questa ipotesi si è disgregata più volte. Ora, che qualcuno insista su questa narrazione ci può stare. Il conduttore di Report Sigfrido Ranucci da sempre mescola teorie un po’ claudicanti a ipotesi televisivamente suggestive. Lo stesso dicasi per il Fatto quotidiano, che ha nel mascariamento di Berlusconi la sua ragione fondante.
Ci sta anche che Baiardo, ansioso di scrivere un libro e di raggranellare due spicci, alzi la posta tra una comparsata tv e un video su Tiktok (sic), a maggior ragione dopo che Massimo Giletti, il primo a cui aveva promesso la foto che il giornalista avrebbe pure visto nel luglio del 2022, a distanza e senza riconoscere né Graviano né Berlusconi, è saltato per aria assieme alla sua trasmissione su La7, chiusa improvvisamente e senza spiegazioni dall’editore Urbano Cairo.
Chi ha visto il servizio intuisce facilmente che Baiardo sa di essere registrato da Report, tanto che si lascia andare a frasi come «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto». Quale libro? Si sa il titolo, Le verità di Baiardo, manca un editore che potrebbe essere il Fatto, chissà. Secondo la ricostruzione di Giacomo Amadori sulla Verità Baiardo avrebbe mandato a Giletti un selfie con Mondani, con un messaggino tipo «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». In mezzo a questa trattativa commerciale (Baiardo ha già intascato da La7 un bel gruzzoletto, forse un anticipo sulle foto?) ci sono quelle politiche su ergastolo ostativo e i soliti veleni sul Ros dei carabinieri per la cattura di Matteo Messina Denaro. Con il servizio pubblico che si presta a fare da megafono a queste illazioni, alla stregua di Tiktok.
Estratto dell'articolo di Marco Lillo per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.
Sarà un’udienza davvero interessante quella che si svolgerà, purtroppo in camera di consiglio quindi senza il pubblico, davanti al Tribunale del Riesame di Firenze il 14 luglio prossimo.
Il collegio dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di arresto dell’ex favoreggiatore dei boss Graviano Salvatore Baiardo, presentata dai pm di Firenze il 28 aprile e rigettata dal Gip Antonella Zatini il 26 maggio scorso.
Le carte depositate, circa 1.500 pagine, non riguardano evidentemente solo il destino dell’ex gelataio di Omegna, difeso dall’avvocato Elisa Bergamo e dall’avvocato Carlo Fabbri, ma incidentalmente investono un pezzo della storia d’Italia recente. Le accuse rivolte dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal sostituto Lorenzo Gestri a Baiardo sono quelle di favoreggiamento a Berlusconi e Dell’Utri con l’aggravante dell’agevolazione dell’organizzazione mafiosa e di calunnia ai danni di Massimo Giletti.
Baiardo è stato già arrestato nel 1995 e condannato nel 1997 in appello a 2 anni e due mesi per favoreggiamento semplice ai due boss della mafia, Filippo e Giuseppe Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi e gli attentati di mafia del 1992 in Sicilia e del 1993 in “Continente”.
La novità è che i pm fiorentini, competenti sulle stragi di Firenze e Milano (10 morti) e sugli attentati di Roma del 1993 e 1994 ora indagano di nuovo Baiardo per favoreggiamento ma non dei boss bensì dei presunti e ipotetici mandanti esterni. La tesi dei pm è che, (dopo le stragi e gli attentati del biennio 1993-1994 per i quali sono stati condannati anche i suddetti boss Graviano e sono stati indagati Dell’Utri e Berlusconi) Baiardo avrebbe aiutato proprio Berlusconi e Dell’Utri a eludere le investigazioni con i suoi comportamenti recenti.
La parte “politicamente” più sensibile’ dell’accusa è la contestazione dell’agevolazione mafiosa ex articolo 416 bis n.1. Baiardo avrebbe favorito gli indagati celebri “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”. Sono accuse pesantissime tutte da riscontrare che il Gip, nella sua ordinanza di rigetto, non ha recepito.
Non deve stupire che la richiesta di custodia cautelare citi Berlusconi come ipotetico “favoreggiato” da Baiardo perché i pm fiorentini l’hanno presentata a maggio, prima della morte del Cavaliere. Premesso che l’accusa di strage in relazione ai fatti del 1993-94 contro Berlusconi e Dell’Utri è già stata archiviata più volte su richiesta degli stessi pm di Firenze e premesso che il Gip nella sua ordinanza non ritiene provato il favoreggiamento di Baiardo, l’esistenza dei rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri con i fratelli Graviano e l’esistenza di una foto ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano, analizziamo le ragioni dei pm fiorentini.
La Procura voleva arrestare Baiardo e dopo il rigetto ha reiterato la richiesta nell’appello presentato al Riesame il 5 giugno scorso perché Baiardo avrebbe fornito indicazioni mendaci e, comunque, reticenti sulle reali ragioni dell'incontro intercorso il 14 febbraio 2011 con Paolo Berlusconi, realmente avvenuto, dopo aver cercato infruttuosamente il contatto con il fratello Silvio, all'epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il 3 febbraio precedente dello stesso anno. Per i pm avrebbe mentito “per non far emergere i rapporti tra costoro e i fratelli Graviano”. Non solo. Baiardo avrebbe negato l’esistenza della fotografia ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano di cui aveva asseverato l’esistenza a Giletti.
Infine avrebbe mentito nelle sue dirette e parlando a un giornalista de Domani (che correttamente riportava le sue dichiarazioni) intossicando l’informazione. Per i pm, Baiardo avrebbe compiuto il reato di favoreggiamento perché avrebbe fatto dichiarazioni mirate a “ricostruire i rapporti esistenti tra i citati Giuseppe e Filippo Graviano e gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in modo difforme rispetto a quanto realmente accaduto, dosandole abilmente con narrati veridici”.
Come è noto Massimo Giletti ha raccontato che Baiardo gli mostrò fugacemente una foto che, a dire del gelataio, ritrarrebbe Berlusconi con Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, scattata probabilmente nel 1992 sul lago d’Orta. Anche a Paolo Mondani di Report Baiardo ha accreditato l’esistenza della foto (sarebbero addirittura tre) di Graviano con Berlusconi. Poi però subito dopo su Tik Tok Baiardo ha smentito l’esistenza delle foto dando la colpa ai giornalisti.
Per il Gip Baiardo è in mala fede ma la sua condotta non arriva a configurare la calunnia.
I pm fiorentini non ci stanno e hanno depositato un appello di 50 pagine per contestare il rigetto dell’arresto. Uno dei puntelli alla tesi dei pm Turco, Tescaroli e Gestri risiede proprio nelle dichiarazioni a verbale davanti ai pm stessi di Baiardo sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede de Il Giornale a Milano il 14 febbraio 2011.
(...)
Baiardo raccontò ai pm “Già conoscevo Paolo Berlusconi, lo avevo incontrato all’Hotel Quark di Milano dove avevo accompagnato una o due volte nel corso del 1992 Giuseppe Graviano; compresi dal primo incontro, cui ho assistito, che i due Berlusconi e Giuseppe Graviano, già si conoscevano; Graviano si è presentato con il proprio nome”.
Tutte affermazioni negate dai diretti interessati e considerate non riscontrate dal Gip.
La caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia. Scomparsa Kata e le priorità della procura di Firenze: indagare il defunto Berlusconi ‘grazie’ al gelataio Baiardo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 27 Giugno 2023
La Procura del capoluogo toscano, dopo ben cinque procedimenti chiusi già nella fase delle indagini preliminari, pare sia ad una “svolta” nella ormai pluridecennale caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia del 1993, ad iniziare proprio da quella fiorentina di via dei Georgofili. I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, per puntellare il quadro accusatorio che vede indagati Silvio Berlusconi, scomparso l’altra settimana, e Marcello Dell’Utri, hanno tirato fuori dal cilindro Salvatore Baiardo, il folcloristico gelataio di Omegna che in passato era stato condannato per aver favorito la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ex boss del quartiere Brancaccio di Palermo.
Baiardo sembra destinato a prendere il posto di Massimo Ciancimino, il finto pentito le cui dichiarazioni diedero il via al processo Trattativa Stato-mafia, poi conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il gelataio di Omegna, infatti, è quello che mancava nel quanto mai variegato panorama delle piste investigative seguite fino ad oggi, senza grandi risultati, dagli inquirenti fiorentini. Personaggio a dir poco “esuberante” e per i quali i Pm fiorentini avevano chiesto al gip, senza ottenerlo, l’arresto (l’udienza per il ricorso è prevista il prossimo 14 luglio, ndr) aveva fatto la sua comparsa nei mesi scorsi nei programmi di punta del giornalismo d’inchiesta: Report e Non è L’Arena.
Fra le “primizie” per i fedelissimi di Sigfrido Ranucci e Massimo Giletti, vi fu certamene quella di aver detto di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa su cui il magistrato Paolo Borsellino annotava i suoi appunti riservati in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Attraverso TikTok, il social cinese utilizzato per comunicare ai suoi numerosi follower, Baiardo aveva poi smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver voluto prendere in giro i segugi di Report.
Il meglio di sé, però, il gelataio di Omegna lo aveva dato con Giletti, mostrandogli da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a suo dire ci sarebbe stati ritratti Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. I tre sarebbero stati immortalati sulle sponde del lago d’Orta, in Piemonte, prima del 1994, anno in cui Graviano è finito in carcere senza più uscire in quanto al sottoposto al regime del 41 bis con tutti i divieti possibili. Ed è proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla Procura, che i magistrati fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta per dimostrare il contatto fra Graviano, il mafioso stragista, e Berlusconi, il mandante delle stragi. Il tutto sotto la supervisione del generale della Benemerita Delfino.
Dei tre in foto l’unico ancora in vita è Graviano. Berlusconi, prima di morire, ha sempre smentito tramite i suoi legali tale incontro lacustre. Delfino è morto già da diversi anni in una casa di riposo a Santa Marinella, paese sul litorale laziale. Degrado a soldato semplice al termine di procedimento disciplinare a seguito del coinvolgimento nel procedimento per il sequestro dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, ai suoi funerali non aveva partecipato nessun rappresentante dell’Arma.
Il procedimento sulle stragi del 1993 della Procura di Firenze ha raccolto alcuni dei teoremi della vecchia inchiesta “Sistemi criminali” condotta dagli ex Pm palermitani Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato e archiviata nel 2000. In particolare, torna l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati, un “terzo livello” composto da potenti massoni, imprenditori, piduisti, e mafiosi assortiti che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel Paese.
Il teorema della Procura di Firenze stride, però, con le risultanze del processo Trattativa Stato-mafia, ormai conclusosi con sentenza definitiva. Secondo quest’ultimo procedimento, Dell’Utri sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi. Secondo la tesi dei Pm fiorentini che vogliono arrestare Baiardo per favoreggiamento, invece, l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. La domanda che bisognerebbe porsi è per quale motivo, allora, era necessario “minacciare” lo Stato se nel contempo venivano poste in essere le stragi.
La ricostruzione fiorentina ha, poi, un “paletto” temporale: durante le stragi del 1992-93, infatti, Berlusconi non aveva ancora fondato Forza Italia ed appoggiava i Pm di Mani pulite. Il sostegno al governo Berlusconi uno è emerso durante il processo Borsellino Ter. Sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra a Forza Italia in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro). Nessuno dei tre mafiosi ha mai fatto comunque riferimento a contatti tra Cosa nostra e Berlusconi già nel 1992, nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Il teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi ha tutta l’aria di essere un tarocco. Forse in procura a Firenze anziché di Berlusconi avrebbero fatto meglio ad occuparsi dello sgombero dell’ ex Astor e della piccola Kata… Paolo Pandolfini
Perché Salvatore Baiardo non è stato arrestato: c’è un giudice a Firenze. Respinta la richiesta dei pm fiorentini. Volevano le manette per favoreggiamento nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi. La gip avrà sbarrato gli occhi...Tiziana Maiolo su L'Unità il 27 Giugno 2023
Doveva capitare, prima o poi, che arrivasse un giudice a Firenze a vagliare l’eterna attività di indagine dei “Due Luca”, gli aggiunti Turco e Tescaroli, e le loro fatiche sui “mandanti” delle stragi del 1993, trent’anni fa esatti. Forse, nel chiedere l’arresto del giocoliere un po’ mafioso un po’ contaballe Salvatore Baiardo, i “Due Luca” hanno fatto un passo falso. O forse erano troppo sicuri di sé.
Fatto sta che per la prima volta hanno perso: richiesta respinta. Parevano intoccabili. Quello che invece pare sempre “toccabile” è Silvio Berlusconi, che continua a essere oggetto dell’attenzione di questi magistrati e dei loro portaborse di redazione, pur se formalmente non dovrebbe essere così, da quando se ne è andato. In ogni caso un giudice a Firenze c’è. Si chiama Antonella Zatini, è stata sommersa da mille e cinquecento pagine con cui i “Due Luca” le chiedevano di arrestare Baiardo con due imputazioni. La calunnia nei confronti di Massimo Giletti, il quale aveva messo a verbale di aver visto nelle mani del gelataio la famosa foto in cui aveva riconosciuto un Berlusconi giovane, ma non le altre due persone, che avrebbero dovuto essere il generale Francesco Delfino (un altro che non potrà testimoniare, perché non c’è più) e il boss Giuseppe Graviano.
Poiché Giletti è attendibile, ed è stato anche intercettato mentre parlava della foto con Baiardo, la successiva smentita di questi è una calunnia nei confronti del presentatore. Perché? Perché è come se lo accusasse di aver reso false dichiarazioni al pm, dicono i “Due Luca”. Ma va là, replica la gip. Poi il gelataio avrebbe anche calunniato il “pentito” aureo Gaspare Spatuzza, il più intoccabile di tutti perché ha ristabilito qualche verità sull’omicidio Borsellino, facendo anche scarcerare quindici innocenti per la cui ingiusta detenzione non ha pagato nessuno. Il gelataio ha cercato di screditarlo, dicono i pm. Ma ancora non basta. Il colpo grosso, quello su cui, immaginiamo, la gip e con lei qualunque persona dotata di buon senso abbia sbarrato occhi e orecchi, è l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ebbene si, secondo il ragionamento dei procuratori aggiunti di Firenze (a proposito che cosa aspetta il Csm a nominare un capo dell’ufficio che venga a mettere un po’ di ordine in questo guazzabuglio?) questo gelataio avrebbe messo in piedi tutta questa storia della foto per fare un favore a Berlusconi e Dell’Utri. Ma non basta. Lo avrebbe fatto “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”.
Non c’è da stupirsi del fatto che una giudice non abbia accolto una simile richiesta. Basterebbe aver letto qualche giornale per sapere che i governi Berlusconi sono stati, anche contro la parte più liberale di Forza Italia, i più repressivi e intransigenti nell’applicazione degli articoli 4-bis e 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei confronti di mafiosi e terroristi. In che cosa sarebbe consistito dunque lo scambio mafioso? I due leader di Forza Italia avrebbero chiesto, non si sa perché, ai boss mafiosi di fare per conto loro un po’ di stragi, e in cambio Cosa Nostra che cosa avrebbe ricavato? Niente. Non è un caso se questa ipotesi è stata già archiviata quattro volte.
Per fortuna è arrivata una giudice. Di cui non vogliamo sapere se e a quale corrente della magistratura appartenga. Ci basta che sia una che ragiona e che legge le carte, anche se i pm l’hanno sepolta sotto quindicimila fogli. Per ora ha rigettato l’ipotesi dell’accusa perché non ritiene ci sia nessuna prova di rapporti tra Berlusconi e Graviano e perché nutre “seri dubbi” che la famosa foto esista davvero. Anche per quel che riguarda la calunnia, la gip non pensa sia tale. Insomma Baiardo è solo un piccolo imbroglione.
Per quale motivo dovrebbe dunque mettergli le manette ai polsi? Il non detto è che, dopo un po’ di carcere, un po’ di torchiatura, le risposte possono ammorbidirsi, adeguarsi e voila, magari adattarsi perfettamente all’ipotesi dell’accusa. I “Due Luca” non demordono, hanno fatto ricorso al tribunale del riesame contro la decisione della gip. Ci riaggiorniamo quindi al 14 luglio, giorno dell’udienza in camera di consiglio. Udienza non pubblica, ma tanto si saprà tutto, come sempre.
Tiziana Maiolo 27 Giugno 2023
Giletti, Baiardo e le bombe. Indagine su Non è l’Arena, i Pm interrogano pure Cairo. I magistrati fiorentini gli chiederanno perché ha chiuso in anticipo “Non è l’Arena”. Le tentano tutte per tenere in vita la loro indagine eterna... Tiziana Maiolo su L'Unità il 21 Giugno 2023
Urbano Cairo davanti ai pubblici ministeri di Firenze. A parlare di stragi, come fosse cosa normale, come non fossero passati trent’anni da quelle bombe disseminate tra Milano Firenze e Roma nel 1993, come non si conoscessero già i responsabili, processati e condannati. L’editore di Corriere della sera e La 7 sarà interrogato (o forse lo è già stato, alla chetichella), nella veste di persona informata dei fatti. Formalmente un testimone, senza avvocato quindi.
Nudo e inerme di fronte alla forza dello Stato, rappresentato dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, che gli chiederanno conto di una sua scelta editoriale, cioè di aver anticipato di un mese la sospensione del programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti. Il contratto del presentatore era in scadenza a luglio, inoltre la trasmissione era molto costosa e il bilancio decisamente in perdita. Quindi si è deciso di anticiparne la chiusura e di risparmiare qualche centinaio di migliaia di euro. Questa la spiegazione dell’azienda del 13 aprile scorso, alla vigilia della puntata numero 195. Si chiama libero mercato.
Un concetto forse estraneo a qualche burocrate che ha solo vinto un concorso. Infatti, che cosa potrebbe mai spiegare un imprenditore sulle ragioni di una scelta di tipo economico? Potrebbe solo dire quel che ha già detto a chi glielo ha chiesto: la decisione è stata aziendale, non siamo abituati a ricevere suggerimenti e nessuno ci ha chiesto di “mettere a tacere” Massimo Giletti. Del resto la notizia non avrebbe meritato più di, come si dice in gergo giornalistico, una breve in cronaca, non fosse che esistono due o tre quotidiani italiani che si nutrono di trasmissioni che sembrano tribunali del popolo, e “Non è l’arena” era una di quelle.
Quello che stupisce è il comportamento dei magistrati della Procura di Firenze. Hanno sempre mostrato molta sicurezza sulla propria ipotesi accusatoria nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle bombe. E questo nonostante quattro precedenti inchieste sullo stesso tema fossero state archiviate. Pure, questo fascicolo viene continuamente rinnovato e arricchito, come un elastico che alternativamente si tende e si rilascia ma non trova mai un suo punto di equilibrio. Si ha la sensazione che si sia capovolta la prassi che vede i giornalisti come utilizzatori finali dei verbali secretati delle Procure. Pare oggi che siano i magistrati ad andare a rimorchio delle notizie (o non notizie) di stampa a Tv. Il che fa pensare che, se non ci fossero stati i nutrimenti di qualche quotidiano o di trasmissioni come quella di Giletti o “Report” di Rai 3, il 31 dicembre del 2022, ultima scadenza prevista dell’inchiesta, avremmo assistito alla quinta archiviazione, su richiesta degli stessi pm Tescaroli e Turco.
Ma è comparso il gelataio Salvatore Baiardo e ha messo un po’ di carne al fuoco. Alla maniera sua, ovviamente, un po’ mafioso un po’ giocoliere, carta vince carta perde. Da quando gli ha mostrato, da lontano e in penombra, una foto in cui il conduttore tv ha ritenuto di riconoscere un Silvio Berlusconi più giovane, Massimo Giletti non ha più avuto pace: interrogato tre volte dai pm fiorentini, e due volte spiato e teleripreso mentre si incontrava con Baiardo a Roma per preparare le sue trasmissioni. La foto, qualora esistesse, mostrerebbe il fondatore di Forza Italia, intorno al 1992, con il generale Delfino dei carabinieri e Giuseppe Graviano. Sarebbe una “prova” del rapporto tra Berlusconi e un mafioso condannato per strage.
Un mafioso che oltre a tutto, anche lui con metodi un po’ da piccolo truffatore, continua a rivendicare un presunto credito di famiglia, in quanto il nonno avrebbe finanziato la nascita di Fininvest. Naturalmente non c’ è nessuna prova che possa attestare questa “verità”, e casualmente tutti coloro che potrebbero testimoniarla sono morti. Berlusconi compreso, a questo punto. E il ricatto, cui però l’ex presidente del consiglio si è sempre sottratto mostrando indifferenza, non vale più. Perché dunque avrebbe chiesto a Cairo (questo vorrebbero sentirsi dire i pm) di bloccare la trasmissione?
Intanto gli stessi magistrati hanno fatto perquisire la casa di Baiardo, ovviamente la foto non è saltata fuori, e hanno cercato anche di farlo arrestare. E’ stato così che abbiamo scoperto il fatto che anche a Firenze, non solo a Berlino, esiste un giudice. Il quale non ha accolto la richiesta, forse ritenendola solo un mezzuccio per fare pressione su Baiardo per fargli dire la verità. Ma il gelataio ha già usato altri mezzi di comunicazione, come Tik Tok, per ritrattare tutto. Nel frattempo però si fa avanti anche “Report” del 23 maggio a rivendicare che in un’intervista rilasciata al giornalista Paolo Mondani mesi prima e registrata con telecamera nascosta, Baiardo aveva parlato della foto, anzi aveva rilanciato citandone tre. Che nessuno ha mai visto, ovviamente.
L’indomani sarà ancora Tik Tok a ospitare la smentita indignata del gelataio. Che continua a minacciare, non si sa bene chi, con l’uscita di un libro, di cui per ora non c’è traccia. Quello che continuiamo a domandarci, visto che c’è un giudice a Firenze, è perché non chieda conto a questi pm di questo uso così disinvolto dell’indagine eterna per fatti di trent’anni fa, tra una proroga e l’altra, senza uno straccio di prova, ormai al servizio di qualche trasmissione pruriginosa. Tiziana Maiolo 21 Giugno 2023
Il giocoliere. Giornalisti e pm al guinzaglio di Baiardo: la caccia alle foto di Berlusconi è un gioco delle tre carte. Tiziana Maiolo su L'Unità il 24 Maggio 2023
Placido e beffardo, lui, il gelataio Salvatore Baiardo, se li porta in giro tutti come cagnolini al guinzaglio, pubblici ministeri e giornalisti. Loro, dai pm fiorentini Tescaroli e Turco, i due Luca, oltre alla squadretta dei cronisti del Fatto e di Report, sono alla caccia della (o delle) fotografie che inchioderebbero Silvio Berlusconi seduto al bar con il generale dei carabinieri Francesco Delfino e con un mafioso stragista come Giuseppe Graviano. La (le) cercano e non la (le) trovano. Un po’ come “io cerco la Titina, la cerco e non la trovo”, la canzone resa famosa da Charlie Chaplin che la cantava in Tempi moderni, ma soprattutto nella sua versione grammelot senza costrutto e con il guazzabuglio delle lingue mescolate. Ecco, questa ricerca della foto che non c’è è un po’ il simbolo di questa inchiesta della Dda fiorentina sui “mandanti” delle bombe del 1993. Quelle che nelle intenzioni, nonostante l’impiego di quantitativi enormi di esplosivo, avrebbero dovuto essere più “simboli” che stragi. Lo dice senza mezzi termini anche la sentenza d’appello del processo “Trattativa Stato-mafia”, che quei dieci morti a Firenze e Milano non erano stati programmati. Il che naturalmente nulla toglie alla gravità di quegli attacchi dal forte sapore terroristico.
Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, che coordina la Dda di Firenze dopo aver maturato la propria esperienza di magistrato “antimafia” in Sicilia, in un’intervista al quotidiano Nazione-Carlino-Giorno, parla della ricerca dei “mandanti” di quelle stragi in questi termini: “Se dovessimo usare una metafora potremmo dire che il bicchiere è quasi pieno ma non ancora completamente”. Incoraggiante. Se non fosse per almeno due buoni motivi, che ci permettiamo di ricordare all’illustre magistrato. Il primo: la procura di Firenze sta indagando su due persone, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, le cui posizioni sono state archiviate, per gli stessi fatti, già tre volte in quegli stessi uffici siciliani che il dotto Tescaroli ben conosce. Secondo: questa ultima inchiesta avrebbe dovuto essere chiusa entro il 31 dicembre 2022. L’ha riaperta il gelataio Baiardo. Ci dica lei, dottor Tescaroli, se le pare una cosa seria.
I giornalisti con il bollino blu dell’antimafia, come Marco Lillo del Fatto, lo definiscono un giocatore di poker. A noi Salvatore Baiardo ricorda di più uno di quelli del “carta vince, carta perde”, quelli che stanno su uno sgabellino sul marciapiedi e ti danno prima l’illusione lasciandoti vincere, e poi sferrano la mazzata e ti tolgono anche la casa e la fidanzata. Se a questo profilo aggiungi anche quel pizzico di mafiosità che deriva da una condanna per aver aiutato programmatori di stragi ed esecutori di omicidi di Cosa Nostra, ecco la foto, quella esistente e vera, di Salvatore Baiardo.
Fa il giocoliere, e l’abbiamo visto l’ultima volta lunedì sera a Report, dopo averlo già conosciuto al fianco di un affaticato Giletti, che però non si fidava del tutto, non avendo forse il cinismo degli uomini di Ranucci. Il gioco delle tre carte del gelataio consiste in questo: una versione per i giornalisti, una per i magistrati e l’altra per Tik Tok. Con la carotina per tutti del suo libro, che Il Fatto prevede in uscita il 20 giugno con la casa editrice Frascati e Serradifalco. Lì ci saranno le foto di Berlusconi con Graviano? Certo, basta cercarle. E trovarle, così come non fu trovato il mitico documento che avrebbe attestato il finanziamento da parte del nonno dei fratelli Graviano alle prime iniziative imprenditoriali del leader di Forza Italia.
A Massimo Giletti, Baiardo aveva parlato di una sola foto, anzi gliela aveva addirittura mostrata, però al buio e da lontano. Il conduttore di “Non è l’arena” ha riconosciuto con certezza un più giovane Berlusconi, e forse il generale Delfino, personaggio molto conosciuto degli anni novanta e che ora non c’è più e non potrà dare alcuna testimonianza su quello scatto, forse di polaroid e in bianconero. Solo Baiardo, o qualche boss di Cosa Nostra potrebbe dire con certezza (se la foto esistesse), se il terzo uomo, poco più di un ragazzino al tempo, fosse Giuseppe Graviano. In ogni caso, davanti ai magistrati Baiardo ha negato tutto e ancor di più ha irriso i giornalisti creduloni su Tik Tok. Poi Giletti è uscito di scena con la chiusura improvvisa del programma e il pallino passa a Paolo Mondani di Report, vecchia conoscenza del gelataio, che lo interroga davanti a un cornetto in pasticceria e con telecamera nascosta. Macché nascosta, sfotte il giocoliere: l’ho preso in giro perché ho capito subito che mi stava video-registrando. E parla delle tre foto. I magistrati acquisiscono, in accordo con il cronista.
Ma c’è uno scivolone politico, in cui incorrono tutti e tre i soggetti, magistrati, giornalisti e gelataio giocoliere. Le foto sarebbero del 1992, e secondo Baiardo gli incontri con il boss di Cosa Nostra sarebbero finalizzati alla nascita di Forza Italia e la presa del potere da parte di Berlusconi a suon di bombe e stragi. 1992? Forza Italia? Nella prima repubblica e con i governi Andreotti e Amato? Signor Baiardo, aggiusti un po’ le date, mentre porta a passeggio con il guinzaglio pubblici ministeri e giornalisti. Tiziana Maiolo
Da Gelli a Meloni, tutto si tiene. “Report” è meglio di Netflix. SALVATORE MERLO su Il Foglio il 24 maggio 2023.
E’ la trasmissione d’intrattenimento migliore della televisione italiana. Anzi mondiale. Lunedì sera in poco più di un’ora è andato in onda il romanzo delle stragi mafiose. Altro che Sorrentino
Da Licio Gelli a Giorgia Meloni, il romanzo delle stragi. Gli inglesi hanno avuto Ian Fleming e James Bond, John le Carré e Graham Greene, noi abbiamo “Report” e Sigfrido Ranucci su Rai 3, la fantastica macchina visiva, la fiabesca, inesauribile dispensatrice di immagini e parole: che la nuova Rai non ce li tocchi. Guai a lei. E lo diciamo seriamente. “Report” non si tocca! Lunedì sera per oltre un ora, davanti al teleschermo, sul divano, anziché guardare “The diplomat” su Netflix, siamo rimasti incantati davanti a un’opera che dovrebbe essere recensita da Mariarosa Mancuso o Paolo Mereghetti: collusioni tra mafia, politica, carabinieri, terrorismo, massoneria, servizi segreti italiani e americani fluttuavano come gas (o palline da ping pong) sulle pareti, le poltroncine, il tappeto e il tavolino da caffè del soggiorno di casa.
Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” il 24 maggio 2023.
Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell’ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del ‘93. Raggiunto da Report , Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto — di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati — che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. […]
Le immagini sarebbero tre, tutte scattate nella primavera del 1992 in un bar sul lago d’Orta […] di quello scatto sarebbe a conoscenza anche Paolo Berlusconi. Le parole registrate da Report con una telecamera nascosta sono finite subito sul tavolo dei magistrati fiorentini, perché incrociano le dichiarazioni intercettate dagli investigatori e la testimonianza di Giletti, al quale l’editore diLa7 , Urbano Cairo, ha chiuso (i motivi non sono mai stati chiariti) la trasmissione televisiva mentre aveva in scaletta la preparazione di servizi giornalistici proprio su questi fatti.
Lo scorso luglio Giletti aveva intervistato per la prima volta Baiardo per una puntata speciale sulla mafia della sua trasmissione Non è l’Arena su La7 ,dopo averlo visto parlare a Reportai microfoni di Paolo Mondani. In quell’occasione, per accreditare la propria attendibilità con Giletti, il fiancheggiatore dei Graviano aveva mostrato un’immagine con tre persone. «Me l’ha fatta vedere, senza consegnarmela, tenendola lontana da me — la testimonianza del giornalista — eravamo in un bar a Castano, vicino a Milano.
Mi è parsa una foto del tipo di quelle da macchinetta usa e getta, ho visto tre persone sedute a un tavolino. Berlusconi l’ho riconosciuto, era giovane, credo fosse una foto degli anni ‘90, sono certo fosse lui anche perché in quel periodo lo seguivo giornalisticamente». Ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, Giletti ha spiegato perché Baiardo gli ha mostrato il documento: «Perché ho sempre messo in dubbio le sue dichiarazioni». Il giornalista ha aggiunto anche altri dettagli delle confidenze raccolte dal fiancheggiatore dei Graviano, come le telefonate che lo stesso avrebbe ricevuto sul suo telefono — ma destinate al boss — da Marcello Dell’Utri. Lo stesso Dell’Utri che, intercettato, si lamentava delle trasmissioni televisive che Giletti aveva messo in onda sulla mafia.
Salvatore Baiardo, Report e le tre foto di Berlusconi con Giuseppe Graviano: «Le ho fatte io». Alessandro D’Amato su Open.online il 24 maggio 2023.
Le immagini del caso Giletti-Non è l’Arena e le profezie dell’uomo condannato per aver favorito la latitanza dei boss di Brancaccio
Le foto che ritraggono Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino sono tre. Li mostrano seduti a un bar sul lago d’Orta. La data è il 1992. E a scattare le tre Polaroid sarebbe stato proprio Salvatore Baiardo. Che oggi nega l’esistenza degli scatti. Ma che ha detto invece di averle riprese in una registrazione (a sua insaputa) in cui parla con Paolo Mondani di Report. Si tratta delle immagini che Baiardo ha mostrato a Massimo Giletti secondo la testimonianza del conduttore a Firenze, dove si indaga sulle stragi del 1993. E che il gelataio condannato per aver aiutato la latitanza di Madre Natura ha minacciato di voler pubblicare in un libro. Ovvero nell’autobiografia che sta preparando. E che si intitolerà “Le verità di Baiardo“.
Non è l’Arena, gli scatti e i ricatti
Nel verbale il conduttore di Non è l’Arena ha detto ai pm che indagano a Firenze che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Mentre l’ex favoreggiatore dei fratelli Graviano ha subito una perquisizione a marzo. Senza alcun esito. Luca Tescaroli e Luca Turco indagano sulle stragi di Firenze, Milano e Roma. Che si verificarono dopo l’arresto di Totò Riina. E che vedono protagonista tra gli ideatori Matteo Messina Denaro. Mentre viene ripreso a sua insaputa dalle telecamere di Report Baiardo racconta alcuni dettagli sulle fotografie. Le avrebbe scattate lui personalmente. Risalgono a dopo la morte di Paolo Borsellino. E sono collegate alla discesa in campo del Cavaliere: «Nel ’92 era in ballo la nascita di Forza Italia». Berlusconi avrebbe saputo di queste foto perché Baiardo le mostrò al fratello Paolo durante l’incontro tra i due nella sede de Il Giornale.
Cosa succede a marzo?
La Verità oggi racconta che il 2 marzo scorso Baiardo ha mandato a Giletti lo scatto che lo ritrae insieme a Mondani di Report. Gli dice anche che “loro” (cioè la trasmissione) «ricominciano ad aprile, vogliono farla con Netflix». Fa capire al conduttore che lui e Mondani hanno parlato delle foto. E gli dice che a Report sapevano già tutto, sospettando che sia stato lui a parlargliene. Giletti nega. Baiardo dice di aver fatto finta di cadere dalle nuvole. Poi tira fuori un’altra “profezia” delle sue. Dice che dopo il giorno 8 marzo «ne usciranno delle belle». Quello è il giorno in cui la Cassazione deve decidere sulla riforma dell’ergastolo ostativo del governo Meloni. Il 27 marzo la procura di Firenze perquisisce Baiardo. Ma le foto non si trovano. Baiardo intanto smentisce Giletti su Tiktok riguardo la foto.
Le profezie e le istantanee
Baiardo è l’uomo della “profezia” su Matteo Messina Denaro. In un’intervista a Non è l’Arena si era detto convinto che il superlatitante si sarebbe fatto catturare attraverso un accordo. Nei tempi però Baiardo ha parlato un po’ di tutto. Ha profetizzato che Giletti non sarebbe tornato in Rai, ma gli ha consigliato di aprirsi un canale YouTube. Ha provato a rimediare pubblicità per la trasmissione in crisi per l’Auditel. Avrebbe anche detto: «La foto non posso consegnarla se prima non ne parlo con Graviano». Il 26 aprile scorso Mondani è stato ascoltato dalla procura di Firenze. Che ha acquisito anche le immagini dei suoi dialoghi con Baiardo. A parlarne oggi è anche il Fatto Quotidiano.
La versione di Giuseppe Graviano
Giuseppe Graviano ha dato la sua versione dei fatti riguardo gli incontri con Berlusconi. In un memoriale consegnato tre anni fa ai giudici durante il processo ‘Ndrangheta Stragista ha detto che «la morte di mio padre, i rapporti di Totuccio Contorno con la procura di Palermo, quelli del gruppo di Bontate con Berlusconi, gli investimenti finanziari di alcuni imprenditori di Palermo a Milano, la strage di via d’Amelio» fanno parte di una vicenda collegata. Madre Natura ha sostenuto che dell’omicidio del padre, imprenditore «e incensurato» Michele Graviano, per il quale si è accusato Tanino Grado, sarebbe invece anche responsabile il pentito Totuccio Contorno. Graviano ha accusato anche «il pool della procura di Palermo, composto da Falcone, Chinnici e altri» di aver consentito a Contorno di commettere «una serie sconfinata di omicidi» che non avrebbe mai confessato.
Gli investimenti dei palermitani a Milano
Poi c’è il racconto dei 20 miliardi dei palermitani a Milano. Tra 1970 e 1972 suo nonno materno Filippo Quartararo ha deciso di farsi capofila di un gruppo di investitori del palermitano che piazzarono la cifra che equivale a 173 milioni di euro di oggi. Nell’occasione Michele Graviano ha detto al padre di sua moglie che non gli interessa partecipare alla “cordata” perché preferisce gestirsi gli interessi da sé. E gli ha intimato anche di non infilare i suoi figli (sono quattro: oltre a Filippo e Giuseppe ci sono il maggiore Benedetto e la più piccola Nunzia) in questa storia. Quando è morto il padre, sostiene Giuseppe, il nonno gli ha fatto presente che ci sono gli interessi milanesi da curare. Di questi, sempre secondo Graviano, si è occupato finora soltanto suo cugino Salvo Graviano.
La scrittura privata
Sempre secondo Graviano questi 20 miliardi sono garantiti da una scrittura privata tra Berlusconi e gli investitori palermitani. «E questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano. In quell’incontro si parlò di mettere nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno Quartararo e gli altri investitori palermitani», sostiene Graviano. Il quale aggiunge che i palermitani da Berlusconi «volevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti a un notaio». Era stato fissato anche un appuntamento in uno studio per firmarlo nel febbraio del 1993. Poco prima Graviano viene arrestato.
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Report, la minaccia di Salvatore Baiardo a Berlusconi: «Questo governo cade». Alessandro D’Amato su Open.online il 23 maggio 2023.
L’uomo della “profezia” dice di essere pronto a pubblicare le istantanee: «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade». Ma…
«Se non succede quello che succede questo governo cade». È un Salvatore Baiardo in vena di mandare segnali quello che parla della foto di Silvio Berlusconi con Giuseppe Graviano mentre non sa di essere registrato da Paolo Mondani di Report. Le immagini che avrebbe scattato proprio lui ai due e al generale Francesco Delfino sul lago d’Orta a Omegna. E che avrebbe già mostrato in occasione dell’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del Giornale a Milano. Secondo quanto ha raccontato lui stesso – per poi smentirlo – le istantanee con una Polaroid è pronto a pubblicarle in un libro di prossima uscita. Più precisamente: «Se non va tutto come deve andare nel libro usciranno le foto». E quindi «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade».
L’indagine
Il Fatto Quotidiano fa sapere oggi che la procura di Firenze ha acquisito nei giorni scorsi le registrazioni dei colloqui di Mondani con Baiardo. I Pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano insieme al sostituto Lorenzo Gestri su Berlusconi e su Marcello Dell’Utri. I pubblici ministeri hanno chiesto alla trasmissione Rai di «volere consegnare le registrazioni oggetto delle interlocuzioni intercorse il 4 ottobre, 2 marzo 2021 o in altre date tra Salvatore Baiardo e il giornalista Paolo Mondani, oggetto della deposizione di quest’ultimo il 26 aprile 2023 ove è stato fatto riferimento alla fotografia ritraente Silvio Berlusconi, Francesco Delfino, Giuseppe Graviano. I pm quindi hanno creduto al conduttore di Non è l’Arena Massimo Giletti. Il quale ha detto che Baiardo gli ha mostrato la foto e che lui nell’occasione ha riconosciuto Berlusconi.
La versione di Baiardo
Secondo Baiardo quindi esistono più foto che ritraggono Berlusconi, Graviano e Delfino. Le foto sono testimonianza di quel rapporto tra Berlusconi e Graviano che “Madre Natura” ha spiegato in un memoriale (sempre che dica il vero). Nel quale sostiene che un numero non imprecisato di imprenditori palermitani tra cui il nonno materno hanno investito nelle aziende immobiliari di Berlusconi negli Anni Settanta una cifra vicina ai 20 miliardi di lire. Graviano dice che gli investimenti erano garantiti da una “scrittura privata” conservata da suo cugino, nel frattempo deceduto. E aggiunge che avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento con un notaio a Milano a febbraio per ratificare l’accordo e per decidere sulla restituzione del prestito. Ma pochi giorni prima è stato arrestato.
La smentita
Nel video di Report quando Mondani gli chiede della reazione di Paolo Berlusconi alla vista delle foto Baiardo fa un gesto con le mani che significa “paura”. Intanto ieri Baiardo su TikTok dopo aver letto le anticipazioni di Report ha smentito tutto. Sostenendo di aver detto “fandonie” contro il povero Berlusconi. E che si augura una denuncia per diffamazione nei confronti della trasmissione. Intanto il 20 giugno uscirà il suo libro per la casa editrice Frascati e Serrafalco. Ma cosa vuole di preciso Baiardo da Berlusconi? Tanto da minacciare la caduta di un governo? Posto che pare ovvio che secondo l’ex gelataio di Omegna che si offende se viene definito “pentito” intenda dire che i danni politici nei confronti di Berlusconi potrebbero mettere in difficoltà il governo, il problema rimane sempre l’ergastolo ostativo.
Quale governo?
Il governo Meloni ha infatti confermato l’ergastolo ostativo in uno dei primi provvedimenti licenziati. Né c’era possibilità che facesse qualcosa di diverso, vista la sensibilità dell’opinione pubblica su questi temi. Ma se la registrazione risale a prima delle elezioni del 25 settembre (la data non è specificata) allora la minaccia è nei confronti di Draghi. Di certo la situazione sembra simile a quella del 1992. Quando i mafiosi volevano ottenere la cancellazione del 41 bis. E non hanno ottenuto nulla.
La pupiata. Report Rai PUNTATA DEL 22/05/2023 di Paolo Mondani
Collaborazione di Marco Bova e Roberto Persia
Siamo alla ricerca della verità
sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Sono passati oltre trent’anni e ancora siamo alla ricerca della verità sui fatti
di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Racconteremo i
particolari fino a oggi rimasti segreti delle fasi propedeutiche che hanno
portato all'arresto di Matteo Messina Denaro, e quelli che riguardano la sua
latitanza. Trent’anni sono passati dalla strage di Firenze in via dei
Georgofili. La mafia in quegli anni metteva bombe qua e là per il Paese, ma
secondo una nota del Sisde non era sola nella pianificazione della strategia
stragista. Grazie al recentissimo lavoro della Commissione parlamentare
antimafia aggiungiamo pezzi di verità sui mandanti e sugli esecutori.
LA PUPIATA. Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Filmaker: Dario D'India, Cristiano Forti, Alessandro Spinnato Montaggio: Elisa Carlotta Salvati, Giorgio Vallati
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Ragazze buongiorno. Sono in autostrada. Niente di nuovo. Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, anche da mia mamma, e quando le persone mi studiano minchia mi infastidisco come una belva.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. Pettegolezzi spacciati come segreti, le sue cartelle cliniche, i suoi selfie, le sue chat, i suoi amori veri o presunti, le amanti gelose che si mortificano e lo esaltano, il suo omertoso paese a fare da scenario, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro tutti da Campobello di Mazara.
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Non ho vissuto nel salottino seduto con le ciabatte. Io sono stato un tipo che il mondo lo ha calpestato. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Come se bastassero il medico Tumbarello, l'alter ego Bonafede e l'autista Luppino, a raccontare i suoi fiancheggiatori. Mancano pezzi decisivi della dinamica dell’arresto. E soprattutto continuiamo a non sapere nulla delle protezioni di cui ha goduto per trent'anni. È un vero boss questo Messina Denaro o solo un simbolo utile a dichiarare la mafia sconfitta?
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Lo sai questo fatto di scrivere un libro me lo hanno detto tante volte. È che veramente tutta la vita è un’avventura. Se ti raccontassi cose…veramente cose assurde.
ANTONINO DI MATTEO – MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Io ritengo che nessun mafioso per quanto potente può restare latitante per 30 anni senza poter godere di protezione, ovviamente, anche molto alte. Ed è cresciuto in quella provincia di Trapani, che da sempre più delle altre provincie siciliane è stato il crocevia degli intrecci tra Cosa Nostra, la massoneria e ambienti particolari e deviati dei servizi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella di Trapani non è una provincia qualsiasi. Già nel 1986, nel centro storico, all'interno di un circolo culturale, Scontrino, la polizia scopre sei logge massoniche, tra le quali Iside uno e Iside due, quelle che presumibilmente sono state inaugurate dal Gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, ecco dentro quelle liste ci sono i nomi di politici e imprenditori, uomini delle forze dell'ordine e prefetti. Tutti dialogavano con i grembiulini mafiosi. E poi, nel 1987 viene scoperta la base Scorpione, quella riferibile a Gladio, a due passi da San Vito Lo Capo. Insomma, Trapani è la seconda provincia d'Italia per numero di logge massoniche. Nel 2016 il magistrato Marcello Viola, che oggi è capo della Procura di Milano, ha depositato una lista di 460 massoni che erano suddivisi in 19 logge, sei solo a Castelvetrano. Una lista che è stata anche ampliata dalla commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che, con l'aiuto di alcuni grandi maestri dell'obbedienza, ha poi potuto sottolineare il proliferare di massoni nella provincia, nella città di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano. E infine, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro 16 gennaio scorso, emerge che uno dei più grandi fiancheggiatori del super latitante era il medico Alfonso Tumbarello, i cui contatti con Matteo Messina Denaro erano noti ai servizi segreti italiani già negli anni 2000. E si scoprirà solo però dopo l'arresto che il medico era iscritto alla loggia massonica Valle di Cusa di Campobello di Mazara, affiliata al Grande Oriente d'Italia. Ora il magistrato Maria Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro, nel corso di un interrogatorio a Giuseppe Tuzzolino, architetto, scopre che Matteo Messina Denaro aveva messo in piedi una loggia massonica tutta sua, La Sicilia. E la rete della massoneria è stata fondamentale nella copertura della sua latitanza. Il nostro Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2017, l’architetto Giuseppe Tuzzolino, dopo anni di collaborazione con la giustizia, viene arrestato e condannato per calunnia. Aveva raccontato la balla di un pericolo imminente corso dai due magistrati che lo interrogavano. Ma alcune sue rivelazioni erano state riscontrate. Tuzzolino aveva dichiarato di essere iscritto a una loggia massonica coperta di Castelvetrano, denominata La Sicilia, in cui sedeva Matteo Messina Denaro e l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi ha sempre smentito l'appartenenza alla loggia. Oggi è in carcere, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. PAOLO MONDANI Il senatore D’Alì era dentro la loggia?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA D’Alì era al di sopra di ogni tipo di riunione. Quindi tutto quello che avveniva forse in loggia era perché D’Alì lo aveva in parte deciso o chi per lui.
PAOLO MONDANI Una sorta di Gran Maestro emerito.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una sorta di Gran M…, bravissimo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tuzzolino a verbale aveva fatto i nomi degli aderenti alla loggia La Sicilia, peccato che le indagini su questi iscritti eccellenti si siano inspiegabilmente fermate.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In quegli anni il puparo della massoneria era Gasperino Valenti, quindi era lui che gestiva i due mondi massonici del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia Regolare d’Italia. Mi propone di far parte di questa super loggia, La Sicilia, una loggia itinerante, quindi senza un tempio fisso e senza delle riunioni specifiche predefinite. Quindi avvenivano comunicazioni una sera prima e il pomeriggio ti dicevano, tu ti recavi a Castelvetrano, e il pomeriggio ti dicevano: stasera ci vediamo là. Poi magari poteva pure cambiare il luogo. Questa segretezza di questa super loggia era dovuta al fatto che vi appartenevano personaggi politici di un certo spessore come onorevoli e vi appartenevano imprenditori, quindi che non volevano figurare.
PAOLO MONDANI Tutti della zona del trapanese?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tutti gli imprenditori erano assolutamente e solo della zona della provincia di Trapani.
PAOLO MONDANI Lei però raccontò agli inquirenti che questa loggia in qualche modo tutelava la latitanza di Matteo Messina Denaro.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Le posso dire che conosco in loggia un personaggio, di cui tutti avevano una reverenza straordinaria oserei dire, davvero straordinaria. Lui era accompagnato da una donna, quindi brasiliana di origine molto bella, e lui si chiamava per quel periodo Nicolò Polizzi. Si diceva che fosse un imprenditore di origine Castelvetrano, che però operava nel settore mobilificio in Brasile, una città vicino San Paolo. La reverenza era davvero assoluta. Camminava con due macchine, quindi camminava con un’autista e soprattutto veniva in orari specifici, dalle 23 in poi.
PAOLO MONDANI E questo Nicolò Polizzi che ruolo aveva?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Solo dopo la terza volta che lo vidi. Ci incontrammo comunque in una riunione conviviale a Maastricht, in una riunione massonica del tutto internazionale e lì venne anche Nicolò con la sua compagna. Fu in quella specifica occasione che io capii che lui era quell’uomo. Era Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI E lei oggi che ha visto la faccia del vero Matteo Messina Denaro può dire che era lui?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era lui.
PAOLO MONDANI Nicolò Polizzi?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si era lui Nicolò Polizzi.
PAOLO MONDANI Ricorda qualche cosa? Un suo discorso? Due parole che lui ha scambiato con lei o con altri?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, mi disse che io ero una brava persona quindi gli piacqui. Poi mi disse, gli parlai io di un progetto che avevo da svolgere a New York e lui mi raccomandò, mi diede dei contatti su New York e da lì partì la mia esperienza americana. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2016 il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta che frequentava la mafia di Castelvetrano, conferma l'esistenza della loggia La Sicilia.
PAOLO MONDANI E Fondacaro dirà addirittura ai magistrati calabresi che la loggia La Sicilia era una loggia di diretta derivazione della P2.
PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Fondacaro sostiene che Matteo Messina Denaro apparteneva a questa loggia. Quando dice che questa loggia è di derivazione, deriva dalla P2, ecco questa cosa non mi stupisce. Perché anche Bontate, che era massone e che era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che si chiamava la loggia dei Trecento era entrato in rapporti molto stretti con Licio Gelli.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Bontate è stato il capo dei capi di Cosa Nostra ucciso dagli emergenti corleonesi di Totò Riina nel 1981. La sua Loggia dei Trecento era conosciuta anche come Loggia Sicilia-Normanna, e forse stiamo parlando della stessa loggia di Matteo Messina Denaro. Pentiti autorevoli come Gioacchino Pennino e Angelo Siino hanno dettagliato con estrema precisione i viaggi di Gelli in Sicilia.
PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Gelli andava lì per incontrare Bontate perché la loggia di Bontate era collegata alla P2, era considerata una appendice della P2 in Sicilia. Allora se tanti anni dopo viene fuori che anche quella di Matteo Messina Denaro era collegata alla P2 vuol dire che il discorso è andato avanti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è coperto da una rete massonica. L'aveva detto Maria Teresa Principato, il magistrato che ha dato a lungo la caccia al super latitante. Ma nessuno le aveva creduto. Ora che il territorio di Trapani, dove la mafia regna dal 1800, fosse un territorio coperto da un'amalgama di poteri difficilmente penetrabile, l'aveva già detto nel 1838 il prefetto Olloa al procuratore del re. E tra questi poteri c'è sicuramente la massoneria. Il collaboratore, Fondacaro, nel processo del novembre 2022, ha ricostruito davanti al magistrato Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria la penetrazione della 'ndrangheta all'interno della P2, ha ricostruito la rete massonica e ha detto anche di essere entrato in contatto con la Loggia della Sicilia, cioè la loggia voluta da Matteo Messina Denaro, alla quale si erano iscritti per volere proprio del boss solo uomini fidati, per lo più professionisti, ingegneri, avvocati, architetti, imprenditori e anche qualche giornalista e anche qualche politico. Una loggia itinerante nella quale Matteo Messina Denaro si muoveva a suo agio nei panni di un imprenditore, Nicolò Polizzi, e dispensava consigli e anche contatti per chi voleva investire all'estero. Ecco, insomma, poi, secondo Tuzzolino, l'architetto interrogato dalla Principato, a questa loggia faceva anche parte il senatore, l'ex senatore D'Alì, l'ex sottosegretario al ministero dell'Interno del governo Berlusconi 2001-2006. Lui ha sempre smentito l'appartenenza alla Loggia. Ora a vigilare sui terreni di famiglia c'era Messina Denaro, padre, Ciccio, e figlio e la famiglia D'Alì era anche proprietaria della Banca Sicula. Lo zio era proprio il presidente e il nome era nelle liste della loggia P2 di Licio Gelli. Ora l'ex sottosegretario è stato condannato definitivamente ed arrestato a dicembre scorso. Pochi giorni dopo qualcuno ha notato la coincidenza, è stato arrestato Matteo Messina Denaro e a proposito dell'arresto, questa sera siamo in grado di rivelarvi alcuni dei particolari rimasti fino a oggi segreti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Benito Morsicato, soldato di Cosa Nostra di ultima generazione di base a Bagheria si pente nel 2014 e le sue dichiarazioni portano in carcere i parenti di Messina Denaro e vari altri affiliati. Ma lascia il programma di protezione nel 2020 protestando per il trattamento subìto.
PAOLO MONDANI Lei quanti appartenenti alla famiglia di Matteo Messina Denaro ha conosciuto?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nipote del cuore di Matteo Messina Denaro, che è Luca Bellomo, e poi c’è anche un altro nipote sempre del cuore, si chiama Francesco Guttadauro.
PAOLO MONDANI Con questi Messina Denaro ci era diventato amico?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con i nipoti si, lavoravamo assieme nell’ambito delle rapine.
PAOLO MONDANI Ha mai sentito dire da altri appartenenti a Cosa Nostra perché Matteo Messina Denaro non viene catturato?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo che se ne parla. Anche io con altri soldati, ne parlavo anche io con l’ex, con il collaboratore di giustizia...
PAOLO MONDANI Chi?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Salvatore Lopiparo. Se ne parlava che c’erano dei personaggi dello Stato, che garantivano diciamo la latitanza di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI In loggia c’erano uomini delle forze dell’ordine?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tantissimi.
PAOLO MONDANI E uomini dei servizi di sicurezza? Che in qualche modo lei è venuto a sapere.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello che era ai tempi il responsabile dei servizi segreti per la Sicilia occidentale.
PAOLO MONDANI Lei a verbale dice anche di sapere che Matteo Messina Denaro frequentava la Spagna e l’Inghilterra.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si. Io nel 2015, il 2 aprile o il 3 aprile con esattezza del 2015, quindi era 2 o 3 giorni prima di Pasqua riferisco in località segreta alla dottoressa Principato la posizione geografica esatta dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI E cioè?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che era a Roquetas De Mar. In una villa a Roquetas De Mar. Gli dico chi era il proprietario…
PAOLO MONDANI Che sta in Spagna?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che sta in Spagna, in Andalusia, sì. Vicino Almeria.
PAOLO MANDANI Lei c’era stato?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per Messina Denaro, il modo migliore per assaporare il fascino di Roquetas de Mar è recarsi a Playa Serena, fare shopping, e osservare una ragazza che spunta dalla piscina di un albergone.
PAOLO MONDANI Quanti giorni è stato là?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una settimana, suo ospite.
PAOLO MONDANI Wow.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un hotel di lusso, sì
PAOLO MONDANI E lui era contornato da belle ragazze? Ha molti amici?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, si, molti amici. Il sindaco di Almeria venne a farci onore quindi che ci venne lì con grande.. erano davvero un ambiente molto spudorato ecco.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Se la Sicilia è metafora del mondo come diceva Leonardo Sciascia, più umilmente, Giovanni Savalle è la metafora di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro. A Savalle, l'imprenditore più facoltoso della zona, la Guardia di Finanza sequestrò, nel 2018, 64 milioni di euro, tra cui una importante quota della proprietà del Kempinsky hotel di Mazara del Vallo. Poi gli è piombata addosso la bancarotta fraudolenta per due sue società. Ma nell'agosto scorso è caduta l'accusa più pesante: essere alle dipendenze di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI Sui giornali è stato persino definito il cassiere di Matteo Messina Denaro.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, non il cassiere, il tesoriere, che è diverso.
PAOLO MONDANI Vabbè, insomma, diciamo. Una delle contestazioni che le sono state fatte riguarda una società che si chiama Atlas cementi. Alcuni membri della sua famiglia erano parte di quella compagine azionaria.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA È vero.
PAOLO MONDANI L’Atlas cementi era di Rosario Cascio.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no. L’Atlas cementi era di Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI E Rosaro Cascio?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Rosario Cascio l’ha comprata da Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI Benissimo, ma Rosario Cascio è stato coinvolto nell’inchiesta mafia appalti e quindi diciamo così a cascata i suoi famigliari, quindi lei siete stati indicati come….
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Io Io le posso dire che Gianfranco nel 1990, '91 ora non …
PAOLO MONDANI Stiamo parlando di Gianfranco Becchina?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Becchina, quando ha venduto
PAOLO MONDANI Che è un noto trafficante di reperti archeologici.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore, oggi è un trafficante di reperti archeologici. Ma Gianfranco Becchina a me mi è stato presentato da Aldo Bassi, Aldo Bassi...
PAOLO MONDANI Che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Due volte.
PAOLO MONDANI Del quinto governo Andreotti.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Non lo so.
PAOLO MONDANI …e del primo governo Cossiga.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, quindi vede una persona di grande qualità.
PAOLO MONDANI E quando lo ha conosciuto lei non era un trafficante di reperti archeologici?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Assolutamente. Tutti volevano avere a che fare con Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI Perché lui vendeva olio in tutto il mondo.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Bravissimo. Ricordi che l’olio di Gianfranco Becchina è andato sul tavolo di Bill Clinton.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Gianfranco Becchina il 24 maggio dell'anno scorso è stato confiscato un patrimonio stimato in 10 milioni di euro. Secondo la Dia, Becchina sarebbe stato a capo di un’organizzazione dedita al traffico internazionale di reperti archeologici con cui avrebbe accumulato ingenti ricchezze. Mentre Sarino Cascio, suo socio nella Atlas Cementi, accusato di essere uno dei cassieri di Matteo Messina Denaro, nel 2005 è stato condannato per associazione mafiosa. Ma la Cassazione nel 2021 ha ammesso la revisione della condanna perché già assolto per gli stessi fatti in un altro processo.
PAOLO MONDANI Le hanno contestato i rapporti con un noto mafioso.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Quale?
PAOLO MONDANI Giuseppe Grigoli.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ma allora, anche lì, Giuseppe Grigoli, io ho fatto una piccola consulenza praticamente cinque milioni delle vecchie lire, 2.500 euro, questo è il mio rapporto con Pino Grigoli, ma di cosa stiamo parlando dottore? PAOLO MONDANI Poi le vengano contestati i rapporti con Filippo Guttadauro, che è nientemeno che il marito di Rosalia Messina Denaro. GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, perfetto dottore.
PAOLO MONDANI Alla figlia di loro, Maria, lei ha procurato un posto di lavoro.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore.
PAOLO MONDANI Avrebbe procurato...
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ecco, avrei procurato. Perché Maria Guttadauro era bravissima nel rappresentare il territorio perché lo conosceva, perché aveva studiato per questa cosa.
PAOLO MONDANI I suoi rapporti con Filippo Guttadauro?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, quali rapporti? Conoscenza praticamente così e nulla di particolare, nulla di particolare.
PAOLO MONDANI Con Bellomo?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Luca Bellomo, dottore, anche lì: Luca Bellomo è il figlio del signor Bellomo. Io conosco il signor Bellomo grazie al fatto che...
PAOLO MONDANI Anche lui noto mafioso, Luca Bellomo.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no, non è un mafioso. Luca era un ragazzo che ha sposato la sorella di Maria Guttadauro.
PAOLO MONDANI I suoi rapporti con la politica?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Buoni, buoni. Io ho mantenuto rapporti con tutti.
PAOLO MONDANI Con quale parte della politica?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, destra, sinistra, centro, non ho mai, ma guardi...
PAOLO MONDANI Sopra, sotto.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE – COMMERCIALISTA Totò mi disse una volta: "Perché non ti presenti come senatore?" Totò ma io non faccio la politica, mi piace fare questo lavoro e quant’altro. Non l’ho seguito ed è stato un peccato perché oggi sarei senatore della Repubblica italiana.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il mentore del quasi senatore è Totò Cuffaro che ha scontato cinque anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra. Il resto degli amici di Savalle inizia con Pino Grigoli, re dei supermarket nel trapanese, riciclatore di denaro delle cosche e fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro; poi Filippo Guttadauro, da anni in carcere, sposato con la sorella di Matteo, Rosalia, arrestata nel marzo scorso; e Luca Bellomo, nipote del cuore di Matteo, per anni in carcere per mafia, traffico di droga e rapina. Insomma, una lunga catena di affetti che non si può spezzare. Della quale avrebbe fatto parte anche il medico Alfonso Tumbarello arrestato nel febbraio scorso per aver curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era coperta da quella del geometra, Andrea Bonafede. Il 70enne Tumbarello, in passato impegnato in politica con Totò Cuffaro e con Alleanza nazionale aveva un’altra passione.
PAOLO MONDANI Tumbarello era appartenente alla loggia Valle di Cusa, Giovanni di Gangi 1035 all'Oriente di Campobello di Mazara. Il Gran Maestro che ha da dire rispetto al fatto che questo venga arrestato per concorso esterno?
STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Appena ho saputo che era stato indagato l'ho sospeso. Prima dell'Ordine dei Medici che l'ha sospeso soltanto quando è stato arrestato.
PAOLO MONDANI Alfonso Tumbarello era noto processualmente come ponte verso la famiglia di Messina Denaro sin dal 2012. Voi, l'idea che mi sono fatto è che arrivate sempre molto dopo. Non mancate di vigilanza sui vostri iscritti?
STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Che Tumbarello potesse essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa non me lo sarei aspettato. Io non ho il potere di intercettare, non ho il potere di perquisire, non ho il potere di andare a vedere i conti correnti delle persone.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, il 19 ottobre del 2012, 11 anni fa, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino testimoniando al tribunale di Marsala sosteneva che il suo tramite con la famiglia di Messina Denaro era stato proprio Alfonso Tumbarello. Si voleva prendere il latitante? Bastava inseguire Tumbarello. E un funzionario della polizia giudiziaria ci dice qualcosa in più del medico massone di Messina Denaro.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Il medico Tumbarello era una fonte dei servizi segreti. Ed è lui secondo me che fa confidenze su Messina Denaro ma sin dai tempi delle lettere a Vaccarino.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta parlando di un rapporto epistolare tra il sindaco Antonio Vaccarino e Matteo Messina Denaro intercorso tra il 2004 e il 2007. Una vicenda ancora oggi misteriosa. Perché l'operazione venne organizzata dal Sisde, il servizio segreto civile, diretto dal generale Mario Mori che aveva reclutato Vaccarino nel tentativo di comunicare con il latitante. Ma di questa iniziativa non è mai stato chiaro il fine.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA L'Operazione Vaccarino, non era finalizzata alla cattura di Messina Denaro, ma serviva a preparare il terreno ad un accordo per la consegna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo dice la nostra fonte. E chissà se è vero che anche Tumbarello era della partita. Ma Giuseppe De Donno, ufficiale dei carabinieri e braccio destro di Mario Mori, finito anche lui al Sisde, il 12 maggio del 2020, spiega in un processo a Marsala che lo scambio di lettere fra Vaccarino e il latitante era stato concertato dal servizio per realizzare la consegna spontanea di Matteo Messina Denaro.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questo è un pre-tavolo di trattativa. E Matteo Messina Denaro in una lettera a Vaccarino spiega esattamente quel che vuole.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo febbraio del 2005 Messina Denaro scrive al sindaco Vaccarino: "hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri...hanno istituito il 41 bis, facciano pure e che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità...Per l’abolizione dell’ergastolo penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione". Messina Denaro è chiaro: l'ergastolo e il 41 bis sono il centro della trattativa. Dopo questa lettera passano 18 anni. Matteo si ammala e improvvisamente cambia abitudini.
PAOLO MONDANI Messina Denaro dà il suo cellulare alle signore che fanno con lui la chemioterapia, si fa un selfie con un infermiere della clinica Maddalena di Palermo, prende il nome di Andrea Bonafede nipote di un pregiudicato di mafia, il suo secondo covo a Campobello di Mazara è intestato a un soggetto già indagato per mafia. Come se volesse lasciare delle briciole sul suo percorso, delle tracce. Mi chiedo e le chiedo: si è fatto arrestare?
ANTONINO DI MATTEO - MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Sono tutti comportamenti assolutamente anomali. Nessuno dei grandi latitanti di mafia si è comportato in questo modo, anzi in modo esattamente contrario. Ha adottato quindi un comportamento che è giustificabile solo in due modi: o si sentiva talmente sicuro delle protezioni da comportarsi in maniera incauta sapendo che non sarebbe stato catturato perché non lo volevano catturare oppure si è fatto arrestare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La testimonianza che ora ascoltiamo viene da un investigatore che per anni ha braccato Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI Parliamo della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio scorso. Da dove cominciamo?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cominciamo dal maggio 2022, quando la polizia sfiora la cattura di Messina Denaro. Lui inviava delle lettere alle sorelle Giovanna e Bice via posta. E la polizia ne intercetta quattro e accerta su queste lettere la presenza del DNA del latitante. E poi vengono piazzate 150 telecamere vicino alle buche delle lettere di Mazara, Campobello, Castelvetrano e Santa Ninfa in attesa che lui vada lì a imbucarle.
PAOLO MONDANI Poi però Messina Denaro ad un certo punto inspiegabilmente si ferma.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Sì, l'ultima lettera intercettata è del 24 maggio 2022, era indirizzata alla nipote, Stella Como, e aveva come mittente un mafioso di Santa Ninfa. Nella lettera c'erano due pizzini destinati alle sorelle, uno destinato a Fragolone, probabilmente il soprannome della sorella Rosalia. E Matteo scrive: "È andato tutto a scatafascio, la ferrovia non è praticabile, è piena...quindi capirai che non si può".
PAOLO MONDANI Un messaggio in codice, cosa vuol dire?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Vuol dire che Matteo Messina Denaro si era accorto che la Polizia intercettava le lettere e da quel momento non scriverà più.
PAOLO MONDANI Evidentemente c'era una talpa...
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Possibile.
PAOLO MONDANI E i carabinieri come entrano nell'inchiesta?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Ros e polizia hanno sempre condotto delle indagini parallele. Poi a un certo punto succede qualcosa di strano: i carabinieri chiedono alla polizia, a dicembre 2022, le chiavi dell'appartamento di Rosalia. L'appartamento era già pieno delle microspie della polizia e i carabinieri vogliono aggiungerne una nel bagno. La polizia a questo punto si arrabbia: ma come, che ci andate a fare nel bagno, non succede nulla là dentro. Rischiate di compromettere tutto, già Rosalia si era accorta dei movimenti del Ros attorno e dentro le sue case, anche in quella di campagna.
PAOLO MONDANI A questo punto però la polizia non può certo rifiutarsi di dare le chiavi ai carabinieri.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA E infatti consegna le chiavi al Ros che il 6 dicembre del 2022 entra e si concentra nell'intercapedine della sedia dove ci sono le copie dei pizzini e trova degli appunti sulla condizione medica di Matteo.
PAOLO MONDANI Che è il pizzino decisivo, quello che permette ai carabinieri di fare lo screening sui malati di tumore e arrestarlo. Ma loro come sanno del nascondiglio nella sedia?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA A casa di Rosalia era piazzata una telecamera gestita insieme dal Ros e dalla polizia. La polizia monitorava già Rosalia attraverso le microspie che erano sparse in vari punti della casa e voleva intercettarle anche il telefono. La Procura però dà il permesso soltanto ai carabinieri.
PAOLO MONDANI Qui non capisco una cosa, quando la polizia è entrata in casa di Rosalia l'aveva visto quel pizzino sulla malattia di Matteo?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia entra per prima...
PAOLO MONDANI Prima dei carabinieri.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cerca, trova, fotografa tutti i pizzini oggi resi noti, ma non trova quello della malattia.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riassumendo. La sorella di Matteo, Rosalia, è la chiave della cattura del fratello. La polizia lo capisce subito e con i carabinieri si contendono microspie e intercettazioni. Sulla carta, tutti sanno tutto, eppure solo i carabinieri trovano il pizzino con gli appunti sulla malattia di Matteo. La polizia entra prima di loro in quella casa ma quel pizzino non c'è. La cosa lascia pensare, perché solo quel pezzo di carta spiega la cattura di Messina Denaro alla clinica la Maddalena. Senza quel pizzino dovremmo parlare di consegna del latitante. E poi, tutti entrano in casa sua, ma Rosalia non si accorge mai di nulla?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Rosalia impazzisce quando scopre che il 6 dicembre erano entrati i carabinieri e la polizia se ne accorge, lo capisce perché a Rosalia avevano messo una microspia anche nella ciabatta.
PAOLO MONDANI Insomma, carabinieri e polizia non collaborano e si pestano i piedi.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Bah, a me sembra che pestano i piedi alla polizia che stava sulla pista già da parecchio tempo. Quando nel 2021 Matteo Messina Denaro lascia l'Albania è la polizia a capire che si trova qui nel trapanese. E da lì il risveglio dell'interesse per le indagini da parte dei carabinieri.
PAOLO MONDANI E come viene individuato Matteo Messina Denaro in Albania?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Perché la polizia intercetta uno scambio di dati tra Giovanna, la sorella, e Matteo. Matteo viveva praticamente ormai là, in Albania. Tant'è vero che anche la sua amante, Andrea Hassler, l'amante austriaca lo va a trovare lì. Poi improvvisamente Matteo decide di lasciare l'Albania e torna nel trapanese e la polizia traccia Rosalia attraverso alcuni video che Rosalia sposta, a Matteo, erano video registrati e indirizzati a lui con i saluti della vecchia madre.
PAOLO MONDANI Torniamo un attimo però al pizzino del maggio dell'anno scorso, quello dove Matteo scrive: "La ferrovia è piena"... A me sembra la chiave di tutta la vicenda della cattura questo.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Lo è. Perché lui in quel modo dichiara che non vuole più utilizzare la posta, non è sicura, e solo di questo si preoccupa. E infatti, quando lui poi si trasferisce in Via CB 31 è a poche centinaia di metri da casa sua. Vuol dire che a Campobello lui si sente sicuro. Nonostante la presenza delle telecamere.
PAOLO MONDANI Insomma, in estrema sintesi, qualcuno spinge Matteo a non scrivere più lettere perché non vuole che sia catturato dalla polizia a maggio del 2022, ma questo perché?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questa è un'operazione dell’intelligence.
PAOLO MONDANI Che significa?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA I servizi segreti non vogliono che Matteo venga preso dalla polizia a maggio del 2022 perché il governo Draghi non sarebbe caduto. Siamo di fronte a un nuovo round della trattativa. Questo significa che ne hanno a guadagnare anche i vari Graviano, Lucchese, Bagarella, Madonia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo questo alto funzionario di polizia giudiziaria, la cattura di Matteo Messina Denaro sarebbe il segmento di una trattativa che ha le radici nel tempo, da quando cioè l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, incaricato dal Sisde di Mario Mori, cerca di prendere contatti con Matteo Messina Denaro. E lo fa attraverso la mediazione del medico Alfonso Tumbarello, il medico massone. E comincia con il super latitante un singolare scambio di lettere sotto degli pseudonimi, Vaccarino è Svetonio, Matteo Messina Denaro, Alessio. E proprio Alessio scrive, Matteo Messina Denaro scrive, ad un certo punto una lettera particolare: “hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri e hanno istituito il 41 bis. Facciano pure, che mettano anche l'82 quater. Tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”. “Per l'abolizione dell'ergastolo - scrive Matteo Messina Denaro - penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione”. Ecco, Matteo Messina Denaro è chiaro: il 41 bis è ancora un nervo scoperto per la mafia, è un punto della trattativa. Questo singolare scambio epistolare è rimasto a lungo un mistero fino al maggio 2020, quando l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, uomo fedelissimo di Mario Mori, lo segue anche al Sisde, lo spiegherà in un processo a Marsala. Ecco, quelle lettere servivano a preparare il terreno per una consegna di Matteo Messina Denaro. Passano 18 anni. Da allora Matteo Messina Denaro si ammala e cambiano le sue abitudini e verrà arrestato. Come? La storia comincia quando i carabinieri ad un certo punto cercano di, vogliono entrare nell'appartamento della sorella Rosalia per inserire una loro cimice nel bagno. L'appartamento è già pieno di telecamere e cimici della polizia, alcune anche in condivisione. Tuttavia, i carabinieri entrano il 6 dicembre 2022, si soffermano sull'intercapedine di una sedia all'interno della quale trovano i pizzini. Uno in particolare, quello sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro è quello che consentirà di fare lo screening di tutti i malati di tumore e individuare il super latitante. Ora i carabinieri sanno che in quella sede ci sono i pizzini perché l'hanno osservata con una telecamera in condivisione con la polizia. Anche la polizia era entrata in quell'appartamento, aveva trovato i pizzini, li aveva fotografati tutti. Mancava però quello decisivo. Come mai? Perché quella è l'unica carta che giustificherebbe l'arresto di Matteo Messina Denaro presso la clinica La Maddalena. Un arresto che un grillo parlante ben informato aveva anticipato con modalità e anche tempistiche perfette.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto entra in scena Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dello stragista Giuseppe Graviano. Che nel 2020 nel processo 'Ndrangheta stragista a Reggio Calabria aveva raccontato di aver incontrato per tre volte da latitante Silvio Berlusconi, finanziato dalla sua famiglia per 20 miliardi delle vecchie lire. Baiardo, nel 2021, aveva rivelato a Report che gli incontri con Berlusconi erano stati molti di più e che Graviano aveva persino ricevuto l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Tutte fandonie, secondo Berlusconi. Ma nello scorso novembre, Massimo Giletti, che lo aveva visto a Report, porta Baiardo su La7 e lui predice il futuro. Annuncia che "Messina Denaro era molto malato, e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo”.
NON È L’ARENA 5/11/2022 MASSIMO GILETTI E quando avverrebbe questo ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro?
SALVATORE BAIARDO Giletti ci sono delle date che parlano non è che Baiardo si sta inventando…
MASSIMO GILETTI Eh ma lei ha detto che quando allo Stato farà comodo oppure lui non servirà più…
SALVATORE BAIARDO Questo lo avevo detto già in tempi non sospetti
MASSIMO GILETTI …verrà preso. È arrivato questo periodo, questo momento forse?
SALVATORE BAIARDO Presumo, presumo di si
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le parole di Baiardo suonavano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi con la fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis. Il 16 gennaio scorso Messina Denaro viene arrestato e siccome Baiardo indovino non è e qualcuno quelle cose gliele deve aver suggerite, nel marzo scorso chiediamo a lui cosa sa di questa cattura annunciata.
PAOLO MONDANI Come avviene l’arresto di Matteo Messina Denaro? Tu ne sai qualcosa? Perché lì la polizia stava a un passo, come hanno fatto i carabinieri a passargli davanti?
SALVATORE BAIARDO Ma c’era già un accordo che dovevano prenderlo loro
PAOLO MONDANI Qualche particolare in più sulla cattura di Matteo?
SALVATORE BAIARDO In che senso, dimmi cosa vuoi sapere.
PAOLO MONDANI Gli uomini che hanno preso contatti con te e Graviano sono gli uomini di chi?
SALVATORE BAIARDO Dei Servizi.
PAOLO MONDANI Servizi, certo. Ma sono gli uomini di Mori dei servizi? Sì o no?
SALVATORE BAIARDO Sì.
PAOLO MONDANI Ascoltami, Graviano è convinto che lo tolgono il 41 bis?
SALVATORE BAIARDO Se non succede quello che succede questo governo cade, questo governo cade.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'Aisi, il servizio segreto civile, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella cattura di Messina Denaro. A noi Baiardo ha confermato il nome del funzionario dei servizi che avrebbe interloquito con lui. Nome che su richiesta, abbiamo riportato all'autorità giudiziaria. Sarà fatalità ma abitavano tutti a Omegna o lì vicino, fra il '92 e il '93. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro favoreggiatore Salvatore Baiardo e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che aveva una villa a Meina. E qui, come è noto, ci sarebbe di mezzo una foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale dei carabinieri Delfino seduti al bar vicino al lago a prendere un caffè. Di Delfino si può scrivere un libro: impegnato per anni al Sismi, coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Brescia del 1974, condannato per avere intascato i soldi del sequestro dell'imprenditore Giuseppe Soffiantini, accusato da pentiti della 'ndrangheta di essere l'uomo chiave della strategia della tensione e finito dentro un’indagine sugli attentati del 1993. Che ci faceva Delfino al bar con Graviano e Berlusconi? È quella foto esiste davvero? Una cosa sola sappiamo: che sul lago d'Orta, nell'estate del 1992, la mafia si gioca il futuro.
PAOLO MONDANI L’altra volta tu mi dicevi che Graviano ha in mano delle foto. Foto che ritrarrebbero, mi dicevi, Berlusconi, Graviano e Delfino. Queste foto sono una o più di una?
SALVATORE BAIARDO Più di una.
PAOLO MONDANI Ma chi le aveva scattate? Delfino?
SALVATORE BAIARDO Ma che Delfino, Delfino era seduto.
PAOLO MONDANI No, intendo dire era lui ad aver proceduto a farle scattare, Delfino? Voi? Graviano?
SALVATORE BAIARDO (Alza la mano sinistra)
PAOLO MONDANI Tu? Tu hai scattato le foto? Fantastico. Quindi….
SALVATORE BAIARDO E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto.
PAOLO MONDANI Cosa vuol dire nel libro? Stai facendo un libro?
SALVATORE BAIARDO Sì.
PAOLO MONDANI Comunque, queste foto ritraggono seduti a tavolino dove, a Omegna?
SALVATORE BAIARDO A Orta.
PAOLO MONDANI A Orta. In che periodo lo posso sapere?
SALVATORE BAIARDO ’92. C’era in ballo la nascita di Forza Italia.
PAOLO MONDANI La foto con Graviano, Delfino e Berlusconi fatta a Orta nel ’92 quando? In estate? Prima di Borsellino o dopo la morte di Borsellino?
SALVATORE BAIARDO Dopo.
PAOLO MONDANI Mi domando: avete altri documenti, Altre foto, altre cose di questo tipo?
SALVATORE BAIARDO No.
PAOLO MONDANI Berlusconi sa che avete le foto?
SALVATORE BAIARDO Uh.. (in segno di approvazione)
PAOLO MONDANI E come gli è stato comunicato che voi avete queste foto? Glielo hai comunicato tu?
SALVATORE BAIARDO Secondo te come c’è stato l’incontro con Paolo?
PAOLO MONDANI Tu sei andato a parlare con Paolo Berlusconi e all’incontro con Paolo Berlusconi gli hai detto che ci sono le foto? Gliele hai fatte anche vedere a Paolo Berlusconi?
SALVATORE BAIARDO (Annuisce)
PAOLO MONDANI Tosta. E Paolo Berlusconi come ha reagito? Dimmi una cosa almeno.
SALVATORE BAIARDO (Fa il segno della paura)
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’avvocato di Paolo Berlusconi ci informa che “percepito il tono insinuante di Baiardo, Berlusconi lo ha allontanato bruscamente e nessun riferimento fu fatto a fotografie di alcun genere”. Paolo Berlusconi sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più. Niente di vero per Baiardo che a Firenze dice che l'incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro. Quindi non gli avrebbe mostrato le famose foto. Ultimo atto. Massimo Giletti rivela ai magistrati fiorentini di averne vista persino una, a noi Baiardo dice di averle addirittura scattate. Ma dopo la sospensione del programma di Giletti per ragioni ancora da chiarire e dopo che diventa pubblica la sua testimonianza alla Procura di Firenze, Baiardo compie la giravolta: su TikTok nega l'esistenza delle foto e racconta che le sue rivelazioni a Report del 2021 erano tutta un'invenzione.
SALVATORE BAIARDO – 16/05/2023 La Procura l'altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili: che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza.
SALVATORE BAIARDO – 01/05/2023 Quando mi vedo arrivare questo signor Mondani, giornalista di Report, la prima cosa che vedo che cos'è, che questo ha una telecamera nascosta. Perciò, non è che questo mi dice Baiardo facciamo un'intervista, le va bene così gli avrei detto di sì. Gli avrei raccontato altre cose, magari veritiere. Appena mi sono accorto che questo qui aveva una telecamera nascosta, mi ruba l'intervista a telecamera nascosta e il Baiardo cosa fa: il Baiardo si sfoga a raccontargli un mucchio di fesserie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Contento lui. Comunque alcune cose le ha confermate poi alla magistratura, altre le ha confermate parlando al telefono mentre era ascoltato dalla magistratura che lo aveva messo sotto intercettazione proprio a partire dal 2021 dopo la nostra puntata. Ed è così che i magistrati scoprono che l'uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano ad un certo punto mostra una foto a Massimo Giletti e Massimo Giletti viene convocato dai magistrati e a quel punto non può non dire la verità all'autorità giudiziaria. Ecco Giletti dice di aver visto una foto stile Polaroid dai colori sbiaditi. Baiardo gliela mostra nascondendola nella tasca interna della giacca e riconosce, seduti intorno ad un tavolo nella piazza del Lago d'Orta, due persone su tre. E al centro c'è Silvio Berlusconi. Indossa una polo scura e alla sua sinistra c'è il generale Delfino, anche lui vestito in borghese di scuro, che Giletti conosce benissimo perché era suo padre, amico dell'imprenditore rapito Soffiantini. Accanto a loro c'era un giovane seduto che Giletti non riconosce, ma che secondo Baiardo è Giuseppe Graviano. Ora dell'esistenza di queste foto, Baiardo parla anche al nostro Paolo Mondani a marzo 2023. Poco prima che succedesse tutto il caos. E aggiunge anche dei particolari. Dice che le foto sono tre e anche di averla scattata lui. Ecco, è il 2 marzo e Baiardo a quel punto comincia a giocare su due tavoli in via una foto sua e del nostro inviato Mondani a Massimo Giletti e gli dice "Ma gli hai parlato tu delle foto?". Giletti dice: Ma quali? Quelle che ben sai, quelle che conosci. E poi gli dice di fare attenzione alla data dell'8 marzo. Ecco, noi da una prima ricerca abbiamo scoperto che quella data coincide con il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell'ergastolo ostativo del governo. Insomma, una sorta di banco di prova. Ma che gioco gioca Baiardo, per conto di chi gioca Baiardo? Ora noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Massimo Giletti e della sua squadra, ma se dovessero essere questi che abbiamo visto i motivi e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese. L'oracolo Baiado aveva presentato, aveva azzeccato la malattia di Matteo Messina Denaro e anche l'arresto, la data. Aveva detto “è un regalo per il governo” e ha detto “Ci sono delle date - usando il plurale – “date che parlano da sole”. Questo l'aveva detto mesi prima. Poi Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio. Il giorno dopo, cioè quel 15 gennaio in cui fu arrestato Totò Riina trent'anni fa. Quel 15 gennaio che coincide con il compleanno della premier Giorgia Meloni. Ora la mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, la mafia sarebbe anche un po' irritata nei confronti della premier perché non ha ceduto nonostante le pressioni all'indebolimento del 41 bis. E la Meloni ha detto più volte “Io non sono ricattabile”. Vivaddio. Ecco, tra 30 secondi passiamo invece ad un altro oracolo. Giusto il tempo di dare qualche consiglio su come aiutare la popolazione dell’Emilia-Romagna
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di Salvatore Baiardo, l'oracolo che aveva predetto con incredibile precisione la malattia e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi come giornalisti, non possiamo far altro che notare e sottolineare un'altra coincidenza. Nel 1992 ci fu un altro personaggio di quelle presunte foto, il generale Delfino, che aveva Balduccio Di Maggio come confidente, e indossò i panni dell'oracolo. Baiardo ante litteram, profetizzando anche lui un regalino, questa volta per l'allora ministro della Giustizia Martelli. Insomma, o è l'aria del lago che rende tutti così visionari o sono le frequentazioni?
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della cattura di Totò Riina è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che mafia, stato, stragi, e depistaggi si incastrano. Il mafioso Balduccio Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio del 1993 a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina dove svernavano Baiardo, i fratelli Graviano e il generale Delfino a cui Di Maggio racconterà come catturare Totò Riina che verrà arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio successivo. Ecco quel che racconta Giuseppe Graviano al processo 'ndrangheta stragista. Qualche giorno prima della cattura di Balduccio Di Maggio succede qualcosa di strano sul lago d'Orta.
GIUSEPPE GRAVIANO BOSS MAFIOSO PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 21.02.2020 Eravamo io, Baiardo, mio fratello e un’altra persona. Ci facciamo una partitina a carte, a poker. Che cosa è successo? Si erano fatte le sei, sette…sei e mezzo, una cosa del genere. Il signor Baiardo è andato a prendere i cornetti per la colazione. Ritorna e dice…sapete? C’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio. A proposito questo vi dimostra, che se io avessi voluto avrei avvisato o’ signor Riina o chi per lui per dire state attenti c’è Balduccio Di Maggio che sta collaborando e io vi posso indicare anche la villa dove è stato portato.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano non avverte Riina e sa dove è stato portato il neo-pentito Balduccio Di Maggio, che però verrà arrestato formalmente solo tempo dopo, l’8 gennaio del 1993. A che gioco giocava Graviano? Cominciamo a capirlo ascoltando quel che capitò alcuni mesi prima al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli.
PAOLO MONDANI Siamo nell'estate del 1992 e ad un certo punto la viene a trovare il generale Delfino.
CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Eravamo all’indomani della strage di via D’Amelio e ancora però non si erano viste reazioni adeguate. Ha esordito dicendo: “non si angosci, non si preoccupi Presidente glielo portiamo noi Riina. Le facciamo noi un regalo per Natale, noi, noi. Glielo portiamo noi”. Io l’ho guardato tra il sorpreso e l’incuriosito, ma lui non ha voluto aggiungere altro.
PAOLO MONDANI L’8 gennaio del 1993 infatti viene catturato Balduccio Di Maggio, che poi racconterà di Riina eccetera. Balduccio Di Maggio stava a Borgomanero da molto tempo, quindi lei ebbe l’impressione dopo, ci ripensò, rifletté su quello che le aveva detto Delfino? Pensò che l’avessero già preso?
CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Se già da luglio Delfino si espresse in quei termini vuol dire che già da luglio lo avevano perlomeno sondato. Perché l’atteggiamento di Delfino è di chi era molto sicuro del fatto suo, cioè mi ha dato una comunicazione che nessuno poteva immaginare men che meno io, con grande certezza. Addirittura fissando la data.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo predice la cattura di Messina Denaro e trenta anni prima il generale Delfino predice quella di Totò Riina. Due veggenti o dietro di loro si muove la stessa trama, quella di uno scambio dove la mafia incontra uomini dello Stato? Il solito Baiardo, su Di Maggio, Graviano e Delfino, forse non a caso, sa qualcosa in più.
PAOLO MONDANI A dibattimento "‘Ndrangheta stragista" Graviano dice quella storia di te poco prima del Capodanno ‘92 ‘93, che vai a prendere i cornetti una mattina dopo una lunga partita di poker. La racconta Graviano.
SALVATORE BAIARDO Quella è la storia di Di Maggio.
PAOLO MONDANI Quella che torni dicendo Di Maggio, ma Di Maggio era stato portato lì da Graviano.
SALVATORE BAIARDO Sì a Borgomanero lì all’officina, ma lui gli aveva trovato da lavorare lì.
PAOLO MONDANI Perché lui aveva insidiato la fidanzata di Brusca e Brusca non era...
SALVATORE BAIARDO E voleva farlo fuori.
PAOLO MONDANI Ascoltami, ma chi l’ha consegnato Balduccio Di Maggio a Delfino?
SALVATORE BAIARDO Lo ha fatto consegnare Graviano.
PAOLO MONDANI E come lo consegna, glielo presenta? Che fa’? Che succede? Materialmente lui?
SALVATORE BAIARDO È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino.
PAOLO MONDANI È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino? A casa sua? Lì in questo paesino, a Meina?
SALVATORE BAIARDO È così.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stando a questa ricostruzione, Graviano consegna Di Maggio a Delfino. E così vende Totò Riina allo Stato. E la storia si incastra con quanto raccontò il pentito Gaspare Spatuzza, uomo fidato di Giuseppe Graviano che a lui confidò particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al 21 gennaio del 1994 al bar Doney, in via Veneto a Roma.
GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO - 05/02/2019 Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è esplicito su quello che pensa oggi di Berlusconi. E lo indica precisamente come l'Autore.
CARCERE DI ASCOLI PICENO INTERCETTAZIONE TRA GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI - 14/03/2017 Io ti ho aspittatu fino adesso picchì haio cinquantaquattr’anni, i giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando... e no, e tu mi stai facennu morire ‘ngalera senza io aver fatto niente, che sei tu l’autore. Ma ti viene ogni tanto in mente, di fariti ‘na passata... di passarite a mano ‘nta cuscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I fratelli Graviano e il loro favoreggiatore Baiardo hanno sempre detto di essere stati a un passo da Berlusconi. E Berlusconi li ha sempre smentiti. Ora parliamo di due verbali dimenticati. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia e indagava sulle stragi del 1993 insieme al magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, quando firmò due verbali con le rivelazioni di un confidente fino ad allora sconosciuto, Salvatore Baiardo.
PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di avere assistito nella sua casa tra il 91 e il 92 a conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri dalle quali si evinceva che i due avevano interessi economici in comune in Sardegna.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Dunque, lui disse di avere assistito a una conversazione telefonica tra Filippo Graviano e un tale Marcello, non disse che si trattava di Dell’Utri, questo bisogna dirlo per onore della cronaca.
PAOLO MONDANI Successivamente Baiardo aveva capito dai fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo che era Fulvio Lima, parente del politico Salvo Lima, che venivano trasferiti ingenti capitali proprio a Marcello Dell’Utri.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Parlò di questo co-interessamento anche di Fulvio Lima a questo genere di trasferimento di capitale. Ma anche questo comunque fu rammostrato, fu riferito all’autorità giudiziaria.
PAOLO MONDANI La villa dove i Graviano stavano nell’agosto del ’93, dopo le stragi, era ubicata a Punta Volpe, ed è Baiardo che paga l’affitto per conto dei Graviano. Quanto distava dalla villa di Silvio Berlusconi quella villa?
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Ma guardi lui raccontò di avere accompagnato, di avere dovuto recapitare una valigia ai fratelli Graviano che si trovavano in vacanza in Sardegna. E che questa valigia a un certo punto fu recapitata in una villa che era diciamo nel comprensorio vicino a dove c’era la villa del prossimo Presidente del Consiglio.
PAOLO MONDANI Cosa le sembra che Gabriele Chelazzi avesse intuito alla fine del suo percorso investigativo sulla strage di Firenze e sulla strage di Milano, le stragi del’ 93.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Io credo che lui avesse percepito chiaramente da tempo, che, diciamo, dietro a questi fatti non c’era soltanto l’ala militare di Cosa Nostra corleonese.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi Salvatore Baiardo diventò testimone fiduciario della Dia e del pubblico ministero Gabriele Chelazzi -che morirà improvvisamente nel 2003- sui presunti rapporti tra Graviano e Berlusconi. Recentemente Baiardo è stato più volte interrogato dal pubblico ministero di Firenze Luca Tescaroli nell'ambito delle indagini sui mandanti delle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, che dopo alcune archiviazioni vedono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri ancora sotto indagine. Mentre è accertato che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati la mente pensante di quelle stragi.
DANILO AMMANNATO - ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME STRAGE VIA DEI GEORGOFILI Cosa Nostra nel ’93 con le stragi colpisce il vecchio per favorire, per facilitare l’avvento del nuovo soggetto politico. La sentenza 5 agosto 2022 secondo grado Trattativa, ci attesta, ci prova che ci fu una convergenza di interessi, cito testualmente: “Vi fu chi come Marcello Dell’Utri tramava, dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi. Dell’Utri portò avanti su imput di Provenzano e Graviano questa opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi alla organizzazione.”
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sulla trattativa Stato mafia, la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros e di Marcello Dell'Utri per non aver commesso il reato che è quello di attentato agli organi politici dello Stato. Però già nella sentenza del 2022 della Corte d'Appello, che assolveva già Marcello Dell'Utri, c'è scritto che Dell'Utri “aveva tramato per assicurare certi risultati elettorali dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. Ecco in queste settimane la Procura di Firenze deve decidere come procedere nei confronti di Dell'Utri e Berlusconi, indagati come mandanti esterni delle bombe del '93 e del '94. È un filone che viene da lontano, dal 1998 e viene rimbalzato tra le procure di Caltanissetta e Firenze. Un reato, lo diciamo, un'ipotesi di reato, per la quale sia Berlusconi che Dell'Utri sono stati già archiviati tre volte. E ora questa nuova inchiesta parte invece dalle nuove intercettazioni in carcere e dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano nel procedimento “'ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. Graviano, che al 41 bis in cerca di benefici, ha detto che sarebbero stati investiti vecchi 20 miliardi di lire dal nonno nelle attività di Silvio Berlusconi. E ora i magistrati hanno avviato anche delle perquisizioni nelle case dei familiari dei Graviano in cerca di questa carta privata e poi hanno avviato anche nuove perizie sui flussi finanziari della Fininvest, che sarebbero risultati 70 miliardi di vecchie lire di cui la provenienza non sarebbe certa. E hanno analizzato anche i flussi di denaro tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sarebbero spuntate fuori delle donazioni per milioni di euro e un compenso mensile di 30mila euro secondo Berlusconi sono un segnale di riconoscimento, di stima, di gratitudine nei confronti dell'amico Marcello e anche per ricompensarlo delle spese legali per i procedimenti che ha dovuto affrontare. Ora per i pm, invece, sarebbero la prova del pagamento di un ringraziamento, diciamo così, nei confronti di Marcello Dell'Utri per non aver coinvolto il Cavaliere nei processi di mafia. Ecco, una tesi che è entrata anche in una informativa della Dia di Firenze del 2021. Ora, ci scrive invece l'avvocato di Silvio Berlusconi, Giorgio Perroni, e dice che tutto il suo patrimonio è perfettamente ricostruibile. Dice che siamo di fronte a una macchina del fango illegale perché le due perizie sarebbero ancora protette da segreto istruttorio. In realtà sarebbero state già depositate al Tribunale del Riesame di Roma in un altro procedimento. Solo che a Giorgio Perroni ancora non erano state notificate, non le aveva ricevute. Ecco, qu questo punto l'avvocato ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze, chiedendo di individuare chi siano gli autori di questa presunta fuga di notizie. Vedremo come andrà a finire. Tornando invece alla strage dei Georgofili del 27 maggio di trent'anni fa, dove hanno perso la vita cinque persone, tra cui due bambine, ecco va detto che il pentito Gaspare Spatuzza ha detto "questi morti non ci appartengono". E allora? E allora insomma, in una recente relazione della commissione Antimafia è spuntato o sono spuntate informazioni e sono inquietanti sull'esecuzione dell'attentato. L'autore è un magistrato che a lungo ha indagato sulle stragi, Gianfranco Donadio.
GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzitutto da un dato indiscusso. A via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all’incirca di 130, 140 chili
PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l’esplosivo militare.
GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi vi sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro. Quindi, altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I periti balistici della strage di Firenze hanno da poco rifatto la perizia sulla bomba dei Georgofili.
PAOLO MONDANI La miscela dell’esplosivo di Georgofili era composta da?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Tritolo, probabilmente in parte preponderante visto gli annerimenti eccetera
PAOLO MONDANI Gli annerimenti delle pietre, della zona.
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Gli annerimenti della zona attorno al punto di scoppio. Poi dinitrotoluene, che potrebbe anche derivare dall’esplosione del tritolo. Poi T4, pentrite e nitroglicerina.
PAOLO MONDANI Per la parte che riguarda l’esplosivo da cava mi è chiaro dove si possa reperire. Ma il T4 e la pentrite dove si reperisce?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Questi due tipi di esplosivo sono assieme nel plastico di fabbricazione cecoslovacca, che veniva utilizzato in campo civile cioè in miniera denominato Semtex H. Separatamente il T4 può stare insieme al tritolo in tritoliti, cosiddetti, di cui la più comune è quella di origine americana Compound B.
PAOLO MONDANI Stabilire se il T4 viene dal Semtex H di produzione cecoslovacca o dal Compound B di produzione americana è possibile?
LORENZO CABRINO- PERITO BALISTICO No.
PAOLO MONDANI Dopo l’esplosione?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No. Chimicamente non è possibile.
PAOLO MONDANI Quindi non sappiamo se viene dalla Cecoslovacchia o dagli Stati Uniti.
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No.
ROBERTO VASSALE PERITO BALISTICO - EX COMANDANTE COMANDO RAGGRUPPAMENTO SUBAQUEI LA SPEZIA I reparti speciali hanno due plastici, uno con la pentrite e l’altro con il T4. Però è difficilissimo recuperarlo. Bisogna entrare a Comsubin, ammazzare la sentinella e andarle a prendere.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Rimane quindi un mistero chi ha procurato l’esplosivo al plastico per la strage di Firenze. Ma i misteri irrisolti non finiscono qui. Alcuni uomini della polizia giudiziaria fiorentina fecero indagini che non piacquero a molti.
EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Una nostra fonte interna al mondo massonico fiorentino ci disse che nella Torre dei Pulci c'era un centro di raccolta dati metereologici guidato da Giampiero Maracchi, un climatologo di livello internazionale che è morto pochi anni fa. Ora questo centro era un Laboratorio di Monitoraggio collegato a satelliti con i computer sempre accesi. Quindi per molto tempo si disse che c’era un collegamento con i servizi segreti. Poi ci fu raccontato che l'Accademia dei Georgofili che era ospitata sempre all’interno della stessa Torre era una istituzione in mano alla massoneria, quella che conta di più a Firenze, e che poteva essere diventata il bersaglio di una massoneria collegata alla mafia. Insomma, non era detto che il vero obiettivo della bomba fossero gli Uffizi ma poteva essere che i Georgofili fossero diventati il bersaglio di una mente criminale più raffinata insomma.
PAOLO MONDANI Giungeste a delle conclusioni in queste indagini?
EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Dopo due mesi di indagini accaddero tre fatti. Primo fatto: un ex carabiniere che era stato assunto nella Security di una grande azienda ci venne a dire che se continuavamo con le indagini ci dovevamo ricordare della vicenda dei militari morti dopo Ustica, cioè di quelle morti strane degli ufficiali che avrebbero dovuto testimoniare su quello che era successo la notte che fu abbattuto l'aereo. E noi lo prendemmo come un avvertimento pesante. Secondo fatto: quando dovevamo procedere con la perquisizione a casa del soggetto centrale dell’inchiesta, un nostro superiore lo chiamò e lo avvertì che stavamo arrivando e di fatto ci ha bruciato le indagini. E poi terzo fatto: un importante magistrato improvvisamente impose al nostro capo di troncare le indagini.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da 30 anni si indaga anche sulla presunta presenza di una donna nelle stragi del 1993. Ecco gli identikit della bionda che avrebbe partecipato alla strage di Firenze di via dei Georgofili e della mora che avrebbe preso parte a quella di via Palestro a Milano. In un documento del Sisde, il servizio segreto civile, oggi Aisi, datato 19 agosto 1993 conservato all’archivio centrale dello Stato si legge: “una fonte del servizio operante nell’ambito della criminalità organizzata del capoluogo lombardo ha riferito: il commando che ha preparato e innescato l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano sarebbe stato composto da due artificieri appartenenti ad una organizzazione parallela ed affiliata alla Mafia e da una donna che avrebbe parcheggiato la macchina con l’esplosivo. In passato sarebbe stata soprannominata “Cipollina”. Della bruna Cipollina e della bionda ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso indagato come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci". La catena di comando di questo nucleo occulto di agenti speciali di cui avrebbe fatto parte anche Peluso secondo la signora Castro era formata da Giovanni Aiello, faccia di mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.
PAOLO MONDANI Faccia di mostro per suo marito era il?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però è un suo superiore.
PAOLO MONDANI Contrada?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.
PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, sì, venerdì mattina.
PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si ha detto che a uccidere Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.
PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi segreti hanno fatto saltare Falcone?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto Marianna Castro ci racconta di un viaggio a Milano fatto da Peluso a fine luglio del ’93, alla viglia dell’attentato in via Palestro. Stesso viaggio anche a Firenze poco prima della strage
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La sera stacco dal lavoro alle otto allora ha detto: ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutti e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e lo accompagno là e c’era la macchina che l’aspettava e lì dentro c’era pure Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.
PAOLO MONDANI E dove andavano?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh…no dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano.
PAOLO MONDANI Sì.
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Gli ho detto scusa ma…siete partiti, siete tornati e c’è stato questo attentato? Ha detto: che vuoi dire che siamo stati noi? Ma e scusa che siete andati a fare fin là, a fare le indagini di che?
PAOLO MONDANI E lui come rispose?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. Non…e a Firenze è stata la stessa storia con la strage di Firenze.
PAOLO MONDANI Cioè?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sempre a dire mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua… che là…benissimo lo accompagno là
PAOLO MONDANI E sempre faccia da mostro con...?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti dice…lui diceva: la donna davanti è la segretaria.
PAOLO MONDANI Bionda.
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Bionda, che era la nipote di Parisi.
PAOLO MONDANI Lui dice che era la nipote di Parisi?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh, era la nipote di Parisi quella Antonella. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere l’identikit delle donne bionde…e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa le assomiglia.
PAOLO MONDANI Ma se io le faccio vedere la fotografia della persona eh…che è stata pure dalla Procura di Firenze indicata come la possibile...
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La Cipollina, la possibile Cipollina, che lui chiamava Cipollina.
PAOLO MONDANI Lui chi? Suo marito? La chiamava Cipollina?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO E allora a un certo punto siccome a mia figlia quella piccola la chiamava Cipollina io gli ho detto: “Scusa ma perché chiami Cipollina?” dice: “perché io ho una collega che lavoriamo insieme che c’ha……porta i capelli corti mori a uso cipolla”.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Marianna Castro la donna bionda era nipote del capo della Polizia Parisi. In effetti in questi anni indagini calabresi si sono concentrate su Virginia Gargano, parente acquisita di Vincenzo Parisi e ritenuta vicina a Giovanni Aiello, Faccia di Mostro. Vicinanza mai accertata. Il legale di Virginia Gargano ritiene che le ipotesi di accusa siano indimostrate e indimostrabili. Marianna Castro riconosce anche la donna mora, che risulta essere soprannominata Cipollina esattamente come risultava al Sisde. Il 27 luglio del 1993 una bomba in via Palestro a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici. I magistrati ritengono che ci sia un buco di 48 ore nella ricostruzione della preparazione della strage perché nessuno dei collaboratori di giustizia sa dire quel che accadde dopo. Come se i mafiosi avessero passato nelle mani di altri l’esecuzione. Fabrizio Gatti nel 2019 scrive “Educazione americana” la storia di un agente della Cia di stanza a Milano che gli rivela i retroscena della strage.
FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Dice di chiamarsi Simone Pace, il suo nome convenzionale, quindi io credo che sia anche un nome finto, e racconta e rivela che in quegli anni degli attentati così come prima e negli anni successivi esiste in Italia e anche a Milano una squadra clandestina della Cia formata da cittadini italiani e americani e in particolare lui, nei mesi precedenti all’attentato di via Palestro, viene coinvolto dal suo capo americano che dice di chiamarsi Viktor, viene coinvolto in un sopralluogo in via Palestro.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo in un sabato di metà aprile del 1993, il responsabile Cia Viktor porta Simone Pace senza alcun preavviso in via Palestro. Lì prende delle misure con i passi e si annota a matita su un foglio alcune informazioni. E poi, passano ai fatti.
FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Viktor il suo capo, che loro chiamano in gergo "il controllore" chiede a Simone Pace di comprare del fertilizzante a base di nitrati, della carbonella e dello zolfo, che sono i componenti per produrre, per fabbricare la polvere da sparo. Si danno appuntamento al primo maggio, sempre del 1993 in un appartamento dalle parti di Arluno e lì in questo appartamento in un caseggiato popolare dove Viktor dice di abitare, fabbrica, Viktor, con questi ingredienti e un tubo di plastica una miccia e con un timer misurano la durata di combustione di questa miccia che è due minuti e nove secondi circa.
PAOLO MONDANI Si scopre che ad Arluno, a poche centinaia di metri dalla casa di Viktor, "il controllore", il capo di questa squadra clandestina della Cia, i due mafiosi Carra e Lo Nigro avevano portato l’esplosivo per la strage, appunto...
FABRIZIO GATTI GIORNALISTA L’autista del camion Pietro Carra, che poi diventerà collaboratore, racconta di un uomo che prende in consegna questo esplosivo, che arriva all’appuntamento su una 127 bianca e dalla sua descrizione potrebbe trattarsi dello stesso Viktor: un uomo sui quarant’anni, abbastanza calvo, che tra l’altro si muove con una 127 bianca.
PAOLO MONDANI Questo agente della Cia, Simone Paci, che è un po’ la tua fonte, che cosa ti dice a proposito del contesto di quei giorni? Della strage...
FABRIZIO GATTI GIORNALISTA Lui si definiva un facilitatore della storia, laddove i governi non possono arrivare ci sono gli agenti segreti che in qualche modo anticipano gli eventi e creano le condizioni perché tutto questo accada.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell'ultima relazione l’Antimafia scrive: “si impone una verifica dei dati e delle informazioni raccolte dal Sisde in ordine all'esistenza di un'organizzazione parallela con finalità terroristiche che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi”. Ecco, noi di Report in questi anni abbiamo dimostrato, raccontato, portato prove e testimonianze che le stragi del '92 e del '93 non sono altro che la continuazione di quella strategia della tensione cominciata negli anni '70 e '80 con lo stesso sistema criminale. E poi è quello anche che è emerso dalle recenti sentenze della strage di Bologna. Ora la domanda è questa verifica dei fatti che chiede l'antimafia, qualcuno la sta facendo?
Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “la Stampa” il 23 maggio 2023.
Questo Baiardo comincia a diventare stucchevole, oltreché losco: rivela, minaccia, confida, prevede, allude, chiede soldi; non sembra aver paura, né che gli tappino la bocca i suoi vecchi sodali, né che qualche giudice gli metta le manette (e, francamente, non si capisce il perché non lo facciano). Si capisce perché la trasmissione di Giletti su La 7 sia stata chiusa – l'editore non voleva finire nei guai -, si capisce meno perché la Rai abbia mandato in onda ieri sera un'ennesima puntata della saga del gelataio, in cui Baiardo rivela che l'ormai famosa foto (virtuale) del trio Berlusconi – Graviano – Generale dei CC Delfino, seduti tranquilli al bar della piazza di Orta San Giulio, sono non una, ma tre e che le ha scattate lui.
A poco sono servite le proteste dei legali e della famiglia Berlusconi, per l'infamia che sottendono; se La 7 si è ritirata dallo show, la Rai insiste; e io non riesco veramente a capire il perché. Né, di nuovo, capisco perché carabinieri o magistrati lascino libero Baiardo di imperversare, da sei mesi. Forse pensano di risalire attraverso di lui ai suoi mandanti?
O forse pensano di lasciar passare senza troppi colpi di scena, l'anniversario della strage di Capaci, il trentunesimo per l'esattezza: un altro secolo, un'altra vita, un'altra generazione.
O forse c'è – intorno a Baiardo – qualcosa di indecoroso e di indicibile.
Nelle righe che seguono vi propongo di riconsiderare una sequela di eventi, la maggior parte dimenticati, che formano una possibile narrazione, come si dice ora.
Dunque, nel 1992, Giuseppe Graviano, boss palermitano semi sconosciuto, ma in realtà molto ricco, molto potente e molto protetto, conduce una latitanza dorata e senza problemi di sicurezza tra il paese di Omegna e Milano, dove ha "nella sua disponibilità", un appartamento a Milano 3, la creatura di Berlusconi, con cui, dice lui, è in rapporti di affari (affari molti seri).
Ad Omegna invece è Salvatore Baiardo, un affiliato al clan, a fargli da segretario e autista tuttofare. Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, dopo anni passati a Miano ad occuparsi di sequestri di persona (il suo reparto, piuttosto che "La Benemerita" era chiamato "La Benestante", perché il generale, quando liberava un rapito, lo convinceva a ringraziare l'Arma). Delfino conosceva Berlusconi?
Non c'è prova, ma è probabile, di certo pescò tra i carabinieri gli uomini per la sicurezza privata della sua famiglia. Delfino conosceva Graviano? Sicuramente, in quanto Graviano gli fece fare "il colpo del secolo", con l'arresto dell'autista di Riina, nel paese di Borgomanero, a pochi chilometri da Orta. Non solo, ma Delfino si premurò di avvertire, sei mesi prima del fatto, politici potenti che sarebbe stato lui ad arrestare Riina. Giuseppe Graviano, tre anni fa, pubblicamente rivelerà di conoscere Delfino e si vanterà di aver fatto un servizio allo Stato contribuendo alla cattura di Riina. (E' un argomento che il generale Mario Mori, uscito indenne dopo un ventennio dal famoso processo trattativa, non ama affrontare. Il merito tocca a lui. Delfino non ribatte, perché è morto, in disgrazia peraltro).
Dunque, sicuramente la notizia della foto che ritrae il trio è falsa, ma naturalmente è verosimile; siamo insomma nella situazione peggiore.
Ma torniamo al nostro gelataio. Salvatore Baiardo il 27 gennaio 1994 accompagna con la sua Mercedes 190 i Graviano Giuseppe e Filippo da Omegna a Milano. I due, le loro fidanzate e altri amici palermitani, vengono arrestati la sera mentre mangiano al ristorante. Ma nessuno trova loro le chiavi di casa, né di Omegna, né di Milano Tre.
In sostanza, un po' come era successo per la casa di Riina a Palermo, nessuno tocca le sue cose, i suoi documenti, i suoi effetti personali, i suoi soldi o i suoi telefoni.
Salvatore Baiardo sarà arrestato più di un anno dopo e accusato di reati gravissimi: avrebbe organizzato la logistica dell'attentato degli Uffizi a Firenze, organizzato un imponente riciclaggio di denaro per contro dei Graviano. È verosimile che Baiardo abbia preso in consegna gli effetti personali dei fratelli Graviano? Sì.
Molto strano è il passaggio di Salvatore Baiardo attraverso il mondo giudiziario. Arrestato dalla DIA di Firenze e passato sotto la supervisione di Pier Luigi Vigna, parla molto, ma non mette a verbale.
Fa nomi, elenca circostanze, ricostruisce la filiera dei soldi, ma non diventa un "collaboratore di giustizia". Viene liberato dopo due anni e due mesi. Quando si andrà a processo, sorpresa: contro di lui Vigna firma solo una richiesta – risibile – per favoreggiamento. E per questo viene liberato e perdonato. Se ci sia stata una trattativa privata tra il procuratore e l'imputato non si saprà mai.
Vigna intanto è diventato procuratore nazionale antimafia e quell'esperienza "baiardesca" gli viene utile, quando, luglio 1997, viene arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, il killer più in gamba del clan Graviano. Spatuzza e Baiardo si conoscono, eccome. Il clan Brancaccio si sta dissolvendo, tra pentiti e semi pentiti. Gaspare Spatuzza non è da meno e spiffera tutto subito: "se volete la verità, guardate a Milano Due" sono le sue prime parole: il procuratore Vigna lo cura, lo fa trasferire al carcere di Tolmezzo (il penitenziario preferito per colloqui riservati) e lì, insieme al suo vice Piero Grasso, Spatuzza racconta tutto, luglio 1998, ma proprio tutto: le stragi, Capaci, via D'Amelio, i Graviano, Dell'Utri, Berlusconi, la nascita di Forza Italia, l'impostura del falso pentito Scarantino, il ruolo malefico del questore Arnaldo La Barbera.
Ne esce un verbale di 164 pagine […] quando sembra che l'accordo sia fatto, Spatuzza non firma, affermando che le garanzie per sua moglie non sono sufficienti. Succede spesso così, nelle grandi trattative, ma stranamente Vigna non rilancia; eppure era facile: avrebbe potuto coprirla d'oro la moglie di Spatuzza e lui medesimo, la coppia era terribilmente venale.
Per dire, quando Spatuzza uccise don Puglisi, al Brancaccio, prese dal suo portafoglio la marca della patente.
Quando Graviano gli impose di controllare i freni della Fiat 126 che avrebbe ucciso Borsellino, si fece dare cinquantamila lire, ma non li diede al meccanico).
E invece, niente, i tre si salutano… Resta però un verbale scritto (quello audio invece pare proprio si sia perso) che riaffiora quindici anni dopo in un dimenticato faldone della procura di Caltanissetta, davanti alla quale Spatuzza nel 2010 ha finalmente concluso la trattativa sul suo pentimento light. E dire che quel documento non avrebbe mai dovuto saltare fuori.
C'è un altro particolare che lega Baiardo a questa grande vicenda.
Nel 2010, quando, […] viene resa nota la testimonianza di tale Fabio Tranchina ("Giuseppe Graviano ha schiacciato il telecomando di via D'Amelio"), il gelataio di Omegna si fa vivo con i giornali: io so la verità! Tranchina mente, quel giorno Graviano era con me ad Omegna, un poliziotto può testimoniarlo; si fa forte del fatto che, in fin dei conti, è stato solo un favoreggiatore, reato minore. L'alibi era palesemente falso, ma nessuno neanche pensa di incriminare Baiardo. Chissà perché.
Ora, quindici anni dopo, tutto sembra dimenticato e Salvatore Baiardo è in grado di tenere sulla corda mezzo mondo. Ha la foto del Trio, ha visto, anzi l'ha addirittura fotocopiata, l'Agenda Rossa di Borsellino, ha trattato una soluzione del caso con Paolo Berlusconi, sta per pubblicare un libro, nessuno lo può fermare, Tik Tok lo ospita volentieri, Report anche. Sa anche perché è stato ucciso Falcone: l'hanno ucciso i comunisti perché indagava sui finanziamenti russi al Pci.
Ma davvero siamo ridotti così, che dopo 31 anni di antimafia, chi comanda la scena è il gelataio di Omegna?
[…] Oggi è l'anniversario, e Baiardo è l'unico a festeggiarlo. E' diventato famoso, ha vinto. Ed è un peccato che noi – noi opinione pubblica, noi magistrati, noi Stato, noi giornalisti gli abbiamo permesso tutto questo scempio di verità. Resta davvero l'amaro in bocca, inoltre, che la verità si sapesse fin dall'inizio e che sia stata così facilmente occultata.
Baiardo: "Ho tre fotografie di Berlusconi con Graviano". Luca Serranò su la Repubblica il 23 maggio 2023.
Il fiancheggiatore dei boss torna a minacciare: "Se le cose vanno male usciranno nel mio libro"
Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell'ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del '93. Raggiunto da Report, Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto - di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati - che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.
Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per repubblica.it il 22 maggio 2023.
Il favoreggiatore della mafia stragista, Salvatore Baiardo, ha parlato della foto che ritrae Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino anche con Report, in onda su Rai 3 e su Raiplay.it, confermando di fatto ciò che aveva detto a Massimo Giletti. Baiardo si è dunque vantato con due giornalisti di avere la foto scattata nella primavera del 1992 attorno alla quale adesso ruota la nuova inchiesta della procura di Firenze. È un'immagine che metterebbe insieme la mafia stragista e la politica.
[...] le foto sarebbero tre, e a scattarle sarebbe stato proprio lui, Salvatore Baiardo, nei pressi del lago d’Orta.
Dell’esistenza di questa immagine, racconta Baiardo, è a conoscenza anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’ex premier. Il favoreggiatore dei boss a gennaio 2011 si è presento da Paolo Berlusconi in via Negri a Milano e gli avrebbe mostrato una vecchia polaroid con l’immagine dei tre personaggi. Il fratello dell’ex premier quando Baiardo si è allontanato dal suo ufficio avrebbe protestato con gli agenti della sua tutela sulle richieste fatte dall’uomo. Chiamato dai pm fiorentini si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Si potrebbe dunque trattare della stessa foto che Massimo Giletti racconta di aver visto ai magistrati di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, che indagano sul ruolo di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri rispetto le stragi del 1993.
[...]
Se questa immagine fosse vera, potrebbe provare accordi e conoscenze di Berlusconi, sempre negati, con Graviano, ancor prima delle stragi di Falcone e Borsellino.
Estratto dell’articolo Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 maggio 2023.
Una foto fantasma continua ad agitare il mondo della politica. A dicembre […] Massimo Giletti aveva raccontato alla Procura di Firenze di aver visionato, solo a distanza, uno scatto sulla cui autenticità, però, non poteva garantire e in cui sarebbero stati immortalati Silvio Berlusconi e il mafioso Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo per le stragi del 1993, per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo e altre uccisioni.
Stasera la trasmissione Report svelerà nuovi particolari sull’intricata e contraddittoria vicenda. A rendere il quadro particolarmente confuso è il protagonista della storia, Salvatore Baiardo, levantino favoreggiatore della latitanza dei fratelli Graviano. È lui che, nel luglio del 2022, avrebbe mostrato a Giletti una vecchia Polaroid con i contorni bianchi, nascosta nella tasca interna della giacca.
L’istantanea, a detta di Baiardo, sarebbe stata realizzata ai tavolini di un bar della piazza di Orta, sull’omonimo lago, e ritraeva Berlusconi (al centro, con una polo scura), il defunto generale Francesco Delfino (in abiti civili), chiacchieratissimo ex ufficiale dell’Arma (condannato per essersi intascato i soldi di un sequestro e accusato dai pentiti di «essere l’uomo chiave della strategia della tensione»), e un giovane che Giletti non riconosce, ma che Baiardo sostiene essere Giuseppe Graviano […].
Baiardo è lo stesso che aveva anticipato a Giletti che il capo della mafia Matteo Messina Denaro era «molto malato e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo». Sui tempi della resa, aveva detto sibillino che «ci sono delle date che parlano». Il 16 gennaio 2023 […] il boss è finito in ceppi […]
Il «veggente» siciliano aveva affrontato l’argomento, a ottobre, a Palermo, anche con l’inviato di Report, Paolo Mondani. Quest’ultimo, il 2 marzo scorso, incontra nuovamente Baiardo, sempre nel capoluogo siciliano, e lo registra di nascosto.
Il factotum dei Graviano non è più il Baiardo loquace di fine 2020, quando venne intervistato per la prima volta dalla trasmissione di Ranucci. È diventato diffidente. Ammette solo che le foto sono «più di una» e, quando l’inviato gli chiede chi le abbia scattate, alza la mano. E, un po’ minaccioso, annuncia: «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto».
In effetti, l’ex gelataio un’autobiografia lo sta scrivendo e si intitolerà Le verità di Baiardo. Nelle immagini rubate da Report, l’uomo riferisce anche che gli scatti sarebbero stati effettuati a Orta nel 1992, dopo la morte di Paolo Borsellino. «C’era in ballo la nascita di Forza Italia» specifica sornione. Mondani, a questo punto, domanda: «Berlusconi sa che avete le foto?». Nel video Baiardo annuisce e conferma di averne parlato con Paolo Berlusconi.
Il quale, fa sapere Report, «sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più». Baiardo ai magistrati ha, invece, raccontato che «l’incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro».
Il 2 marzo scorso, Baiardo manda a Giletti un selfie che lo ritrae insieme con Mondani e gli scrive: «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». Quindi fa capire a Giletti di aver discusso con l’inviato Rai degli scatti di Orta: «Ma tu hai parlato in giro di alcune foto? Mondani lo sapeva già. Quelle che sai tu». Giletti resta sorpreso: «Come fa a sapere?». Baiardo ribatte: «Lo chiedo a te».
Giletti gli suggerisce di cercare la fonte di Mondani e Baiardo replica: «Lunedì che viene, voglio chiedergli questa fesseria per vedere cosa mi risponde. Perché io ho fatto finta di cadere dalle nuvole». L’ex complice di Graviano fa anche riferimento a una data: «Dopo il giorno otto ne vedrai delle belle». E aggiunge che, per questo, «si stanno muovendo tutti».
Che cosa è successo l’8 marzo? Lo spiega Sigfrido Ranucci nella puntata in onda stasera: «La data coincide con la pronuncia della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell’ergastolo ostativo del governo. Insomma una sorta di banco di prova». Il 27 marzo la Procura di Firenze perquisisce Baiardo alla ricerca della foto. L’uomo, interrogato dall’aggiunto Luca Tescaroli, ne nega l’esistenza. Ad aprile, la trasmissione di Giletti viene sospesa. Noi, il 15 dello stesso mese, raccontiamo la vicenda dell’istantanea e del selfie di Baiardo con Mondani, ipotizzando che potesse servire «a scatenare un’asta tra trasmissioni concorrenti».
Il 16, su Tiktok, Baiardo prova a smentire tutto: «La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili.
Che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza». E poi, in una sorta di excusatio non petita, aggiunge di essersi accorto che Mondani aveva una telecamera nascosta e allora gli aveva raccontato «un mucchio di fesserie».
Lo scorso 26 aprile Mondani è stato sentito dalla Procura fiorentina e i magistrati hanno acquisito immagini e registrazioni degli incontri dell’inviato con Baiardo. Nella puntata di stasera Ranucci si domanda: «Ma a che gioco gioca Baiardo? Per conto di chi gioca? Noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Giletti e della sua squadra. Ma se dovessero essere questi i motivi (la storia delle foto, ndr), e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese».
E poi ha concluso: «La mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, sarebbe anche un po’ irritata nei confronti del premier (Giorgia Meloni, ndr) perché non ha ceduto, nonostante le pressioni, all’indebolimento del 41 bis. E Meloni ha detto più volte “io non sono ricattabile». Infine, Report raccoglie la testimonianza di un funzionario di polizia (oscurato in viso) che farà discutere.
Nella casa della sorella di Matteo Messina Denaro, Rosalia, i poliziotti avevano trovato e fotografato di nascosto dei pizzini, ma solo dopo che in quell’abitazione entrarono i carabinieri sarebbe stato rinvenuto il messaggio che parlava dei problemi al colon del capo della Piovra e che ha permesso di dare una svolta alle indagini. Per il funzionario, i colleghi dell’Arma avrebbero «pestato i piedi» alla polizia e la Procura avrebbe autorizzato solo i carabinieri a intercettare il telefono di Rosalia. Anche per Baiardo, Messina Denaro, «dovevano prenderlo loro», gli uomini della Benemerita. Accuse che rischiano di bissare le polemiche seguite alla cattura di Riina.
Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “La Stampa” il 3 giugno 2023.
Vita, carriera, opere, ma anche qualche omissione. Urbano Cairo si è sottoposto ieri, al Festival della tv di Dogliani, alla centrifuga di domande "belvesche" di Francesca Fagnani. Piatti forti, il futuro prossimo di La7, il passato remoto con Berlusconi e il futuro da «mai dire mai» in politica.
[…] La conduttrice Rai gli chiede di confermare le voci, quasi urla ormai, dell'approdo di Massimo Gramellini su La7. Il patròn le offre in risposta una mezza conferma: «Appena tutto quanto sarà formalizzato, lo comunicheremo. Sarebbe bellissimo, ma non è ancora fatto».
Insomma, […] manca solo la firma, giacché il numero di maglia gli sarebbe già stato assegnato: dovrebbe essere quello della domenica sera, nella collocazione oraria di Massimo Giletti. […] Resterà invece un'occasione mancata il passaggio di Fabio Fazio alla corte di Cairo. Fagnani lo stuzzica, ed ecco il retroscena: «Questa volta non l'ho cercato, ma ci provai 6 anni fa. Andai a pranzo a casa sua con il suo agente Beppe Caschetto, ma alla fine non se ne fece nulla».
Stavolta invece nessun tentativo di sottrarlo a Discovery, sua prossima destinazione. «Non se lo poteva permettere?», incalza Fagnani. Notevole la risposta: «Se mi sono potuto permettere Giletti, mi sarei potuto permettere anche Fazio».
Doveroso parlare della chiusura di Non è l'Arena […] Cairo ribadisce che nulla c'entrano le puntate sulla mafia con Salvatore Baiardo: «Non ho ricevuto lamentele». Nega anche di essere stato a conoscenza della foto, mostrata da Baiardo a Giletti, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, con il generale dei carabinieri Delfino e il boss Giuseppe Graviano nel 1992: «Non me ne ha mai parlato».
La fine del rapporto sarebbe giunta per ragioni editoriali ed economiche: «Gli ho dato piena libertà per 194 puntate in 6 anni», ribadisce per poi entrare nel dettaglio: «I primi due anni il programma è andato alla grande, nel secondo biennio per colpa del Covid c'è stato il calo pubblicitario. Ma nel terzo biennio ha voluto cambiare giorno e andare in onda al mercoledì nonostante noi lo sconsigliassimo».
[…] «Ha perso due punti - ricostruisce Cairo - e poi, quando è tornato alla domenica, non ha più recuperato». […] «Ho deciso di chiudere prima, parlandone con l'amministratore delegato e il direttore di rete, senza l'ingerenza di nessuno. La motivazione è solo editoriale».
Il tycoon si infervora: «Ho chiamato Mentana e gli ho detto "chiude Giletti, non La7. Se ci sono cose così importanti di cui parlare, ci sei tu, ci sono Floris, Purgatori, Formigli...». Il canale tv di sua proprietà è adesso visto come l'unica opposizione alla destra pigliatutto. Una linea politica che piace al suo editore? «Io non sono di destra né di sinistra. La7 viene considerata un po' più di sinistra, ma io l'ho trovata così, anzi lo era anche di più». Nella filosofia cairesca, «il dna di una tv o di un giornale non lo puoi cambiare, Berlusconi portò a destra Panorama e perse un sacco di lettori». […] C'è solo una cosa in più che vorrebbe se dovesse rinascere: «5 cm». Come Berlusconi.
Estratto dell’articolo di Paola Pica per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2023.
L’affondo della Belva Francesca Fagnani sul caso Giletti arriva dopo più di mezzora di domande personali e a bruciapelo […] al presidente «di quasi tutto» come lo chiama la giornalista, l’editore Urbano Cairo che qui a Dogliani, sotto il tendone del Festival della Tv, parla prima di tutto come patron de La7.
[…] «Ha mai ricevuto telefonate o lamentele per la presenza di Salvatore Baiardo (storico collaboratore del mafioso Giuseppe Graviano, ndr) a “Non è l’Arena” la trasmissione condotta da Massimo Giletti che è stata improvvisamente sospesa?». «No», è la risposta di Cairo. «Ma allora perché ha chiuso una trasmissione che aveva ancora nove puntate davanti a sè?».
«Prima di tutto tengo a precisare che Giletti ha fatto sei anni e 194 puntate su La7, potendo lavorare in piena autonomia — premette Cairo — . Poi va detto che nell’ultimo biennio i costi della trasmissione erano diventati insostenibili — racconta l’editore —. Lui si era impuntato di passare dalla domenica al mercoledì, un’operazione che gli ha fatto perdere quasi due punti di share mai recuperati nonostante poi sia tornato alla domenica». «Ma perché tutta questa fretta di chiudere non è l’Arena», insiste Fagnani.
«Per i costi, ne avevo parlato del resto con lo stesso Giletti e Mazzi, il suo agente o amico non ho ben capito, già nel mese di gennaio». «Lei era a conoscenza» dell’ipotesi o del fatto che Baiardo avrebbe mostrato a Giletti «una foto che ritrae Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino»? «No, Giletti non me ne ha mai parlato. Come detto, aveva autonomia e io mi sono fidato». Fagnani: «I magistrati l’hanno chiamata?». «No, non mi ha cercato nessuno».
Tante le domande su Silvio Berlusconi e gli inizi della carriera di Cairo nel mondo del Biscione: «È stato un grande maestro per me, mi ha insegnato a non mollare mai, a motivare le persone. Perché gli sono piaciuto? Per l’intraprendenza. Non piacevo a Marcello dell’Utri? A quanto pare. Perché sono stato licenziato dalla Mondadori?
L’allora amministratore delegato Franco Tatò, un altro grande maestro, mi comunicò che avevano deciso di spostarmi a Pagine Utili. Io dissi va bene, ma voglio il 50% di quella società. Dopo un mese sono stato licenziato. Ricca liquidazione? Stendiamo un velo pietoso. Mi rimboccai le maniche e fondai la Cairo pubblicità, per i primi contratti con Rcs facevo tutto io. Una cordata per comprare Mediaset? Non c’è nulla di vero».
E ancora: «Quanto mi piaccio? Non tanto, mi do un 7+. Io uno squalo? No, penso sempre a salvare i posti di lavoro. Destra e sinistra? Sono superate. Ma penso si debba investire nell’accoglienza dei migranti e nei giovani. I salotti buoni? Mi invitano, ma non li frequento. Tra indiani e cow boy mi collocano tra i primi? Come direbbe Meloni sono stato un underdog. Cosa mi piace del potere? Avere la possibilità di realizzare le idee. Chi riporterei in vita almeno per qualche minuto? Mia madre».
NON È L'ARENA E LA FOTO DEI MISTERI. Baiardo conferma l’incontro tra Graviano e Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 27 aprile 2023
I magistrati antimafia di Firenze hanno svolto accertamenti e «attività tecniche», intercettazioni, su Salvatore Baiardo, l'ex gelataio diventato famoso per aver predetto l'arresto dell'ultimo latitante stragista, Matteo Messina Denaro, approfondimenti che precedono la sua profezia.
Baiardo, inoltre, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.
Emerge dagli atti dell'inchiesta, che Domani può rivelare, coordinata dalla procura di Firenze, sui mandanti esterni alle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
La foto dei misteri sui rapporti tra i mafiosi stragisti Graviano e Berlusconi, la chiusura di Non è l’Arena e l’ipotesi che circola in procura antimafia a Firenze di sentire come testimone Urbano Cairo, l’editore di La7 e del Corriere della Sera, in quanto persona informata sui fatti, dopo che i pubblici ministeri hanno già ascoltato Massimo Giletti.
Il conduttore ha raccontato ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco di aver visto uno scatto che ritrae l’ex presidente del consiglio, uno dei fratelli Graviano e il generale Francesco Delfino, il militare al centro di svariati misteri italiani. A mostrargli il documento prezioso a tal punto da poter riscrivere la storia della seconda Repubblica è stato, secondo Giletti, Salvatore Baiardo: il personaggio reso celebre da un’intervista rilasciata a Non è l’Arena in cui ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro. Per quelle apparizioni televisive Baiardo è stato pagato regolarmente dalla produzione esterna a La7.
Baiardo da mago che prevede il futuro si è trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993 in corso a Firenze. È il collante che tiene insieme diversi piani: è stato condannato in passato per favoreggiamento ai fratelli Graviano, ritenuto un loro portavoce, è a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti ottenuti da Domani, degli incontri tra uno dei fratelli stragisti e Berlusconi, in procinto di “scendere in campo”.
Baiardo dunque è il ponte che unisce passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori) con l’ex presidente del consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che la foto non esiste, tuttavia intercettazioni dimostrerebbero il contrario.
Sullo sfondo di questo intreccio c’è uno scenario investigativo che punta a svelare l’identità dei mandanti occulti degli attentati eseguiti dalla mafia di Totò Riina nel 1993, le bombe sul continente, successive al tritolo che aveva trasformato le strade di Palermo in Beirut con la mattanza delle scorte e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due indagati eccellenti sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, in passato già coinvolti in inchieste sui mandanti e prosciolti da ogni accusa. Il filo seguito dai detective lega la nascita di Forza Italia, le stragi del 1993, le presunte relazioni pericolose tra i mafiosi stragisti e Silvio Berlusconi, mediati dal fedelissimo Marcello Dell'Utri, che ha scontato una condanna per complicità con le cosche siciliane.
IL BOSS E BERLUSCONI
Per riannodare i fili di questa storia iniziata 30 anni fa è necessario partire dalla figura di Baiardo. I magistrati antimafia di Firenze hanno intercettato Baiardo almeno fino al 2021: a partire dal primo interrogatorio cui è stato sottoposto l’uomo dei Graviano. Inoltre un fatto è certo, Baiardo, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Questi elementi emergono dagli atti dell'inchiesta di Firenze, in via di conclusione prima della deflagrazione del caso Giletti, e che ora invece si è arricchita di ulteriori indizi con consequenziale dilatazione dei tempi.
Arriviamo così alla foto Berlusconi-Graviano-Delfino, la cui esistenza è stata svelata da Domani, e che secondo alcuni potrebbe essere una delle cause della fine anticipata del programma condotto da Giletti. Sulle reali motivazioni della decisione non c’è nulla di ufficiale: fonti interne alla rete hanno imputato ai costi eccessivi del programma, altri sostengono che sia stata invece l’operazione Baiardo a portare a una scelta così drastica. Di certo, al momento, non c’è una versione ufficiale esaustiva.
Giletti sostiene di aver visto la foto, individuando solo un giovane Berlusconi. Convocato dai pm racconta del documento in possesso di Baiardo. I pm fiorentini peraltro hanno riscontrato la possibile esistenza ascoltando le conversazioni degli incontri tra l'ex volto di La7 e il pregiudicato. Non sarebbe così assurdo che Baiardo custodisse uno scatto tra Graviano e Berlusconi. Il motivo è da ricondurre al suo ruolo originario avuto per i padrini palermitani. C’è traccia di questo nelle carte dell’inchiesta.
A far ripartire l'indagine sui mandanti esterni ci sono i colloqui intercettati in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno di cella, Umberto Adinolfi, nei quali lo stragista parla di accordi economici con Berlusconi e di quegli anni di bombe e sangue innocente. In queste registrazioni c’è un riferimento a Baiardo presente agli incontri con Berlusconi: «Quando si preparavano gli incontri” e a me mi accompagnava (…) Baiardo...mi accompagna lui, io incontravo a lui», dice Graviano e specifica la ragione degli incontri «per mantenere i patti». In pratica Graviano parla della propria latitanza e della disponibilità di una casa a Milano 3, la cui proprietà apparteneva a un soggetto che lo stragista non nomina, lo definisce come ‘lui’.
«Graviano riferiva di aver utilizzato un soggetto prestanome per creare una copertura su tale immobile mentre, quando si recava agli incontri, necessari per mantenere i patti, si faceva accompagnare da Salvatore Baiardo», scrive la direzione investigativa antimafia. La novità è che, ora sappiamo, Baiardo avrebbe confermato a verbale di aver accompagnato il boss agli incontri, presunti, con Berlusconi. Per l’entourage del Cavaliere si tratta solo di falsità, messe in giro per colpirlo.
MESSAGGI AL CAVALIERE
Tra i colloqui intercettati in carcere c’è una conversazione che, nella parte finale, diventa cruciale: «Rileva l’intenzione di poter far giungere un messaggio all’esterno del carcere a Silvio Berlusconi, nella circostanza definito “B”, e così era accaduto nel 2011 quando, a tale scopo, aveva utilizzato Salvatore Baiardo», scrive Francesco Nannucci, capo centro della Direzione investigativa antimafia.
Tra il 2011 e il 2012 gli avvocati dei Graviano scrivevano alle procure competenti invitandole ad ascoltare Baiardo e lui, in quel periodo, faceva una cosa che ricorda la strategia adottata negli ultimi tempi: parlare ai giornali. Accusava, ritrattava, smentiva nominando Berlusconi per la solita storia dei presunti rapporti con i Graviano, e, anche allora, riferiva di incontri, prove e foto.
Si scopre che, in quel periodo, ha incontrato anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’allora primo ministro, come dirà in un interrogatorio del 2011. L’incontro, aveva spiegato Baiardo, serviva a chiedere un posto di lavoro, mai ottenuto. Certamente è curioso che a distanza di tanti anni, dopo la rottura con Giletti, Baiardo annunci sui social un fantomatico ingaggio con Mediaset della famiglia Berlusconi. All’azienda non risulta, secondo molti è l’ennesimo messaggio dell’uomo dei Graviano.
I magistrati di Firenze hanno ascoltato Baiardo quattro volte e alcuni suoi racconti risulterebbero fondati e riscontrati, «il Baiardo televisivo è diverso da quello che si reca in procura», confida un investigatore.
L’INCROCIO CALABRESE
L’indagine di Firenze sui mandanti incrocia un processo calabrese sulla strategia stragista della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, in combutta con i siciliani. Imputato e condannato Giuseppe Graviano. E in quel mare di atti spuntano diversi rapporti investigativi sia su Baiardo sia sul generale Delfino. I protagonisti della foto con Berlusconi. Nomi che ricorrono nelle carte e che si incrociano, in quegli anni, pericolosamente.
Uno degli audio che Giletti avrebbe mandato in onda se la trasmissione non fosse stata chiusa, riguarda le dichiarazioni del pentito Nino Fiume: è lui a rivelare l’impegno preso dal capo dei capi della ‘ndrangheta al nord, Antonio Papalia, per evitare il rapimento di Piersilvio Berlusconi, il figlio del Cavaliere. Papalia, c’è scritto nelle note degli investigatori reggini, era in contatto con il generale Delfino.
Molto del materiale del processo sulla ‘ndrangheta stragista è conosciuto anched dai magistrati di Firenze. Per esempio la parte in cui i detective ricostruiscono il collegamento tra i Graviano e Dell'Utri: favorito dall'imprenditore, sodale dell'ex senatore, Filippo Alberto Rapisarda, pregiudicato e socio del sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. «Il nome di Filippo Alberto Rapisarda... è indicato da Salvatore Baiardo quale trait d’union tra Dell'Utri e i Graviano per la gestione di interessi economici e, in particolar modo immobiliari, in Lombardia e Sardegna», si legge in un'informativa depositata.
Ma dalle carte, a proposito degli incroci tra Baiardo e Graviano, è spuntato anche un documento investigativo, definito di «portata eccezionale», relativo all'analisi dei movimenti dei due fratelli stragisti, eccezionale «alla luce delle nuove risultanze sulle mancate attenzioni istituzionali sulla figura di Baiardo», si legge.
I Graviano, nell'estate del 1993, erano in vacanza in Sardegna. «Il dato che qui preme evidenziare è la presenza dei due ricercati, nell’agosto del 1993, a un tiro di schioppo dalla residenza estiva del leader della istituenda Forza Italia, rendez vous dei collaboratori di Berlusconi e, si presume, anche di Dell'Utri», si legge.
Erano gli anni della decisione di Berlusconi di “scendere” in politica, la prima discussione avveniva in Sardegna nell’estate 1993, come ha confermato Gianni Letta, ascoltato nel processo Dell'Utri.
L’allora cavaliere accetta i consigli di quest’ultimo piuttosto che quelli di Confalonieri e Letta, entrambi contrari alla discesa in campo. Perché Silvio si è fatto convincere da Dell’Utri snobbando i consigli persino di Letta? I motivi non li ha rivelati né Berlusconi, né Dell'Utri.
Nell’aprile 2021, gli inquirenti hanno chiesto conto a Graviano di un'intervista in cui Baiardo riferiva che lo stragista avrebbe portato, negli anni novanta, molti soldi al Cavaliere in Sardegna. «Non ho mai incontrato Berlusconi in Sardegna», ribatteva Graviano.
CAIRO IN PROCURA
Le puntate di Giletti sulla mafia e le stragi infastidiscono Dell’Utri. In un’intercettazione, anticipata da La Repubblica, l’ex senatore manifestava irritazione contro gli approfondimenti di Giletti sui suoi rapporti con la mafia, per i quali è stato anche condannato a sette anni di carcere.
Gli investigatori della Dia scrivono: «Altra situazione che preoccupa Dell'Utri è la diffusione della puntata della trasmissione “Non è l'Arena” di Massimo Giletti, andata in onda il 10 giugno (2021, ndr), di cui si è parlato nella richiesta di cessazione a naturale scadenza delle attività tecniche a carico di Salvatore Baiardo», si legge nelle carte dell'indagine. Un altro riferimento a Baiardo, da cui è chiaro che esisteva all’epoca un intesa operazione di intercettazione sull’uomo dei Graviano. Ancora una volta inserito in una informativa sull’ex manager e senatore berlusconiano.
Siamo a giugno 2021, dunque. Dell’Utri a un pranzo parlava con l’avvocata di Mediaset, Enrica Maria Mascherpa, e con il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Dell'Utri esprimeva la necessita di riabilitare, mediaticamente, la sua figura e costruire una strategia per difendere Berlusconi e le aziende, anche perché di lì a breve ci sarebbe stata la sentenza di secondo grado sulla trattativa stato-mafia, processo in cui Dell'Utri è stato assolto.
Tre mesi più tardi Dell’Utri ha rilasciato un’intervista affatto tenera nei confronti di Cairo pubblicata da Il Foglio: «Era un ragazzo sveglio, gli feci fare l’assistente personale di Berlusconi (…) Lui era, ed è ancora, un tipo assai rampante. E se posso, anche un pizzico irriconoscente. So bene che un editore bravo non interviene. Ci mancherebbe. Però, diamine, lui mi conosce. Come può pensare di me le cose che dicono in alcune sue trasmissioni? L’informazione è una cosa. L’accanimento è tutto un altro paio di maniche», diceva Dell'Utri.
L'ex senatore Messina ricorda il disappunto di Dell'Utri per le puntate di Giletti, tuttavia dice: «Io non ho chiamato Cairo, non saprei se lo ha fatto Dell'Utri. Di certo è stato nostro collaboratore, dipendente e assistente del presidente Berlusconi». Ora questi rapporti conditi dai riferimenti diretti espressi da Dell’Utri tornano di attualità con la decisione di chiudere “Non è L’Arena”.
Così dopo la testimonianza fornita da Giletti ai pm, un’ipotesi sembra farsi certezza: la possibile convocazione di Cairo per sentirlo come persona informata sui fatti in relazione al caso Giletti.
Contattati da Domani, l’ufficio stampa di La7 smentisce al momento una convocazione ufficiale. Dalla procura nessuna conferma e neppure nessuna smentita.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 29 aprile 2023.
Essere amico di Marcello Dell’Utri costa caro a Silvio Berlusconi. Questa è la prima certezza che emerge da alcuni documenti inediti e da decine di relazioni dell’antiriciclaggio lette da Domani. Materiale che permette di ricostruire i rapporti economici tra i due fondatori di Forza Italia, entrambi indagati a Firenze nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 tra il capoluogo toscano, Roma e Milano.
Una tassa, quella Dell’Utri, che per Berlusconi era diventata insostenibile a tal punto da dover trovare un accordo che riequilibrasse questo flusso a senso unico, da Silvio a Marcello. Delle riunioni riservate c’è traccia nelle informative della Direzione investigativa antimafia fiorentina.
Incontri in cui è stato deciso il vitalizio mensile, elemento già emerso nei mesi scorsi. Ora con le nuove carte ottenute è possibile svelare come si è arrivati alla decisione di regolarizzare le donazioni a Dell’Utri, stabilendo la cifra di 30mila euro mensili, e chi sono i protagonisti di questa trattativa segreta, che coinvolge oltre a Berlusconi anche alcuni manager di Fininvest e il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina.
(...)
Gli investigatori antimafia hanno documentato «una trattativa e una mediazione per raggiungere un accordo volto a definire, una volta per tutte, e sistematicamente, le somme di denaro che Berlusconi dovrà versare a Dell’Utri, situazione più volte sollecitata anche da Miranda Ratti (moglie dell’ex senatore, ndr)... Se in precedenza vi erano bonifici saltuari, di importo variabile, ora l’accordo ha stabilito definitivamente una somma mensile, alla quale si andranno ad aggiungere altre somme indirette, quali pagamenti per acquisto e ristrutturazione di immobili, per notule degli avvocati di Dell’Utri e situazioni simili».
A condurre questa «mediazione» e «trattativa» per conto di Berlusconi c’è Alfredo Messina, ex potente manager Fininvest, vicepresidente di Mediolanum e tesoriere di Forza Italia, con Maria Enrica Mascherpa, attuale direttore dell’Ufficio Legale di Fininvest e in un’occasione anche Nicolò Ghedini, lo storico avvocato del Cavaliere scomparso l’anno scorso.
«Alfredo (Messina, ndr) mi ha chiamato che andava ad Arcore ... dove c’era Ghedini...che facevano la riunione e decretavano questa cosa mia ... perché dice che ci vuole il consenso», dice Dell’Utri intercettato, in attesa di ottenere una risposta sulla definizione del sostentamento di Berlusconi. Le riunioni più importanti in cui definiscono i contorni dell’accordo sono tre, tutte a inizio 2021: il 23 febbraio ad Arcore, il 28 febbraio e il 2 marzo negli uffici Fininvest. Nel mezzo e nelle settimane successive sono stati organizzati pranzi e cene alla presenza anche di Dell’Utri.
All’esito di di una di queste riunioni, negli uffici di Fininvest, le intercettazioni rivelano un ulteriore novità: «Trattandosi di cifre elevate, all’esito dell’incontro è stato richiesto a Dell’Utri di scrivere una lettera da recapitare a Silvio Berlusconi al fine di far autorizzare tutte le spese sopra evidenziate», è scritto nell’informativa della Dia.
«Adesso gli faccio la lettera e gli mando anche un messaggio a parte», è il desiderio dell’ex senatore, che i detective spiegano così: «È intenzione di Dell’Utri accompagnare la lettera da un messaggio scritto separato. Inoltre, in occasione del prossimo incontro con Messina, nel corso del quale consegnerà la lettera e il biglietto manoscritto, Dell’Utri chiederà al predetto di chiamare al cellulare Berlusconi per poterci parlare».
Arriviamo così all’11 maggio. È il giorno in cui il ragioniere Giuseppe Spinelli, contabile dei segreti finanziari di Berlusconi, ha ricevuto una mail da due manager di Fininvest, con il via libera all’operazione vitalizio per Dell’Utri. L’oggetto del messaggio di posta elettronica: «Lettera all’amico - risposta».
Il testo: «Gentile Dottor Dell’Utri, il Dottor Berlusconi mi ha dato disposizione di accreditare a Suo favore la somma di euro 30.000 mensili. Provvederemo quanto prima all’accredito della somma corrispondente al primo semestre 2021 e successivamente con cadenza semestrale anticipata. Voglia cortesemente farmi avere gli estremi del Suo Iban. Con i migliori saluti». Accordo raggiunto, quindi, e seguito passo passo dai vertici dell’ufficio legale del colosso aziendale della famiglia Berlusconi.
«Berlusconi non abbandona mai gli amici», replica Messina, che sulle riunioni sostiene di non ricordare, ma di avere eseguito solo disposizioni. «I versamenti sono stati fatti sempre dai conti personali del presidente mai dall’azienda», specifica Messina, «30 mila euro, troppi? Chi riceve ha avuto un ruolo centrale nella crescita delle aziende con incarico di vertice in Publitalia». Nessun ricatto, perciò, solo enorme riconoscenza.
Che sia andato tutto per il verso giusto per Dell’Utri emerge anche dai documenti dell’antiriciclaggio finora inediti.
Una segnalazione di operazione sospetta con cui l’autorità di Banca d’Italia evidenzia anomalie finanziarie rivela la buona riuscita della trattativa: «Da analisi del rapporto sono emersi due bonifici, ciascuno di 90.000 euro, disposti a maggio e giugno 2021 da Silvio Berlusconi, entrambi recanti causale “Donazione di modico valore”. Il cliente ha chiesto l’emissione di una carta di credito che la filiale ha però negato e, a fine giugno, ha quindi richiesto di effettuare un bonifico di 10.000 euro direzionato su una carta prepagata a sé intestata, emessa da una società lituana, chiedendo contestualmente le credenziali per l’accesso all’home banking, onde poter gestire in autonomia il rapporto di conto corrente».
Entrambe le richieste, tuttavia, sono state negate dalla banca. Il segno dei tempi e dei processi, il cliente Dell’Utri non è più affidabile come un tempo.
DA PUBLITALIA A OGGI. Le indagini dell’antiriciclaggio sui milioni di Berlusconi versati a Dell’Utri. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 30 aprile 2023
Oltre a un vitalizio da 30mila euro al mese, Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore. La storia dei soldi dati dal pregiudicato alla banca di Verdini poi fallita. Il faro sui bonifici dei tempi delle stragi
Prima dell’accordo grazie al quale Marcello Dell’Utri ha beneficiato di un vitalizio mensile da 30mila euro al mese, Silvio Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore, condannato per collusione con la mafia. Domani ha svelato le riunioni e le trattative condotte per fare fronte alle continue richieste dell’ex senatore, cofondatore di Forza Italia ed ex manager del colosso televisivo.
Negoziati portati avanti da manager di Fininvest, da avvocati e dal tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Il patto economico è stato raggiunto nei primi mesi del 2021. Figlio di una vera e propria «trattativa», così la definiscono gli investigatori dell’antimafia nelle informative depositate nell’inchiesta di Firenze sulle stragi del 1993 condotta dai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, nella quale sono indagati sia Berlusconi sia Dell’Utri per concorso in strage.
I documenti finora inediti dell’antiriciclaggio permettono di ricostruire nei dettagli questi flussi precedenti all’accordo, ritenuti sospetti anche perché disposti negli anni dei processi per collusione con la mafia di Dell’Utri. Decine di segnalazioni sul denaro che da Berlusconi sono approdati sui conti Dell’Utri e famiglia. Una montagna di denaro, che a partire dal 2011 arrivano al 2021.
DEBITI E VERDINI
La segnalazione più rilevante è sugli 8 milioni di euro versati dal Cavaliere, Dell’Utri li utilizza in gran parte per effettuare bonifici e soprattutto per ripianare debiti con le banche. È il 2011. Tra i creditori c’era il Credito Fiorentino. Dei soldi ricevuti da Berlusconi, Dell’Utri usa 1,6 milioni per ridurre il debito con l’istituto allora presieduto da Dennis Verdini, altro fedelissimo finito in disgrazia. La banca è fallita l’anno successivo, nel 2012. Per il crack Verdini è stato condannato in via definitiva a sei anni.
Il 2012 è un altro periodo di grande generosità berlusconiana in un momento difficile per Dell’Utri, all’epoca ancora sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La segnalazione 2012 rileva «fondi di importo considerevole trasferiti da Berlusconi a Dell’Utri o a soggetti allo stesso riconducibili, presumibilmente nell’ambito della compravendita di un complesso immobiliare sito in Comune di Torno (CO) denominato “Villa Comalcione” ceduto da Dell’Utri a Berlusconi». In particolare, a marzo 2012, Berlusconi aveva disposto un bonifico di quasi 3 milioni in favore di Dell’Utri, titolare del conto nella banca di Verdini. Altri 15,7 milioni il Cavaliere li versa alla moglie dell’ex senatore. La donna con quella provvista effettuerà un giroconto su un suo conto nella Repubblica domenicana di 11 milioni, causale «per acquisto immobile».
IL CARCERE E LA YACHT
Nel 2016, Dell’Utri era in carcere per scontare la pena a sette anni per concorso esterno alla mafia, l’ex primo ministro versa a uno dei figli un milione di euro, usati da Dell’Utri junior per «pagare i legali del padre e somme ingenti per il noleggio di uno yacht di lusso». Lo stesso anno, segnala l’antiriciclaggio, sui conti della moglie dell’ex senatore Berlusconi invia 2 milioni di euro come «prestito infruttifero».
Nel 2017 sul conto della moglie di Dell’Utri i detective antiriciclaggio, oltre a segnalare operazioni su conti esteri, sottolineano un bonifico dell’ex presidente del consiglio di mezzo milione di euro.
Il 2018 è l’anno della condanna in primo grado nel processo trattativa stato-mafia, Dell’Utri è poi stato assolto nei giorni scorsi in Cassazione. Quell’anno la moglie incassa da Berlusconi tre bonifici per un totale di 1,9 milioni, causale è sempre la solita: «Prestito infruttifero». Oltre 200mila servono per pagare uno degli avvocati di Dell’Utri.
Due mesi prima della sentenza di primo grado sulla trattativa stato-mafia, Berlusconi fa un altro regalo da 1,2 milioni alla moglie dell’amico imputato. A venti giorni dal verdetto palermitano un nuovo versamento sui conti della donna pari a 800mila euro: 300 li gira al figlio, il quale userà parte della provvista per un «finanziamento soci infruttifero» alla società di cui è azionista, la Finanziaria Cinema srl. Soltanto nel 2018, quindi, il capo di Forza Italia ha versato quasi 4 milioni ai Dell’Utri.
LA CASA
L’anno successivo, il 2019, l’antiriciclaggio segnala un altro movimento sospetto: un bonifico da mezzo milione destinato alla consorte di Dell’Utri, proveniente dal solito Berlusconi. Tuttavia i detective di Banca d’Italia individuano anche una compravendita di una villa liberty in un quartiere di Milano da poco riqualificato, “il villaggio del sarto”. In pratica ad attirare l’attenzione è un atto preliminare di vendita tra i Dell’Utri e la società “Quartiere del sarto” il cui rappresentante legale è Simon Pietro Salini, dell’omonima famiglia di costruttori coinvolti nella progettazione del Ponte sullo Stretto, pallino di Berlusconi e riportato in auge da Matteo Salvini.
Il prezzo pattuito per la casa di pregio in centro a Milano è di 1,2 milioni di euro. Dai documenti letti risulta però che alla fine di dicembre 2019 l’atto è stato annullato e alla signora Dell’Utri ha ottenuto la restituzione di 200 mila euro versati come caparra. Poco dopo però Salini ha avuto una nuova offerta della stessa cifra. Il nuovo acquirente è l’immobiliare Dueville srl, tra gli azionisti diverse società, molte delle quali «riconducibili a Silvio Berlusconi», si legge nelle carte dell’antiriciclaggio.
Negli anni successivi, fino al 2021, il canovaccio si ripete fino al vitalizio concordato per l’ex senatore di 30mila euro al mese. Alla pensione d’oro offerta all’ex senatore vanno aggiunti altri benefit, come la ristrutturazione della casa della figlia.
ANNI NOVANTA
Nel fascicolo dell’inchiesta sulle stragi del 1993 c’è molto altro sulle origini dei rapporti economici tra Dell’Utri e Berlusconi. Sono stati allegati gli atti del processo di Torino scaturito dall’inchiesta su Publitalia e le fatture false con Fininvest. Dell’Utri era il principale imputato. Da quelle carte emergono dazioni di denaro extra ricevute dall’allora manager berlusconiano, principale artefice della nascita di Forza Italia. Berlusconi sentito come testimone in quel processo contro l’amico aveva confermato le elargizioni, dal canto suo Dell’Utri aveva dichiarato di aver ricevuto una somma intorno ai 5 miliardi di lire tra contante e valori mobiliari.
Per l’antimafia sono regali importanti se contestualizzati al periodo in cui si concretizzano, «storicamente individuabile in quello delle stragi continentali, ma anche della nascita del partito di Forza Italia, dell’impegno politico di Silvio Berlusconi, del concorso di Dell’Utri nella nascita del partito e del suo ruolo nei rapporti tra Berlusconi e persone appartenenti alla mafia siciliana, e, non ultimo, tra il 18 e il 21 gennaio 1994, l’incontro al bar Doney, per arrivare all’arresto dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994».
I Graviano sono i mafiosi stragisti attorno ai quali ruota l’inchiesta di Firenze e ai loro rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. Secondo il pentito Gaspare Spatuzza, al bar Doney, Giuseppe Graviano gli disse che «avevano il paese nelle mani» grazie all’interlocuzione con Berlusconi e il loro compaesano Dell’Utri.
LA CARTA DIMENTICATA
Per tutti questi motivi, secondo gli investigatori antimafia è rilevante anche un altro documento del processo Publitalia: si tratta della causa di lavoro che Dell’Utri ha mosso contro Fininvest nell’ottobre 1994 per demansionamento. Era l’anno d’oro della discesa in politica e della vittoria elettorale, Berlusconi e Dell’Utri erano una cosa sola. Ancora più strano quel che è accaduto il giorno stesso della presentazione della causa con una conciliazione tra i legali delle due parti che riconosce a Dell’Utri un ammontare di tre miliardi e mezzo di lire «quale risarcimento del danno e incentivo all’esodo», somma più alta di quella chiesta dal fido sodale.
La causa di lavoro serviva a giustificare un’elargizione personale di Berlusconi a Dell’Utri «in modo legale», emerge dalla sentenza di Torino.
La conclusione degli inquirenti in una delle informative dell’inchiesta sulle stragi lega quelle dazioni del 1994 al mutato contesto di relazioni con la mafia: «L’appunto sequestrato (sui 3 miliardi e mezzo, ndr) è relativo al giugno 1994, la causa del lavoro è del fine ottobre dello stesso anno. Ancora una volta il 1994. Dopo l’arresto dei fratelli Graviano, il quadro dell’anno offre un dinamismo finanziario “intenso”, volto quasi a impostare nuovi andamenti, scevri dalla necessità di confrontarsi economicamente con una vecchia compagine mafiosa siciliana, verso la quale si era debitori al fine di instaurare affari economici legati al mondo dell’edilizia, ma per proporsi, anche per il tramite di nuovi contatti con la mafia, individuati da Dell’Utri, a cui va riconoscenza, non per consolidare gli affari immobiliari o televisivi, ma per acquistare, questa volta, potere politico». Ipotesi per chi indaga. Solo teoremi e fango come sostengono i fedelissimi del capo di Forza Italia. Per capire chi avrà ragione bisognerà attendere la fine dell’indagine di Firenze.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Mario Mori ha confessato la “trattativa Stato-mafia”? Ecco perché è una bufala. L'ex Ros nel 1998 ha detto nella sua deposizione al processo di Firenze quello che già aveva riferito nel 1993 alla procura di Palermo. Ma non ha nulla a che fare con la tesi della "trattativa". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2023
Pur di non ammettere che la tesi giudiziaria è polverizzata, si cerca di confondere l’opinione pubblica sovrapponendo la “trattativa” (o meglio un bluff), quella intercorsa tra gli ex Ros e Vito Ciancimino (e riferita alla procura di Palermo già nel 1993, senza che giustamente i pubblici ministeri ravvisassero elementi “indicibili”) e la “Trattativa Stato- mafia” che racconta una storia totalmente diversa e smantellata con le assoluzioni definitive.
Prima di entrare nel merito della “confessione” dell’ex Ros Mario Mori, bisogna ripartire dai capi d’accusa che dettero l’avvio al processo Trattativa. È qui che si costruisce la storia – in seguito completamente sbugiardata dai fatti - raccontata dai pubblici ministeri palermitani di allora. Il capo A della richiesta di rinvio a giudizio indica l’esistenza, a partire dal 1992, di un articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa nostra per “ricattare lo Stato” e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose, la cui realizzazione avrebbe avuto inizio con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima per poi proseguire con la progettazione di omicidi e l’esecuzione di stragi.
Secondo l’accusa, il proposito criminoso dei vertici mafiosi si sarebbe rafforzato in ragione della condotta tenuta da alcuni esponenti delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza interna e all’applicazione di misure repressive delle azioni criminali. Più precisamente, sulla base della tesi esplicitata dal pubblico ministero, in alternativa a una fisiologica repressione del crimine mafioso senza mediazione alcuna da parte degli organi pubblici competenti (forze dell’ordine, polizia giudiziaria, magistratura), alcuni pubblici ufficiali e alcuni esponenti politici di primo piano avrebbero attivato “canali di dialogo” con esponenti mafiosi, manifestatisi trasversalmente e in forme diverse nel circuito istituzionale a partire dall’estate del 1992. Il “dialogo” avrebbe avuto a oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefici penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati. In altri termini gli atti di minaccia indicati dai Pm di Palermo, suscettibili di integrare l’ipotesi di reato cui all’art. 338 del codice penale (violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), e materialmente attribuiti ai capi della organizzazione mafiosa, vengono connessi alle condotte degli ex Ros ed esponenti politici (più precisamente Calogero Mannino in qualità di ministro) che, agendo con abuso di potere e in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, hanno finito per rafforzare il proposito criminoso dei primi sempre pronti a rinnovare le minacce per ottenere quanto preteso, così integrando una ipotesi di concorso morale.
In sostanza, così come d’altronde si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, la storia “Trattativa Stato-mafia” si svolge in questo modo: le ripetute minacce all’indirizzo dell’onorevole Mannino, a partire dal febbraio del 1992, sarebbero finalizzate a creare un “rapporto di interlocuzione nuovo” con il mondo politico, per la cura degli interessi finanziari e per contenere l’azione repressiva dello Stato, una volta che Cosa nostra ha deciso di eliminare alcuni referenti del passato quali l’onorevole Lima. Quindi cosa accade secondo questa narrazione meta- giudiziaria? Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di questa trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex ros Mori e De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il cosiddetto “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa, relativi principalmente alla legislazione penale, in cambio della cessazione delle stragi. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, uomo vicino a Riina.
Tutta questa narrazione è stata smantellata da varie sentenze definitive che hanno dovuto affrontare anche la storia della “trattativa Stato-mafia”: a partire da quella su Mannino il quale scelse il rito abbreviato, quella sulla cosiddetta mancata perquisizione del “covo” di Riina e la “Mori-Obinu” sulla presunta mancata cattura di Provenzano, fino all’esito giudiziario attuale sancito dalla Cassazione. Non è vero che Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Nessun patto indicibile con la mafia.
Ma quindi Mori ha confessato tale “trattativa Stato- mafia”? Non ha confermato una sola virgola di questa narrazione. In questi giorni si ripesca la sua deposizione del 24 gennaio 1998 durante il processo di Firenze sulle stragi continentali del 1993. Si riporta in sostanza questo suo passo in merito ai contatti che ha avuto con don Vito: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Ha confessato cosa? Sostanzialmente ciò che era già a conoscenza dalla procura di Palermo nel 1993, quando Ciancimino stesso fu sentito e messo al verbale tutto. Nulla che ha fatto sobbalzare i pubblici ministeri di allora. Nulla a che fare con la storia della “Trattativa Stato- mafia” narrata in seguito dalla pubblica accusa. E in che cosa è consistita? Mori stesso lo ribadisce in quella famosa deposizione che ora va di moda ripescarla. Fu un bluff. Ciancimino abboccò all’amo. Nel quarto incontro, infatti don Vito disse a Mori: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”.
Ebbene, sempre Mori racconta che a quel punto non poteva più allargare il brodo, perché sapeva benissimo che quella manovra della trattativa fosse un escamotage per uscire dai domiciliari e rifugiarsi in sicurezza all’estero. E allora gli disse: “Beh, noi offriamo questo: i vari Rina, Provenzano e soci si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A quel punto Ciancimino si inalberò, comprese il bluff, e rispose: “Ma voi mi volete morto!?”. Un bluff che poi servì perché si aprì un varco: Ciancimino li ricontattatò per accettare di aiutarli ad arrivare a Riina e Provenzano, si propose di fare una specie di agente provocatore per inserirsi nel mondo degli appalti, voleva in cambio un aiuto per aggiustare la sua posizione giudiziaria, e propose di voler essere ascoltato in commissione antimafia. Non male. Ma tutto sfumò nel momento in cui Ciancimino fu – su segnalazione dell’allora guardasigilli Martelli – riportato in carcere di Rebibbia. Dopodiché decise in quale modo di continuare a collaborare. A quel punto Mori avvisò il neocapo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Quest’ultimo e l’allora pm Ingroia, decisero di ascoltare Ciancimino. Ed è proprio quest’ultimo – precisamente parliamo del verbale datato 17 marzo 1993 - a raccontare di trattative, contatti con gli intermediari mafiosi a seguito del dialogo instaurato con i Ros. Parlò pure della proposta da lui considerata oscena che gli fece Mori: quella della resa, la consegna di Riina e Provenzano. Tutto. Ma non è la “trattativa Stato-mafia”, quella che poi verrà narrata in seguito al livello processuale. Altrimenti, Caselli stesso, persona indiscutibilmente seria ed integerrima, avrebbe subito inquisito Mori. Nessuna confessione. E ci vuole tanta disonestà intellettuale nel riproporre questa bufala ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza di questi fondamentali dettagli.
(ANSA il 4 maggio 2023) - L'avvocato di Silvio Berlusconi Giorgio Perroni ha annunciato che domani presenterà una denuncia contro la "ignobile e illegale fuga di notizie" riguardo le indagini della Procura di Firenze sulle stragi del 1993.
"Ancora oggi - ha spiegato il legale - appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM.
Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell'inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti".
Ma, ha sottolineato Perroni, "da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione". Ed è "doveroso" ricordarlo".
"Di fronte a questa continua, incessante e calunniosa macchina del fango - ha concluso -, confermo che, come già anticipato, domani presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica, chiedendo che i Magistrati si adoperino per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie".
Estratto dell’articolo di M.L. per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.
Sono passati 30 anni dalle stragi del 1993. Il 14 maggio sarà il trentennale dell’autobomba esplosa in via Fauro vicino al Teatro Parioli, a Roma, al passaggio della Mercedes che portava a casa il conduttore tv Maurizio Costanzo insieme alla futura moglie, l’allora semisconosciuta Maria De Filippi. Seguirà nella notte tra 26 e 27 maggio la strage di via dei Georgofili, dietro agli Uffizi. […]
Quindi, il 27 luglio, il doppio botto intorno alla mezzanotte: un’autobomba davanti al Pac di via Palestro a Milano uccide 5 persone, mentre altri due ordigni sfigurano (senza vittime) le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. Quella notte i centralini di Palazzo Chigi saltano e il premier Ciampi pensa al colpo di Stato.
[…] Tutto finisce con l’attentato fallito dell’Olimpico di Roma. Il 23 gennaio 1994, dopo Roma-Udinese, dovevano morire 100 carabinieri ma la Lancia Thema imbottita di tritolo non esplode per un guasto al telecomando. Il 27 gennaio 1994 vengono arrestati i boss Giuseppe e Filippo Graviano. Il giorno prima era sceso in campo Silvio Berlusconi che due mesi dopo vincerà le elezioni. La mafia non farà esplodere più nulla. Nemmeno un cassonetto.
Nel disinteresse generale i pm di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli stanno cercando di capire perché le stragi sono iniziate e perché sono finite. Berlusconi e il fido Dell’Utri sono indagati per l’ipotesi di strage in concorso con i Graviano, ipotesi che gli interessati respingono ovviamente con sdegno.
La Procura di Firenze indaga da 27 anni a intermittenza sui fondatori di Forza Italia. L’inchiesta sui “mandanti esterni” (le uniche condanne per ora sono state inflitte solo a boss mafiosi) è stata aperta e chiusa già 4 volte su richiesta dei pm stessi. […]
La commemorazione con la censura incorporata sulle indagini in corso non fa onore a nessuno. […] Una trasmissione televisiva ha osato avvicinarsi a questa inchiesta. Non è l’Arena si sarebbe occupata delle indagini sui rapporti triangolari tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.
Massimo Giletti aveva chiesto a chi scrive di partecipare a una o più trasmissioni sull’inchiesta fiorentina, portando in tv il bagaglio di conoscenze mostrate sulle pagine del Fatto. Eravamo perplessi sul fatto che l’editore Cairo fosse d’accordo su una trasmissione certamente non gradita a Berlusconi e compagni.
Giletti ci aveva rassicurato entrando persino nel dettaglio dei contenuti: le conversazioni intercettate e i milioni di euro da Berlusconi a Dell’Utri, gli antichi rapporti con la mafia di quest’ultimo. Il 12 aprile Giletti ci aveva scritto questo messaggio: “Poi ci dobbiamo vedere per pianificare...!”. Il giorno dopo Non è l’Arena è stata cancellata con una email di La7.
[…]
Estratto dell’articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.
Secondo la Dia, Giuseppe Graviano nel 2016 avrebbe confidato al compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, un segreto: la strage dello Stadio Olimpico, tentata e fallita dagli uomini dello stesso Graviano, il 23 gennaio 1994, gli sarebbe stata chiesta da Silvio Berlusconi. È solo un’ipotesi investigativa. Lo stesso Graviano, interrogato sul punto, non ha confermato la lettura data dalla Dia delle sue parole.
Però le ultime righe dell’informativa del 16 marzo 2022 di 72 pagine, firmata dal capo centro della Dia di Firenze, Francesco Nannucci, sono nette: “Si può affermare che la conversazione ambientale del 10 aprile 2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’Olimpico del 23 gennaio 1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”.
Vediamo come la Dia arriva a queste conclusioni. Si parte dal video registrato il 10 aprile 2016 in cella ad Ascoli Piceno. Graviano parla con Adinolfi e le telecamere nascoste riprendono. “Graviano – scrive la Dia – fa alcuni riferimenti all’investimento di 20 miliardi di lire che il nonno e altre persone hanno effettuato nelle attività delle imprese riconducibili a Silvio Berlusconi”. Va detto subito che Berlusconi e Dell’Utri negano tutto e i legali parlano di accuse infondate e fantasiose.
Graviano torna sul punto con i pm di Firenze il 20 novembre 2020: “Mio nonno portò me e Salvatore (cugino di Graviano, ndr) a Milano a incontrare Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne all’Hotel Quark (…) con Berlusconi ho avuto un incontro anche nel 1985/1986, allorquando ero già latitante (...) sapeva che io ero latitante”.
Nell’informativa c’è spazio per la sentenza Dell’Utri: “I legami di Silvio Berlusconi con la mafia palermitana erano già noti sin dagli anni 70, come peraltro emerso nel processo palermitano a carico di Marcello Dell’Utri”, nel quale “venivano confermati i rapporti con Cosa Nostra almeno fino all’anno 1992”. Poi si torna al colloquio Graviano-Adinolfi. La Dia prosegue così: “Altro aspetto importante è il riferimento che Graviano fa al tentativo da parte di alcuni esponenti della politica siciliana del tempo, convenzionalmente definiti ‘i vecchi’, di far cessare le stragi”.
Per la Dia, Graviano si riferisce ad alcuni esponenti della vecchia Democrazia Cristiana “tra i quali il senatore Vincenzo Inzerillo, strettamente legato a Giuseppe Graviano”, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’interpretazione data alle parole di Graviano dalla Dia, Inzerillo voleva far cessare le stragi a fine 1993 mentre, sempre per la Dia, Graviano sostiene che Berlusconi voleva farle proseguire. Tesi accusatorie tutte da provare che la Dia argomenta partendo dal video del 10 aprile 2016.
Il boss di Brancaccio quando parla della “bella cosa” fa un gesto con la mano che per la Dia è una “mimica riconducibile a un evento esplosivo”. Lo fa quando corregge l’errore di comprensione del compagno di detenzione. “Adinolfi sembra convinto – scrive la Dia – che Silvio Berlusconi avesse anch’egli interagito con Giuseppe Graviano al fine far terminare il periodo stragista (“per bloccare l’azione”), ma al contrario, quest’ultimo prima risponde negativamente: “Noo!” e poi aggiunge: “Anzi meglio, anzi... lui mi disse, dice: ‘Ci volesse una bella cosa’”.
Secondo l’interpretazione della Dia, quindi, la “bella cosa” sarebbe l’attentato di cui Graviano parlò ai tavolini del bar Doney a Gaspare Spatuzza nel gennaio 1994 per chiedergli di dare ‘il colpo di grazia’ allo stadio Olimpico.
[…] Per puntellare il ragionamento la Dia ricorda le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro) che nel 1995/96, parlarono, de relato, della confidenza riferita loro da Francesco Giuliano, un altro mafioso non pentito, sulla richiesta di Berlusconi di fare le stragi. Romeo già il 14 dicembre 1995 riferisce la confidenza di Giuliano sul fatto che c’era “un politico di Milano che aveva detto a Giuseppe Graviano di continuare a mettere bombe”.
Poi il 29 giugno 1996 Romeo precisa che il nome lo aveva appreso in un colloquio a tre con Spatuzza e Giuliano. Quando chiesero a Spatuzza, “se era Berlusconi la persona che c’era dietro gli attentati. Spatuzza aveva risposto di sì”. Giuseppe Graviano, però, sentito nel 2020 e nel 2021 dai pm di Firenze, ammette che si riferiva a Berlusconi solo quando parlava degli investimenti del nonno e della sua delusione per le leggi sul 41 bis. Ma a domanda specifica “Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi?” il boss glissa: “Non lo so se è stato lui”.
La Dia vede il bicchiere mezzo pieno: “Graviano non nega che Berlusconi sia stato il mandante, ma neanche lo ammette, prendendo una posizione interlocutoria”. E sottolinea che nel colloquio intercettato in cella del 14 marzo 2017 “è lo stesso Graviano che imputa a Silvio Berlusconi di essere il mandante delle stragi (...) ‘Tu mi stai facendo morire in galera... che sei tu l’autore... io ho aspettato senza tradirti...’” .
L’autore, inteso come autore delle stragi, è dunque l’interpretazione della Dia che non crede ai verbali più vaghi sul punto di Graviano. “In sede di contestazione da parte dei magistrati, Graviano, cercando di fornire un improbabile giustificazione, riconducendo il tutto alla mera questione relativa agli investimenti economici del nonno materno, di fatto forniva indirettamente la conferma che il mandante delle stragi era appunto Silvio Berlusconi. Infatti – prosegue la Dia – opportunamente incalzato sul punto, alla domanda del pm: ‘E che sei tu l’autore, l’autore di cosa?’, Graviano ribadiva con un laconico: ‘Non posso rispondere’, volendo, evidentemente, coprire, o non escludere, il possibile coinvolgimento di Berlusconi”.
Secondo la Dia “è chiaro, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che Graviano ha inteso ‘coprire’ Berlusconi, non lo ha voluto tradire raccontando tutto quello che sa, sia nei rapporti con suo nonno e suo cugino, sia in rapporti ulteriori e diversi di cui Berlusconi era attore, ma che non ha voluto specificare. Il termine ‘tradire’, infatti, trova più giustificazione verso la rivelazione di un segreto che avrebbe certamente procurato un forte nocumento a Berlusconi, per qualcosa di cui quest’ultimo era ‘autore’, più che in un mancato rispetto di un patto economico che lo stesso avrebbe consolidato con il nonno di Giuseppe Graviano”.
Per la Dia “sono stati raccolti sufficienti indizi per ritenere che i riferimenti di Graviano nel colloquio con Adinolfi, siano per il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nella strage dell’Olimpico di Roma del 23.1.1994 e non per altri episodi, mai riscontrati. […] Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate.
Narrazioni fantasiose dei Pm. Berlusconi, stop a ignobile macchina del fango. Il legale: “Presenterò denuncia contro il Fatto Quotidiano”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 4 Maggio 2023
Il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Giorgio Perroni spiega in una nota la volontà del suo assistito a presentare una denuncia alla Procura della Repubblica per la “continua, incessante e calunniosa macchina del fango contro il Cavaliere”.
Perroni sollecita i Magistrati affinché si adoperino “per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie”. Ancora oggi – prosegue il legale – “appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM. Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.”
L’avvocato di Berlusconi sottolinea che “addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell’inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti”. Secondo Perroni, tuttavia, “è, anzitutto, doveroso ricordare, ancora una volta, che da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione”.
Solidale con Berlusconi anche il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “La clamorosa sentenza sulla presunta trattativa Stato-mafia evidentemente irrita gli inventori di teoremi. Da quel processo, dopo decenni, sono usciti a testa alta il generale Mori, il generale Subranni, il colonnello de Donno e lo stesso Marcello dell’Utri. Erano state inventate ricostruzioni incredibili. E ancora ne circolano in alcune procure. Io mi chiedo se il Ministro della Giustizia non debba disporre delle ispezioni anche in queste procure, che alimentano ricostruzioni che definire fantasiose vuol dire usare un termine fin troppo riduttivo.”
La mafia – conclude il senatore – “è stata stroncata soprattutto dai governi di centrodestra. Che hanno reso permanente e poi irrobustito il 41 bis. Che hanno dato forza e fiducia ai reparti speciali delle Forze dell’Ordine, che hanno registrato risultati eclatanti. Questa è la verità della storia. Invece toghe rosse e toghe creative alimentano narrazioni smentite del resto dagli stessi tribunali o dalla Cassazione, che hanno avuto il coraggio di certificare la verità. Alcuni articoli poi rappresentano un penoso modo di alimentare campagne basate su teoremi inesistenti e irrispettosi della verità. Che squalificherebbero chi le sigla, se non fosse già sommerso da una montagna di fanfaluche che ha prodotto nel corso dei decenni”. Giulio Pinco Caracciolo
Non è l'Arena, “intercettazioni su mafia, politica e imprese”. Retroscena sull'addio a Giletti. Il Tempo il 05 maggio 2023
Perché Non è l’Arena è stata chiusa? A quasi un mese dallo stop inaspettato della trasmissione domenicale di La7 condotta da Massimo Giletti arriva un nuovo articolo di retroscena sui motivi che hanno spinto Urbano Cairo a prendere tale decisione. “Seconda una fonte molto qualificata al centro dell’appuntamento (mai trasmesso) del 13 aprile scorso ci sarebbero state le intercettazioni su mafia, politica e imprese” la spiegazione che arriva dal sito Affari Italiani.
Che poi continua tracciando un quadro della situazione sul programma televisivo: “Sui rapporti, ad altissimi livelli, tra Cosa Nostra, politici di peso e sulle aziende che erano coinvolte da questa triangolazione malata. I nomi che circolano sono, d’altronde, di primissimo rilievo ed è perfino comprensibile che il rischio di toccare gangli imprescindibili della nostra vita pubblica fosse altissimo”. Nei giorni scorsi è circolata anche l’ipotesi che dietro al cartellino rosso sventolato in faccia a Giletti ci sia la vicenda che coinvolge Carlo Bertini, ex funzionario di Bankitalia che aveva denunciato lo scandalo dei diamanti: secondo il sito non è questo il motivo della chiusura di Non è l’Arena.
Così i clan volevano sequestrare il figlio di Berlusconi: ecco l’audio del caso Giletti. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 aprile 2023
Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio su Silvio Berlusconi, i fratelli Graviano (i boss della mafia stragista) e le dichiarazioni di un gruppo di collaboratori si giustizia agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria.
In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare.
Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.
Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio di deposizioni del mafioso, Giuseppe Graviano, e di pentiti che parlavano di Silvio Berlusconi, materiale agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Registrazioni di cui hai parlato sul Quotidiano del Sud il giornalista Paolo Orofino.
In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare. Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.
Nomi che sono i protagonisti della foto dei misteri, quella che ha provocato la rottura dei rapporti tra Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento degli stragisti Graviano, e Giletti.
L’esistenza di questa foto resta ancora un giallo, come ha raccontato Domani nella serie di articoli pubblicati nei giorni scorsi. Baiardo avrebbe mostrato lo scatto, che potrebbe essere la prova di un patto sporco, al conduttore senza rilasciargli copia.
Così Giletti ha raccontato tutto ai magistrati di Firenze che indagano sui mandanti esterni alle stragi sul continente del 1993, inchiesta che vede indagati Berlusconi e il fido, Marcello Dell’Utri, per concorso in strage (indagini analoghe sono già state aperte e chiuse). I protagonisti si difendono e parlano di una ricostruzione infamante.
Dagli atti emerge che Baiardo ha più volte fatto riferimento all’esistenza di questa fotografia nei colloqui con Giletti, colloqui che gli investigatori hanno registrato per verificare la veridicità delle dichiarazioni del conduttore.
GLI AUDIO DEL PENTITO
Gli audio, vista la cancellazione del programma, non saranno mai trasmessi su una televisione nazionale, sono stati mandati in onda da Lacnews24 nello speciale sul processo realizzato dal giornalista Pietro Comito. Queste registrazioni incrociano i protagonisti della foto che, nel caso esistesse, riscriverebbe la storia delle stragi e un pezzo di storia repubblicana.
Partiamo dal primo audio, che vede protagonista Antonino Fiume, un collaboratore di giustizia di primo livello della ‘ndrangheta. Interrogato dal pubblico ministero, Giuseppe Lombardo, risponde a questa domanda: «Mi spiega meglio, questo fatto di non rapire il figlio di Berlusconi?». «I palermitani erano andati ad Africo, Peppe Morabito (boss di ‘ndrangheta, ndr) si era assunto la responsabilità perché i palermitani dicevano che gli fa dei regali e di non sequestrarlo, era un periodo che i sequestri c’era chi voleva farli e chi no, e Antonio Papalia l’aveva passata per novità questo discorso che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare». Lo aveva mandato a dire Antonio Papalia che «il figlio di Berlusconi non si tocca».
Papalia non è il nome qualunque non solo per il peso che ha avuto nella ‘ndrangheta, ma anche perché diversi collaboratori di giustizia indicano in rapporti con il generale Francesco Delfino. Il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’onta della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, sarebbe uno dei protagonisti della foto dei misteri. Anche Delfino, ma dal punto di vista investigativo, si occupava di sequestri, nel suo caso per evitarli.
«È emersa, in modo fin troppo evidente, la collocazione verticistica dei Papalia (e in primis di Domenico Papalia) e dei fratelli del generale Francesco Delfino nel panorama 'ndranghetistico e massonico», scrivono gli investigatori autori del rapporto ‘ndrangheta stragista.
«In quel quadro di analisi era stata, anche, evidenziata la posizione di Francesco Delfino, generale dell'Arma dei carabinieri, in un periodo in fuori ruolo presso il Sismi (i servizi segreti interni, ndr), originario di Platì (cuore della ‘ndrangheta) e attore, in più ricorrenze, di accadimenti criminali della massima importanza in questo procedimento», proseguono gli inquirenti.
Un capitolo dell’informativa è dedicato al potere dei Papalia e di uno dei parenti di Delfino su Buccinasco, provincia di Milano, feudo nordico della cosca, dove ancora oggi hanno una fortissima influenza.
Nell’informativa agli atti del processo ‘ndrangheta stragista in cui i pubblici ministeri calabresi hanno dimostrato il ruolo delle cosche reggine nella strategia eversiva degli anni Novanta guidata da cosa nostra e Totò Riina, emerge più volte il nome di Delfino.
IL GENERALE E I PADRINI
Soprattutto per i suoi rapporti con il gotha della ‘ndrangheta, cioè i Papalia, che erano sovrani non solo in Calabria. Anzi, i fratelli Papalia erano considerati ai tempi i capi dei capi della mafia al nord, in particolare in Lombardia, dove all’epoca, come raccontato al pm Lombardo da diversi pentiti esisteva una sorta di “consorzio” unico delle tre mafie più potenti (camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra) con Papalia a farla da padrone.
Proprio lì dove organizzava sequestri degli industriali e contemporaneamente interloquiva con la politica locale.
Su Delfino oltre ai rapporti con i boss Papalia erano emersi i legami con un altro potente padrino di ‘ndrangheta, intimo dei Papalia: «Altro tema di interesse a queste indagini è la collocazione, nello scenario criminale che stiamo esplorando, di Giuseppe Nirta, soggetto legato - dalle risultanze giudiziarie note - al generale Francesco Delfino». Anche la famiglia Nirta, di San Luca (altro santuario della ‘ndrangheta) all’epoca coinvolta nei sequestri di persona.
Delfino ha avuto un ruolo anche nella collaborazione di Balduccio Di Maggio, colui il quale porterà gli investigatori nel covo di Totò Riina. Come ha raccontato il nostro giornale abitavano tutti lì, fra il 1992 e il 1993. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro amico gelataio Salvatore Baiardo che li ospitava ad Omegna “con altre persone”, abitava lì anche il generale Francesco Delfino che aveva una villa a Meina, e a Borgomanero era stato catturato Balduccio Di Maggio. Un altro audio che sarebbe stato trasmesso durante la trasmissione è quello nel quale Giuseppe Graviano riferiva di aver investito, in particolare il nonno, nelle attività finanziarie di Silvio Berlusconi. Audio che resteranno sconosciuti al grande pubblico.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Estratto dell'articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 5 maggio 2023.
Nell'informativa del 16 marzo 2022 della Dia di Firenze confluita nel fascicolo recentemente riaperto nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri con l'ipotesi tutta da riscontrare di avere avuto un ruolo di 'mandanti esterni' nelle stragi di Milano e Firenze e negli attentati di Roma del 1993-94, c'è una pagina dedicata alla 'compresenza' di Marcello dell'Utri e dei boss della mafia Giuseppe e Filippo Graviano nelle stesse zone nel 1993-94.
A pagina 40 dell'informativa di 72 pagine […] la Dia scrive, riferendosi alle vecchie indagini svolte già nel 2010: “La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina (Fabio Tranchina, faceva l'autista di Graviano e poi è divenuto collaboratore di giustizia, Ndr), nonché i seguenti e ulteriori elementi”.
Segue un elenco con incroci telefonici, date e luoghi sparsi per l'Italia. Un elenco si badi bene non di incontri provati (tra Graviano e Dell'Utri) ma di spunti investigativi derivanti dall'analisi delle celle telefoniche dei ripetitori agganciati dai cellulari nonché dalle agende e dalle testimonianze raccolte.
Berlusconi e Dell’Utri hanno sempre negato qualsiasi rapporto con i Graviano. Precisiamo subito quindi che stiamo parlando di spunti investigativi. Vale come sempre la presunzione di innocenza sopratutto in questo caso visto che si tratta di indagini per fatti gravissimi di 30 anni fa e che già in passato inchieste sulle medesime accuse sono state chiuse con archiviazioni. L'analisi delle celle telefoniche di Dell'Utri e dei favoreggiatori di Graviano non fu considerata decisiva già 12 anni fa. Tanto che Berlusconi e Dell'Utri furono archiviati su richiesta degli stessi pm fiorentini.
Ora quelle analisi però sono state rispolverate e messe in relazione con i nuovi elementi emersi nell'informativa del 16 marzo 2022 che conclude così: “Vi è infatti il fondato motivo di credere che Silvio Berlusconi, tramite la mediazione di Marcello Dell'Utri e di altre persone allo stato ignote, abbia intrattenuto nel tempo rapporti con esponenti di spicco della mafia siciliana, per ultimo Giuseppe Graviano, per garantirsi inizialmente fondi volti ad effettuare gli investimenti, che poi gli hanno consentito di creare il suo impero economico, e poi, per quanto strettamente d'interesse, la sua ascesa in politica del 1994, facendo veicolare i voti dell'allora costituendo movimento politico Sicilia Libera nel neonato partito Forza: Italia di cui Berlusconi era il leader”.
L'informativa del 16 marzo 2022 è un atto che non è stato depositato nel procedimento principale su Berlusconi e Dell'Utri […] ma in quello incidentale sulle perquisizioni ai fratelli di Giuseppe Graviano, non indagati. […]
Ma qual è il senso del lavoro della DIA? Gli investigatori sanno che Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento nel 1997, accompagnavano Giuseppe Graviano e talvolta anche il fratello Filippo nei primi anni novanta. Sanno anche che, quando i boss sono stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, i Carabinieri sequestrarono un cellulare intestato a un tal Costantino Taormina, incensurato.
Incrociando i tabulati telefonici con le celle agganciate dai cellulari di Baiardo, Tranchina e Taormina con quelli dei telefonini di Marcello Dell'Utri e dei suoi accompagnatori gli investigatori hanno trovato elementi per ipotizzare dei luoghi e delle date di quelle che la Dia chiama 'compresenze', cioé volgarizzando possibili e ipotetici (ripetiamolo solo ipotetici) incontri tra il boss e il manager di Publitalia nonché futuro senatore, proprio nel periodo in cui Giuseppe Graviano ordiva il suo piano stragista e Silvio Berlusconi preparava la sua discesa in campo.
Il periodo chiave è quello del 1993-1994. Scrive il capocentro della Dia di Firenze Francesco Nannucci a marzo 2022 ricordando l'evoluzione delle vecchie indagini “sulla base degli elementi segnalati nella nota prot. 6246 del 15/10/2010, allegata all'informativa del 2018, nella quale era stato rendicontato l'esito dei riscontri sugli spostamenti dei fratelli Graviano nel periodo delle stragi, e la compresenza dei due loro favoreggiatori, ovvero Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, nei medesimi luoghi frequentati dai fratelli Graviano.
Per completezza di indagine, venne altresì effettuata un'analisi del materiale in possesso agli investigatori, rendicontata nella nota n.7762 del 17.12.2010 , concernente pregresse attività di polizia giudiziaria espletate a carico di (…) e Marcello Dell'Utri. La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina, nonché i seguenti e ulteriori elementi”.
Seguono una serie di punti. Qui ne riportiamo alcuni: “(…) Compresenza Dell'Utri-Graviano a Venezia in occasione del carnevale 1993;Possibile spostamento in Toscana di Dell'Utri il 27.04.1993 compatibile con la presenza a Firenze dei Graviano ivi prelevati da Tranchina, il giorno 29.04.1993;(...)Compresenza su Roma il giorno 08.08. 1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda (la moglie ovviamente estranea all’indagine, Ndr) e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina; […] Presenza di Dell'Utri Marcello, il giorno 18.01.1994, presso l'Hotel "Majestic'' di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l'incontro tra Graviano e Spatuzza al Bar Doney a Roma e con la strage dell'Olimpico, che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri”.
A difesa di Dell'Utri va detto che a tutti può capitare di trovarsi con il telefonino acceso nella stessa zona in cui si trova un boss sconosciuto e che un tempo le celle telefoniche erano molto più ampie di adesso.
[…] Cerchiamo di spiegare perché la Dia segnala queste 'compresenze', sparse per l'Italia in un periodo delicato sul fronte politico e stragista. La prima 'compresenza' segnalata è quella del Carnevale di Venezia del 1993. I fratelli Graviano insieme al loro braccio destro Cesare Lupo e alle rispettive consorti alloggiavano in un palazzetto affittato dal loro favoreggiatore Salvatore Baiardo.
Quell'anno il Carnevale era organizzato dalla società del gruppo Fininvest 'Grandi Eventi Publitalia 80'. Il cellulare di Baiardo il 21 febbraio alle 13 e 42 fa una telefonata di un minuto e mezzo al centralino del comitato organizzatore che faceva capo alla società suddetta.
[…] La Dia però ritiene che anche Marcello Dell’Utri fosse a Venezia nei giorni in cui c'erano i Graviano perché sull'agenda dell'ex senatore in quei giorni c'è scritto ‘Venezia’ e un testimone ricorda di averlo visto. Ciò non prova comunque che, anche ove fossero stati nello stesso luogo, Marcello Dell'Utri e i Graviano si siano incontrati.
[…].Andiamo ora a Roma. La Dia nelle sue precedenti informative segnalava la presenza a Roma di un telefonino di Marcello Dell'Utri che agganciava la cella 06 in data 8 agosto mentre il giorno prima e quello seguente si trovava in Sardegna. La Dia annota che anche il cellulare di Fabio Tranchina, allora autista di Giuseppe Graviano, l'8 agosto intorno alle 12 e 30 aggancia la cella telefonica 06. Di qui probabilmente nell’informativa dello scorso anno si legge della possibile “Compresenza su Roma il giorno 08.08.1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina”. Dal 31 agosto 1993 invece il cellulare di Fabio Tranchina, fino al 5 settembre 1993, aggancia la cella 070 corrispondente alla Sardegna.
La Dia nei tabulati telefonici dei telefonini in uso a Dell'Utri trova chiamate sulla cella telefonica sarda a fine agosto e anche il 2 settembre.Sono quelli momenti decisivi perché, come ha raccontato Gianni Letta al processo Dell’Utri, a fine agosto del 1993 in Sardegna, a Villa Certosa, per la prima volta Berlusconi gli parlò della sua intenzione di scendere in politica.
Letta e Confalonieri erano contrari mentre, ha raccontato l’ex sottosegretario, Dell’Utri era favorevole.Un cellulare di Publitalia che secondo la Dia era in uso a Marcello Dell'Utri inoltre aggancia la cella di Padova-Venezia il primo ottobre e per questa ragione la Dia segnala una possibile compresenza con i Graviano. Secondo le inchieste sul loro favoreggiatore Antonino Vallone, infatti, i Graviano in quei primi giorni di ottobre erano latitanti ad Abano Terme.
Ovviamente potrebbero essere tutte coincidenze fortuite. Come anche la presenza a Roma di Marcello Dell'Utri all'hotel Majestic di via Veneto il 18 gennaio 1994. Una data vicina a quella in cui si è svolto l'incontro tra Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza a poche centinaia di metri di distanza, al Bar Doney. In quell’incontro, secondo Spatuzza, Graviano avrebbe parlato dei suoi rapporti con Berlusconi e Dell'Utri. Giuseppe Graviano è già stato condannato per le stragi in 'Continente' con gli altri boss non collabora con la giustizia e si professa innocente. Ha fatto dichiarazioni imbarazzanti per Silvio Berlusconi, mai per Dell'Utri.
L'ex senatore è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ma solo per i suoi rapporti con i mafiosi fino al 1992. Secondo l’informativa Dia del 16 marzo 2022 “tale attività investigativa permise di cristallizzare la presenza di Dell'Utri in Roma nei giorni tra il 17 e il 21 gennaio 1994, ovvero negli stessi giorni in cui vi èra la presenza di Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza per la preparazione della strage all'Olimpico con il loro incontro al Bar "Doney" di Via Veneto, in cui Graviano disse a Spatuzza·la frase 'abbiamo il paese nelle mani'”, introducendo poi i nomi di Berlusconi e Dell'Utri”. Quando però i pm di Firenze il primo aprile 2021 vanno a interrogare Giuseppe Graviano lui rimane fermo sul punto: “vi posso assicurare che io il signor Dell'Utri non lo conosco”.
Crolla la Trattativa Stato-mafia, ma la procura di Firenze riesuma un altro teorema. Per la quinta volta si tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi continentali con Berlusconi e Dell’Utri mandanti. Forse i pm hanno trovato il loro “Ciancimino”: Salvatore Baiardo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2023
Crollato miseramente il teorema della (non) Trattativa Stato-mafia, rimane in piedi ancora l’asso nella manica, quella che permette di perdere altri anni di risorse. Una carta che vede come mandanti delle stragi Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, la quale ha sempre viaggiato parallelamente alla tesi trattativa. Anche se va in antitesi con essa.
Tale tesi della procura di Firenze non ha mai dato sbocco a un rinvio a giudizio. Puntualmente archiviata per mancanza di prove. Anche l’inchiesta trattativa fu inizialmente archiviata. Nel 2004, infatti, i pm di Palermo chiesero l’archiviazione a causa della non poca confusione dei risultati probatori raggiunti. Ma poi entrò in scena Massimo Ciancimino, colui che – ricordiamo ancora una volta – poi sarà condannato per calunnia, il “papello” da lui consegnato e dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto venne riaperta nel 2008. Sarà grazie a Ciancimino jr. che le indagini furono estese nei confronti degli ex Ros e anche di Calogero Mannino. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo andò a buon segno: fu così possibile imbastire il processo trattativa.
Ebbene, dopo ben cinque tentativi, ora la procura di Firenze, per quanto riguarda la tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni, potrebbe avere il suo “Ciancimino”. Parliamo di Salvatore Baiardo, riesumato per la prima volta dalla trasmissione Report. Tra sorrisini e ammiccamenti, ha affermato di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa di Borsellino in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Qualche settimana fa, attraverso Tik Tok (sic!), ha smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver trollato i giornalisti di Report. Ma pare che abbia trollato anche l’ignaro Massimo Giletti, conduttore di Non è L’arena, facendogli mostrare da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a detta ci sarebbe ritratto Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Tutti e tre appassionatamente in un bar, a bella vista di tutti, sulle sponde del Lago d'Orta, in Piemonte. E proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla procura, che i pm fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta.
Questo procedimento giudiziario, che indaga sulle stragi continentali del 1993, è un mix tra la vecchia inchiesta “sistemi criminali” condotta dagli ex pm palermitani Ingroia e Scarpinato archiviata nel 2000, e quella dove si riesuma l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati. Primeggia la vicenda della presenza delle “donne bionde”. In sostanza, si tratta di una specie di terzo livello composto da massoni, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso – anche dopo aver vagliato la questione Gladio - l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni.
Il teorema della procura di Firenze, come detto, confligge con quello della trattativa. Basterebbe un po’ di logica, che poi è quella che ritroviamo nella sentenza d’appello sulla trattativa che ha assolto con formula piena Marcello Dell’Utri. Secondo il teorema, l’ex senatore sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al governo Berlusconi. Cosa non torna? Secondo l’altra tesi giudiziaria, invece l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. E allora che bisogno c’era di minacciare?
Così come è difficilissimo trovare una logica nella tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti. Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. «Era solo una palazzinaro!», ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e ai ripetitori televisivi in Sicilia.
Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante - stando alle emergenze sulle leghe meridionali - avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente.
Pronta ennesima inchiesta per lee stragi del '93. Foto fantasma di Baiardo mostrata a Giletti, scatta nuova caccia a Dell’Utri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Aprile 2023
L’attesa messianica è per il 27, cioè tra due giorni. Quando la Corte di cassazione dirà forse la parola definitiva sul processo “Trattativa”. E su Marcello Dell’Utri, per il quale il pg ha chiesto la conferma dell’assoluzione, già definita nella sentenza di appello. La richiesta è del 14 aprile. L’ex presidente di Publitalia avrà appena fatto in tempo quel giorno a tirare un piccolo sospiro di sollievo e aprirsi alla speranza. Ma ancora non conosceva la sorpresa del giorno dopo.
Perché, va da sé, se non hai commesso un attentato contro corpi dello Stato, almeno avrai messo delle bombe mafiose. Che importa se ti hanno già archiviato tre-quattro volte? Ecco quindi quel giorno la pubblicazione di un verbale di perquisizione fatta nella casa di Salvatore Baiardo, uno scaltro giocatore di poker mezzo mafioso, con la ricerca di una foto misteriosa e forse inesistente. E la notizia di una nuova inchiesta che ti vede ancora, e ancora e ancora, indagato per strage insieme al tuo amico Silvio Berlusconi. Dell’Utri nella presunta foto non dovrebbe neanche esserci, ma che importa? Lo iscrivono ugualmente nel registro degli indagati.
I pubblici ministeri di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli, ecco la notizia del 15 aprile, hanno chiuso il 31 dicembre 2022, a termini scaduti, la quarta inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri come mandanti delle bombe del 1993. Con una richiesta di archiviazione, si suppone, come le tre precedenti, dopo esser andati a caccia di fantasmi. Ma pronti ad aprire la quinta, secondo quanto riportato dall’house organ delle procure. Quella che porta le impronte digitali del conduttore tv Massimo Giletti e del suo ospite fisso Baiardo e di una fotografia di cui non si sa se esista, né dove sia né da chi sia stata scattata né quando né che vi sia ritratto, perché è piccola e buia. Il pataccaro amico dei boss di Cosa Nostra Filippo e Giuseppe Graviano dice che uno dei protagonisti, ripreso insieme a uno dei due fratelli, sarebbe Berlusconi, e l’altro il generale dei carabinieri Francesco Delfino, deceduto nel 2014, quindi inservibile come testimone.
Ecco la “notitia criminis”, quella che avrebbe fatto aprire la quinta inchiesta sulle stragi. Bravo Giletti, hai fatto il tuo dovere di cittadino. E cattivi (complici?) quelli che ti hanno tolto la trasmissione. Perché tutto sarebbe partito da lì, dalle deposizioni, ormai tre, dell’ex conduttore di “Non è l’Arena” ai pm di Firenze, i due Luca, di cui non si riesce più a capire dove finisca l’ingenuità e dove cominci l’ossessione. Perché di Salvatore Baiardo è appurata anche in diverse sedi giudiziarie la totale inattendibilità. Bravo giocatore di poker, indubbiamente, capace di alludere e sfottere. E anche di illudere il giornalista vanesio di aver pronto, nelle mani tenute dietro la schiena come per fare la sorpresa al bambino, lo scoop del secolo. Del resto, non era stato questo mezzo mafioso a “prevedere” l’imminente arresto di Matteo Messina Denaro?
Anche in quel caso alludendo sapientemente a una possibile “trattativa” tra Stato (procura di Palermo?) e mafia? E non è sempre lui a gettare ombre sugli arresti di Riina e Provenzano, e sui pentiti Spatuzza e Balduccio Di Maggio? Nell’attesa di capire se anche i due Luca di Firenze, come già tanti loro colleghi, in particolare di Sicilia, ma ultimamente anche di Calabria con il processo “ ’Ndrangheta stragista”, intendano farsi storiografi, al centro della scena è ormai Massimo Giletti. Che ha rubato i riflettori al gelataio di Omegna. E’ stato lui a coprirsi le spalle (con i mafiosi non si scherza), andando dai magistrati di Firenze, proprio nei giorni in cui si stava chiudendo con un nulla di fatto la quarta indagine sui mandanti delle stragi del 1993. La scadenza dell’inchiesta era fissata in modo inderogabile per la fine dell’anno.
Giletti si è presentato in procura il 19 dicembre 2022, e poi il 23 febbraio 2023. Ha raccontato la storia della foto, una foto che “ove esistente”, riporta Marco Lillo sul Fatto riferendo le parole dei magistrati, potrebbe essere “la prova dei rapporti tra il boss Graviano e Berlusconi prima dell’arresto di quest’ultimo”. L’arresto di Berlusconi? La gaffe esprime il sogno dei pm o del giornalista? Ma non c’è solo quella vecchia polaroid, nel racconto di Giletti. Si parla anche del processo “Trattativa”. Si, sempre quello, l’incubo di tutti i professionisti dell’antimafia. Perché Baiardo avrebbe detto al conduttore di La7 di avere un documento fondamentale. Che, come accade nei film gialli, si sarebbe poi dovuto distruggere. Naturalmente anche questo foglio, così come la foto, non c’è. Ma i due Luca ritengono Giletti sincero, e sicuramente lo è.
Lo sentono due volte, poi decidono di far perquisire la casa di Baiardo, ma solo dopo aver video-ripreso e intercettato il conduttore tv mentre parla della foto con Baiardo. E’ la prova della sua attendibilità. Quindi emettono il famoso decreto di perquisizione, firmato da un gip il 23 marzo, pubblicato dal Fatto il 15 aprile, due giorni dopo la sospensione della trasmissione di Giletti e il giorno successivo le richieste del pg della cassazione al processo “Trattativa”, in cui viene richiesta di nuovo l’assoluzione di Dell’Utri “perché il fatto non sussiste”. Ovviamente la foto non c’è, e neanche il documento fondamentale sulla “trattativa”. Forse sarà stato già bruciato, magari insieme alla polaroid. Si arriva così al terzo interrogatorio di Giletti. I magistrati vogliono sapere perché l’editore Cairo gli abbia sospeso la trasmissione, forse gli suggeriscono di non partecipare alla maratona di Mentana, che infatti viene sospesa.
E lui, all’uscita dalla procura, con sapiente regia lancia una frase così ambigua che pare scritta da Salvatore Baiardo: “Ci sono vicende che non si possono risolvere all’interno di uno studio televisivo, vanno affrontate nei luoghi deputati, cioè gli uffici di un’azienda, altrimenti si rischia di finire in un’aula di tribunale”. Probabile che parli semplicemente del proprio contratto aziendale, che scade alla fine di giugno, e che il “tribunale” sia un’aula di processo civile, non penale. Ma ha imparato anche a lui a dire e non dire, alludere e lasciar intendere, proprio come il suo ospite fisso Baiardo. Così tutti ritengono stia parlando di mafia e non di “piccioli”, o del proprio vincolo di riservatezza rispetto all’azienda. Prodigi della comunicazione! In attesa del 27 e della sentenza sulla “trattativa”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
«Incontrai Berlusconi a Milano 3». I pm trovano la casa del boss. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 05 maggio 2023
I magistrati antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine del complesso realizzato dall’ex premier.
Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord.
Un appartamento sospetto corrisponde alla descrizione fatta da Graviano: al tempo era in uso a un mafioso.
Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord. Ed è tra queste palazzine, immerse nel verde, realizzate tra il 1980 e il 1991, che è ambientato l’ultimo grande mistero delle stragi di mafia del 1993: l’incontro presunto tra il boss stragista Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, raccontato per la prima volta dal mafioso durante un’udienza del processo sulla presunta ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui era imputato proprio Graviano.
Le stragi di 30 anni fa sono iniziate il 14 maggio con l’attentato a Maurizio Costanzo e sono proseguite fino al gennaio successivo con la bomba inesplosa allo stadio Olimpico: nel mezzo i morti di Firenze di via Georgofili e le bombe a Milano e Roma. Sugli esecutori ci sono ormai pochi dubbi, i mafiosi di cosa nostra, tra loro Giuseppe Graviano. La procura di Firenze, però, oggi punta a individuare i mandanti occulti del tritolo piazzato per colpire il patrimonio artistico italiano.
I pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano da alcuni anni sul livello politico del terrorismo mafioso e hanno iscritto nel registro degli indagati Berlusconi e Marcello Dell’Utri. La direzione investigativa antimafia di Firenze ha prodotto diverse informative ricche di informazioni e riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e soprattutto del boss mai pentito Graviano, il quale gioca su più tavoli e, pur mostrando chiusura a qualunque tipo di collaborazione, ha parlato in alcune occasioni del suo rapporto privilegiato con Berlusconi tra gli anni Ottanta e Novanta, a cavallo delle stragi del ‘93.
È stato lui a riferire dell’incontro con il Cavaliere in un appartamento di Milano 3. Se il randez vous fosse provato, confermerebbe i sospetti di un patto tra il fondatore di Forza Italia e la mafia palermitana. I legali di Berlusconi hanno bollato queste ricostruzioni come fantasiose e infamanti, e si dicono pronti a difendere l’onore del loro assistito nelle sedi opportune.
L’APPARTAMENTO SEGRETO
Per riscontrare le parole di Graviano il primo passo compiuto dai detective – scopre ora Domani – è stato quello di setacciare il complesso residenziale di Milano 3, un elemento che emerge dagli atti depositati. Seguendo la descrizione molto generica del padrino di mafia.
L’appartamento era «ubicato a Milano 3»; «era un appartamento piccolo, forse un paio di stanze, sito al primo o secondo piano di una palazzina servita da ascensore»; «dalla finestra sul retro si vedeva una caserma dei carabinieri»; «la strada di fronte a tale palazzina si attraversava tramite un ponticello (ve ne era più d'uno su tale strada) che conduceva a uno spazio antistante una piscina e più avanti vi era un albergo e un centro commerciale».
Sulla base di queste indicazioni gli investigatori scrivono: «Gli elementi fattuali e documentali che hanno condotto, fra i numerosi edifici analoghi costituenti il Comprensorio Milano 3 di Basiglio, ad individuare nella residenza Alberata lo stabile, verosimilmente l’appartamento 223, quello indicato da Giuseppe Graviano». Nell’informativa, si legge: «Partendo dall'imprescindibile elemento fornito dal dichiarante (Graviano, ndr) che dall'appartamento fosse visibile la locale ed unica stazione dei carabinieri lo stabile di interesse è stato agevolmente individuato nell'edificio A della residenza Alberata».
La sorpresa per procura e investigatori arriva dall’analisi dei proprietari e dei locatari a partire dagli anni in cui Graviano sostiene di aver incontrato Berlusconi nell’appartamento di Milano 3. L’interno 223, scala 2 e piano secondo, era di proprietà di tale Corrado Cappellani di cui non c’è traccia sul web. Ma soprattutto scoprono che all’epoca era stato affittato a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012. Fiore è lo zio paterno di un mammasantissima di Cosa nostra.
O meglio è lo zio di Antonino Mangano, ritenuto il successore dei Graviano dopo il loro arresto. Una coincidenza degna di nota. La domanda cui ora stanno cercando di dare una risposta in procura a Firenze è se poteva essere Mangano la persona cui si riferiva Gravano senza mai nominarlo, definendolo “Lui”, durante un dialogo in carcere, intercettato.
CASA E FOTO
Nelle stesse intercettazioni il boss riferiva, inoltre, di aver utilizzato un prestanome per creare una copertura sull’immobile milanese, usato per gli incontri «necessari per mantenere i patti». Quali patti con Berlusconi? Graviano non lo dice: per i pm si tratta delle stragi ma anche dei miliardi, questo sì confermato dal boss, che il nonno aveva affidato al Cavaliere. Ad accompagnare Graviano anche a questi incontri c’era Salvatore Baiardo, l’uomo diventato celebre per avere predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023
La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.
È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.
Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.
Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.
Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.
La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.
In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.
Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.
La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.
La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.
Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.
Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.
“La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”
“È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.
Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.
È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.
La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.
La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.
La sconfitta non esiste...Fatto Quotidiano come i soldati giapponesi, Travaglio pubblica accuse ‘non dimostrate’ sulla Trattativa mai esistita. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 6 Maggio 2023
Come i soldati giapponesi che, finita la seconda guerra mondiale, rimasero nascosti sulle isole delle Filippine in attesa di ricevere ordini per sferrare l’offensiva contro l’esercito americano, al Fatto Quotidiano, nonostante la Cassazione abbia detto che la trattativa Stato-mafia non è mai esista, sono sempre pronti a raccogliere le testimonianze di qualcuno che affermi il contrario, e che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri abbiano avuto un ruolo di ‘mandanti’ delle stragi di mafia del 1993-94.
Per proseguire tale narrazione, ovviamente, si ricorre come nelle migliori tradizioni alla classica fuga di notizie. Ieri, infatti, il quotidiano di Marco Travaglio ha tirato fuori dal cassetto una inedita informativa della Direzione nazionale antimafia (Dia) del 16 marzo del 2022. Nell’informativa, mai depositata alle difese di Berlusconi, si descrivono le attività d’indagine svolte sui telefoni dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio, arrestati nel 1994 e da allora in carcere al regime del 41 bis. I cellulari dei Graviano, in particolare, nel 1993 avrebbero agganciato diverse volte le stesse celle telefoniche di quelli in uso a Dell’Utri e Berlusconi. Tale coincidenza sarebbero la prova, dunque, dell’avvenuto incontro fra loro anche se Dell’Utri e Berlusconi hanno sempre smentito rapporti con i due boss.
Nell’informativa, poi, si evidenzia la circostanza che quando i Graviano ordivano il loro piano stragista, Berlusconi si preparava a scendere in campo. La nota, firmata dal primo dirigente della Polizia di Stato Francesco Nannucci, era stata trasmessa al procuratore facente funzione di Firenze Luca Turco e all’aggiunto Luca Tescaroli. Quest’ultimo è noto perché da giovane magistrato in servizio alla Procura di Caltanissetta negli anni ‘90 indagava sulle medesime vicende per poi giungere invariabilmente all’archiviazione.
Un canovaccio che si ripete dunque con gli stessi protagonisti e con le stesse vittime, cui non viene concesso neppure il diritto di essere imputate in un regolare processo per potere poi, seppur a distanza di qualche decennio, sostenere di essere innocenti. Di ciò sembrano essere in qualche misura consapevoli anche al Fatto Quotidiano in quanto, senza timore evidentemente di scadere nel ridicolo, alla fine del pezzo scrivono: “Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate”.
Sicché ci si chiede come possa Nannucci, dal 2019 capo centro della Dia dopo essere stato per oltre 15 anni capo della Squadra mobile di Prato, mettere nero su bianco accuse simili sebbene “non dimostrate”, e quale interesse ad una corretta e veritiera informazione possano avere un giornalista e un quotidiano a pubblicare accuse da loro stessi ritenute “non dimostrate”, se non orientare politicamente il lettore contro l’avversario di turno. Sarebbe quindi il caso che la Procura di Firenze, in attesa che il Csm decida finalmente di nominare il nuovo procuratore, si dedicasse con lo stesso impegno e zelo a perseguire reati conclamati quale quello segnalato dalla giudice Sara Farini, anziché ingolfare la macchina della giustizia con indagini che tutti sanno che porteranno a nulla, se non all’ennesima archiviazione, come ci ha abituato Tescaroli da quasi un trentennio.
Si dà il caso, infatti, che in una recente audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato, per la precisione il 2 febbraio scorso, Turco nulla aveva risposto alla senatrice Erika Stefani (Lega) che gli chiedeva conto dell’indagine sulla ormai famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019 quando il Corriere, Repubblica e il Messaggero con articoli fotocopia avevano pubblicato le intercettazioni allora in corso a Perugia sull’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, determinando le dimissioni di ben cinque consiglieri del Consiglio superiore della magistratura.
La giudice del tribunale di Firenze Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi di oltre due anni fa, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, aveva testualmente affermato che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza – non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante (Palamara, ndr) e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela – della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo”.
“Appare dunque configurabile – aveva aggiunto la giudice – la fattispecie di cui all’art. 326 c.p. (rivelazione del segreto d’ufficio, ndr): vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”. E a proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella per- sona di Turco, la medesima dottoressa Farini non aveva mancato di precisare che “ad oggi non risulta- no infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono esse- re venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”.
Tornando comunque alla fuga di notizie da parte del Fatto Quotidiano, l’avvocato romano Giorgio Perroni, difensore di Berlusconi a Firenze, ha depositato ieri una denuncia alla Procura di Firenze.
Paolo Pandolfini
Estratto dell’articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 9 maggio 2023.
La Procura di Firenze ha interrogato Giuseppe Graviano in cella in due occasioni il 20 novembre 2020 e il 1º aprile del 2021 nell’ambito dell’indagine poi chiusa e riaperta a fine 2022 su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi del 1993.
In entrambi i casi il pm Luca Tescaroli ha chiesto al boss dei suoi rapporti con Dell’utri partendo da due conversazioni in cella del 1998 e 1999 con la sorella Nunzia in cui, per la Dia, parlerebbe proprio dell'ex senatore cercando di portare, tramite l'avvocato Fragalà, messaggi all’esterno verso vari soggetti tra cui, appunto, un ‘Marcello’ che sarebbe Dell’utri .
Ovviamente l’intento, anche se fosse stato nella mente di Graviano, non è detto si sia realizzato e non è riscontrato. Peraltro negli interrogatori ha negato questa interpretazione e ha negato soprattutto di conoscere Dell’utri. La Dia e i pm di Firenze però non mollano e nell’informativa del 16 marzo 2022 elencano una serie di elementi che sembrano andare in senso inverso.
ALLORA, fatte le solite premesse (Dell’utri, come Berlusconi, è stato indagato già in passato per le stragi del 1993 a Milano e Firenze e per gli attentati di Roma – per i quali è stato condannato Gravian – e più volte il procedimento sui “mandanti esterni” è stato archiviato; parliamo di spunti investigativi che per ora non hanno portato nemmeno a un avviso chiusura indagine ma che sono di interesse pubblico perché rivitalizzati dalla Dia e messi in relazione con atti e fatti più recenti) passiamo a riportare quel che scrive il capocentro Dia di Firenze Francesco Nannucci: “Altri elementi di connessione tra Giuseppe Graviano e Marcello Dell’utri vennero desunti anche dall’esito delle indagini condotte dal centro operativo Dia di Palermo nell’ambito dell’operazione ‘Lince’ (procedimento¸penale n. 1519/08-21 DDA) in particolare; vennero intercettati, rispettivamente in data 24 giugno 1998 e 24 marzo 1999, due colloqui presso il carcere di Spoleto tra il detenuto Giuseppe Graviano e i suoi familiari ai quali il predetto esprimeva la necessità di riportare all’esterno della struttura carceraria suoi messaggi da recapitare a terzi tramite l’avvocato Fragalà.
Tra i destinatari dei messaggi, nel primo colloquio, – prosegue la Dia – faceva riferimento più volte a tale ‘Marcello’, mentre nel secondo colloquio cita il cognome ‘Dell’utri’ e la necessità di reperire l’indirizzo del citato avvocato”.
La Dia evidentemente fa riferimento a Enzo Fragalà, parlamentare di An dal 1994 al 2006, professore e avvocato di aggredito da un manipolo di mafiosi di Palermo il 23 febbraio del 2010, a bastonate all'uscita dal suo studio. Dopo tre giorni di coma, morto.
I mafiosi, secondo i collaboratori di giustizia, volevano punirlo perché negli ultimi tempi sarebbe diventato troppo ‘sbirro’, cioé troppo incline a far parlare i suoi assistiti con i magistrati. Quindi Fragalà è una vittima di mafia.
La Dia sostanzialmente scrive che nel 1998, quando Fragalà era parlamentare An e Dell'utri senatore Fi, Graviano parla alla sorella Nunzia dell’avvocato pensando di far portare un messaggio a Marcello. La Dia richiama indagini del 2013 e scrive: “In considerazione degli accertamenti (...) gli investigatori identificarono il citato ‘Marcello’ proprio in Marcello Dell'utri”.
[…] La Dia riporta un estratto dell’intercettazione che effettivamente è di per sé poco comprensibile. Secondo la Dia oltre a Fragalà Graviano cita anche un secondo avvocato, Zito. La Dia evidenzia i punti salienti della conversazione, in particolare le parole Sismi e “barba”, accompagnata da gesti che farebbero riferimento al rischio che ci siano microspie in giro in grado di intercettare il discorso che lui vuol portare fuori dalla cella.
[…] Difficile davvero dare un senso al discorso di Graviano tra barbe, SISMI, avvocati e messaggi. Infatti la Dia prosegue spiegando che i pm andavano “a sentire Graviano rispettivamente in data 20.11.2020 e 1.4.2021”. Graviano nella prima audizione chiede di sentire l’audio. Nella seconda, quando gli dicono che non c’è più, dice che “la trascrizione non è esatta”. Alle domande del pm Tescaroli su chi fosse “barba” risponde: “ho conosciuto l'avvocato Zito e l’avvocato Fragalà come avvocati di processi, mentre non ho mai utilizzato il nomignolo barba per indicare una qualche persona, o per lo meno non ricordo”.
P.M. Tescaroli: “Se ha menzionato Marcello, no? Come risulta, a chi si riferiva? Chi è questo Marcello”?
Graviano: “Può essere anche Marcello Tutino. Vi assicuro che se ...”
P.M. Tescaroli: “Marcello”? Graviano: “Tutino o qualche altro Marcello che conoscevamo ... però vi posso assicurare che io il signor Dell’utri non lo conosco. Ve lo ripeto ancora”.
La Dia non crede molto a queste parole. Graviano dice che quel Marcello poteva essere un suo uomo di secondo livello come Marcello Tutino ma effettivamente quel soggetto poco c'entrerebbe nel discorso fatto dal boss alla sorella Nunzia su “SISMI”, avvocati e sul misterioso “barba”.
Nell’informativa la Dia, dopo aver riportato le risposte di Graviano su Dell’utri, chiosa richiamando un collaboratore che dice cose ben diverse:“al fine di dirimere ogni dubbio, si riportano di seguito gli esiti degli interrogatori del collaboratore Gaspare Spatuzza i quali forniscono una chiave di lettura oggettiva e lineare in merito al possibile coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri in ordine al fallito attentato all'olimpico di Roma il 23 gennaio 1994”. Seguono le dichiarazioni di Spatuzza e le parole dette da Graviano in cella nel 2016 sulla “bella cosa” che a suo dire gli sarebbe stata chiesta da un “lui” che negli interrogatori sostiene essere Berlusconi.
POI LA DIA riporta la versione di Graviano sulla “bella cosa” (nulla a che fare con bombe ma solo un riferimento a investimenti immobiliari) e dopo aver spiegato perché non crede a questa versione minimal scrive: “In conclusione, si può quindi affermare che la conversazione ambientale del 10.4.2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine, è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’olimpico del 23.1.1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”. Una linea interpretativa tutta da dimostrare che al momento non ha trovato riscontri e non è escluso che l’indagine contro Berlusconi e Dell'utri sia archiviata come già in passato su richiesta dei pm.
Marcello Dell’Utri è un numero uno della politica e della cultura italiana (e se ne fotte di Massimo Giletti). L’ex ad di Publitalia ed ex parlamentare di Forza Italia ha ben altro da fare che pensare alle accuse del trombato Massimo Giletti e del noiosissimo Peter Gomez. Legge, viaggia, si gode i figli e la “sua” Milano2. Stefano Bini su Notizie.it il 9 Maggio 2023
Marcello Dell’Utri è definitivamente un uomo libero, criticabile come chiunque persona al mondo ma a questo punto esonerato per sempre da ogni accusa giuridica e morale. Anche perché di moralità Marcello Dell’Utri ne ha da vendere: la vecchia guardia di Publitalia lo ricorda con sincero affetto per quanto ha insegnato “ai fu giovani pionieri” della concessionaria, quando tutto era da costruire e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Da Silvio Berlusconi ai figli, da Publitalia a Mediaset, da Fininvest al Milan, fino a Forza Italia, tanti devono dire grazie a Marcello Dell’Utri, non solo per l’esperienza, l’umiltà, la cultura e la diligenza che è riuscito a trasmettere a centinaia di persone ma per l’approccio umano, che riusciva e riesce a conquistare tutti. Dell’Utri è un uomo di una cultura immensa, che ama alla follia moglie e figli, non ha mai smesso di leggere libri di letteratura e saggi, di guardarsi intorno alla ricerca di giovani da sostenere e promuovere nelle sue attuali attività culturali. Sorriso bonario, spirito giovane ed entusiasmo fanno il resto.
Dopo decenni, sarebbe il momento di mettere la parola “fine” alle accuse ingiuriose e infamanti nei confronti di un uomo che, a questo punto ingiustamente, ha fatto anni di carcere tra Parma e Rebibbia a Roma, passato momenti di depressione, lontano dalla famiglia e con un tumore; ora è un uomo libero e può fare ciò che vuole, come ogni essere umano cosciente. Il peso di queste situazioni è stato fortissimo eppure non si è lasciato mai scalfire, né dagli attacchi televisive finanche quelli mediatici, provenienti soprattutto da Repubblica e dal Fatto Quotidiano, i quali ormai hanno la credibilità dei pupazzi Uan e Four.
Massimo Giletti accusa e Peter Gomez attacca, una storia ripetuta migliaia di volte che ormai non ha più appeal. Attaccare Marcello Dell’Utri, come Silvio Berlusconi, è diventato di una noia e banalità pazzesche. Secondo i suddetti giornalisti, Dell’Utri sarebbe intervenuto per far cacciare Massimo Giletti da La7; addirittura si sono spinti a dire che in televisione l’ex senatore è un tabù e i programmi che ne parlano spariscono. Situazioni incomprensibili, che talvolta fanno ben capire il livello intellettuale e professionale di certe persone.
Marcello Dell’Utri, che si parli o meno di lui, rimane un esperto di politica, management e cultura, punto di riferimento di milioni d’italiani che da una parte lo hanno conosciuto e dall’altra ammirato nelle varie attività svolte in cinquant’anni di carriera. Chi ha avuto modo di starne a contatto sa bene che non si sporcherebbe mai le mani per avvenimenti o persone che non meritano la minima attenzione.
In questi giorni, giornali e giornalisti, blog e blogger, giornalai e amanti del ciarpame mediatico hanno straparlato; di contro, Marcello Dell’Utri non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Questione d’intelligenza, stile e superiorità morale.
Gli occhiuti storiografi giudiziari. La foto del mafioso con Berlusconi che non c’è e la nuova storia sull’arresto di Totò Riina: gli ‘scoop’ di Domani e Fatto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2023
La foto “prova regina” del legame tra Silvio Berlusconi e la mafia non si trova. Ovviamente. Ma potrebbe sbucar fuori una casa. Vuoi che un ricco imprenditore brianzolo non abbia nemmeno uno straccio di villa sul Lago Maggiore? Magari a due passi da quella a Meina del generale Francesco Delfino, colui che nella fantasia dei mafiologi professionisti sta prendendo il posto di Mario Mori.
E, se non proprio a due passi, magari a trenta-quaranta chilometri, da quei luoghi del lago d’Orta e vicinanze, Omegna e Borgomanero, dove nei primi anni novanta trovarono rifugio i latitanti fratelli Graviano e quel Balduccio Di Maggio, l’autista che ha fatto arrestare il suo capo, Totò Riina. Tutti in fuga dal nemico Giovanni Brusca. Ogni notizia, ormai lo sappiamo, è quella che “riscrive la storia”. Non quella del Risorgimento o della grande guerra o della seconda e del fascismo e la resistenza e l’arrivo degli americani. E neanche quella della ritrovata democrazia e la nostra bella Costituzione e poi la ricostruzione.
Niente di tutto ciò. La storia da riscrivere, in cui sono impegnati sempre i soliti, che poi sono un pugno di penne e di toghe, è una e una sola, quella delle stragi di mafia. Un mondo e una storia che ormai esistono non solo in sentenze che credevamo definitive, ma soprattutto in qualche atto giudiziario di passaggio e negli occhi stanchi di chi passa troppo tempo a spulciarli dopo il consueto dono delle mani amiche. Così i primi anni Novanta, fino al 1994 quando è entrato in scena Silvio Berlusconi, vengono letti e riletti, e aggiustati e maneggiati e rivoltati, per arrivare sempre alla medesima conclusione. Chi ha messo le bombe nelle mani di quel contadino analfabeta di Totò Riina? E perché? E ogni volta, a ogni nuova “notizia”, che in genere notizia non è, come l’ultima sulla foto con il generale Delfino e il mafioso Graviano, si squarcia un velo. Ma gli articoli sono tutti uguali.
Anche se c’è una novità nel panorama della comunicazione. La Repubblica, il quotidiano che fu capostipite nella campagna politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, contro il suo ingresso in politica, con l’occhio attento delle dieci domande sulla sua vita personale, è ormai tagliata fuori. I nuovi esecutori dell’ O di Giotto con cui l’allievo superò il maestro Cimabue, sono gli storiografi giudiziari di Domani e del Fatto. Che si accapigliano e si scopiazzano senza pudore. Dopo lo scoop della foto su Berlusconi che non c’è, e che ha creato quel parapiglia nella redazione di La 7 su cui ci illuminerà Enrico Mentana domenica sera, è ora la volta di squarciare anche l’oscurità dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, due ore prima dell’arrivo a Palermo del nuovo procuratore Giancarlo Caselli.
La spiata era arrivata dal “traditore” Balduccio Di Maggio, che del boss dei corleonesi era stato l’autista. Quello che noi boccaloni credevamo fosse stato fermato pochi giorni prima, l’8 gennaio. Pare invece che il “traditore” e “pentito” fosse nelle mani della giustizia già da qualche giorno, da prima del capodanno 1992. Nelle mani di chi? Domanda ingenua. Del generale Delfino.
Delfino chi? Ma quello della foto con Berlusconi e Graviano no? E dove? Ma sul lago D’Orta, ovvio. E qui il cerchio si chiude, perché Di Maggio viene arrestato a Borgomanero, luogo a quindici chilometri da Omegna dove il gelataio Baiardo, quello che ha fatto fuori Giletti da La 7, ospitava i fratelli mafiosi Graviano, uno dei quali, Giuseppe, sarebbe il protagonista della famosa foto. Inoltre, guarda caso, il generale Delfino aveva una villa a Meina, cittadina che non c’entra niente con gli altri due luoghi, perché è sulla punta sud del lago Maggiore.
Però agli occhiuti storiografi giudiziari non può sfuggire il fatto che tutto sommato stiamo parlando di soli trenta chilometri di distanza. Poi, se vogliamo proprio dirla tutta, quanti laghi ci sono tra Lombardia e Piemonte? Lasciamo stare il Garda che è più sopra, ma non vogliamo vedere se non c’è stato qualche mafioso nascosto in quegli anni per esempio sul lago di Varese? L’onore dello scoop andrebbe al Fatto del 17 aprile, se il giorno dopo, il 18, Domani non avesse schierato la corazzata Attilio Bolzoni, che come il suo collega Giuseppe Pipitone conosce a spanne la geografia del nord d’Italia, ma viene dalla scuola di Repubblica, quindi ci mette il carico di chi conosce la storia dall’inizio.
Sentite: “In un angolo d’Italia lontano da Palermo è accaduto qualcosa che può ribaltare la scena intorno alla cattura di Totò Riina, che poi è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che si incastra tutto: mafia, stato, stragi, depistaggi, patti. Oggi possiamo avere una visione meno incompleta sulle uccisioni di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, sulle bombe di Firenze”. Manca solo una villa di Silvio Berlusconi sul Lago Maggiore, possibilmente con dépendance affittata all’amico Marcello Dell’Utri.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La trattativa bis. Ndrangheta stragista, il processo che apre la caccia a Berlusconi tra date chirurgiche e pentiti premiati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Marzo 2023
Dici Filippone ma intendi Berlusconi, nomini Graviano ma pensi a Dell’Utri. È così che sabato scorso a Reggio Calabria i giudici della Corte d’assise d’appello hanno confermato la condanna all’ergastolo a un esponente della ‘ndrangheta calabrese e uno della mafia siciliana, come mandanti-complici dell’omicidio di due carabinieri nel 1994. Una “strage di Stato”, o “strage continentale”, inquadrate come prolungamento delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze.
Il processo, di cui nessun quotidiano nazionale tranne Il Fatto si occupa, si chiama “ndrangheta stragista” ed è una bella costruzione a tavolino di una sorta di Trattativa-due, utile a servire su un piatto d’argento alla procura di Firenze che indaga sulle bombe del 1993, il nome di un terzo livello politico come mandante delle stragi. Se non di quelle di via Capaci e via D’Amelio, almeno di quelle, di natura ben diversa, che presero di mira luoghi d’arte e persone presenti per caso proprio dove esplodevano le bombe. Il succo di questa storia è nelle parole del rappresentante dell’accusa, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, e in quelle fotocopia delle motivazioni alla sentenza di primo grado. Il rappresentante dell’accusa non ha certo peli sulla lingua quando lancia il suo progetto per il futuro e dice esplicitamente che i due condannati come mandanti, il mafioso Giuseppe Graviano e l’uomo della ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone “costituiscono soltanto un primo approdo”, in attesa di poter mandare a processo qualcuno di ben più elevato, nella gerarchia delle responsabilità, cioè “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre” .
Queste parole sono state pronunciate nell’aula della corte d’assise d’appello da un soggetto in toga, parte di grande rilevanza nella dialettica processuale, quella dell’accusa. E nessuno pare stupirsi -del resto lo hanno fatto anche i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado- di questo passaggio dalle toghe alla storiografia politica. Lasciamo parlare l’alto magistrato. Si parte dal 1993, il suo autunno con le elezioni amministrative, vinte in gran parte da rappresentanti della sinistra. L’anno “in cui -dice Lombardo- in Italia dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da Presidente del consiglio. È un momento storico decisivo per le sorti di una Nazione che sta vivendo una stagione difficilissima, iniziata in epoca ben antecedente rispetto alla caduta dei blocchi contrapposti nell’autunno del 1989. Quello è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani Pulite, gestita dalla Procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia cristiana e del Partito socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto che ovviamente in quel momento parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia…”.
Così “Occhetto non si è più ripreso da quella mazzata tant’è vero che ha smesso di fare politica. Erano le elezioni della primavera del 1994 e, visto che sono fatti storici, siamo al primo governo Berlusconi”. Ora sarà bene ricordare che queste parole non sono state pronunciate in un processo in cui l’imputato fosse il leader di Forza Italia e la parte civile Achille Occhetto. Un processo politico sulla storia degli anni novanta in Italia. Qui siamo in piena Calabria dove, il 18 gennaio 1994, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. I due esecutori di quel delitto di trent’anni fa, due malavitosi locali, sono stati da tempo processati e condannati. Ma sarà la Dda di Reggio Calabria presieduta da Federico Cafiero de Raho, oggi deputato del Movimento cinque stelle dopo esser stato il capo dell’Antimafia nazionale, a rimescolare le carte su quel delitto. E su quella data, soprattutto. Diciotto febbraio 1994, un mese prima di quel 28 marzo che segnerà la vittoria di Silvio Berlusconi, la sconfitta della sinistra di Occhetto e la fine della prima repubblica.
Dopo la relazione della Dda partono intercettazioni a raffica e gare di collaborazioni di “pentiti” più o meno improvvisati. Quel delitto, e insieme altri due attentati ai carabinieri senza vittime, fanno improvvisamente parte della “strategia stragista”, quella di Cosa Nostra e della Trattativa-uno, che passa dalle bombe del 1993 e arriva, deve arrivare, fino alla nascita di Forza Italia e la vittoria elettorale di Berlusconi. Per questo è importante quella data. Perché attribuisce un connotato e finalità politiche a quanto accaduto dal delitto Falcone fino alla vittoria di Berlusconi. Con una specie di Trattativa infinita. Ecco dunque perché occorre spiegare l’inserimento della ‘ndrangheta nella strategia dei corleonesi. Per arrivare al 1994. Nasce la formula “strage continentale”, detta anche dai “pentiti” “strage di Stato”.
È così che un fatto, sicuramente tragico, ma di piccolo cabotaggio locale, assume una grande rilevanza nazionale, politica e storica, tanto che siamo ancora qui a parlarne e scriverne trent’anni dopo. Pentiti incoraggiati e premiati un tanto al pezzo raccontano di quando, subito dopo il rapimento di Aldo Moro, anno 1978, sono stati visti in un agrumeto calabrese Silvio Berlusconi e Bettino Craxi a colloquio con gli uomini di Piromalli, o forse con lui stesso. E poi, il famoso incontro nel resort Saionara di Nicotera in cui la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese avrebbero messo a punto la comune strategia stragista “continentale”. Quell’accordo in verità non è mai esistito, e lo dice anche la sentenza “Tirreno” del 2004. Del resto il pilastro della tesi su cui si è costruito il processo “’ndrangheta stragista” è la testimonianza di uno dei “pentiti” calabresi più screditati, Franco Pino.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il tesoro del Cavaliere. La lente dell’Antimafia su 70 miliardi di lire. Lirio Abbate su La Repubblica il 16 Marzo 2023
Una nuova consulenza della procura di Firenze che indaga sulle stragi del 1993 ricostruisce i movimenti di capitali ignoti arrivati a Berlusconi per lanciare le sue aziende tra gli anni ’70 e ’80. Le donazioni a Dell’Utri
Un nuovo documento giudiziario riapre lo scenario sull’origine dell’impero di Silvio Berlusconi. Una consulenza tecnica adesso al vaglio dei magistrati antimafia di Firenze che vogliono capire se c’è un nesso tra le somme ancora oscure arrivate nelle casse di Fininvest e i boss di Cosa nostra. Un documento che si inserisce nell’inchiesta sulle stragi del 1993 ancora aperta sui mandanti e che fa emergere "innesti finanziari" ancora opachi "nelle società che hanno dato vita al gruppo Fininvest".
"Repubblica" contro il Cav. L'ira della figlia Marina. La presidente Fininvest: "Calunnie senza fondamento, è uno sciacallaggio politico". Luca Fazzo il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.
«Calunnie senza fondamento» utilizzate per «operazioni di puro sciacallaggio politico». Marina Berlusconi non usa giri di parole per replicare all'ultima puntata delle «rivelazioni» sul lato oscuro della storia della Fininvest. Da due giorni, Repubblica è tornata a sollevare il tema dei finanziamenti che negli anni Settanta diedero vita al gruppo del Biscione, e dei rapporti tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Due temi uniti, secondo il racconto del quotidiano, da un fattore comune: i contatti con Cosa Nostra, per i quali Dell'Utri è stato processato e condannato. I soldi versati nel corso degli anni da Berlusconi a Dell'Utri non sarebbero aiuti amicali ma la conseguenza di un ricatto. Soldi in cambio del silenzio. Il materiale utilizzato dal giornale romano è nelle mani della Procura di Firenze, che indaga su Berlusconi e Dell'Utri nella nuova inchiesta sulle stragi di mafia. É una indagine che si trascina da anni, con i pm Luca Tescaroli e Luca Turco che scavano sugli stessi argomenti sui quali altri loro colleghi hanno indagato per anni senza risultati. «Inchieste che alla fine - dice Marina Berlusconi - si sono concluse con l'unico risultato possibile: nei conti Fininvest non sono mai entrati una lira o un euro dall'esterno». Gli atti utilizzati da Repubblica sono una consulenza richiesta dai pm fiorentini e una relazione di servizio del centro locale della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Materiale, soprattutto quest'ultima, che i difensori dei due indagati sostengono essere coperto totalmente da segreto istruttorio, non essendo mai stato depositato. Ma le fughe di notizie nelle tante inchieste sul Cavaliere non sono certo iniziate ora. Più interessante è analizzare nei dettagli quanto di realmente nuovo vi sia nei documenti commissionati dalla Procura di Firenze. Nella relazione dei periti contabili si afferma che alla fine degli anni Settanta alcune società della galassia Fininvest avrebbero aumentato il loro capitale con qualche decina di miliardi di lire di cui i periti non hanno identificato l'origine. Si parlerebbe di operazioni «non meglio precisabili sotto il profilo quantitativo e della relativa provenienza», affermazione di una certa vaghezza e che comunque non ipotizza finanziamenti da organizzazioni criminali. Gli stessi consulenti hanno analizzato i flussi economici ultradecennali tra Berlusconi e Dell'Utri, e hanno concluso che non è possibile confutare «le affermazioni di Berlusconi in relazione alle ragioni sottese a tali erogazioni, quali sostanziali atti di amicizia». E allora? Elementi nuovi ci sono invece nella relazione della Dia, che nei mesi scorsi ha messo sotto controllo numerosi telefoni. Da alcune conversazioni tra la moglie di Dell'Utri e quella di Denis Verdini, oltre che da una telefonata tra Dell'Utri e il senatore Alfredo Messina, gli investigatori della Dia prendono spunto per affermazioni pesanti. La vicenda dell'aiuto economico a Dell'Utri, scrivono, è «sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l'assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza (...) per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi». Affermazioni che in una relazione seria troverebbero spazio solo se sorrette da certezze vengono invece buttate lì come ipotesi, i soldi di Berlusconi sarebbero il corrispettivo «per averlo, probabilmente, coperto». E ancora: i versamenti «fanno ben considerare che alla base vi sia effettivamente una sorta di ricatto non espresso». Ma quale sia l'oggetto del ricatto, neanche la solerte Dia di Firenze arriva a ipotizzarlo.
I primi miliardi di Berlusconi sono finiti nel mirino dell’antimafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 18 Marzo 2023
C’è qualcosa che non torna sull’origine di una grossa quota di denaro giunta a Silvio Berlusconi tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta per il rilancio delle sue aziende. E sono al contempo inafferrabili le ragioni che hanno spinto il Cavaliere a versare, tra il 2012 e il 2021, un totale di 28 milioni di euro nelle casse del suo ex braccio destro Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ancora imputato (ma assolto in Appello) al processo sulla “Trattativa Stato-mafia” e indagato con Berlusconi tra i mandanti delle stragi del 1993. Sono proprio i pm fiorentini titolari dell’inchiesta a volerci vedere chiaro.
I consulenti dei magistrati di Firenze hanno infatti prodotto un documento in cui si accerta come indecifrabile l’origine di 70 miliardi di lire – versati per la maggior parte in contanti – che tra il febbraio 1977 e il dicembre 1980 hanno rimpinguato le casse delle società in mano a Berlusconi. Nella relazione, di oltre 500 pagine, sono stati attenzionati quegli “innesti finanziari” di cui si ignora la paternità, riesaminando le operazioni anomale già registrate in una prima consulenza svolta a Palermo e presentata al Processo a carico di Marcello Dell’Utri.
Un processo di cui è opportuno ricordare l’esito. Riconosciuto come mediatore tra i vertici della mafia palermitana e Silvio Berlusconi, nel 2014 Dell’Utri è infatti stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni di carcere (poi scontati). La Cassazione scrisse che “grazie all’opera di intermediazione svolta da Dell’Utri veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata da Cosa Nostra palermitana. Tale accordo era fonte di reciproco vantaggio per le parti che a esso avevano aderito grazie all’impegno profuso da Dell’Utri: per Silvio Berlusconi esso consisteva nella protezione complessiva sia sul versante personale che su quello economico; per la consorteria mafiosa si traduceva invece nel conseguimento di rilevanti profitti di natura patrimoniale. Tale patto non era stato preceduto da azioni intimidatorie di Cosa Nostra palermitana in danno di Silvio Berlusconi e costituiva piuttosto l’espressione di una certa espressa propensione a monetizzare per quanto possibile il rischio cui era esposto”.
Il patto fu stipulato nel 1974, in occasione di un incontro tenutosi a Milano tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, l’allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontate (rappresentante della fazione palermitana) e il mafioso Francesco di Carlo. Un accordo rimasto effettivo fino al 1992, sopravvissuto perfino all’esito della Seconda guerra di mafia, quando i corleonesi di Riina sconfissero i palermitani di Bontate: “Berlusconi – ricordano i giudici – aveva infatti costantemente manifestato la sua personale propensione a non ricorrere a forme istituzionali di tutela, ma avvalendosi piuttosto dell’opera di mediazione con Cosa Nostra svolta da Dell’Utri. A sua volta Dell’Utri aveva provveduto con continuità a effettuare per conto di Berlusconi il versamento delle somme concordate a Cosa Nostra e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina”. Dell’Utri finirà anche imputato al processo sulla “Trattativa Stato-mafia“: condannato a 12 anni in primo grado per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, nel 2021 è stato assolto in Appello. Ad aprile si esprimerà la Cassazione.
I magistrati di Firenze pongono poi la loro lente sui continui versamenti di denaro effettuati da Berlusconi a Dell’Utri nel corso dell’ultimo decennio. La consulenza individua una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per 28 milioni di euro. L’8 marzo 2012 Berlusconi versa sui conti intestati a Dell’Utri e alla moglie Miranda Ratti 20,9 milioni di euro per comprare Villa Camarcione (in cui Berlusconi non metterà mai piede), con cui lady Dell’Utri acquisterà una villa a Santo Domingo. il 23 marzo 2015 arriva dal Cavaliere un bonifico di un milione di euro al figlio di Dell’Utri, Marco: il denaro verrà impiegato per pagare gli avvocati del padre e noleggiare uno yacht. Il 2 agosto del 2016 arrivano altri due milioni di euro sul conto della moglie di Dell’Utri, il 27 luglio 2017 altri 500 mila euro; nel febbraio 2018 1,2 milioni, il mese successivo altri 800 mila euro; nel marzo del 2019 500mila euro, nel gennaio 2020 1,2 milioni e nel giugno 2021 altri 180 mila euro. Tra questi flussi di denaro trova posto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese che Dell’Utri ha chiesto e ottenuto.
Difficile poter appurare le reali motivazioni sottese ai versamenti. Una nota della Dia, entrata nella relazione, mette nero su bianco che è “sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l’assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza, per quanto riguarda l’ultimo periodo”, dovuta dal Cavaliere all’ex senatore “per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi“. Dell’Utri, infatti, non chiamò mai in causa Berlusconi davanti ai magistrati nella cornice dei processi a suo carico. Il Cavaliere avrebbe inoltre sostenuto Dell’Utri pagando di tasca sua tutte le spese legali per i suoi processi: “La difesa dell’ex senatore – scrivono gli investigatori nella nota ai magistrati – dev’essere attenta e puntuale in quanto è anche la difesa di Forza Italia e di Silvio Berlusconi e pertanto se ne deve fare carico lui. Neanche concorrere nelle spese, ma proprio accollarsele tutte“.
A questo proposito, la Dia parla espressamente della sussistenza di “una sorta di ricatto non espresso, ma ben conosciuto da tutti, e idoneo al persistere delle dazioni”. Gli investigatori sostengono vi sia nei Dell’Utri “la consapevolezza che tutte le loro richieste, assecondate da Berlusconi, trovano fondamento in una sorta di risarcimento di quanto hanno patito nel tempo per colpa sua, per averlo, probabilmente, coperto”. [di Stefano Baudino]
Quei trentamila euro al mese da Berlusconi a Dell’Utri. La Dia: il prezzo del silenzio. Lirio Abbate su La Repubblica il 17 Marzo 2023
L'ex cavaliere ha pagato al suo braccio destro le spese legali e dal 2021 anche un vitalizio. "Un compenso per la detenzione subita e per averlo coperto"
C'è una storia di "ricatto" e di "silenzio pagato a peso d'oro" attorno al buco nero della vita imprenditoriale di Silvio Berlusconi tra febbraio 1977 e dicembre 1980. Su questi 37 mesi si concentra l'esame dei magistrati di Firenze che stanno analizzando gli "innesti finanziari", senza una paternità, nelle società che hanno dato vita alla Fininvest. In oltre 500 pagine di nuova relazione tecnica vengono riesaminate le operazioni "anomale" già rilevate nella prima consulenza fatta a Palermo e prodotta nel processo a Marcello Dell'Utri, perché ci sono nuovi documenti che la procura di Firenze ha acquisito a gennaio dell'anno scorso.
Baiardo: "Sono rimasto a colloquio con Paolo Berlusconi mezz'ora". La Repubblica il 05 Febbraio 2023.
Lo ha dichiarato durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7
"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.
Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'".
Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. I partecipanti alla trasmissione, i giornalisti e l'ex Pm Antonio Ingroia, lo hanno incalzato sottolineando, più volte, la versione opposta di Paolo Berlusconi (il quale ha riferito di essersi sentito minacciato da quel colloquio) ed esortandolo a rilevare la verità su questa ed altre cose di cui parla.
Estratto da repubblica.it il 05 Febbraio 2023.
"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.
Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'". Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. […]
Estratto da ilmattino.it il 05 Febbraio 2023.
Salvatore Baiardo avrebbe avuto un incontro a Milano con Paolo Berlusconi nel 2011. A chiederlo, e a riferirlo anni dopo ai magistrati, sarebbe stato lo stesso gelataio originario di Palermo, ex favoreggiatore dei fratelli Graviano, al centro dell'attenzione negli ultimi tempi anche per aver annunciato, settimane prima, la cattura di Matteo Messina Denaro a Non è l'Arena […].
Era alla ricerca di un lavoro, avrebbe detto ai pm della Dda di Firenze titolari dell'inchiesta sulle stragi mafiose di Firenze, Roma e Milano del 1993, secondo quanto riferisce il quotidiano La Repubblica, spiegando che i magistrati fiorentini due anni fa hanno disposto accertamenti per quell'incontro riferito da Baiardo.
Baiardo-Berlusconi, le verifiche
In particolare la procura del capoluogo toscano avrebbe cercato di sentire Paolo Berlusconi, il quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato, ovvero il fratello ex premier: la procura fiorentina, nel 2017, ha riaperto le indagini su Silvio Berlusconi, e su Marcello Dell'Utri, nell'ambito dell'inchiesta sulle autobombe mafiose in continente (già archiviate due volte per entrambi, nel 1998 e nel 2013) in seguito a intercettazioni nel carcere di Ascoli Piceno a Giuseppe Graviano trasmesse dalla procura di Parlermo.
Sono stati invece sentiti a verbale due poliziotti all'epoca in servizio alla questura di Milano, che facevano parte nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi. Uno, Domenico Giacame, sarebbe stato ascoltato dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco il 24 luglio 2020. [...]
Estratto dell'articolo di Lirio Abbate per la Repubblica il 5 febbraio 2023.
Undici anni fa, mentre Silvio Berlusconi guidava il suo quarto governo e il boss Giuseppe Graviano si affacciava nelle aule dei processi per le stragi, e lanciava messaggi ad alcuni politici con i quali avrebbe avuto contatti facendo mezze dichiarazioni davanti ai giudici, c’era un suo favoreggiatore, il gelataio Salvatore Baiardo, che provava a bussare alla porta del premier in carica. Il presidente del Consiglio non avrebbe risposto, ma a dare udienza a Baiardo è stato un altro Berlusconi, Paolo, il fratello minore dell’allora capo del governo.
È una storia su cui indaga, da due anni, la procura antimafia di Firenze. Perché Baiardo voleva parlare con Silvio Berlusconi? Si può sospettare che l’uomo di fiducia dei Graviano volesse ricattare il premier?
Di questi fatti, Salvatore Baiardo non ha mai fatto cenno pubblicamente durante le sue lunghe interviste, in cui tuttavia non si è privato dell’opportunità di lanciare messaggi, forse per sollecitare il pagamento di vecchie cambiali riposte nel cassetto dei segreti dei mafiosi siciliani, in particolare dei fratelli Graviano.
Ai pm di questo incontro Baiardo fornisce una spiegazione che contrasta con quello che gli inquirenti hanno trovato indagando su questa storia. Il gelataio afferma che era andato a chiedere un posto di lavoro, ma le cose — ricostruite attraverso testimoni — sarebbero andate diversamente. E non sono bastati i quattro interrogatori cui Baiardo è stato sottoposto dai pm di Firenze, l’ultimo alcuni mesi fa. Su questo punto però tace anche Paolo Berlusconi, il quale — chiamato dai magistrati di Firenze — si è avvalso della facoltà di non rispondere perché familiare di un indagato.
Baiardo, che ha sulle spalle condanne per il favoreggiamento dei boss stragisti e anche per falso e calunnia, vuole riannodare i fili che i mafiosi di Brancaccio avevano intrecciato tra gli anni Ottanta e Novanta fra Palermo e Milano. Affari e scambi di favori. L’uomo sembra essere a conoscenza di fatti importanti, vissuti in prima persona, ma non avvia alcuna seria collaborazione con la giustizia. Appare, invece, come un avvelenatore di pozzi. È una partita che si gioca fra chi sta in carcere al 41 bis e chi sta fuori dal carcere, e il mediatore è sempre lui, Baiardo. Ma per riannodare i fili di questa storia nuova e inedita, che mette davanti Berlusconi e la mafia, è bene andare con ordine.
I procuratori aggiunti della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono a verbale il 24 luglio 2020 un poliziotto, Domenico Giancame, che undici anni fa era in servizio alla Questura di Milano, nel reparto scorte. L’agente faceva parte del dispositivo di tutela assegnato a Paolo Berlusconi, e rispondendo alle domande dei magistrati, ricorda che nel 2011 il fratello del premier incontrò, a Milano, Salvatore Baiardo. Al poliziotto viene mostrata anche una foto del favoreggiatore di Graviano e senza alcun dubbio lo riconosce come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi. Alla fine della conversazione, che avviene in via Negri, il fratello del premier chiama Giancame e gli dice: «Mimmo (Domenico Giancame, ndr ), tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo».
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Sarà una coincidenza, ma nel frattempo nelle aule di giustizia, in quei primi mesi del 2011, Graviano “gioca” a dire e non dire sulla politica. E ai pm che gli chiedono dei suoi contatti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi risponde: «Sulla politica mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Dopo alcuni anni, però, la sua strategia cambia. Inizia a fare il nome del Cavaliere, e accusa i politici.
E nello stesso periodo vengono rilanciate in aula le rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, in particolare l’incontro del 1994 al bar Doney di Via Veneto, a Roma con Giuseppe Graviano il quale «aveva un atteggiamento gioioso, come chi ha vinto all’enalotto o ha avuto un figlio». Spatuzza ricorda: «Ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa storia, che non erano come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti alla fine degli anni Ottanta e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vengono fatti i nomi di due soggetti: di Berlusconi... Graviano mi disse che era quello di Canale 5, aggiungendo che di mezzo c’era un nostro compaesano, Dell’Utri. Grazie alla serietà di queste persone — riporta le parole di Graviano — ci avevano messo praticamente il Paese nelle mani».
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Le ricostruzioni da Giletti. Le menzogne di Baiardo che tanto piacciono a Travaglio e co. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’ 8 Febbraio 2023
Avrebbero dovuto chiudere il 31 dicembre 2022 le indagini su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi del 1993. E sono passati solo trent’anni. Quindi non c’è fretta, per i pubblici ministeri di Firenze. In fondo questi magistrati arrivano solo quarti, dopo un’ inchiesta in cui gli stessi indagati venivano affettuosamente chiamati “alfa” e “beta”, poi una seconda con “Autore 1” e “Autore 2” e un’altra con soggetti di nome “M” e “MM”.
Tutte archiviate a partire dagli anni novanta e fino al 2020 a Palermo, Caltanissetta e Firenze. I pm Luca Turco e Luca Tescaroli, orbati del loro ex capo Giuseppe Creazzo, che ha preferito navigare in altri lidi dopo esser stato denunciato per molestie da una collega, si esercitano sul tema dal 2017 e, invece di chiudere il fascicolo a fine 2022, stanno ancora cincischiando con un signore di nome Salvatore Baiardo. Un personaggetto che non è un collaboratore di giustizia né un semplice testimone e che ha alle spalle una condanna non solo per favoreggiamento nei confronti di due condannati per strage come i fratelli Graviano, ma anche per calunnia e falso. Il che non è secondario, in questa storia, perché il precedente, insieme al suo dire e non dire e ammiccare, sfottendo magistrati e giornalisti di riferimento (che se lo meritano), pongono pesanti dubbi sulla sua attendibilità.
Lui intanto si diverte. È stato interrogato quattro volte dai pm di Firenze. Che cosa abbia detto pare lo sappiano, oltre ai magistrati, alcuni giornalisti di riferimento delle procure, come alcuni del Fatto, di Repubblica e di Domani. Ma ultimamente il personaggetto è diventato la preda preferita di Massimo Giletti, che lo ha eletto a ospite fisso dopo aver portato a casa lo scoop sulla “previsione” dell’arresto di Matteo Messina Denaro. E lo esibisce con orgoglio ogni domenica sera a Non è l’arena. Lo mette addirittura a confronto con l’ex pm del gruppo “Trattativa” Antonio Ingroia, che cerca di interrogarlo in diretta come se avesse di fronte il portatore di tutti i (presunti, molto presunti) segreti sule stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia negli anni novanta. Solo che in tv il personaggetto non vuole vuotare il sacco e raccontare quel che ha riferito ai pm di Firenze in quattro interrogatori.
Così il direttore del Fatto.it Peter Gomez si arrabbia di brutto e l’altro gli rinfaccia di averlo ospitato a pranzo a casa propria fin dal 2012. Sembrano tutti amici, vecchi compagni di scuola che si danno del tu, usano gli stessi codici quasi sfogliando vecchi album di famiglia e a volte anche litigano, come domenica scorsa. Fa impressione riflettere sul fatto che tutto questo circo Barnum fa da contorno al piatto forte che sono indagini non per marachelle, ma per il reato di strage, aggravato da finalità mafiose, su cui la procura di Firenze deve decidere – avrebbe già dovuto decidere – se chiedere il rinvio a giudizio o la quarta archiviazione nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ultima strofa della canzonetta riguarda un tentativo di undici anni fa del personaggetto di contattare colui che allora era il presidente del consiglio. I giornalisti informati dicono che dal vecchio telefonino di Baiardo risulta una telefonata al centralino di Palazzo Chigi. Senza risultato. Mentre pare che miglior fortuna abbia avuto il tentativo di incontro con Paolo Berlusconi, editore del Giornale, che avrebbe ricevuto il questuante proprio nella redazione di via Negri, a Milano. Volevo chiedere un lavoro, dice l’ospite di Giletti in trasmissione, ma non gli crede nessuno.
Vogliono che dica di essere andato a ricattare il premier tramite un messaggio mafioso al fratello. Lasciano intendere che qualcosa di simile il testimone avrebbe fatto mettere a verbale negli interrogatori. Ma ricattare su che cosa? Sulla strage? Se il personaggetto non ha detto nulla di concreto e soprattutto di nuovo rispetto alle tre inchieste già archiviate, il destino della quarta è già segnato. Che importanza ha questo incontro, che Paolo Berlusconi ha escluso sia mai avvenuto, o di cui comunque non ha ricordo? Pare dispongano di memoria ferrea, probabilmente per mestiere, due ex agenti della sua scorta di allora i quali, pur undici anni dopo, hanno testimoniato di ricordare benissimo l’incontro. Leggiamo direttamente dalle veline dei quotidiani di riferimento della procura. Cui in realtà aveva già risposto due anni fa l’avvocato Nicolò Ghedini, dicendo che Paolo Berlusconi escludeva categoricamente di aver mai conosciuto quel signore.
E aveva anche fatto notare qualche particolare incongruente, come per esempio che il 14 febbraio del 2010, la data in cui ci sarebbe stato l’ incontro al Giornale, era domenica, giorno in cui lui non era mai presente in redazione. Incongruenza? Ma basta cambiare la data, un piccolo aggiustamento, ed ecco che il 2010 diventa magicamente 2011. Il personaggetto si era sbagliato. Chissà come mai però i due ex poliziotti della scorta questo particolare non l’hanno notato. Forse perché quell’incontro non era così importante, se non per qualche giornalista “d’inchiesta” e un titolo scandalistico sui “ricatti”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Estratto dell'articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” l’8 febbraio 2023.
Non meriterebbe neanche un lungo articolo, Salvatore Baiardo, favoreggiatore dei boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano, condannato per falso e calunnia, uno che da una vita chiede soldi in cambio di rivelazioni sempre smentite, uno che da settimane è ospitato come un oracolo da Massimo Giletti su La7 – che spiace dirlo, impiegherà anni a nettarsi le scarpe dall’escremento che ha pestato – e insomma lui, Baiardo, incarcerato dal 1995 al 1999 e giudicato inattendibile da molteplici fonti giudiziarie e giornalistiche: tanto che gli unici che gli hanno dato retta, nonostante l’inaffidabilità gli fosse incisa sulla fronte oltrechè sulle carte, sono stati Report su Raitre all’inizio del 2021 e appunto Giletti da qualche settimana, contribuendo così a riavvelenare e raffrescare pozzi da tempo prosciugati.
A scanso di equivoci: Baiardo ha detto talmente tante sciocchezze che non è riuscito neppure a ottenere lo status di collaboratore di giustizia, e il fango che in questi giorni sta rigettando sui fratelli Berlusconi (tra altri) si è seccato più volte per via giudiziaria, come detto: ma gli insuccessi delle procure ormai vengano riproposti per via mediatica e questa cosa viene chiamata giornalismo.
Il primo a smentire e a dichiarare inattendibile Baiardo fu il procuratore Giuseppe Nicolosi (oggi a Prato) che negli anni Novanta fece parte del pool di magistrati fiorentini che indagò sulle stragi mafiose: il 18 gennaio scorso, a Skytg24, ha precisato oltretutto che sulle stragi «abbiamo fatto cinque inchieste, senza ottenere risultati che potessero essere spesi in un processo».
Baiardo, con un memoriale di quattro pagine, cercò di smentire ciò che risulta in giudicato dalle sentenze, ossia che Giuseppe Graviano premette il bottone del telecomando che ammazzò Paolo Borsellino e la scorta in via D’Amelio. Questo tentativo di depistaggio ha cercato di ricordarlo anche il collega Enrico Deaglio, in collegamento con Giletti su La7, ma è stato letteralmente zittito da un intervallo pubblicitario.
Anche l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli in più occasioni ha notato come Baiardo abbia cercato di minimizzare i delitti dei fratelli Graviano.
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Sulla sua inaffidabilità si è espresso anche il colonnello dei Carabinieri Andrea Brancadoro: il 6 marzo 2020, durante il processo «Ndrangheta stragista» [...]
Durante il processo «Ndrangheta stragista» anche il dirigente di Polizia Francesco Messina parlò dei tentativi di Baiardo di tirare in ballo Berlusconi, ma le sue dichiarazioni non finirono in nessun’inchiesta perché Baiardo non le confermò
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Ma passiamo ai giornalisti. Il primo che amplificò le parole di Baiardo fu Vincenzo Amato, giornalista locale della Stampa che tempo dopo lo liquiderà così: «La mia personale impressione è che lui venda un po’ di fumo per cercare di ritagliarsi un qualche spazio […]».
Nel 2012 ci caddero anche Peter Gomez e Marco Lillo del Fatto Quotidiano […] Gomez ha capito l’inaffidabilità del personaggio, tanto che domenica sera, sempre sa Giletti, ha inveito e alzato i toni contro Baiardo dandogli dell’avvelenatore di pozzi con un innegabile «atteggiamento mafioso».
Il 4 gennaio 2021 ci cadde anche Report di Raitre (volontariamente, a questo punto) che già intervistò Baiardo anche a proposito della fattualmente inesistente agenda rossa del giudice Borsellino, mai ritrovata. Sempre a «Report», Baiardo anticipò cose poi «rivelate» anni dopo a Giletti sui rapporti fra Silvio Berlusconi e la mafia, riparlando della vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi.
Insomma niente di nuovo e tutto di vecchio: più una patente di inaffidabilità che passa da Baiardo direttamente ai giornalisti che fingono di riscoprirlo. «Perché Berlusconi non lo querela, se è inattendibile?» si è chiesta una squalificata collega durante la trasmissione di Giletti, domenica sera; «così capiamo qualcosa di più», ha fatto eco un altro. Così si ricomincerebbe: cause, carte, processi, verbali da pubblicare e ripubblicare per anni.
Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per il “Corriere della sera” il 9 febbraio 2023.
[…] «Quando i siciliani ti augurano “Cent’anni”... significa ”lunga vita”... E un siciliano non dimentica mai».
queste sono anche le parole con cui Enrico Deaglio — 75 anni, giornalista, un passato di direttore dei quotidiani Lotta Continua e Reporter , del settimanale Diario e oggi scrittore che non riesce a stare lontano dalla cronaca — chiude il suo «Qualcuno visse più a lungo» (da qualche mese in libreria con Feltrinelli ), poderosa ricostruzione (si legge come un romanzo, ma è un’inchiesta zeppa di dettagli) della vita dei boss Giuseppe Graviano, detto «Madre Natura» e di suo fratello Filippo.
L’affresco tratteggia gran parte della Sicilia degli anni Ottanta, quelli della grande mattanza: Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giuliano, Cassarà, Basile, Chinnici, Costa, Terranova.
Quando si arriva a Falcone e Borsellino, Deaglio (che in Sicilia seguiva «storie di piccola mafia nell’Agrigentino, poi ammazzarono il mio amico Mauro Rostagno a Trapani...») ricorda che fu proprio «Madre Natura» a schiacciare il telecomando di via D’Amelio.
[…] I Graviano furono arrestati a Milano il 29 gennaio 1994 —«lo stesso giorno della discesa in campo di Berlusconi» — e il libro racconta pure di come i due fratelli in carcere a Spoleto vengano trattati con ogni riguardo. E pur sottoposti ai rigori del 41 bis, «concepiranno anche i figli».
C’è un capitolo intero, «Il mito», che squaderna le varie ipotesi del «miracoloso» evento: banche del seme, l’aiuto di qualche ginecologo o semplice atto d’amore in carcere — a detta poi dello stesso Giuseppe, laureato in Matematica —, con le due mogli entrate di nascosto nella cesta della biancheria. Le nascite degli eredi del boss arrivano nel disinteresse generale ma è Deaglio a ricostruire, grazie alle carte giudiziarie, il ricevimento a Nizza per il battesimo dei due bimbi, entrambi chiamati con il nome di «Michele». Un evento che pare «una replica della celebre festa da ballo del Gattopardo » al termine della quale una delle due neomamme — la moglie di Giuseppe si chiama Nunzia, oggi vive tra Roma e la Costa Azzurra gestendo il patrimonio della famiglia — «si alzò e disse: “Peccato che qui manchino i migliori”». Appunto in prigione […]
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
'Ad Arcore presidio mafioso'. «Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. Adriano Botta su L’Espresso il 5 settembre 2013
«È stato definitivamente accertato che Dell’Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo scorso a...
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d’appello per Dell’Utri.
«E’ stato definitivamente accertato che Dell’Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (…)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell’Utri è stato condannato il 25 marzo scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Parole pesanti verso lo stesso Dell’Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l’ex premier dato che Dell’Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi.
Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi»
«In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell’Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese (Silvio Berlusconi, ndr) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione», è scritto poi nelle motivazioni.
Dell’Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo»
Antonio Giangrande: Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Marcello Dell’Utri e la mancata prova delle minacce “giunte a destinazione”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 dicembre 2022
In relazione ai fatti ritenuti idonei ad integrare il reato contestato a Dell'Utri, il problema è quello di verificare se le iniziative intimidatorie siano davvero “pervenute a destinazione” ossia se abbiano raggiunto Silvio Berlusconi, insediatosi nel maggio del 1994. Questo aspetto della vicenda è quello che – per i giudici – rimane controverso tanto che non può ritenersi provato in termini di piena certezza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza di primo grado si è occupata della posizione di Dell'Utri Marcello riportando, anzitutto, l’imputazione elevata a carico di quest’imputato ossia l’aver concorso nel reato di minaccia, finalizzato a turbare l’attività del governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa Cosa nostra, e, in particolare, di essersi attivato in relazione alle richieste di questi ultimi
“...finalizzate ad ottenere benefici di varia natura (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti all’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”.
Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l‘omicidio dell’on. Salvo Lima ed era proseguita con le stragi palermitane del ‘92 e le stragi di Roma, Firenze e Milano del ‘93”, ponendo in essere le seguenti specifiche condotte: “inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all‘omicidio Lima ed in luogo di quest‘ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa nostra “per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”. Successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di Ciancimino Vito Calogero e di Riina Salvatore, così agevolando il progredire della “trattativa” stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione de/la strategia stragista”; “agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il Suo insediamento come capo del governo”.
In tale approccio si è fatto riferimento alle risultanze probatorie già esposte su questa tematica (sempre nella Parte Quarta della medesima decisione) muovendo dalla figura di Dell'Utri quale emerge, innanzitutto, dalle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, in particolare, ponendo i seguenti interrogativi: “...se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragista, se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l'intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del governo Berlusconi e, infine, se Dell‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi”.
In relazione a simili quesiti è stato fissato un punto certo: “... la prima parte della verifica ha avuto esito negativo, poiché l’esame delle risultanze probatorie ha condotto alla sicura esclusione di un ruolo di Dell'Utri nelle vicende che, ad iniziare dal 1992, diedero luogo alla minaccia mafiosa in danno dei Governi in carica precedentemente a quello poi presieduto da Silvio Berlusconi dal maggio 1994 (v. Parte Quarta della sentenza, Capitolo 3)”.
Quest’affermazione, se vale ad escludere ogni coinvolgimento dell’imputato nel la “prima parte” della vicenda, cioè in riferimento alle condotte poste in essere nei confronti dei Governi precedenti a quello presieduto da Silvio Berlusconi e per le quali condotte lo stesso Dell'Utri è stato assolto in primo grado “per non avere commesso il fatto” - sia in relazione ad un suo presunto ruolo, dopo l’omicidio Lima, di “interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa nostra”, sia, sempre nel 1992, quale partecipe della condotta già scrutinata che può essere sinteticamente definita come la prima “trattativa stato/mafia” - vale, sotto altro profilo, a ribadire il concetto, che può ritenersi pacificamente acquisito, secondo cui le iniziative di Cosa nostra volte a minacciare il governo della Repubblica fatte oggetto di questo processo sono state più d’una e in riferimento ad esse Dell'Utri viene in rilievo in questo giudizio di appello soltanto per l’ultima, ovvero come “tramite” incaricato di veicolare la minaccia mafiosa di ulteriori iniziative stragiste al governo insediatosi nel maggio del 1994.
In proposito la sentenza impugnata ha rammentato che soltanto nella seconda metà del 1993 l’organizzazione mafiosa, accantonato l’originario progetto di “... dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di “cosa nostra”...” ha inteso “... sfruttare la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi . . .“ servendosi anche “... di Marcello Dell'Utri per ottenere i benefici per gli associati che erano stati già oggetto dell‘azione ricattatoria stimolata dalla sciagurata iniziativa dei Carabinieri del Ros nel giugno del 1992 letta dai mafiosi come primo segnale di cedimento dello stato dopo la strage di Capaci, poi, ulteriormente confermato, nel successivo anno 1993, da altri segnali promananti dal settore carcerario in relazione all‘applicazione del regime del 41 bis (dall‘avvicendamento dei vertici del Dap. alla mancata proroga di molti provvedimenti di 41 bis)”.
Precisato che questa Corte condivide solo in parte quest’ultimo argomento, riferito alla c.d. “sciagurata iniziativa dei Carabinieri del Ros”, dal momento che tale iniziativa (per quanto effettivamente “sciagurata”) ha sì finito per innescare la minaccia al governo Amato e poi al governo Ciampi (resa evidente dalla mancata proroga dei decreti ex art. 41 bis in scadenza nel novembre 1993) ma senza che gli uomini del Ros condividessero tale proposito delittuoso, ciò che per il momento interessa focalizzare è il fatto che secondo la Corte di Assise il ruolo di Dell'Utri è circoscritto al reato contestato come commesso in danno del primo governo Berlusconi: “In questa fase, con l‘apertura alle esigenze dell‘associazione mafiosa “cosa nostra” manifestata da Dell‘Utri ancora nella sua funzione di intermediario con l’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo “sceso in campo” in vista delle elezioni politiche che poi vi sarebbero state nel narzo 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992 e si pongono le premesse della rinnovazione della minaccia in danno del governo, quando. dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato, appunto, presieduto dallo stesso Berlusconi”.
Sempre in riferimento a questo momento storico/politico è stata posta un’ulteriore dirimente precisazione legata al fatto che gli elementi probatori che si riferiscono alle iniziative degli esponenti mafiosi di vertice per creare collegamenti con la neo formazione politica Forza Italia non assumono, a ben vedere, rilievo diretto per l’integrazione del reato pluriaggravato di cui all’art. 338 c.p. trattandosi di fatti antecedenti al maggio 1994, data di insediamento del governo di che trattasi: “... non è questa, dunque, la fase in cui va ricercata la minaccia che può integrare la fattispecie criminosa oggetto della contestazione formulata in questo processo a carico del medesimo Dell'Utri”.
Emerge un netto discrimine tra quello che rispetto all'imputazione può essere definito come un antefatto non punibile, un mero antecedente causale alla successiva condotta, perché avvenuto prima dell’insediamento del governo Berlusconi, e ciò che si è verificato dopo l’insediamento di detto governo e solo quando, a quel punto,
L’intimidazione mafiosa, se portata a compimento, poteva valere ad integrare il reato oggetto di contestazione secondo le coordinate recepite dalla stessa sentenza di primo grado. Seguendo questo criterio logico/temporale sono stati posti in luce gli incontri di Vittorio Mangano con Dell'Utri sia prima sia dopo l’insediamento del governo di che trattasi individuando, per quest’ultima fase, due occasioni: la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994: due occasioni che il Mangano ha avuto “... per sollecitare l‘adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.
In relazione ai fatti collocabili in questo arco temporale e ritenuti idonei ad integrare il reato contestato a Dell'Utri in concorso con i coimputati Brusca e Bagarella (oltre che in concorso con altri soggetti ormai deceduti quali Mangano e Cucuzza), il problema esegetico fondamentale è quello di verificare se le iniziative intimidatorie provenienti da contesto mafioso siano davvero “pervenute a destinazione” ossia se abbiano raggiunto quella che, secondo l'impostazione accusatoria ricevuta con la sentenza impugnata, viene individuata come la parte offesa di questa condotta: Berlusconi Silvio in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri del governo insediatosi nel maggio del 1994
Questo aspetto della vicenda, “l’ultimo miglio” potrebbe dirsi parafrasando la terminologia in uso nelle telecomunicazioni, è quello che, ad avviso di questa Corte, rimane controverso tanto che non può ritenersi provato in termini di piena certezza.
Ma prima degli approfondimenti sul tema, dirimenti per stabilire se il delitto sia stato portato a consumazione prospettandosi, diversamente, un delitto tentato ai sensi degli artt. 56 e 338 c.p. per chi ha posto in essere quella condotta (ossia Bagarella e Brusca, per come si vedrà), è necessario ripercorrere il percorso seguito con la decisione impugnata quanto alle tappe antecedenti, parimenti d’interesse nella ricostruzione processuale. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Gli incontri con lo “stalliere” Vittorio Mangano prima del maggio 1994. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 20 dicembre 2022
Bagarella e Brusca affidano a Vittorio Mangano la “reggenza” del “mandamento” di Porta Nuova in sostituzione di Salvatore Cancemi costituitosi spontaneamente ai carabinieri nel luglio 1993”. È evidente che tale nomina sia stata caldeggiata in previsione di sfruttare i suoi risalenti rapporti di conoscenza con Dell'Utri per realizzare quell’obiettivo che stava particolarmente a cuore a Cosa nostra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sui contatti intervenuti prima del maggio 1994 (come visto data di insediamento del primo governo Berlusconi) vengono in rilievo degli aspetti della decisione che coinvolgono non solo il già citato Dell'Utri ed i suoi rapporti con Mangano Vittorio ma anche e più direttamente i coimputati di questo processo Bagarella Leoluca e Brusca Giovanni.
In merito a quest’iniziativa, definita la “seconda condotta” (seconda rispetto a quella che ha coinvolto gli uomini del Ros nonché gli esponenti mafiosi di cui già si è detto in precedenza), risulta ineccepibile la ricostruzione, anche questa tratteggiata nella sentenza di primo grado, che ha collocato “... la condotta posta in essere in prima persona da Bagarella e Brusca già all‘indomani dell‘arresto di Salvatore Riina (v. trascrizione udienza 25 gennaio 2018) e, quindi, prima della successiva fase iniziata col ricorso all‘opera di Vittorio Mangano, dopo che a questi, per volere degli stessi Bagarella e Brusca, era stata affidata la “reggenza” del “mandamento” di Porta Nuova in sostituzione di Salvatore Cancemi costituitosi spontaneamente ai carabinieri nel luglio 1993”. (Cancemi si costituisce esattamente in data 22.07.1993).
Se, dunque, un ruolo centrale va attribuito a Vittorio Mangano, tanto da divenire reggente del citato mandamento mafioso, è altrettanto evidente che tale nomina sia stata caldeggiata in previsione di sfruttare i suoi risalenti rapporti di conoscenza con Dell'Utri per realizzare quell’obiettivo che stava particolarmente a cuore a Cosa nostra e, in quel momento (dopo l’arresto di Riina ed in seguito dei fratelli Graviano), in specie ai predetti Bagarella e Brusca.
Un’iniziativa che, si badi bene, non era finalizzata a porre in essere nell’immediato l’ennesima “prova di forza” minacciando il Governo della Repubblica, una compagine governativa che, per di più, in quel momento non era neppure rappresentato da Silvio Berlusconi, ma invece tesa a trovare un compiacente interlocutore per assicurare determinai risultati da tempo auspicati dalla compagine mafiosa in tema di ammorbidimento della legislazione antimafia e di modifiche ordinamentali del sistema penale e penitenziario paventando, quale funesta alternativa, il riprendere (o la prosecuzione se si preferisce) delle stragi.
Un progetto peculiare perché configura una minaccia sottoposta ad una duplice condizione:
- primo, che la compagine politica capeggiata da Berlusconi e sponsorizzata da Dell'Utri avesse vinto le elezioni;
- secondo, che detto gruppo politico, una volta “salito al governo”, non avesse rispettato le interlocuzioni preelettorali intessute da Dell'Utri con gli uomini di Cosa nostra.
In chiave difensiva è stata censurata la coerenza di una “minaccia preventiva” di tal fatta in base all’interrogativo sintetizzabile con la formula: che senso avrebbe avuto, per i mafiosi, minacciare Silvio Berlusconi al tempo importante imprenditore ma privo di cariche istituzionali o incarichi governativi?
Rispetto a questo quesito, che prospetta una questione logica ancor prima che probatoria, è agevole replicare affermando che l’obiettivo immediato fosse quello di creare le pre-condizioni affinché Cosa nostra ottenesse, già in quel momento, delle rassicurazioni rivolgendosi all’interlocutore Dell'Utri che, come emerge dalle dichiarazioni dello stesso Brusca, in quel momento era l’obiettivo ma non certamente in qualità di “vittima” della minaccia: Dell'Utri rappresentava una sorta di trampolino per assicurare, in un pRossimo futuro, un’attenzione normativa alla questione caldeggiata da Cosa nostra.
In questo scenario si inserisce la tematica (affrontata nella Parte Quarta della sentenza di primo grado) dell’esistenza di un accordo preelettorale tra Cosa nostra, nelle persone di Bagarella e Brusca (oltre che, separatamente, almeno sino al gennaio 1994, nelle persone dei fratelli Graviano), e Marcello Dell'Utri in rappresentanza del partito Forza Italia.
Rispetto a questo accordo preelettorale la sentenza impugnata, se in un primo momento ne ha affermato l’esistenza in termini di certezza (“In conclusione, allora, può ritenersi ampiamente provato che, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1994, le cosche mafiose, facendo affidamento sulle “assicurazioni” e sulle “garanzie” ricevute attraverso Marcello Dell‘Utri, decisero di appoggiare il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi (con l‘apporto determinante dello stesso Dell‘Utri) nella prospettiva di ricavarne vantaggi e benefici), di seguito e nello sviluppo della stessa motivazione ha prospettato uno scenario più sfumato giungendo ad ipotizzare che sia stato raggiunto “... se non un accordo preeletrorale vero e proprio, la promessa preelettorale da parte di Marcello Dell'Utri, nella predetta qualità di intermediario di Silvio Berlusconi «ruolo di intermediario già risalente negli anni, secondo quanto definitivamente accettato con le sentenze di cui si è detto nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo I), che, in caso di successo nelle imminenti elezioni politiche e di incarico di governo affidato a Silvio Berlusconi, sarebbero stati adottati alcuni provvedimenti certamente in linea con le attese dei mafiosi (basti pensare all‘abolizione dell‘ergastolo in favore della quale già alcuni esponenti di quel partito si erano pronunziati)”.
NON UN ACCORDO, MA UNA PROMESSA
Dunque, più che di un “accordo preelettorale”, si è trattato (almeno) di una “promessa preelettorale” da parte di Dell'Utri in questa sua particolarissima veste di mediatore in una ricostruzione nella quale è stato anche dato per assodato che già in questa fase, appunto preelettorale, vennero “...prospettate al Dell‘Utri le conseguenze (in termini di stragi) della mancata adozione di provvedimenti attesi dai mafiosi. ma tale minaccia, poiché rivolta ad un destinatario che in quel momento non faceva pare di un Governo, né lo rappresentava neppure nella veste di intermediario di singoli componenti, venendosi nell‘ipotesi del reato istantaneo che si consuma nel momento in cui la minaccia viene recepita dal destinatario (che, in quel momento, come detto, appunto, non faceva parte del Governo della Repubblica), non potrebbe da sola integrare i presupposti del contestato reato di cui all’ar. 338 c.p.”.
Ed è in tale contesto che si inseriscono le interlocuzioni cui ha fatto riferimento in particolare il collaboratore Giovanni Brusca.
Occorre al riguardo precisare che la figura di Dell'Utri (del quale, all’interno di “cosa nostra”, era noto il risalente ruolo, svolto esattamente dalla metà degli anni settanta fino al 1992 come stabilito dal giudicato a carico dello stesso, quale intermediario tra l’organizzazione mafiosa e Silvio Berlusconi) interessava tanto l’ala stragista di Cosa nostra (nella persona di Giuseppe Graviano ed, in un secondo momento, dopo l’arresto dei fratelli Graviano, di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca) quanto l’ala che alla prima si contrapponeva e che caldeggiava la cessazione delle stragi (rappresentata da Bernardo Provenzano) senza che nessuna di queste fazioni abbandonasse le proprie posizioni strategiche.
In riferimento alla minaccia al Governo Berlusconi, di cui adesso si tratta, è chiaro che assuma rilievo l’iniziativa dell’ala stragista ed esattamente l’iniziativa assunta dopo l’arresto, il 27.01.1994, dei fratelli Graviano.
È proprio in questa fase che si coagula un progetto voluto da Bagarella e Brusca i quali intendevano pRoseguire nella tattica stragista (ad iniziare da quella dello stadio Olimpico organizzata da Graviano e fortunosamente fallita) ed a minacciarne ulteriori per ottenere ciò che l’organizzazione rivendicava.
Al riguardo rimane peculiare l’occasione, descritta dallo stesso Brusca, a fondamento di tale proposito criminoso dal momento che il predetto ha sostenuto di aver chiesto a Mangano di contattare Dell'Utri dopo che aveva appreso, in via del tutto inaspettata, dei risalenti rapporti tra questi ultimi e Silvio Berlusconi dalla lettura di un articolo del settimanale L’Espresso che lo stesso Brusca aveva acquistato (“me lo avevo comprato io”) e che poi aveva ritrovato, in termini altrettanto casuali (per “coincidenza”), sul tavolo di una stalla a Partinico.
In merito a questa genesi, in effetti dai tratti così originali, va dato atto delle perplessità esternate con forza dalle difese anche in questo giudizio di secondo grado.
Precisato che la sentenza impugnata, dopo articolata riflessione, è giunta alla (condivisibile) conclusione secondo cui l’articolo del settimanale L’Espresso da cui Brusca ha appreso dell’esistenza ditali rapporti tra Mangano e Dell'Utri e da cui, soprattutto, ha tratto ispirazione per ordire il suo progetto criminoso, è da collocare a marzo del 1994 (e non, come sostenuto dalla procura, l’articolo pubblicato nell’aprile 1994, ritenendo che “... appare più coerente datare l’incontro di quest‘ultimo – Brusca - con Mangano almeno al marzo 1994 quando furono pubblicati i primi due articoli sui rapporti Mangano, Dell Utri e Berlusconi...”), è stato posto in evidenza, in chiave difensiva, che tale collocazione temporale, appunto nel marzo 1994, sarebbe inconciliabile con quanto affermato dallo stesso Brusca a proposito di quel regalo che sempre questo dichiarante ha riferito di aver fatto a Vittorio Mangano per “premiarlo” della sollecitudine del suo intervento con Dell'Utri.
Più esattamente Brusca ha riferito di avere donato carne di vitello proveniente dalla macellazione di bovini che precedentemente erano stati rubati dai fratelli Vitale ad un certo Tola [...]. Appunto mettendo in relazione la data del furto, collocabile nella notte tra il 7 e l’8 ottobre del 1993, come da verbale di denuncia, e la data della pubblicazione dell’articolo de l’Espresso nel marzo del 1994, si è ritenuto che sarebbe intercorso un tempo eccessivamente lungo così da screditare la complessiva credibilità del Brusca non potendosi confidare che quella carne sia stata conservata per circa sei mesi prima di essere regalata al Mangano.
L’argomento non merita accoglimento. Invero, il furto a Partinico dei capi di bestiame consente di collocare l’incontro in epoca sicuramente successiva al mese di ottobre 1993, poiché a tale epoca risale il furto cui Brusca si è riferito. A prescindere, infatti, dalle tecniche di conservazione della carne macellata, preme soprattutto sottolineare che neppure Brusca sapeva dopo quanto tempo dal loro prelievo i vitelli fossero stati macellati per poi essere consegnati al Mangano.
Unendo questi dati si ottiene la compatibilità della ricostruzione anche temporale offerta con la sentenza di primo grado circa l’iniziativa delittuosa assunta dal Brusca nei termini detti, contattando Vittorio Mangano a marzo del 1994. Tale datazione appare, del resto, coerente con il fatto — anche questo riportato nella decisione di primo grado — “...che, nel frattempo i fratelli Graviano, che avevano già un proprio contatto con Dell‘Utri, erano stati arrestati e che, pertanto, si poneva la necessità per Brusca e Bagarella di attivare un proprio contatto diretto col medesimo Dell‘Utri”.
BRUSCA IGNARO DEL FALLITO ATTENTATO ALL’OLIMPICO
Inoltre, lo stesso Brusca, nel descrivere l’incarico affidato a Mangano e la minaccia che questi avrebbe dovuto comunicare a Dell'Utri, ha riferito che in quel momento egli ancora non sapeva della tentata strage dell’Olimpico (v. dich. Brusca: “E di dirgli se non si mette a disposizione noi continueremo con la linea stragista, che già erano successe due, tre, quattro... forse tutte, in quel momento ancora io non sapevo di quella dell'Olimpico, la mancata addirittura neanche sapevo che era già stato messo in atto, quindi non... io non sapevo nulla..”), così che indirettamente se ne deve ricavare che l’incarico di cui si tratta venne affidato a Mangano in epoca successiva al predetto fatto delittuoso pianificato nel gennaio del 1994.
A tale datazione non sono d’ostacolo, come detto, neppure i mesi trascorsi dal furto dei vitelli, poiché Brusca ha riferito che al Mangano fu regalata carne proveniente dalla macellazione dei detti capi di bestiame che, dunque, al di là del ricordo impreciso del Brusca dovuto al tempo trascorso, ben poteva essere stata macellata a distanza di tempo dal furto e comunque conservata, come abitualmente ed usualmente avviene, anche nei mesi successivi sino a quando una parte di tale carne era stata, appunto, elargita a Mangano come segno di riconoscimento.
Ma tornando all’iniziativa di Brusca, va sottolineato che lo stesso ha riferito della sua azione, concertata con Leoluca Bagarella, al fine di instaurare, tramite Mangano, un rapporto con Dell'Utri e per far recapitare a questi le richieste di Cosa nostra perché le inoltrasse a Silvio Berlusconi unitamente alla minaccia di proseguire nelle stragi qualora tali istanze non fossero state esaudite nel momento in cui e se lo stesso Berlusconi avesse assunto incarichi di governo.
Rinviando alla sentenza di primo grado per i dettagli anche riferiti a questa vicenda (p. 4358 e ss.), così come per l’individuazione dei riscontri a simili propalazioni del Brusca (riscontri sui quali a breve si tornerà), occorre ribadire che le richieste di quest’ultimo erano essenzialmente finaizzate ad ottenere, nell’immediato l’attenuazione del regime del 41 bis O.P. e, nel prosieguo, ulteriori revisioni della legislazione antimafia sulla falsa riga, in sostanza, delle questioni che erano state oggetto, per come lo stesso Brusca aveva potuto apprendere da Salvatore Riina, della prima trattativa, cioè quella instaurata con coloro che, nel 1992, si “erano fatti sotto” richiamando la grezza ma emblematica espressione utilizzata al riguardo dallo stesso Riina.
Se, dunque, è individuabile questa linea di continuità nella strategia ricattatoria mafiosa, che pure non incrina la diversità delle due iniziative (che valgono, come visto, a tracciare due differenti ipotesi di reato), il collaboratore Brusca ha chiarito di avere espressamente incaricato Mangano di prospettare a Dell'Utri, qualora non si fosse “messo a disposizione”, la prosecuzione dell’attacco diretto e frontale allo stato: “E di dirgli se non si inette a disposizione noi continueremo con la linea stragista...”.
LE NUOVE INTERCETTAZIONI
Va anche ricordato che la Corte di Appello di Palermo, con la sentenza del 29 giugno 2010, nel processo celebrato a carico di Marcello Dell'Utri per il reato aggravato di concorso in associazione mafiosa, aveva ritenuto di non potere escludere che Vittorio Mangano avesse millantato con Brusca e Bagarella di avere ricevuto da Dell'Utri promesse politiche nel corso degli incontri collocabili nel 1993-1994 e che, dunque, i pretesi contatti (lo si ribadisce Mangano/Dell'Utri) fossero rimasti, in effetti, soltanto a livello di tentativo senza alcuno sviluppo ulteriore e più tangibile.
Questo punto esegetico deve essere adesso superato sulla scorta degli elementi, anche sopravvenuti, emersi in questo processo e che verranno a breve ripercorsi (specie in merito agli incontri intercorsi dopo il maggio del 1994 nonché evincibili dall’intercettazione, acquisita in questo giudizio di appello, che interessa l’avv. Pittelli e di cui pure si avrò modo di dire); degli elementi tali da far ritenere che in quel periodo, tra il 1993-1994, Dell'Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani, come emerge dalla citata intercettazione Pittelli vedi infra) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano anche e, anzi, soprattutto, per quanto emerge in questo processo, gli incontri di Mangano con Dell'Utri per recapitargli i desiderata di Cosa nostra.
Tuttavia non si dispone - perlomeno è tale la convinzione di questa Corte - di una prova altrettanto solida e completa circa il fatto che questo meccanismo di comunicazione sia andato a termine fino alla fine (tracciando “l’ultimo miglio” del percorso probatorio, come metaforicamente si diceva), cioè che Marcello Dell'Utri abbia a sua volta trasmesso tale messaggio, con la sua terribile carica intimidatoria, a Berlusconi (perché si mettesse ‘a disposizione”) né, tanto meno, si ha prova delle modalità di una possibile interlocuzione, qualora davvero intervenuta, tra Dell'Utri e Berlusconi dopo l’assunzione dell’incarico di governo da parte di quest’ultimo.
Se, dunque, la condotta, che si è articolata anche dopo l’insediamento del Governo Berlusconi (vedi infra), rimane allo stadio del reato tentato, tuttavia rispetto alla pronuncia irrevocabile sopraddetta si ha adesso la consapevolezza di un passaggio ulteriore, per quanto non ultimo, nel senso che si ha prova dei contatti Mangano/Dell'Utri rimanendo, invece, indimostrati (o non provati se si preferisce) quelli ulteriori Dell'Utri/Berlusconi.
Una problematica, quella della conoscenza o meno da parte di Berlusconi delle minacce stragiste ventilate da Cosa nostra, che attraversa questi periodi e che si ripropone, sebbene sottendendo conseguenze giuridiche decisamente diverse, sia in riferimento alla fase antecedente al maggio del 1994 (quando Berlusconi non aveva incarichi di governo e quindi la minaccia al Corpo politico dello stato non poteva essere per questa via integrata) sia dopo il maggio del 1994 (quando la minaccia, se recapitata al Presidente del Consiglio Berlusconi o ai danni di altri esponenti di quel Governo, ben avrebbe potuto portare a consumazione il reato di che trattasi).
Malgrado risulti evidente che la questione centrale attenga ai fatti successivi all’insediamento del citato Governo, per fatti astrattamente capaci di integrare il reato per come contestato, è importante analizzare l’antefatto per comprendere le dinamiche sottese ai rapporti e per pervenire ad una ricostruzione quanto più organica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’illustre compaesano “messosi a disposizione” per aiutare Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 21 dicembre 2022
Giovanni Brusca ha precisato di aver appreso che Mangano si era incontrato in quell’occasione soltanto con Dell'Utri e che egli (Brusca) non sapeva se quel messaggio, con tutta la sua carica intimidatoria, fosse stato poi ulteriormente recapitato a Berlusconi, ma che Dell'Utri si impegnò ad attivarsi nel senso richiestogli (“...Chiedo subito l‘attivazione per il 41 bis, se potevano fare qualche cosa, ma il motivo principale era di agganciare un altro canale politico”).
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Venendo agli incontri antecedenti al maggio del 1994, sui quali ha riferito essenzialmente Brusca, si è testé dato atto del fatto che, comunque la si intenda, la questione non attiene (ancora) alla configurazione del reato come ribadito a chiare lettere dal giudice di prime cure: «Ed allora, alla stregua delle predette risultanze deve concludersi che l‘episodio riferito da Brusca, ma anche il primo viaggio di Vittorio Mangano a Milano dopo la richiesta di Brusca, il suo incontro con Dell‘Utri ed il successivo rientro in Sicilia, sono avvenuti prima che si fosse insediato il governo con la guida di Silvio Berlusconi nel successivo mese di Maggio 1994».
Ma per sondare le affinità nei comportamenti e al fine anche di cercare di dipanare la matassa sulla condotta successiva (cioè quella riferita agli incontri di Mangano e Dell'Utri dopo l’insediamento del governo Berlusconi ovvero degli incontri, non solo temporalmente diversi dai primi, ma realizzati anche attraverso un canale in parte differente da quello descritto da Brusca, essenzialmente sul quale ha riferito il collaboratore Cucuzza Salvatore) è bene scrutinare l’antefatto.
Ebbene anche in riferimento agli incontri antecedenti al maggio del 1994 va detto che né Brusca Giovanni né nessuno degli altri collaboratori di giustizia, che con le loro dichiarazioni hanno riscontrato sul punto Brusca, hanno offerto qualche elemento chiaro e tangibile che possa asseverare un contatto Dell'Utri/Berlusconi sulla tematica di interesse.
Dovendo fin da adesso aggiungere che la questione rilevante ai fini di questo processo e per ritenere (in prospettiva) l’intervenuta consumazione della azione delittuosa, non è riferita tanto all’accordo politico-elettorale (quell’accordo che la sopra citata sentenza della Corte di Appello di Palermo del giugno del 2010 non ha ritenuto provato divenendo sul punto irrevocabile), quanto, piuttosto, la consapevolezza da parte di Berlusconi, appunto già in questa fase preelettorale, della minaccia preventiva e doppiamente condizionata di cui si diceva tale da aver fatto da preludio (una sorta di premessa) alla ulteriore minaccia, ovvero quella promossa in seguito e solo dopo l’insediamento del governo presieduto dal predetto Berlusconi.
I RICORDI DI BRUSCA
Ma tornando a Brusca, egli ha riferito che, dopo alcuni giorni dall’incarico dato a Vittorio Mangano (“Per eccesso una decina di giorni, per eccesso quando dico a breve dico mesi. Posso pure sbagliare, quindici giorni, però penso meno di dieci giorni. Sì, sono stati giorni, le ripeto non è stata una risposta attesa nel tempo...”) il Mangano, tornato da Milano, gli disse che si era incontrato con Dell'Utri nei locali di una ditta di pulizie di tale Roberto (“Un certo Roberto che era titolare di un‘agenzia di pulizie che lavorava all‘interno della Fininvest e attraverso lui aveva contatto diretto per agganciare... quantomeno Dell‘Utri, poi non so se anche Berlusconi e via dicendo”) e che Dell'Utri, mostratosi perfino contento di quell’approccio, assicurò che si sarebbe attivato (“Quindi, ora io non so che tempo, si è organizzato fino due, tre giorni, l'appuntamento come ha fatto, questo non lo so. Ma, diciamo, che nell‘arco di giorni, una settimana, dieci giorni cosi massimo, ricevo già la risposta da Mangano che era andato, si era incontrato con questo... l‘appuntamento l’aveva fatto recandosi in un‘agenzia di pulizie, che a sua volta era amico di Vittorio Mangano che faceva anello di congiunzione per potere agganciare Dell‘Utri e Berlusconi, che questo qua a sua volta era un‘impresa che lavorava all‘interno della Fininvest. E mi ha detto che si era incontrato con Dell‘Utri, cosa che avevo menzionato di non dire, si era incontrato con Dell‘Utri dicendo che era contento e dice tutto contento, contento «Grazie, grazie, vediamo quello che possiamo fare» e da lì si è instaurato questo rapporto...”).
Il collaboratore Brusca, sollecitato dal pm nel corso dell’esame dibattimentale, ha precisato di aver appreso che Mangano si era incontrato in quell’occasione soltanto con Dell'Utri e che egli (Brusca), dunque, non sapeva se quel messaggio, con tutta la sua carica intimidatoria, fosse stato poi ulteriormente recapitato a Berlusconi quale destinatario finale di quella comunicazione (“Il suo interlocutore, che era Marcello Dell‘Utri. Tutto contento, soddisfatto e che avrebbe ripreso sia sul piano personale che su quello che era sul territorio di Cosa nostra, quello che mi ha detto Vittorio Mangano [...]”) ma che, comunque, Dell'Utri si impegnò ad attivarsi nel senso richiestogli (“Che da lì a poco si sarebbe allertato per quelle che erano le loro possibilità. In quel momento io chiedo... come si dice? Chiedo subito l‘attivazione per il 41 bis, se potevano fare qualche cosa, ma il motivo principale era di agganciare un altro canale politico”).
Va anche dato atto che la difesa del Dell'Utri ha sul punto osservato che: dalla deposizione del collaboratore emerge chiaramente come il messaggio ricattatorio, nelle intenzioni di Brusca, era diretto innanzitutto a Dell‘Utri «l’obiettivo era Marcello Dell‘Utri però il punto finale era Silvio Berlusconi»: sicché, volendo ammettere che la minaccia ci sia stata, secondo Brusca, Dell‘Utri ne sarebbe stato la vittima.
Delle riflessioni che risultano solo parzialmente condivisibili ed esattamente limitatamente al fatto che le sollecitazioni mirassero nell’immediato a Dell'Utri il quale, però, non era certamente (e come già puntualizzato) il soggetto “da minacciare” ma, semmai, il soggetto (“l’anello” di comunicazione”, come definito) deputato a farsi latore di quel messaggio secondo un passaggio finale che, tuttavia, neppure Giovanni Brusca ha potuto confermare ma che ha desunto dal fatto che Mangano lo aveva rassicurato dell’interessamento mostrato da Dell'Utri.
Per poter affermare, come fatto con la sentenza di primo grado, che “...la minaccia rinnovata dai mafiosi dopo l‘insediamento del governo presieduto da Silvio Berlusconi, infatti, trova le sue radici nelle promesse che Dell'Utri, sia assoluto protagonista della nascita ed affermazione della nuova forza politica, ebbe a indirizzare all’organizzazione mafiosa in vista delle elezioni politiche del 1994...”, non si può prescindere dalle dichiarazioni dello stesso Brusca il quale, a ben vedere, a proposito di quanto Mangano ebbe a riferirgli, dopo avere incontrato Dell'Utri, si è limitato a descrivere ciò che ha appreso dallo stesso Mangano e circa il fatto che Dell'Utri, mostrandosi “contento”, si era impegnato ripromettendosi di vedere quello che si poteva fare: “...Dietro questo fatto lui ritorna e dice tutto contento contento “Grazie, grazie, vediamo quello che possiamo fare”.
Se, dunque, neppure Giovanni Brusca (cioè il soggetto che a seguito della lettura del settimanale L’Espresso e comunque attingendo alle sue conoscenze maturate al riguardo ha dato un input essenziale a questa iniziativa criminosa) ha avuto una conferma diretta dell’interlocuzione finale con Berlusconi, è bene indicare – per come ha già fatto anche sul punto la sentenza di primo grado – che, allorché era stato sentito nel primo processo a carico di Dell'Utri, lo stesso Brusca, nel ripercorrere questa identica vicenda, aveva omesso di riferire perfino della sua conoscenza del contatto tra Mangano e Dell'Utri (“Se non mi ricordo quasi totale, però avevo tralasciato il contatto diretto Vittorio Mangano/Dell'Utri”).
In effetti quest’aspetto delle dichiarazioni del Brusca, pur con le evoluzioni che le contraddistinguono, non incrina la dimostrazione dei contatti Mangano/Dell'Utri in oggetto, poiché le perplessità al riguardo evincibili dalle dichiarazioni di questo collaboratore di giustizia possono essere superate in virtù dei riscontri, di cui più avanti ci si occuperà, riferiti al periodo anche successivo al maggio del 1994 e capaci di confermare, nel complesso, che Mangano si sia davvero incontrato con Dell'Utri per affrontare queste tematiche così scottanti e delicate.
Tuttavia è del pari evidente che, anche questa considerazione sul “passaggio intermedio” della comunicazione da Mangano a Dell'Utri, nulla di risolutivo possa aggiungere circa l’ulteriore esito, ossia se già in questo primo periodo - lo si ribadisce antecedente al maggio 1994 per come ricostruito essenzialmente dal Brusca - vi sia stata una relazione finale con Berlusconi quale destinatario della “minaccia preventiva” strutturata nei termini sopraddetti.
LE TESTIMONIANZA DI MONTICCIOLO, DI NATALE E LA MARCA
Ma riguardo ai riscontri alle propalazioni del Brusca, che, come visto, attengono specificamente questo periodo preelettorale, assumono anzitutto rilievo le dichiarazioni di Giuseppe Monticciolo il quale, se ha confermato di aver appreso da Mangano dei suoi incontri con i “politici” di Milano (personaggi politici di cui inizialmente lo stesso Monticciolo non ricordava neppure i nomi) e di avere appreso da Giovanni Brusca che si trattava di questioni attinenti al 41 bis ed alla confisca dei beni, ha altresì mantenuto memoria del fatto che secondo Bagarella, del quale aveva raccolto delle confidenze, sarebbe stato decisamente più rassicurante parlare direttamente con “u gRossu’, ossia con la persona di peso e politicamente più importante con ciò riferendosi a Berlusconi Silvio (“Mi sembra che uno dei tanti, che una volta disse Mangano, dove si lamentava, è stato che andava... praticamente, andava anche a Milano per poter parlare con Dell‘Utri. Infatti certe volte loro, cioè Bagarella diceva, era un po’ arrabbiato certe volte, ora ho cercato di averci un filo conduttore, e diceva che era meglio parlar direttamente con... lui diceva u Rossu. Poi ognuno deduca quello che...”).
Da queste così come dalle altre dichiarazioni del Monticciolo, se è possibile ottenere conferma dei viaggi fatti da Mangano per incontrare Dell'Utri (sebbene il nome di questo soggetto sia stato fatto tardivamente dal predetto Monticciolo), non vi è invece conferma circa il destinatario ultimo delle interlocuzioni e soprattutto circa l’esito delle stesse (“No, glielo chiedevano loro. L’ho detto prima, Brusca e Bagarella. Per deduzione se lui lavorava ad Arcore da Berlusconi, se parlava con Dell'Utri, se la devo dir tutta quello più gRosso, politicamente è Berlusconi. Poi se fosse lui o non fosse lui e quello che si dicevano io non ero nella stanzetta lì con loro, quindi questo non lo so.”), non potendosi neppure trascurare quell’insoddisfazione, esternata da Bagarella allo stesso Monticciolo, secondo cui per dirimere ogni dubbio sul tema sarebbe stato auspicabile un contato diretto con Berlusconi.
Anche La Marca Francesco, se ha confermato il racconto di Giovanni Brusca in merito all’incarico conferito dallo stesso Brusca e da Bagarella a Vittorio Mangano e circa i viaggi di quest’ultimo a Milano, non ha potuto invece specificare nulla circa le modalità delle eventuali discussioni sul tema tra Dell'Utri e Berlusconi.
Le dichiarazioni del La Marca assumono un valore significativo poiché lo stesso apparteneva alla medesima “famiglia” mafiosa di cui Mangano faceva parte e nella quale proprio quest’ultimo, per un periodo, ha ricoperto il ruolo di reggente per volere di Bagarella e Brusca dopo che il precedente reggente, Salvatore Cancemi, nel luglio 1993, si era costituito ai Carabinieri.
Appunto in virtù di questa “comunanza mafiosa” il La Marca ha riferito di avere accompagnato Vittorio Mangano ad un incontro con Bagarella e Brusca. Se in riferimento a questa occasione il La Marca ha ricordato di essere stato personalmente presentato al Bagarella, il predetto collaboratore ha riferito che, dopo circa venti giorni da quest’incontro, il Mangano, dovendosi recare a Milano per discutere con dei politici al fine di ottenere benefici riguardo al regime del4l bis e al sequestro dei beni, Io aveva incaricato di sostituirlo per le incombenze che si fossero rese necessarie a Palermo durante la sua assenza.
Se, dunque, il La Marca ha svolto queste funzioni “di supplenza”, lo stesso ha riferito che il Mangano, rientrato a Palermo dopo quattro o cinque giorni, aveva comunicato che l’incontro a Milano aveva sortito esito positivo nel senso che se il partito di Berlusconi avesse vinto sarebbero stati tolti il 41 bis e la confisca dei beni, tuttavia precisando che non sapeva con quale politico il Mangano avesse interloquito: “Sì, quello che mi ha detto che ci ha mandato sia Brusca e sia Bagarella... Ce l’ha mandato là a Milano sia Brusca e sia Bagarella per parlare di queste cose, però io onestamente non lo posso dire se è andato a parlare con Berlusconi o con qualche altro. È andato a Milano a parlare con un politico, non so chi era, non ce l’ho chiesto, non era carattere mio, per dire, ma con chi hai parlato? Questo sono a conoscenza e questo io dico Sì, per andare a parlare là a Milano per fare togliere il 41 bis con l’accordo e i sequestri dei beni”.
Sempre secondo La Marca, Vittorio Mangano, dopo essere tornato da Milano, si era incontrato ancora con Bagarella e Brusca per riferire loro l’esito del suo viaggio ed i predetti nell’occasione si erano mostrati molto soddisfatti (“erano tutti contenti” ... “erano contentissimi”), ostentando una contentezza che tuttavia il La Marca vedeva con qualche titubanza subodorando delle possibili “prese in giro”: […]. Ma il La Marca, esplicitamente sollecitato anche in controesame, ha ribadito di non sapere con chi si fosse incontrato Mangano a Milano (“Avvocato, io ripeto di nuovo, lui mi ha detto che andava a Milano, però non mi ha detto che stava andando con Berlusconi o con qualche altro. Io, siccome c’ho un carattere io molto riservato, non glielo ho detto ma con chi? Lui voleva parlare, ma io l’ho chiuso”). Neppure dalle dichiarazioni del collaboratore Di Natale Giusto, utilizzabili quale riscontro indiretto alle propalazioni di Brusca e La Marca, è possibile trarre maggiori ragguagli sul tema.
Più esattamente il Di Natale ha narrato che un giorno Guastella si era incontrato con il genero di Vittorio Mangano ed era ritornato nei suoi uffici (del Di Natale) per incontrare Bagarella mostrandosi perfino euforico perché aveva appreso che Mangano aveva dato assicurazione che finalmente si prospettavano alcuni interventi legislativi a loro favore (“... È ritornato euforico dicendo che le cose si stavano mettendo benissimo in quanto aveva avuto assicurazioni da Vittorio Mangano che si sarebbe messo mani all’articolo 192 e avrebbero modificato la legge sui collaboratori di giustizia...”) e ciò per essere stato a sua volta rassicurato in tal senso da Dell'Utri (“Diceva che aveva parlato con Marcello Dell'Utri”).
Si tratta, come già è stato sottolineato con la sentenza di primo grado “...di un riscontro indiretto, perché, se non riguarda i momenti dell‘incarico inizialmente affidato da Brusca e Bagarella a Vittorio Mangano, concerne, però, un fatto temporalmente successivo che, tuttavia, non può che trovare le proprie radici nel necessario antecedente fattuale riferito da Brusca, non potendo di certo ritenersi che Vittorio Mangano avesse agito per un interesse collettivo degli associati senza l’impulso di coloro che, di fatto, all’epoca guidavano l‘organizzazione mafiosa (v. sopra Parte Terza della sentenza, Capitolo 14). Ed è ugualmente rilevante che in quell’occasione sia stato fatto espressamente il nome di Dell‘Utri quale interlocutore del Mangano perché è proprio per contattare Dell‘Utri che Brusca e Bagarella si erano rivolti a Mangano” (p. 4371).
Malgrado la difesa Dell'Utri abbia censurato il fatto che Di Natale ha riferito notizie che avrebbe appreso da Leoluca Bagarella e da Giuseppe Guastella, i quali a loro volta avevano riferito di informazioni apprese dal genero di Vittorio Mangano [...], anche da tale fonte risulta che Dell'Utri ha incontrato Mangano fornendo rassicurazioni sugli interventi normativi che sarebbero stati adottati (sebbene riferendosi al periodo successivo al maggio del 1994 che appresso verrà più ampiamente esplorato). […]. Né maggiori chiarimenti possono trarsi sul punto dalle propalazioni di Cucuzza Salvatore.
Malgrado, infatti, il collaboratore Cucuzza (di cui diffusamente si dirà più avanti) abbia riscontrato gli incontri di Mangano e Dell'Utri, di cui ha parlato Brusca, anche precedenti all’insediamento del governo Berlusconi, ugualmente egli non ha potuto specificare se a tali interlocuzioni, appunto Mangano/Dell'Utri, abbiano fatto seguito le ulteriori e conseguenti interlocuzioni Dell'Utri/Berlusconi.
Va anticipato che ci si confronta con una questione per molti versi speculare a quella centrale per l’imputazione adesso in disamina (vedi infra) che coinvolgerà le dichiarazioni dello stesso Cucuzza ma per gli incontri successivi alla nomina del governo Berlusconi e che non trova, anche per i fatti pregressi, esauriente risposta, perlomeno in termini di certezza probatoria.
Non c’è prova che Silvio Berlusconi sapesse della “promessa elettorale”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 22 dicembre 2022
Se ampie sono le conferme circa il fatto che Vittorio Mangano, anche su incarico di Brusca e Bagarella, ebbe a contattare Marcello Dell'Utri ricevendo da questi rassicurazioni che si sarebbe adoperato per caldeggiare le modifiche legislative, non è altrettanto certo se di siffatte trame sia stato messo al corrente Berlusconi all’epoca in qualità di leader della nascente formazione politica Forza Italia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In buona sostanza, dalle dichiarazioni di Cucuzza, in modo analogo a quanto può trarsi dalle dichiarazioni di Brusca e Di Natale, si ottiene si conferma degli incontri tra Mangano e Dell'Utri già in questo periodo preelettorale, ma non anche del fatto se, a queste interlocuzioni, collocabili prima della scarcerazione dello stesso Cucuzza (intervenuta il 29 giugno 1994 “questi incontri me li diceva che erano da molto prima che io uscissi”), abbia fatto seguito un’interlocuzione con Silvio Berlusconi per veicolargli la c.d. “minaccia preventiva” adesso di interesse.
Non vi è certezza del fatto se Berlusconi, allora già “sceso in politica” ma non ancora eletto e senza alcun incarico di governo, sia stato partecipe di questo accordo preelettorale (o di questa promessa elettorale come pure definita) esplicitato nei termini formulati a Marcello Dell'Utri e nato sotto la terribile minaccia, già allora manifestata dagli uomini di Cosa nostra, per volere di Bagarella e di Brusca, che se la promessa non fosse stata in futuro rispettata sarebbe proseguita (o ripresa) la stagione delle bombe.
Per quanto la minaccia fosse sottoposta, almeno in quella fase, alla duplice condizione già illustrata, il fatto adesso di interesse non è tanto riferito alla linea politica che si prefiggeva di seguire in campagna elettorale il partito Forza Italia, ben nota anche in termini di posizioni garantiste sulla “questione giustizia” intesa in senso ampio, ma invece se Berlusconi, quale leader di quella neo formazione, fosse stato messo al corrente da Dell'Utri di quali gravissime conseguenze sarebbero conseguite per il Paese intero qualora il suo operato, una volta e se assunto un incarico di governo, non si fosse adeguato a certe precise aspettative.
Un ricatto preventivo e condizionato (o meglio doppiamente condizionato) se letto rispetto alla configurazione della minaccia a Corpo politico dello stato ex art. 338 c.p., ma invece una minaccia più che attuale rispetto alla linea politica da seguire come contraltare alla raccolta di voti in favore di Forza Italia, per la quale si erano spesi celti uomini di Cosa nostra.
In questa prospettiva, ben inteso, non è sufficiente aver prova dell’accordo politico mafioso in senso stretto, che per sua natura implica perfino una comunanza di interessi, ma occorrerebbe la dimostrazione che, oltre a questo patto (per quanto illecito e profondamente immorale), fosse già insita la minaccia stragista; non basterebbe dimostrare una collusione politico-mafiosa, anche ai più elevati livelli del partito di Forza Italia e per la raccolta di voti per quella tornata elettorale, ma sarebbe necessario dimostrare che già in quella fase “l’accordo” nasceva viziato dalla minaccia stragista nota e chiara anche a Berlusconi.
Ma in merito alla questione della consapevolezza di Silvio Berlusconi non sono di particolare aiuto neppure le parole di Salvatore Riina intercettate durante i suoi colloqui in carcere.
[…] Se tali dichiarazioni oggetto di captazione assumono un’importanza effettivamente centrale per asseverare sia il fatto che Vittorio Mangano ebbe ad eseguire più trasferte per contattare, attraverso Dell'Utri, Berlusconi (v. intercettazione del 29 settembre 2013: [...]), sia il fatto che Mangano ebbe a parlare con Dell'Utri (v. intercettazione del 22 agosto 2013: […]), dalle stesse non può tuttavia evincersi se Berlusconi sia stato davvero coinvolto in siffatte interlocuzioni ed eventualmente in quali termini.
Al riguardo è bene aggiungere che, considerato il momento in cui si collocarono tali iniziative cui ha fatto riferimento il collaboratore Brusca, ovvero prima del maggio 1994, non è rinvenibile un motivo diretto e stringente per il quale lo stesso Dell'Utri avrebbe dovuto mettere al corrente Berlusconi dei suoi incontri con Mangano quale emissario dei desiderata della compagine mafiosa con la nota stonata e terribile delle conseguenze future in termini di possibili nuove stragi. In quella fase e per quel canale di comunicazione non si trattava, come già accennato, di rivolgere una minaccia al governo della Repubblica, che non era (ancora) rappresentato da Berlusconi, ma, semmai, di ottenere rassicurazioni pre elettorali cioè ottenere degli impegni circa l’atteggiamento futuro secondo il meccanismo intimidatorio già illustrato della minaccia sottoposta a duplice condizione (se Berlusconi avesse assunto incarichi di governo e se, in tale veste, non avesse rispettato i desiderata di Cosa nostra).
Solo in questa prospettiva avrebbe avuto senso, per la compagine mafiosa, minacciare Berlusconi al tempo importante imprenditore già avviato alla fase politica ma ancora privo di incarichi politici/istituzionali o di funzioni governative.
Bagarella, Brusca ed i loro accoliti, sollecitando per mezzo di Mangano e nei termini detti l’interlocutore Marcello Dell'Utri, volevano ottenere rassicurazioni “politiche” circa il fatto che, a prescindere da una certa decantata linea garantista caldeggiata pubblicamente dal partito che Berlusconi stava costituendo, dopo l’assunzione degli incarichi di governo venissero mantenuti i patti intessuti con lo stesso Dell'Utri.
Ricostruita la vicenda entro questi termini, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha affermato che Berlusconi sapesse di queste minacce “preventive” (o “preelettorali” che dir si voglia) relegando quasi sullo sfondo questo aspetto della vicenda che non attiene, del resto, alla integrazione del reato. Semmai questa stessa decisione si è premurata di dimostrare, ricorrendo sul punto ad una prova “logica fattuale” (vedi infra), che Berlusconi sia stato informato dopo l’insediamento del governo, così portando a consumazione l’azione delittuosa ex ari 338 c.p..
Come detto vi è l’interesse di esplorare l’antefatto, per come descritto in particolare da Brusca, avendo cura di precisare e ribadire che questo antecedente, così strutturato, è diverso da un accordo preelettorale in senso stretto.
Un accordo di tale genere, come tradizionalmente inteso implica, invero, una raccolta di voti indirizzati dalla compagine criminale verso un partito o una formazione politica che si mostri, più o meno esplicitamente, disponibile a concedere dei “benefici” a seguito del successo elettorale ma senza implicare, sol per questo, anche un ricatto teso a far si che i desiderata dell’organizzazione criminale debbano essere rispettati a pena di rappresaglie violente e sanguinarie.
Nel caso di specie, poi, tali rappresaglie, perlomeno come prospettate da Bagarella e Brusca e per quanto dichiarato da quest’ultimo, non erano neppure dirette a ledere i fautori politici dell’accordo politico/mafioso, a partire da Marcello Dell'Utri, ma semmai l’intera nazione secondo lo schema mafioso/stragista che aveva insanguinato gli anni 1992/93.
Dunque una prospettiva che inverte le logiche tradizionali del negoziato politico/mafioso poiché un accordo di questo genere (o anche la semplice promessa elettorale) si fonda su una convergenza di interessi lontana dal concetto della minaccia, anzi sotto questo profilo tutt’altro che minacciosa né tanto meno bellicosa (men che meno per l’intero Paese) nel senso che, in virtù di un rapporto sinallagmatico, viene assicurata una concentrazione di voti su una determinata compagine politica che, per affinità di prospettive o per accordi espliciti pre elettorali, possa assicurare un certo tornaconto all’organizzazione mafiosa.
A ritenere, infatti, che vi sia stato un accordo preelettorale, in quanto diretto a far confluire i voti su Forza Italia (come riferito da Brusca, Giuffré e dagli altri soggetti di cui si dirà nel paragrafo che segue) e tale per cui i non pochi voti che Cosa nostra pilotava dovevano essere guidati per quelle elezioni su questo partito, un simile accordo non implicherebbe, per sua natura, una preventiva minaccia nei termini sopraddetti, addirittura precoce rispetto alla costituzione di una formazione parlamentare o governativa ma tale, in prospettiva, da poter condizionare le scelte legislative.
Secondo le dinamiche ben note le mafie sono solite “salire sul carro dei vincitori”, anche a prescindere dalla coloritura delle formazioni politiche, per soddisfare i propri interessi e se questo tipo di accordo politico-mafioso finisce per legare indissolubilmente i singoli esponenti politici compiacenti, che si prestano a simili subdoli accordi, non si registra, sempre secondo un percorso comportamentale comune, una minaccia che vada addirittura al di là di chi questo accordo abbia siglato o favorito.
In siffatta prospettiva si tratta di verificare se Forza Italia, che più delle altre forze politiche dell’epoca ha caratterizzato la nascita della c.d. “Seconda Repubblica”, sia stata condizionata, ed a che livelli, non tanto da un accordo pre elettorale per ottenere voti, ma perfino dalla terribile minaccia di Cosa nostra che certamente avrebbe pesato (e non poco) sulle dinamiche comportamentali già allora in atto all’interno di questo partito oltre che, in prospettiva, su quelle future del governo che si sarebbe potuto insediare con esponenti di quella stessa formazione politica.
Ebbene, in riferimento ad un così complesso capitolo di indagine non si dispone di conferme certe e residua - sempre su un piano rigorosamente probatorio -soltanto il fatto che Dell'Utri sia stato esortato a fare in modo che in quella delicata fase pre elettorale i desiderata dei mafiosi venissero in futuro rispettati mettendosi in questo senso a disposizione e così impegnandosi, pena ulteriori stragi, sempreché il partito capeggiato da Berlusconi, e per il quale si era speso lo stesso Dell'Utri, fosse “salito al governo” nei modi sperati.
Se ampie sono le conferme circa il fatto che Vittorio Mangano (il quale aveva preso in affitto un immobile a Como, ove risiedeva anche Dell'Utri, chiedendo perfino di essere rimborsato della relativa spesa, di lire 4.000.000 annuali, dalla “famiglia” mafiosa di comune appartenenza col Cucuzza), anche su incarico di Brusca e Bagarella, ebbe a contattare Marcello Dell'Utri ricevendo da questi rassicurazioni che si sarebbe adoperato per caldeggiare le modifiche legislative (“vediamo quello che possiamo fare “), non è altrettanto certo se di siffatte trame e soprattutto se della sanguinaria “minaccia condizionata” sottesa a tali contatti sia stato messo al corrente Berlusconi Silvio all’epoca in qualità di leader della nascente formazione politica Forza Italia.
L’incontro tra Berlusconi e Giuseppe Graviano, ipotizzato ma non provato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 23 dicembre 2022
Per quanto siano individuabili, anche sulla scorta di accertamenti, dei margini per assumere che Dell'Utri abbia fatto da intermediario con Graviano, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha avuto modo di affermare che Berlusconi, che in data 26 gennaio 1994 ufficializzò la sua “discesa in campo”, abbia avuto occasione di incontrare Giuseppe Graviano per di più pochi giorni prima della cattura di questo latitante e pressocché contestualmente al fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nell’ambito della ricostruzione dell’antefatto e per leggerne il suo significato più autentico potrebbe acquisire rilevanza la conoscenza di certe interlocuzioni dirette di Silvio Berlusconi con esponenti mafiosi.
La sentenza di primo grado, pur non affrontando direttamente questa tematica, ha riservato particolare attenzione alle intercettazioni che hanno interessato Graviano Giuseppe nel corso della sua detenzione dalle quali vanno enucleati alcuni dati di interesse, sia pure al netto di alcuni tentativi dello stesso Graviano di approfittare di eventuali ascolti indesiderati per proclamare insinceramente la sua estraneità a fatti delittuosi, nella ragionevole consapevolezza del servizio di captazione che poteva essere in atto.
Più esattamente, nel capitolo 4.3 “Conclusioni sulle risultanze delle intercettazioni dei colloqui di Giuseppe Graviano”, sono state rassegnate le seguenti riflessioni evincibili da tali intercettazioni:
- la centralità del tema carcerario (41 bis e ergastolo) nei pensieri dei mafiosi a partire dal 1992 cui ripetutamente si è riferito il Graviano in molte delle conversazioni intercettate sopra riportate e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 12;
- l'attribuzione ai Ministri Scotti e Martelli dell‘azione di contrasto alla mafia più rigorosa e del regime del4I bis, poi attenuati dopo la sostituzione dei detti Ministri (v. soprattutto conversazioni intercettate il 22 luglio ed il 22 novembre 2016 sopra riportate) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella parte Terza della sentenza, Capitolo 3;
- il collegamento tra la questione carceraria e le stragi del 1993 (v. soprattutto conversazioni intercettate il 22gennaio 2016 e il 17 settembre 2016 sopra riportare,) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 15 e 23;
- i ritenuti effetti positivi (per i mafiosi) delle dette stragi ai fini del miglioramento delle condizioni carcerarie e della attenuazione del regime del 41 bis (v. ancora conversazione intercettata il 22 gennaio 2016) e ciò anche a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 14 e 15;
- il più diretto collegamento tra gli attentati del 27-28 luglio 1993 e (provvedimenti di revoca del regime del 41 bis adottati dal Governo nello stesso anno (v. ancora conversazione intercettata il 17 settembre 2016) e ciò ancora a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 14, 15 e 23;
- l’appartenenza del Graviano (stretto alleato di Riina) al fronte opposto dell‘organizzazione mafiosa rispetto a quello facente capo a Bernardo Provenzano ed il giudizio negativo del primo sul secondo perché incline a rapporti con le Forze dell‘Ordine (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 14;
- il “pentimento “per la decisione di far confluire il movimento autonomista Sicilia Libera in Forza Italia (v. conversazione intercettata il 22 gennaio 2016 sopra riportata) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo 4;
- la contrarietà di Graviano alla cessazione della strategia stragista dopo il suo arresto, perché quella strategia stava producendo frutti positivi per l’organizzazione mafiosa (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) e ciò a conferma sia ancora delle risultanze esposte nella Fai-te Quarta della sentenza, Capitolo 4, sia, indirettamente, delle propalazioni di Gaspare Spatuzza riportate nella medesima Parte Quarta della sentenza, Capitolo 2, paragrafo 2.8, poi ulteriormente confermate anche dalla intercettazione del 10 aprile 2016 nella parte in cui si fa cenno ad incontri dei Graviano con Marcello Dell'Uitri;
- l‘attesa riposta anche da Graviano sui provvedimenti favorevoli per gli associati mafiosi che il Governo Berlusconi avrebbe adottato e la convinzione che Berlusconi non aveva poi potuto adottare quei provvedimenti per l’opposizione delle altre forze della coalizione di Governo (v. conversazione intercettata il 19 gennaio 2016) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4, anche con riferimento anche all‘analoga convinzione di Leoluca Bagarella ed all’attesa per l’abolizione dell‘ergastolo effettivamente oggetto sia delle richieste di “cosa nostra” sia di iniziative di esponenti di Forza Italia;
- la conseguente delusione per la mancata totale abolizione del regime del 41 bis e della pena dell‘ergastolo da parte del Governo guidato da Berlusconi (v. ancora conversazione intercettata il 19 gennaio 2016) che indirettamente conferma quali fossero le richieste all‘epoca avanzate da “cosa nostra;
- il conseguente risentimento nei confronti di Berlusconi, per non avere questi mantenuto i patti, espresso tra la speranza di potere ancora ottenere qualche beneficio e più o meno esplicite minacce di riferire, direttamente o indirettamente, i rapporti con lui avuti prima di essere arrestato nel gennaio 1994 (v. conversazione intercettata il 14 marzo 2016 sopra riportata) che conferma l’esistenza delle assicurazioni che Berlusconi e Dell‘Utri avevano dato a Graviano quando nel gennaio 1994 questi ebbe a manifestare particolare felicità a Spatuzza perché così si sarebbero “messi il Paese nelle mani”;
- l‘effettiva presenza di Bernardo Provenzano a Mezzojiuso in occasione dell‘incontro con Litigi Ilardo (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) ad ulteriore conferma delle risultanze sul punto esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 35.
LE ASPETTATIVE DI COSA NOSTRA
Tra questi dati, quello che può assumere maggior rilievo ai fini di interesse attiene alle aspettative che Cosa Nostra nutriva per gli interventi normativi del nuovo Governo accompagnati dalla delusione per l’omessa adozione di simili provvedimenti da ascrivere tendenzialmente alle difficoltà politiche non imputabili allo stesso Berlusconi ma tali da aver potuto meritare, sempre secondo il feroce pensiero di Graviano, perfino la ripresa della strategia stragista (fortunatamente non attuata).
Orbene, a prescindere da questa peculiare rilettura dei fatti offerta da Giuseppe Graviano durante la sua detenzione, l’argomento che è stato ripreso in particolare in questo giudizio di appello attiene alla possibilità che vi siano stati dei contatti di Silvio Berlusconi con Graviano, evidentemente prima dell’arresto di costui.
In particolare Giovanni Brusca, a seguito del deposito della motivazione della sentenza di primo grado, ha inteso offrire un nuovo contributo “chiarificatore ed integrativo” sulla tematica riferendo, in occasione dell’interrogatorio reso in data 16.10.2008, il cui verbale è stato acquisito con l’accordo delle parti, di aver appreso che Graviano aveva visto al polso di Berlusconi un orologio del valore di 500 milioni di lire commentando questo fatto con Messina Denaro Matteo.
Brusca ha chiesto di essere sentito dopo aver letto la sentenza “trattativa Stato — mafia” rendendosi conto di non aver detto durante il dibattimento di un episodio che allora non aveva ritenuto rilevante ossia che, in occasione di un incontro avvenuto a Dattilo (nella provincia di Trapani) nella seconda metà del 1995 con Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori e Nicola Di Trapani, aveva appreso da Messina Denaro, a conclusione di questa riunione - che atteneva ad alcune “diatribe” (cosi definite) che in passato lo stesso Brusca aveva avuto con Leoluca Bagarella in relazione alle stragi - che Giuseppe Graviano aveva in passato riferito allo stesso Messina Denaro di aver visto al polso di Berlusconi un orologio assai costoso del valore appunto di 500 milioni di lire.
Precisato che lo stesso Brusca ha chiarito che Berlusconi non aveva nulla a che spartire con l’oggetto di quel summit mafioso, tanto più che di questo orologio ne parlarono dopo la riunione ed allorché l’interlocuzione verteva su beni di lusso ed orologi (tematica alla quale lo stesso Brusca è particolarmente appassionato), v’è da aggiungere che, per quanto risulta, Matteo Messina Denaro non ha riferito di aver partecipato a questa occasione nella quale Graviano vide l’orologio ma di aver più semplicemente raccolto le confidenze dello stesso Giuseppe Graviano su questo particolare così appariscente per il valore di quel bene di lusso.
Dunque, una deposizione doppiamente de relato, per quanto Graviano ha riferito a Messina Denaro e per quanto questi ha poi a sua volta riferito a Brusca, in riferimento alla quale, al di là di queste peraltro stringate e tardive reminiscenze del Brusca (persino indotte dalla lettura della motivazione della sentenza di primo grado), non si dispone di argomenti più solidi per poter affermare che Berlusconi abbia effettivamente incontrato Giuseppe Graviano restando ancor più impregiudicata la questione dell’epoca e del contesto di tale eventuale incontro. Lo stesso collaboratore Brusca, infatti, non ha potuto collocare questo fatto nel tempo e nello spazio, insistendo di aver ricevuto, a margine della riunione a Dattilo, soltanto un fugace commento sul valore di quell’orologio.
Pur a voler escludere, come invece sostenuto in particolare dalla difesa di Dell'Utri, che il commento riguardasse un orologio indossato da Berlusconi in una sua apparizione televisiva o in una fotografia pubblicata dai giornali che ritraeva questo noto imprenditore, neppure Brusca ha saputo nulla di più in merito all‘occasione di questo avvistamento. Stando così le cose, in base agli elementi disponibili, non si può neppure escludere che Graviano abbia conservato ricordo di siffatto particolare dell’orologio per aver incrociato Berlusconi in una qualche occasione, magari assai risalente nel tempo, che non implicava neppure la consapevolezza da parte di Silvio Berlusconi del profilo criminale dello stesso Graviano o del suo stato di latitanza (sempre se l’incontro, qualora davvero avvenuto, vada collocato quando Giuseppe Graviano era latitante); tanto meno può ritenersi che l’incontro possa avere avuto una qualche attinenza con le elezioni del 1994 o comunque con i fatti di diretto interesse processuale.
LA TESTIMONIANZA DI SPATUZZA
In effetti va aggiunto che Vincenzo Sinacori, altro collaboratore di giustizia all’epoca latitante ed indicato da Brusca come anche lui presente a Dattilo, se nel verbale di interrogatorio dell’11.04.2019 (anche questo acquisito al fascicolo processuale) ha confermato che dopo l’arresto di Bagarella venne effettivamente organizzato un incontro con Brusca, non proprio a Dattilo ma nelle campagne limitrofe comunque sempre di quella zona di Trapani, un incontro al quale parteciparono lo stesso Sinacori, Matteo Messina Denaro, Di Trapani Vincenzo ed appunto Brusca, non ha ricordato nulla circa una possibile discussione che abbia riguardato, su iniziativa di Messina Denaro o anche di qualcuno degli altri presenti in quell’occasione, la questione dell’orologio di 500 milioni visto da Giuseppe Graviano al polso di Berlusconi.
Malgrado non possa essere letta come una smentita alle propalazioni del Brusca, potendosi immaginare che Vincenzo Sinacori non abbia semplicemente conservato ricordo o non abbia neppure partecipato con interesse a questa parte della discussione che, sempre a dire del Brusca, si è sviluppata a margine della riunione e per una faccenda effimera quale quella dell’orologio, certamente ci si trova al cospetto di una mancata conferma delle dichiarazioni del Brusca che pesa in senso negativo sulla ricostruzione complessiva di questa vicenda.
Rimane, allora, soltanto quella indicazione de relato (anzi come visto doppiamente de relato) di Brusca che non consente di comprendere neppure se la visione dell’orologio, nei termini appresi prima da Matteo Messina Denaro e poi dallo stesso Giovanni Brusca, sia avvenuta da parte di Giuseppe Graviano in occasione di quei contatti con esponenti politici di cui ha parlato in particolare Gaspare Spatuzza.
Come più sopra ricordato questo collaboratore di giustizia ha riferito, tra l’altro, di quella sua trasferta a Roma, a gennaio 1994, in occasione della qua[e ebbe ad incontrare Giuseppe Graviano presso il Bar Doney ricevendo dallo stesso ampie e perfino entusiastiche rassicurazioni circa la prospettiva di ottenere benefici normativi perché erano intervenute interlocuzioni con “persone serie”, subito indicate in Silvio Berlusconi e nel “compaesano” Dell'Utri che aveva fatto da intermediario, e che, quindi, si erano “messi il Paese nelle mani”.
Chiarito che Spatuzza non ha visto con chi Graviano si fosse incontrato, tanto più che lo stesso si è limitato a prelevare questo soggetto da quel bar ricevendo i commenti (per quanto entusiastici) di costui, si può ottenere una parziale conferma, per di più di carattere deduttivo, per ritenere che in quell’occasione con Graviano sia stato presente Dell'Utri (il “compaesano” che faceva da intermediario) tanto che proprio costui, nello stesso periodo in cui Spatuzza ha collocato l’episodio, aveva alloggiato in un albergo, l’Hotel Majetic, ubicato nei pressi del citato bar Doney in via Veneto. Al riguardo si può fare rinvio all’attività di ricerca dei riscontri rispetto alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sulla quale hanno riferito, all’udienza del 22 ottobre 2015, i testi Sandro Micheli e Massimo Cappottella. Quest’ultimo, già luogotenente in servizio presso il Centro Operativo Diadi Firenze dal 1993, ha riferito di aver partecipato, sin dal mese di febbraio 1994, alle indagini sulle stragi ([...]) concluse in una prima fase col processo di Firenze e, successivamente, riprese nel 2009 a seguito, appunto, della collaborazione di Spatuzza.
Ebbene il teste ha riferito che il suo Ufficio era stato incaricato di ricercare i riscontri alle dichiarazioni di Spatuzza, riscontri, peraltro, in parte già acquisiti dal Centro Operativo di Roma ([...]), ad iniziare dal primo accertamento concernente la presenza di Spatuzza in Roma nel gennaio 1994. Sempre il teste Cappottella ha riferito che un prima conferma si trovò analizzando i tabulati telefonici del cellulare in uso a Spatuzza (“[...]”), che aveva consentito di rilevare, in particolare, alcune telefonate fatte in Roma dal 18 gennaio 1994 (“[...]”).
Il teste ha aggiunto che, nel contempo, era stata verificata la presenza nel medesimo periodo di Giacalone Luigi (“Giacalone Luigi era una delle persone che hanno partecipato all’attentato dell’Olimpico sostanzialmente. È stato condannato poi per tutte le stragi, Firenze, Roma e Milano, Formello, Olimpico, ed era una persona che abitava a Palermo e che ha concorso in queste... Nella preparazione di quell’attentato. E c‘è la sua presenza nello stesso periodo in cui c’è Spatuzza, quindi abbiamo anche lì esaminato il tabulato del suo cellulare. che avevamo già acquisito durante le indagini del primo procedimento sulle stragi sostanzialmente. Abbiamo individuato all’epoca tutti i cellulari che avevano in mano gli indagati, esaminati per bene e individuati tutti i loro spostamenti. In questa fase li abbiamo ripresi e ricollocati per riscontrare quello che diceva Spatuzza Il cellulare di Giacalone è su Roma dal 17 al 24gennaio.... ++++++++, ed era un cellulare intestato non a lui direttamente, ma alla ditta di Giacalone, la Auto O e O di Giacalone, che era... Lui era un rivenditore di auto usate sostanzialmente”) ed erano state individuate le abitazioni utilizzate come basi logistiche indicate dai collaboranti (“Si, questa è sempre stata materia del primo processo, cioè, in cui furono individuate tutte le abitazioni che le persone che collocarono diciamo gli esplosivi avevano utilizzato, sia tramite l’analisi telefonica, sia tramite assunzione di informazioni di testimoni, cioè riuscimmo ad individuare tutti quanti le abitazioni e anche, diciamo, gli spostamenti. E in sostanza, diciamo, si trattava di abitazioni che erano site a Roma, […]”), nonché la data di scarcerazione di Pietro Romeo avvenuta l'1 febbraio 1994 (“Allora, la scarcerazione è avvenuta il 1 febbraio 94 ...Arrestato nel 92, però non mi ricordo adesso la data precisa.[...] Perché Spatuzza disse che quando rientrò a Palermo dopo il fallito attentato dell’Olimpico, si incontrò con Romeo che era stato scarcerato da poco”).
Il verbalizzante ha inoltre riferito che è stato, anche, riscontrato che in data 18 gennaio 1994 erano stati uccisi due Carabinieri a Scilla in Calabria (“[...]”) e che erano stati svolti, poi, accertamenti riguardo alla presenza in Roma, in quel periodo, di Marcello Dell'Utri, verificandone la registrazione in albergo in data 18 gennaio 1994 (“Si, sono stati svolti anche da noi quegli accertamenti Abbiamo... Ci fu delegato di verificare se appunto in quel periodo c’era anche la presenza di Marcello Dell'Utri a Roma, ragion per cui diciamo noi ci attivammo per verifcare dove fosse alloggiato e quindi in quest’ottica attingemmo al centro elaborazioni dati dapprima, diciamo, come primo accertamento al Ced della Polizia di Stato che detiene tutte le registrazioni degli alberghi diciamo, dove passano tutte le persone alloggiate e quindi vengono segnalate alla Questura che li inserisce. E il Ced ci rispose, diciamo, ci inviò dei tabulati da cui risultava che Marcello Dell'Utri era presente a Roma il 18 gennaio 94 all'hotel Majestic che si trova in Via Veneto 50”) e ricostruendo anche il motivo ditale presenza collegata alla nascita di Forza Italia (“[...]”).
Per quanto siano individuabili, anche sulla scorta di tali accertamenti, dei margini per assumere che Dell'Utri abbia fatto da intermediario con Graviano, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha avuto modo di affermare che Berlusconi, che in data 26 gennaio 1994 ufficializzò la sua “discesa in campo”, abbia avuto occasione di incontrare Giuseppe Graviano per di più pochi giorni prima della cattura di questo latitante (intervenuta a Milano il 27.01.1994, unitamente al fratello Filippo) e pressocché contestualmente al fallito attentato dinamitardo allo Stadio Olimpico di Roma, progettato per il 23.01.1994 in occasione della partita di calcio Roma-Udinese, nonché qualche giorno dopo l’uccisione, in Calabria, il 18.01.1994, dei Carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo in un agguato consumato con colpi da arma da fuoco.
Pertanto il tardivo contributo dichiarativo del Brusca, con tutti i suoi limiti e l’assenza di riscontri (anzi con il riscontro negativo desumibile da quanto detto da Sinacori sulla vicenda dell’orologio), non aiuta a superare questo passaggio probatorio circa l’incontro di Berlusconi con Giuseppe Graviano in vista delle consultazioni elettorali del 1994. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le intercettazioni in carcere di “Madre Natura” sul Cavaliere di Arcore. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 dicembre 2022
Graviano, per quel che è possibile comprendere, fa riferimento all‘intendimento di Berlusconi di “scendere” in Sicilia, al fatto che in questa regione ancora dominavano i “vecchi” politici, ed alla richiesta che gli aveva fatto Berlusconi per una “bella cosa”. Vi sono, poi, alcuni confusi passi della conversazione nei quali Graviano sembra fare cenno da un lato alle discussioni sulla prosecuzione della strategia stragista o in alternativa della ricerca di un accordo...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In merito alla vicenda testé rammentata del fallito attentato allo Stadio Olimpico è doveroso riportare ciò che è stato scritto nella sentenza di primo grado per collocare tale episodio nel contesto degli avvenimenti che avrebbero potuto segnare la storia del paese:
Costituisce forte convinzione della Corte, alla stregua del complesso di tutte le acquisizioni probatorie i-accolte, che quell‘episodio dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di Carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo stato pressoché definitivamente (il “colpo di grazia “, per fortuna, soltanto vaneggiato da Giuseppe Graviano) dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della c. d. “tangentopoli” che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali.
Allora, pur volendo evitare qualsiasi enfasi, non può non ritenersi che quella strage avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica,) la storia di questo paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche.
Il “caso”, qui rappresentato dall‘occasionale fallimento dell’attentato unitamente all‘arresto dei fratelli Graviano che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto a Milano, ha mutato il corso delle cose e forse “salvato” il paese da anni sicuramente bui e tristi”.
Delle considerazioni che, per quanto offrano una lucida lettura degli accadimenti di quel periodo storico e politico, non aiutano a ricostruire la dinamica del fatto delittuoso che viene contestato in questo processo, neppure in riferimento alla posizione ritagliata intorno alla figura di Marcello Dell'Utri.
A volere ritenere che la stagione mafioso/stragista sia cessata dopo il fortuito fallimento (per un difetto del telecomando di innesto) dell’attentato allo Stadio Olimpico e dopo l’arresto, intervenuto in quello stesso periodo, dei fratelli Graviano, da tale ricostruzione non è possibile stabilire in quale misura la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e la creazione, anche con l’ausilio di Dell'Utri, di Forza Italia siano stati degli eventi capaci di disinnescare, perlomeno in termini di causa-effetto, la stagione di contrapposizione frontale tra Cosa nostra e lo stato.
Non solo, infatti, va tenuto conto di quanto decantato in linea difensiva, circa gli interventi legislativi assunti con il contributo di Forza Italia, con provvedimenti contro i detenuti per l’imputazione ex art. 416 bis c.p. e perfino in tema di stabilizzazione del regime penitenziario di cui all’art 41 bis presi dai Governi Berlusconi successivi alla prima (e breve) esperienza di governo di questo esponente politico, ma va considerato che l’oggetto dell’imputazione che coinvolge in questo giudizio anche l’appellante Dell'Utri, non è quello riferito all’aver favorito una “pacificazione” nei rapporti tra lo stato e “la mafia”, ma di aver semmai minacciato e condizionato, in concorso con i mafiosi, l’operato del premier Berlusconi dopo l’insediamento del Governo nel maggio del 1994: l’ipotesi è che Silvio Berlusconi in quel particolare momento politico istituzionale sia stato minacciato ventilando la ripresa delle stragi. Senza dimenticare che Giuseppe Graviano, che fino a qualche giorno prima del suo arresto decantava, con Spatuzza, di aver trovato degli “interlocutori seri” e di essersi messo praticamente in mano le sorti dell’intero paese, ha proseguito, fino a quando ha potuto (cioè praticamente fino al suo arresto), la linea di attacco frontale allo stato, tanto che, nonostante quelle interlocuzioni al bar Doney, ha progettato l’attentato all’Olimpico di Roma che, se portato a consumazione, avrebbe falcidiato un numero di vittime, tra Carabinieri in servizio d’ordine e tifosi lì convenuti, perfino superiore ai precedenti attentati degli anni 1992-93.
V’è dunque da ritenere che l’esaurirsi della fase stragista, per quanto condizionata dal fallimento dell’attentato allo Stadio Olimpico, vada attribuita ad una molteplicità di fattori legati anche ai progressivi arresti dei soggetti più sanguinari che avevano seguito la primogenita strategia di Salvatore Riina e dell’ala stragista più intransigente. Una linea non coltivata, perlomeno non con nuove iniziative eclatanti, neppure da Bagarella e Brusca prima dei loro rispettivi arresti (24.06.1995 data dell’arresto di Bagarella; 21.05.1996 data dell’arresto di Brusca) verosimilmente per il mutamento delle condizioni e nell’attesa (o nella speranza) di ottenere le riforme nei termini promessi da Marcello Dell'Utri.
Un esito rispetto al quale non può ritenersi estraneo neppure un certo senso di sfiducia che aleggiava, sempre più forte, tra le fila di Cosa nostra anche per la progressiva presa d’atto che la linea di contrapposizione dura contro lo stato non aveva pagato producendo, semmai, degli effetti perfino opposti in termini di irrigidimento dell’azione repressiva ed antimafia.
Una condizione che ha finito per favorire l’ala mafiosa più moderata che tradizionalmente si rifaceva a Bernardo Provenzano. Quale possa essere stato, poi, il ruolo di Forza Italia cosi come delle altre formazioni politiche dell’epoca in questa opera che può essere letta di “normalizzazione” è compito che spetta agli analisti e non certamente a questa Corte in assenza di un’imputazione che vada oltre i confini (in verità già ampi) individuati nella sentenza di primo grado. Al riguardo va sottolineato che l’imputazione di cui al capo A) contiene una contestazione aperta in Palermo e Roma dal 1992, quasi a voler prospettare un’azione delittuosa perdurante ed appunto priva di margini temporali.
Rispetto a questa eventualità va dato atto della puntuale operazione attuata dalla Corte di Assise di Palermo che ha individuato i limiti anche temporali della condotta di reato ancorandola, come termine ultimo, ai fatti che coinvolgono il primo governo presieduto da Berlusconi e, dunque, fino al dicembre del 1994. Una ricostruzione coerente con gli elementi disponibili e neppure fatta oggetto di impugnazione da alcuno e che ha anche l’indubbio pregio di restituire concretezza ad un’accusa che, diversamente, rischierebbe di risultare imprecisa perfino con prospettive di indefinite ed impalpabili dilatazioni cronologiche.
IL GIUSEPPE GRAVIANO PENSIERO
Tornando alla questione riferita ad un’ipotetica interlocuzione Berlusconi/Graviano con riferimento agli accordi preelettorali del 1994, è opportuno ribadire che questo capitolo probatorio, a prescindere dai suoi limitatissimi esiti, sarebbe comunque destinato a rimanere distinto dalla problematica degli sviluppi in senso ricattatorio/stragista, gli unici davvero capaci di integrare il delitto di cui all’art. 338 c.p.; un’iniziativa di minaccia, quest’ultima, che, secondo la sentenza di primo grado, non è stata neppure coltivata direttamente dal Graviano, per di più a quel punto già in stato di detenzione, ma dalla coppia Bagarella e Brusca con l’ausilio anche di Salvatore Cucuzza, secondo la veicolazione dell’intimidazione affidata a Vittorio Mangano e quindi a Dell'Utri perché la inoltrasse infine al neo Prernier Berlusconi.
Ma se le intercettazioni carcerarie che hanno interessato Giuseppe Graviano consegnano, nei termini detti, strettissimi spunti di riflessione per l’imputazione predetta (con commenti nei quali aleggiava un senso di sfiducia verso l’operato del Governo), non si può ignorare che in una di queste intercettazioni, esattamente quella del 10.04.2016, è riportato un passaggio che, per quanto dal contenuto criptico e controverso, offre conferma di una richiesta che Berlusconi avrebbe formulato a Graviano. Considerato che la questione attiene, come è noto, anche a sviluppi probatori su ipotesi delittuose diverse ed ancora aperte, sebbene in fase di indagini, in questa sede ci si limita ad un breve cenno sempre funzionale alle ricadute di stretto interesse probatorio per la fattispecie contestata al capo A).
Poiché l’argomento è stato meticolosamente trattato con la decisione di primo grado è opportuno muovere dalla motivazione ditale sentenza, nella quale è dato leggere: “Intercettazione del 10 aprile 2016 (passeggio)
E’ l‘unica intercettazione per la quale, come anticipato sopra, v‘è stato un significativo contrasto tra la trascrizione effettuata dal Perito incaricato dalla Corte, condivisa anche dal consulente nominato dal P.M, e quella, invece, effettuata dal consulente della difesa dell‘imputato Dell‘Utri. Il contrasto, in particolare, riguarda due passi un cui si fa il nome di Berlusconi (in uno in modo per lo più completo o comunque intellegibile e nell‘altro con la sola iniziale “B”). Questi i due passi trascritti dal Perito incaricato dalla Corte e condivisi dal consulente del P.M.:
1° “Berlusca... mi ha chiesto ‘sta cortesia... per questo è stata... l’urgenza di riri... comu mai chissu... p ‘a... p‘acchianari? Poi chi successi? (inc. a ore 13:02:30 Graviano sussurra all‘orecchio di Adinolfi) siccomu iddru... l‘elezioni.. Berlusca... (inc.)rnari la Sicilia... Berlu...”;
2° “.. “ma chissu chi.. chi intenzioni avi?” perchè lui non sa... uh... a difficoltà, mi voli fari parlari di tutti cosi di “b “... o voli u suli e a luna ‘mucca”?
Il consulente della difesa dell‘imputato Dell‘Utri ha, invece, così trascritto i due passi che precedono:
1° “Bravissimo... mi ha chiesto ‘sta cortesia... per questo è stata... l’urgenza di di diri comu mai e gli sviluppi.... p‘acchianari. Poi chi successi? (ore 13:02:30 abbassa il tono della voce). (inc.) a ragazza ci vinni (inc)”;
2° ‘‘.. “ma chissu chi... chi intenzioni avi? “perché lui non sa... uh... a difficoltà. Mi voli fari parlari di tutti cosi di mi (fonetico)... o voli u suli e a luna ‘mucca?”.
La Corte ha ascoltato in camera di consiglio la registrazione messa a disposizione dal Perito, la cui scarsa qualità rende effettivamente difficoltoso il riconoscimento delle parole, tanto più quando, come nel caso del secondo passo sopra riportato, la differenza riguarda una sola consonante “B” o “M” pronunziata informa puntata. Ma l’ascolto diretto (effettuato con le sole attrezzature a disposizione della Corte, costituite da un personal computer portatile, dotato di ordinaria scheda audio, ed una cuffia, certamente meno sofisticate e performanti di quelle utilizzate per le attività di perizia) sembra avallare la trascrizione del Perito tenuto conto che è stato possibile percepire con sufficiente chiarezza, per la prima parte della registrazione del primo passo, la parola “Berlusca” e per la seconda parte, invece, pur non essendo riuscita la Corte a percepire le parole “Berlusca” e “Berlu” che risultano incomprensibili, è stata percepita con suffìciente chiarezza la parola “Sicilia” che, conferma, appunto la corrispondente trascrizione del Perito e conduce a disattendere quella diversa del Consulente di parte che riporta parole (“..a ragazza ci vinni.”) che già l’ascolto effettuato come sopra indicato consente di escludere.
Anzi, v’è da dire, che le tracce più “ripulite” messe a disposizione dalla difesa dell‘imputato Dell‘Utri ed acquisite all‘udienza del 11 dicembre 2017 […] ha tolto, poi, alla Corte, più nella sua valutazione inevitabilmente soggettiva, qualsiasi dubbio sulla effettiva pronunzia della parola “Berlusca” laddove sono chiaramente percepibili le vocali “e” ed “u” invece inesistenti nella parola
“bravissimo” ([...]). […] D’altra parte, appare veramente singolare che, su oltre ventuno ore di registrazioni trascritte dal Perito incaricato dalla corte, il consulente della difesa dell‘imputato Dell'Utri non abbia concordato sulle due uniche brevi frasi nelle quali viene espressamente nominato, dal Graviano, Berlusconi in un contesto diverso dai riferimenti al suo Governo o alprocesso Dell‘Utri.
Ciò tenuto conto, peraltro, che vi sono nelle conversazioni del Graviano molti altri riferimenti riconducibili a Berlusconi ed estranei alla stia attività di Governo nei quali il nome del predetto non viene pronunziato e che, pertanto, non è stato possibile per il medesimo consulente della difesa alcuna contestazione.
Ci si intende riferire a quei passi nei quali è possibile, comunque, identificare il soggetto di cui parla Graviano in Berlusconi per l‘indicazione delle visite pubbliche fatte da quest‘ultimo sull‘Etna (notoriamente il 29 ottobre 2002) e in Bielorussia (notoriamente il 30 novembre 2009 negli stessi giorni in cui Graviano era stato chiamato a testimoniare nel processo Dell ‘Utri).
POCA CHIAREZZA E MOLTE IPOTESI
Ciò premesso, deve, d ‘altra parte, osservarsi che ben poco è possibile trarre dalla intercettazione qui in esame, perché caratterizzata, forse ancor più di altre, da una particolare attenzione del Graviano per evitare che le eventuali intercettazioni, che egli sospettava con elevatissima probabilità esservi, potessero consentire l’ascolto da parte di terzi del suo colloquio con Adinolfi.
Se, in questo caso come negli altri, è stato possibile percepire alcuni passi ditale colloquio è, verosimilmente, soltanto perché Graviano ed Adinolfi avevano erroneamente individuato la fonte delle possibili intercettazioni in videocamere collocate ad altri fini e, comunque, diverse dalle attrezzature utilizzate, invece, per le intercettazioni e si tenevano, dunque, più a distanza dalle prime anziché dalle seconde.
[…] Nel prosieguo, quindi, Graviano, per quel che è possibile comprendere, fa riferimento all‘intendimento di Berlusconi di “scendere” in Sicilia, al fatto che in questa regione ancora dominavano i “vecchi” politici, ed alla richiesta che gli aveva fatto Berlusconi per una “bella cosa” […]. Vi sono, poi, alcuni confusi passi della conversazione nei quali Graviano sembra fare cenno da un lato alle discussioni sulla prosecuzione della strategia stragista o in alternativa della ricerca di un accordo ([...]) e, dall‘altro forse alla vicenda della richiesta di scarcerazione di alcuni detenuti tra i quali Bernardo Brusca, padre del “pentito” Giovanni ([…]). Poi, v‘è ancora un riferimento del Graviano alla citazione sua e del fratello Filippo nel processo Dell‘Utri (“[...]”) ed alle conseguenti preoccupazioni suscitate (“...t‘avissi a ricordari... picchì si preoccupava, dice “si chistu pa.. a mia ma... m‘arrestano subito!”. Umbè, ha fatto tutte cose così sottolineando, però, che egli si era avvalso della facoltà di non rispondere [...] e che il fratello Filippo, tenendo testa a coloro che lo interrogavano, aveva difeso “a spada tratta” Dell‘Utri in virtù delle pregresse frequentazioni ancorché da quest‘ultimo dimenticate [...]”).
Da tali riflessioni della Corte di Assise, da assumere con cautela per le difficoltà di comprensione delle parole di Graviano ed anche per la possibilità dello stesso di voler perfino veicolare messaggi all’esterno (nella sostanziale consapevolezza delle intercettazioni carcerarie), si ottiene comunque la conferma di un’istanza (“... mi ha chiesto ‘sta cortesia ) rievocata da Graviano e che aveva coinvolto il “Berlusca” così da lasciare adito alla possibilità di un’interlocuzione con Silvio Berlusconi per di più in riferimento alta vicenda delle elezioni politiche ([...]), sia pure in termini non perfettamente chiari ed intellegibili, perlomeno a giudizio di questa Corte ed in base ai dati disponibili in questo processo.
Orbene, pur in presenza di un inquietante scenario di tal fatta, che ben inteso ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi per gravissime ipotesi di reato, esattamente nelle indagine sui c.d. mandanti occulti delle stragi in continente (da qui la ragione processuale che ha portato, vedi infra, a citare il predetto Berlusconi in qualità di “testimone assistito”, perché indagato in un procedimento connesso sul piano probatorio), va dato atto del fatto che neppure la sentenza di primo grado ha ritenuto che Berlusconi abbia incontrato Graviano Giuseppe, perlomeno non con ricadute che possano assumere una qualche valenza significativa per l’ipotesi di reato di cui all’art. 338, nemmeno in termini di premessa per una sorta di scelta condivisa rispetto alle iniziative assunte in seguito da Bagarella e Brusca in danno del Governo Berlusconi.
In effetti i pochi e frammentari elementi a disposizione, su un capitolo di indagine così estremamente complesso, scivoloso e multiforme, non restituiscono dei dati certi per avvalorare, neppure da questa via, l’ipotesi accusatoria riferita— è il caso di doverlo ricordare ancora una volta — non tanto alla “trattativa” o agli accordi pre elettorali ed agli altri elementi che possano essere stati di contorno all’antecedente causale, bensì alla fattispecie delittuosa di minaccia al Corpo politico dello stato nei termini e nei limiti dell’imputazione riferita in particolare al governo Berlusconi insediatosi nel maggio del 1994.
Senza dire che qualora si ritenesse confermata - per mera ipotesi - la tesi per cui Silvio Berlusconi abbia assunto un qualche ruolo come ideatore oppure sollecitatore delle stragi ed allora la situazione probatoria per il presente processo finirebbe per complicarsi ulteriormente secondo una sorta di eterogenesi dei fini per cui Berlusconi sarebbe al contempo compartecipe del progetto delle stragi ed a sua volta vittima delle stesse, perlomeno nel momento in cui ha assunto l’incarico di governo ricevendo la minaccia di ulteriori atti terroristico/mafiosi.
Causa ed effetto al pari delle complessive azioni, in virtù di questa prospettiva, sarebbero destinate a confondersi irrimediabilmente secondo una logica difficilmente decifrabile che lascia adito ad ipotesi, se non a sospetti, ma non certamente a prove nemmeno in termini di contributi significativamente rilevanti.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Il pesante “precedente” di Dell’Utri, la condanna per concorso esterno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 dicembre 2022
In seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palermitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che — per i motivi più volte evidenziati — è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo segmento della decisione si pone in prosecuzione logica con gli altri ma adesso la questione diviene centrale poiché eventuali minacce recapitate a Berlusconi, a questo punto come rappresentate (anzi come primo rappresentante) del governo da lui presieduto, non sarebbero più qualificabili come prospettive su scenari futuri ed incerti ma varrebbero ad integrare -appunto se dimostrate - il reato aggravato di cui all’art. 338 c.p..
In effetti è stata acquisita prova del fatto che Vittorio Mangano, anche nel periodo successivo all’insediamento del predetto governo, ebbe degli ulteriori contatti con Dell'Utri, nel giugno-luglio 1994 e poi nel dicembre dello stesso anno, ricevendo, di volta in volta, aggiornamenti sulle azioni che il governo (o il partito di Berlusconi) stava portando avanti in linea con l’impegno preso dallo stesso Dell'Utri durante la campagna elettorale da poco conclusa (v. Parte Quarta della sentenza di primo grado, Capitolo 4, paragrafo 4.4).
Tuttavia, per come ha riconosciuto la stessa decisione impugnata, “... non v’è e non può esservi prova diretta sull‘inoltro della minaccia da Dell‘Utri a Berlusconi perché ovviamente soltanto l‘uno o l‘altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui”.
In mancanza della prova diretta la sentenza si è affidata alla prova logica: vi sono, tuttavia, ragioni logico—fattuali che conducono a non dubitare che Dell ‘Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (‘ma, in precedenza, in altri casi, anche da Gaetano Cinà,).
Se, dunque, la prova è logica - o logica fattuale, come definita - occorre procedere con ponderatezza poiché, se il nostro ordinamento consente di pervenire alla condanna sulla scorta di una prova di tal fatta, è altrettanto evidente che in questi casi si imponga un esito immune da alternative basate su un substrato egualmente logico e tale da condurre ad un risultato diverso; con l’ulteriore ed anch’essa basilare precisazione che, in caso di plurime scelte esegetiche razionalmente percorribili, dovrà prevalere la soluzione che conduca all’esito favorevole per gli imputati (in dubbio pro reo).
Come già affermato in precedenza in questa motivazione, la prova logica, come strumento di accertamento dei fatti, si dissolve se le venga meno il supporto della mancanza di plausibili spiegazioni alternative; e in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente è altissimo.
Occorre, pertanto, ripercorrere il ragionamento seguito in primo grado per valutare se si tratti dell’unica interpretazione, dovendo anche aggiungere che non basta la coerenza logica rispetto ad un determinato esito probatorio ma è necessario che tale risultato discenda dagli elementi indiziari, in assenza di alternative coerentemente ed egualmente percorribili.
[…] Alla luce di queste premesse, improntate alla presunzione di non colpevolezza di cui la locuzione “al di là di ogni ragionevole dubbio” costituisce il necessario postulato, occorre approcciarsi alla motivazione di primo grado secondo le coordinate delineate, in specie, nella parte dedicata alla trattazione della posizione dell’imputato Dell'Utri.
IL “CONSOLIDATO RUOLO” DI DELL’UTRI
Ebbene, il primo dei “fatti” a base del giudizio di colpevolezza è stato individuato nel consolidato ruolo di intermediario, tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi di Berlusconi, svolto con continuità da Dell'Utri incontestabilmente (perché definitivamente accertato per effetto delle ricordate sentenze irrevocabili) dimostrato dall’esborso, da parte delle società facenti capo a Berlusconi, di ingenti somme di denaro versate a Cosa nostra.
Sul punto la sentenza muove dalla premessa secondo la quale, come acclarato irrevocabilmente con la condanna per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., “... Dell'Utri, senza l’avallo e l‘autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme per conto di quest‘ultimo recapitate ai mafiosi.
In riferimento alla condotta per la quale Dell'Utri è stato condannato ci si può rifare (per come analogamente ha fatto la decisione di primo grado di questo processo) alla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25 marzo 2013.
Da tale decisione si ricava, invero, che già dalla precedente pronunzia della Corte di Cassazione di annullamento della precedente sentenza della Corte di Appello di Palermo del 29 giugno 2010, era derivato il definitivo accertamento “in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all‘attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza, collaboranti gravitanti all‘interno di cosa nostra di alcuni precisi fatti indicati nei seguenti punti:
“- l‘assunzione - per il tramite del Dell ‘Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra;
- la non gratuità dell‘accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell‘accordo essendosi posto anche come garante del risultato;
- il raggiungimento dell‘accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell ‘Utri che, di quell‘assunzione, è stato l‘artefice grazie anche all‘impegno specifico profuso dal Cinà”.
Tali condotte, sostanzialmente “consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di”cosa nostra” al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l‘associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell‘imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state, quindi, ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all‘imputato di concorso esterno in associazione mafiosa”.
Secondo la sentenza della Corte di Appello del 2013, dunque, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti cospicui da parte di Silvio Berlusconi, essendo “...emerso che l’imputato (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo inprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ‘90.”.
Va anche aggiunto che, secondo quei giudici, la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palenriitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che — per i motivi più volte evidenziati — è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.
Sino al 1992, pertanto, sono stati ravvisati “tutti gli elementi costitutivi del delitto contestato non essendo mai emerso alcun fatto da cui poter desumere un mutamento dell‘elemento psicologico di Dell‘Utri” che investiva “sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, che dopo quasi un ventennio Dell‘Utri ben conosceva, sia il contributo causale recato con il proprio comportamento alla conservazione ed al rafforzamento dell‘associazione mafiosa con la quale consapevolmente e volontariamente l’imputato interagiva dal 1974”.
Ed è ugualmente utile puntualizzare in questa sede che, ancora secondo quella sentenza della Corte di Appello del 2013, la “...peculiarità del comportamento di Dell‘Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell‘intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo” e ciò non per “t’avvisare relazioni e contiguità sicurweunente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all‘area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione”, ma per “valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all‘associazione mafiosa, ha voluto consapevohnente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi. rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un ‘attività di sostegno all‘associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.
I PERIODI “COMPROMESSI”
A ciò va aggiunto che la sentenza della Corte di Cassazione del 9 marzo 2012 (di annullamento parzialmente e con rinvio) ha provveduto a suddividere il periodo rilevante per l’imputazione di concorso esterno (che il giudice di seconde cure aveva fissato nell’arco temporale 1974 — 1992 anziché tino al 1998, come sostenuto dal Tribunale) in tre diversi sottoperiodi: un primo periodo dal 1974 al 1977; un secondo periodo dal 1978 al 1982; un terzo periodo dal 1983 al 1992.
A proposito del primo indicato sottoperiodo, è stata confermata la sentenza impugnata nella parte in cui quest’ultima aveva ritenuto dimostrato che Dell'Utri, nel 1974, avesse favorito la stipulazione di un accordo tra Silvio Berlusconi e gli allora vertici di Cosa nostra — accordo in forza del quale Berlusconi avrebbe versato cospicue somme di denaro in cambio di protezione per sé e la propria famiglia — e che, nei tre anni successivi, si fosse occupato di garantire l’esecuzione di tale accordo, provvedendo personalmente a consegnare il denaro di Berlusconi a esponenti della associazione mafiosa.
Infine, con la già citata sentenza della Cassazione del 9 maggio 2014, che ha reso definitiva la condanna di Marcello Dell'Utri alla pena di anni sette di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato affermato che anche nell’ultimo periodo, coincidente con il decennio 1983-1992, Dell'Utri aveva mantenuto il dolo specifico e diretto del concorrente esterno dal momento che aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da Cosa nostra sia l’efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale in particolare assicurando una protezione alle attività imprenditoriali del Berlusconi.
Tuttavia tutti questi elementi, che pure valgono a delineare i conclamati rapporti di Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa, non possono essere in questa sede trasfusi sic et simpliciter per asseverare la consumazione della minaccia a Como politico dello stato rappresentato dal governo di cui si è detto e ciò, non solo perché la condanna irrevocabile a carico di Dell'Utri è limitata ai fatti commessi fino al 1992 (argomento sul quale e tenacemente si sono spese le difese), ma soprattutto perché quella condanna ha riguardato il concorso esterno nell’associazione mafiosa, ovvero un reato che come noto non implica l’adesione al sodalizio e l’affectio societatis. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I pagamenti eccellenti che facevano contento Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 26 dicembre 2022
Malgrado emerga che l’imprenditore Berlusconi fosse soggetto ai pagamenti in epoca anche successiva al maggio del 1994, questo fatto non prova, di per sé, che vi sia stata un’interlocuzione tra Dell'Utri e Berlusconi sulla minaccia stragista che Cosa nostra rivolgeva al governo della Repubblica per assicurarsi il rispetto degli accordi preelettoral i intrecciati con Dell'Utri
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Se, dunque, la precedente condanna irrevocabile (per di più per fatti fino al 1992) non costituisce un viatico sufficiente per dimostrare che il predetto Dell'Utri, che non è stato partecipe dell’organizzazione, si sia senz’altro incontrato con Berlusconi nel 1994 per recapitargli la minaccia mafiosa capace di integrare il reato di cui all’art. 338 c.p., non risulta neppure risolutivo l’ulteriore elemento, parimenti deduttivo, teso a valorizzare certe acquisizioni probatorie non esistenti all’epoca del primo processo a carico di Dell'Utri.
Il riferimento è alle emergenze che consentono di riscontrare le propalazioni di Giusto Di Natale ricavabili dalle intercettazioni delle parole di Salvatore Riina nel 2013 (v. Parte Quarta, Capitolo 2, paragrafo 2.13.1 della sentenza di primo grado) ed essenzialmente dirette a comprovare che i pagamenti delle società di Berlusconi siano proseguiti almeno fino al dicembre del 1994.
Anche tale acquisizione, per quanto di indubbia rilevanza (se si vuole: “di straordinaria rilevanza”), possiede tuttavia un carattere circoscritto ai fini di interesse, ossia per dimostrare che Berlusconi abbia davvero ricevuto (subendola) la minaccia stragista tramite Dell'Utri a completamento dei canale di comunicazione Mangano/Dell'Utri e, appunto, Dell'Utri/Berlusconi.
Questa Corte non intende (tutt’altro) sottovalutare il significato delle captazioni delle esternazioni di Riina durante la sua detenzione, delle dichiarazioni capaci di confermare quanto riferito al collaboratore Di Natale circa il pagamento di 250 milioni di lire da annotare nel “libro mastro” per le antenne televisive delle società di Berlusconi - un versamento da registrare sotto il nome “u sirpiente”, con riferimento al simbolo del gruppo Fininvest ovvero dell’ancora più iconico simbolo di “Canale 5”, installate sul Monte Pellegrino a Palermo:
“Di Natale: E in questo caso mi sto ricordando che in una di queste annotazioni una volta venne il Guastella, non mi portò il denaro, ma mi disse di annotare duecento cinquanta milioni di lire, dice: scrivici u sirpiente, dice, che queste sono le antenne televisive di Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino:
P.m Del Bene: - E u serpente stava per cosa?:
Di Natale: - Il biscione, insomma, volgarmente il biscione che c’era nella pubblicità di Mediaset, invece di scrivere biscione un ha detto scrivi u sirpiente. in siciliano, per capire che si trattava delle antenne televisive di Monte Pellegrino”.
Ma è proprio quanto riferito dal Riina che porta a ritenere che questi pagamenti prescindessero da un’attività di intermediazione diretta da parte di Dell'Utri. Tanto meno un’interlocuzione tale da richiedere dei dialoghi con Berlusconi, in quel momento impegnato nel suo incarico di neo Presidente del Consiglio.
Occorre accennare al fatto che il racconto del collaboratore Di Natale era stato originariamente ritenuto “incerto e confuso” tanto da finire per essere disatteso su un piano probatorio, di modo che i pagamenti da parte di Silvio Berlusconi a Cosa nostra erano stati ritenuti provati soltanto fino al 1992, epoca alla quale, pertanto, era stata ancorata la conclusione della condotta criminosa contestata al predetto Dell'Utri, definitivamente condannato, difatti, per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. commesso sino al 1992.
LE CONFIDENZE DI ZIO TOTÒ IN CARCERE
Nel rispetto di questo giudicato, va tuttavia considerato che nel presente processo, per un reato differente da quello allora ascritto a Dell'Utri, sono state acquisite le intercettazioni dei colloqui effettuati nel 2013 da Salvatore Riina con un altro detenuto, in particolare Lorusso Alberto. Più esattamente, durante il colloquio registrato il 22 agosto 2013, Riina raccontava a questo suo interlocutore che Berlusconi versava la somma di duecentocinquanta milioni: […].
Si tratta dello stesso importo, di 250 milioni di lire esattamente, che è stato fatto annotare a Di Natale Giusto nel “libro mastro” nel 1994 e se viene così riscontrato in modo puntuale quanto riferito dal predetto Di Natale (il quale, per di più, indicando proprio quella somma si era distinto rispetto a quanto era sino ad allora noto, per averlo riferito, ad esempio, Cancemi con dichiarazioni ampiamente riportate sulla stampa, circa dei pagamenti di un importo minore e pari a 200 milioni di lire), tuttavia da tale prova sopravvenuta (almeno rispetto al giudicato formatisi per il Dell'Utri) risulta che i pagamenti fossero inseriti in un percorso consolidato, come affermato a chiare lettere dallo stesso Riina: “... ogni sei misi... ducentucinquanta!”.
Unendo questi dati può allora ritenersi che, almeno fino al 1994, Cosa nostra”ricevette effettivamente la somma di lire 250 milioni per le “antenne” a Palermo dalle”società televisive riferibili a Berlusconi, secondo una dinamica tanto consolidata che Salvatore Riina, conversando con il suo compagno di detenzione, si compiaceva di tale periodicità semestrale per dei soldi che, a suo modo di dire, spettavano a Cosa nostra (“... Soddi chi spittavanu a niatri...”).
Ciò posto non è invece certo, come ritenuto con la sentenza di primo grado, se sino alla predetta data (dicembre 1994) Dell'Utri, che faceva da intermediario con “cosa nostra” per tali pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle o farle versare, appunto, a “cosa nostra “; così come non può giungersi all’ulteriore conclusione per cui v’è la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994,) nel quale incontrava Vittoriio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo.
Escluso, infatti, che Dell'Utri si occupasse materialmente, ogni sei mesi, del pagamento di una così esosa somma (pari a 250 milioni di lire) o che si intermediasse di volta in volta con Berlusconi perché tale versamento continuasse con quella cadenza, pare decisamente più credibile che questo pagamento, come del resto inconsapevolmente ammesso dal Riinq durante il suo dialogo intercettato, avvenisse in base ad un progetto estorsivo prestabilito che non necessitava di successive interlocuzioni, tanto meno da parte di Dell'Utri con Berlusconi.
Al più v’è da ritenere che delle eventuali rimodulazioni quanto ai tempi, all’importo o ad ipotetiche altre problematiche dei pagamenti, di cui tuttavia non v’è sentore, queste si avrebbero potuto meritare un nuovo intervento di Dell'Utri per mettere a punto l’evoluzione del rapporto estorsivo che, diversamente, era instradato su binari prestabiliti tali da non comportare un’attività ulteriore del predetto imputato quale mediatore tra Cosa nostra e Berlusconi.
Senza dimenticare che un conto erano i rapporti che Dell'Utri ha intessuto in riferimento alle questioni del gruppo societario riferibile a Berlusconi e legate anche al pagamento delle tangenti mafiose e altra, diversa, era la questione della pressione dell’organizzazione mafiosa tale da integrare il reato aggravato di cui all’art. 338 c.p. nei confronti di Berlusconi quale Presidente del Consiglio e dunque di rappresentante del governo della Repubblica.
NON BASTANO LOGICA E IPOTESI
Malgrado emerga che l’imprenditore Berlusconi, come desumibile dalla menzionata intercettazione del Riina e ben prima per quanto riferito dal Di Natale, fosse soggetto ai pagamenti in epoca anche successiva al maggio del 1994, questo fatto non prova, di per sé, che vi sia stata un’interlocuzione sul tema tra Dell'Utri e Berlusconi. Tanto meno si può ritenere, sempre secondo un criterio ulteriormente inferenziale che si affidi all’alta probabilità logica, che nel contesto di questi ipotetici dialoghi sia stato inserito anche l’argomento della minaccia stragista che Cosa nostra rivolgeva al governo della Repubblica per assicurarsi il rispetto degli accordi preelettoral i intrecciati con Dell'Utri.
Se, dunque, manca la prova di questo dialogo sulle tangenti mafiose così come dell’interlocuzione ulteriore, sempre tra Dell'Utri e Berlusconi, anche sulle problematiche relative alle iniziative legislative da incanalare verso un certo percorso, va detto che un ulteriore elemento di “conforto” (così definito dalla sentenza impugnata) alla conclusione che ha portato a ritenere che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi delle sollecitazioni mafiose veicolategli da Mangano, è stato tratto dal primo incontro, collocabile in questa fase, tra Mangano e Dell'Utri, ossia quello del giugno-luglio 1994, di cui ha riferito il collaboratore di giustizia Cucuzza e per il quale sono stati acquisiti per la prima volta in questo processo eccezionali riscontri esterni, alcuni dei quali anche di natura individualizzante nei confronti di Dell'Utri ...(così la sentenza di primo grado).
Vengono in rilievo quelle anticipazioni che Vittorio Mangano ha raccolto da Dell'Utri, riferendone il contenuto a Cucuzza, circa alcuni interventi legislativi che si ponevano in linea con i desiderata di Cosa nostra.
Allo stesso modo, quanto all’incontro del dicembre del 1994, si è fatto leva sulle anticipazioni normative. questa volta imputabili a ulteriori iniziative del partito capeggiato da Berlusconi, anch’esse ignote all’opinione pubblica ma anche queste in linea con le aspettative dell’associazione mafiosa.
Riservando di approfondire tali argomenti nel prosieguo, va anticipato che questa Corte condivide solo in parte il ragionamento tratteggiato dalla sentenza ed esattamente soltanto nella misura in cui da tali indici fattuali si può ottenere conferma che anche in questo periodo (cioè dopo che il governo Berlusconi si era insediato) proseguirono gli incontri tra Mangano e Dell'Utri. Viceversa, da questi stessi dati, non è possibile trarre una conferma ulteriore ed altrettanto sicura circa il fatto che del contenuto ditali incontri sia stato messo al corrente anche Silvio Berlusconi.
Permangono, infatti, persuasivi elementi logico razionali per ritenere che siffatte iniziative, che pure si collocarono nel solco della condotta delittuosa in esame, voluta ed avviata in specie da Bagarella e Brusca, non abbiano raggiunto - almeno di tale esito non vi è certezza probatoria - la parte offesa, individuata nel governo della Repubblica allora in carica, e, più esattamente la persona di Berlusconi, quale soggetto di vertice ditale compagine governativa.
In questo senso v’è da ritenere che la condotta realizza da Vittorio Mangano su input degli altri soggetti mafiosi, tra cui Cucuzza (ormai deceduto al pari dello stesso Mangano), Bagarella e Brusca, tutti partecipi ditale progetto criminoso, si sia arrestata, in specie per i predetti Bagarella e Brusca, imputati in questo processo, alla fase del tentativo ai sensi degli am. 56 e 338 c.p..
Ma prima di giungere a questa conclusione è bene muovere da ciò che la sentenza di primo grado ha illustrato per trarre conferma degli ultimi incontri di Mangano con Dell'Utri anche a seguito della nomina del primo governo Berlusconi; un argomento che verrà tuttavia affrontato dopo aver esplorato, nel paragrafo che segue, la parallela e preliminare questione dei limiti del giudicato formatisi a carico di Marcello Dell'Utri.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’assoluzione irrevocabile di Dell’Utri per “i fatti” dopo il 1992. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 dicembre 2022
Marcello Dell’Utri è già stato giudicato “per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente dell’inondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In relazione ai fatti di interesse assumono specifico rilievo le dichiarazioni di Cucuzza Salvatore ovvero di un collaboratore di giustizia la cui attendibilità è stata criticata e posta in discussione dalle difese, in specie da quella dell’appellante Dell'Utri.
Richiamando anche la ratio del giudicato (secondo una lettura che si ponga a favore dell’imputato) è stato sottolineato il fatto che gli incontri tra Mangano e Dell'Utri dopo l’insediamento del governo Berlusconi, di cui ha riferito appunto il Cucuzza, sono stati ritenuti insussistenti con la sentenza irrevocabile intervenuta per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., resa nel processo svolto a carico di Dell'Utri, di modo che, con la sentenza di primo grado di questo processo, sarebbe stata trascurata la dipendenza logica assoluta tra l’esistenza di quegli incontri e la responsabilità del Dell'Utri quale propalatore della minaccia ai sensi dell’ art. 338 c.p..
In buona sostanza la difesa ha eccepito un’incompatibilità logico/giuridica tra i fatti posti a fondamento della decisione impugnata e quelli accertarti con sentenza divenuta irrevocabile. In ogni modo è stata contestata la violazione dell’mt. 238-bis c.p.p. E l’assenza di motivazione in ordine alla portata probatoria della citata sentenza.
Nell’atto di appello Dell'Utri si è censurato il fatto che sarebbe intervenuta una “sorta di inammissibile revisione contra reo, camuffata sotto le spoglie della “libera valutazione” della sentenza irrevocabile ai sensi dell ‘art. 238 bis c.p.p. “e, sempre al riguardo, è stato posto in evidenza il fatto che, una volta acquisita una sentenza irrevocabile, il giudice non possa decidere di non tenerne conto o di ignorarla, così rischiando di ricostruire i fatti in maniera del tutto inconciliabile con quelli già irrevocabilmente accertati.
Rievocando il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., per come elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, si è fatto riferimento all’onere di motivazione nonché all’obbligo del giudice di tenere conto della sentenza irrevocabile nella ricostruzione dei fatti per evitare il contrasto tra giudicati e prevenire la revisione”.
In altre parole il giudice di prime cure, per affermare la responsabilità del Dell'Utri per concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello stato, avrebbe dovuto individuare fatti ulteriori, diversi e naturalisticamente compatibili rispetto a quelli già ritenuti insussistenti con il giudicato; solo così -si sostiene sempre nel gravame - i fatti a fondamento della sentenza di condanna in primo grado non sarebbero entrati in contraddizione con quelli accertati come insussistenti nella pronuncia irrevocabile.
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO (SUI FATTI DOPO IL 1992)
Quanto ai “riscontri”, che secondo la Corte di Assise varrebbero ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., sono riferiti alla verifica della “Attendibilità delle dichiarazioni di Salvatore Cucuzza” in riferimento sempre a “Gli incontri di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri successivi all’insediamento del governo Berlusconi”. Ebbene nel menzionato atto di appello è stato evidenziato con forza che tali “riscontri” erano stati tutti già esplorati nella sentenza di assoluzione per il concorso nel reato associativo per i fatti collocabili dopo il 1992:
1) il “decreto Biondi” e la “piccola modifica” alla disciplina della custodia cautelare in carcere e la testimonianza di Roberto Maroni;
2) il lancio Ansa del 20 dicembre 1994;
3) la convergenza delle dichiarazioni di Cucuzza con le dichiarazioni di Giusto Di Natale.
Si sostiene, pertanto, che la decisione di primo grado abbia violato la ratio e il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., ignorando la sentenza irrevocabile acquisita in atti, di modo che, per conseguenza, tutta la parte della motivazione relativa ai presunti incontri tra Mangano e Dell'Utri finirebbe per essere viziata da una violazione di una norma processuale e da una assoluta carenza argomentativa in ordine alla portata probatoria della sentenza irrevocabile della Corte di Appello di Palermo del giugno 2010, n. 2265.
Rispetto a tali censure, così come alle altre di analogo contenuto articolate dalla difesa, è necessario replicare escludendo la sussistenza del bis in idem; per il semplice fatto che diversi sono i reati contestati a Dell'Utri in riferimento a condotte ontologicamente differenti: quella riferita al reato di concorso nell’associazione mafiosa, provata fino alle condotte contestate come commesse antecedentemente al 1992 e non provata per quelle successive al 1992; quella di questo processo relativa all’inoltro della minaccia stragista “... favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del governo”.
La tematica è stata già affrontata in questa motivazione a proposito delle questioni preliminari ma, al fine di ulteriormente chiarire il punto, è bene rinviare anche al condivisibile percorso tracciato con la decisione di primo grado: occorre, innanzitutto, ribadire che non è l’identità delle fonti probatorie del processo già definito con quelle del processo qui in esame (identità che, peraltro. Come si è visto, non v’è essendosene aggiunte altre decisive in questo processo,) che può dare luogo all’identità del fatto richiesta dall‘ar. 649 c.p.p. per l’insorgere del divieto di un secondo giudizio. Si è già ricordato, invero, che “non hanno rilevanza ed efficacia, ai fini della preclusione ex art. 649 c.p., l’identità delle fonti probatorie e l’unicità della condotta caratterizzante la fattispecie del concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che le medesime fonti probatorie possono essere utilizzate per dimostrare l’esistenza di un ulteriore illecito che risulti essere stato commesso con la medesima azione con la quale è stato integrato quello già giudicato” (v. Cass. 21 marzo 2013 n. 18376).
I FATTI GIÀ CONTESTATI (E GIUDICATI) ALL’EX SENATORE DI FORZA ITALIA
[…] Entrando, allora, nel merito della questione deve rilevarsi che Marcello Dell‘Utri è stato già giudicato per il reato previsto dagli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. “per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa nostra” nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del inondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima”. E così ad esempio:
1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l‘associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;
3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.
Così rafforzando la potenzialità criminale dell‘organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell‘Utri a porre in essere “in varie forme e modi, anche mediati condotte volte ad influenzare — a vantaggio della associazione per delinquere — individui operanti nel inondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art 416 bis c.p, trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziarie, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi” (v. sentenze in atti).
Ma per comprendere meglio, al di là della necessariamente più generica formulazione del capo di imputazione, quali furono gli episodi specifici che furono oggetto del precedente processo e diedero luogo alla iniziale condanna pronunziata dal Tribunale (poi in parte riformata) può farsi riferimento alla elencazione contenuta nella prima sentenza della Corte di Appello che così li descrive:
- la “posizione assunta da Marcello Dell‘Utri nei confronti di esponenti di cosa nostra”, ai contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), al ruolo ricoperto dallo stesso nell‘attività di costante mediazione, con il coordinamento di Gaetano Cinà, tra quel sodalizio criminoso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest;
- la “funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, ad operandosi per l‘assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (“fattore” o “soprastante’) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Girolamo Teresi, all‘epoca dite degli “uomini d‘onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo”;
- gli ulteriori rapporti dell‘imputato con ‘‘cosa nostra”, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Gaetano Cinà, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell‘Utri aveva continuato l‘amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell‘importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che “cosa nostra “percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall‘azienda milanese facente capo a Silvio Berhisconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l‘organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario” v. sentenza già sopra citata).
UN REATO ANCORA CONTESTABILE
Nessun cenno, dunque, né nel capo di imputazione, né nella descrizione degli episodi in giudizio, alla minaccia rivolta al governo presieduto da Silvio Berlusconi o anche soltanto — ed è ciò che più rileva — ad un ruolo di intermediario svolto da Dell‘Utri tra cosa nostra “e Silvio Berlusconi nella sua funzione di Capo del governo destinatario di una minaccia.
Ma a prescindere da ciò, va, altresì, osservato che, al più, tra il reato già giudicato e quello qui in giudizio v’è il rapporto che può sussistere tra reato associativo e reato-fine della condotta associativa. Ora, il principio del ne bis in idem impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato. ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutano liberamente ai fini della prova di un diverso reato.
Così, ad esempio, “nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis co.pen. e di separato procedimento per i reati fine realizzati, non sussiste la preclusione del “ne bis in idem” ricorrendo l’ipotesi del concorso materiale di reati, perché per il primo la condotta necessaria e sufficiente sta nella prestazione della propria adesione alla organizzazione già costituita, mentre per i secondi la condotta necessaria è quella tipica, fissata nella fattispecie criminosa” (v. Cass. 20 novembre 2014 n. 52645, Montalbano).
Tale ultimo principio, peraltro, è stato affermato dalla Suprema Corte proprio in una ipotesi di concorso esterno all‘associazione mafiosa precisando che “il contributo arrecato al rafforzamento del sodalizio criminoso dal concorrente esterno può essere certamente realizzato attraverso la realizzazione di un delitto fine dell’associazione, ma ciò, altrettanto certamente, non può comportare che il soggetto non debba anche rispondere del suddetto delitto fine” (v. sentenza citata).
[…] Ciò detto, se, come sembra non possa dubitarsi, sarebbe stato possibile contestare in un unico processo tanto il reato di concorso esterno nell‘associazione mafiosa, quanto il reato di concorso nella minaccia rivolta dai vertici di “cosa nostra” nei confronti del governo Berlusconi, non può esservi l‘idem factum nel senso impeditivo cx art. 649 c.p.p. ed il solo mancato coordinamento nel tempo dei due diversi processi nei quali, invece, si è proceduto non può di per sé determinare l’insorgenza del divieto del secondo giudizio, dal momento che, come già osservato per l‘analoga posizione dell‘imputato Mori, nessuna norma, neppure costituzionale e sovranazionale, impone che si proceda per tutti i reati nello stesso processo, nè tanto meno richiede la contemporaneità dei diversi processi seppur eventualmente connessi, che, per fattori occasionali, possono ciascuno avere tempi non conciliabili nella definizione delle diverse vicende procedimentali.
[…] D‘altra parte, anche in concreto, la diversità del fatto emerge dallo stesso oggetto del pregresso processo che, per la parte che qui riguarda, è consistito, come asserito e, quindi, riconosciuto dalla medesima difesa dell‘imputato Dell‘Utri, che, infatti sul punto, ha molto e lungamente insistito (v. trascrizione della discussione all‘udienza del 23 marzo 2018), nel c.d. “patto politico-mafioso” che, secondo la contestazione, era intervenuto nella fase antecedente alle elezioni politiche del marzo 1994 (v. sentenza della prima Corte di Appello sopra citata che ha affermato l‘insussistenza di tale “patto politico-mafioso” integrante la condotta di concorso eventuale nel reato di cui all‘art. 416 bis c.p. ed ha, pertanto, assolto l’imputato Dell‘Utri dalle condotte contestate come commesse successivamente al 1992).
Ora, tale “fatto” così individuato ed indicato dalla stessa difesa dell‘imputato Dell‘Utri, non coincide, neppure temporalmente, con l‘oggetto dei presente processo consistente, invece, nella minaccia al governo consumatasi dopo l‘insediamento di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio nel maggio 1994 a mezzo di un ‘intermediazione di Dell‘Utri, che non è legata in alcun modo, neppure concettualmente. al “patto politico-mafioso” (negato, come detto, dalla sentenza definitiva di assoluzione), nè da questo necessariamente dipendente, ma piuttosto discende dall‘analoga intermediazione che era stata già utilizzata dai mafiosi anche ben antecedentemente al detto ipotizzato “patto politico-mafioso” e per ragioni del tutto diverse e distinte (v. sentenze irrevocabili in atti prima richiamate). Deve, pertanto, escludersi che nella fattispecie sia ravvisabile l‘ipotesi del divieto di bis in idem, sancito dall‘art. 649 c.p.
Se, dunque, non residuano dubbi sulla piena e legittima procedibilità dell’azione penale nei confronti di Dell'Utri Marcello (quanto al Bagarella l’analoga questione ex art. 649 c.p.p. è stata anche questa già in precedenza affrontata e risolta), occorre adesso entrare nel merito delle dichiarazioni del Cucuzza e dei relativi riscontri, ossia su degli elementi probatori che possono essere rivalutati in questa sede a prescindere dalle valutazioni già espresse nel precedente procedimento penale definito nei confronti di Dell'Utri.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quegli incontri voluti da Vittorio Mangano per ricordare promesse e patti. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO il 28 dicembre 2022
Rimane un ragionevole dubbio sul fatto che Dell'Utri abbia effettivamente recapitato il “messaggio stragista” a Berlusconi, sia prima sia dopo l’insediamento del governo presieduto da quest’ultimo, non potendosi al riguardo trarre risolutivi elementi di conferma né dall’argomento “logico”, né dal fatto che Cosa nostra continuava a ricevere, almeno fino a dicembre del 1994, una lauta e periodica tangente mafiosa per i ripetitori televisivi di Mediaset istallati sul Monte Pellegrino a Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Alla stregua delle osservazioni fin qui articolate questa Corte non condivide le conclusioni secondo cui si disporrebbe della prova per ritenere che Marcello Dell'Utri “...abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino a Berlusconi quando questi era già presidente del Consiglio” né, tanto meno, che il medesimo Dell'Utri abbia posto in essere “... condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi.
Una dimostrazione che difetta in termini assoluti relativamente a quest’ultimo aspetto della vicenda, poiché non risulta che il predetto appellante abbia provocato o rafforzato alcun proposito delittuoso di questo tipo, avendosi semmai prova di un suo coinvolgimento nella fase dell’accordo politico/mafioso nei termini sopraddetti nei quali il reato di cui alI’art. 338 c.p. non era neppure configurabile (prima dell’insediamento del Governo Berlusconi). Una dimostrazione che difetta in termini di certezza probatoria (“oltre ogni ragionevole dubbio”) quanto all’altro aspetto, perché non vi è prova certa che Dell'Utri abbia realmente veicolato una minaccia stragista a Silvio Berlusconi in qualità di presidente del Consiglio sostanzialmente per chiedere l’adempimento delle promesse per le quali lo stesso Dell'Utri si era impegnato e speso in campagna elettorale.
COSA DICEVA LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Nel capitolo “4.5 Conclusioni sulla rinnovazione della minaccia nei confronti del governo Berlusconi” il giudice di prime cure, riprendendo la tematica dell’accordo pre elettorale, ne ha prospettato la esistenza scrivendo che “...ben prima dell‘insediamento del nuovo Governo Berlusconi ed, anzi, quando neppure, ovviamente, fosse certo che il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi con l‘apporto determinante di Marcello Dell'Utri sarebbe riuscito a prevalere nelle elezioni politiche del 1994 e ad ottenere l’incarico di formare il nuovo Governo (superando le perplessità del capo dello Stato Scalfaro quali emergono anche dalla lettura dell’agenda del 1994 del presidente del Consiglio uscente Ciaimpi, Dell‘Utri, attraverso Vittorio Mangano, al fine di accaparrare in favore di Forza Italia anche i voti che in Sicilia “cosa nostra” allora ancora in misura non piccola controllava, aveva dato assicurazioni — rectius, aveva promesso — che l‘eventuale nuovo Governo presieduto da Berlusconi (v. dich. La Marca: “se saliva Berlusconi”) avrebbe adottato alcuni provvedimenti oggetto di risalenti richieste dei mafiosi”.
Tale promessa, proprio perché finalizzata ad acquisire il consenso elettorale controllato da “cosa nostra “che in quel momento poteva anche apparire determinante in un ‘importante Regione qual è la Sicilia, non può, però, ritenersi frutto della minaccia che pure Mangano. non potendo di certo sottrarsi all’incarico espressamente affidatogli da Bagarella e Brusca, ebbe a recapitare al Dell'Utri (v. dich. Giovanni Brusca già riportate: “...se non si mette a disposizione noi continueremo con la linea stragista...”), dal momento che, per un verso, non risulta — non avendone mai alcun collaborante riferito — che siano state rivolte in quel periodo minacce di carattere personale a Dell‘Utri o a Berlusconi e, per altro verso, il pericolo di nuove stragi in quel momento riguardava altro Governo ed, anzi, avrebbe potuto seminai favorire l’ascesa di nuove forze politiche se si fosse diffusa l‘opinione che il Governo allora in carica non fosse in grado di farvi fronte.
Come anticipato questo ragionamento viene condiviso tuttavia limitatamente alla parte dell’accordo preelettorale o del patto politico/mafioso raggiunto da e con Dell'Utri, mentre rimane incerto (quindi indimostrato) stabilire se già in questa fase, riferita sempre all’antefatto quale mero antecedente (non punibile ex art. 338 c.p. in assenza dell’insediamento del Governo di che trattasi), Berlusconi sapesse dell’accordo preelettorale (o della semplice promessa elettorale, come pure definita) sottoposto alla minaccia preventiva e doppiamente condizionata di cui si è abbondantemente detto: se quella formazione politica avesse vinto le elezioni; se la stessa, una volta assunti incarichi di governo, non avesse rispettato le interlocuzioni avute da Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa.
Ed è essenziale ripetere che per le valutazioni di interesse non basterebbe aver conferma del fatto, per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole, che Berlusconi, già sceso in politica ma ancora privo di incarichi di governo, fosse al corrente dell’accordo diretto a favorire la “sua” formazione politica con i voti pilotati da Cosa nostra (che per di più provenivano sia dall’ala stragista sia dall’ala che alla prima si contrapponeva in seno a Cosa nostra), ma sarebbe necessario dimostrare anche che questo leader politico sapesse, in questa fase, che tale appoggio elettorale nasceva viziato dal fatto che, per volere di Bagarella e Brusca, se non fossero stati rispettati certi accordi preelettorali sarebbero riprese (o continuate) le stragi sulla falsariga di quelle del terribile biennio 1992/93.
Come corollario a tale premessa dovrebbe ritenersi che, una volta insediatosi a capo del Governo, sarebbe stata recapitata la minaccia (anche sotto forma di ulteriore sollecitazione) sempre a Berlusconi ma questa volta in termini cogenti e tali da portare a consumazione il reato in danno del Governo della Repubblica, semplicemente chiedendo quali fossero le iniziative assunte e/o che si intendevano assumere per onorare gli “impegni”.
UN RAGIONEVOLE DUBBIO (MA MOLTO RESIDUO)
Si è visto anche come residui un ragionevole dubbio sul fatto che Dell'Utri abbia effettivamente recapitato il “messaggio stragista” a Berlusconi, sia prima sia dopo l’insediamento del governo presieduto da quest’ultimo, non potendosi al riguardo trarre risolutivi elementi di conferma né dall’argomento “logico”, secondo cui Dell'Utri, per quanto già irrevocabilmente condannato per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., dovesse necessariamente affrontare queste tematiche con Berlusconi, né dal fatto che Cosa nostra continuava a ricevere, almeno fino a dicembre del 1994, una lauta e periodica tangente mafiosa per i ripetitori televisivi di Mediaset istallati sul Monte Pellegrino a Palermo.
Ciò posto, è il momento di approfondire il significato dei due incontri, il primo tra giugno e luglio 1994 e il secondo nel dicembre del medesimo anno, di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri voluti dal Mangano sostanzialmente per sollecitare l’adempimento degli impegni presi in campagna elettorale e nei quali, sempre il Mangano, ha ricevuto delle anticipazioni sui provvedimenti che erano prossimi al varo o quantomeno in avanzata fase di elaborazione normativa.
E non si tratta soltanto di capire che forma e che grado di esteriorizzazione abbiano avuto simili “sollecitazioni”, per soppesarne la valenza intimidatoria (argomento sul quale pure ci si interrogherà), ma ancor prima di verificare se il presidente Berlusconi si stato destinatario ditali comunicazioni.
Per affrontare questa tematica appare opportuno formulare alcune considerazioni preliminari che ricalcano quelle stesse considerazioni preliminari da cui muove la sentenza impugnata:
“Invero, occorre, innanzitutto, ancora sottolineare che, come si è visto nella parte terza della sentenza, capitolo 12, paragrafo 12.3, la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l‘attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l‘effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione.
Ne consegue che,[...] per la consumazione del reato non occorre che il predetto effetto si verifichi in concreto, ma soltanto che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo, essendo il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
Tale precisazione è necessaria per puntualizzare che non occorre in questa sede accertare che gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa.
Anzi, vi sono fondate ragioni per ritenere — e in ciò può concordarsi con la difesa dell‘imputato Dell ‘Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata) — che le dette iniziative non siano state effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sin dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per asserita vocazione ‘garantista “, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.
L’OPPOSIZIONE DI ALCUNI (FUTURI) MINISTRI AL 41 BIS
Si pensi in proposito, alla opposizione al regime del 41 bis già nel 1992 da parte di alcuni esponenti politici e dell‘avvocatura poi confluiti in Forza Italia e ad alcune iniziative ampiamente pubblicizzare, di cui pure si è dato conto nel presente dibattimento, quali le visite in carcere, viste con favore anche dai mafiosi, effettuate nel settembre 1993 degli on. Maiolo e Biondi (v. testimonianza Bonferraro: “[...]”), poi, entrambi, appunto, inseriti nelle liste di Forza Italia e successivamente anche divenuti la prima presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati ed il secondo ministro della Giustizia nel governo Berlusconi.
Si vuole dire, in altre parole, che i tentativi da parte del governo Berlusconi di adottare provvedimenti attesi (anche) da “cosa nostra” e, poi, l’effettiva adozione di taluni di essi, ai fini che qui rilevano, non devono essere necessariamente letti come legati da un rapporto di causa ed effetto con una minaccia mafiosa, ben potendo anche ricondursi alla attuazione di un programma ampiamente prevedibile (e previsto dagli stessi mafiosi), e, quindi, come mantenimento di impegni volontariamente assunti durante la campagna elettorale (ànche da parte di Dell ‘Utri nei confronti dei mafiosi) per acquisire il consenso e i voti anche di quei non piccoli settori della popolazione che vedevano sfavorevolmente la contrapposizione frontale con le organizzazioni mafiose perché ritenuta causa delle efferate stragi che si erano verificate nel biennio 1992-93.
Se, dunque, non risulta che “...gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa , è chiaro che le iniziative in oggetto non possano costituire un indice probatorio per dimostrare la pressione mafiosa/stragista esercitata in danno di questo leader politico sia prima sia (soprattutto) dopo l’insediamento del governo.
Assodato, infatti, che le dette iniziative non sono tate effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sui dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per assenta vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi, pare altrettanto evidente che a quegli impulsi riformatori della legislazione, di cui è stato messo al corrente in anteprima il Mangano tramite Dell'Utri, si sia potuti giungere secondo quel percorso “ampiamente pubblicizzato” che esisteva in seno a Forza Italia e che vedeva schierata in termini definibili “garantisti” una parte di questa formazione politica e, in particolare, alcuni dei suoi esponenti tra i quali quelli ricordati nella stessa sentenza quali l’on. Biondi e l’on. Maiolo, che hanno assunto anche incarichi istituzionali. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La “linea garantista” di Forza Italia senza pressioni mafiose. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 dicembre 2022
Iniziative attuate in coerenza con la linea “garantista” che molti esponenti di Forza Italia propugnavano e che, peraltro, aveva consentito loro di raccogliere molti consensi elettorali in ambienti non solo malavitosi, ma anche di certe elite culturali di diversa provenienza che sin dagli anni ottanta avevano intrapreso battaglie politiche del medesimo segno (basti pensare al referendum del 1981 per l’abolizione della pena dell’ergastolo)...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In effetti la decisione di primo grado ha ribadito a più riprese questo concetto evidenziando alcuni progetti, ad esempio in tema di abolizione dell’ergastolo, in favore dei quali taluni esponenti di Forza Italia si erano espressi seguendo una linea di pensiero del resto comune anche ad esponenti di altre fon-nazioni politiche.
Delle iniziative attuate in coerenza con la linea asseritamente “garantista” che molti esponenti del nuovo partito politico propugnavano e che, peraltro, aveva consentito loro di raccogliere molti consensi elettorali in ambienti non solo malavitosi, ma anche di certe elite culturali di diversa provenienza che sin dagli anni ottanta avevano intrapreso battaglie politiche del medesimo segno (basti pensare al referendum del 1981 per l’abolizione della pena dell’ergastolo), tanto più che v’era una forte presenza, in quel medesimo nuovo partito, di esponenti provenienti da quella parte dell’avvocatura che da sempre aveva avversato la legislazione del c.d. “doppio binario” per i processi prima di terrorismo e, poi, più recentemente, di mafia.
Se, dunque, quei provvedimenti erano frutto di questo percorso, e non di condizionamenti, minacce o pressioni, è chiaro che da queste stesse iniziative non si possa ottenere alcun indice di riscontro circa il fatto che Berlusconi abbia effettivamente ricevuto la minaccia stragista tramite la filiera Mangano e Dell'Utri.
Semmai, da questi stessi elementi, emergono ragioni logico fattuali per ritenere che a Mangano sia stata recapitata la notizia, sebbene in anteprima e per il canale segreto rappresentato in quel momento da Dell'Utri, di quali fossero le modifiche legislative che (assunte come visto a prescindere dalla minaccia e certamente non come conseguenza della stessa) erano state tentate o erano in procinto di essere presentate.
INIZIATIVE POLITICHE “CONNATURALI”
La questione è tutt’altro che secondaria. Qualora, infatti, si disponesse della prova che il contenuto del decreto legge 14 luglio 1994 n. 440, nella parte che riguardava le misure cautelari anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., o che l’operato della commissione Giustizia della Camera, per l’attività di interesse programmata per gennaio del 1995 e su iniziativa anche di Forza Italia, fossero conseguenza (“causa-effetto”) della pressione mafiosa ed allora si disporrebbe di un dato fattuale dal quale ritenere, in modo deduttivo, che le notizie date da Dell'Utri su queste stesse tematiche rappresentavano la dimostrazione tangibile della realizzazione del progetto criminoso di cui ci si occupa poiché, senza tale pressione dall’indiscutibile valenza intimidatoria, a tale risultato non si sarebbe arrivati, perlomeno in quei tempi e secondo quel percorso.
Considerato che, viceversa, tali iniziative erano “connaturali” ad una certa politica giudiziaria, insita in quella formazione, ne consegue che da questi elementi non si può ottenere alcuna prova (né logica nè d’altro tipo).
Risulta arduo comprendere perché si sarebbe dovuta brandire, per di più da parte dell’interlocutore Dell'Utri, la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul governo per condizionarne le scelte quando queste ultime potevano apparire confacenti con certi risultati attesi dalla consorteria mafiosa.
Ma se erano progetti in linea con il programma di Forza Italia, senza cambiamenti indotti da segrete pressioni, pare ancora più evidente che per ottenere quel tipo di informazioni non fosse necessario “scomodare” Berlusconi, in quel momento impegnato nel suo incarico di neo presidente del Consiglio peraltro alle prese, già a dicembre del 1994 (cioè pressocché in corrispondenza del secondo incontro Mangano/Dell'Utri di cui si tratta), con una ventilata crisi di governo, per le tensioni insorte con la Lega Nord, che poi porterà alle dimissioni il 21.12.1994.
Non si trattava, in altri termini, di “iniziative legislative” (intese in senso ampio) note solamente al Presidente del Consiglio Berlusconi o di suo segreto ed esclusivo appannaggio, bensì di progetti che rientravano nell’agenda di governo e che i soggetti di vertice e/o con responsabilità tecniche/normative di quel partito possedevano senza bisogno per Dell'Utri di doversi rivolgere a Berlusconi, per di più veicolandogli (come ritenuto nella sentenza di primo grado) la minaccia mafiosa in presenza di una pianificazione normativa che seguiva un suo corso a prescindere da interferenze (sempre per come ritenuto nella medesima decisione).
DELL’UTRI ERA BEN ADDENTRO IN FORZA ITALIA
Marcello Dell'Utri, per quanto non avesse all’epoca incarichi di governo o istituzionali, era ben addentro a quella formazione politica, con conoscenze profonde ed a vario livello essendo stato uno dei promotori della nascita di Forza Italia, sicché pare evidente che lo stesso seguisse alacremente e con attenzione le riforme normative che quel partito ed il governo in carica si accingevano a promuovere soprattutto sui versanti sensibili “della giustizia” e/o “carcerario” per i quali, per di più, proprio lui aveva assunto degli “impegni” secondo l’accordo preelettorale (o secondo la promessa elettorale come pure etichettata).
Può allora ritenersi, in termini di elevata credibilità razionale, che le pur preziose informazioni in anteprima, che l’imputato ha recapitato a Mangano e che questi ha sollecitamente girato a Cucuzza, provenissero da un soggetto sì qualificato dell’entourage di Forza Italia e/o dell’ufficio legislativo riferibile a questo partito, ma senza che si trattasse necessariamente di Berlusconi e senza che quest’ultimo venisse a tal fine interpellato da Dell'Utri in nessuna delle duplici occasioni sopraddette dell’estate e del dicembre del 1994.
Prescindendo dal fatto che non vi è neppure prova che in questi periodi vi siano state delle interlocuzioni Dell'Utri/Berlusconi, che pure in generale hanno mantenuto rapporti di confidenzialità e frequentazione, v’è da aggiungere che, già in questo arco temporale, erano montate le polemiche, perlomeno in certa opinione pubblica, legate alle notizie di stampa (di cui Giovanni Brusca ha fornito in questo processo plastica rappresentazione riferendosi alla lettura di quell’articolo de L’Espresso di cui si è sopra detto), che denunciavano i compromettenti e risalenti legami tra Mangano e Dell'Utri e di costoro con Silvio Berlusconi dei legami che in quel periodo potevano finire per appannare – e non poco – l’immagine del Premier, per di più già alle prese con una possibile crisi di governo dopo alcuni mesi dal conferimento del primo incarico governativo.
Risulta pertanto difficile immaginare che il presidente del Consiglio, che in quella fase politica non conferì alcun incarico di governo a Dell'Utri, che pure si era alacremente speso per le elezioni ed era stato tra i protagonisti della costituzione di Forza Italia, si dedicasse, poi, ad incontri confidenziali con questo stesso soggetto per di più per metterlo al corrente delle iniziative normative che potevano appagare certi desiderata di Cosa nostra.
Simili informazioni, che (lo si ripete) seguivano una linea politica/giudiziaria diffusa anche in campagna elettorale, ben potevano essere chieste a e date da soggetti del partito vicini a Dell'Utri e vicini a Berlusconi, purché in possesso delle adeguate conoscenze tecniche, ma senza che vi fosse la necessità di un compromettente contatto di Dell'Utri con Berlusconi.
Il fatto che, come si ricava dal racconto del Cucuzza e dal (pur “eccezionale”) riscontro valorizzato già in primo grado, Dell'Utri fosse informato della modifica legislativa che sarebbe stata inserita in un decreto legge che si intendeva emanare a breve, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, non vale a dimostrare che lo stesso Dell'Utri informasse Berlusconi dei suoi contatti con Mangano ed i mafiosi anche dopo l’insediamento di quel governo.
Tanto meno può immaginarsi che soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto informare Dell'Utri di un intervento legislativo quale quello che fu varato, ad esempio, con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440.
Per quanto fossero notizie segrete all’esterno (su iniziative definite perfino come “segretamente assunte”), da qui la prova dei contatti Mangano/Dell'Utri, simili informazioni potevano essere attinte, da parte di un personaggio come Dell'Utri e con le sue ramificate conoscenze, da una fonte e da un canale interno al partito che, per quanto privilegiato, prescindeva però da un passaggio con il Presidente, tanto più che si trattava di novità sullo stato della legislazione senza dover coartare Berlusconi né, tanto meno, gli altri componenti del governo.
Si coglie un’indiscutibile differenza rispetto alla minaccia che ha investito il governo Ciampi poiché in quel caso (come ampiamente scrutinato in precedenza) le modifiche incalzate sotto il ricatto stragista miravano a degli obiettivi in contrasto con la linea seguita tanto che, come visto, la mancata proroga dei provvedimenti di sottoposizione al 41 bis, in scadenza nel novembre del 1993, venne letta come un segnale in controtendenza se non come un vero e proprio momento di cedimento.
Viceversa, nel caso che ha coinvolto più direttamente Dell'Utri e per le specifiche modifiche di cui egli si è fatto portavoce con Vittorio Mangano, si trattava di risultati perfino in linea con la politica di quella formazione o, almeno, di parte di quel governo riconducibile a Berlusconi.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Per Dell’Utri non c’è prova nel processo sulla trattativa fra stato e mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 dicembre 2022
Difetta la prova che Dell'Utri, per fornire le informazioni pur da lui trasmesse in anteprima agli uomini di Cosa nostra, in particolare a Vittorio Mangano, su certe perfino “segrete” riforme normative, si sia dovuto rivolgere al presidente del Consiglio allora in carica e non, invece, a qualche altro esponente di vertice di Forza Italia...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri, si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione.
Al di là del pieno coinvolgimento di Dell'Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello (in particolare grazie all’intercettazione che ha coinvolto l’avv. Pittelli), non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di presidente del Consiglio per ottenere
L’adempimento, appunto sotto la minaccia mafìosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell'Utri nella precedente campagna elettorale. Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano/Dell'Utri vi sia stata una interlocuzione di Dell'Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l’insediamento del governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono (ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993.
Difetta la prova che Dell'Utri, per fornire le informazioni pur da lui trasmesse in anteprima agli uomini di Cosa Nostra, in particolare a Vittorio Mangano, su certe perfino “segrete” riforme normative (in specie per quanto riguarda il decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 con la sua “subdola” modifica che riguardava i limiti dell’arresto anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.), si sia dovuto rivolgere al presidente del Consiglio allora in carica e non, invece, a qualche altro esponente di vertice di Forza Italia o fidato componente dell’ufficio legislativo di quel partito egualmente a conoscenza dei particolari tecnici di questi propositi normativi che si ponevano, comunque, in linea con un certo orientamento politico di tipo garantista perfino connaturale a quello stesso partito.
Analogamente si sconoscono le modalità di un’eventuale interlocuzione sul tema tra Dell'Utri e Silvio Berlusconi non potendosi neppure escludere scenari in cui eventuali dialoghi (sempre se davvero intervenuti e provati) si siano arrestati ad un livello embrionale in cui l’imputato non aveva neppure l’interesse o la necessità di fare riferimento all’antefatto nè, tanto meno, alla minaccia mafiosa/stragista, nemmeno in forma implicita, velata o subdola, ben potendo assumere le notizie di interesse semplicemente esplorando i percorsi normativi più significativi che stavano prendendo corpo. A voler ritenere, anche oltre i dati concretamente provati, che via sia stata un’interlocuzione su queste tematiche con Berlusconi dopo la sua nomina presidenziale, non è comunque possibile ricostruire il tenore di questi dialoghi.
Si è anche avuto modo di evidenziare che l’indice presuntivo della conoscenza da parte di Berlusconi delle richieste mafiose, legato al fatto che Dell'Utri ha informato in anteprima Mangano (e tramite lui gli altri sodali mafiosi) di certi progetti di riforma che erano all’esame o prossimi al varo su iniziativa governativa, perde la sua efficacia persuasiva, non solo perché rimangono inesplorabili i concreti percorsi comunicativi che hanno consentito a Dell'Utri di acquisire simili informazioni (per quanto in quel momento segrete all’opinione pubblica), ma anche perché ipotetici dialoghi su questa tematica con Berlusconi possono aver assunto connotati che restano indecifrabili, particolarmente perché non c’era neppure la necessità di addomesticare il percorso normativo.
Una prova che non discende né si può ricavare neppure dalla regola del cui prodest, riferita a vantaggi che il destinatario finale dell’interlocuzione poteva ottenere in termini di risultati elettorali, poiché, non solo non si ha prova del grado di conoscenza che Berlusconi avesse degli accordi preelettorali con i vari personaggi della criminalità organizzata (tanto dell’ala stragista quanto dell’ala che alla prima si contrapponeva in Cosa Nostra), ma soprattutto perché questi accordi sono intervenuti (come è evidente) allorché il governo Berlusconi non era in carica e, quindi, il reato oggetto di contestazione non poteva essere integrato. Senza comunque perdere di vista il fatto che né Dell'Utri né tanto meno Berlusconi avrebbero tratto vantaggio dalla minaccia stragista che, anzi, vedeva Silvio Berlusconi, a quel punto in qualità di componente del governo, come parte offesa.
Vero è che se riferito all’accordo preelettorale la minaccia poteva connotarsi come la resa del conto per all’aiuto elettorale offerto da Cosa Nostra, ma questi elementi coinvolgono semmai Dell'Utri e le sue spregiudicate trarne con l’organizzazione mafiosa e non anche Berlusconi (perlomeno di un coinvolgimento di questo tipo difetta la prova).
Dovendo in ogni caso ribadire il concetto secondo cui, in assenza della prova diretta dei dialoghi tra Dell'Utri ed il presidente Berlusconi, deve farsi ricorso ad un criterio inevitabilmente logico, anzi di alta probabilità logica, così da poter ritenere che, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’unica soluzione sia quella e soltanto quella che porti a ritenere dimostrata, con elevato grado di credibilità razionale, la veicolazione della minaccia al governo.
Dubitare è un obbligo giuridico imposto dal sistema processuale che, nel caso di specie, non si traduce nella necessità di dover semplicemente confutare la logicità della tesi seguita in primo grado, ma di verificare se questa conduca concretamente e con certezza alla prova dei fatti in assenza di alternative egualmente logiche e razionali; e, come già si è avuto modo di anticipare, proprio in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente rimane altissimo.
La prova della colpevolezza non può limitarsi alla corrispondenza di taluni dati ma deve trovare solido fondamento, secondo un percorso esattamente inverso, sugli elementi disponibili per ottenere da essi dei sicuri (chiari, precisi e concordanti) indici per addivenire in concreto alla dimostrazione della tesi accusatoria.
Una prova che difetta in termini di certezza ( “al di là di ogni ragionevole dubbio”) così da portare a ritenere, ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p., che Marcello Dell'Utri, nonostante il suo pesante coinvolgimento nella fase preelettorale ed anche postelettorale (con delle azioni tali da assumere astrattamente rilievo per una differente fattispecie di reato, tuttavia coperta dall’intangibile giudicato assolutorio di cui si è detto intervenuto per i fatti di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. successivi al 1992) non abbia concorso nella minaccia al Corpo politico dello Stato. Non si ha prova, in altri termini, che questo imputato, nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto, abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano.
All’assoluzione di Marcello Dell'Utri “per non aver commesso il fatto” di cui alla residua imputazione sub A) consegue, oltre alla revoca delle statuizioni civili a carico di questo appellante, anche la perdita di efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio applicata nei suoi riguardi nel corso del presente giudizio di appello. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Escort, a Bari processo a Berlusconi sulle bugie di Tarantini: inutilizzabili tutte le intercettazioni. L’accusa nei confronti del leader di Forza Italia, all’epoca dei fatti contestati presidente del Consiglio, è di aver pagato le bugie dette dall’imprenditore barese Giampaolo Tarantini ai magistrati baresi che indagavano sulle escort portate tra il 2008 e il 2009 a Palazzo Grazioli. Isabella Maselli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Gennaio 2023.
Il Tribunale di Bari ha dichiarato la inutilizzabilità di tutte le intercettazioni telefoniche trascritte nel processo in corso a Bari a carico di Silvio Berlusconi, imputato per induzione a mentire. L’accusa nei confronti del leader di Forza Italia, all’epoca dei fatti contestati presidente del Consiglio, è di aver pagato le bugie dette dall’imprenditore barese Giampaolo Tarantini ai magistrati baresi che indagavano sulle escort portate tra il 2008 e il 2009 a Palazzo Grazioli. Pagato, cioè, perché negasse che Berlusconi aveva corrisposto compensi a donne in cambio di prestazioni sessuali, ricevendo in cambio mezzo milione di euro, oltre alle spese legali e l’affitto di un appartamento nel rione Parioli di Roma.
Con un lunga e articolata ordinanza, la giudice Valentina Tripaldi ha accolto l’eccezione presentata dalla difesa di Berlusconi, gli avvocati Roberto Eustachio Sisto e Federico Cecconi. Il pm Baldo Pisani ha depositato una memoria con la quale si era opposto. In estrema sintesi, secondo il Tribunale, non si possono utilizzare intercettazioni autorizzate in altri procedimenti per fatti e reati del tutto diversi. Il contenuto delle presunte dichiarazioni false o reticenti di Tarantini sulle escort, trascritte nel processo a carico di Berlusconi, “non è connesso” con i reati ipotizzati nei due procedimenti nell’ambito dei quali quelle intercettazioni erano state disposte: quello barese del 2008 a carico di Tarantini sulle tangenti negli appalti della sanità pugliese e quello della Procura di Napoli per corruzione e riciclaggio a carico di Valter Lavitola, il faccendiere che secondo i pm avrebbe fatto da tramite tra Berlusconi e Tarantini nella consegna del denaro.
“Non emergono punti di contatto – è scritto nell’ordinanza - tra le dichiarazioni mendaci e i fatti contestati” in quei processi e “in assenza connessione, l’utilizzabilità delle intercettazioni è priva di ogni giustificazione e darebbe luogo a una palese violazione di legge”.
“Grande soddisfazione per la decisione del giudice, frutto di attenta e puntuale valutazione delle nostre richieste, in assoluta linea con la giurisprudenza della Suprema Corte. Quanto accaduto, anche in considerazione del materiale probatorio acquisito, rafforza il nostro convincimento sulla totale estraneità del presidente Berlusconi ai fatti in discussione” ha dichiarato a margine dell’udienza l’avvocato Sisto.
Le decine di telefonate escluse di fatto costituivano il cuore del processo. Restano agli atti le dichiarazioni dei pochi testimoni già sentiti e i verbali acquisiti, compresi quelli di alcune delle donne portate alle cene romane. Il processo comunque prosegue e sono già state calendarizzate le prossime quattro udienze: a febbraio sarà citato come testimone Valter Lavitola, a marzo è previsto l’esame dell’imputato Silvio Berlusconi e in una successiva data i testi della difesa (l’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, l’ex numero uno di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini e Paolo Berlusconi, fratello dell’imputato), a fine aprile la discussione.
I PARADOSSI.
L’ANTE.
L’ASSOLUZIONE. LE MOTIVAZIONI.
L’ASSOLUZIONE. I COMMENTI DEI VARI GIORNALI.
L’ASSOLUZIONE. I COMMENTI DEI VARI PROTAGONISTI.
Escort, chiuso a Bari l'ultimo processo a Berlusconi: «Non doversi procedere per morte dell'imputato». L’ex presidente del Consiglio dei ministri, scomparso di recente, era imputato per il reato di induzione a mentire, accusato cioè di aver pagato le presunte bugie dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini sulla vicenda «escort». ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 giugno 2023
“Non doversi procedere per morte dell’imputato”. Si chiude così, 15 anni dopo i fatti e quattro dopo l’inizio del dibattimento, il processo – l’ultimo – che vedeva alla sbarra a Bari Silvio Berlusconi. L’ex presidente del Consiglio dei ministri, scomparso di recente, era imputato per il reato di induzione a mentire, accusato cioè di aver pagato le presunte bugie dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini sulla vicenda «escort».
Questa mattina la giudice monocratica del Tribunale di Bari Valentina Tripaldi ha dichiarato il non doversi procedere, al termine di una brevissima udienza nella quale la difesa di Berlusconi, rappresentata dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto (insieme all’avvocato Federico Cecconi) è intervenuta ricostruendo le tappe principali del processo, e sostenendo che “il dibattimento ha certificato l’insussistenza dell’ipotesi accusatoria e che l’escussione dei testimoni della difesa avrebbe solo ulteriormente corroborato tale insussistenza, ma oggi, il destino così ha voluto proprio quando eravamo arrivati all’ultimo metro, la conseguenza processuale è legata ad un evento molto triste”. L’avvocato Sisto ha quindi concluso chiedendo inevitabilmente una sentenza di non doversi procedere, “non prima però di avere messo a verbale quanto segue: è stato un onore aver difeso Silvio Berlusconi”.
Un processo che negli anni ha perso pezzi, testimoni e intercettazioni, il cuore stesso dell’impianto accusatorio, cioè la trascrizione delle conversazioni che secondo i pm dimostravano che Berlusconi era a conoscenza che le donne «foraggiatissime» portate alle sue cene fossero lì per prostituirsi.
Il dibattimento volgeva al termine, rinviato negli ultimi mesi per la ripetuta assenza di uno degli ultimi testimoni, Valter Lavitola, l’ex direttore de L’Avanti ritenuto il tramite tra l’ex premier e Tarantini e poi anche per le condizioni di salute dell’imputato, che prima della sentenza la difesa aveva anche previsto che venisse personalmente in aula per rispondere alle domande dei suoi avvocati, del pm e del giudice. A quelle domande non risponderà mai e oggi il processo si è chiuso senza essere giunti ad un verdetto di merito.
Follia togata. Che i processi in Italia siano quelli che sono, cioè in alcuni casi micidiali ingranaggi in cui l'ideologia si sostituisce alla giustizia, lo si sapeva già. Augusto Minzolini il 2 Luglio 2023 su Il Giornale.
Che i processi in Italia siano quelli che sono, cioè in alcuni casi micidiali ingranaggi in cui l'ideologia si sostituisce alla giustizia, lo si sapeva già. Ma ieri la procura di Milano è andata oltre: ha superato la barriera dell'accanimento, il muro del risentimento e ha lambito la dimensione della follia. Ha deciso infatti di ricorrere in Cassazione contro la sentenza di assoluzione in primo grado di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter.
Insomma, vogliono processare il Cavaliere anche da morto con un solo obiettivo: sporcarne la memoria. Un atteggiamento che rivela una sorta di odio che i giudici hanno sempre coltivato nei confronti dell'imputato eccellente e che li ha indotti e li induce a decisioni che lasciano basite tutte le persone di destra, di sinistra o di centro animate da un minimo di onestà intellettuale. Già, quel processo era un assurdo: mettere sul banco degli imputati un numero ragguardevole di persone che hanno avuto la sola colpa di aver testimoniato in favore di un imputato, è un «unicum» nella nostra storia giudiziaria. Ma farlo anche dopo che l'interessato è passato a miglior vita lascia allibiti.
Ora naturalmente i pm milanesi diranno che è nelle loro facoltà, che hanno posto solo una questione di diritto all'Alta Corte e tanti altri bla bla che si usano per difendere l'indifendibile, ma quello che lascia costernati è l'assenza di rispetto di fronte alla morte, di consapevolezza del limite, per dirla con un'espressione ancor più semplice, di buonsenso in persone che sono chiamate al delicato compito di decidere in merito alla nostra libertà.
A Berlusconi non possono fare altro male oltre ai trent'anni di persecuzione a cui lo hanno sottoposto: la morte lo ha reso invulnerabile di fronte anche ai suoi aguzzini. Quello che, invece, deve far riflettere è che tutti noi, a cominciare dai più semplici cittadini che non hanno le risorse di cui il Cavaliere ha potuto disporre per difendersi, siamo in balia di toghe che scambiano l'esercizio della giustizia per una sorta di inquisizione ideologica.
Perché se non ci fosse questa che a ragione può essere definita una perversione quando si parla di diritto, non si capisce davvero quale sia l'obiettivo di una simile decisione. Processare un personaggio pubblico anche post mortem non può che nascondere l'intento di perseguire una sorta di «damnatio memoriae». La giustizia non c'entra più nulla, si punta a screditare non solo la figura di Berlusconi, ma anche tutto quello che ha fatto in vita, il suo impegno, la sua eredità politica, la sua immagine di statista. Non si processa più Berlusconi, ma il berlusconismo. Lo stesso rancore che ha spinto ignoti prima a deturpare e poi a cancellare il murales dedicato da un'artista al Cavaliere nella via di Milano dove è nato.
Non è un'esagerazione, semmai esagerate sono le scelte di certi giudici che vanno contro il sentimento di commozione di cui il Paese ha dato prova di fronte alla scomparsa dell'ex-premier. Ma si sa, l'odio ideologico non ha confini. Per cui si può solo commiserare chi indossa la toga e non riesce a liberarsi dalle proprie passioni politiche perché come recita la regola aurea un giudice non solo deve essere imparziale ma apparire tale. Dio e la ragione ci salvino da certi pm.
Il processo Ruby-Ter. Travaglio detta la linea ai pm, il Fatto istiga le toghe milanesi sul Ruby-ter. Dopo la lezione di diritto del Tribunale in primo grado, Viola sapeva che sarebbe stato meglio non osare alcun ricorso. Il Fatto però ha istigato Tiziana Siciliano e Luca Gaglio. Tiziana Maiolo su L'Unità il 30 Giugno 2023
Il Procuratore capo di Milano si chiama Marcello Viola. Non Francesco Greco, non Edmondo Bruti Liberati, men che meno Saverio Borrelli. E sa che quando i giudici, come quelli della settima sezione penale del tribunale presieduto da Marco Tremolada che, nell’assolvere Silvio Berlusconi e altri ventisette imputati da reati come la corruzione in atti giudiziari o la falsa testimonianza nel processo Ruby ter, impartiscono ai pm una vera lezione di procedura penale, è meglio lasciar perdere. E non osare nessun ricorso. Oltre a tutto, quello che fu il principale imputato, Silvio Berlusconi, si è sottratto in modo definitivo e ha portato con sé la sua assoluzione.
Ma il giornale di Travaglio ha istigato, e la procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio si sono impuntati. Il procuratore Viola non è d’accordo, altri aggiunti sono con lui. Il clima è cambiato, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, ma non abbastanza. Si va in cassazione. Perché per certi pubblici ministeri, ogni sentenza di assoluzione è un’onta, un affronto quasi personale. Se a questo si aggiunge la pervicacia dello “stile ambrosiano” di chi ancora si abbarbica a quello che fu un ruolo di primi della classe, si aggiunge onta a onta. Da lavare con il sangue se si perde un processo contro Silvio Berlusconi. Persino con il suo ricordo. Quel che qui brucia, come già capitato con l’appello contro le assoluzioni nel processo Eni-Nigeria, quando la pg Celestina Gravina alzò il dito a denunciare l’ignoranza di quei pm che avevano costruito il teorema dell’accusa, è la lezione di diritto processuale impartita dalla settima sezione penale del tribunale.
Questo non si fa, aveva detto a questi pm il presidente Marco Tremolada. Che cosa non si fa, secondo le regole dello Stato di diritto? Non si chiama a testimoniare nella veste di pubblico ufficiale obbligato a dire la verità la persona su cui stai già svolgendo indagini. Se lo fai , crei un grave pregiudizio alla persona e commetti una grave violazione di ogni principio costituzionale e delle regole del codice di procedura penale. Eppure l’hanno fatto. Non ha molta importanza il fatto che altri pm avrebbero meritato questa lezione di diritto, cioè la prima che indagò, Ilda Boccassini e il dirigente dell’ufficio di allora, Edmondo Bruti Liberati.
La pm ormai in pensione lo ha raccontato anche nel libro autobiografico, l’inchiesta fu affidata a lei in quanto riguardava indagini “delicate” sul Presidente del consiglio. La data in cui si iniziano le indagini, quella in cui si cominciano pedinamenti e intercettazioni non sono cose secondarie, nel processo, come la determinazione della competenza territoriale a un distretto piuttosto che a un altro. Ma lo “stile ambrosiano” ha sempre ritenuto di essere superiore a questi “cavilli”. Ah, il cavillo, la pallottola d’oro dei magistrati contro quegli azzeccagarbugli degli avvocati quando perdono la causa. O anche l’argomento dei giornalisti complici e portavoce del verbo delle procure. In questo Il Fatto è maestro.
In febbraio, alla vigilia della sentenza di primo grado che mandava assolti Silvio Berlusconi e altri ventisette imputati, il quotidiano diretto da Marco Travaglio, su ispirazione di qualcuno interessato o anche motu proprio (non ha importanza, a volte i ruoli si invertono) si era sgolato a istigare i giudici. Addirittura li invitata rudemente a sconfessare la stessa propria ordinanza che il 3 novembre 2021 accoglieva una richiesta della difesa e dichiarava non utilizzabili una serie di testimonianze rese nei precedenti processi Ruby uno e Ruby due. E ancora nei giorni scorsi, alla vigilia della data di scadenza per i pm per presentare ricorso in appello, offriva loro come via di fuga proprio il ricorso in cassazione.
Anche perché nella procura di Milano qualcosa di importante è cambiato e il nuovo capo dell’ufficio Marcello Viola, non fa parte della storia dello “stile ambrosiano” , quello che ha visto al vertice di quell’ufficio sempre un esponente di Magistratura Democratica. Un vero centro di potere, con la sua giurisprudenza, con il suo disprezzo nei confronti di chi era fori dal “cerchio magico”. Non importa di chi sia la competenza territoriale, disse una volta uno di loro, l’importante è chi possa permettersi di farle, queste indagini.
Si era ai tempi di Mani Pulite, l’obiettivo era Bettino Craxi, il cinghialone, e loro erano gli intoccabili, mentre tanti si suicidavano. Poi arrivò Berlusconi. Che però è stato assolto cinque volte. Ma la sentenza che brucia di più è proprio questa del Ruby-ter. Perché segnalava che finalmente esistono giudici anche a Milano. Berlusconi non c’è più, ma bisogna continuare all’infinito a processarlo. Tiziana Maiolo 30 Giugno 2023
Berlusconi a giudizio davanti al Padreterno: la gogna post-mortem del Fatto Quotidiano. Il commento di Gaia Tortora, figlia di Enzo: "Fate Schifo". Redazione Web su L'Unità il 12 Giugno 2023
Devono immaginarlo così l’aldilà, il paradiso. Una sbarra enorme, un banco degli imputati imperituro, un tribunale infinito. E no, non sanno scherzare a Il Fatto Quotidiano. “Non sapete nemmeno scherzare” aveva scandito infatti lo stesso Silvio Berlusconi negli studi di “Servizio Pubblico”, trasmissione di Michele Santoro, dopo aver spazzolato la sedia dalla quale si era appena alzato Marco Travaglio, attuale direttore del quotidiano. Per dare la notizia della morte dell’ex Presidente del Consiglio e fondatore di Forza Italia a 86 anni Il Fatto ha optato per un’enorme e grottesca apertura in home: una sagoma opaca invita Berlusconi, il capo reclinato, a venire avanti. Il titolo: “L’ultimo Giudice”, il Padreterno in persona in homepage.
E certo che l’ex premier è stato il personaggio che più ha segnato gli ultimi anni di politica in Italia. Perciò amato e odiato, osannato e denigrato. Per tanti, tantissimi – per molti più di quelli che ammettevano di averlo votato – , è stato l’uomo del Sogno Italiano. Per altri l’uomo che ha distrutto un Paese, che ha inciso sullo Stato di diritto con la Legge Bossi-Fini sull’immigrazione, con l’inasprimento del 41-bis, con la Legge Biagi, con la Riforma Moratti, con le varie Leggi definite Ad Personam, con lo scandalo del Bunga Bunga. Lo stanno piangendo in queste ore in tantissimi, in tantissimi stanno ricordando controversie e contraddizioni di una personalità che ha segnato un’epoca.
La giunta dell’Unione delle Camere Penali, l’organo di rappresentanza degli avvocati italiani, però è andata dritta: “Nessuno oggi può seriamente mettere in dubbio che Silvio Berlusconi sia stato oggetto di una aggressione politico-giudiziaria che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Decine e decine di indagini e di processi, con accuse fino alla collusione mafiosa ed al ruolo di mandante di stragi, conclusesi con una sola condanna per elusione fiscale, ne sono la più evidente, impressionante conferma, che ci restituisce l’amara realtà di un Paese nel quale l’esercizio dell’azione penale è divenuto – e non solo nei confronti di Silvio Berlusconi – strumento privilegiato di lotta politica”.
Uno scontro lungo 40 anni con le toghe. Milano l’arena principale. Fino a quattro cinque udienze a settimana al Palazzo di Giustizia, in certi periodi, soltanto per il Cavaliere. 36 processi, un’amnistia per le dichiarazioni sulla P2, una sola condanna per frode fiscale nel processo Mediaset sulla compravendita dei diritti televisivi e cinematografici con società statunitensi per 470 milioni di euro. Pena scontata ai servizi sociali. La storia giudiziaria di Berlusconi ha segnato per anni il dibattito sulla Giustizia, su riforme e storture, garantismo e giustizialismo, accuse di leggi “ad personam” e di persecuzione. Il 26 febbraio 2023 l’ultima assoluzione “perché il fatto non sussiste” nell’ambito del processo Ruby Ter. “Dopo undici anni di fango e danni politici incalcolabili sono stato assolto perché ho avuto la fortuna di incontrare magistrati che hanno saputo mantenersi indipendenti e imparziali”.
Sarebbe stato ingenuo aspettarsi un atteggiamento conciliante, accomodante da parte de Il Fatto Quotidiano. Giornalisticamente parlando è certo legittimo. Azzannare alla morte, nel giorno del giudizio del “primo dei populisti, recordman di inchieste dalla corruzione alla mafia, mago della comunicazione”, per brevità Nosferatu ma sempre o quasi assolto, è parso francamente a tanti, tantissimi fuoriluogo. Piuttosto indicativo che nell’articolo sulla morte si faccia riferimento a “una sfera privata che in un momento come questo non è il caso di rievocare”. Ancora più indicativo il commento al titolo di Gaia Tortora, giornalista e figlia del protagonista del più clamoroso caso di malagiustizia italiana, Enzo Tortora. “Fate veramente schifo”.
Redazione Web 12 Giugno 2023
Tutte le vicende giudiziarie di Berlusconi, l’uomo che ci ha difeso dalla repubblica dei Pm. Chissà cosa sarebbe successo nei tribunali in questi trent’anni se non ci fosse stato quest’uomo a svolgere il ruolo di catalizzatore. Tiziana Maiolo su L'Unità il 13 Giugno 2023
Abbiamo un gran debito con Silvio Berlusconi. Ci ha salvati dalla repubblica giudiziaria, quella che ha distrutto i partiti democratici della prima repubblica e che a lui, l’intruso usurpatore, ha messo i denti nel collo trent’anni fa senza mollarlo mai. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che avrebbe potuto ridargli giustizia, non è arrivata in tempo. E i procuratori di Firenze, che avrebbero voluto processarlo come mafioso e bombarolo, staranno masticando amaro, perché si è sottratto nel modo più definitivo possibile.
Ma in questi trent’anni lui è stato il condottiero che ha tenuto a bada gli aspiranti golpisti della repubblica giudiziaria. Lo ha fatto per sé e per tutti noi. Ci ha messo la propria storia e il proprio corpo. Non posso immaginare che cosa sarebbe successo nei tribunali se non ci fosse stato lui, catalizzatore e vittima sacrificale mai arreso. Ogni riforma sulla giustizia che verrà, dovrà avere le sue impronte e il suo nome, nel ricordo delle sue lotte, fin dal primo giorno.
Il mausoleo di Berlusconi ad Arcore, la storia della “Volta celeste” destinata al Cavaliere (e 36 familiari e fedelissimi)
Da principio era stato Saverio Borrelli, con la famosa invettiva “Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”. Poi lui si era candidato e aveva vinto, e il pool di Milano, di cui il procuratore era l’indiscusso capo, non glielo aveva perdonato. Ed era andato a cercare i reati, avendo individuato prima la persona che sicuramente, anche se non se ne aveva notizia, li aveva commessi. E fu così che quei capitani coraggiosi del palazzo di giustizia di Milano che non furono secondi a Berlusconi per capacità comunicativa, gli tesero il trappolone di Napoli. Il grande imprenditore che si era fatto statista, tanto da metter insieme nel 2002 a Pratica di mare Bush e Putin, era stato pugnalato nel modo peggiore, mentre presiedeva nel 1994 a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata.
Non erano ancora i temi (cioè i reati) su cui piccoli uomini in toga lo avrebbero poi iscritto al fianco di qualche coppola nei registri delle ingiustizie, dalla Sicilia fino alla Toscana. Nel 1994 Silvio Berlusconi era l’apprezzato capo del governo italiano stimato nel mondo. E il mondo intero, con rappresentanti di governo e anche della magistratura, era accorso a Napoli per discutere della criminalità organizzata e dei modi migliori per combatterla e sconfiggerla. C’erano i Falcone del mondo, quel giorno, lui purtroppo non c’era più. Ma “vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”, quel giorno, a consegnargli un invito a comparire. Sospettato di aver corrotto, da imprenditore, la guardia di finanza. Costretto a sfilare davanti alle telecamere del mondo con un foglietto infamante tra le mani.
Quanti anni dopo sarà assolto? Non lo ricordiamo neanche più. E da lì in avanti l’assalto giudiziario sarà la cifra politica con cui lo hanno combattuto i suoi antagonisti. Possiamo chiamarli nemici? Si, possiamo. Il mondo politico è stato vigliaccamente nelle retrovie, lasciando al circo mediatico-giudiziario, alle procure in combutta con i loro cronisti-servi, il compito di svolgere il lavoro sporco. Dopo le prime schermaglie, chiamiamole così per pudore, arrivano i bocconi grossi. Mentre Saverio Borrelli si rammaricava per aver distrutto i partiti della prima repubblica, dal momento che non ne era valsa la pena, visto che poi, invece di far trionfare Achille Occhetto, l’Italia aveva scelto nel 1994 Silvio Berlusconi.
Il primo boccone grosso partì ancora da Milano, di che stupirsi. E sarà l’unico ad andare a segno, fino a una cassazione che sarà la più discussa del secolo e processi che non finiranno mai, perché il presidente di quel collegio di tribunale ha riempito l’Italia di querele nei confronti di chi ha dubitato della correttezza di certe procedure. La storia dell’unica condanna, per reati fiscali, subita da Silvio Berlusconi, avrebbe potuto essere raddrizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, avrebbe potuto esser dichiarata una patacca, ed è un peccato che non ci sia stato il tempo. Chissà se si potrà esprimere anche “post mortem”. Silvio lo meriterebbe.
Bocconi grossi e bocconi grassi. Che dire dell’assalto morboso che ha vincolato, in un’assurda nemesi, il grande ammiratore delle donne, colui che ne ha amate tante, all’immagine di porco stupratore e sfruttatore di minorenni? Con un circo di uomini, e purtroppo anche di donne in toga pronti a sfogare le proprie frustrazioni sul boccone grasso? Ruby uno due tre, l’infinito delle fantasie proibite della politica giudiziaria che odia le donne, che calpesta le procedure pur di poter mettere i denti nel boccone grasso, che ha disprezzato l’”astuzia levantina” di una giovane immigrata senza che nessuno desse la patente di razzista alla pm che quella frase aveva pronunciato.
E la misoginia nei confronti di ragazze belle a un po’ carrieriste trattate dalle toghe maschili e femminili come puttane da quattro soldi pronte a farsi corrompere pur di non dire “quel che succedeva” nelle serate di Arcore. Ma nessuno hai mai saputo spiegare “quel che succedeva”, dal punto di vista dei reati contestati e poi caduti, la concussione e lo sfruttamento di prostituzione minorile. Così il processo diventava infinito, perché, assolto Berlusconi dai due reati fino in Cassazione, lui rimaneva imputato permanente in tutti i tentacoli di processi e processini, bis ter quater eccetera. Sempre assolto.
L’accusa più infamante, quella di sostegno alla mafia, l’hanno fatta correre lungo tutta la sua vita politica. Prima non importava. Inchieste aperte e archiviate all’infinito, promosse sempre dalla Dia, quasi che quell’organismo, istituito nel 1991 anche su spinta di Giovanni Falcone, si fosse poi trasformato fino a diventare uno strumento contro Berlusconi. Piano piano si è arrivati addirittura a indicare il presidente di Forza Italia come mandante delle stragi di mafia nel 1993.
Come già per Enzo Tortora, si moltiplicarono i “pentiti” costruiti in laboratorio, Graviano uno, Graviano due, il nonno e i cugini, testimoni di fantasiose transazioni economiche che non ci sono più. Montagne di carta straccia nelle mani di qualcuno che sperava di far carriera, come già per Tortora. Beh, ragazzi, è finita, cercatevi un altro boccone grosso e grasso. Tiziana Maiolo 13 Giugno 2023
Ruby Ter, è accanimento. Il Cav (assolto) è morto ma i pm fanno ricorso. Per i giudici il processo deve sopravvivere al suo protagonista. E attaccano la Corte. Luca Fazzo il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.
Si può processare un morto? Si può riversare su un imputato che non può più difendersi una ondata di accuse per interposta persona, incolpandolo di malefatte che in vita ha sempre negato? Era questa, in fondo, la domanda che incombeva sulla Procura di Milano, chiamata a decidere cosa fare del processo «Ruby ter» contro Silvio Berlusconi e altri ventitré imputati, assolti in blocco nel febbraio scorso dalle accuse di corruzione atti giudiziari e falsa testimonianza. Di fronte a quella assoluzione con formula piena, i pm di Milano avevano due strade, ed entrambe li avrebbero esposti a critiche. La prima: arrendersi, lasciare che la sentenza diventasse definitiva, e chiudere così per sempre l'interminabile caso Ruby: ma avrebbero dato l'impressione (o la conferma) che l'unico bersaglio dell'inchiesta fosse Berlusconi, e che morto lui non interessasse andare avanti.
Poi c'era l'altra strada, ed è quella che ieri pomeriggio - a una manciata di ore dalla scadenza dei termini di legge - viene resa pubblica dalla Procura milanese: si va avanti. La sentenza del tribunale che in febbraio aveva assolto tutti viene attaccata frontalmente con un ricorso inviato direttamente alla Cassazione, perché i pm la accusano di essere basata su macroscopici errori di diritto. Il caso Ruby non è chiuso, il processo sopravvive al suo protagonista. Se la Cassazione darà ragione ai pm, ci sarà un nuovo processo. Berlusconi non sarà sul banco degli imputati ma sarà come se lo fosse. E sei mai le ragazze imputate di corruzione dovessero venire condannate, sarà come una condanna alla memoria per un imputato che non sarà stato in grado di difendersi.
Non a caso, nelle 53 pagine del ricorso firmato dai pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, è il nome di Berlusconi quello che ricorre più spesso, citato varie volte come l'imputato numero uno. Non solo dei fatti oggetti del processo Ruby ter, ovvero i versamenti alle ragazze chiamate a testimoniare, ma anche dei reati per cui era stato assolto già anni fa, gli aspetti illeciti delle «cene eleganti» di Arcore: «l'attività prostituiva - scrivono la Siciliano e Gaglio - che per lungo tempo si svolgeva nel corso di talune serate presso la residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore (...) l'assoluzione di Silvio Berlusconi non incide minimamente sulle considerazioni in ordine alla attività prostitutiva sostenuta dall'accusa». E via di questo passo.
La sentenza che in febbraio aveva assolto Berlusconi anche dall'accusa di corruzione in atti giudiziari era basata su un dato semplice: le testimoni che il Cavaliere era accusato di avere corrotto non erano affatto testimoni, ma indagate che avrebbero avuto il diritto di tacere e persino di mentire, e che invece i pm costrinsero a parlare. Un cavillo, lo definì qualcuno; un pilastro dello Stato di diritto, replicarono i giudici nelle motivazioni.
Ora la Procura parte all'attacco di quelle motivazioni: «Il tribunale cade in errore in ordine al momento di assunzione della qualità di testimone», «il tribunale viola le fattispecie sostanziali»; quando il tribunale cita le decisioni precedenti della Cassazione «ne interpreta male il senso», «travisa il dictum» , «cade in analogo errore»: e alla fine, accusa grave, «finisce per disarticolare il sistema» dei reati contro la giustizia. In realtà i pm sanno benissimo che le sezioni unite della Cassazione in un altro processo (anche lì c'era di mezzo Berlusconi) avevano scritto proprio quello che ha detto il tribunale di Milano assolvendo il Cavaliere. E infatti chiedono che a Roma se lo rimangino.
Vogliono processare Berlusconi anche da morto. Il Cav è morto da 18 giorni ma la Procura di Milano non molla: l'assoluzione con formula piena di tutti gli imputati del processo Ruby ter è stata impugnata dai pm con un ricorso depositato poche ore prima della scadenza dei termini di legge. Luca Fazzo il 29 Giugno 2023 su Il Giornale.
Silvio Berlusconi è morto da diciotto giorni ma la Procura di Milano non molla: l’assoluzione con formula piena di tutti gli imputati del processo Ruby ter è stata impugnata dai pubblici ministeri Tiziana Siciliano e Luca Gaglio con un ricorso depositato oggi pomeriggio, a poche ore dalla scadenza dei termini di legge. Ovviamente il ricorso non potrà valere contro Berlusconi, ma varrà contro tutti gli imputati assolti insieme a lui. E riportare tutti sul banco degli accusati sarà alla fine un modo per continuare a processare Berlusconi alla memoria, indicandolo come il responsabile numero uno di un sistema di corruzione giudiziaria di una gravità – nella ricostruzione dei due pm – senza precedenti. Per non raccontare in aula il lato hot delle serate di Arcore, Ruby e le altre ragazze sarebbero state pagate per anni e con somme impressionanti.
Per la Siciliano e Gaglio la sentenza con cui il 15 febbraio scorso la settima sezione del tribunale milanese, presieduta dal giudice Marco Tremolada, assolse tutti è costellata di errori di diritto. Per questo, invece che in appello, il ricorso viene depositato direttamente alla Cassazione, puntando a fare smentire dal massimo organo della giustizia italiana le argomentazioni poste dal tribunale alla base della assoluzione. Per i giudici di primo grado, era l’intera accusa di corruzione in atti giudiziari mossa a Berlusconi e agli altri 22 imputati a non reggere: perché la Procura aveva interrogato come testimoni, senza avvocati e senza garanzie, persone su cui stava in realtà già indagando, e che avrebbero avuto il diritto di stare zitte, di farsi assistere, persino di mentire.
Se i testimoni non erano testimoni, aveva detto in sostanza il tribunale, non può esistere il reato di corruzione.
A sostegno delle loro tesi, Tremolada e i suoi due colleghi avevano portato una mole notevole di precedenti, che dimostravano la irregolarità del comportamento della Procura. Il processo Ruby ter, non sarebbe mai dovuto neanche cominciare.
Ora, nelle ultime ore utili (e la decisione presa in extremis appare proprio per questa una decisione sofferta) i pm decidono di impugnare quella sentenza. Se la Cassazione dovesse accogliere la loro tesi, e ordinare un nuovo processo, Berlusconi non sarebbe fisicamente sul banco degli imputati. Ma ci sarebbe di fatto, accusato senza potersi difendere di essere il mandante di un reato assai grave, nell’ultima puntata (forse) di un assedio giudiziario destinato a protrarsi anche dopo la morte.
Estratto dell’articolo di Matteo Castagnoli per milano.corriere.it il 12 giugno 2023.
Sullo sfondo nero, campeggia un cuore rosso spezzato in due. Sopra, una scritta bianca a contrasto. Recita: «Addio presidente». È l'ultimo saluto, via social con una storia Instagram, di Karima El Mahroug, in arte Ruby, a Silvio Berlusconi, morto nella mattina di lunedì all'ospedale San Raffaele dov'era ricoverato da venerdì scorso.
Il commiato arriva un paio d'ore dopo che la notizia inizia a circolare e si unisce al cordoglio della famiglia, degli amici, della politica e un po' di tutta l'Italia nei confronti del Cavaliere. Quello di Ruby, però, suona particolare. Sarà per la storia giudiziaria, quella dei tre processi sulle «cene eleganti» ad Arcore mentre Berlusconi era premier.
Nel «Ruby uno», Berlusconi fu imputato di prostituzione minorile e concussione per aver avuto rapporti nel 2010 con l’allora 17enne marocchina e per aver telefonato alla questura di Milano, dove la ragazza era stata portata dopo un fermo per furto. In quell'occasione disse che era la nipote di Mubarak. Condannato in primo grado a 7 anni, viene assolto in appello e Cassazione. Poi, di nuovo imputato per corruzione in atti giudiziari nel Ruby ter con l’accusa di aver pagato i silenzi e le falsità della giovane, il 16 febbraio è stato assolto.
I sette paradossi del Rubygate. Panorama il 12 Giugno 2023
Da Panorama dell'8 maggio 2013 È l’unico procedimento aperto a Milano per prostituzione minorile. E già questo è di per sé un paradosso notevole, perché la Procura forse dovrebbe osservare che cosa accade in alcune vie della media periferia o dell’immediato fuori città, affollate come sono da decine di ragazzine in vendita a ogni ora della notte. Ma ci sono ben altre anomalie nel processo Ruby. Nell’aula al primo piano del palazzo di giustizia dove da poco più di due anni Silvio Berlusconi è imputato (per l’appunto) di prostituzione minorile e di concussione, il «Rubygate» si è trasformato nel più grande scandalo antiberlusconiano ed è il motore della devastazione mediatica che dall’ottobre 2010, con le prime rivelazioni sull’ormai mitico «bunga- bunga», si è abbattuta sul quattro volte presidente del Consiglio. Contro l’imputato la Procura ha colpito duramente, dispiegando mezzi obiettivamente inusitati. Su Berlusconi e sul suo entourage, tra 2010 e 2011, i pm Ilda Boccassini (foto a destra) e Antonio Sangermano hanno disposto oltre 100 mila intercettazioni telefoniche, in gran parte finite su internet in versione integrale e con tanto di sonoro. Poi gli hanno scagliato contro il processo immediato e quella terribile coppia di reati che prevede fino a 11 anni di reclusione: 3 per i rapporti sessuali che Berlusconi avrebbe avuto con Ruby, cioè Karima el-Mahroug, la marocchina diciassettenne all’epoca dei fatti, che la procura classifica come «prostituta minorenne»; e altri 8 anni per la telefonata con la quale, nella notte fra il 27 e il 28 maggio 2010, l’allora premier avrebbe costretto i funzionari della questura di Milano a rilasciare la giovane che era stata appena fermata per un furto. Berlusconi nega ogni accusa: sostiene di avere soltanto aiutato economicamente la ragazza che nel 2010 gli si era presentata come 24enne, in fuga dall’Egitto e inseguita da una disperata storia di violenze familiari. Ora la Cassazione valuterà la richiesta di trasferimento del procedimento a Brescia, avanzata a metà marzo dalla difesa: l’udienza è in calendario lunedì 6 maggio, si vedrà. Ma intanto molti elementi del processo stonano, stridono, non tornano. Sono i sette, grandi paradossi del Rubygate. 1. La stessa «vittima» nega il reato L’anomalia principale del processo Ruby è… Ruby. Perché, se è ovvio che l’imputato neghi di avere avuto rapporti sessuali con lei, è assai meno banale che la stessa vittima confermi: mai fatto sesso con Berlusconi. L’accusa non è riuscita a provare il contrario attraverso una testimonianza, né su questo punto le intercettazioni hanno offerto la minima certezza. Anche nell’improvvisata conferenza stampa che ha convocato davanti al palazzo di giustizia lo scorso 4 aprile, Ruby ha detto: «Non sono una puttana. Ho sempre dichiarato di non avere mai fatto sesso a pagamento, e soprattutto di non averne fatto con Berlusconi». Una delle armi segrete dell’accusa, la brasiliana Michelle Conceiçao, aveva testimoniato di avere visto con i suoi occhi Ruby che il 25 aprile 2010 s’infilava nella camera da letto di Berlusconi. Ma poi, dopo un controllo sui cellulari, si è scoperto che quella sera la donna non era ad Arcore e lei stessa ha ritrattato. Di più. Anche ammesso che il rapporto ci sia stato, i pm non sono però riusciti a dimostrare che Berlusconi sapesse che la ragazza era minorenne. Al contrario, nelle udienze è emerso più volte che Ruby si presentava come 24enne e aveva falsificato l’età perfino in un verbale dai carabinieri. Eppure, quello della consapevolezza sull’età è un discrimine importante, perché l’artIcolo 609 sexies del codice penale, là dove si tratta di «reati sessuali», dice che il colpevole non può invocare a sua scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, ma soltanto verso i minori di 14 anni. 2. I testi non confermano l’accusa Le intercettazioni all’inizio del processo avevano mostrato un quadro fosco sulle notti di Arcore, ma in aula l’accusa non ha incassato conferme. In effetti, per dimostrare che Ruby (foto a destra) fosse una prostituta, i pm hanno potuto produrre solo alcune immagini discinte tratte dal suo album su Facebook, simili a quelle di tante sue coetanee, più la testimonianza del poliziotto Marco Ciacci: costui ha dichiarato in aula che, fra le 33 ragazze partecipanti ai presunti festini nella villa di Arcore, Ruby, la modella brasiliana Iris Berardi e Michelle Conceiçao all’epoca delle indagini «svolgevano professionalmente» l’attività di prostituzione. Ma la sua è l’unica voce. Alcuni testi hanno poi dichiarato che nelle serate di Arcore si assisteva a scene esplicitamente sessuali, ma sono stati smentiti da un numero maggiore di testimonianze in senso opposto. Va detto che questo di per sé non sarebbe un reato; il pm Sangermano, che ha iniziato la requisitoria, ha però identificato le serate del bunga-bunga come il simbolo del «collaudato sistema prostitutivo finalizzato al divertimento sessuale di Berlusconi». Resta così il dubbio: chi dice il vero? La critica antiberlusconiana da tempo batte sui pagamenti a favore di alcune testimoni, le cosiddette «olgettine», le ragazze che Berlusconi ha più volte dichiarato di aver voluto risarcire con mensili di vario importo per il danno d’immagine e professionale patito a causa del Rubygate. Finora non risulta che Boccassini e Sangermano abbiano indagato sul punto. Certo, potrebbero aprire un’inchiesta ipotizzando una clamorosa corruzione di massa. Ma sarebbe molto strano farlo ora, visto che il presunto reato è noto da almeno un anno. 3. La «vittima» non è parte civile Un vero macigno per la procura è il fatto che Ruby non si sia mai costituita parte civile: non si considera vittima, insomma, né chiede risarcimenti. Al contrario, ha lanciato la sua unica (grave) accusa proprio contro gli inquirenti: «La Procura mi ha usato» ha gridato la donna ai giornalisti sui gradini del tribunale. «Dei ripetuti interrogatori che ho subito, solo alcuni sono stati messi a verbale. Ho subito una tortura psicologica, con un atteggiamento apparentemente amichevole che di colpo è mutato quando non ho accusato Berlusconi». Parole obiettivamente pesanti, che però nessuno ha preso in considerazione. 4. Nessuno ha mai ascoltato Ruby in aula Del resto, nessuno in udienza ha mai interrogato la presunta vittima. In giugno la difesa di Berlusconi ha rinunciato a sentire Ruby, ritenendola probabilmente una teste rischiosa vista la sua trascorsa propensione a dichiarare verità contraddittorie. Assai più sorprendente è stata la rinuncia dell’accusa: anche Boccassini e Sangermano hanno improvvisamente deciso di fare a meno di Ruby, l’unica testimone che, deponendo sotto giuramento (e quindi vincolata a dire la verità: il teste che dichiara il falso rischia una pena da 2 a 6 anni), avrebbe dovuto raccontare in prima persona che cosa davvero era accaduto nelle sue notti ad Arcore. La scelta dell’accusa è parsa, così, un’esplicita ammissione di debolezza. Poi anche la Corte non ha voluto ascoltarla. Ora Ruby dovrebbe testimoniare il 24 maggio nel processo parallelo che a Milano vede imputati Emilio Fede, l’ex consigliere regionale Nicole Minetti e l’ex agente dello spettacolo Lele Mora, accusati di sfruttamento della prostituzione. Si vedrà se alla fine Ruby parlerà almeno qui. 5. La strana, controversa storia della «nipote di Mubarak» Uno dei punti forti dell’accusa è rubricato sotto il titolo «la favola della nipote di Mubarak». Berlusconi ha raccontato di avere chiamato la questura di Milano non appena saputo che Ruby era stata fermata a causa di un furto, per la paura di un incidente diplomatico: «Quando mi venne detto che Ruby rischiava di andare a San Vittore, chiamai la questura e al mio interlocutore (il capo di gabinetto, Giorgio Ostuni, ndr) chiesi esclusivamente di verificare la sua identità. Temevo un incidente diplomatico simile a quello appena insorto con il figlio di Muhammar Gheddafi, arrestato in Svizzera». Questa versione è stata mille volte ridicolizzata. Però in molti hanno testimoniato in tribunale che Ruby si faceva davvero passare per la figlia di una famosa cantante egiziana, a sua volta parente del rais. Ruby stessa il 4 aprile ha mostrato ai giornalisti il suo passaporto, spiegando di avere ideato quella falsa identità traendola dal nome della sua residenza in Marocco, in un immobile intitolato a Mubarak: «Ho detto tante bugie per sentirmi quel che non ero» si è giustificata. Berlusconi e altri hanno testimoniato di avere sottoposto la questione all’ex rais egiziano in un pranzo ufficiale a Roma il 19 maggio 2010, appena otto giorni prima del fermo di Ruby: «Alla mia domanda se conoscesse la famosa cantante» ha detto Berlusconi «Mubarak rispose di sì, che era effettivamente una sua familiare; però non era a conoscenza del fatto che costei avesse una figlia cacciata di casa per problemi di religione. Ma l’argomento Ruby occupò parte della nostra conversazione e mi convinsi che potesse davvero avere un legame di parentela con il presidente egiziano». Ovvio: si può credere o non credere a questa versione. Va detto però che inventarsi una storia tanto complessa non è proprio agevole, e non sempre è detto che una versione debba essere falsa solo perché complicata. Va detto, soprattutto, che a confermarla sotto giuramento sono stati in tanti. Non solo nell’entourage berlusconiano e fra quanti avevano partecipato al pranzo con Mubarak: anche uno degli agenti di polizia che il 27 maggio avevano portato in questura Ruby ha confermato che la ragazza si era presentata a lui come «nipote del rais». 6. Anche i presunti concussi smentiscono: nessuna pressione La concussione è il reato commesso dal pubblico ufficiale che, al fine di costringere qualcuno a fare qualcosa che non deve fare, abusa dei suoi poteri. Per l’accusa, la telefonata con cui Berlusconi la sera del 27 maggio 2010 contatta la questura di Milano costringe alcuni funzionari di polizia a compiere atti contrari ai loro doveri d’ufficio al solo scopo di evitare che Ruby, in stato di fermo, possa metterlo nei guai. Per Berlusconi la verità è diversa: «Io chiamai solo per verificare la sua identità; poi il capo di gabinetto Giorgio Ostuni ci richiamò e disse che Ruby era marocchina, non egiziana. Cadeva così il problema: da allora mi sono astenuto da ulteriori interventi». Ostuni in aula ha confermato questa versione: lui non ha subito alcuna forzatura. E anche Giorgia Iafrate, il funzionario che quella sera si è occupata della sistemazione di Ruby, è stata categorica: «A distanza di due anni posso dire che siamo stati fin troppo scrupolosi». La teste ha smontato anche la versione dell’ordine impartito dalla pm del tribunale minorile, Annamaria Fiorillo. All’inizio il magistrato le aveva chiesto di accompagnare Ruby in una comunità per minorenni in difficoltà, ma non era stato trovato posto. «Dunque lei ha disatteso le disposizioni del pm Fiorillo?» ha domandato Ilda Boccassini. «No, le sue disposizioni sono cambiate» ha risposto Iafrate: il funzionario ha spiegato che la pm Fiorillo aveva concesso che Ruby fosse affidata a Nicole Minetti «a condizione che prima fosse compiutamente identificata». E questo avvenne. Iafrate ha aggiunto che l’affidamento «venne ritenuto più consono (rispetto all’alternativa di trascorrere la notte in questura o a San Vittore, ndr) nell’interesse della minore». 7. Berlusconi aiuta Ruby (ma poi l’abbandona) Un altro paradosso inspiegabile riguarda proprio l’accusa di concussione. Quando la notte del 27 maggio 2010 Berlusconi viene informato che Ruby ha solo 17 anni e non è egiziana, dice di essere rimasto «di stucco» e smette di occuparsi di lei. I fatti non lo smentiscono: in effetti non interviene quando, una settimana più tardi, la ragazza viene nuovamente fermata dalla polizia e consegnata in affido a una comunità di Genova. Ma allora nell’accusa qualcosa non torna: se davvero l’imputato nutre delle paure su Ruby, perché interrompere la sua «protezione»? Perché non ripetere l’intervento, magari su altri funzionari? È possibile che in 7 giorni venga meno il «rischio Ruby»? Al contrario: semmai il pericolo per il premier è aumentato. Pare logico, allora, leggere nel suo comportamento la reazione di chi, dopo avere aiutato quella che in buona fede ha ritenuto fosse la vittima di una vita disperata, smetta di farlo una volta appurato che si tratta di una mistificatrice. Ma la logica, si sa, non è propria né della giustizia né di molti processi. Men che meno del processo Ruby.
Estratto da open.online il 29 aprile 2023.
È stato arrestato mercoledì 26 aprile dalla polizia di Casablanca con l’accusa di corruzione Mohamed Mobdii, parlamentare, già ministro della Funzione pubblica del Marocco e leader del Partito del movimento populista. Mobdii per 27 anni è stato anche sindaco del comune di Fkih Ben Saleh e le accuse riguardano anche la gestione dei fondi e degli appalti di questo municipio.
Mobdii ebbe un momento di celebrità anche in Italia quando scoppiò l’inchiesta su Silvio Berlusconi e Ruby Rubacuori, alias Karima El Marough. Da ministro della Funzione pubblica e sindaco diede una intervista al quotidiano marocchino Al Akhbar, sostenendo di avere firmato e registrato lui l’atto di nascita di Karima-Ruby e di avere inviato la documentazione al consolato marocchino di Milano perché secondo la sua versione all’epoca dei fatti Ruby aveva già compiuto la maggiore età. L’intervista fu cavalcata subito da Forza Italia e la parlamentare allora azzurra Suad Sbai chiede ai magistrati milanesi di acquisire subito la documentazione.
La procura di Milano smentì la sua ricostruzione dicendosi certa che Ruby all’epoca non era ancora maggiorenne. Lo stesso Mobdii in un successivo collegamento telefonico con la trasmissione di Raio Uno Un giorno da pecora provò a fare marcia indietro sostenendo di non avere mai dato quella intervista e di non sapere nulla di Ruby e della sua famiglia che mai aveva conosciuto
(...)
Estratto dell’articolo di Marco Iasevoli per “Avvenire” il 14 gennaio 2023.
Il «disagio» e la «delusione» fatti trapelare da Palazzo Chigi a caldo, domenica sera, si trasformano a mente fredda in una strategia diversa. Zero enfasi, una sola lettura ufficiosa - quella di un Cav. che si lascia andare e non si controlla - e un unico ordine di scuderia: ignorare l’accaduto.
[…] Giorgia Meloni accompagna la strategia dell’accantonamento con una fitta tela diplomatica: gli sherpa della diplomazia italiana hanno ieri tenuti caldi i canali con Washington e Bruxelles, al fine di fornire le più ampie rassicurazioni sulla tenuta dell’Italia a fianco all’Ucraina. […]
[…] La vera mossa della premier per derubricare il caso arriva però in serata, a sorpresa. La Presidenza del Consiglio fa sapere di aver dato incarico all’Avvocatura dello Stato di revocare la propria costituzione di parte civile nel processo Ruby-ter a carico di Berlusconi.
In sintesi: il governo, nel 2017, con Gentiloni premier, si era considerato “parte lesa” per le condotte dell’ex premier. Ma, spiega Palazzo Chigi, la decisione «politica» di sei anni fa non regge più in presenza di un governo di centrodestra espressione della «volontà popolare» e alla luce delle assoluzioni ottenute da Berlusconi a Milano e Roma in «segmenti della stessa vicenda».
È un segnale di distensione, certo. Ma anche altro. È troppo evidente la coincidenza temporale tra le parole di Berlusconi su Kiev e il “ritiro” dell’Avvocatura di Stato dai processi contro il Cav. Ai berlusconiani di Fi appare un modo per ottenere “sobrietà” dell’ex premier, ma anche un modo per evidenziare come alcune esternazioni del Cav. siano legate solo a vicende personali.
Insomma, il capo di Forza Italia può essere solo parzialmente soddisfatto della scelta di Palazzo Chigi, mentre ha di che insospettirsi sul fatto che la Presidenza del Consiglio abbia voluto rendere nota la decisione con tanto di comunicato pubblico. Tuttavia è chiaro per la premier che i problemi sulla politica estera e su Kiev restano dietro l’angolo. Si è notato, nelle ore che hanno seguito le esternazioni di Berlusconi, il totale silenzio della Lega e di Salvini, le cui posizioni non sono distanti da quelle dell’ex premier. […]
Estratto dell’articolo di T.Ci. per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.
Le urne sono appena state chiuse. Lo scrutinio ancora in corso. E Palazzo Chigi annuncia che la Presidenza del Consiglio ha dato mandato «in data odierna» all’Avvocatura dello Stato di revocare «la propria costituzione di parte civile nel processo penale ‘Ruby ter’ a carico - fra gli altri - del senatore Silvio Berlusconi».
È una decisione clamorosa, che stravolge la posizione fin qui tenuta dagli esecutivi che hanno preceduto quello di destra. […] Per sostenere l’«opportunità” della decisione, poi, Palazzo Chigi ricorda le assoluzioni che «dapprima la Corte di Appello di Milano con sentenza del luglio 2014, divenuta irrevocabile, poi il Tribunale di Roma con sentenza del novembre 2022 hanno reso nei confronti di Berlusconi in segmenti della stessa vicenda».
Il processo Ruby Ter, in realtà, tiene in allarme da tempo il leader di Forza Italia. Berlusconi è accusato di aver pagato le ragazze che avevano partecipato alle sue feste – un mensile di 2.500 euro, secondo l’accusa – perché mentissero davanti ai magistrati sulla natura di quelle serate. Il pm Luca Gaglio ha chiesto sei anni di carcere. L’ex premier ha sempre sostenuto che i soldi dati alle ragazze non servivano a comprare il loro silenzio, ma che si trattava di donazioni per aiutare giovani in difficoltà […].
La sentenza era attesa entro la fine del 2022 ed è stata rinviata. In caso di condanna, entro tre anni si dovrebbe arrivare al verdetto definitivo in Cassazione. Se sfavorevole […] Berlusconi potrebbe nuovamente decadere da senatore, come già accaduto nel novembre 2013. […]
Ruby ter, il Governo ritira la costituzione di parte civile. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2023.
Incaricata l’Avvocatura dello Stato. Silvio Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari. Chigi: «La formazione di un nuovo governo di espressione diretta della volontà popolare determina una rivalutazione della scelta fatta in origine»
Arriva con una nota da Palazzo Chigi: «La Presidenza del Consiglio informa di avere in data odierna dato incarico all’Avvocatura dello Stato perché revochi la propria costituzione di parte civile nel processo penale c.d. “Ruby ter” a carico - fra gli altri - del Sen. Silvio Berlusconi . La costituzione era stata disposta nel 2017 dal Governo Gentiloni, un Esecutivo a guida politica, in base a una scelta dettata da valutazioni sue proprie, in un momento storico in cui non erano ancora intervenute pronunce giudiziarie nella medesima vicenda».
La nota continua: «La formazione, avvenuta nell’ottobre 2022, di un nuovo governo, espressione diretta della volontà popolare, determina una rivalutazione della scelta in origine operata. Ciò appare tanto più opportuno alla stregua delle assoluzioni che dapprima la Corte di Appello di Milano con sentenza del luglio 2014, divenuta irrevocabile, poi il Tribunale di Roma con sentenza del novembre 2022 hanno reso nei confronti del Sen. Berlusconi in segmenti della stessa vicenda».
Ruby ter: la premier Meloni ritira la costituzione di parte civile contro Berlusconi: "Nuova scelta, questo governo è frutto della volontà popolare". A cura della redazione Politica su La Repubblica il 14 gennaio 2023.
La novità annunciata da Palazzo Chigi nel giorno delle Regionali. Nel 2017 era stato Gentiloni a inserirsi nel processo: "Era un esecutivo a guida politica e la decisione era stata dettata da valutazioni sue proprie". La telefonata del leader di Forza Italia agli alleati
La presidenza del Consiglio informa di avere dato oggi - nel giorno in cui FdI col centrodestra vince alle Regionali ma FI viene colpita duramente rispetto agli alleati - incarico all'Avvocatura dello Stato perché revochi la propria costituzione di parte civile nel processo penale cosiddetto 'Ruby ter' a carico - fra gli altri - di Silvio Berlusconi. La costituzione - si legge nella nota di Palazzo Chigi - era stata disposta nel 2017 dal governo Gentiloni, "un esecutivo a guida politica, in base a una scelta dettata da valutazioni sue proprie, in un momento storico in cui non erano ancora intervenute pronunce giudiziarie nella medesima vicenda".
"La formazione - prosegue la nota - avvenuta nell'ottobre 2022, di un nuovo governo, espressione diretta della volontà popolare, determina una rivalutazione della scelta in origine operata. Ciò appare tanto più opportuno alla stregua delle assoluzioni che dapprima la Corte di Appello di Milano con sentenza del luglio 2014, divenuta irrevocabile, poi il Tribunale di Roma con sentenza del novembre 2022 hanno reso nei confronti del senatore Berlusconi in segmenti della stessa vicenda".
La telefonata di Berlusconi a Meloni e Salvini
Il presidente Silvio Berlusconi ha chiamato la presidente del Consiglio e leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, e il vicepresidente del consiglio e leader della Lega, Matteo Salvini, e si è complimentato per il grande successo della coalizione alle elezioni Regionali in Lombardia e in Lazio. I tre leader hanno convenuto che questo nuovo successo del centrodestra deve essere e sarà da stimolo a proseguire l'ottimo lavoro fatto sinora dal governo, un esecutivo forte che ha come orizzonte l'intera legislatura.
Il caso Ruby, una storia lunga oltre 10 anni
I tre filoni di inchiesta per il caso Ruby si aprono dopo la notte in Questura del 28 maggio 2010, quando Karima El Marough, detta Ruby, viene fermata per un furto. L'allora premier Silvio Berlusconi, che si trova a Parigi, telefona al capo di gabinetto Pietro Ostuni dicendogli che la ragazza gli era stata indicata come nipote del presidente egiziano Mubarak e che sarebbe arrivata Nicole Minetti, all'epoca consigliere regionale, per prenderla in affido. La circostanza si avvera, malgrado la decisione del pm dei minori Annamaria Fiorillo di disporre il collocamento della giovane in una comunità. Pochi giorni dopo, però, la marocchina ricoverata in ospedale dopo una lite con la prostituta Michelle Conceicao, finisce davvero in una struttura protetta. Si apre così l'inchiesta.
Berlusconi sotto accusa
Al centro della vicenda ci sono i presunti festini a luci rosse ad Arcore ai quali avrebbe partecipato anche la giovane che, non ancora maggiorenne, avrebbe fatto sesso in cambio di denaro e altre utilità con l'ex capo del governo. Berlusconi per evitare che tutto ciò venisse alla luce, quando Karima è fermata, telefona a Ostuni per ottenere, secondo la ricostruzione degli inquirenti, che venga rilasciata.
Il primo processo Ruby
Il 14 gennaio 2011 i pm dispongono perquisizioni negli appartamenti nel residence di via Olgettina, fanno avere al premier un invito a comparire e il 9 febbraio, non essendosi presentato, sulla base di "prove evidenti", chiedono il processo con rito immediato. Il 15 febbraio il gip Cristina Di Censo lo rimanda a giudizio per i reati di concussione e prostituzione minorile.
Il 6 aprile del 2011 comincia il dibattimento e il legale di Ruby annuncia che la ragazza non si sarebbe costituita parte civile perché riteneva di non aver subito alcun danno. Davanti ai giudici sfilano moltissimi testimoni: le ragazze delle feste di Arcore, le ''Olgettine'' ma anche le cosiddette "pentite" del bunga-bunga, tutti coloro che in qualche modo hanno avuto a che fare con Karima, fino ai parlamentari del Pdl e ai personaggi dell'entourage del Cavaliere. Ruby, citata come teste dalla difesa, per due volte non si presenta davanti al collegio. Dopo una serie di interruzioni, anche a causa delle elezioni, il 13 maggio 2013 la conclusione della requisitoria e la richiesta a 6 anni di carcere, altrettanti di interdizione legale e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il 24 giugno dello stesso anno c'è la condanna per Berlusconi a 7 anni di reclusione, uno in più rispetto alla richiesta, per le accuse di prostituzione minorile e concussione per costrizione.
L'assoluzione
Il 20 giugno 2014 via al processo di appello. il 18 luglio Berlusconi viene assolto con formula piena: per quanto riguarda l'accusa di concussione, "il fatto non sussiste" e, in riferimento all'accusa di prostituzione minorile, "il fatto non costituisce reato". Le motivazioni della sentenza chiariscono che "ci fu prostituzione" ma nessuna prova adeguata che confermasse la conoscenza dell'età della ragazza da parte di Berlusconi. Il 10 marzo 2015, dopo circa 10 ore di camera di consiglio, la Cassazione conferma l'assoluzione.
Il Ruby bis
Riguarda altre figure dell'entourage di Silvio Berlusconi. l 19 luglio 2013 i giudici condannano a 7 anni Lele Mora ed Emilio Fede e a 5 anni Nicole Minetti. Il 13 novembre 2014 la Corte d'Appello di Milano conferma le condanne ma riduce le pene per i tre imputati: quattro anni e dieci mesi per Emilio Fede; tre anni con le attenuanti generiche per Nicole Minetti; sei anni e un mese per Lele Mora. Nel settembre 2015, la Cassazione rinvia gli atti a un altro giudizio di secondo grado. Il 7 maggio 2018 la Corte d'Appello di Milano riduce ancora le pene: 4 anni e 7 mesi per Fede e 2 anni e 10 mesi per Minetti. Nell'aprile 2019 la Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni e 7 mesi di reclusione per l'ex direttore del Tg4 Emilio Fede e a 2 anni e 10 mesi per l'ex consigliera lombarda Nicole Minetti.
Il Ruby Ter
Il 3 gennaio 2014 il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati annuncia l'apertura dell'inchiesta Ruby ter parlando di "atto dovuto". La nuova indagine nasce dalla decisione di trasmettere alla Procura gli atti dei processi Ruby e Ruby bis. Dalle motivazioni delle due sentenze si ricavano ipotesi di reato a carico di 45 indagati, tra le quali corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza e rivelazione di segreto. Berlusconi è accusato di avere "comprato" la reticenza dei testimoni nei processi per provare la sua innocenza. Tra gli indagati anche Niccolò Ghedini e Piero Longo, legali dell'ex premier (la loro posizione viene poi archiviata), numerose "olgettine", il cantante Mariano Apicella, la senatrice Maria Rosaria Rossi. Il 2 maggio 2016 il giudice "spezzetta" il processo in 7 tribunali, accogliendo le eccezioni di competenza territoriale presentate dalle difese. Le posizioni di alcuni indagati finiscono a Monza, Treviso, Roma, Pescara, Siena e Torino. Restano a Milano 23 indagati tra cui Berlusconi. Il 5 aprile 2017 la presidenza del Consiglio dei ministri, allora sotto la guida del pd Paolo Gentiloni, chiede di costituirsi parte civile contro l'ex premier, nel giudizio di Milano.
Nel luglio 2018 questo troncone del procedimento viene riunito con quello in cui l'ex presidente del Consiglio è accusato sempre di avere corrotto altre quattro ospiti delle serate, con oltre 400 mila euro in cambio della loro versione sulle "cene eleganti" resa nei processi. A marzo del 2019 muore una delle testimoni chiave del processo, Imane Fadil: la ragazza aveva chiesto di essere parte civile nel procedimento. La procura di Milano apre un fascicolo per omicidio, che si chiude a settembre dello stesso anno decretando che la modella marocchina è morta a causa di "un'aplasia midollare associata a un'epatite acuta, un'entità clinica estremamente rara e di estrema gravità".
La prima richiesta di condanna per il Ruby Ter
A febbraio 2020 arriva da Siena la prima richiesta di condanna per Berlusconi. La richiesta avanzata dalla pm Valentina Magnini è di 4 anni e 2 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari. Il Cavaliere è accusato di aver pagato il pianista senese di Arcore, Danilo Mariani, per indurlo a falsa testimonianza sul caso Olgettine. Proprio per falsa testimonianza il magistrato ha chiesto 4 anni e 6 mesi per Mariani. Dopo la richiesta di condanna il procedimento si blocca una prima volta poiché a causa della pandemia di Covid le udienze vengono rinviate per mesi. A settembre 2020 l'ex premier viene colpito dal Covid e ricoverato per 11 giorni. A novembre 2020, nella prima udienza dopo la pandemia, il legale dell'ex premier dichiara che a Berlusconi serve un periodo di "riposo assoluto" a casa. Da questa data le precarie condizioni di salute del Cavaliere e i ricoveri a causa dei suoi problemi cardiaci portano a una serie di rinvii che di fatto bloccano nuovamente il procedimento. Nuovi rinvii vengono chiesti a gennaio 2021 e ad aprile 2021, quando il tribunale senese accoglie la richiesta di legittimo impedimento, essendo il Cavaliere ricoverato per accertamenti al San Raffaele a Milano, avanzata dai difensori del leader di Forza Italia.
Il "filone" milanese
Nel frattempo a fine mese si blocca anche il processo milanese del Ruby ter fino a quando Berlusconi non sarà dimesso. In questo caso il pm Luca Gaglio non si oppone alla richiesta di legittimo impedimento, ma solleva "perplessità" su alcune "prognosi" indicate in relazioni mediche in cui "si parla al condizionale" per chiedere un "rinvio lungo 2 o 3 mesi". A maggio il processo milanese subisce un lungo rinvio di quasi quattro mesi per tutti gli imputati. Per Berlusconi non ci sono stralci, nemmeno temporanei, della sua posizione. Il processo viene rinviato all'8 settembre, giorno in cui viene disposta una perizia medico-legale sulle condizioni di Silvio Berlusconi. Il 16 settembre 2021 Berlusconi, con una lettera sdegnata legata soprattutto alla richiesta di fare una perizia anche psichiatrica, la rifiuta.
L'assoluzione a Siena
Il 21 ottobre 2021 il tribunale di Siena si riunisce per la prima udienza dopo i rinvii e assolve entrambi gli imputati (Berlusconi e Mariani) per i quali il pm aveva chiesto una condanna di 4 anni.
Che cos’è il processo “Ruby ter”. Il Post il 14 gennaio 2023.
Per domani ci si aspetta la sentenza nei confronti di Silvio Berlusconi, accusato di aver pagato alcune testimoni perché lo scagionassero
Per mercoledì ci si aspetta la sentenza di primo grado del filone milanese del cosiddetto processo “Ruby ter”, in cui è imputato per corruzione in atti giudiziari l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: lo scorso maggio i pubblici ministeri avevano chiesto per lui la condanna a sei anni di reclusione. Il processo è stato chiamato così dalla stessa procura di Milano perché è il terzo procedimento che riguarda la vicenda che coinvolse la giovane donna di origini marocchine Karima El Mahroug, che i giornali chiamarono “Ruby Rubacuori”. Nello specifico, in questo processo, Berlusconi è accusato di aver dato denaro ad alcune testimoni nei processi precedenti, Ruby e Ruby bis, perché dicessero il falso.
Lunedì 13 febbraio il governo presieduto da Giorgia Meloni ha deciso di revocare la costituzione di parte civile che era invece stata decisa nel 2017 dal governo guidato da Paolo Gentiloni. Il governo aveva in sostanza chiesto allora un risarcimento di dieci milioni di euro per il «discredito planetario», come l’aveva definito, che a suo avviso le condotte di cui è accusato Berlusconi avevano attirato sull’Italia. Il governo attuale ha invece ritenuto non opportuno chiedere un risarcimento a uno dei tre principali leader della maggioranza.
La vicenda è piuttosto complessa e per capire quali sono le accuse del Ruby ter, e perché il processo è stato diviso in diversi filoni, serve riassumere l’intera storia. La notte tra il 27 e il 28 maggio 2010 Karima El Mahroug venne fermata con l’accusa di furto e portata in questura a Milano, anche perché era priva di documenti di riconoscimento. L’allora presidente del Consiglio, che quella notte era a Parigi, dopo essere stato informato telefonò al capo di gabinetto della questura, Pietro Ostuni, chiedendo che la ragazza fosse affidata alla consigliera regionale Nicole Minetti e non a una comunità per minori. Disse anche che la ragazza era la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak, cosa falsa.
Nel dicembre dello stesso anno Silvio Berlusconi venne indagato dalla procura di Milano per concussione: secondo i pubblici ministeri infatti aveva abusato della sua posizione di presidente del Consiglio per far affidare la ragazza a Minetti. La difesa sostenne invece che davvero Silvio Berlusconi credeva che la ragazza fosse nipote di Mubarak e che quindi era intervenuto per evitare un grave incidente diplomatico.
Dalle indagini emerse che Karima El Mahroug, non ancora maggiorenne, aveva partecipato a una serie di feste nella residenza di Arcore di Berlusconi. Alle stesse feste partecipavano anche molte altre ragazze che secondo l’accusa avrebbero fatto sesso, in cambio di denaro e favori, con l’allora capo del governo. Il 15 febbraio 2011 Berlusconi venne rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile. In un procedimento penale separato vennero rinviati a giudizio Nicole Minetti, il direttore del TG4 Emilio Fede e l’agente di spettacolo Lele Mora. Si tratta del cosiddetto procedimento Ruby bis.
Dopo una lunga disputa che coinvolse anche la Corte costituzionale e che riguardava la competenza del reato di concussione, che per i legali di Berlusconi era del Tribunale dei ministri, il 24 giugno 2013 Silvio Berlusconi venne condannato in primo grado a sette anni di reclusione per prostituzione minorile e concussione. Un anno più tardi, nel processo d’appello, venne assolto perché il reato di concussione “non sussiste” e quello di prostituzione minorile “non costituisce reato”. Il 10 marzo 2015 la Corte di cassazione confermò l’assoluzione.
Nel luglio del 2013, intanto, Lele Mora ed Emilio Fede erano stati condannati a sette anni di reclusione, e Nicole Minetti a cinque anni. La Corte d’appello di Milano, nel novembre del 2014, confermò le condanne ma ridusse le pene per i tre imputati: quattro anni e dieci mesi per Emilio Fede; tre anni con le attenuanti generiche per Nicole Minetti; sei anni e un mese per Lele Mora. Nel settembre del 2015 la Corte di cassazione stabilì che venisse fatto un nuovo processo d’appello perché nella sentenza c’erano “lacune motivazionali”. Il 7 maggio 2018 la Corte d’appello di Milano ribadì le condanne riducendo ulteriormente le pene: 4 anni e 7 mesi per Fede e 2 anni e 10 mesi per Minetti.
Il 3 gennaio 2014 l’allora procuratore della Repubblica di Milano annunciò l’apertura di una nuova inchiesta, la Ruby ter, nata dalla trasmissione degli atti dei processi Ruby e Ruby bis. Nelle motivazioni delle sentenze erano infatti ricavabili ipotesi di reato di corruzione a carico di una serie di persone, tra cui lo stesso Berlusconi. Secondo la procura di Milano, l’ex presidente del Consiglio versava 2.500 euro al mese a molte delle ex partecipanti alle serate nella residenza di Arcore e in quella romana di palazzo Grazioli. L’accusa ha sostenuto che quei soldi erano distribuiti perché le testimoni tacessero o raccontassero cose false in tribunale, in modo da rafforzare la tesi dell’innocenza dello stesso Berlusconi. La difesa ha invece sostenuto che quei soldi erano un risarcimento per il danno d’immagine subito dalle ragazze per l’intera vicenda Ruby.
In tutto gli indagati nel procedimento Ruby ter sono stati 45. Il procedimento venne diviso tra sette diversi tribunali: furono infatti accolte le eccezioni di competenza territoriale presentate da vari avvocati difensori. Le posizioni di alcuni indagati sono così state analizzate a Monza, Treviso, Roma, Pescara, Siena e Torino. Il filone più importante, con 23 imputati tra cui Berlusconi, è rimasto comunque a Milano.
Il filone milanese del processo è stato poi riunito con quello in cui l’ex presidente del Consiglio è accusato di avere corrotto altre quattro ospiti delle serate, con oltre 400mila euro in cambio della loro versione resa nei processi.
Nel marzo del 2019 è morta una delle testimoni del processo, Imane Fadil, che aveva presentato richiesta di essere parte civile nel processo. La procura di Milano aprì un fascicolo per omicidio ma pochi mesi dopo l’indagine venne chiusa: Fadil morì «a causa un’aplasia midollare associata a un’epatite acuta, un’entità clinica estremamente rara e di estrema gravità».
Nel frattempo Berlusconi è stato processato, nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter, anche a Siena. È stato accusato di aver pagato il pianista senese di Arcore, Danilo Mariani, per spingerlo a dire falsa testimonianza. La pubblico ministero Valentina Magnini ha chiesto la condanna a quattro anni e due mesi, ma il processo è rimasto bloccato a lungo a causa dell’epidemia di Covid. Nell’ottobre 2021 il tribunale di Siena ha infine assolto Silvio Berlusconi perché il fatto non sussiste. Nel novembre del 2022 Berlusconi è stato assolto anche a Roma dove era imputato assieme al cantante Mariano Apicella. A chiedere l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» era stato lo stesso pubblico ministero. Berlusconi era accusato di aver pagato Apicella per farlo tacere in merito alle serate di Arcore, ma era stato accertato che i pagamenti erano precedenti alla vicenda.
Per quanto riguarda il filone di Milano, l’accusa è stata sostenuta dai sostituti procuratori Tiziana Siciliano e Luca Gaglio. In totale l’accusa ha chiesto 28 condanne. Tra le richieste di condanna ci sono quelle a Maria Rosaria Rossi, ex senatrice molto vicina a Berlusconi, a un anno e 4 mesi per falsa testimonianza. Per il giornalista Carlo Rossella sono stati chiesti due anni, mentre sono stati chiesti fino a cinque anni per venti donne ospiti delle feste nella residenza di Arcore, che sarebbero state pagate per dire falsa testimonianza. Sono stati chiesti anche sei anni e sei mesi per Luca Risso, ex compagno di Karima El Marough.
L’accusa ha chiesto la confisca di 5 milioni di euro a El Marough e 10 milioni di euro per Berlusconi. In totale, l’accusa ha chiesto la confisca di 22 milioni di euro. I pm hanno anche chiesto di confiscare quattro immobili, tra cui le due ville da un milione di euro a Bernareggio, vicino a Monza, messe a disposizione di Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, due delle partecipanti alle feste, da parte di Berlusconi.
La difesa di Berlusconi, sostenuta da Franco Coppi, ha chiesto l’assoluzione dell’imputato sulla base dell’inutilizzabilità dei verbali di 19 testimoni che, nei giudizi Ruby e Ruby bis, avrebbero dovuto essere ascoltate con l’assistenza di un avvocato difensore in quanto di fatto già indagate. Non ritenendo validi quei verbali non ci sarebbero più nemmeno le false testimonianze.
Le ragioni di una probabile assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del giorno il 14 Febbraio 2023.
Attesa la sentenza del terzo capitolo della vicenda giudiziaria che coinvolge Berlusconi. Secondo alcune previsioni l'ex premier va verso l'assoluzione per due ragioni ma la Procura di Milano continua a sostenere che ci siano convincenti prove a suo carico
Dopo quasi sei anni da un inizio processuale tormentato seguito da molte pause, si avvia alla conclusione il primo grado del processo “Ruby ter“, ultimo capitolo del romanzo giudiziario nato dai verbali dettati da Kharima El Mahroug, all’epoca una ragazza marocchina appena maggiorenne, ora una donna di 30 anni, con alle spalle un passato turbolento familiare che accusò l’allora premier Silvio Berlusconi di avances sessuali durante le famigerate “cene eleganti di Arcore”. Significativa della piega che ha preso questa vicenda la circostanza che Ruby, che dovrebbe essere in aula in attesa della sentenza, da accusatrice è finita tra i 29 imputati , fra i quali figurano anche l’ex senatrice Maria Rosaria Rossi e il giornalista Carlo Rossella.
Il perchè di una possibile assoluzione
La domanda a cui dovrà rispondere il collegio dei giudicanti guidati dal presidente Marco Tremolada è se Silvio Berlusconi in primo grado sia stato assolto dalle accuse di concussione e prostituzione minorile perché si sarebbe “comprato” le testimonianze di favore o il silenzio e di coloro che partecipavano alle serate. Non si fanno mai scommesse sulle sentenze ma spesso si fanno delle previsioni che in questo processo puntano decisamente verso un’assoluzione del padre-fondatore di Forza Italia per due motivi.
Il primo motivo è che per due volte è già stato ritenuto innocente per le stesse accuse per dei soldi versati ai musicisti Danilo Mariani e Mariano Apicella, le cui posizioni processuali erano state trasferite a Roma e a Siena per questioni di competenza territoriale. Sentenze che sostengono che i due vennero pagati in modo costante ma non è stata provata la teoria dell’ accusa che quel denaro fosse stato versato per corromperli.
Il secondo motivo è che il “Ruby ter” ha vissuto un passaggio cruciale. Il 3 novembre 2021 il Tribunale penale di Milano con un’ordinanza ha accolto la tesi delle difese: gli interrogatori in cui le ragazze avrebbero detto il falso, a cominciare da Ruby, sono tutti affetti da una “inutilizzabilità assoluta” in quanto la Procura avrebbe dovute sentirle da persone indagate, quindi assistite da un legale difensore accanto, considerato che da tempo stava scavando sui rapporti economici tra loro e l’ex capo del governo.
Ruby ter all'epilogo: ma i pm non considerano le due precedenti assoluzioni di Berlusconi. Ultima udienza. Il legale del Cav: "Come una mamma che disconosce i figli". La sentenza il 15 febbraio. Luca Fazzo il 26 Gennaio 2023 su Il Giornale.
«Ruby ter», iniziato sei anni fa, la fine adesso ha una data precisa. Il 15 febbraio si saprà se per il tribunale di Milano Silvio Berlusconi è innocente o colpevole dell`accusa per cui i pm chiedono per lui sei anni di carcere: avere comprato a peso d`oro il silenzio e le bugie dei testimoni sfilati nell`aula del primo processo sulle feste nella villa di Arcore, concluso in appello e Cassazione con una assoluzione con formula piena. Riuscirà anche stavolta, il Cavaliere, a uscire incolume dall`offensiva dei pm milanesi?
Ieri, nell`ultima udienza, il suo difensore Federico Cecconi introduce ai giudici (settima sezione penale, presidente Marco Tremolada) un tema rilevante: questo milanese non è il primo processo di questo filone ad arrivare a conclusione. Sia a Siena che a Roma Berlusconi era imputato delle stesse accusa, per i soldi versati ai musicisti Danilo Mariani e Mariano Apicella. In entrambi i casi è stato assolto. Davanti a questi esiti, dice Cecconi, la procura di Milano si è comportata «come le mamme che disconoscono i loro figli».
Per i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio quei due processi non hanno niente a che fare con il processone milanese. Invece, dice Cecconi, a Siena e Roma si è stabilito che una condanna per corruzione è possibile solo «quando c`è un`inequivocabile e precisa prova dell`esistenza di accordi corruttivi e che le mere dazioni hanno un rilievo solo meramente indiziario». I pagamenti da parte di Berlusconi sono noti e ammessi. Quello che manca del tutto, dice il legale, è la prova che l`ex premier avesse chiesto in cambio di mentire in aula.
È vero che, rispetto ai casi giudicati a Siena e a Roma, il processo milanese presenta una differenza: Mariani e Apicella venivano retribuiti da anni, ben prima che esplodesse il caso Ruby, mentre Ruby e le altre «Olgettine» hanno iniziato a ricevere aiuti solo dopo. «Per risarcirle del danno mediatico», è stata la linea difensiva del leader di Forza Italia. Ma su questo dettaglio hanno insistito i pm nella loro requisitoria, e ieri anche l`avvocatura dello Stato, che rappresenta in aula il presidente del Consiglio, ha chiesto la condanna di Berlusconi per un «reato particolarmente grave e offensivo» a risarcire Palazzo Chigi con una provvisionale di dieci milioni.
Il 15 si chiude, con una sentenza che qualunque sia farà discutere. Ultima a prendere la parola sarà l`imputata Barbara Guerra, che già in passato aveva attaccato Berlusconi e si era detta pronta a «dire tutta la verità»: ma poi non aveva detto niente. Sarà la volta buona?
(ANSA il 18 gennaio 2023) - "La valutazione delle risultanze dibattimentali non ha consentito di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità degli imputati, dal momento che le pur copiose acquisizioni documentali e le prove orali assunte sul punto non hanno offerto alcuna prova diretta dell'ipotizzato accordo corruttivo".
E' quanto scrivono i giudici del tribunale collegiale di Roma nella motivazioni della sentenza di assoluzione nei confronti dell'ex premier Silvio Berlusconi e di Mariano Apicella in uno dei filoni dell'indagine Ruby Ter.
I due erano accusati di corruzione in relazione alla falsa testimonianza del cantante napoletano in merito alle feste organizzate ad Arcore. I magistrati nell'atto affermano, inoltre, che "le emergenze processuali, pur destando più che un sospetto sull'esistenza di un tacito e implicito "patto" tra gli imputati, non consentono di descrivere le condotte con le connotazioni fenomenologiche idonee ad integrare l'illecito contestato''
“Ruby Ter” assoluzione Berlusconi-Apicella: “Non c’è prova accordo corruttivo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2023.
Le motivazioni della sentenza dei giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Roma: "Tra i due c'era un rapporto di lunga data anche amicale, non correlabile alle false deposizioni"
“L’affermazione che le corresponsioni ottenute da Mariano Apicella costituissero il prezzo della corruzione, in quanto effettuate “per rendere e per aver reso le false testimonianze” deve necessariamente essere valutata alla luce del rilievo che tra Silvio Berlusconi e Mariano Apicella intercorreva un rapporto personale di lunga data, non strettamente correlabile alle false deposizioni testimoniali rese da quest’ultimo nell’ambito dei processi ‘Ruby1’ e ‘Ruby2″.
E’ quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 17 novembre i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Roma hanno assolto Silvio Berlusconi e Mariano Apicella, con la formula “perché il fatto non sussiste” nel troncone processuale romano del processo “Ruby Ter” che vedeva l’ex premier imputato per la presunta corruzione legata alla falsa testimonianza del cantante napoletano riferita alle feste organizzate ad Arcore.
“La valutazione delle risultanze dibattimentali non ha consentito di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità degli imputati, dal momento che le pur copiose acquisizioni documentali e le prove orali assunte sul punto non hanno offerto alcuna prova diretta dell’ipotizzato accordo corruttivo. Ed invero, le emergenze processuali, pur destando più che un sospetto sull’esistenza di un tacito e implicito “patto” tra gli imputati, non consentono di descrivere le condotte con le connotazioni fenomenologiche idonee ad integrare l’illecito contestato”.
I giudici avevano inoltre dichiarato la prescrizione per l’accusa di falsa testimonianza nei confronti di Apicella. Il rinvio a giudizio per i due era stato deciso dal gup di Roma all’udienza preliminare del 16 maggio 2018. Anche la Procura di Roma aveva chiesto l’assoluzione per entrambi gli imputati.
“Risultano documentalmente provati diversi bonifici in favore di Apicella – scrivono i giudici – nell’arco temporale 2002/2011 provenienti dal conto corrente intestato a Berlusconi per un totale versato di oltre 290.000 euro; allo stesso modo con riferimento all’estratto del conto corrente intestato a Berlusconi“ presso un altro istituto di credito “nel periodo 2005/2008 risultano accrediti sul conto di Apicella complessivo di 96.600 euro; infine, dall’estratto del conto corrente di Berlusconi emerge un bonifico di centomila euro in favore di Apicella effettuato nel 18 giugno 2008 (…). Di notevole interesse è la sensibile oscillazione del quantum via via elargito da Berlusconi ad Apicella – sottolineano i giudici – che si attesta da un minimo di 648 euro (28 gennaio 2003) ad un massimo di 40.000 euro (prestito infruttifero del 20 ottobre 2003), per poi assestarsi sulla media di 3.100 euro. A ciò deve aggiungersi il bonifico di 100.000 euro del 18 giugno 2008 con la causale ‘prestito infruttifero’. Gli elementi (certi) appena illustrati non sono di per sé sufficienti a provare che i bonifici fossero effettivamente ed esclusivamente correlati all’accordo corruttivo intervenuto tra gli imputati in vista delle deposizioni testimoniali rese da Apicella“.
”Tali dati documentano dunque la periodicità mensile delle corresponsioni in epoca antecedente a quella indicata nell’imputazione, l’assoluta tracciabilità dello strumento adottato costituito dall’uso di bonifici bancari, e la sostanziale equipollenza delle elargizioni, legittimando ad inferire, contrariamente ed alternativamente all’assunto accusatorio, l’esistenza, tra gli imputati, di uno stabile e risalente rapporto personale – si legge nella sentenza – di natura professionale se non anche amicale”. Redazione CdG 1947
Si sgretola il "rito ambrosiano". Ruby Ter, Berlusconi verso l’ennesima assoluzione: si sgretola il “rito ambrosiano”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Dicembre 2022
Il 15 febbraio 2023, dopo aver festeggiato San Valentino, Silvio Berlusconi avrà motivo per alzare di nuovo i calici per l’assoluzione al processo Ruby-ter. È solo una previsione, ma non potrà andare diversamente. E sarà una pesante sconfitta per quel “rito ambrosiano” che si è caratterizzato soprattutto per aver infranto le regole dello Stato di diritto. Lo ha ricordato ieri mattina il professor Franco Coppi, difensore dell’ex presidente del consiglio insieme all’avvocato Federico Cecconi, attaccando l’ipotesi della Procura sia nel merito dell’accusa di corruzione di testimoni, che nel metodo procedurale usato.
Il “rito ambrosiano” del resto era stato messo in discussione dagli stessi giudici del tribunale presieduto da Marco Tremolada lo scorso 2 novembre, con un’ordinanza che è diventata un sorta di lavoro preparatorio per la difesa. E una vera lezione di procedura per i pubblici ministeri. Perché la corruzione esiste solo se c’è un pubblico ufficiale, cioè un testimone nel processo. Ma le ragazze chiamate a testimoniare nel Ruby uno e Ruby due erano già nella posizione di indagate, quindi avrebbero dovuto essere interrogate con il difensore, come indagate in procedimento connesso. Naturalmente i rappresentanti dell’accusa, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, che hanno già chiesto sei anni di carcere per il leader di Forza Italia, si oppongono a questa tesi che è in realtà un dato di fatto, tanto che i difensori di Berlusconi avevano appunto sollecitato il tribunale a guardare meglio dentro le procedure del “rito ambrosiano”. Modalità molto particolari, fin dai primi giorni dell’inchiesta, quando, a fronte dei primi interrogatori della giovane Karima El Mahroug, c’era stato un inspiegabile ritardo di sei mesi prima che Silvio Berlusconi fosse iscritto nel registro degli indagati. Allora il capo della Procura si chiamava Edmondo Bruti Liberati e la pm era Ilda Boccassini. E quando si andava alla ricerca del reato, facendo controllare le persone che andavano a cena ad Arcore.
Il reato non è mai stato trovato, benché la Procura ne avesse individuati due, la concussione e la prostituzione minorile. Silvio Berlusconi è stato assolto in tre gradi di giudizio. Di qui l’assunto, che pare determinato più da spirito di rivalsa che da vero convincimento giuridico: la “colpa” è di tutti questi testimoni, donne e uomini, che hanno sfilato nelle aule del Palazzo di giustizia di Milano a dire che le cene di Arcore erano “normali”. Ma come potevano essere situazioni di ordinaria amministrazione, ha obiettato la pm Tiziana Siciliano nell’agitare le manette, dal momento che ci troviamo dinnanzi a un satrapo, un “sultano” che è perfino “amico di Putin”? È chiaro che Berlusconi ha corrotto i testimoni. I due che, in alternanza, c’erano sempre, i musicisti Mariano Apicella e Danilo Mariani, prima di tutto. Sono stati pagati, certo, nelle loro città, Siena e Roma. Così i fascicoli sono stati spostati in altri tribunali, per competenza territoriale. Ed è accaduto che, una volta lontane da Milano e dal “rito ambrosiano” le imputazioni di corruzione sia in un caso che nell’altro si siano trasformate in assoluzioni. Nel caso di Apicella a Roma è stato addirittura il pm Roberto Felici a chiedere l’assoluzione dell’imputato perché “il fatto non sussiste”.
La situazione non è molto diversa da quella delle ragazze, perché nessuno ha mai nascosto il fatto che da tempo Berlusconi le stia aiutando economicamente, visto che, soprattutto quelle che lavoravano nel mondo dello spettacolo o del giornalismo, avevano ricevuto solo danni dal veder apparire sui giornali i loro nomi vicino a quello dell’ex presidente del consiglio. Versamenti alla luce del sole, con accrediti sui conti correnti. Prima durante e dopo i processi. Dove è quindi la corruzione? Ma la Procura di Milano pare non arrendersi mai. Così il pm Gaglio ha ieri replicato, dopo che al professor Coppi erano bastati trenta minuti per la sua arringa, che se il processo sta durando a lungo la responsabilità è dell’imputato che a volte ha presentato “legittimo impedimento”. Legittimo, certo. Non si può dire lo stesso dell’ormai sconfitto “rito ambrosino”. E il 15 febbraio prossimo Silvio Berlusconi non potrà che essere assolto. Di nuovo, ancora e ancora.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 maggio 2023.
Già fatto. Hanno impiegato poco i giudici Marco Tremolada, Mauro Gallina e Silvana Pucci a scrivere e depositare le 197 pagine che motivano la sentenza di assoluzione per Silvio Berlusconi più 28 coimputati accusati, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza, false informazioni ai pm, riciclaggio e favoreggiamento della prostituzione: in altre parole il Ruby Ter, tramontato (diciamo pure distrutto) il 15 febbraio scorso con un’assoluzione con formula piena alias perché «il fatto non sussiste» (il fatto criminoso non è accaduto) e quindi, insomma: non è mai esistita nessuna corruzione in atti giudiziari.
Tre mesi fa, per deciderlo, impiegarono solo due ore di camera di consiglio, e già questo giustificava quantomeno una domanda: serviva un intero processo, per capirlo? Non si poteva già intuire, per esempio, in udienza preliminare?
Chiamasi domande retoriche, soprattutto se la risposta corrisponde precisamente alla tesi difensiva sempre sostenuta dai legali di Silvio Berlusconi […]. A chiarire ogni equivoco, il 15 febbraio scorso, intervenne anche una nota inviata dal presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia: tutto il processo era, ed è stato, un errore della procura, comprendente quindi anche il pm Tiziana Siciliano che subito però disse che «rimaniamo convinti che i reati ci siano stati». Le dispiacerà due volte, quindi, l’aver lavorato fuori ufficialmente dallo stato di diritto, salvo ricorso.
In sintesi, i processi Ruby […] sono stati sbagliati da subito: le testimonianze delle ragazze presuntamente corrotte, infatti, non potevano essere vagliate perché non potevano «essere considerate testimoni», bensì dovevano eventualmente essere indagate dall’inizio (11 anni fa) con ovvia assistenza dei loro avvocati.
Non erano testimoni, quindi i reati non esistevano per definizione: solo un testimone può rendere falsa testimonianza, e di conseguenza non può esistere «corruzione in atti giudiziari» se non esiste un testimone che menta a un pubblico ufficiale. E non sono cavilli.
[…] L’errore scolastico della pubblica accusa ha fatto sì che i giudici, nelle motivazioni, abbiano dovuto spendere pagine e pagine solo per descrivere il crollo procedurale dell'intero impianto accusatorio: senza neppure entrare nel merito delle imputazioni che parlavano di 10 milioni di euro pagati dal Berlusconi per comprare la reticenza delle ragazze, le cosiddette «olgettine», chiamate così perché in parte abitavano in via Olgettina, vicino a Milano Due.
In altre pagine, invece, si elencano poi anche gli indizi, le intercettazioni, le testimonianze e documenti che avrebbero dovuto portare la Procura (ossia, all’inizio, Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano) a iscrivere le ragazze come già indagate per corruzione: questo però prima che, dal 2012, si sedessero invece sul banco dei testi.
Anche i giudici di quei dibattimenti- scrive ora il Tribunale - dovevano porsi la questione: «Se le imputate fossero state correttamente qualificate, si sarebbe potuto discutere della configurabilità» dei reati di induzione a false testimonianze «nei confronti del solo Berlusconi» oppure una corruzione in atti giudiziari: gli indizi non mancavano in particolare per «Ruby» da parte dell'ex presidente del Consiglio.
Ruby al telefono ha detto ogni cosa, con certo compiacimento, e già nell'ottobre del 2010 parlava o straparlava a parenti e amici della presunta promessa da parte di Berlusconi di 5 milioni di euro se lei avesse dichiarato il falso. Poi, nel gennaio 2011, c'erano state le convocazioni delle giovani ad Arcore, e tra gli elementi indiziari c’erano anche le dichiarazioni di Imane Fadil che parlò di una rete di contatti per comprare il suo e loro silenzio.
Insomma, tutte quelle ragazze dovevano essere indagate perché «la ricerca della prova segue l'iscrizione della notizia di reato» e non viceversa. Ovvio. Invece, per l'aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, le iscrizioni nel registro degli indagati all’epoca non erano necessarie (va detto che questo confermarono anche due giudici in udienza preliminare) e quindi le testimonianze a loro dire erano pienamente utilizzabili. Traduzione pratica: potrebbero ricorrere in Appello, tanto per non ammettere una sconfitta che più cocente non potrebbe essere.
Estratto da lastampa.it il 16 maggio 2023.
Una «omissione di garanzia», ossia il fatto che le giovani ex ospiti di Arcore dovessero essere già indagate, per «indizi» di corruzione presenti, all'epoca dei processi Ruby e Ruby bis e sentite come testi assistite da avvocati con possibilità di non rispondere, ha «irrimediabilmente pregiudicato l'operatività di fattispecie di diritto penale sostanziale», in pratica spazzando via le accuse del Ruby ter.
Lo scrivono i giudici della settima penale di Milano nelle motivazioni della sentenza con cui, il 15 febbraio scorso, hanno assolto Silvio Berlusconi e gli altri 28 imputati […]
«Se le imputate fossero state correttamente qualificate e gli avvisi fossero stati formulati, si sarebbe potuto discutere della configurabilità dell'articolo 377 bis del codice penale» - delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria - «ovviamente nei confronti del solo Berlusconi in relazione alle dichiaranti che avessero scelto il silenzio e dell'articolo 319 ter codice penale», ossia corruzione in atti giudiziari […]
Ma quell'omissione di garanzia ha irrimediabilmente pregiudicato l'operatività di fattispecie di diritto penale sostanziale strettamente connesse con il diritto processuale» […].
In parole semplici le olgettine dovevano essere sentite non come testimoni assistite e non averlo fatto ha «pregiudicato» l'andamento del procedimento che si e concluso senza condanne.
La farsa del processo Ruby: non andava neppure fatto. Sentenza Ruby ter, bacchettata ai pm. La conferma: il processo fu un'imboscata. Luca Fazzo il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.
Le motivazioni della sentenza vengono depositate alle 8,17 di ieri mattina. Centonovantasette. Meno di quattro ore dopo, i pubblici ministeri le hanno già lette «attentamente» e hanno già deciso di non arrendersi. «Ruby ter, Procura Milano prepara ricorso contro assoluzione di Berlusconi», titola alle 12,16 un lancio di agenzia dell'Adnkronos. Una reazione-lampo, anche per limitare i danni mediatici di quella che - proprio dalla lettura attenta delle 197 pagine - appare come una sonora sconfitta. Il tribunale di Milano non si è limitato a spiegare perché Silvio Berlusconi e tutti gli altri imputati sono stati assolti dalle accuse di corruzione e falsa testimonianza: i giudici rifilano ai pm anche una severa lezione di diritto, accusandoli di avere calpestato principi fondamentali del codice e della Costituzione. Il processo Ruby ter, dice la sentenza, non sarebbe mai dovuto neanche cominciare. Ma è iniziato, ed è durato quattro anni prima di inabissarsi il 15 febbraio con una sfilza di assoluzioni «perché il fatto non sussiste».
Il tribunale, si badi, non dubita affatto che nelle serate nella villa di Arcore si svolgessero altro che «cene eleganti», e di conseguenza nemmeno dubita che Kharima el Mahroug e le altre fanciulle, una volta interrogate in aula, abbiano mentito. Semplicemente dice che avevano tutto il diritto di farlo, perché in realtà non erano dei testimoni ma delle indagate, su cui la Procura milanese scavava da tempo. Avrebbero avuto diritto di tacere, di mentire, di farsi assistere da un avvocato. Non gli è stato concesso nessuno di questi diritti. E questo sgonfia il processo dall'inizio: «Non sussistono i delitti di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza», si legge nella sentenza, perchè «non e stato integrato uno degli elementi costitutivi del reato». «É mancata la qualità di pubblico ufficiale in capo alle persone che in ipotesi d'accusa sarebbero state remunerate per rendere dichiarazioni compiacenti», scrive il giudice Silvana Pucci, e controfirma il presidente Marco Tremolada. Errori da matita blu, insomma.
Tre mesi fa, quando venne pronunciata la sentenza, i giornali pro-Procura titolarono: Berlusconi assolto per un cavillo. É proprio a smontare questa lettura minimalista della sentenza che i giudici milanesi dedicano la stragrande parte delle 197 pagine dense di precedenti, di sentenze della Cassazione e di giudizi a volte sferzanti sul comportamento dell'accusa. Altro che cavillo, si legge: «Non si discute di un mero sofisma, di una rigidità procedurale, di una sottigliezza tecnica priva di contenuti. Tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l'effettività della garanzia del nemo tenetur se detegere, (nessuno può essere obbligato a accusarsi da solo, ndr) di un principio che affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente garantito e pietra d'angolo dell'ordinamento giuridico». La prima a forzare le regole, portando in aula come testi donne su cui stava già indagando, fu la Procura, allora rappresentata da Ilda Boccassini. Ma i giudici e i pm arrivati dopo avrebbero avuto il dovere di porsi la questione, «in un'ottica di lealtà processuale e di giusto processo». Invece nulla accadde. I giudici del Ruby ter rivendicano di avere rimesso le cose a posto: «Un terzo filone processuale che non ha potuto fare a meno di ripristinare quell'ordine di garanzie violato, il tutto con profusione di ulteriori energie processuali che una riflessione sulla posizione delle dichiaranti, prima di escuterle, avrebbe evitato».
L'assoluzione di Ruby e delle altre Olgettine porta con sè inevitabilmente quella di Berlusconi e di tutti gli altri imputati: se non vi erano testimoni non può esservi la falsa testimonianza e tantomeno la corruzione. «Indizi inequivoci», dice la sentenza, dicono che le ragazze mentirono, e che vennero pagate: anche se «la prova che la procura ha inteso fornire in ordine all'accordo corruttivo è di tipo indiziario». Ma depurata dalla veste processuale l'intera vicenda delle notti di Arcore e del bunga bunga retrocede a quanto era forse fin dall'inizio, una storia privata di rapporti tra liberi e consenzienti.
La Procura esce malconcia ma non doma, e prannunciando il ricorso fa sapere che il caso Ruby (anche se parte delle accuse sono ormai comunque prescritte) non si chiude qui. Ma intanto la difesa di Berlusconi applaude a una sentenza che considera inattaccabile: «La lettura delle articolate motivazioni - dice uno dei legali del Cavaliere, Federico Cecconi - con cui il tribunale dispiega le ragioni a fronte delle quali ha mandato assolto Berlusconi con la formula più ampia possibile, e cioè perché il fatto non sussiste, non può non suscitare vivo apprezzamento per la completezza e qualità delle argomentazioni giuridiche in esse contenute. Questa sentenza evidenzi criticità comuni all'intero filone giudiziario partito dal cosiddetto Rubygate nel 2011, in quanto nei vari procedimenti sono state interrogate persone senza le dovute garanzie difensive».
Ruby ter, la stoccata dei giudici ai pm: «Violato il diritto». Depositate le motivazioni dell’assoluzione di Silvio Berlusconi: «Inutile dispendio di attività processuale». Le “olgettine” furono sentite come persone informate sui fatti e non come indagate: altro che cavillo, «ripristinato l’ordine di garanzie violato». Valentina Stella su Il Dubbio il 16 maggio 2023
«Se le imputate», le cosiddette ex olgettine, «fossero state correttamente qualificate» come indagate, sui cui c’erano già indizi di reità, «si sarebbe potuto discutere della configurabilità» delle ipotesi di reato di intralcio alla giustizia o di corruzione in atti giudiziari. Tuttavia, «quell’omissione di garanzia ha irrimediabilmente pregiudicato l’operatività di fattispecie di diritto penale sostanziale strettamente connesse con il diritto processuale».
Sono parole durissime quelle che i giudici Tremolada-Gallina-Pucci scrivono contro la procura milanese nelle motivazioni della sentenza Ruby Ter, con la quale lo scorso 17 febbraio hanno assolto tutti e 29 gli imputati, tra i quali Silvio Berlusconi. In parole semplici, le olgettine sarebbero dovute essere sentite non come testimoni assistite e la circostanza di non averlo fatto ha «pregiudicato» l’andamento del procedimento, che si è concluso senza condanne. In quelle 200 pagine di motivazione i giudici hanno chiaramente bacchettato i colleghi pubblici ministeri per aver messo il campo un format investigativo assai diffuso: si convoca gente per farla parlare, sapendo che prima o poi verrà iscritta nel registro delle notizie di reato, ma intanto la si spreme per avere informazioni senza garanzie.
Da molti commentatori la ragione sottesa alla decisione di assolvere Berlusconi era stata bollata come semplice “cavillo”; in realtà le motivazioni spiegano bene che così non è. E già ci anticipò tale interpretazione l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Ucpi: il cavillo, in verità, «sarebbe una regola di portata universale per cui se una persona è potenzialmente indagata non può essere qualificata come testimone e ha il diritto di tacere. È questo di cui stanno discutendo nel caso Berlusconi: quando si fecero le indagini sono state interrogate come testimoni delle persone che testimoni non potevano essere, in quanto l’ipotesi che andavano investigando riguardava anche loro responsabilità». Come scrivono infatti i giudici, «non si discute di un mero sofisma, di una rigidità procedurale, di una sottigliezza tecnica priva di contenuti. Tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia di un principio che affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente garantito e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico». E ancora: «Le pur legittime esigenze punitive non possono mai indurre ad abdicare alla garanzia di un diritto fondamentale».
La procura di Milano aveva elencato nel processo Ruby ter, quali prove del presunto accordo corruttivo tra l'ex premier Silvio Berlusconi e le olgettine, «elementi che - in forma di indizi - erano già a disposizione dei collegi dei processi cd. Ruby 1 e Ruby 2» e ciò «dimostra», ad avviso dei giudici del tribunale, «che in quei processi quegli elementi potessero e dovessero determinare all'escussione delle imputate come indagate sostanziali», rispetto alle quali non servono prove ma «sono sufficienti indizi del reato».
Ecco un altro importante passaggio delle motivazioni. Le ragazze che avrebbero ricevuto soldi o altre utilità in cambio del silenzio non dovevano essere ascoltate come semplici testimoni, ma come «assistite» e questo «avrebbe evitato un dispendio di attività processuale di fatto rivelatasi inutilizzabile». «Gli elementi per qualificare correttamente le odierne imputate erano negli atti a disposizione dell'autorità giudiziaria già prima che le medesime fossero chiamate a sedere sul banco dei “testimoni”. I due tribunali li valorizzarono nelle sentenze solo al fine di privare in concreto di valore probatorio le dichiarazioni rese, anche in considerazione della ritenuta falsità delle medesime», si aggiunge. «Ma, all'evidenza, non si poteva certo aspettare che il soggetto asseritamente pagato per rendere dichiarazioni false rendesse queste ultime per dimostrare un'indebita interferenza con l'attività processuale di cui già c'erano indizi. Diversamente, come osservato, si finirebbe per realizzare l'obiettivo che le norme sull'incompatibilità a testimoniare intendono scongiurare: costringere taluno ad autoaccusarsi e incriminare il soggetto già impropriamente escusso come testimone per le dichiarazioni rese in una veste che non poteva legittimamente assumere», concludono i giudici.
Il rimprovero dei giudici verso la procura non si ferma qui: «Se fossero state osservate le garanzie collegate all'effettiva veste delle dichiaranti, non si sarebbero disperse energie processuali nell'acquisizione di dichiarazioni da fonti che si sapevano “inquinate” a monte e che, a valle, sono state comunque ritenute sterili ai fini dell'accertamento dei fatti». E poi la stoccata finale: «Tutte le odierne imputate sono state infatti ritenute inattendibili proprio perché contaminate dal più volte evocato “inquinamento probatorio”, come efficacemente denominato dalla sentenza resa all'esito del processo cosiddetto Ruby 2. Senza contare la generazione di un terzo filone processuale, il presente, che non ha potuto fare a meno - diversamente avrebbe tradito l'essenza dello Stato di diritto - di ripristinare quell'ordine di garanzie violato, il tutto con profusione di ulteriori energie processuali che una riflessione sulla posizione processuale delle dichiaranti, prima di escuterle, avrebbe evitato. Si chiude qui l'unica considerazione postuma che questo collegio si è concesso», aggiungono i giudici.
In conclusione, «quanto accaduto nella vicenda processuale oggetto del presente giudizio è paradigmatico del fatto che l'autorità giudiziaria deve assicurare il rispetto nel caso concreto del bilanciamento tra la garanzia dell'individuo e le istanze della collettività di accertamento dei reati, conchiuso nelle norme sullo statuto dei dichiaranti». Intanto i pm di Milano, dopo aver letto con attenzione le motivazioni della sentenza sul caso Ruby ter, valuteranno di ricorrere in appello contro le assoluzioni decise dalla settima penale.
Adnkronos.
Dagospia.
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Il Corriere della Sera.
Il Tempo.
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L’Identità.
L’Inkiesta.
Panorama.
La Gazzetta del Mezzogiorno.
Il Foglio.
Il Dubbio.
Il Riformista.
(Adnkronos il 15 febbraio 2023) - "Leggeremo le motivazioni per poter commentare in modo approfondito. Certo, è un fatto significativo, le aspettative della procura di Milano probabilmente erano altre e quindi sorprende un po', anche se non sono particolarmente sorpreso perché non conosco bene il materiale probatorio. Però, per carità, le sentenze vanno sempre rispettate. E siccome Berlusconi in questo momento sta anche sostenendo posizioni coraggiose in politica estera, non dico che sono contento che sia stato assolto, ma l'assoluzione è benvenuta".
Così all'AdnKronos l'ex pm Antonio Ingroia, presidente di 'Azione civile' e leader di 'Italia sovrana e popolare', commenta l'assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter.
DAGONEWS il 15 febbraio 2023.
Sì, nel centrodestra su Berlusconi c'è proprio un gelo polare. Una prova? Sono stati solo i deputati di Forza Italia ad applaudire in Aula alla Camera quando Paolo Emilio Russo ha comunicato all'Assemblea di Montecitorio la notizia dell'assoluzione del Cav al processo Ruby Ter.
Come riporta lo stenografico della seduta, all'annuncio di Russo si sono registrati soltanto "Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia-Berlusconi Presidente-PPE, che si alzano in piedi". E basta.
Processo Ruby ter. La sentenza: nessuna corruzione, Silvio Berlusconi assolto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2023
Il leader di Fi era accusato di aver pagato le ospiti di Arcore per mentire durante i processi Ruby1 e 2. Assolti anche gli altri 28 imputati. Demolito l'impianto accusatorio della Procura di Milano. Alla base dell'assoluzione errori di carattere giuridico
Silvio Berlusconi è stato assolto dall’accusa di corruzione in atti giudiziari nel processo milanese “Ruby ter”. Lo hanno deciso i giudici della settima sezione penale del tribunale di Milano dopo una camera di consiglio durata circa 2 ore. Assieme a Berlusconi i giudici hanno assolto tutti i 28 imputati, tra cui Ruby, l’ex compagno Luca Risso e le 20 ‘olgettine’ accusati, a vario titolo, di falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari.
La sentenza odierna mette la parola fine ad un processo durato sei anni in cui la procura di Milano accusava il leader di Forza Italia di aver pagato – a partire dal novembre 2011 e fino al 2015 – circa 10 milioni di euro alle giovani ospiti di Arcore per essere reticenti o mentire durante i processi “Ruby” e “Ruby bis” sulle serate di villa San Martino. Un’accusa da cui l’ex premier si è sempre difeso parlando di “generosità” per ricompensare chi si è visto rovinare la vita da un’inchiesta giudiziaria presto esplosa sulla stampa.
Le motivazioni
Le “olgettine” andavano ascoltate in veste di indagate e non di testimoni, l’ ‘errore’ madornale della procura ambrosiana che ha fatto decadere sia la falsa testimonianza che la corruzione in atti giudiziari. Questa in sintesi la motivazione con cui i giudici della settima sezione penale del tribunale di Milano hanno assolto Berlusconi e gli altri 28 imputati. “La falsa testimonianza può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone. Se viene assunto come ‘testimone’ un soggetto che non poteva rivestire tale qualità perché sostanzialmente raggiunto da indizi per il reato per cui si procede o per altro ad esso connesso, la possibilità di punirlo per dichiarazioni false – spiegano i giudici – è esplicitamente esclusa“.
La corruzione in atti giudiziari sussiste “solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale. Per giurisprudenza costante, la persona che testimonia assume un pubblico ufficio e le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che il giudice chiamato ad accertare la fattispecie correttiva deve verificare se il dichiarante che si assume essere stato corrotto sia stato o meno correttamente qualificato come testimone“, si spiega nella sentenza.
“Poiché le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari, mancando la qualità di pubblico ufficiale (nella specie testimone) in capo al ‘corrotto’. Se il soggetto che si assume come corrotto non può qualificarsi come pubblico ufficiale e dunque manca un elemento costitutivo del delitto corruttivo, giuridicamente quest’ultimo non può sussistere nemmeno nei confronti dell’ipotizzato corruttore, nel caso di specie Berlusconi. Infatti, la corruzione in atti giudiziari presuppone necessariamente un accordo tra il pubblico ufficiale corrotto e il corruttore”. Nessuna condanna quindi per Iris Berardi, Barbara Faggioli, le gemelle De Vivo, Francesca Cipriani, Marystell Polanco e le altre ragazze ospiti delle serate di Arcore.
Per analoghe ragioni, di carattere esclusivamente giuridico, sono stati assolti anche l’ex avvocato di Ruby, Luca Giuliante (accusato di corruzione) e l’ex fidanzato Luca Risso (falsa testimonianza e riciclaggio) accusati di reati che “presuppongono la sussistenza di un reato che non sussiste, la corruzione in atti giudiziari attribuita a El Mahroug“. Risso, inoltre, non poteva essere sentito come testimone. Infine, è stata pronunciata assoluzione per il delitto di false informazioni contestato a Luca Pedrini (la procura aveva chiesto l’assoluzione), per le false testimonianze ascritte al giornalista Carlo Rossella nonché per l’ipotesi di favoreggiamento alla prostituzione contestato a Aris Espinosa “perché dagli atti è emersa con evidenza l’insussistenza del fatto“. Per l’imputazione di calunnia contestata a Roberta Bonasia e le false testimonianze di cui erano accusati Simonetta Losi, l’esponente politica Maria Rosaria Rossi ed il fisioterapista Giorgio Puricelli “ha prevalso l’estinzione del reato per prescrizione“.
Lo spiega con precisione il presidente facente funzioni del Tribunale di Milano Fabio Roia con una nota sulla base “degli elementi di fatto” che “verranno dettagliatamente illustrati nella motivazione della sentenza, il Tribunale ha accertato – scrive Roia in una lunga nota – che le imputate Amarghioalei, Barizonte, Berardi, Bonasia, Cipriani, De Vivo Concetta, De Vivo Eleonora, El Mahroug, Espinosa, Faggioli, Ferrera Marianna, Ferrera Manuela, Loddo, Garcia Polanco, Guerra, Rigato, Skorkina, Sorcinelli, Toti, Trevaini e Visan non potevano legittimamente rivestire l’ufficio pubblico di testimone nei procedimenti” Ruby e Ruby bis “perché sostanzialmente indagate di reato connesso“. Gli indizi “non equivoci a loro carico risultavano dagli atti dei procedimenti in cui le stesse sono state escusse come testimoni”. Questo accertamento, si legge, “sulla qualità soggettiva in capo alle imputate dei reati contestati incide sulla stessa possibilità di configurare sia la falsa testimonianza che la corruzione in atti giudiziari”.
La falsa testimonianza, infatti, chiarisce il Tribunale, “può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone”. Andavano, invece, indagate e sentite con la presenza di avvocati e la possibilità di non rispondere. La corruzione in atti giudiziari, poi, “sussiste solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale“. La Cassazione ha chiarito “che il giudice deve verificare se il dichiarante che si assume essere stato corrotto sia stato o meno correttamente qualificato come testimone”. E poiché “le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi” andavano “correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari, mancando la qualità di pubblico ufficiale (nella specie: testimone) in capo al ‘corrotto‘”.
Così l’elemento “costitutivo del delitto corruttivo” non “può sussistere nemmeno nei confronti dell’ipotizzato corruttore, nel caso di specie Berlusconi”. Infatti, la “corruzione in atti giudiziari presuppone necessariamente un accordo tra il pubblico ufficiale corrotto e il corruttore”. Assoluzioni che si trascinano dietro, in sintesi, anche quelle di Giuliante, ex legale di Ruby e per l’accusa presunto intermediario nella corruzione, e di Luca Risso, ex compagno della giovane e che era accusato di riciclaggio. Anche Risso, poi, non poteva essere sentito come teste ‘semplice’. Infine, è stata pronunciata “assoluzione per il delitto di false informazioni al pm contestato a Pedrini, per le false testimonianze ascritte a Carlo Rossella, nonché per l’ipotesi di favoreggiamento alla prostituzione contestato a Espinosa perché dagli atti è emersa con evidenza l’insussistenza del fatto. Per la residua imputazione di calunnia contestata a Bonosia e le false testimonianze di cui erano accusati Losi, Rossi e Puricelli ha prevalso l’estinzione del reato per prescrizione“.
Si tratta di un macigno giudiziario “tombale” sul processo, difficilmente superabile anche se la Procura decidesse di ricorrere in appello contro l’assoluzione di Berlusconi.
Karima «Ruby» El Marough dopo la lettura della sentenza di assoluzione ha regalato il suo libro – che presenterà il 16 febbraio a Milano – alla pm Tiziana Siciliano che insieme al pm Luca Gaglio ha rappresentato l’accusa nel processo per falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari. Un regalo, una stretta di mano e una frase sussurrata davanti ai giornalisti: “Così conoscerà la mia vera storia“.
Le reazioni alla sentenza
“E’ un’assoluzione con la formula più ampia e più piena possibile, non posso che essere enormemente soddisfatto, tre su tre!”, ha commentato l’avvocato Federico Cecconi, facendo riferimento anche alle precedenti assoluzioni per i due filoni del processo Ruby ter a Siena e Roma.
“Ho fatto bene a credere nella giustizia“, queste le prime parole di Karima El Marough (Ruby) dopo la sentenza. “Questa assoluzione è una grandissima liberazione, questi anni sono stati un macigno, ho vissuto perdendo la mia identità e senza sentirmi mai giusta. Ero una ragazzina, andavo protetta”. E annuncia il suo debutto letterario con il libro ‘Karima‘ in cui racconta la sua storia. “Da domani inizia la mia nuova vita senza processi, avvocati e tribunali, smetto di venire in queste aule che mi hanno sempre fatto tanta paura. Da domani inizio a vivere“.
“Nessuno potrà mai restituirci gli anni di ingiustizia subiti e di sofferenza nostra e di chi ci sta accanto, ma oggi è il momento del sollievo e della gioia, ed io sono felice per me ovviamente ma per il Presidente Berlusconi soprattutto. Ci sarà tempo per tutto il resto”, commenta all’Adnkronos l’ex senatrice di Forza Italia Maria Rosaria Rossi, il proprio proscioglimento e l’assoluzione di Silvio Berlusconi.
“Non c’è amarezza, è il nostro sistema giudiziario, noi abbiamo lavorato con profonda convinzione e le prove dal nostro punto di vista conducevano assenza alcun dubbio a fatti di corruzione. Restiamo convinti delle false testimonianze e della corruzione”, afferma il procuratore aggiunto di Milano Tiziano Siciliano sulla sentenza che ha assolto tutti gli imputati.
“La nuova, ennesima, assoluzione del presidente Silvio Berlusconi dimostra ancora una volta i danni causati dall’uso politico della giustizia e le indebite interferenze sulla vita politica del nostro Paese. È questo il momento di fare chiarezza e, pertanto, oggi Forza Italia ha chiesto la calendarizzazione della proposta di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia nel corso degli uffici di presidenza delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera“. Così in una nota i membri di Forza Italia delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati.
La soddisfazione e l’amarezza di Marina Berlusconi. La figlia maggiore del Cavaliere, Marina ha scritto un lungo commento sull’assoluzione del padre: “Ci sono voluti nove anni perché mio padre venisse assolto, e assolto “perché il fatto non sussiste”, da una accusa tanto infondata quanto infamante e del tutto priva di senso e di logica. Ed è la quarta assoluzione nei quattro processi celebrati per i vari filoni di quel mostro giuridico chiamato “caso Ruby”, che si trascina da dodici anni. Certo, la soddisfazione è grandissima, e il fatto che la giustizia riconosca finalmente la verità è importante, ma è una vittoria che ha avuto un prezzo troppo alto. Non solo per mio padre, anche per tutte le persone che lo amano e lo stimano, per i milioni di italiani che negli anni lo hanno votato”.
“Una persecuzione del genere non si può cancellare così, con un colpo di spugna. Anche perché questa vicenda, nata sul nulla e sul nulla portata avanti con furioso accanimento ideologico da una piccola ma potente parte della magistratura, ha segnato e condizionato la storia e la politica del nostro Paese, la sua stessa immagine all’estero. Mi auguro che questa ennesima dimostrazione dei guasti provocati dalla faziosità e dall’odio coltivato contro l’avversario favorisca il processo di cambiamento, che i tribunali possano finalmente essere davvero per tutti aule di giustizia e non di lotta politica, che i cittadini possano guardare alle toghe con la fiducia che gran parte di esse meritano. Solo in questo modo, credo, questa vicenda potrà forse risultare un po’ meno drammaticamente assurda“. conclude Marina Berlusconi.
“Sono stato finalmente assolto” nel processo Ruby ter “dopo più di undici anni di sofferenze, di fango e di danni politici incalcolabili, perché ho avuto la fortuna di essere giudicato da Magistrati che hanno saputo mantenersi indipendenti, imparziali e corretti di fronte alle accuse infondate che mi erano state rivolte”. Lo scrive Silvio Berlusconi sui social a commento della sentenza definitiva di assoluzione per inel processo milanese perché il ‘‘fatto non sussiste”. Il Cav posta una sua foto sorridente in doppiopetto stile ’94 con la scritta a caratteri maxi ‘Finalmente‘ e alle spalle il simbolo di Forza Italia. Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2023.
A più di nove anni dall’iscrizione nel registro degli indagati, dopo sei anni di udienze con rallentamenti e rinvii continui e dopo due assoluzioni nei filoni satellite a Siena e Roma, Silvio Berlusconi viene assolto «perché il fatto non sussiste» dal reato di corruzione in atti giudiziari anche nel processo Ruby ter.
La Procura aveva chiesto la condanna a 6 anni di carcere senza attenuanti accusandolo di aver comprato il silenzio o le falsità di una ventina di «olgettine» che, a partire dal 2011, testimoniarono nei processi Ruby 1 e Ruby 2 sulle cene e i dopocena del «bunga bunga» ad Arcore. Un esito legato a ragioni «esclusivamente giuridiche», precisa in una nota Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano.
[…] Ha pesato come un macigno l’ordinanza con cui a novembre 2021 il tribunale accolse l’eccezione del difensore del Cavaliere, l’avvocato Federico Cecconi, artefice principale del successo, secondo il quale nei Ruby 1 e 2 le olgettine dovevano essere interrogate come indagate assistite da un avvocato, non come testimoni.
Questo rende inutilizzabili le loro dichiarazioni nel Ruby ter. Roia conferma che nei due processi c’erano già «indizi non equivoci a loro carico» di una possibile corruzione. Non potendo essere considerate semplici testimoni in quei procedimenti, cadono dunque la falsa testimonianza e la corruzione in atti giudiziari. Già negli anni del Ruby 1, Berlusconi aveva detto che aiutava le ragazze per danni avuti dalle indagini. […] I pm attendono le motivazioni tra 3 mesi per valutare se fare appello. «Le prove, dal nostro punto di vista, ci hanno dato la convinzione, che rimane, che ci siano state le false testimonianze e la corruzione», dice il procuratore aggiunto Siciliano. […]
Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 17 febbraio 2023.
Avvocato Federico Cecconi, come difensore di Silvio Berlusconi lei è stato il protagonista del processo Ruby ter […] con l’eccezione sull’inutilizzabilità delle testimonianze presentata addirittura a gennaio 2019.
«Premetto che trovo inappropriate alcune sintesi giornalistiche secondo le quali il processo è stato vinto per un cavillo. Nel vocabolario della lingua italiana il cavillo è un “argomento o ragionamento sottile sostenuto in malafede per alterare la verità”. Nulla di tutto questo. Abbiamo fatto un’eccezione all’inizio del processo che il tribunale ha tenuto in riserva. Non per dimenticanza, ma perché ha voluto decidere dopo aver sentito tutti i testimoni della procura […]».
Una questione di forma, dice qualcuno.
«No, di sostanza. Mentre si svolgevano i processi Ruby 1 e Ruby 2, era in corso un’inchiesta (la compravendita di case per alcune ragazze, ndr) che ha coinvolto per corruzione taluni soggetti che avrebbero dovuto essere sentiti nei due processi. Il Tribunale del Ruby ter ha detto che quelle persone dovevano essere indagate dalla procura, ma ciò non è avvenuto nonostante ci fosse un flusso di elementi tra i vari uffici. Questi soggetti, se fossero stati informati prima, avrebbero anche potuto avvalersi della facoltà di non rispondere nei processi».
È la terza assoluzione dopo quelle nei processi satellite di Roma e Siena.
«Nei quali questa eccezione non è stata fatta e l’assoluzione è avvenuta lo stesso perché abbiamo dimostrato che le dazioni non avevano profili di opacità. Mi pare che in queste ore ci sia chi stia anticipando male e con interpretazioni irragionevoli le motivazioni della sentenza Ruby ter che inevitabilmente forniranno più punti ed argomenti sull’assoluzione». […]
Resta che Berlusconi da anni versa denaro a una serie di persone.
«Tutto è stato fatto in buona fede ritenendo che alcune sue ospiti siano state vittime di una gogna mediatica che le ha danneggiate sul piano personale e professionale». […]
La gioia di Berlusconi, assolto nel Ruby ter: «Finisce un massacro, per fortuna un magistrato indipendente». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.
La notizia a pranzo ad Arcore. Gli applausi alla Camera. «Ho avuto la fortuna di trovare magistrati che hanno saputo mantenersi imparziali di fronte ad accuse infondate»
Se l’aspettava un po’ più tardi la sentenza, nel pomeriggio. È arrivata mentre era a pranzo, ad Arcore. Ed è stato un tripudio, un ininterrotto squillare di telefoni, i suoi che in Aula alla Camera annunciavano proprio con il suo portavoce Paolo Emilio Russo che stava intervenendo che «il calvario giudiziario finisce» applaudendo, tutti insieme. Una liberazione. Lui ha parlato con Giorgia Meloni, ringraziandola per la nota con cui si congratulava per l’assoluzione e per la decisione del giorno prima di ritirare la costituzione di parte civile del governo contro di lui: un atto che l’ex premier ha gradito molto, proprio perché arrivato alla vigilia della sentenza. I figli, gli amici più cari, poi gli avvocati che sono arrivati a spiegargli i dettagli della sentenza.
Il sollievo, la gioia di un risultato in cui sperava sì, ma che non era certo, conditi da amarezza per «quello che ho dovuto passare, solo io so che significa un massacro così, solo io». Il pensiero a Niccolò Ghedini, che per anni si è battuto per arrivare a questo risultato, prima di andarsene per una leucemia in estate. Poi la speranza che si trasforma in vero ottimismo: che adesso anche per l’ultimo processo delicato ancora aperto — quello Tarantini sulle escort — la strada sia in discesa: dopo questa assoluzione — è l’opinione di Berlusconi e del suo inner circle — non dovrebbero più esserci problemi. Una china iniziata con l’assoluzione sempre per corruzione di testimoni nel processo di Siena. Insomma, sembra proprio agli azzurri che «la storia si chiuda». Anche per questo, Berlusconi ha lasciato che i suoi si sfogassero con le accuse ai magistrati che l’hanno «perseguitato», a partire dalle due figlie Marina e Barbara, ma ha scelto di diramare una nota che per i suoi toni usuali appare quasi sobria. Scritta, assicurano, completamente di suo pugno: «Sono stato finalmente assolto dopo più di undici anni di sofferenze, di fango e di danni politici incalcolabili, perché ho avuto la fortuna di essere giudicato da magistrati che hanno saputo mantenersi indipendenti, imparziali e corretti di fronte alle accuse infondate che mi erano state rivolte». Fine.
I numeri, i calcoli, le invettive, il leader azzurro, ancora nella bufera per il caso Ucraina, le lascia agli altri. Anche per un ragionamento di utilità: quando si vince, inutile calcare troppo la mano, tanto più, appunto, se c’è ancora un processo in corso. Al quale tiene tantissimo, perché per lui che la sua immagine torni pulita, che gli sia restituito pienamente «l’onore», è fondamentale. Certo, il passaggio sui magistrati che hanno saputo giudicare bene è significativo: la sua battaglia per la separazione delle carriere continuerà, ma oggi non è tempo di «ritorsioni». La richiesta di una commissione di inchiesta sulla magistratura politicizzata è una mossa che l’ex premier lascia al suo partito, con una proposta di legge che era stata già depositata lo scorso settembre, ed è quasi una scelta obbligata per far risaltare al meglio l’assoluzione e spostare appunto l’attenzione da nodi più spinosi.
Ma chi gli ha parlato assicura che in questa fase Berlusconi si sente piuttosto garantito sia dal governo sia dal clima generale. Parla «molto spesso» e «benissimo» del ministro della Giustizia Nordio, e sa bene che anche al Csm l’aria è cambiata: la vice presidenza di Fabio Pinelli, indicato dalla Lega, è un fatto importante. E non riprendere la guerra sulla giustizia nel momento in cui si hanno molte leve in mano è saggio, tanto più sapendo che per Fratelli d’Italia seguire gli alleati sulla china dell’attacco ai magistrati non è conveniente né tantomeno opportuno.
Si vedrà se ai ragionamenti seguiranno le azioni, con Berlusconi non è mai scontato. Come sull’Ucraina, che possa uscirsene con dichiarazioni inopportune è sempre possibile. Ma adesso è il momento di gioire e non schiacciare sull’acceleratore, anche per ripulire appunto l’immagine di leader che — perfino nel Ppe — è stata più che lesa dall’attacco a Zelensky.
La sentenza «Ruby Ter»: «Ora commissione sui magistrati» Ma FdI stoppa l’idea dei forzisti. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.
Cattaneo: inchiesta sull’uso politico della giustizia. I meloniani: boutade, non è sul tavolo
11 marzo 2013 . I parlamentari dell’allora Popolo della libertà «occupano» prima la scalinata del Tribunale di Milano e poi entrano a Palazzo di Giustizia per manifestare sostegno a Silvio Berlusconi mentre si sta celebrando il processo Ruby
«Calendarizzare immediatamente la proposta di legge per istituire una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della magistratura». Alessandro Cattaneo, capogruppo di Forza Italia alla Camera, in Aula, annuncia la direzione intrapresa dagli azzurri, appena la notizia dell’assoluzione di Berlusconi al processo Ruby ter inizia a circolare. Una presa di posizione che raccoglie applausi e innesca la standing ovation dell’intera pattuglia forzista. Da Fratelli d’Italia, però, filtra tutta la distanza da una richiesta avvertita come antimagistrati: «La proposta non è sul tavolo, è una boutade lanciata sull’onda emotiva dell’assoluzione di Berlusconi», frenano esponenti di primo piano del partito di Giorgia Meloni. «Noi crediamo che il 90% dei magistrati faccia bene il proprio lavoro e che in casi poco chiari basterebbero ispezioni mirate».
La sentenza sembra quindi provocare una frizione interna alla maggioranza di governo. Su un tema, quello della giustizia, sul quale l’anima garantista e quella giustizialista del centrodestra già da tempo si fronteggiano, trovando sponde nelle opposizioni. Solo due giorni fa tre deputati di FI e Lega hanno presentato insieme a due del Terzo polo le proposte di legge per la separazione delle carriere. Assente FdI che ha fatto sapere di voler attendere prima la riforma complessiva del processo penale che sta mettendo a punto il Guardasigilli Carlo Nordio. Cattaneo è netto: «Occorre fare chiarezza su 25 anni di lotte giudiziarie che non avevano a che vedere con il merito, ma usate come arma di scontro politico. Mai più persecuzione giudiziaria, FI chiede verità».
Segue la nota dei componenti forzisti delle due commissioni, Giustizia e Affari costituzionali: «L’ennesima assoluzione di Berlusconi dimostra i danni causati dall’uso politico della giustizia. Una commissione parlamentare d’inchiesta è necessaria». Il presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio, di FdI, ammette che «la richiesta di Forza Italia imprimerà un’accelerazione», e che la proposta «potrebbe essere in calendario ai primi di marzo». Nel merito, però, precisa: «Nostra priorità è la riforma del processo civile».
Immediata la controffensiva di 5 Stelle e sinistra. Di richiesta «pericolosa, che puzza di resa dei conti della destra verso la magistratura» parla Barbara Floridia, capogruppo del M5S al Senato. Per il verde Angelo Bonelli, l’assoluzione di Berlusconi dimostrerebbe la necessità «non di una commissione d’inchiesta contro i giudici, ma di una riforma della giustizia perché tutti siano uguali di fronte alla legge».
Processo Ruby ter: l’assoluzione, Berlusconi e una lunga arrampicata. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023
L’attuale sentenza nasce infatti da indagini concluse a metà 2015, richiesta di giudizio a fine 2015
Non c’è giuridicamente il danneggiamento, nemmeno è occupazione di edifici, non c’è procurato allarme: l’altro giorno il Tribunale di Milano, mandando assolto un polacco che aveva scalato le guglie del Duomo sino alla Madonnina, non ha trovato alcun reato nel quale incasellarne la pur chiara condotta. Figurarsi quanto ancor meno agevole sia discernere il sottile confine tra «meri sospetti» (che non bastano ai pm per indagare qualcuno, pena l’esporsi all’accusa di procurargli con superficialità uno stigma sociale) e invece «specifici elementi indizianti» tali da obbligare i pm a iscrivere l’indagato, pena altrimenti l’accusa di fare i furbi nel volerselo tenere teste, senza avvocato e con obbligo di dire la verità anziché facoltà di non rispondere e mentire. Confine talmente labile che la riforma Cartabia ora attribuisce già al gip il potere di retrodatare il momento scelto dal pm.
E’ in parte il tema postosi ora nel processo Ruby 3 a Berlusconi per i 4,1 milioni (stando alla stima più favorevole della sua difesa) elargiti in bonifici, case e auto a 20 ragazze testi nei processi Ruby 1 e Ruby 2 di 10 anni fa. L’attuale sentenza nasce infatti da indagini concluse a metà 2015, richiesta di giudizio a fine 2015, e udienza preliminare sfociata, su eccezione difensiva circa l’ultimo pagamento radicante la competenza, nello spezzettamento tra Milano, Monza, Treviso, Roma, Pescara, Siena e Torino: che però ritennero di nuovo competente Milano, dove un primo collegio si sciolse per trasferimenti dei giudici, il secondo iniziò a rilento perché faceva già il processo Eni-Nigeria, e la pandemia Covid si aggiunse ai complessivi due anni e mezzo di rinvii per la salute di Berlusconi. Persino l’eccezione decisiva andò al rallentatore: proposta dalle difese il 14 gennaio 2019, controbattuta dai pm il 4 febbraio e 8 luglio 2019, e accolta il 3 novembre 2021 dai giudici Tremolada-Gallina-Pucci, che l’altro ieri ne hanno tratto le conseguenze.
Diversamente dai verdetti già confermati in Cassazione, e dal rigetto dell’istanza ad opera dei gup in udienza preliminare, il Tribunale ha infatti ritenuto che sin dalla primavera 2012 le ragazze (ascoltate nei precedenti processo tra l’8 giugno 2012 e il 22 marzo 2013) non dovessero essere considerate ancora testi, ma già «sostanzialmente “indagate”» in ragione di tre indizi: l’intercettazione dell’allarmata convocazione d’urgenza ad Arcore (con i legali di Berlusconi) delle ragazze perquisite il 14 gennaio 2011, la richiesta dei pm di informazioni a Bankitalia il 16 aprile 2012 dopo 70.000 euro ricevuti dal padre di due ragazze, e la deposizione il 25 maggio 2012 del contabile di Berlusconi (il ragionier Spinelli) sui benefit alle ragazze.
Se non potevano avere più la veste testimoniale di pubblici ufficiali, ecco che averle Berlusconi coperte d’oro non può essere più «corruzione in atti giudiziari»; e neanche «induzione» di imputati in procedimenti connessi «a rendere mendaci dichiarazioni», divenute inutilizzabili perché fatte senza potersi avvalere; e neppure «intralcio alla giustizia», reato che richiede che l’offerta di denaro non sia accettata.
L’inutilizzabilità comporta inoltre l’assoluzione delle ragazze per le false testimonianze con cui negarono (contro l’evidenza delle loro stesse parole intercettate) quella «attività prostituiva» ad Arcore attestata poi non solo dalle condanne in Cassazione dei favoreggiatori Fede-Mora-Minetti, e non solo dai 2 anni in primo grado a Siena nel 2021 al pianista Danilo Mariani per falsa testimonianza, o dalla prescrizione della falsa testimonianza dell’ex senatrice Mariarosaria Rossi ora a Milano e del cantante Mariano Apicella a Roma nel 2021. Ma persino proprio dalle assoluzioni di Berlusconi in Appello nel 2014 e in Cassazione nel 2015: verdetti che contemplarono sia che «potesse non sapere» la minore età di Karima «Ruby» el Mahroug quando con la 17enne - come ricostruiscono le sentenze - nel 2010 aveva avuto rapporti a pagamento, criterio opposto al «non poteva non sapere» da cui Berlusconi si dipinge sempre perseguitato; sia che la notte del 27 maggio l’affidamento a Minetti della minorenne, spacciata da Berlusconi come «nipote del presidente egiziano Mubarak», fosse stato frutto del «timore autoindotto» del capo del gabinetto della Questura, e non della pressione delle telefonate parigine con cui Berlusconi «abusò sicuramente della sua qualità di Presidente del Consiglio, simulando un interesse istituzionale» che celava in realtà «un personale interesse» a scongiurare «rivelazioni compromettenti della ragazza». Le storie sono complicate. Ma un’amnesia somiglierebbe a un’arrampicata, più ancora che sugli specchi, proprio sulle guglie del Duomo.
"Stasera Italia, “grado di sopraffazione spaventoso”. Sansonetti chiede la riforma della giustizia. Il Tempo il 15 febbraio 2023
I magistrati hanno deciso di assolvere Silvio Berlusconi nel processo Ruby-ter poiché il fatto non sussiste. Nel corso dell’edizione del 15 febbraio di Stasera Italia, talk show di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, è ospite Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, che chiede una profonda rivoluzione della giustizia, attaccando in particolare il lavoro dei pm: “Ci sono sicuramente molti magistrati che fanno bene il loro lavoro, meno nelle procure. Fra i magistrati giudicanti molti lo sanno fare bene e lo fanno bene, nelle procure molto meno ed hanno esercitato un grado di sopraffazione spaventoso in questi anni. Penso che sia necessaria una commissione d’inchiesta e che sia necessaria una riforma radicale della giustizia che modifichi i rapporti tra i poter e che limiti il potere di sopraffazione della magistratura, in particolare delle procure. Il caso di Berlusconi - alza la voce Sansonetti - è un caso clamoroso, è stato processato 136 volte e assolto 135. Sull’unica condanna che ha ricevuto dovrà decidere Bruxelles, perché è ancora sotto il giudice della Corte europea”.
Il Tempo il 15 febbraio 2023. Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista, è ospite della puntata del 15 febbraio del programma televisivo pre-serale di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, Stasera Italia, e usa toni durissimi per difendere Silvio Berlusconi dal massacro che è andato in scena da parte della giustizia in questi anni in cui è stato uno degli attori protagonisti della vita politica italiana: “La mia lettura è obbligatoriamente storica, anche se è difficile dare una valutazione storica nell’attualità. Il caso di Berlusconi è il caso di tantissimi, ricordiamolo che la maggior parte degli innocenti finisce male. È una costante tipica dell’Italia. Qui però c'è un aggravante, quella del dato politico, ovvero io non riesco ad immaginare un altro in grado di sopportare 136 processi, stiamo parlando di un protagonista della scena politica italiana ed internazionale che si è trovato nella strada condizioni di dover fronteggiare un altro avversario molto più temibile di quanto possa essere politicamente nel Parlamento il corrispettivo. E soprattutto - sottolinea Buttafuoco - ha subito una condanna mediatica, difficile da scrollarsi dalle spalle”.
Ruby ter, Berlusconi assolto. Ghisleri rivela cosa pensano gli italiani. Giada Oricchio Il Tempo il 15 febbraio 2023
L’assoluzione di Silvio Berlusconi (insieme ad altri 28 imputati) nel processo Ruby ter dal reato di corruzione in atti giudiziari “perché il fatto non sussiste” (le cosiddette “olgettine” non potevano testimoni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 in quanto “indagate di reato connesso in base agli indizi non equivoci a loro carico”) ha suscitato molte reazioni politiche: la premier Giorgia Meloni ha salutato la sentenza come “un’ottima notizia”. E l’opinione pubblica cosa ne pensa? Gli italiani sono ancora interessati ai guai giudiziari dell’ex premier? Lo ha rivelato la direttrice di Euromedia Research, Alessandra Ghisleri.
In collegamento con la trasmissione “Tagadà”, mercoledì 15 febbraio, la sondaggista ha spiegato che i 135 procedimenti a carico del fondatore di Mediaset (sempre assolto, tranne in uno) non hanno cambiato la direzione del voto degli italiani, ma “sono stati una goccia che ha scavato la pietra, poco a poco ha leso soprattutto il rapporto con l’elettorato femminile di Forza Italia”.
Ghisleri ha sottolineato che data l’importanza politica e non del Cavaliere non c’è da stupirsi per la richiesta di una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia: “La vicenda ha leso l’immagine di uno degli uomini più potenti e ricchi della Terra. Sedeva ai G7, ai G20, tra gli amici aveva i presidenti americani. Senza entrare nel merito della vicenda, Berlusconi è sempre stato sotto scacco nel bene e nel male. Tutte le sue operazioni sono state fatte con una spada di Damocle”.
Secondo Ghisleri, chi votava per il leader di Forza Italia, lo ha fatto nonostante i processi anche se con il passare degli anni quelle vicissitudini hanno inciso nella morale degli italiani presi a interrogarsi sull’opportunità per un “signore di quell’età rappresentante delle istituzioni” di fare certe cose nel privato e ha aggiunto: “Si è gonfiato tutto come un soufflé. Ma in fondo per gli italiani erano fatti più personali che politici, consideravano le due cose indipendenti. A differenza del caso Panzeri (lo scandalo europeo Qatargate, nda) molto sentito perché alle persone viene il dubbio che certe scelte economiche fatte dall’Europa in favore della Cina siano prese sotto una determinata spinta”.
L’esperta di rilevamenti demoscopici ha colto l’occasione per richiamare l’attenzione su un problema più generale: “Si inizia a capire l’importanza di sistemare la giustizia in modo che abbia meno fini politici e più scrupolo verso le persone”.
Ruby ter, Berlusconi assolto: crollano i castelli di fango della sinistra. Il Tempo il 15 febbraio 2023
Silvio Berlusconi è stato assolto dall’accusa di corruzione nel processo Ruby Ter "perché il fatto non sussiste". Dopo due ore di camera di consiglio, i giudici della settima sezione penale del tribunale di Milano Marco Tremolada (presidente), Mauro Gallina e Silvana Pucci, hanno letto il dispositivo della sentenza in aula bunker a San Vittore. Attese le motivazioni e il deposito della sentenza entro 90 giorni. La Procura di Milano, rappresentata dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dal sostituto procuratore Luca Gaglio, chiedeva per il leader di Forza Italia la condanna a 6 anni di reclusione e la confisca di 10.846.123 euro. Alla fine sono tutti assolti: alla sbarra erano finite una ventina di ’olgettine' oltre a Ruby Tubacuori Karima El Mahroug.
La sentenza del processo Ruby ter giunge a quasi sei anni da un tormentato inizio seguito da molte pause, e chiude il primo dell’ultimo capitolo del romanzo giudiziario nato dai verbali dettati da Kharima El Mahroug, ora una donna di 30 anni, all’epoca una ragazza marocchina appena maggiorenne con già un passato turbolento che accusò l’allora premier Silvio Berlusconi di avances sessuali durante le "cene eleganti di Arcore". Significativo del ’giro largo' che ha preso questa vicenda il fatto che da accusatrice Ruby è finita tra i 28 imputati. Berlusconi per due volte è già stato ritenuto innocente delle stesse accuse per i soldi versati ai musicisti Danilo Mariani e Mariano Apicella, le cui posizioni erano state trasferite a Roma e a Siena solo per questioni di competenza territoriale. Ora l'ultimo colpo di spugna perché il fatto non sussiste.
"Un’assoluzione con la formula più ampia e piena possibile. Non posso che esserne enormemente soddisfatto. Tre su tre", è il primo commento di Federico Cecconi, legale di Berlusconi. Karima El Mahroug ha detto di essere felice e che ora finito un incubo.
Processo Ruby ter, abuso di potere e bugie per nascondere i segreti di quelle notti oscene. Piero Colaprico su La Repubblica il 16 Febbraio 2023.
Un’interpretazione di legge fa assolvere Berlusconi e le olgettine, ma le accuse furono dimostrate. E per gli stessi fatti sono stati condannati Fede, Minetti e Mora
In un mondo di (aggettivo benevolo) smemorati, non può che trionfare la coppia di fatto Silvio Berlusconi e Karima el Mahroug (differenza d'età, 56 anni). Era l'ormai lontanissimo 2010 quando l'allora presidente del Consiglio, per proteggere i segreti osceni di quelle che avrebbe definito "cene eleganti", e che per la corte di Cassazione sono "atti prostitutivi", chiamò l'ufficio di gabinetto della questura.
Berlusconi, processo escort. “No alle intercettazioni”, anche a Bari si va verso l’assoluzione. Giuliano Foschini su La Repubblica il 16 Febbraio 2023.
In salita il procedimento in cui il leader di Forza Italia è accusato di aver pagato Tarantini perché mentisse ai pm. L’imprenditore portava prostitute a casa dell’ex premier e per questo è stato condannato
C'è un altro processo in cui Silvio Berlusconi è imputato con l'accusa di aver pagato i testimoni perché mentissero. È a Bari e il Cavaliere è accusato di aver dato denaro, per il tramite di Valter Lavitola, all'imprenditore Gianpaolo Tarantini affinché raccontasse ai magistrati che nessuno sapeva che le ragazze che portava a casa Berlusconi fossero prostitute, come invece ha accertato una sentenza della Cassazione.
Estratto dell’articolo di Piero Colaprico per “la Repubblica” il 16 febbraio 2023.
In un mondo di (aggettivo benevolo) smemorati, non può che trionfare la coppia di fatto Silvio Berlusconi e Karima el Mahroug (differenza d’età, 56 anni). Era l’ormai lontanissimo 2010 quando l’allora presidente del Consiglio, per proteggere i segreti osceni di quelle che avrebbe definito “cene eleganti”, e che per la corte di Cassazione sono “atti prostitutivi”, chiamò l’ufficio di gabinetto della questura. Tono gentile e gigantesca bugia per ottenere la liberazione della “nipote di Mubarak”, inteso come Hosni, ex presidente egiziano. Purtroppo, le questioni di diritto internazionale non c’entravano nulla: Berlusconi temeva ben altro.
Karima allora si faceva chiamare Ruby Rubacuori, era scappata da varie comunità, i genitori erano disperati e, anche se non aveva compiuto 18 anni, frequentava villa Casati Stampa, ad Arcore. Era approdata a Milano e ne combinava di ogni. Gli smemorati non ricordano che fu proprio Ruby, sin dal primo incontro con una pattuglia della polizia, la Monforte-bis, a parlare di Silvio: “Mi sta mettendo i documenti in regola (…) Guarda che Lele Mora”, e cioè l’agente di spettacolo, “mi ha mandato ad Arcore. E mi ci hanno portato con un’auto con la scorta”.
Sempre lei a spiegare poi ai magistrati che Berlusconi le aveva dato “187mila euro in tre mesi”, che nel locale sotterraneo della villa si teneva il “bunga bunga”, che alle feste a luci rosse c’erano Emilio Fede, direttore del Tg 4 , Nicole Minetti, consigliere regionale di Forza Italia, e tantissime ragazze.
[…] Nell’attesa delle motivazioni, si può ragionare su fatti concreti e incontrovertibili? E cioè, in questa ultima tornata, è stato detto che le ragazze non andavano sentite come testimoni, bensì con le garanzie dovute agli imputati. Di questa qualità giuridica sinora non s’erano accorti i vari gip, gup e tutti gli altri giudici degli altri processi, che pure sinora sono stati celebrati. Esattamente quando le ragazze sarebbero dovute essere iscritte nel registro degli indagati per falsa testimonianza?
Ora, al di là delle interpretazioni di legge e del libero convincimento del giudice, l’accusa del primo processo Ruby — che si concluse con la condanna per Silvio Berlusconi — viene retta da Ilda Boccassini e Antonio Sangermano. Nonostante i ritardi da legittimo impedimento e uveite del premier, nel corso delle udienze decine di ragazze e di ospiti, di investigatori e di assistenti sociali, vengono interrogati in aula.
Ed è nelle fasi del processo che emerge una profonda differenza tra le dichiarazioni rese davanti ai giudici da molte delle ospiti e le loro frasi raccolte grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali anche nel condominio di via Olgettina, con affitti e bollette a spese di Berlusconi.
In aula […]vengono descritte situazioni degne di una festa delle scuole medie. Dietro le quinte, intorno a “Papi” Berlusconi, invece le stesse raccontano, come diceva Minetti a un’amica, che “ne vedi di ogni. La disperation più totale”. Se l’amica definirà la villa “un puttanaio”; se alcune testimoni, da Ambra Battilana ad Imane Fadil, racconteranno scene hard; le altre continueranno a infierire sul “vecchio”, a cui “spillare quattrini”, aggiungendo dettagli scabrosi.
Alla fine del primo processo, gli atti […] tornano dunque in procura, per verificare se queste ragazze siano imputabili di falsa testimonianza. La stessa cosa è accaduta centinaia di volte: spesso è alla fine dei processi che si discerne il (presunto) vero dal (presunto) falso testimone. Per Berlusconi è diverso? Assolto, il fatto non sussiste; così come Ruby assolta, con autobiografia già pronta. […]
Al di là di finte infermiere, autoreggenti, statue priapesche, soldi a iosa nelle buste preparate dal ragionier Spinelli, malesseri, la coppia Ruby- Silvio resta emblematica. Non come protagonista di una vicenda giudiziaria vista dal buco della serratura, come viene ripetuto. Ma del meccanismo perfetto che intreccia abuso di potere e menzogna.
Il giorno dopo l’uscita “comandata” di Ruby dalla questura, dalla stessa via Fatenefratelli parte un’inequivocabile telefonata alla presidenza del Consiglio: «Questa Ruby non è nipote di Mubarak», fanno sapere a Palazzo Chigi. Eppure deputati e senatori in massa firmano un’interpellanza parlamentare pro-Ruby sull’asse Roma- Cairo. Insomma, ieri non si è assolto altri che un povero ingenuo miliardario e politico, una vittima di perenni errori giudiziari: ma come non crederci, in Italia?
Silvio Berlusconi assolto, il tribunale scagiona tutti gli imputati del processo Ruby. Paolo Biondani su L’Espresso il 16 Febbraio 2023.
Crollano le accuse di corruzione giudiziaria e falsa testimonianza. Per la Procura di Milano la sconfitta è totale
Assoluzione trionfale per Silvio Berlusconi nel terzo processo per il caso Ruby. La settima sezione del tribunale di Milano ha scagionato tutti e 29 gli imputati da tutte le accuse di corruzione giudiziaria e falsa testimonianza. Quando i giudici hanno letto il verdetto, nell’aula bunker davanti al carcere di San Vittore, è comparsa anche la protagonista del caso, Karima El Mahroug detta Ruby, la ragazza marocchina che il leader di Forza Italia fece rilasciare dalla questura, il 10 maggio 2010, presentandola come la nipote di Mubarak.
Per la Procura di Milano la sconfitta è totale. I pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio avevano chiesto di condannare Berlusconi a 6 anni e a un risarcimento di dieci milioni. L’indagine aveva ricostruito una lunga serie di pagamenti, per un totale di oltre dieci milioni di euro, alle ragazze che avevano partecipato alle cosiddette serate «bunga-bunga» nella villa di Arcore. Secondo l’accusa, erano tangenti pagate in cambio di testimonianze false o reticenti, comprovate dalle intercettazioni, audio e video delle ragazze stesse. Per la difesa, erano invece donazioni a persone danneggiate dallo scandalo mediatico.
«Noi non neghiamo che il dottor Berlusconi abbia versato denaro alle persone coinvolte nei processi Ruby, ma sosteniamo che non l’ha fatto per finalità corruttive», aveva riassunto nell'arringa l'avvocato Franco Coppi.
I tre giudici del collegio avevano posto le premesse dell’odierna assoluzione plenaria già nel novembre 2021, con un'ordinanza a sorpresa che ha dichiarato «inutilizzabili» i verbali delle ragazze: secondo il tribunale non andavano sentite come testimoni, ma come indagate, almeno dal marzo 2012, con conseguente diritto non solo di farsi assistere da un avvocato, ma anche di tacere e perfino di mentire. Di qui il crollo delle accuse di falsa testimonianza e corruzione di testimoni.
L’avvocatura dello Stato aveva invece appoggiato la Procura nelle richieste di condanna, spiegando che il reato si realizza già con l’accordo corruttivo, prima delle deposizioni. Due giorni fa, però, la presidenza del consiglio ha revocato la costituzione di parte civile, proprio alla vigilia del verdetto.
Berlusconi era già stato assolto nel processo principale, dove era finito sotto accusa per due reati: prostituzione con una minorenne e «concussione per induzione», per la telefonata in questura con la bugia su Mubarak. Condannato in primo grado a 7 anni, è stato scagionato dalla corte d’appello: non è provato che sapesse che Ruby era minorenne, mentre la chiamata in questura non era qualificabile come pressione illecita, ma solo come «raccomandazione».
Dopo più di dieci anni di indagini e processi, gli unici condannati per il caso Ruby sono Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti, dichiarati colpevoli in tutti in gradi di giudizio di aver favorito e gestito il traffico di prostitute nella villa di Berlusconi ad Arcore.
Il Cavaliere, il cavillo e le liti tra toghe: ecco perché sono crollate le accuse. Silvio Berlusconi salvato dall’ordinanza che annullò i verbali: senza qualifica di testimoni, addio reati. Per i pm è la disfatta più grave dopo il caso Eni-Nigeria, deciso dagli stessi giudici. Paolo Biondani su L’Espresso il 15 Febbraio 2023.
Se non c'è più il testimone, non c'è nemmeno il reato di falsa testimonianza e neanche l'accusa di corruzione del teste. L'assoluzione piena di Silvio Berlusconi e degli altri imputati nel terzo processo sul caso Ruby, decisa oggi dalla settima sezione del tribunale di Milano, è dovuta a un'eccezione procedurale, sollevata dalla difesa, che il collegio giudicante aveva accolto già nel novembre 2021: un'ordinanza che ha dichiarato «inutilizzabili» quasi tutti i precedenti verbali delle ragazze che partecipavano alle cosiddette serate «bunga-bunga» nella villa di Arcore. Da quel momento sono sparite dal processo proprio le testimonianze che la Procura considerava false e reticenti, oltre che comprate con la corruzione, versando alle stesse ragazze, in totale, oltre dieci milioni di euro.
La motivazione della sentenza è attesa tra novanta giorni, ma già oggi, subito dopo il verdetto, il presidente vicario del tribunale, Fabio Roia, ha anticipato che il problema è proprio questo: le ragazze che erano sentite come testimoni dai pm della Procura, andavano invece considerate «indagate di reato connesso», fin dal 2012, perché già allora erano emersi «indizi non equivoci a loro carico».
«La falsa testimonianza può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone», scrive il giudice Roia. «Se invece viene assunto come testimone un soggetto che non poteva rivestire tale qualità, la possibilità di punire per dichiarazione false è esplicitamente esclusa dall’articolo 384 comma 2 del codice penale». Di conseguenza è caduta anche l'accusa di corruzione in cambio di quelle false testimonianze.
Il tribunale ha applicato un principio fondamentale che la procura non ha mai contestato: un testimone è obbligato a dire tutta la verità, per cui nei processi è il solo a deporre sotto giuramento, mentre l'indagato (come l'imputato) ha diritto non solo di tacere, ma anche di mentire (almeno in Italia). La questione veramente controversa era un'altra: in quale momento le ragazze andavano iscritte nel registro degli indagati? A partire da quando non potevano più essere sentite come testimoni? Con l'ordinanza decisiva i tre giudici del tribunale hanno stabilito che il gong era suonato già nel marzo 2012. Quindi tutte le testimonianze raccolte nella prima fase delle indagini, guidate dal pm antimafia Ilda Boccassini, sono state dichiarate inutilizzabili con effetto retroattivo, col senno di poi. Solo le ultime deposizioni di due ragazze, verbalizzate alla fine delle indagini, quando ormai erano emerse le prove dei pagamenti di Berlusconi, sono rimaste valide, perché a quel punto erano state sentite come indagate.
Il processo Ruby è uno dei tanti che, da sempre e in tutta Italia, si risolvono in questioni di tempistica. Il momento esatto in cui diventa obbligatorio iscrivere una persona nel registro degli indagati è regolato dal codice con una norma generale, che nei casi dubbi si presta a interpretazioni e applicazioni molto diverse. La prassi delle procure cambia da una città all'altra. E nei diversi gradi di giudizio ogni magistrato può dire la sua. Per questo i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio hanno fatto il possibile, fino all'ultimo, per convincere il tribunale a ritirare l'ordinanza salva-tutti.
Proprio il fatto che la decisione chiave sia legata alla tempistica, però, spinge ad applicare lo stesso metro al collegio giudicante, come fanno notare diversi magistrati della procura, che collegano la sentenza su Berlusconi ai feroci scontri tra magistrati che avvelenano da anni il palazzo di giustizia. L'ordinanza fatale che ha annientato le testimonianze sul caso Ruby, infatti, è stata emessa ben tre anni dopo l'inizio del dibattimento (poi sospeso e rinviato anche per l'emergenza Covid), quando ormai era esplosa la battaglia legale tra i pm anti-corruzione e i giudici del processo Eni-Nigeria: gli stessi del caso Ruby. I magistrati della procura avevano addirittura trasmesso a Brescia un verbale d'accusa contro il presidente della settima sezione, poi scagionato. E i vertici del tribunale erano insorti contro la richiesta del pm Fabio De Pasquale di sentire l'avvocato-indagato Piero Amara proprio in quel processo, davanti allo stesso presidente. Alla fine la settima sezione ha assolto tutti gli imputati della maxi-inchiesta Eni-Nigeria. E oggi è arrivato il grande bis, con un'assoluzione calata come una pietra tombale sulla procura di Milano.
Caso Ruby: tutto quello che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere. Paolo Biondani su L’Espresso il 16 Febbraio 2023.
Tutti scagionati, a partire da Berlusconi. E dopo dieci anni di processi, solo tre condannati: Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Storia e retroscena della saga legale più sconcia del secolo: dalla «nipote di Mubarak» ai verbali cancellati dal tribunale
Berlusconi 3 - Procura 0. Nel caso Ruby il Cavaliere sembra il Milan di Gullit e Van Basten. Gioco creativo, tanti soldi, grandi campioni dell'avvocatura e una difesa capace di attaccare. Tutti in campo per un trionfo.
La saga giudiziaria più sconcia del secolo (aggettivo che per motivi opposti mette d'accordo tutti, accusa e difesa, politici e magistrati) era iniziata a Milano il 27 maggio 2010. Karima El Marough, una ragazza di 17 anni che su Internet si faceva chiamare Ruby Rubacuori, viene fermata da una volante della polizia con l'accusa di furto. È minorenne, è scappata di casa, lasciando i genitori marocchini in Sicilia, ed è stata denunciata dall'amica che la ospitava. Ruby viene portata in questura per essere identificata e segnalata al tribunale dei minori, per affidarla a una comunità. A tarda sera Silvio Berlusconi, che è il presidente del consiglio in carica, telefona personalmente al capo di gabinetto della questura e chiede di rilasciare la ragazzina, raccontando che sarebbe la nipote dell'allora presidente egiziano Mubarak. Il leader di Forza Italia aggiunge che una consigliere regionale del suo partito, Nicole Minetti, è pronta ad accoglierla. Ruby viene rilasciata poco dopo. Nicole Minetti però la porta a casa di un'indossatrice brasiliana che arrotonda lo stipendio facendo la escort. La telefonata di Berlusconi resta segreta. I vertici della questura non dicono nulla ai magistrati.
La Procura ne viene informata solo in estate, da un verbale di due poliziotti di un'altra volante, intervenuti per sedare una lite tra Ruby e la ragazza brasiliana. A quel punto la minorenne viene trasferita in una comunità protetta, dove inizia a parlare di un giro di prostituzione per clienti molto ricchi, che cercano ragazze giovanissime. Partono le intercettazioni. L'indagine porta a ricostruire una lunga serie di serate di sesso e soldi, chiamate «bunga-bunga», con plotoni di ragazze italiane e straniere pronte a vendersi nella villa di Berlusconi ad Arcore. Il guaio è grosso: Ruby è minorenne e ha passato almeno tre notti ad Arcore. La notizia trapela solo in ottobre, con uno scoop di Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano.
Berlusconi viene accusato di due reati: prostituzione minorile, per le notti con Ruby, e concussione per induzione, per le pressioni sulla questura per farla rilasciare, con abuso della sua qualità di premier. La sentenza di primo grado è pesante: nel giugno 2013 il tribunale, un collegio di tre donne, lo condanna a sette anni di reclusione. Nel luglio 2014, però, la seconda sezione della corte d'appello ribalta il verdetto e lo scagiona totalmente: Berlusconi viene assolto da entrambe le accuse. Con una motivazione che conferma le serate di sesso in cambio di soldi, ma nega che siano punibili. Per la corte, non è provato che Berlusconi sapesse che Ruby era minorenne; mentre la telefonata in questura con la bugia su Mubarak non raggiunge gli estremi della «concussione per induzione» (un reato modificato tra il primo e il secondo grado di giudizio), perché la sua non fu una «pressione illecita» sulla polizia, ma solo una «raccomandazione» all'italiana.
Dopo il verdetto c'è un altro colpo di scena: il presidente del collegio, l'esperto magistrato Nicola Tranfa, rivela di aver votato contro l'assoluzione, decisa a maggioranza dagli altri due giudici, e abbandona la magistratura, spiegando ai colleghi più fidati di non riconoscersi più in una giustizia che bastona i deboli e grazia i potenti. Il caso di coscienza però non scuote la Cassazione, che convalida con sentenza definitiva l'assoluzione di Berlusconi.
Intanto parte il processo, poi diviso in due tronconi, contro Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, accusati di aver gestito per mesi il traffico di prostitute ad Arcore. Sono gli unici tre imputati condannati in tutti i gradi di giudizio. Il verdetto finale della Cassazione arriva dell'aprile 2019: quattro anni e sei mesi per l'ex direttore del Tg4, due anni e dieci mesi per l'ex consigliera regionale lombarda. Entrambi evitano il carcere: Fede sconta la pena ai domiciliari, Minetti ottiene subito la misura alternativa dell'affidamento ai servizi sociali. L'unico a finire davvero in galera, per 14 mesi, è Lele Mora. Il problema è che sull'ex agente delle star pesa anche un'altra condanna, per la bancarotta della sua società, per cui la pena finale sale a otto anni. Un patteggiamento in appello gli evita però di tornare in cella.
Nel 2018 partono i processi per i soldi alle testimoni. La Procura accusa Berlusconi di aver versato più di dieci milioni di euro, durante le indagini e i processi, a oltre venti ragazze, perché smentissero, negli interrogatori, le serate di sesso a pagamento, confermate invece dalle loro stesse intercettazioni, audio e video trovati sui telefonini. Sotto accusa per falsa testimonianza finiscono anche altri ospiti delle feste di Arcore. La difesa, guidata dal compianto avvocato Niccolò Ghedini, che non ha mai partecipato a quelle «cene eleganti», replica che Berlusconi ha fatto «regolari bonifici bancari», generose donazioni «alla luce del sole», solo per ristorare «persone danneggiate dallo scandalo mediatico», senza corrompere nessuno.
Nel novembre 2021, dopo tre anni di dibattimento (ormai arrivato alle battute finali, ma poi rallentato dalla pandemia), i giudici della settima sezione del tribunale accolgono, con un'ordinanza a sorpresa, una precedente eccezione difensiva dell'avvocato Federico Cecconi. Secondo il collegio, le ragazze andavano sentite già dal 2012 come indagate, non come testimoni. Quindi i verbali con le loro testimonianze ritenute false vengono dichiarati «inutilizzabili» ed escono dal processo. Di conseguenza frana anche l'accusa di corruzione delle testimoni, che non sono più tali. È la premessa tecnica dell'assoluzione generale pronunciata ieri. I fatti sono provati, ma non ci sono più i reati. L'avvocato Franco Coppi, nell'arringa finale, ha riassunto così la linea difensiva: «Noi non neghiamo che il dottor Berlusconi abbia versato denaro alle persone coinvolte nei processi Ruby, ma sosteniamo che non l’ha fatto per finalità corruttive».
Nel 2022, prima di quest'ultimo verdetto, Berlusconi aveva già incassato la seconda tornata di assoluzioni, nei processi collegati trasferiti per competenza a Roma e a Siena. Queste sentenze considerano validi i verbali con le testimonianze e provati i pagamenti di Berlusconi, ma spiegano che i beneficiari, il musicisti Mariano Apicella e Danilo Mariani, lavoravano da tempo per Berlusconi e hanno ricevuto molti altri pagamenti leciti, per cui non è dimostrato che i versamenti fatti durante le indagini fossero il prezzo di una corruzione.
La sentenza di ieri ha decretato la piena assoluzione nel merito, non per problemi procedurali, per il giornalista Carlo Rossella, ex presidente della società Medusa del gruppo Fininvest, e di una delle 21 ragazze che erano imputate, Aris Espinosa. Per loro, come anticipa il giudice Roia, «è emersa con evidenza l’insussistenza del fatto»: non hanno mai testimoniato il falso.
Altri imputati di accuse diverse dalla corruzione, in particolare l'ex parlamentare Maria Rosaria Rossi e la modella Roberta Bonasia, hanno beneficiato della prescrizione. Oltre a Silvio Berlusconi, il tribunale ha prosciolto le altre 20 ragazze, tra cui Ruby, per cui la Procura aveva chiesto una condanna a cinque anni, il suo ex legale Luca Giuliante e l'ex convivente Luca Risso. La sentenza ha anche dissequestrato tutti i beni bloccati dalla Procura. Ora Karima El Marough e le altre ragazze hanno diritto di tenersi tutti i soldi versati da Berlusconi.
Berlusconi salvo per un errore dei pm. Pubblicato il 16 Febbraio 2023 da Davide Ruffolo su lanotiziagiornale.it.
Berlusconi assolto al processo Ruby per un cavillo. Ora il Cav vuole rifarsi condannando l'intera magistratura.
Da un lato i giudici di Milano che hanno assolto Silvio Berlusconi e gli altri imputati del Ruby ter, dall’altro la Camera dei deputati in cui, ricevuta la notizia sull’esito del processo, i forzisti si sono alzati in piedi per lasciarsi andare a un lungo applauso. Si conclude con la formula del “fatto non sussiste” l’interminabile procedimento penale in cui i magistrati ipotizzavano la corruzione in atti giudiziari e la falsa testimonianza.
Berlusconi assolto al processo Ruby per un cavillo. Ora il Cav vuole rifarsi condannando l’intera magistratura
Un esito che, in realtà, sembrava già scritto alla luce della decisione della Cassazione che a novembre 2022 aveva dichiarato nulli i verbali dei testimoni dei precedenti processi. Eppure le cose sarebbero potute andare molto diversamente. Stando alla nota con cui il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, anticipa il cuore delle motivazioni della sentenza – le quali verranno depositate entro 90 giorni – il caso si è chiuso nell’unico modo possibile a causa di com’è stata condotta l’indagine e di alcune imprecisioni da parte dell’accusa.
Le olgettine andavano sentite come indagate e non come imputate
Sostanzialmente le giovani ex ospiti delle serate di Arcore, sentite nei due processi Ruby, “non potevano legittimamente rivestire l’ufficio pubblico di testimone”, perché andavano indagate già all’epoca e, in quanto tali, sentite come testi assistite da avvocati. Così venendo meno le false testimonianze, cade anche la connessa accusa di corruzione in atti giudiziari perché manca “l’ipotizzato corruttore, nel caso di specie Berlusconi”.
Insomma sembra esserci ben poco da festeggiare perché le cose, forse, sarebbero potute andare diversamente. L’unica certezza è che la sentenza di ieri ha messo fine a un dibattimento durato sei anni in cui il leader di Forza Italia era accusato di aver versato, negli anni, quasi dieci milioni di euro alle cosiddette olgettine per far tenere loro la bocca chiusa sulle serate a villa San Martino. Donazioni di denaro che, al contrario, il Cavaliere giustificava come ricompense versate a persone finite prima nel tritacarne dei media e dopo all’attenzione della magistratura.
Una vicenda che in Forza Italia è stata vissuta con evidente apprensione, tanto che quando si è avuta notizia dell’avvenuta assoluzione tutti i deputati azzurri si sono alzati ad applaudire. E lo hanno fatto in diretta tv perché proprio in quel momento erano in corso le dichiarazioni di voto sul decreto legge Ong.
Ora Forza Italia vuole processare la magistratura
Tra i più euforici il capogruppo alla Camera, Alessandro Cattaneo, che ha letteralmente gridato: “Mai più persecuzioni giudiziarie”. Parole a cui ha fatto seguito la richiesta di “un’immediata calendarizzazione della proposta di legge sulla istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della magistratura, per fare chiarezza su 25 anni di lotte giudiziarie usate come arma di scontro politico. Chiediamo verità su anni di feroci battaglie giudiziarie”.
Immagini e pensieri che Alessandra Maiorino, senatrice del M5S, ha commentato: “Vedere dei parlamentari della Repubblica in estasi per l’assoluzione di Berlusconi è sconfortante. Sentire Giorgia Meloni dirsi felice per l’assoluzione di uno che solo pochi giorni fa prendeva a schiaffi per le parole su Zelensky lo è altrettanto. Sarà interessante leggere le motivazioni della sentenza, ma quello che sembra emergere è che l’assoluzione si basi su questioni formali”.
Per la pentastellata “ora Forza Italia ha preso la palla al balzo per fare richieste ridicole e pericolose come una commissione d’inchiesta ‘sull’uso politico della giustizia’ e per spingere su riforme della giustizia che gli italiani non vogliono. Festeggiassero per l’assoluzione del loro capo, ma non mettano le istituzioni al centro di un conflitto che interessa solo loro” conclude Maiorino.
Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” il 17 febbraio 2023.
[…] Che in una intercettazione col fidanzato Luca Risso parlò a lungo di una telefonata con B. “Ai pm ho detto tante cose, perché ero davanti all'evidenza. Ma ne ho nascoste anche tantissime… Gliel'ho detto chiaro (a Berlusconi, ndr)... che io posso passare per tutto quello che vuole: per prostituta o per pazza. L'importante è che ne esco con qualcosa...". E Papi le avrebbe risposto: "...Non dovrai passare per pazza o prostituta... Io le promesse le mantengo...". […]
Estratto dell’articolo del ilfattoquotidiano.it il 15 febbraio 2023.
La spiegazione della sentenza – Perché il processo sia finito così, in attesa delle motivazioni, viene spiegato chiaramente nella nota inviata dal presidente facente funzioni del Tribunale di Milano, Fabio Roia. Sarebbe l'”errore” della Procura di ascoltare le ex Olgettine come testimoni (e non come indagate di reato connesso) nei processi Ruby e Ruby bis a far venire meno sia la falsa testimonianza che la corruzione in atti giudiziari.
“La falsa testimonianza può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone. Se viene assunto come testimone un soggetto che non poteva rivestire tale qualità perché sostanzialmente raggiunto da indizi per il reato per cui si procede o per altro ad esso connesso, la possibilità di punirlo per dichiarazioni false è esplicitamente esclusa“, sostengono i giudici.
“Poiché le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza, ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari, mancando la qualità di pubblico ufficiale (nella specie testimone) in capo al corrotto”, scrivono. “Se il soggetto che si assume corrotto non può qualificarsi come pubblico ufficiale e dunque manca un elemento costitutivo del delitto corruttivo”, è la conclusione, “giuridicamente quest’ultimo non può sussistere nemmeno nei confronti dell’ipotizzato corruttore, nel caso di specie Berlusconi“.
Era questo il “nodo” giuridico che ha deciso oggi il destino del processo. Nella nota si aggiunge che “la corruzione in atti giudiziari sussiste solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale. Per giurisprudenza costante, la persona che testimonia assume un pubblico ufficio e le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che il giudice chiamato ad accertare la fattispecie correttiva deve verificare se il dichiarante che si assume essere stato corrotto sia stato o meno correttamente qualificato come testimone”. Ma nei due processi precedenti i giudici non lo avevano ritenuto.
Da lastampa.it il 15 febbraio 2023.
«La nuova, ennesima, assoluzione del presidente Silvio Berlusconi dimostra ancora una volta i danni causati dall'uso politico della giustizia e le indebite interferenze sulla vita politica del nostro Paese. È questo il momento di fare chiarezza e, pertanto, oggi Forza Italia ha chiesto la calendarizzazione della proposta di una commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia nel corso degli uffici di presidenza delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera». Così in una nota i membri di Forza Italia delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera.
La figlia maggiore del Cavaliere, Marina ha scritto questo lungo commento sull’assoluzione del padre: «Ci sono voluti nove anni perché mio padre venisse assolto, e assolto “perché il fatto non sussiste”, da una accusa tanto infondata quanto infamante e del tutto priva di senso e di logica. Ed è la quarta assoluzione nei quattro processi celebrati per i vari filoni di quel mostro giuridico chiamato “caso Ruby”, che si trascina da dodici anni.
Certo, la soddisfazione è grandissima, e il fatto che la giustizia riconosca finalmente la verità è importante, ma è una vittoria che ha avuto un prezzo troppo alto. Non solo per mio padre, anche per tutte le persone che lo amano e lo stimano, per i milioni di italiani che negli anni lo hanno votato. Una persecuzione del genere non si può cancellare così, con un colpo di spugna.
Anche perché questa vicenda, nata sul nulla e sul nulla portata avanti con furioso accanimento ideologico da una piccola ma potente parte della magistratura, ha segnato e condizionato la storia e la politica del nostro Paese, la sua stessa immagine all’estero.
Mi auguro che questa ennesima dimostrazione dei guasti provocati dalla faziosità e dall’odio coltivato contro l’avversario favorisca il processo di cambiamento, che i tribunali possano finalmente essere davvero per tutti aule di giustizia e non di lotta politica, che i cittadini possano guardare alle toghe con la fiducia che gran parte di esse meritano. Solo in questo modo, credo, questa vicenda potrà forse risultare un po’ meno drammaticamente assurda».
«Mio padre è l'uomo più perseguitato del mondo, con 86 processi e più di 4000 udienze". Così Barbara Berlusconi ha commentato l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. «È un processo surreale, che nemmeno doveva cominciare - aggiunge -. Uno strascico del primo processo Ruby, nel quale mio padre era già stato assolto con formula piena». «Il tribunale oggi afferma che il fatto addirittura non sussiste.
Da figlia - spiega ancora - provo una doppia amarezza: oltre al danno di immagine, non tutti comprendono come i processi colpiscano l'animo, ma soprattutto la salute della persona indagata». «Non meno pesanti poi sono le sofferenze per la famiglia di chi è ingiustamente oggetto di indagine", sottolinea Barbara Berlusconi, evidenziando che a pagare i costi economici di questi processi saranno "come al solito i contribuenti italiani, non certo i giudici"».
Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” il 17 febbraio 2023.
“Il dottor Berlusconi va assolto perché il fatto non sussiste. Noi non neghiamo che abbia versato denaro alle persone coinvolte nei processi Ruby 1 e 2, ma continuiamo a sostenere che non l’abbia fatto per finalità corruttive”.
Parole del professor Franco Coppi, uno degli avvocati di Berlusconi, durante l’arringa del processo Ruby ter. Persino la difesa ammette e conferma che i soldi sono stati dati. Tanti soldi, aggiungiamo noi. Iniziando dalla viva voce delle ragazze foraggiate.
Nove novembre 2012, processo Ruby Bis: quattro olgettine, Elisa Toti, Aris Espinoza, Ioana Visan, Marysthelle Polanco, dichiarano di ricevere uno stipendio mensile di 2000-2500 euro al mese.
Elisa Toti: “Berlusconi mi aiutava prima e mi aiuta anche adesso dandomi 2500 euro al mese con dei bonifici”. Racconta poi di avere visto l’ex premier che nel corso di alcune serate ad Arcore “dava denaro in contanti in buste” […]. “Ma escludo che fossero soldi dati per attività sessuali, erano un aiuto, lui ha sempre aiutato tutte”.
[…] E’ la falsariga di decine di testimonianze simili, mentre B. sborsava a questo esercito di aspiranti tele giornaliste o soubrette 10 milioni di euro, almeno fino al marzo 2015, mentre loro negavano, sotto giuramento, di aver fatto sesso ad Arcore (solo “cene eleganti”), di aver ballato sul palo della lap dance, di aver simulato fellatio con la statuetta di Priapo.
[...]
Almeno 7 dei 10 milioni di cui i pm hanno trovato le tracce furono promessi a Ruby, affinché negasse di aver fatto sesso ad Arcore mentre era minorenne. Le altre ricevettero bonifici, assegni, contanti, appartamenti, auto.
Esiste una sorta di classifica delle ragazze del bunga-bunga. Alessandra Sorcinelli riceve non meno di 237,5 mila euro, più la villa di Bernareggio da 800 mila e una Bmw. Barbara Guerra 235 mila.
Concetta De Vivo 209,5 mila. La sua gemella Eleonora 170,5 mila. Barbara Faggioli 183 mila più l’affitto di un appartamento a Roma e uno alla Torre Velasca di Milano. […] Marysthell Garcia Polanco 142,5 mila più l’affitto di una casa a Milano 2 e contratti di lavoro simulati per 125 mila euro. […] Francesca Cipriani 105,2 mila. Aris Espinosa 104 mila più un appartamento. E poi, via via, le altre. Un fiume di denaro che ora si vuole far credere versato solo perché B. è generoso.
"Ma quale cavillo". Sisto smonta l'ultimo teorema della sinistra sul Cav. Il viceministro della Giustizia smonta l'ultimo terorema della sinistra sull'assoluzione di Silvio Berlusconi: "Non è un cavillo giuridico, si tratta di rispettare le garanzie". William Zanellato il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Ieri pomeriggio il caso Ruby si è definitivamente sgonfiato. Quasi dodici anni di processi e altrettanti di attacchi mediatici hanno partorito un’unica sentenza. Silvio Berlusconi viene assolto dalle accuse di corruzione per cui la procura di Milano aveva chiesto per lui sei anni di carcere. Assolte anche le ventidue ragazze, compresa Kharima El Mahroug alias Ruby, accusate di “falsa testimonianza”. Una volta appresa la sentenza, certa stampa “progressista” non ci sta e se la prende con i giudici nonostante l’assoluzione dell'ex premier sia netta. Il teorema di alcuni quotidiani è a dir poco paradossale: le motivazioni della sentenza sarebbero dovute a un fantomatico "cavillo" giuridico.
Il Fatto Quotidiano all'attacco
Il primo ad indignarsi per l’assoluzione del Cavaliere è, per forza di cose, il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. La prosa amara del suo editoriale ne è la controprova. Il direttore commenta così le motivazioni della sentenza: “Il Codice Penale vieta all’imputato di pagare sia testimoni sia i coimputati che possono inguaiarlo. Ci sono montagne di prove che B. ha pagato 28 testimoni che potevano inguaiarlo dicendo la verità sul caso Ruby. E il Tribunale che fa? Lo assolve co tutte le testimoni prezzolate”.
Il quotidiano La Repubblica rincara la dose e scrive:“Un ostacolo giuridico insuperabile, un cavillo che azzera sei anni di processo e manda assolti tutti i ventinove imputati del processo Ruby ter”. A sentire i commenti di alcuni quotidiani, che si professano “progressisti”, si direbbe che l’assoluzione di Silvio Berlusconi sia stata "viziata" da un cavillo giuridico.
Le motivazioni dei giudici
Partendo dal presupposto che l’assoluzione del Cavaliere è chiara e netta, il teorema sulla debolezza delle motivazioni è solo l'ultimo assalto ideologico della sinistra manettara. Il ché dimostra quanto l'odio politico sovrasti la realtà giudiziaria della vicenda. Al contrario sarebbe invece utile attenersi alle motivazioni della sentenza. Il Tribunale di Milano è, infatti, rimasto saldamente coerente con la propria ordinanza del novembre 2021, quando ha dichiarato “inutilizzabili” i verbali che diciotto ragazze avevano firmato nei precedenti processi Ruby.
“La falsa testimonianza – scrive il presidente Fabio Roia – può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone. Se viene assunto come testimone un soggetto che non poteva rivestire tale qualità la possibilità di punirlo per dichiarazioni false è esplicitamente esclusa”. Insomma, tutt’altro che un “cavillo” giuridico. Interrogare come testimoni ragazze che erano da tempo indagate di fatto dalla Procura, senza avvocati, senza garanzie e senza diritto di tacere, è un errore procedurale grossolano.
La replica di Sisto
Dello stesso avviso il viceministro alla Giustizia, Paolo Sisto:“L’assoluzione di Berlusconi non riguarda un ‘cavillo’, si tratta di rispettare le garanzie”. L’esponente di Forza Italia, ai microfoni di Radio Anch’io su Rai radio 1, smonta l'ultimo teorema della sinistra e aggiunge: “Se c’è un soggetto che è indagato deve essere ascoltato con le garanzie difensive, invece, viene sentito come testimone con l’obbligo di dire la verità e con tutte le conseguenze”.“Questo – conclude Sisto – rende inutilizzabile quelle dichiarazioni. Non è un cavillo ma è garanzia”.
L'irriducibile Travaglio e la vignetta crudele: il fango del "Fatto" sul Cav. Luca Fazzo il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
È stato il Fatto a rivelare al mondo per primo l'inchiesta della Boccassini e a cavalcarla per anni. Davanti alla dissoluzione dell’intero castello di accuse Travaglio la prende malissimo
Adesso finalmente c’è dibattito. Perché anche giuristi insospettabili di simpatie berlusconiane in queste ore stanno inorridendo davanti alla narrazione che della sentenza Ruby viene fatta dai giornali che su questo processo avevano macinato pagine su pagine. E che ora liquidano come un "cavillo" le motivazioni che hanno portato il tribunale di Milano ha assolvere “perché il fatto non sussiste” tutti gli imputati, a partire da Silvio Berlusconi. Sbotta su Facebook un avvocato milanese: "Quello che è un caposaldo della civiltà giuridica di un paese (la necessità di rispettare le garanzie difensive quando si interrogano persone che dovrebbero rivestire la qualifica di indagate) viene svilito a mero 'cavillo'".
Capofila degli irriducibili è Marco Travaglio, ed è inevitabile che sia così: è stato il suo giornale, il Fatto Quotidiano, a rivelare al mondo per primo l’inchiesta di Ilda Boccassini, e a cavalcarla per anni. Davanti alla dissoluzione dell’intero castello di accuse, sancito dalle sentenze dei quattro processi a Berlusconi celebrati su questo fronte, Travaglio la prende malissimo. Insultando, insieme all’intelligenza dei lettori, i giudici che hanno osato assolvere il Caimano. E insultando persino un morto come Niccolò Ghedini, cui dedica in prima pagina una vignetta crudele.
Per il Fatto, Berlusconi è stato assolto solo perché "i protagonisti di questo teatro hanno indossato la maschera sbagliata", testimoni anziché indagati. Peccato che questa maschera non l’avessero affatto indossata le ragazze ospiti delle feste ma gliela avesse appiccata addosso con la forza, e violando il codice penale, la Procura di Milano. Fu Ilda Boccassini a interrogare e a portare in aula ventidue giovani donne che nel suo intimo disprezzava (e infatti a Ruby riservò nella requisitoria l’accusa di "furbizia orientale") e sulle quali stava già indagando da tempo, spacciandole come testimoni. Non fu una distrazione. Se, come era suo dovere, le avesse iscritte nel registro degli indagati, le ragazze avrebbero potuto tacere. E il processo Ruby ter non sarebbe mai nato.
Di fronte alla semplicità di questi fatti, Travaglio perde persino la cognizione del tempo. Sostiene che l’assoluzione di Berlusconi è colpa di "avvocati azzeccagarbugli", ma anche di "giudici del quieto vivere e delle carte a posto: quelli che prima decidono di assolvere il colpevole, poi si arrampicano sugli specchi per cercare uno straccio di motivazione. Un tempo non l’avrebbero trovata, ora hanno l’imbarazzo della scelta". Se Berlusconi se l’è cavata pur essendo colpevole, dice Travaglio, è grazie alle leggi ad personam che lui stesso ha varato. Peccato che il diritto dell’indagato a non rispondere esista nel codice di procedura penale da quando Berlusconi era lontano anni luce dal governo, c’era persino nel codice di procedura penale fascista del 1930, come esiste nei paesi figli della cultura giuridica del diritto romano. Che evidentemente per Travaglio non fanno parte dei paesi civili, perché "in Italia mentire alla giustizia è un diritto, nei paesi civili è un crimine", scrive: mischiando come se fossero la stessa cosa il dovere del testimone a dire la verità e il diritto dell’imputato a tacere e a non accusarsi da solo. Forse non ha neanche visto i film americani dove l’imputato si appella al Quinto emendamento: "non rispondo perché la risposta potrebbe incriminarmi".
La "guerra dei 30 anni" che ha ucciso la politica
Ma tanto sono dettagli, l’importante è continuare a scrivere che le accuse mosse a Berlusconi "anche divise per un milione porterebbero chiunque all’ergastolo". Bum. Conta scrivere che i giudici del tribunale di Milano avevano già deciso di "assolvere il colpevole", e poi si sono "arrampicati sugli specchi" per trovare "uno straccio di motivazione". E perché mai lo avrebbero fatto? Manca solo che dica che li ha pagati Berlusconi, e che adesso servirebbe un processo anche contro di loro. Destinato anche quello a finire in niente: ma chissenefrega.
Sentenza Ruby: assolto Berlusconi dopo undici anni "perché il fatto non sussiste". Piange Kharima el Mahroug, che quando è iniziata questa storia era una vagabonda di diciassette anni, e ora è una signora di trenta. Luca Fazzo il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Piange Kharima el Mahroug, che quando è iniziata questa storia era una vagabonda di diciassette anni, e ora è una signora di trenta. Trattiene a fatica l'emozione Federico Cecconi, che quando ha preso la difesa di Silvio Berlusconi non aveva un capello bianco. Sono immagini che raccontano l'inverosimile arco di tempo che è passato prima che il «caso Ruby» si affossasse definitivamente, dopo avere affossato un governo, e avere fatto ridere dell'Italia mezzo mondo.
La sentenza arriva dopo due ore appena di camera di consiglio. Per i giudici della Settima sezione del tribunale, presieduta da Marco Tremolada, basta poco per tirare le fila. Escono con una assoluzione di massa. Ventinove imputati, ventinove innocenti. Tremolada li snocciola in ordine alfabetico, quello di Silvio Berlusconi è al quarto posto, quello di Kharima al decimo. «Il fatto non sussiste». Non ci fu corruzione in atti giudiziari, non ci furono false testimonianze nel primo processo Ruby, quello che ormai otto anni fa finì con l'assoluzione di Berlusconi dall'accusa di prostituzione minorile. E non ci furono per il semplice motivo che nessuna di quelle testimonianze era davvero tale. Le ragazze che animavano le feste di Arcore vennero costrette a parlare illegalmente dagli inquirenti milanesi, che in realtà erano già al lavoro per incriminarle, e per dipingerle come «schiave sessuali» del «sultano»: come loro e Berlusconi sono poi state definite nell'aula del processo che ieri finisce in nulla.
I pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio avevano chiesto sei anni di carcere per Berlusconi, cinque per Kharima, e poi giù a scendere per ventotto dei ventinove imputati. Per la Procura di Milano è una sconfitta che segna la fine di un'epoca. Per la prima volta dal 1994, gli eredi del pool Mani Pulite non hanno più il Cavaliere sul loro banco degli imputati.
Certo, esiste ancora la possibilità dell'appello. La Siciliano evita però di fare proclami, «aspetteremo le motivazioni». E presto si capisce il perché della cautela. Le motivazioni della sentenza saranno depositate solo tra tre mesi. Ma meno di un'ora dopo la lettura del verdetto, con una mossa del tutto inedita i vertici del tribunale di Milano diramano una nota per spiegare come si è arrivati alla sentenza. È una mossa che tiene conto dell'impatto che l'assoluzione di massa è destinata ad avere, che cerca di smussare preventivamente le polemiche. Per farlo indica con chiarezza granitica gli elementi che impedivano di arrivare a una condanna di anche solo un imputato.
È la nota a spiegare come i famosi verbali che Berlusconi era accusato di avere condizionato o comprato non erano testimonianze, perché la Procura stava già indagando su di loro, senza garanzie e senza iscrizioni. «Gli indizi non equivoci a loro carico - si legge - risultavano dagli atti in cui le stesse sono state escusse come testimoni». Il tema dei soldi che ricevettero poi da Berlusconi, della loro natura lecita o illecita, non viene neanche affrontato dal tribunale perché a quel punto diventa irrilevante. Se non erano testimoni non esiste la falsa testimonianza e neppure la corruzione giudiziaria. E per affermarlo i vertici del tribunale richiamano una sentenza che nessun ricorso potrà facilmente aggirare, firmata dalle Sezioni unite della Cassazione. Una sentenza che ha valore di legge. Non un cavillo, ma la base stessa del diritto.
Ma ci sono voluti anni ed anni, e c'è chi non ha fatto in tempo a invecchiare: come Nicolò Ghedini, che dell'ultima battaglia in difesa di Berlusconi fu il protagonista e che porta in buona parte il merito della vittoria.
Gli irriducibili pm di Milano: da "Ilda la Rossa" in poi le inchieste hanno fatto flop. La pm Tiziana Siciliano è la prima a sapere che questa sconfitta viene da lontano, fin da quando Ilda Boccassini partì all'attacco del caso delle notti di Arcore: e ne nacque una inchiesta di implacabile efficienza investigativa ma giuridicamente sgangherata. Luca Fazzo il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Milano - Delle due l`una: o i pubblici ministeri Tiziana Siciliano (nella foto) e Luca Gaglio hanno nervi di ferro, e sanno incassare a ciglio asciutto la botta di una sconfitta inattesa; oppure tanto inattesa la sconfitta non era, e nell`aula bunker del tribunale di Milano sono arrivati ieri mattina già pronti, se non rassegnati, alla sentenza che alle 12,26 - chino sul microfono, la voce a volte spezzata dalla tensione - il giudice Marco Tremolada legge. «Ai sensi dell`articolo 530?»: agli addetti ai lavori basta questo per capire che è una assoluzione. Poi Tremolada va avanti, e più va avanti la portata della bocciatura appare catastrofica. Non viene assolto solo Berlusconi: «il fatto non sussiste» anche per tutti gli imputati, maggiori o minori, protagonisti o comprimari del processo che ha portato il «bunga bunga» sulle prime pagine fin della Nuova Zelanda. Anche imputati come l`ex fidanzato di Ruby, Luca Risso, la cui posizione appariva quasi disperata, escono incolumi dal processo.
Lei, Tiziana Siciliano, mentre i microfoni delle tv piombano a raccogliere l`emozione di Federico Cecconi, legale del Cavaliere, resta per qualche minuto a fare i conti con la dimensione della botta. Poi dice: «In buona fede. Siamo ed eravamo in buona fede, e solo questo abbiamo da offrire al Paese». Di questo non c`è dubbio, e lo sa anche Cecconi che entrando in aula l`aveva abbracciata e baciata. Poi la pm raccoglie le idee e dice: «I testimoni hanno mentito in aula. Non lo diciamo noi. Lo dicono due sentenze passate in giudicato». Il resto, il contorno decisivo che ha portato il tribunale ad assolvere tutti, fa parte, dice «dei ragionamenti giuridici», aspetti tecnici su cui si riserva di leggere le motivazioni: ma che non inficiano, dice, la sostanza delle cose. «I testimoni hanno mentito in aula». E Berlusconi li ha pagati.
Ma la Siciliano è la prima a sapere che questa sconfitta viene da lontano, fin da quando Ilda Boccassini partì all`attacco del caso delle notti di Arcore: e ne nacque una inchiesta di implacabile efficienza investigativa ma giuridicamente sgangherata, in una Procura in cui nessuno aveva il coraggio di mettere la Rossa sull`avviso degli errori grossi come iceberg che attendevano il suo Titanic. Le assoluzioni finali erano non solo prevedibili ma inevitabili. E da lì, dall`assoluzione «perché il fatto non sussiste» (la medesima di ieri) di Berlusconi nasce l`inchiesta Ruby ter, che arriva allo stesso esito. Neanche questo poteva essere diverso, a fronte delle numerose incongruenze inanellate per strada.
La prima era il postulato alla base di tutto, secondo cui i testimoni del primo processo si dividevano in categorie nette: chi ad Arcore aveva detto di averne viste di tutti i colori diceva la verità, chi ricordava solo cene, barzellette e qualche strip mentiva. Una divisione che ha portato a incriminare tutti i testimoni della difesa, anche quelli che magari al momento del presunto bunga bunga erano già andati a casa, come il povero Carlo Rossella che la sentenza di ieri riabilita in pieno. La seconda incongruenza era l`assenza del movente: se in quelle feste non avveniva nulla di illecito, rimane oscuro perché il padrone di casa avrebbe dovuto comprare a caro prezzo il silenzio e le bugie delle invitate. La terza incongruenza era avere mischiato nel calderone dei presunti corrotti ospiti di ogni genere, amici di lunga data del Cavaliere, da lui retribuiti da decenni, ed effimere comparse delle sere.
Ma a monte di tutto c`è sempre la Boccassini: la sua scelta di interrogare e poi di portare in aula una sfilza di ragazze sui vent`anni, a digiuno di diritto, per costringerle a portare mattoni all`accusa di cui loro stesse erano bersaglio, a costo di dipingersi come prostitute. Non si poteva fare. Da lì è iniziata l`ultima sconfitta.
La "guerra dei 30 anni" che ha ucciso la politica. Si chiude una stagione di fango che ha condizionato l'immagine pubblica del Cav. Stefano Zurlo il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Non è un'inchiesta e nemmeno un processo, ma molto di più. È la metamorfosi del presidente del Consiglio in carica in un signore vizioso, un magnate a luci rosse che ha in testa solo quello e ha trasformato la villa di Arcore in una sorta di lussuoso motel frequentato da legioni di prostituite. È un colpo imparabile quello sferrato dal Fatto Quotidiano che ad ottobre 2010 racconta per la prima volta la storia di Ruby. C'è il sesso, ci sono lei e lui, ci sono ragazze bellissime disposte a tutto. E la stampa mondiale, non solo, quella italiana, si impadronisce in pochi giorni dell'indagine che sulla carta era segretissima e invece diventa argomento di conversazione ovunque. Le foto del Cavaliere con didascalie hot finiscono sulle prime pagine dei grandi quotidiani: Liberation, El Pais, Daily Telegraph e via elencando un'edicola intera. Escono verbali che sembrano sceneggiati da maestri del fumetto: ci sono Ruby e le Olgettine, una nuova versione lessicale del mestiere più antico del mondo, con nomi e cognomi, le loro richieste smisurate, i commenti acidi, i litigi furibondi. Poi c'è il bunga bunga, espressione che il Cavaliere - sempre da narrazioni di polizia a giudiziaria - avrebbe mutuato dal suo amico Gheddafi. Davvero in questa storia che si sviluppa in tempo reale non manca nulla: il fondale esotico, le immagini pruriginose e quelle fra l'umiliante e l'imbarazzante, una galleria incredibile di personaggi e le parole chiave che le opposizioni cavalcano.
Ruby diventa la nipote di Mubarak, sollecitando nuovi sarcasmi planetari, e la ragazza marocchina si porta dietro Nicole Minetti, l'igienista dentale e consigliera regionale che diventa il bersaglio fisso di molti articoli.
Insomma, si può discutere di tutto e criticare in modo serrato Berlusconi e il suo mondo, ma il punto è un altro: in quella fase, che è quella delle indagini, c'è una totale asimmetria fra accusa e difesa e dilagano le indiscrezioni, vere o verosimili non importa, le insinuazioni, le interviste che promettono rivelazioni sconcertanti, i veleni e i gossip e i pettegolezzi più sfrenati in un carosello che non finisce mai.
La condanna, pesantissima in primo grado, e poi la sequenza di assoluzioni arriveranno dopo, negli anni successivi, ma in quei tredici mesi, dall'ottobre 2010 al novembre 2011, Berlusconi consuma il suo prestigio internazionale: non può fermare la valanga che è peggio, molto peggio, di una pena pesantissima. Ed è stretto in una tenaglia, perché i giudici accelerano: il 15 febbraio 2011 il gip Cristina Di Censo rinvia a giudizio il Cavaliere con rito immediato e dunque, si presume, prova evidente. il Pd chiede «dimissioni ed elezioni anticipate». Bersani rincara la dose: «Esiste la decenza». E Di Pietro va anche oltre: «Se Berlusconi non se ne va, intervenga Napolitano». A tambur battente il 6 aprile si celebra la prima udienza.
Il Governo Berlusconi cade nel novembre 2011 sotto il peso di una crisi finanziaria violentissima e l'inarrestabile ascesa dello spread. Per il Cavaliere c'è una sorta di congiura internazionale per farlo fuori e lo storico sorrisetto della coppia Sarkozy Merkel è l'icona di quella stagione. Ma non si capirebbe quella sorta di fuori onda devastante senza gli atti che dalla procura di Milano hanno raggiunto i paesi più sperduti della terra. C'è tutto un filone di saggistica erotico politica che ha Berlusconi come protagonista assoluto. Ce n'è un altro, più antico e ancora più inquietante: quello del Cavaliere con le mani sporche di sangue, regista delle stragi e complice dei boss, ma questa narrazione non ha presa sull'opinione pubblica.
Qui invece il discredito porta alla demolizione del personaggio pubblico e non si può più nemmeno parlare di interferenza o di invasione di campo. Il processo che la procura di Milano perderà infine in tutte le sedi, dopo aver trionfato al primo round nel 2013, viene stravinto prima, fra ammiccamenti, risate e dosi massicce di indignazione. Il premier che si accompagna a una minorenne marocchina non è degno di stare a Palazzo a Chigi. Lo martellano i grandi giornali, lo ripetono i parlamentari. Il finale è già scritto, anche se si giocherà altrove. Misurando fra Roma e Bruxelles l'andamento dei titoli.
Il sollievo del Cav: "Ho dovuto subire fango e sofferenze. Fortunato ad avere toghe imparziali". È da poco passato mezzogiorno quando arriva la notizia tanto attesa: assolto. Per l'ennesima volta dopo un lungo, lunghissimo calvario giudiziario. Pier Francesco Borgia il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
È da poco passato mezzogiorno quando arriva la notizia tanto attesa: assolto. Per l'ennesima volta dopo un lungo, lunghissimo calvario giudiziario. Sivlio Berlusconi è stato assolto al Tribunale di Milano dall'accusa di corruzione in atti giudiziari al processo Ruby ter.
«Sono stato finalmente assolto - sono le sue prime parole consegnate ai profili social del leader azzurro - dopo più di undici anni di sofferenze, di fango e di danni politici incalcolabili perché ho avuto la fortuna di essere giudicato da magistrati che hanno saputo mantenersi indipendenti, imparziali e corretti di fronte alle accuse infondate che mi erano state rivolte».
Un'assoluzione che pone fine a un lungo periodo di preoccupazioni, vissute anche dalla famiglia. E ieri non sono mancate le reazioni di amici, colleghi, e appunto dei figli. Con un misto di amarezza e giubilo. «Certo - commenta la figlia Marina - la soddisfazione è grandissima, e il fatto che la giustizia riconosca finalmente la verità è importante, ma è una vittoria che ha avuto un prezzo troppo alto».
Ristabilire la giustizia e restituire al politico e imprenditore di successo il suo onore non sono percorsi che sempre vanno insieme. «Mio padre è l'uomo più perseguitato del mondo, con 86 processi e più di 4000 udienze - sottolinea la figlia Barbara -. Quest'ultimo è stato un processo surreale, che nemmeno doveva cominciare». Per Barbara Berlusconi quello che si è appena concluso è uno «strascico» del primo processo Ruby. «Nel quale - spiega - mio padre era già stato assolto con formula piena. Il tribunale oggi afferma che il fatto addirittura non sussiste». Spesso, ricorda ancora la figlia, non si tiene conto che in situazioni limite come questa a essere compromessa è anche la salute dell'interessato. «Da figlia provo una doppia amarezza - dice Barbara -: oltre al danno di immagine, non tutti comprendono come i processi colpiscano l'animo, ma soprattutto la salute della persona indagata. Non meno pesanti poi sono le sofferenze per la famiglia di chi è ingiustamente oggetto di indagine, per non parlare dei costi economici di processi come questo che ricadono sulle tasche dei contribuenti non certo dei giudici».
Sia a Montecitorio che a Palazzo Madama la notizia ha raccolto gli applausi dei parlamentari, non solo azzurri. «Una bellissima notizia - commenta il ministro degli Esteri e coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani -. Nessuno di noi dubitava della sua innocenza. È stata tutta una montatura nei suoi confronti, lo dimostra l'assoluzione perché il fatto non sussiste». «Questo processo non doveva neanche cominciare - gli fa eco la capogruppo azzurra al Senato, Licia Ronzulli -. Dopo undici anni di processo, centinaia di udienze, milioni di euro spesi a carico dei cittadini, il presidente esce a testa alta dall'ennesima gogna mediatica, giudiziaria e politica, imbastita nei suoi confronti». Berlusconi ha ricevuto tra le altre, anche la telefonata di Matteo Renzi. Il leader di Italia viva si è congratulato con il presidente azzurro per l'assoluzione e l'uscita dal calvario giudiziario.
Da Palazzo Chigi è poi arrivato alle agenzie di stampa una dichiarazione della premier che considera l'assoluzione di Berlusconi «un'ottima notizia che mette fine a una lunga vicenda giudiziaria che ha avuto importanti riflessi anche nella vita politica e istituzionale italiana». «Rivolgo al presidente Berlusconi a nome mio e del Governo - afferma Giorgia Meloni - un saluto affettuoso». Anche il leader della Lega esulta. «Felice per l'assoluzione di Silvio dopo anni di sofferenza, insulti e inutili polemiche», commenta il ministro Matteo Salvini. «L'ennesima assoluzione di Silvio Berlusconi - commenta la ministra per le Riforme istituzionali, Elisabetta Casellati - non ripara i danni che anni di calunnie e insulti hanno arrecato a uno dei più grandi protagonisti della storia italiana moderna».
"È il politico più colpito dai magistrati. Speriamo sia chiusa l'era forcaiola". Il capogruppo azzurro alla Camera parla di amara soddisfazione: "Non possiamo dimenticare gli anni passati nelle aule di tribunale". Pier Francesco Borgia il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Onorevole Cattaneo, in aula a Montecitorio parlava di «soddisfazione amara» a proposito dell'ultima sentenza del Ruby ter che assolve il presidente Berlusconi.
«Perché da un lato l'assoluzione piena perché il fatto non sussiste ci rende soddisfatti. Si tratta infatti di una verità giudiziaria che viene scolpita sulla pietra in maniera inequivocabile; dall'altro non possiamo non ricordare gli anni passati a difendersi purtroppo nelle aule dei tribunali. Basti pensare al tempo dedicato dal presidente Berlusconi ogni fine settimana per tanti anni agli avvocati. I soldi spesi, le sofferenze attraversate
Un calvario giudiziario, insomma, che ora Berlusconi si lascia alle spalle.
«È stato indubbiamente il politico più colpito a livello giudiziario, almeno a mia memoria. Questa sentenza però ci dice una cosa precisa: che il presidente Berlusconi è stato riconosciuto per quello che è: ovvero una persona perbene. La verità giudiziaria, insomma, è stata ristabilita. Certo è che la verità storica dirà che ci sono stati anni di troppo forte contrapposizione giudiziaria. Oggi però non è il giorno del risentimento. E il primo a mostrarsi sereno nel giudizio è proprio Berlusconi che con grande stile ha ringraziato i giudici per la loro indipendenza di giudizio».
A proposito di verità storica, si parla di una possibile commissione d'inchiesta parlamentare per analizzare proprio il lungo calvario giudiziario di Berlusconi.
«Quella di una commissione d'inchiesta sull'uso politico della giustizia è una vecchia proposta di Forza Italia, che risale alla scorsa legislatura. La abbiamo ripresentata a settembre, all'inizio della legislatura, e ora crediamo che sia arrivato il momento di discuterla, di parlare apertamente del problema, ora che, dopo questa nuova assoluzione, quanto è accaduto è chiaro a tutti. Ovviamente a noi non interessa solo il passato, per quanto grave, ma, soprattutto, il futuro. Per questa ragione lavoriamo con il ministro Carlo Nordio e tutta la maggioranza a una riforma della giustizia che vada in senso garantista»
Dal punto di vista politico cosa ci dice questa sentenza?
«Forza Italia non è il partito del risentimento e del rancore. Berlusconi ci ha sempre insegnato la generosità e a guardare avanti. Con questo spirito noi ci auguriamo che si sia finalmente chiusa l'epoca del giustizialismo, dell'utilizzo dei temi giudiziari per fare attività politica in contrapposizione con l'avversario. E speriamo viceversa che si apra la stagione del garantismo, del dialogo e del confronto, anche aspro, in Aula. Ma che rimanga confinato sempre nella dialettica politica. Tutto ciò tra l'altro ci restituisce la centralità della buona politica».
Il luogo e il momento quindi sono favorevoli per pensare a una riforma condivisa della giustizia?
«Mi ha impressionato la reazione in Aula al mio intervento. Le mie parole sono subito state accompagnate da un moto spontaneo di applauso. E ci tengo a sottolineare che ad alzarsi in piedi non sono stati soltanto i colleghi del mio partito ma anche quelli di Fratelli d'Italia, quelli della Lega, dei Moderati e anche qualcuno di Italia viva».
Come va giudicato quell'applauso?
«Non soltanto liberatorio. Ma, al di là della sentenza stessa, si applaudiva all'auspicio che questa sia la fine di un'era e l'inizio di una nuova fase storica».
Quindi c'è da essere ottimisti?
«Sì. Noi siamo sempre ottimisti. E comunque l'aria che respiriamo in Parlamento fa ben sperare. Penso a esempio alla relazione di Nordio, quando era venuto a presentare in Aula a Montecitorio le linee di indirizzo sulla giustizia. Nel merito, ovvero l'approccio fortemente garantista, la messa in discussione della legge Severino, di quella dell'abuso d'ufficio, e la separazione delle carriere, è risultata molto vicina al valore di garantismo che Forza Italia da sempre persegue. Quella relazione di Nordio fu accolta da questo parlamento, che rappresenta la sintesi delle sensibilità degli italiani, in maniera molto favorevole. E se il Parlamento rispecchia il sentimento degli italiani oggi gli italiani hanno rispetto al tema della giustizia un altro approccio».
Il giudice inflessibile, la pm caparbia e l’avvocato gentleman: e al verdetto è abbraccio tra accusa e difesa. Se fosse arrivato ad un altro giudice, la storia forse sarebbe stata diversa. Luca Fazzo il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.
Milano. Tre anni di processo, vagando da un'aula bunker all'altra; e sapendo, in tutto quel caos logistico, di stare scrivendo una pagina importante della storia giudiziaria italiana. Anni di battaglie anche dure segnate dal rispetto reciproco tra i protagonisti del processo Ruby ter: neanche una volta, anche nei momenti più difficili, è venuta la sensazione che il processo potesse uscire dai suoi binari.
Un pubblico ministero, un avvocato, un giudice. Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto della Repubblica che l'altroieri, con il peso della sconfitta ancora fresco, riesce a sorridere e a rivendicare la sua buona fede. Federico Cecconi, difensore di Silvio Berlusconi, cui negli stessi istanti tocca l'onore di inviare al Cavaliere il bollettino della vittoria. E sopra di loro, anche fisicamente distante, il presidente della Settima sezione del tribunale, Marco Tremolada. Sessantun anni, cognome milanese che più non si può, bravo tennista, da sempre temuto dagli avvocati per il suo rigore sconfinante nella severità. Sul suo tavolo il processo Ruby arriva nel 2019 per caso, dopo una serie di andirivieni e accorpamenti del fascicolo.
Se fosse arrivato ad un altro giudice, la storia forse sarebbe stata diversa. Perché fin dall'inizio Tremolada si è dimostrato severo anche nell'affermare le regole del processo anche quando andavano nell'interesse degli imputati, espellendo come prima mossa dall'elenco delle parti civili tre fanciulle alla caccia di risarcimenti. E poi, per tutto l'arco del processo, fino alla decisione finale, restando aggrappato - in mezzo a mille suggestioni e condizionamenti - soltanto alla legge.
Negli stessi mesi, Tremolada ha condotto un altro processo importante, gli imputati di corruzione erano i vertici dell'Eni. Anche lì ha assolto tutti. Ma in quel processo è accaduto l'inverosimile, e quando la Procura si è resa conto che tirava aria di assoluzione ha cercato di infangare Tremolada, di costringerlo ad abbandonare, senza riuscirci. Invece nel processo Ruby la Siciliano non ha mai, neanche per un istante, messo in discussione l'autorevolezza del giudice: neanche quando emise l'ordinanza che dichiarava nulli i verbali delle Olgettine, interrogate senza avvocati e senza diritti, facendo già capire che su quell'ostacolo l'accusa era destinata a schiantarsi.
Nel suo banco di accusatrice, Tiziana Siciliano ha vissuto con apparente serenità lo sfaldarsi dell'inchiesta cui aveva lavorato tanto. Sessantasette anni, dal 2017 procuratore aggiunto della Repubblica, divenuta celebre per il processo per l'eutanasia di Dj Fabo dove chiese e ottenne l'assoluzione del radicale Cappato, non ha mai perso la calma (come accadeva sovente a Ilda Boccassini).
Federico Cecconi, 57 anni, avvocato di Berlusconi dopo che una mossa della Procura aveva reso incompatibile Niccolò Ghedini con la difesa del Cavaliere, arrivando in aula per l'ultima udienza ha abbracciato e baciato la Siciliano. Non accade spesso.
I costi dell'Inquisizione. L'ultimo processo del caso Ruby, si è perso il conto del numero, è finito con l'ennesima assoluzione. Augusto Minzolini il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.
L'ultimo processo del caso Ruby, si è perso il conto del numero, è finito con l'ennesima assoluzione. Su una vicenda che ha caratterizzato - e avvelenato - per undici anni la storia di questo Paese è calato finalmente il sipario. Sempreché i pm non perseverino nell'errore e ricorrano in appello per continuare nella persecuzione giudiziaria - perché di questo si è trattato - di Silvio Berlusconi.
Si potrebbe dire, con un gioco di parole, che è stata fatta giustizia di un modo di amministrare la giustizia paragonabile più all'inquisizione che non al diritto. Un esempio da portare nelle aule universitarie per spiegare cos'è il giustizialismo. È stato messo in piedi, infatti, un meccanismo infernale che farebbe rivoltare nella tomba Cesare Beccaria: per i pm milanesi, in attività ma soprattutto in pensione (mi riferisco a Ilda Boccassini), il Cavaliere non poteva non essere colpevole perché la vicenda aveva suscitato tanto clamore, aveva colpito l'immagine delle istituzioni e di un premier in auge contribuendo non poco alla sua destituzione, aveva gettato il Paese in un'atmosfera lugubre e nello stesso tempo ridicola, aveva fatto spendere all'erario milioni di euro per un processo monstre, che di fatto un'assoluzione dell'imputato sarebbe stata interpretata come una condanna - morale - dei magistrati in questione. Quindi è stato messo in atto un perfido gioco al rialzo: assolto Berlusconi nel processo principale in Cassazione, i pm hanno accusato tutti i testimoni a favore della difesa (più di una trentina) di falsa testimonianza. Moltiplicando il numero dei processi. Un unicum nella storia del Paese. Il tutto, oggi si può dire, per una finalità squisitamente politica: far fuori il Cavaliere dalla vita pubblica. Ci hanno provato con Ruby, con quella condanna scandalosa per evasione fiscale e, in mancanza di meglio e senza nessun senso del ridicolo, pure con la mafia.
Anche la motivazione dell'assoluzione, che i Torquemada da strapazzo considerano un «cavillo legale», è invece significativa degli strumenti utilizzati nell'indagine: i primi interrogatori ai testimoni, che poi si sono trasformati in imputati, si sono svolti senza avvocati difensori. Quindi, sono stati esposti in procura e in un'aula di tribunale alle domande, alle pressioni per non dire alle minacce di un pm, per fare un nome, come la Bocassini senza protezione. Appunto, metodi da Inquisizione.
Il bilancio di quest'operazione che ha poco a che vedere con la giustizia? Drammatico. Innazitutto il calvario di un personaggio come Berlusconi, sottoposto al fango mediatico e ferito nell'immagine da queste accuse. E poi la presa d'atto che attraverso la clava della magistratura politicizzata si può logorare un governo, distruggere o, comunque, menomare una carriera politica e, soprattutto, condizionare la democrazia. Ma, soprattutto, indagini e processi del genere fanno male innazitutto alle toghe, perché dimostrano che nel nostro Paese per avere giustizia devi davvero cercare come il mugnaio di Potsdam un giudice a Berlino. Sempreché lo si trovi.
Da Eni a Ruby, i pm di Milano fanno flop: accanimento senza godimento. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 17 febbraio 2023.
La sentenza di assoluzione per il Cav e gli altri 27 imputati nel processo Ruby ter non servirà certo a placare i pm di Milano. Gli sconfitti infatti impugneranno la decisione che hanno dovuto digerire ieri così la saga giudiziaria che da circa 12 anni ruota attorno alle presunte cene eleganti di Arcore sembrerà non finire mai, come una di quelle soap opera che inchiodano i protagonisti allo stesso copione per migliaia di puntate. Eppure, se analizziamo alcune vicende recenti di cronaca giudiziaria, ci sarebbe da ripensare al metodo con cui alcuni pubblici ministeri milanesi hanno deciso di procedere comunque nelle loro convinzioni accusatorie, nonostante l’assenza di prove e testimonianze valide. Avanti con il dito puntato contro l’ex premier descritto, nelle requisitorie pseudo-femministe, come «un vecchio malato che usava allietare le proprie serate a casa propria con gruppi di odalische, schiave sessuali a pagamento, che lo divertivano e alcune trascorrevano con lui la notte». Del caso Ruby, però, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti.
È ancora scottante l’inchiesta flop su Eni-Nigeria, un processo che, come ha scritto Ermes Antonucci sul Foglio, non doveva neppure cominciare, ma che invece si è basato sulle dichiarazioni di un personaggio controverso e inattendibile quale il “super-teste” Vincenzo Armanna dalla cui fonte i pm del capoluogo lombardo si sono abbeverati per decretare che l’Eni (da cui Armanna era stato licenziato) era colpevole di corruzione internazionale. Ora siamo al completo ribaltamento della situazione: tutti gli imputati sono stati assolti mentre i magistrati dell’accusa sono finiti alla sbarra. Il procuratore aggiunto di Milano, Fabio De Pasquale, e il suo collega Sergio Spadaro, autori dell’inchiesta Eni-Nigeria, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Brescia con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio, e cioè per aver «volontariamente» occultato – ovvero non depositato – importanti prove a favore degli imputati nel processo per la presunta corruzione italo-nigeriana.
Silvio Berlusconi, Filippo Facci: non è finita, lo inchioderanno a vita. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2023.
Siete assolti tutti – anzitutto – dall’accusa di non capirci più niente: ogni attenuante è vostra. Poi anche Silvio Berlusconi è stato assolto ieri, ma da che cosa, esattamente? Risposta: dall’accusa di corruzione in atti giudiziari nel cosiddetto processo «Ruby ter», assoluzione con formula piena, alias «il fatto non sussiste» (il fatto criminoso non è accaduto) e quindi la settima sezione penale milanese ha detto che la corruzione in atti giudiziari non è mai esistita. Nota: hanno impiegato solo due ore di camera di consiglio per deciderlo, e questo giustifica quantomeno una domanda: serviva un intero processo per deciderlo? Non si poteva già intuire in udienza preliminare? Calma. Poi vediamo.
Intanto diciamo che sono state assolte con la stessa formula anche Karima el Mahroug (la famosa Ruby) più venti altre giovani ex ospiti delle serate di Arcore, a casa di Berlusconi, e anche altri imputati per reati minori che hanno visto intervenire la prescrizione.
EPILOGO
Due ore per decidere, dicevamo, ma il processo è durato sei anni: ma non si trattava esattamente de «il processo Ruby», ma del terzo processo Ruby («Ruby Rubacuori», espressione giornalistica) dopo il Ruby 1, il Ruby 2, il Ruby-bis, il Ruby ter (questo) e non pensare che sia finita, perché non dovete dimenticare i processi al cantante e chitarrista Mariano Apicella a Roma (più Berlusconi) e al pianista Danilo Mariani a Firenze (più Berlusconi) che sono stati entrambi assolti (anche Berlusconi) perché i giudici hanno stabilito che Berlusconi semplicemente li pagò per delle prestazioni professionali da musicisti. In teoria dovreste anche ricordare le singole parti passate per competenza a Torino, Monza, Treviso, Siena, Roma e Pescara: siamo certi che ricordate ogni dettaglio.
Bene, ma almeno il «Ruby ter» è finito? Cioè: il Ruby, in generale, è finito? Scordatevelo: c’è da pensare che tengano Berlusconi sotto scacco giudiziario finché camperà- quindi tantissimo – con ciò disperdendo soldi, tempo e fango giornalistico sinché Ruby, pure, avrà le rughe e farà le cene eleganti in un ospizio. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, l’accusa, ha già detto che prima di decidere se ricorrere in Appello leggerà le motivazioni della sentenza (tra 90 giorni) ma dirlo questo è ovvio, è un fatto di galateo: ricorrerà eccome – nostro parere . anche perché voleva 6 anni di reclusione per Berlusconi e la relativa confisca di circa 11 milioni di euro, più 100 anni – dettagli – richiesti per il complesso degli altri imputati.
Ora, a dispetto dei sei anni buttati al vento per il Ruby ter, peggio, c’è anche la motivazione tecnica che ha invalidato tutto: le testimonianze delle ragazze presuntamente corrotte non potevano essere esaminate – ha deciso il tribunale - perché le medesime non potevano «essere considerate testimoni» ma dovevano già essere indagate nei processi Ruby precedenti (cioè 11 anni fa) con l’ovvia assistenza dei loro avvocati. E se non erano testimoni, i reati non esistevano per definizione: solo un testimone può rendere falsa testimonianza, e di conseguenza non esiste «corruzione in atti giudiziari» se non esiste un testimone che menta a un pubblico ufficiale. Dettaglio: è esattamente la tesi difensiva sostenuta dal legale Franco Coppi (avvocato di Berlusconi) che però secondo i pm diceva evidentemente sciocchezze, ma secondo i giudici – ora – no.
Non è fuffa procedurale, attenzione: è la ragione per cui già dicono che Berlusconi è stato assolto solo per un cavillo, tanto che a spiegarlo è intervenuta ieri sera addirittura una nota inviata dal presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia: è stato un errore della procura. Che errore resta, ma è quanto bastava, ieri sera, a far titolare «Berlusconi la fa franca» al Fatto quotidiano online, con grande spazio per le dichiarazioni del pm Tiziana Siciliano: «Rimaniamo convinti che i reati ci siano stati». Tra le risposte possibili: e allora faccia meglio il suo lavoro.
Ma avrebbero dovuto farlo meglio tantissimi altri, vista la demenziale e pur stringata sintesi di tutto l’affare Ruby. Il primo processo imputò Berlusconi di concussione e prostituzione minorile per aver chiesto al capo di Gabinetto della Questura di rilasciare Ruby (Karima El Mahroug) ammantando ragioni diplomatiche legate a una ridicola e improponibile sua parentela col presidente dell’Egitto: questo - secondo l’accusa – per nascondere un giro di prostituzione ad Arcore. Primo grado, 2013: condanna a 7 anni per Berlusconi.
Processo d’Appello lampo, 2014: Berlusconi assolto con formula piena perché la concussione «non sussiste» e circa la prostituzione minorile «il fatto non costituisce reato» perché non c’è nessuna prova che Berlusconi sapesse che Ruby era minorenne, né che si fosse intromesso indebitamente con la questura milanese per farla rilasciare. Corte di Cassazione, 2015, su ricorso dell’accusa: non accolto, Berlusconi resta assolto.
MILLE RIVOLI
Eccoci al Ruby Ter, 2015, quello finito ieri in primo grado: corruzione in atti giudiziari per Berlusconi più centomila altri reati per un sacco di altra gente, con archiviazione progressiva per Licia Ronzulli, Niccolò Ghedini, Piero Longo, Valentino Valentini, più capi-scorta, camerieri, il padre di Ruby, neo-fidanzate del fidanzato di Ruby, una modella, un geometra e altri. Altre competenze vengono sparpagliate tra Torino, Monza, Treviso, Siena, Roma e Pescara. Poi le competenze di Torino, Monza, Treviso e Pescara tornano a Milano. Seguono altri rimescolamenti con assoluzioni per Berlusconi (a Siena e a Roma) e nessuna condanna per quest’ultimo. Poi ieri l’assoluzione del tronco principale rimasto a Milano, ma solo per «un errore» in un quadro che per il resto pare evidentemente cristallino, asciutto, senza accanimenti e soprattutto di preminente interesse per la collettività. Abbiamo dimenticato il processo parallelo in vari gradi – senza Berlusconi – che ha visto condannati Nicole Minetti, Lele Mora ed Emilio Fede come procacciatori di personale per le «cene eleganti», con condanne per tutti e tre, ma galera per nessuno. O meglio: per noi tutti, ostaggi a vita di tutta questa roba, perché giustizia è sfatta.
Ruby ter, ecco quanto ci è costata l'ossessione dei giudici. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2023
Una indagine “no budget”. È quasi impossibile, infatti, quantificare quanto sia costata in questi anni l’indagine “Ruby” condotta dalla Procura di Milano. Ma sicuramente il conto raggiunge qualche decina di milioni di euro. Sono talmente tante le attività tecniche, le consulenze, le intercettazioni, ed i pedinamenti effettuati che fare una stima risulta quanto mai arduo. È sufficiente ricordare che gli accertamenti vennero condotti dal Servizio centrale operativo della polizia di Stato (Sco), uno dei reparti dell’eccellenza del Dipartimento della pubblica sicurezza, normalmente impiegato nel contrasto della grande criminalità organizzata. Gli agenti dello Sco, tanto per dirne una, qualche anno prima avevano arrestato il super boss Bernardo Provenzano.
La Procura di Milano, per capire i «rapporti tra Nicole Minetti, Lele Mora e Emilio fede in relazione al reato di induzione alla prostituzione anche minorile», come disse Ilda Boccassini, puntualizzando che l’indagine non era mirata «contro Silvio Berlusconi», mise in campo i migliori uomini e donne della polizia giudiziaria del Paese. Personale a cui non fece mancare nulla in termini di mezzi e di materiali. E gli uomini dello Sco non delusero le aspettative di Ilda la rossa, titolare del fascicolo, effettuando intercettazioni a tappeto con il meglio che la tecnologia offriva in quegli anni.
ATTIVITÀ INVESTIGATIVA
Una premessa è d’obbligo: nel 2010 le attività di intercettazione erano effettuate in modo diverso dall’attuale. Ad esempio, i cellulari non avevano al loro interno sistemi di geolocalizzazione. Per capire, quindi, dove si trovassero Ruby e le olgettine era necessario analizzare le celle telefoniche. Oggi la precisione è di 3 ' qualche metro, all’epoca il range raggiungeva an- che i 5 kilometri. Per capi- re se le ragazze si trovassero ad Arcore bisognava allora incrociare centinaia di tabulati e spesso non era neppure sufficiente perchè i cellulari, anche se in quel momento vicini fra loro, potevano “agganciare" celle diverse. Il lavoro fu dunque titanico. Fu titanico, poi, anche il lavoro per tracciare le spese di chi aveva partecipato alle serate di Arcore. Tutti i conti furono passati al setaccio, come furono passati al setaccio gran parte delle attività immobiliari riconducibili a Berlusconi. Non potevano mancare i pedinamenti, vedasi il caso di Lele Mora. Attività quanto mai difficile in quanto villa San Martino nel 2010 aveva all’esterno un maxi presidio fisso di 90 carabinieri al giorno, integrato da unità cinofile con compiti di polizia. Il rischio di essere “scoperti” da parte dello Sco era altissimo.
ALBERGHI A 5 STELLE
Anche i principali alberghi milanesi a cinque stelle vennero scandagliati per verificare se al loro interno qualcuna delle ragazze che partecipava alle serate di Arcore vi si prostituisse con clienti facoltosi. Vennero pure trascritte tutte le conversazione sui vari numeri di emergenza. Le telefonate ascoltate, comunque, furono un numero spropositato. Solo per Nicole Minetti si trattò di diecimila telefonate. Furono sei mesi di investigazioni senza pari che permisero alla Procura di raccogliere prove schiaccianti al punto che per Berlusconi venne chiesto il giudizio immediato.
Lo sforzo della Procura si evince dall’avviso di chiusura delle indagini, un tomo di circa 400 pagine, allegati esclusi. A questo punto, una domanda sorge spontanea. Una affermazione ricorrente è che ai magistrati italiani mancano uomini, mezzi, che non ci sono soldi per le intercettazioni e manca la benzina per le auto della polizia.
PAGANO I CITTADINI
Nell’indagine Ruby tutti questi problemi sono stati superati. A ciò si aggiungono i filoni, Ruby bis e Ruby ter. Anche in questo caso accertamenti a tappeto, centinaia di interrogatori. Infine, i costi dei processi: centinaia e centinaia di udienze che si sono tenute nei vari tribunali in questi ultimi dieci anni. Ovviamente chi ha messo in piedi tutto ciò non pagherà un euro. Pagheranno, come sempre, i cittadini italiani a cui invece tocca in sorte un sistema giudiziario che fa acqua da tutte le parti al punto che ormai preferiscono denunciare i reati subiti su Fb e non in un commissario di polizia o in una stazione dei carabinieri.
Ruby ter, Cav assolto? "L'ira delle cagnette...": siluro contro Boccassini. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2023
Citando un verso di Fabrizio De Andrè - "L’ira funesta delle cagnette a cui aveva sottratto l’osso" - Il Foglio massacra i giustizialisti rimasti "senza osso" dopo l'assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. "Irose e bavose tricoteuse oggi in lutto stretto (bavose sia preso alla lettera: basta vedere l’eccitazione da tastiera di chi s’attarda a fantasticare sui 'partouze destinati a soddisfare i peculiari appetiti sessuali'". L’ira delle cagnette giustizialiste cui una sentenza liquidatoria (dei teoremi d’accusa) ha tolto definitivamente – dopo dodici anni di ciarpame voyeurista senza pudore, per estendere a chi lo merita il brocardo della signora Lario – l’osso sugoso del piacere inquisitorio".
Tra le "cagnette" ci sono il direttore de Il Fatto quotidiano, Marco Travaglio, che titola: "Criminali in festa: pagare e farla franca non è reato". E Gianni Barbacetto che tuona: "La procura di Milano ha sbagliato tutto". E ancora c'è "Giggino 'a manetta, del resto esperto di giudici che non riconoscono gli sforzi fantasiosi dei pm, è stupito che 'il Tribunale non abbia ritenuto sussistere la prova'". "Cagnetta" anche Giuseppe Conte "che infilata la talare da penitenziere del popolo va salmodiando: 'I comportamenti accertati non mi sembrano edificanti sul piano etico e tali da suscitare tutto questo entusiasmo'. Chissà se lo dirà anche del 'processo politico' del figlio di Grillo".
Restano "senza osso" anche "le cagnette di Avvenire, che si aggiudica uno dei titoli più incresciosi, 'Berlusconi assolto (sbaglia l’inchiesta)' che nemmeno la Santa Inquisizione", si commenta su Il Foglio. Quindi nell'elenco si trova anche Ilda la Rossa, Boccassini, che scrive: "Ho provato rabbia per quel mondo popolato da giovani donne pronte a soddisfare i desideri del ‘re’ per ambizione, denaro e un po’ di visibilità". Da notaare anche Carlo Bonini - "ne escono tutti vinti" compreso "l'ottuagenario" - che invece ha vinto.
L’Identità. IL SIPARIO SULLA TOGHECRAZIA. Tommaso Cerno su l’Identità il 16 Febbraio 2023
Si chiude il sipario. Quel sipario aperto dalla sinistra e dalla magistratura tanti anni fa che ha mostrato all’Italia lo spettacolo, spesso macabro, della politica che si mescolava ai processi. Uno spettacolo che, come dimostra l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Rubyter dopo 11 anni – ripetetevelo tutte le sere: 11 anni – non solo ha danneggiato il sistema politico, screditato i magistrati, messo in crisi il potere della destra, ma soprattutto ha danneggiato nel cuore la sinistra. Che ha inseguito per troppo tempo il fantasma di una giustizia che avrebbe sistemato nelle aule di tribunale quel nemico Silvio Berlusconi che nelle urne ancora oggi soltanto Romano Prodi era stato in grado di battere. Fa bene a tutti questa sentenza, perché mette la parola fine a un brutto periodo della storia italiana. E non perché Berlusconi sia innocente, io le sentenze le rispetto e dico a Silvio bene così, ma perché l’eccesso di accusa rispetto ai risultati dei processi ha messo in discussione anche quelle vicende giudiziarie finite con condanne pesanti. Ha creato insomma una tifoseria lì dove tifo non può esistere. Nel magistero più alto e delicato di tutti. Ha diviso l’Italia tra Buoni e Cattivi, tra moralisti e peccatori, ha assunto a simboli del grado figure che oggi ci appaiono come vittime. Non tanto Berlusconi che ha pagato moltissimo i suoi oltre 130 processi, ma Ruby ad esempio che oggi a 30 anni ammette che si trovava in una vicenda più grande di lei quando ne aveva 17. Ma soprattutto il Paese ha sofferto per non avere mai potuto vedere realizzata la riforma della Giustizia. Una giustizia che non funziona, come dimostra non tanto l’assoluzione di Berlusconi quanto la durata vergognosa del processo. Più di un decennio per dire che una miriade di fatti che hanno concretamente mutato il corso degli eventi politici non sussistono. Eppure siccome Berlusconi doveva difendersi, e quindi avrebbe potuto avere interesse a difendersi con le sue leggi, tutti gli italiani, i milioni di italiani che hanno a che fare con questa giustizia ormai antica, lenta, che caccia gli imprenditori stranieri che ormai non mettono i soldi in Italia perché hanno paura del nostro sistema giudiziario che cade a pezzi, hanno sofferto per decenni l’impossibilità del Parlamento di sistemare le cose. E la sinistra che avrebbe potuto accusare la destra di tutto ciò che voleva, ma al tempo stesso produrre un dibattito capace di trovare nel Parlamento la sintesi di un’avanzata necessaria nel futuro del nostro sistema, ha festeggiato dopo decenni per la riforma Cartabia. Una cosa a metà a cui già dobbiamo rimettere mano. Ecco perché il sipario che si chiude su questo processo deve diventare il sipario di tutti. I giudici devono fare i giudici, ma la politica adesso ha il compito di superare questa stagione inaugurata con Tangentopoli. Proprio quella Tangentopoli che nell’emettere condanne giuste, ha anche generato il clima che ancora non è esaurito nel Paese, che ha portato la giustizia a scelte e abitudini che hanno deteriorato il rapporto di fiducia necessario fra i cittadini e le istituzioni.
Il ministro Nordio ha un’occasione. Perché il clima nel Paese si stava già deteriorando. Lo scontro sul quale ieri ha riferito in Aula sul caso Cospito fra maggioranza e opposizione sembrava una pietra tombale sulla possibilità di ragionare davvero di una riforma organica della Giustizia. Le sue parole sulle intercettazioni anche a sinistra, almeno in quella vera, trovano ampi spazi per essere ascoltate, magari puntualizzate, certamente separate dal tentativo che immagino il ministro non possa immaginare di fare di nascondere dietro quelle parole una riforma che vuole impedire o limitare la possibilità di indagine dei magistrati, ma piuttosto garantire ai cittadini il corretto utilizzo dei dati sensibili che tali indagini possono portare con sè. Quel clima stava mutando. Anche perché il sottofondo del dibattito politico andava ancora una volta alla situazione giudiziaria di Berlusconi. Ma se le sentenze si rispettano, quella di oggi potrebbe cambiare il destino di una riforma necessaria. Su cui la destra deve porre come condizione il rigore assoluto nel rispetto degli strumenti che gli inquirenti hanno a disposizione per combattere il crimine, e la sinistra deve porre la propria disponibilità a eliminare dal sistema tutto ciò che in questi anni non è stato usato per fare giustizia, ma per il comodo di qualcuno. E chi è in buona fede sa che la storia italiana ci ha mostrato anche questo.
Il Cavaliere assolto. Lollobrigida frena i berlusconiani: Meloni non vuole lo scontro con i giudici. L’Inkiesta il 16 Febbraio 2023.
Dopo la sentenza di assoluzione nel processo Ruby Ter, il ministro dice che la vicenda non accelera l’urgenza di una riforma della giustizia, come chiedono da Forza Italia. Le riforme, spiega, vanno fatte «con un sereno confronto con la magistratura»
Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura del governo Meloni e numero due di Fratelli d’Italia, si dice soddisfatto dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. Ma precisa che quanto stabilito dal tribunale di Milano non accelera l’urgenza di una riforma della giustizia.
«Sono questioni separate», spiega Lollobrigida alla Stampa. «Sicuramente il Parlamento dovrà riflettere sui tempi della giustizia, che, come in questo caso, rischiano di condizionare anche la vita politica. Lo sconfinamento di una parte della magistratura pone dei dubbi su atteggiamenti che Berlusconi ha spesso definito persecutori. Oggi la storia gli dà ragione».
Né è «all’ordine del giorno» la commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura proposta dai berlusconiani, continua il ministro. «Ci sono diverse proposte in Parlamento per fare chiarezza su alcune inchieste che hanno riguardato la politica, dove resta il dubbio di intenti persecutori da parte di alcuni magistrati. Il libro di Palamara, d’altronde, non lo abbiamo dimenticato. Il Parlamento ha diritto di fare le verifiche e non spetta a me indicare lo strumento».
Anche la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, come chiede Forza Italia, «non è una priorità, c’è la necessità di intervenire, lo abbiamo scritto anche nel programma del centrodestra. Ma va fatto con un sereno confronto con la magistratura. Il voto del Csm ha dimostrato che al loro interno esistono sensibilità diverse, per cui si può discutere senza pregiudizi. Bisogna garantire una giustizia credibile, senza interferenze reciproche».
I meloniani provano ad arginare Berlusconi, insomma. Ma dopo la vittoria in tribunale del Cavaliere ora temono l’escalation con ripercussioni sulla stabilità del governo.
Poche ore prima della sentenza, la premier aveva concesso al suo alleato la revoca della costituzione di parte civile nel processo Ruby ter. L’idea di Giorgia Meloni era quella di mandare un segnale chiaro a Silvio Berlusconi, spiega Repubblica: se eviti strappi, se non disturbi la navigazione del governo, il governo sarà al tuo fianco.
Imprevedibile era invece quello che si è verificato ieri, con la decisione del tribunale di Milano di assolvere il Cavaliere. «Un’ottima notizia» per Giorgia Meloni. Ma anche una spinta a poter agire senza troppi calcoli e cautele, temono a Palazzo Chigi. Uno scenario potenzialmente pericoloso, per la stabilità della maggioranza. Per questo, la presidente del Consiglio non cambierà linea con Forza Italia e, semmai, la rafforzerà.
«Stare al governo e criticarlo non è un atteggiamento apprezzato dagli elettori», dice Lollobrigida alla Stampa. «Una cosa è stata chiara: i partiti che in questa fase sono stati più coesi, Fratelli d’Italia e Lega, hanno ottenuto un risultato migliore alle regionali. Gli alleati più polemici sono stati premiati meno. Quindi ci sarà più serenità».
Il giusto processo. Dopo l’assoluzione di Berlusconi la magistratura faccia un’analisi sincera sul proprio operato. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 18 Febbraio 2023
I pm e buona parte della stampa evitino atteggiamenti e pronunce che ledano la credibilità e il prestigio del potere giudiziario. E la politica non agiti sgangherate ipotesi di commissioni d’inchiesta punitive
Meglio tardi che mai. All’indomani dell’ultima clamorosa assoluzione di Silvio Berlusconi dall’accusa di aver corrotto le testimoni delle sue cene eleganti, Carlo Bonini scrive su Repubblica che «intossicato dal codice penale, quale unica bussola dell’agire umano, e da una Politica “irresponsabile”, il Paese non è più in grado di pretendere e ottenere le dimissioni di un parlamentare o di un amministratore pubblico in nome di qualcosa di diverso che non sia un avviso di garanzia o una sentenza di condanna».
Si tratta di un’ammissione importante che proviene da uno dei più convinti sostenitori in passato della funzione salvifica delle procure. In generale, per circa un trentennio una robusta componente della stampa e dell’opinione pubblica ha delegato ai procuratori una funzione di supervisione non solo puramente legalitaria, come sarebbe giusto, ma anche prettamente etica e di guida morale. Un ruolo che parificava i pm a quello dei colonnelli turchi custodi dell’eredità laica di Ataturk o degli ufficiali dell’esercito portoghese eroi della gloriosa Rivoluzione dei garofani.
Il fallimento rovinoso delle varie inchieste sui vizi privati di un leader politico potrebbe rivelarsi positivo se restituirà la magistratura al suo ruolo costituzionale di élite tecnica dedita all’erogazione di un pubblico servizio. Ciò non deve far dimenticare errori ed eccessi commessi, soprattutto al fine di evitarne di futuri. E lasciamo perdere le sgangherate ipotesi di commissioni d’inchiesta punitive.
Le accuse etiche contro Berlusconi si sono arenate essenzialmente per le decisioni assunte da vari giudici di merito che hanno respinto come infondato il castello di accuse dei pm. E ciò dovrebbe bastare a fermare gli sguaiati vendicatori di un’inesistente persecuzione.
Sarebbe opportuno chiedersi come mai nell’ultima indagine, la procura milanese si sia avventurata a sostenere un’ipotesi di accusa destituita in radice di ogni fondamento e destinata a un inevitabile fallimento. Ciò che deplorevolmente cronisti pur bravi come Nello Trocchia hanno descritto come «un cavillo» riguarda una delle espressioni più profonde del diritto di difesa: il silenzio per non accusarsi. Questa prerogativa è riconosciuta in tutti gli stati di diritto ed è lo scudo contro le pratiche che in passato legittimavano la tortura per spingere l’accusato a confessare.
Le cosiddette «olgettine» (termine dispregiativo che contiene in sé una condanna etica) sono state “costrette” a rispondere sotto il vincolo di giuramento e col rischio poi avveratosi di un’incriminazione quando erano già nella condizione di indagate per il reato di falsa testimonianza a favore di Berlusconi in un altro processo sulle cene eleganti.
Dunque sono state poste di fronte al dilemma tra dire “la verità” (o ciò che era ritenuta tale dagli inquirenti) su ciò che era accaduto nelle leggendarie notti di Arcore, e dunque confessare di aver mentito nell’aver taciuto i rituali dei festini, oppure continuare a negare ed essere comunque incriminate come poi è avvenuto per un diverso reato: la corruzione.
Come bene descriveva il gesuita Friedrich Von Spee nel volume “I processi contro le streghe” (Salerno edizioni), scritto nel diciassettesimo secolo, le sventurate accusate di maleficio venivano torturate perché confessando fornissero la prova principe della colpevolezza oppure, negando disperatamente, dessero comunque dimostrazione di insuperabile possessione demoniaca.
Fortunatamente le amiche di Berlusconi sono protette da una regola di civiltà. Che vale per tutti i liberi cittadini di uno Stato di diritto. Dice una solenne sciocchezza chi, come Marco Travaglio, parla a vanvera di obbligo a dire il vero in altri paesi pure per gli accusati. Nel diritto anglosassone l’obbligo scatta solo se l’imputato accetta o chiede di essere interrogato, senza che alcuno lo possa costringere.
Piuttosto che evocare come giustificazione dell’assoluzione «motivi prettamente giuridici» (neanche fossero appunto “cavilli”), il presidente del tribunale di Milano, Fabio Roja, potrebbe spiegare come mai si è arrivati a un processo lungo, dispendioso e defatigante quando, assai banalmente, avrebbe dovuto fermarsi in sede di indagini preliminari.
Sarebbe opportuno che Roja accertasse come mai il giudice dell’udienza preliminare di Milano sia incorso, insieme con la procura, in un banale infortunio ed errore di diritto violando l’articolo 384 del codice penale. Parliamo di un principio protetto dalla Costituzione. Di recente la stessa Consulta ha ribadito necessario difendere il diritto a non accusarsi tacendo non solo nei processi penali, ma anche in quelli amministrativi, come le indagini della Consob.
La magistratura deve fare un’autoanalisi ed evitare atteggiamenti e pronunce che ledano la sua credibilità e il suo prestigio. Ma deve essere altrettanto chiaro che non si può dare via libera a progetti punitivi e di sottomissione contro di essa.
Carlo Bonini definisce l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio «un maggiordomo» di Giorgia Meloni, neanche fosse la controfigura del malinconico e crepuscolare domestico James Stevens, immortalato da Anthony Hopkins in “Quel che resta del giorno”.
Vicende come quella del processo Berlusconi dimostrano la necessità della separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti perché le ragioni e le commistioni del dilagante correntismo in magistratura non condizionino l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario. D’altra parte tale esigenza non può coprire pericolosi regolamenti di conti o progetti di rivalsa della politica contro la libertà dei magistrati.
Nello stesso giorno in cui il Tribunale di Milano emetteva la sua sentenza, alla Camera venivano presentati in pompa magna i progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario. Erano presenti esponenti di diverse forze politiche favorevoli al cambiamento, ma mancava proprio il partito di maggioranza relativo in cui milita il Guardasigilli che, almeno a parole, è favorevole alla riforma.
Un’assenza che pone interrogativi su quali siano i reali disegni del Governo Meloni soprattutto in funzione della sbandierata voglia di rivincita e delle polemiche sul caso Cospito che vede il vice di Nordio, Andrea Delmastro Delle Vedove, sotto indagine.
È bene che le forze autenticamente riformiste e garantiste siano vigili.
Processo Ruby-Ter: Berlusconi assolto dopo 11 anni di fango. Andrea Soglio su Panorama il 15 Febbraio 2023
Per i giudici «il fatto non sussiste». Assolte anche le ragazze coinvolte nell'inchiesta sulla presunta corruzione
Processo Ruby-Ter; Silvio Berlusconi assolto perché «il fatto non sussiste». Ripetiamo. Processo Ruby-Ter; Silvio Berlusconi assolto perché «il fatto non sussiste». Ripeterlo era necessario perché ricordiamo ancora il vociare e le grida a voce altissima di coloro che festeggiavano al via del processo, che spacciavano accuse per sentenze certe, che attaccavano l’allora Presidente del Consiglio. Erano i giorni della piazza festante fuori dal Quirinale quando Berlusconi andò a dare le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio. Erano gli anni in cui la gente festeggiava nel vederlo prima condannato e poi ai servizi sociali. Erano giorni di festa per chi ci ha fatto sentire audio delle telefonate intime del leader di Forza Italia con Ruby «rubacuori» e le famose Olgettine per non parlare della frase simbolo di questo processo: «nipote di Mubarak» diventata patrimonio di tutti i comici, e non solo, d’Italia. Una battaglia che ha sempre avuto un solo scopo, ben preciso: infangare un avversario politico, rovinarlo, distruggerlo agli occhi del paese e del mondo. La lista dei guai giudiziari e delle inchieste che hanno coinvolto Berlusconi, dal momento della sua discesa in campo in politica, è talmente ampia che probabilmente sarà tema di un apposito esame nelle future facoltà di giurisprudenza. Gli hanno controllato tutto: aziende, squadra di calcio, hobby e amici. E, ovviamente, la vita privata. Il processo in questione vedeva Berlusconi accusato di aver corrotto le ragazze presenti alle famose cene eleganti di Arcore; pagate perché non raccontassero le cose proibite che sarebbero successe (secondo l’accusa) a Villa San Martino. «Il fatto non sussiste». Berlusconi non ha pagato, le ragazze, assolte anche loro, non hanno mentito. La reazione del leader di Forza Italia e dei suoi più stretti familiari è il giusto mix di gioia, per la verità finalmente emersa, ma anche amarezza perché il fango raccolto in dieci e passa anni non si cancella con una sentenza di assoluzione, in un attimo. Soprattutto perché in attesa della verità, questo processo dei danni li ha fatti, all’uomo, al politico e crediamo in parte anche al Paese. Quanto hanno riso all’estero ad esempio per questo? Chiedere al duo Merkel-Sarkozy tanto per fare due nomi. Purtroppo in questo Berlusconi non deve sentirsi un unicum. Da anni raccontiamo di persone a cui dei giudici con accuse rivelatesi infondate hanno rovinato la vita, grazie anche al fatto che i tempi della nostra giustizia sono lentissimi (a tutto svantaggio dei deboli, cioè gli imputati). Persone che hanno perso la famiglia, la credibilità, l’onore, in alcuni casi, drammatici, persino la vita perché a volte il fango che ti ricopre non ti fa nemmeno respirare. Una domanda resta e solo Berlusconi potrebbe dare la risposta: in questa guerra che le ha dichiarato parte della giustizia italiana Presidente oggi si sente vincitore o vinto?
L'Italia del processo Ruby è grave. Ma il vero scandalo è il radicalismo puritan. Andrea Soglio su Panorama il 17 Febbraio 2023.
12 anni fa al via del processo che ha visto l'assoluzione di Silvio Berlusconi su Panorama questa era l'analisi di Giuliano Ferrara
Da Panorama del 14 aprile 2010 Chi abbia visto anche un solo talk-show sul caso Ruby non può non averlo capito: il sesso parlato, il simulacro ideologico del sesso, è una brutta bestia, scatena le più losche e dissimulate passioni, uccide l’intelligenza, la buona creanza, il discernimento. L’Italia del processo Ruby è ufficialmente ubriaca. Un grano di vera e pura follia si è impadronito di coloro che pretendono di rappresentarla in quanto opinione pubblica o in quanto pubblica accusa in giudizio: l’invenzione del reato di prostituzione per il presidente del Consiglio, e la connessa attività di guardonismo giudiziario, di origliamento, di pubblicazione illegale di intercettazioni riguardanti la sua vita privata, è stato materiale esplosivo. È saltata in aria la coscienza nazionale, ma sono in pezzi anche l’inconscio e il subconscio e il super-Io. Ormai siamo un popolo da psicoanalisi, siamo affetti da una perversione del discorso pubblico incapace di distinguere i fatti dalle pulsioni e di mondare il linguaggio dagli effetti di turpitudine che lo spionaggio nella vita privata di un uomo ricco e potente ha riversato su sogni, deliri, incubi e ribalderie dell’anima nazionale. È uno spettacolo raccapricciante. Non per ragioni etiche, per ragioni intellettuali. Si fa evidente l’incapacità di maneggiare con un minimo di sapientia cordis, di tatto e di sensibilità, qualcosa che appartiene alla dimensione creaturalmente peccatrice dell’umanità. Maturi signori di sinistra, progressisti per scelta e per cultura, riversano sul loro nemico assoluto, esclusivo, ossessivo, e sul giro di amici e amiche che invitava a cena e copriva di regali, per esercitare in privato le arti della seduzione e dell’intrattenimento, del piacere e del gioco, una forma di livore libidinoso, di proiezione delle loro insicurezze esistenziali e di odio punitivo, vendicativo, che farà epoca per una generazione. Un «defining moment», dicono gli anglosassoni, volendo significare che un certo segmento del tempo in cui si vive diventa emblematico di una cultura, di un modo di vivere, di un’idea della convivenza e della civiltà. Siamo in uno di quei momenti che definiscono un periodo di storia nazionale, e il succo è che la rivolta contro le anomalie di un potere nato dalla liquidazione violenta del sistema dei partiti ha virato verso l’irrazionale, sullo sfondo di frustrazioni e incomprensioni che riguardano ormai un irriducibile conflitto di antropologie. Berlusconi è stato trasformato in un totem, e la danza rituale non si ferma. Le amiche e le invitate a cene private in casa dell’arcinemico sono puttane, lui è un vecchio rifatto che fa schifo, i parlamentari che lo votano sono dei venduti che lo proteggono per interesse, le istituzioni meriterebbero di essere schiacciate sotto il peso della loro mercificazione. Ma è possibile che la nomenclatura politica sopravvissuta a mille erorri, a mille curve della storia, proveniente dai vecchi partiti, abbia portato fino a questo punto il cervello all’ammasso del radicalismo neopuritano, della dottrina islamica sulla dignità della donna intesa come sua schiavitù sociale, dell’odio verso le persone come sostituto psicologico dell’incapacità di formare una coalizione e di battere nelle urne il presidente in carica eletto dagli italiani? È possibile. È un fenomeno di acuta degenerazione politica sotto gli occhi di tutti. Un grosso guaio.
Il Cavaliere ancora sotto processo, un’«odissea» partita da Bari. Domani nuova udienza del procedimento a carico di Berlusconi. Finora l’unico condannato è stato Tarantini. Isabella Maselli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Febbraio 2023
Lo scandalo sulle serate «piccanti» di Silvio Berlusconi nelle sue residenze di Palazzo Grazioli e Villa Certosa partì da Bari. Era l’estate 2009. Due i nomi che per anni hanno riempito le cronache relative a quelle notti a base di musica, sesso e regali: Patrizia D’Addario e Gianpaolo Tarantini. «Escort» fu chiamata l’inchiesta, a indicare la mercificazione che 26 donne avrebbero fatto del proprio corpo.
Dopo tre gradi di giudizio l’imprenditore barese «Gianpi» Tarantini è stato l’unico ad incassare una condanna a 2 anni e 10 mesi di reclusione. Fu lui - ha stabilito una sentenza ormai passata in giudicato - ad aver reclutato alcune di quelle donne, la sua «scuderia», perché si prostituissero con l’allora presidente del Consiglio. Nell’elenco che i giudici baresi stilarono per identificare le persone offese di quella vicenda, anche se pochissime si costituirono parte civile, c’erano i nomi di 26 ragazze, molte delle quali hanno «sfilato» nelle udienze di quel processo per raccontare quello che accadeva durante e dopo le cene da Berlusconi, tra incontri vip e coccole...
Quando la giustizia diventa un ring per lo scontro politico. Silvio Berlusconi è stato assolto nel processo Ruby ter ma un comunicato del Tribunale di Milano sottolinea che la decisione si fonda sulla carenza di materiale probatorio. Sergio Lorusso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Febbraio 2023
Un Ruby Wednesday per il Cavaliere, un mercoledì scintillante da lungo tempo atteso. Se è buona regola non commentare una sentenza non definitiva, tanto più quando non è ancora nota la motivazione, è anche vero che una sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste» - la formula più favorevole per l’accusato - si presta a considerazioni a caldo - ovviamente suscettibili di «riletture» in seconda battuta - non approssimative.
Silvio Berlusconi, insieme ad altri 28 imputati, è stato infatti assolto ieri dal Tribunale di Milano nel processo noto come Ruby ter iniziato circa sei anni fa come costola del più famoso caso Ruby (e del relativo processo), esploso la sera del 27 maggio 2010 quando una diciassettenne marocchina, Karima El Mahroug (conosciuta come Ruby Rubacuori), viene accompagnata per essere identificata negli uffici della Questura meneghina dove giunge una telefonata del Cavaliere - all’epoca Presidente del Consiglio - tesa (secondo l’accusa) a favorire indebitamente il rilascio della ragazza. La vicenda processuale si conclude nel 2015 con l’assoluzione di Berlusconi dagli addebiti di concussione e prostituzione minorile.
Il Ruby ter, invece, riguarda le accuse di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza formulate a carico di varie persone per il comportamento tenuto nel processo principale.
Ebbene, da un inusuale comunicato del presidente del Tribunale di Milano, contestuale alla decisione (nei fatti una sorta di pre-motivazione assai sintetica, peraltro fornita dal capo dell’ufficio in linea con le direttive del CSM in materia di corretta comunicazione istituzionale), apprendiamo che la decisione di assoluzione «perché il fatto non sussiste» si fonda sull’assoluta carenza di materiale probatorio in quanto le persone sentite come testimoni erano in realtà persone indagate di reato connesso. Da qui non solo l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese ma anche la non configurabilità del reato di falsa testimonianza che presuppone, per la sua sussistenza, la qualifica di testimone; qualifica che non è attribuibile alla persona indagata di reato connesso.
Si dirà che si tratta di un ragionamento tecnico, di considerazioni di carattere formale, ma così non è perché il processo penale - in un ordinamento democratico - ha delle regole e ciò che conta è la verità giudiziale, la verità cioè che emerge dal processo nel rispetto di quelle regole le quali possono portare ad escludere dal panorama cognitivo del giudice ciò che in astratto potrebbe costituire prova. Non sappiamo, del resto, quale esito avrebbe potuto avere il processo se le testimonianze escluse fossero state ritenute inutilizzabili. E questo, ovviamente, vale sempre, indipendentemente dalla notorietà dell’imputato.
Se mai è singolare che la Presidenza del Consiglio abbia revocato, poche ore prima dell’udienza, la costituzione di parte civile promossa nel 2017 da Paolo Gentiloni, argomentando sulla politicità e sulla soggettività delle valutazioni fatte a suo tempo e sugli sviluppi giudiziari della vicenda intervenuti successivamente. Se, infatti, il Capo del governo ha legittimamente esercitato una sua prerogativa, è sul piano dell’opportunità - anche per le cadenze temporali adottate - che sorge qualche perplessità, tenuto conto del possibile implicito condizionamento (magari non voluto) dell’organo giudicante.
Un «processo politico», in definitiva, quello di cui si è appena concluso il primo round. Come «politico» è stato - soprattutto per le sue ricadute – il Ruby major. Difficile negarlo. Ma non perché si tratta di processi illegittimamente instaurati, naturalmente. Piuttosto, per l’esorbitante rifrazione mediatica e per l’uso ampio a livello di propaganda che ne è stato fatto da parte dei contendenti politici. Vicende giudiziarie che hanno alimentato quello scontro politica-magistratura in atto da molti anni e - potremmo dire - cifra distintiva del nostro Paese in questo primo scorcio del nuovo millennio.
A farne le spese, lo sappiamo, la classe politica da un lato - fortemente delegittimata al di là delle responsabilità personali - e la magistratura dall’altro, che - per i comportamenti di taluni - ha progressivamente perso (anche per contraddizioni e vizi interni) quell’aplomb e quell’autorità che possono derivare solo da una terzietà e da un’imparzialità autenticamente praticate (e non solo declamate). La giustizia ridotta a scontro, i cittadini ricondotti a tifoserie contrapposte. E il diritto, purtroppo, considerato una semplice variabile dipendente.
Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 16 febbraio 2023
(...)
Gli stessi che hanno scambiato un harem brianzolo fatto di party in amicizia e di cene sboccate e molto eleganti per una associazione a delinquere, per un’offesa al senso comune del pudore, per un attentato alla dignità dello stato e della funzione di presidente del Consiglio, quegli stessi boccoloni e falsi creduloni che hanno ordinato e seguito con disciplinata malizia pedinamenti, origliamenti, allo scopo di abbattere uno che aveva vinto le elezioni anche per riformare e limitare l’onnipotenza supplente dei magistrati politicizzati, hanno poi tentato di vincere almeno uno dei tre processi ora celebrati, quello per corruzione in atti di giustizia, un bel premio di consolazione con abbondanti pene richieste dall’accusa e respinte dal tribunale con formula ultrapiena. Ora dicono che è un errore procedurale dell’accusa a avere causato questo sconquasso, come quando dissero che Andreotti era stato assolto ma anche condannato.
Non capiscono che un’accusa che si vale di procedure sbrigative e brutalmente in contrasto con il diritto processuale è il miglior argomento per noi garantisti contro lo strapotere di certe toghe militanti. Bah. Si consolano anche ironizzando sulla “nipote di Mubarak”, Karima El Mahroug, senza capire che quella era un’invenzione di fertile spessore solidale per evitare guai e pasticci giudiziari a una giovane persona del giro, un gesto di fantasia sbrigliata e umanamente molto comprensibile, visto che non era rimasto ucciso nessuno e nessun patrimonio, salvo quello del Cav., e in ragione proporzionalmente minima e volontaria, era stato attaccato.
Si consolino pure. Siamo generosi, noi sporcaccioni. Tutto è perdonato in linea di principio. In linea di fatto però qualcosa di imperdonabile resta. La mejo stampa soi-disant laico-liberale ha pucciato il biscotto in questa brodaglia di pregiudizio e vanità etica, di falso senso dello stato, e ha fatto da scorta vigilante alla peggiore inchiesta giudiziaria degli ultimi decenni, a processi in cui la Principessa dell’accusa si è fidata di alludere alla “furbizia orientale” della signora El Mahroug con toni di sfondo razzista e sessista, molestie da #MeToo prima del #MeToo.
E c’è un’Italia che ha seguito compunta e indignata questa commedia leggera come se fosse in gioco la norma democratica. Da piangere e da ridere. Il politicamente corretto non è sempre stato la slinguazzata episodica di Sanremo o la fluidificazione del genere sessuale.
C’è stato un politicamente e eticamente corretto di segno inverso, e consisteva nel mettere, come faceva sornione il grande direttore generale della Rai Ettore Bernabei, i mutandoni alle ballerine. Il conformismo ha sempre lo stesso segno un po’ ridicolo, quando punisce preventivamente la trasgressione immaginaria in nome del comune senso del pudore e quando organizza commercialmente la trasgressione in nome dei diritti e della identity politics.
In fondo quando noi sporcaccioni e servi ci siamo riuniti al grido “Siamo tutti puttane”, quando ci siamo imbellettati di rossetto, fluidi antemarcia, per opporre qualcosa di sapido al pudore di stato, quando ci siamo messi in mutande o in mutandoni, dicendoci “In mutande ma vivi”, in un teatro milanese affollato di dadaisti anticonformisti, questo abbiamo fatto: ci siamo opposti a una delle varianti, la più sordida forse alla luce della sua invadenza sul terreno della democrazia e della divisione dei poteri, del correttismo.
Ma quando il fatto non sussiste, il correttismo muore.
«Berlusconi è assolto: qualcuno lo spieghi al tribunale mediatico di Fatto e Repubblica». L’ex leader dei penalisti Valerio Spigarelli replica agli articoli di Barbacetto e Recalcati sulla sentenza del processo Ruby ter. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 febbraio 2023
Barbacetto sul Fatto firma un pezzo dal titolo «Ruby, il cavillo fu respinto da 32 giudici: "Giusto sentire le Olgettine come testi"». Recalcati su Repubblica, sempre sullo stesso tema: “Il non rispetto delle regole, come hanno ritenuto i giudici, non può rimuovere il senso della Legge e la verità che esso comporta. Pagare dei testimoni per dire il falso può anche essere un comportamento assolto per un vizio di procedura ma resta un chiaro comportamento "fuorilegge"”. Torniamo a parlarne con Valerio Spigarelli, già presidente dell’Ucpi, che ci aveva già spiegato in una precedente intervista perché non siamo in presenza di un “cavillo”.
Avvocato che pensa dell’articolo di Barbacetto?
Per prima cosa noto che l’argomento sul numero dei giudici che decidono in un modo rispetto ad altri che fanno il contrario è stato usato in passato, in merito a decisioni opposte, dai “tifosi” di Berlusconi. In realtà è un non senso in ambito giudiziario: i giudici in Cassazione sono cinque e a volte annullano decisioni su cui sono stati concordi molti altri loro colleghi. In realtà ci troviamo dinanzi ad una serie di norme, non a caso su cui si è lungamente discusso, in cui la discrezionalità era ed è amplissima.
Cioè?
La legge prevede che il pm iscriva “immediatamente” ogni notizia di reato che gli perviene ma, fino a poco tempo, lasciava una discrezionalità amplissima ed incontrollata rispetto alla iscrizione della persona nei confronti della quale si indagava. Il che permetteva molti abusi. Per questo oggi l’iscrizione deve avvenire non appena risultino “indizi” a carico di qualcuno, e soprattutto, si permette ai giudici di sindacare tempi e modalità di iscrizione, cosa che prima non si poteva fare. E siamo arrivati a farlo anche perché abbiamo constatato che la giurisprudenza era molto benevola nei confronti di questi atteggiamenti del pm. Che non avvenivano per caso, ma per poter interrogare una persona, in ipotesi indagabile, senza le garanzie di legge. Un format investigativo assai diffuso: si convocava gente per farla parlare, sapendo che prima o poi sarebbe stata iscritta nel registro delle notizie di reati ma intanto la si spremeva per avere informazioni senza garanzie.
Ci faccia un esempio.
Ce ne sarebbero a iosa. Dalle indagini sugli incidenti sul lavoro, o sulla sanità, a quelle per corruzione, accadeva – e accade – spesso. Quindi, quando parliamo della vicenda Berlusconi, non parliamo di un incidente che riguarda una interpretazione di 3 giudici contro 30 ma di una questione su cui si registrano abusi del processo. Dopo la Cartabia dovrebbe andare meglio, anche se si poteva fare di più.
Qui però parliamo dei giudici.
Ecco perché nella precedente intervista ho fatto riferimento alla terzietà del giudice e alla necessità della separazione delle carriere. Alludevo a quella giurisprudenza e a quegli atteggiamenti che, come in questo specifico caso, nell’ansia di salvare il prodotto delle investigazioni forzano l’interpretazione delle norme. Se si trova un “giudice a Berlino” il problema non si pone; si pone però rispetto all’atteggiamento della giurisprudenza in generale. Quello di cui stiamo parlando è esattamente l’epitome di una questione di carattere più generale che riguarda lo squilibrio della giurisdizione a favore della pretesa punitiva dello Stato che va corretta.
A proposito di regole, che ne pensa di quello che ha scritto Recalcati?
Quel commento fa una distinzione tra la giustizia “formale” e quella “sostanziale” che per un giurista è blasfema. Le regole sono il frutto di esperienze millenarie che servono a mettere a punto dei percorsi – i processi – che hanno il fine di arrivare a decisioni giuste. Cioè ad evitare gli errori giudiziari. Qualcuno sostiene che il codice accusatorio si accontenta della “verità processuale” vista come un minus rispetto a quella “sostanziale”, ma è una banalità. Le regole non servono ad arrivare alla verità assoluta – a quella ci pensa il Padreterno se esiste – ma ad una verità umana che eviti quanto più possibile di mandare in galera un innocente. Sembrano regole molto formali solo a quelli che non ne conoscono la storia. Ad esempio: se un pentito fa una dichiarazione contro qualcuno le sue parole da sole non bastano; mentre se c’è un testimone che fa lo stesso la sua sola parola è sufficiente. Qualcuno potrebbe dire che si tratti di una regola “formale” ma l’esperienza umana e giuridica ci ha insegnato che se qualcuno ha un interesse particolare in un processo - come ottenere dei benefici - le sue parole pesano meno rispetto a quelle di chi è disinteressato. Abbiamo elaborato la regola che nessuno può essere obbligato ad accusare sé stesso – quella di cui stiamo discutendo da giorni – perché abbiamo constatato che, nell’esperienza plurisecolare della giustizia, se non ci sono delle regole a difesa di chi viene interrogato questo porta a forzature per farlo confessare. E ciò vale anche per il contraddittorio, e ce n'è voluto per farlo capire a tutti, in primis alla giurisdizione italiana. Dal 1992 al 2000 abbiamo irrogato centinaia di anni di galera e molti ergastoli applicando la regola secondo la quale quello che un teste aveva detto alla polizia, o al pm, era sufficiente – una cosa che Barbacetto e il suo giornale ancora rimpiangono – e non era necessario dirlo in tribunale, sotto gli occhi del giudice e davanti al difensore. Dopo di che abbiamo modificato la Costituzione, per cui una prova è tale solo se si forma all’interno nel contraddittorio tra le parti. Ma non l’abbiamo fatto “solo” per tutelare il diritto di difesa o applicare una regola della Cedu preesistente. No, l’abbiamo fatto perché l’esperienza ci ha insegnato che il contraddittorio è uno strumento epistemico migliore per arrivare alla “verità”. Peraltro, le regole sono anche un bene in sé stesse perché, come scrisse Massimo Nobili, “il metodo con cui si indaga deve costituire un valore in sé perché, purificando il materiale della decisione, restringe il campo dell’arbitrio del giudice”. Infine, la distinzione tra le “regole” e la “legge universale” ricorda l’invettiva di quel giacobino che disse “invocate le forme perché non avete principi” ma, alla fine, alcuni di quelli che la pensavano così gli tagliarono la testa.
Cavalcare cavilli. L'aula del tribunale di Milano in cui si è tenuto il processo Ruby Ter. La nota con cui il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto di dover spiegare le ragioni fondanti della sentenza di assoluzione nel noto processo Ruby Ter è davvero singolare per l’ampiezza con cui ha anticipato le motivazioni della decisione e per il tono che sembra governarla. Il Dubbio il 19 febbraio 2023
La nota con cui il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto di dover spiegare le ragioni fondanti della sentenza di assoluzione nel noto processo c.d. Ruby Ter, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, è davvero singolare per l’ampiezza con cui ha anticipato le motivazioni della decisione e per il tono che sembra governarla.
Traspare dalle parole del comunicato, il desiderio di giustificare la decisione assunta attraverso la puntualizzazione ridondante che il fondamento del verdetto è costituito da “esclusive ragioni giuridiche”.
Nei linguaggi verbali come nella teoria della comunicazione, la ridondanza indica le parole o la parte di messaggio che possono essere eliminati senza perdita sostanziale di informazione. Una comunicazione logica e pertinente, osservava il filosofo inglese Paul Grice, rispetta la massima della quantità: "Non essere reticente o ridondante" e l'etimo stesso della parola indica proprio ciò che avanza: quel movimento dell'onda che, per quantità, refluisce indietro (red-undare). Sono ridondanze "la varietà differente", "l’optional aggiunto", "i risultati finali", "i progetti futuri", "le storie passate".
Allo stesso modo, è ridondante affermare che una sentenza assolutoria è basata su "ragioni, di carattere esclusivamente giuridico": in un testo ad alta vincolatività, sia formale che di contenuto, qual è il testo-sentenza, gli argomenti e le ragioni che fondano una pronuncia non possono che essere giuridici.
Sennonché, la locuzione usata viola pure la quarta massima di Paul Grice: "evita l'ambiguità", perché specificare che una sentenza di assoluzione è intervenuta per "ragioni di carattere esclusivamente giuridico" induce, ambiguamente, a ritenere che si è stati costretti per diritto ad assolvere e che talvolta possa accadere che così non sia.
Non stupisce allora che la stampa, non tutta, ma la solita, abbia tradotto “esclusive ragioni giuridiche” con “cavilli”, vale a dire quegli strumenti utilizzati da legulei impenitenti proiettati a intralciare il corso della giustizia più che a contribuire al suo corretto dipanarsi. La comunicazione è tema delicato, specie quando investe il cruciale punto di contatto tra la collettività e gangli strutturali del patto democratico, come la giurisdizione.
A farne un uso poco avveduto si rischia di produrre effetti dannosi, come quello di considerare cavillo un fondamento del sistema penale liberale quale il principio del “nemo tenetur se detegere”. La Camera Penale di Roma aderisce, pertanto, con convinzione alle osservazioni del comunicato del 16 febbraio della Camera Penale di Milano e alla consorella si affianca nel ribadire la necessità di sorveglianza attenta e reazione pronta a tutela dei fondamenti del nostro sistema democratico.
* Con la collaborazione delle Commissioni informazione giudiziaria e linguistica giudiziaria.
DOPO LA SENTENZA. Palamara: «Berlusconi assolto? Prevedibile e condivisibile». Poi l’attacco a Caselli. Luca Palamara, ex pm di Roma, radiato dalla magistratura. L’ex pm alla “toga rossa” in pensione: «Chi dice che i giudici non sono sereni è garantista a corrente alternata». Il Dubbio il 16 febbraio 2023
«A differenza di quello che ritiene l'ex 'toga rossa' in pensione Giancarlo Caselli, che ha incredibilmente offeso i giudici milanesi definendoli non sereni, in tal modo dimostrando ancora una volta la faziosità esistente in una parte della magistratura (garantista a corrente alternata), io ritengo che il contenuto della sentenza fosse ampiamente prevedibile e come tale condivisibile». Così all'AdnKronos l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara commenta l'assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter.
Si tratta, osserva Palamara, di «una sentenza emessa da giudici autonomi e indipendenti che come, recita l'art.101 della Costituzione, sono soggetti soltanto alla legge. Si può, ovviamente, criticare la sentenza, ma quando nacque l'inchiesta tanti, anche all'interno della magistratura, sapevano come sarebbe andata a finire».
«Penso - ribadisce Palamara - che uno stato di diritto abbia bisogno di giudici che applichino in maniera indipendente ed imparziale le leggi senza cercare il consenso della piazza o di questo o di quel giornale dove magari lavorano i figli. Troppo spesso la magistratura è stata trascinata su un terreno di contrapposizione politica che non le deve appartenere. E' giusto criticare i provvedimenti, ma mettere in dubbio la serenità significa andare oltre e questo è molto grave. Tanti magistrati non vogliono identificarsi in una visione oramai superata di una magistratura politicizzata».
Di processi e indagini, Silvio Berlusconi ne ha subiti decine. Fisiologia giudiziaria, per alcuni, persecuzione e accanimento dei pm, per altri. «Come ho raccontato nel 'Sistema' - chiosa in proposito Palamara -, io posso raccontare l'esperienza da me vissuta alla guida dell'Anm. Senza, ovviamente, entrare nel merito del procedimento, è indubbio che quando emerse l'inchiesta su Ruby, anche all'interno della magistratura associata si discuteva sull'eccesso di politicizzazione di quell'inchiesta. L'ordine di scuderia era quello di fare blocco intorno ai pubblici ministeri milanesi. E così avvenne: prevalse la linea di coloro i quali ritenevano di dover supportare le dieci domande di Repubblica perché Berlusconi non poteva avere alcuna “legittimazione storica, politica e culturale e anche morale per riformare della giustizia”».
«Ruby ter, altro che cavillo: sono state violate regole fondamentali». Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, sull’assoluzione di Silvio Berlusconi: “Chi la contesta difende una funzione di carattere etico morale che però non è propria del processo penale”. Valentina Stella Il Dubbio il 16 febbraio 2023
Molti giornali hanno scritto: “Berlusconi assolto per un cavillo”. Il presidente facente funzioni del Tribunale di Milano ha sentito la necessità di emanare una nota. Ne parliamo con l’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere Penali Italiane.
Come legge tutto questo?
Intanto vediamo cos’è quello che chiamano cavillo. In realtà sarebbe una regola di portata universale per cui se una persona è potenzialmente indagata non può essere qualificata come testimone e ha il diritto di tacere. È questo di cui stanno discutendo nel caso Berlusconi: quando si fecero le indagini sono state interrogate come testimoni delle persone che testimoni non potevano essere, in quanto l’ipotesi che andavano investigando riguardava anche loro responsabilità. Invece gli hanno fatto assumere la qualifica di testimoni, forzando quindi la legge. Quindi oggi non possiamo dire che Berlusconi è stato assolto per un cavillo.
Perché?
Quel “cavillo” è una regola fondamentale del sistema processuale che impedisce di obbligare qualcuno a testimoniare contro sé stesso, che evidentemente è stata violata da chi ha interrogato quelle persone. Ma quello delle regole violate che poi portano al fallimento delle aspirazioni accusatorie è un copione già visto nei processi contro Berlusconi.
Ci racconti.
Molti anni fa difendevo in un processo dove era imputato anche Berlusconi. In quel caso fu violata la regola della competenza per territorio. Anche allora si investigava se ci fosse una attività di corruzione in atti giudiziari e se fossero coinvolti giudici di un certo distretto. Inutilmente le difese, sin dall’inizio del processo, dissero che andava spostato a Perugia ai sensi dell’art 11 cpp. Siccome volevano per forza fare il processo a Milano, non rispettarono quella regola in primo e secondo grado. Poi la Cassazione annullò tutto e mandò a Perugia. Con il risultato che nel frattempo erano passati anni e si arrivò alla prescrizione. Una eterogenesi dei fini simile alla vicenda odierna.
Questo cosa ci dice?
Che se violi una regola puoi anche sopravvivere inizialmente ma poi, se trovi un “giudice a Berlino” rischi di buttare via il processo. Quelli che dicono a Berlusconi “è inutile che gioisci perché in realtà sei colpevole lo stesso” sono quelli che devono difendere una funzione di carattere etico morale che però non è propria del processo penale. I processi penali sono costituiti da una serie di regole coordinate ad una decisione finale. Se tu violi una regola fondamentale, il fatto che poi per questo l’imputato venga assolto non puoi sbatterlo in faccia all’imputato stesso. Se non ci fosse stata la violazione, non sappiamo cosa sarebbe accaduto. Magari sarebbe stato comunque assolto, anche perché tre persone hanno avuto lo stesso esito nel processo, ma per altri motivi. In questo Paese dovrebbe essere chiaro che il rispetto delle regole non può essere derubricato o a “fallimento della giustizia” o all’espressione “sei innocente, ma..”.
C’è questo riflesso incondizionato anche da parte della stampa di non spiegare bene che esistono le regole dello Stato di Diritto?
Certo che c’è una responsabilità dell’informazione. Se lei legge i giornali stamattina (ieri, ndr) ritrova questa polarizzazione da stadio: quelli di destra scrivono “restituito l’onore a Berlusconi”, quelli di sinistra “assolto per un cavillo”. E non è vera né l’una né l’altra cosa. È stata violata una regola, la regola è importante, il cittadino Berlusconi andava assolto, punto. Casomai bisognerebbe rimproverare chi ha violato quella regola.
Berlusconi assolto per tre volte. Questo cosa ci dice? C’era un accanimento?
Che secondo la legge italiana non è stata accertata la sua responsabilità. Il problema è che molto spesso in politica e nell’informazione giudiziaria non danno importanza alle regole che vengono vissute come degli impacci o come dei cavilli. Per fortuna quando le spiego a chi siede davanti alla mia scrivania, da imputati o parti offese, i cittadini capiscono che non sono cavilli: sono la legge. E che la legge ha un suo senso e rende il nostro ordinamento migliore rispetto ad altri dove, anche se sei indagato, ti obbligano a fare dichiarazioni senza alcuna garanzia.
Forza Italia propone una commissione di inchiesta sull’uso politico della giustizia.
Dovrebbero avere altre priorità, per esempio far approvare la riforma costituzionale della giustizia: separazione delle carriere, due Csm, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Questa sarebbe una vera iniziativa politica, il resto è propaganda. Oggi ci troviamo dinanzi alla decisione di un giudice terzo e imparziale ma non è sempre così.
L’Anm scrive in un documento contro la separazione delle carriere: «È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto secondo il quale il giudice sia “culturalmente adesivo” alla prospettiva del pm: nel 48% dei giudizi penali la sentenza è di assoluzione, nel 45% di condanna, il resto ha esito misto».
Si tratta di un non argomento. La terzietà del giudice non riguarda l’onestà intellettuale del singolo magistrato. È invece una caratteristica del giudice che viene scritta e descritta dall’ordinamento. Se unico è l’organo che amministra le carriere dei magistrati, se c’è un’unica disciplina per pm e giudici, se puoi cambiare funzione senza alcun concorso allora hai un ordinamento che non riconosce la terzietà del giudice perché lo accumuna al pm. Peraltro, la questione non va limitata alle percentuali delle sentenze. La questione riguarda la giurisprudenza nel suo complesso. Se andiamo a verificare gli indirizzi della giurisprudenza vediamo che molto spesso non è affatto “terza” ma sbilanciata verso la concezione del processo come strumento di difesa sociale tipica della funzione dell’accusa. Basta vedere in tema di intercettazioni e misure cautelari.
Che bilancio fa di questi primi mesi del ministro Nordio?
Su alcune questioni per adesso non c’è Nordio, ma una sua imitazione: penso ad esempio al decreto anti-rave e alla faccenda Cospito con annessi e connessi. Però ritengo che Nordio sia una persona perbene e un bravo giurista e spero che quel progetto di giustizia liberale che lui ha più volte annunciato prima o poi lo metta in campo; anche a costo di rimetterci la poltrona. Noto che due giorni fa alla conferenza stampa organizzata per presentare le pdl sulla separazione delle carriere mancava Fratelli d’Italia che ha fatto eleggere Nordio e lo ha fatto diventare ministro della Giustizia. Questo mi preoccupa.
Sostengono che vogliono presentare un progetto organico di riforma.
Si tratta di una boutade. Una riforma ampia semmai parte da una revisione costituzionale e poi si dirama su altre cose. Non vorrei che questa fosse una scusa per non andare avanti.
Il processo e le polemiche dei moralisti. Perché Silvio Berlusconi è stato assolto al processo Ruby Ter. Alberto Cisterna su il Riformista il 22 Febbraio 2023
Ci sono voluti due interventi di Piero Ignazi (Il Domani, 19 febbraio) e di Massimo Recalcati (La Repubblica, 21 febbraio) per innalzare l’asticella della discussione sul caso Ruby-ter e sull’ennesima assoluzione di Berlusconi. Si tratta di due prese di posizione complementari, per così dire, per molti versi condivisibili e che cercano da prospettive culturali diverse di rimettere ordine nel caleidoscopio delle prese di posizione scomposte e delle tifoserie contrapposte all’opera in questi giorni.
Si dovrà tornare su questo, ma per il momento un punto si staglia con una certa evidenza: le lunghissime ed estenuanti vicende giudiziarie del Cavaliere sono stati uno dei luoghi privilegiati in cui si è sviluppata e ha preso corpo quella visione a-legale e a-costituzionale della giustizia che pretende siano irrilevanti sentenze di assoluzione o clamorosi fallimenti dell’accusa perché quel che conta è la solitaria convinzione che ognuno ha delle colpe dell’imputato. Un atteggiamento eversivo, anarcoide, distruttivo che mina le basi stesse del sistema giudiziario, sostituito da un magmatico tribunale delle coscienze che attinge alla verità bypassando ogni carta, ogni prova, ogni obiezione e appellandosi al fuoco sacro e infallibile della propria intuizione.
Tanto tra le pieghe dei faldoni, nelle minuzie delle carte, nei sottintesi delle parole, nelle suggestioni delle motivazioni esiste sempre la possibilità di individuare un metatesto che lascia intendere che l’imputato, in fondo in fondo, era colpevole e che, purtroppo, l’ha fatta franca. Non importa l’esito dei processi, il verdetto delle aule, quel che rileva è solo se il nostro pregiudizio, le nostre antipatie, i nostri antagonismi possono trovare una conferma in qualche anfratto delle carte a dispetto della verità proclamata dai giudici in nome del popolo italiano. Poveri giudici con le mani legate dalle prove, dai codici, dal confronto tra accusa e difesa; potessero proclamarla quella colpevolezza, così d’istinto, che dubbi avrebbero, la penserebbero anche loro così. Ma la tagliola della democrazia ha le sue regole, mozza la mano di chi vuole afferrare la verità; e allora si lasci spazio alla coscienza del popolo, ai suoi sacerdoti che randomanticamente conoscono le sorgenti del vero, ai suoi sciamani che leggono i segni celati dalla polvere delle regole.
È un giudice infallibile quello che si alimenta di sospetti, di suggestioni, di accostamenti e di illazioni. Silvio Berlusconi suscita – invero non immeritate – antipatie, disturba, provoca dissenso, talvolta indignazione, ma questa volta è innocente; questa volta non ha commesso il terribile reato di corruzione in atti giudiziari che prevede pene pesantissime. In una bellissima lettera (Il Foglio, 17 febbraio) Alessandro Barbano ha reso evidente quanto sessismo, quanto perbenismo, quanto intransigente moralismo postmoderno abbia avvelenato la narrazione delle donne coinvolte nell’affaire Ruby. Storia pessima, terribile, squallida, ma risultata penalmente irrilevante, anzi insussistente, nella declinazione della più liberatoria delle formule di assoluzione.
È una storia emblematica questa, ma è appunto solo una storia tra le mille che connotano l’epifania giudiziaria del paese e di cui approfitta un certo squadrismo a sfondo moraleggiante per arrogarsi il diritto di ergersi sopra i tribunali della nazione per forgiare la vera verità, quella che meschini mercenari sono riusciti a confondere, a nascondere, a sovvertire. Perché un conto è conservare verso il Cavaliere, come contro qualunque imputato assolto, un risentimento etico o un giudizio estetico negativo, poco importa, altro è sostenere che le assoluzioni siano il frutto di una furbizia e di una truffa consentita solo a coloro i quali hanno mezzi per difendersi e avvocati di fama da mettere in campo.
Questo disinvolto eloquio reca un colpo micidiale alla credibilità della giustizia, poiché rende convinti i tanti colpevoli, giustamente condannati, che il sistema lo avrebbero potuto anche loro fregare e aggirare se solo fossero stati ricchi e potenti. Un vittimismo di ritorno che nuoce profondamente alla percezione della giustizia e che i pusher giustizialisti alimentano per ragioni di potere personale e per pulsioni eticamente retrograde. In un paese civile a nessuno dovrebbe essere consentito di porre in dubbio la correttezza dei verdetti e ribaltarne il contenuto a dispetto delle evidenze; e questo si consideri vale sia per gli assolti che per i condannati in via definitiva. Gli imputati, comunque vada, possono certo continuare a professarsi innocenti anche dopo tre gradi di giudizio e a dispetto di ogni prova, come da ultimo ha fatto l’onorevole Augusta Montaruli.
È loro diritto inviolabile, è la pietas democratica che impone rispetto non potendo pretendersi abiure e autodafé. Ma gli altri, gli apologeti di una giustizia "altrove" dovrebbero astenersi dal prendere posizione sui fatti sottoposti alla valutazione dei giudici non per trarne legittime valutazioni politiche o morali, ma addirittura per ribaltarne l’esito, per stigmatizzarne il risultato. È un malcostume tutto italiano e germinato proprio nel solco delle tante vicende di Silvio Berlusconi, imputato e politico, che ha causato una commistione di piani e una sovrapposizione di valutazioni che, da quel punto in avanti, ha travolto ogni separatezza e ogni prudenza con una continua collisione di mondi che il suo essere uomo pubblico ha inevitabilmente consentito.
Tra tempo, quando la polvere si sarà adagiata e la cenere avrà sostituito le braci si dovrà pur considerare quanto del "metodo Berlusconi", ossia dell’approccio mediatico di contrapposte tifoserie alle sue vicende processuali, ha costituito l’esperimento generale, il banco di prova di un certo golpismo giustizialista e demagogico che ha travolto tanti e tanti altri casi e ammorba la Nazione. Uno schema moltiplicatosi all’infinito e precipitato in un rivolo di trasmissioni televisive, di pamphlet, di reportage che rivisitano processi conclusi, ne ribaltano le conclusioni, si accaniscono su micro incongruenze e inevitabili imprecisioni, dimenticando che il processo non è una scienza esatta, né un’equazione algebrica, non è destinato ad arginare e superare ogni dubbio, ma solo quello ragionevole ossia giustificato dalle carte e dalla razionalità.
L’approccio emotivo e partigiano che tre decenni di processi al Cavaliere hanno innescato nel paese si è propagato ovunque: sui delitti passionali come quello di Avetrana, sugli orribili infanticidi da Cogne a Brembate, su stragi e complotti, su ipotesi corruttive e ruberie varie. Il legittimo esercizio della narrazione giornalistica si è prosciugato nel rivolo dei media nazional-popolari e trasformato spesso in una sorta di perenne voyeurismo, di osservazione micragnosa e morbosa di ogni frammento per decostruire le verità giudiziarie e alimentare la tesi di verità occulte o, peggio, occultate. Alberto Cisterna
Il terzo processo a Berlusconi, più o meno per gli stessi fatti, concluso con la terza assoluzione. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 16 Febbraio 2023
É legittimo parlare di “persecuzione giudiziaria”, come ha fatto ieri Deborah Bergamini (FI), co-fondatrice de Il Riformista, assieme al “Comunista” (non a caso la C è maiuscola) Piero Sansonetti?
“Assoluzione piena, verità ristabilita e il Presidente Silvio Berlusconi che ne esce ancora una volta, l’ennesima in questi 30 anni di persecuzione giudiziaria e mediatica, a testa alta”, ha scritto Bergamini sulla sua pagina Facebook. “Oltre ad esprimere gioia e soddisfazione personali, credo sia doverosa un’amara riflessione su questi anni di processo conclusi con un nulla di fatto, sui milioni di euro spesi sulle spalle dei cittadini e sull’ennesimo capitolo di questa opera ‘certosina’ svolta da una parte della magistratura atta a screditare il Presidente Berlusconi”, ha aggiunto l’ex condirettore della testata.
Proseguendo con una due domande e due secche risposte: “Qualcuno lo risarcirà non solo in termini economici, ma anche per il grave danno inflitto alla sua onorabilità? No. Qualcuno riparerà al danno d’immagine? No.” Prima di concludere: “per questo ribadisco che urge, oggi più che mai, una riforma della giustizia che la renda veramente impermeabile alla politicizzazione, giusta, veloce ed efficiente, perché processi così lunghi – 11 anni! – rappresentano un calvario a cui nessun essere umano dovrebbe essere sottoposto”.
La domanda che io invece mi pongo è un’altra. Chi pagherà le enormi spese investigative e processuali (oltre ai danni di immagine e di credibilità del nostro Paese nel mondo, per uno scandalo mediatico-giudiziario a livello planetario) conseguenti ad un’azione penale esercitata dietro la foglia di fico della cosiddetta “obbligatorietà” dell’azione penale? “Cosiddetta obbligatorietà” perché gli addetti ai lavori in buona fede – a cominciare dall’ex Magistrato Carlo Nordio – sanno che l’azione penale in Italia viene esercitata sempre contro i “nemici”. Mentre si ha la possibilità di risparmiarla agli “amici”. Invocando semplicemente l’enorme numero di notizie di reato che sommergono le Procure della Repubblica, che sono matematicamente impossibili da trattare, se non in minima parte. Prima dell’inesorabile sopraggiungere della prescrizione.
É una domanda retorica, la mia. Come quelle di Deborah Bergamini. Perché la risposta è ben nota. In Italia, a pagare questo conto è sempre e soltanto Pantalone. A differenza di altri Paesi, dove il pubblico ministero è sempre tenuto a fare un preventivo esame costi-benefici – e non solo economici, ma neppure solo di proprio risalto mediatico – prima di decidere se esercitare o meno l’azione penale. Che non prescinde mai anche da un calcolo delle probabilità di successo processuale. Perché, in altri Paesi, i pubblici ministeri sono sempre tenuti a rendere conto dei propri risultati processuali. Non certo sui singoli casi, che possono anche perdere, ovviamente. Ma sulle statistiche di medio-lungo periodo. Solo in Italia ciò non accade.
Ma al di là del fatto che mi disturbi molto sentire parlare ancora di “Bunga Bunga” in ogni parte del mondo dove passi e mi presenti come italiano, e che Berlusconi sia stato il Presidente del Consiglio italiano e, come tale, i danni da lui subiti – compresi i maliziosi sorrisini in mondovisione di Sarkozy e della Merkel – sono danni subiti da tutto il Paese, ed al di là dell’umana compassione, non mi interessa particolarmente la sua situazione personale. Per il semplice fatto che Berlusconi ha avuto, ed ha, i mezzi per difendersi dal “Sistema” della giustizia italiana, scoperchiato e descritto in dettaglio da Palamara e Sallusti. Dopo essere stato denunciato da decenni, tra le tante vox clamantis in deserto, persino da un Presidente emerito della Repubblica, e quindi anche del CSM, quale Francesco Cossiga.
Mi interessa di più, invece, la situazione delle migliaia di cittadini che ogni anno si trovano stritolati dalla stessa macchina infernale, che ha tenuto Berlusconi sotto schiaffo per decenni. Cittadini “presunti innocenti”, trasformati in “colpevoli per i quali non si sono ancora trovate le prove della loro colpevolezza” che si trovano, assieme a Pantalone, una volta assolti, come Berlusconi oggi, ad essere gli unici ad averne fatto le spese. Che nessuno potrà mai risarcire degli anni di vita rubati.
Sento già dire che quella di Berlusconi, oltre che solo in primo grado, non sia una vera assoluzione. Perché ottenuta, dice chi non ha ancora letto le motivazioni di una sentenza che non sono state ancora depositate, grazie ad errori di procedura commessi dagli inquirenti. Se così fosse, sarebbe ancora più grave. Perché se mai dovrebbero essere commessi errori di procedura, chiunque sia l’inquisito, più che mai questi errori sono inaccettabili quando l’indagato è, o è stato, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Quindi confermo, una volta di più, tutto il mio più grande sostegno alla volontà di riforma della Magistratura del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che prima di essere Ministro, è stato Magistrato integerrimo, indipendente (non solo dalla casta e dal “sistema”, ma anche, e soprattutto, dalle proprie ambizioni di carriera), dotto e gentiluomo. Restando in attesa, comunque, dell’appello della Procura della Repubblica di Milano, che considero probabile. Perché a rischio zero per chi l’introducesse. Come probabile considero il successivo ricorso in Cassazione.
Con la grande probabilità che, data l’età di Silvio Berlusconi, ed i lunghissimi tempi della procedura, qualcuno sarà persino capace di sostenere che l’imputato eccellente sia riuscito a farla franca. Nel caso dovesse sottrarsi al processo, prima della sentenza definitiva della Suprema Corte, per… cause naturali.
Silvio Berlusconi: “È la fine di un lungo calvario”. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Febbraio 2023
«Finalmente assolto dopo oltre 11 anni di sofferenze, di fango e di danni politici incalcolabili perché ho avuto la fortuna di essere giudicato da Magistrati che hanno saputo mantenersi indipendenti, imparziali e corretti di fronte alle accuse infondate che mi erano state rivolte». Sono state queste le parole, affidate a un post sui propri canali social, con cui Silvio Berlusconi ieri pomeriggio ha voluto commentare la sentenza di assoluzione.
«Ci sono voluti nove anni perché mio padre venisse assolto, e assolto ‘perchè il fatto non sussiste’, da una accusa tanto infondata quanto infamante e del tutto priva di senso e di logica», il commento, invece, della figlia Marina, che ha voluto anche ricordare come quella di ieri è stata «la quarta assoluzione nei quattro processi celebrati per i vari filoni di quel mostro giuridico chiamato ‘caso Ruby’, che si trascina da dodici anni». «La soddisfazione è grandissima, e il fatto che la giustizia riconosca finalmente la verità è importante, ma è una vittoria che ha avuto un prezzo troppo alto», ha aggiunto la presidente di Fininvest.
«L’assoluzione di Berlusconi è un’ottima notizia che mette fine a una lunga vicenda giudiziaria che ha avuto importanti riflessi anche nella vita politica e istituzionale italiana. Rivolgo al presidente Berlusconi a nome mio e del Governo un saluto affettuoso». Così il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. «La nuova, ennesima, assoluzione di Berlusconi dimostra ancora una volta i danni causati dall’uso politico della giustizia e le indebite interferenze sulla vita politica del nostro Paese», hanno dichiarato i membri di Forza Italia delle Commissioni Affari costituzionali e giustizia della Camera. «È questo il momento di fare chiarezza e, pertanto, oggi Forza Italia ha chiesto la calendarizzazione della proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia», hanno sottolineato i parlamentari azzurri. Tantissime, ovviamente, le reazioni alla sentenza milanese.
Fra i primi ad intervenire, l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni: «Sembra che finalmente la giustizia stia imboccando la strada giusta: l’epoca dei pm trionfanti che condannavano chiunque pare sia in difficoltà, o forse è finita». Toni diversi dalle opposizioni. «Non commento le sentenze ma faccio un commento politico di Berlusconi: avevo nove anni quando è andato al governo. Mi sembra la rappresentazione di una classe politica attaccata al potere», ha affermato la candidata alla segreteria del Pd, Elly Schlein. «Incredibile – ha aggiunto – che siamo ancora qui a parlarne». «Sarà interessante leggere le motivazioni della sentenza, ma quello che sembra emergere è che l’assoluzione si basi su questioni formali, ma che non sia smentito né che le ragazze abbiano mentito né soprattutto la natura di ‘utilizzatore finale’ di Berlusconi. Restano enormi ombre sul profilo etico e morale di un personaggio che è stato presidente del Consiglio e che ancora oggi è uno dei principali leader di maggioranza», il duro commento dell’europarlamentare dem Pierfrancesco Majorino. Paolo Comi
Prosciolti a Milano. Storia dei processi Ruby, dopo 13 anni di gogna assolto per la quinta volta Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2023
Assolto assolto assolto assolto assolto. Cinque volte per lo stesso fatto. Silvio Berlusconi è innocente. Non ha corrotto testimoni perché tacessero su serate peccaminose. Il fatto non sussiste. Non ha comprato il silenzio di ragazze e suonatori, forse anche perché non c’era proprio niente da raccontare. Colpevoli la Procura di Milano, che ha chiesto sei anni di carcere per l’imputato, e il “rito ambrosiano” che ha cercato per dodici anni di catturare il “nemico”, spargendo per il mondo quel racconto di bunga-bunga buono a irridere la persona prima ancora che lo statista.
Colpevoli Marco Travaglio e la sua triste banda di piccoli uomini che ancora ieri, con l’apertura di giornale e quattro articoli, istigavano i giudici a condannare. Vediamo ora se, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza del giudice Marco Tremolada, la procura di Milano avrà il coraggio di appellarsi contro l’assoluzione. Sarà una bella prova per il nuovo procuratore Marcello Viola, una presenza di discontinuità dopo la sfilata di predecessori tutti aderenti a Magistratura Democratica. Con oggi viene restituita dignità e reputazione non solo all’ex presidente del Consiglio, ma anche a una serie di ragazze insultate persino da altre donne.
A Karima El Mahroug, prima di tutto, la ex ragazzina inquieta cui la pm Ilda Boccassini attribuì una certa “astuzia levantina”. E a tutte coloro che con disprezzo venato di razzismo venivano definite “olgettine”, e a cui un’altra donna-pm, Tiziana Siciliano, ha riservato parole pesanti, alludendo alla loro passata bellezza e a quel che ora non sarebbe più. Su una cosa ha ragione la pm: tanto tempo è passato e nessuno, neppure lei e neppure noi che scriviamo dal primo giorno di questo processo, è lo stesso di allora. Immutabili sono soltanto il “rito ambrosiano” della procura e lo squallore di certi media.
Sono passati tredici anni da quella notte tra il 27 e il 28 maggio del 2010 in cui quella ragazzina di nome Karima El Mahroug fu fermata per furto, poi fu trasformata in vittima, poi in puttana e infine in bugiarda e corrotta. Poi divenne bambolina e giocattolo nelle mani di magistrati e giornalisti che fecero di lei di tutto. Lei che ha sempre risposto di no alla domanda ossessiva sul sesso con il “vecchio satrapo” e che solo in quest’aula, dove è comparsa d’improvviso il 5 ottobre scorso, dopo dieci anni di assenza e di silenzio, si è finalmente sentita protetta. Così ha detto, dopo aver finalmente potuto parlare senza pressioni e dopo aver ascoltato le parole dei suoi avvocati Paola Severino e Jacopo Pensa. Non è più una ragazzina, è donna, è madre, ha trent’anni. Ma ci fu quell’estate in cui fu sottoposta a ripetuti interrogatori e all’incubo di quella stessa domanda che una volta fioriva sulle labbra dei preti di campagna: quante volte? E, benché lei avesse sempre risposto di no, che mai aveva fatto sesso con lui, fu indagato Silvio Berlusconi per prostituzione minorile. E questo, benché nessun processo abbia potuto dimostrare che ci sia stata prostituzione né che il leader di Forza Italia sapesse che la ragazza non aveva ancora compiuto diciotto anni.
Ma il “rito ambrosiano” dei processi inaugurato ai tempi di Tangentopoli dal gruppo che ebbe l’ardire di definirsi Mani Pulite, non si è smentito neppure in quell’occasione. Così la dottoressa Ilda Boccassini in versione pensionata e autrice delle proprie memorie, ricorda quando il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati le affidò quell’inchiesta in quanto “delicata” perché riguardava il presidente del Consiglio in carica. Senza però spiegare quei sei mesi di ritardo per l’iscrizione dell’indagato nell’apposito registro. Tanto il Csm si è ben guardato dall’aprire una pratica su quella “svista” della procura milanese. Silvio Berlusconi è stato portato a processo come un prigioniero di guerra il cui scalpo è stato esibito in tutto il mondo. Una volta, se prendevi un taxi a New York e pronunciavi il suo nome il conducente sudamericano diceva trionfante “Milan”. Nell’era dei processi “Ruby” invece ammiccavano, “bunga bunga”. Senza sapere, in giro per il mondo, né la storiella di quella parolina ripetuta, né che quei processi erano stati un fallimento, uno dopo l’altro.
Quello principale, con l’accusa di una concussione mai esistita e sempre negata dalla presunta vittima, e per la prostituzione minorile anch’essa sempre negata dall’altra vittima. E poi tutto ciò che è conseguito da quella clamorosa assoluzione di Silvio Berlusconi. Perché il “rito ambrosiano”, a partire dagli eroi di Mani Pulite in avanti, ha sempre avuto una caratteristica: mai arrendersi. Quindi, se nel processo da cui l’imputato è uscito trionfante non si è trovato uno straccio di testimone d’accusa, allora vuol dire che tutti quelli che sfilavano a giurare che Berlusconi non aveva commesso nessun reato (da non confondersi con eventuali ”peccati”) erano prezzolati. Erano stati corrotti. Così nascono i fiumiciattoli processuali affluenti del fiume principale. E qui le cose cominciano ad andare male, per il “rito ambrosiano”. Perché al Ruby ter accade l’imprevedibile.
Il tribunale emette un’ordinanza che dichiara nulle una serie di testimonianze rese nel processo principale di persone che erano in realtà già indagate, e avrebbero dovuto essere interrogate con le tutele previste dal codice, in presenza del difensore. Con la conseguenza che, se non si trattava di testimoni, non erano neppure pubblici ufficiali, il che faceva cadere i reati di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza. Il processo “Ruby ter” è finito quel giorno. Perché era palese il fatto che la procura avesse già compiuto una serie di atti investigativi nei confronti di quelle persone, che di conseguenza non potevano essere chiamate in aula nelle vesti di testimoni. Processo finito nei fatti, il che non impediva che si arrivasse alla richiesta di condanna a sei anni di carcere per Berlusconi, cinque per Karima El Mahroug e poi a scendere per gli altri ventisette imputati.
Ma altri due fatti nel frattempo intervenivano a rovesciare il tavolo dell’accusa. Due assoluzioni, a Siena e a Roma, dei due musicisti Danio Mariani e Mariano Apicella, per quest’ultimo addirittura su richiesta dello stesso pm. Il fatto non sussisteva in nessuno dei due casi. Berlusconi li aveva sempre retribuiti, prima e dopo i processi, per la loro musica e non per corromperli. È anche per tutte queste evidenze che la presidenza del Consiglio ha deciso, a due giorni dalla sentenza, di ritirare la propria costituzione di parte civile avanzata in altri tempi dal governo Gentiloni.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il "partito del però". Andreotti, Berlusconi e Mori assolti: la rabbia degli sconfitti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Febbraio 2023
Non sarà stato nelle intenzioni, fatto sta che il comunicato con cui il Presidente facente funzioni del tribunale di Milano Fabio Roia ha spiegato le motivazioni “di carattere esclusivamente giuridico” alla base dell’assoluzione di Silvio Berlusconi e gli altri 28 imputati, ha aperto la strada al solito “Partito del però”. E suscitato la comprensibile reazione dell’Ordine degli avvocati milanesi, che hanno imputato a quel comunicato la responsabilità di aver indotto parte della stampa alla traduzione in “cavilli”, il termine dispregiativo con cui si definiscono i diritti e le procedure quando non piacciono. Ogni sentenza ha carattere giuridico, dicono gli avvocati. Ma il “però” è sempre in agguato.
Berlusconi è stato assolto, però. Anche il generale Mori era stato assolto, però. E così anche Andreotti fu assolto, però. Il partito dei “però” è il più longevo e il più duro ad arrendersi. Si compone di quel mondo politico, giudiziario e giornalistico che ha fiducia nella giustizia e crede nelle sentenze purché siano di condanna. Quando i giudici assolvono, improvvisamente ci si dimentica di quale sia il compito del processo penale, di verificare se un certo fatto sia configurabile come reato e nel caso se gli imputati l’abbiano o meno commesso e se siano colpevoli o non colpevoli. Il partito dei “però”, davanti a una sentenza non gradita, è pronto a dimenticare di aver impegnato come una clava le inchieste penali per combattere l’avversario politico.
Accantona quindi con fastidio la decisione dei giudici e si appella a responsabilità politiche o peccati morali per emettere comunque la propria sentenza di condanna. E anche quando, come fa il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, che ha comunque alle spalle una solida cultura dei diritti come fu quella del manifesto prima che diventasse grillino, si denuncia questo tipo di comportamento, lo si attribuisce al “Paese”, invece che alla sinistra politica, giudiziaria e giornalistica. O magari al quotidiano in cui lui stesso lavora. Non era il Paese, quello delle dieci domande a Berlusconi. E non era il Paese a ospitare interventi di magistrati o ex toghe che, non potendo accettare il fatto che la sentenza d’appello di Palermo del processo “Trattativa Stato-mafia” avesse incenerito le ipotesi accusatorie dei più famosi pm “antimafia” come Ingroia, Di Matteo e Scarpinato, spiegavano che comunque la trattativa c’era stata.
Ma il reato di attacco a un corpo dello Stato, di cui erano accusati il generale Mori, Marcello Dell’Utri e gli altri imputati, si era verificato o no? Era stato commesso oppure no? No, dice la sentenza della corte d’appello di Palermo. Si ma, risponde il partito dei “però”. Per esempio, prendiamo a sinistra (ma anche la destra non ne è immune) due giovani come Elly Schlein e Pierfrancesco Majorino, i quali per motivi anagrafici dovrebbero essere più freschi e meno condizionati nei loro giudizi. Non è così. La prima che rivendica la propria giovane età come argomento politico nella scalata al vertice del Pd, usa la sentenza di assoluzione di Berlusconi per dargli la bocciatura politica in quanto “espressione di una classe politica attaccata al potere”.
Come se candidarsi alla segreteria di un partito significasse andare a raccogliere margherite nei campi. Quanto a Majorino, aspirante sindaco di Milano, reduce dalle elezioni regionali in cui gli elettori hanno bocciato proprio il fulcro della sua campagna contro la sanità lombarda, premiando il governatore Fontana nei luoghi più colpiti dalla pandemia, l’ha buttata sull’attacco alla persona. Ha dipinto Berlusconi come “utilizzatore finale” e ha parlato di ”enormi ombre sul profilo etico e morale”, che resterebbero appiccicate per sempre sull’ex presidente del consiglio. Se questi sono i giovani leoni che vorrebbero scalzare la vecchia guardia del loro partito, vien da dire ridateci D’Alema e Occhetto. Ma è una storia che viene da lontano, e non ha solo protagonisti politici.
Era il 23 ottobre 1999 quando il tribunale di Palermo assolse in primo grado Giulio Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa perché ”il fatto non sussiste”. L’accusa, rappresentata in aula da Roberto Scarpinato, aveva chiesto quindici anni di carcere. Fu un uragano nel mondo intero. La Cnn aveva interrotto i suoi programmi con una breaking news, comunicando l’assoluzione in tempo reale. Lo stesso la Bbc, e anche la versione online del New York Times e addirittura dell’agenzia cinese Xinhua. Era stato un colpo al cuore per un certo mondo di antimafia militante ben più significativo di quel che sarebbe successo negli anni successivi con il fallimento del processo “Trattativa”.
L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Andreotti, aveva reagito d’impeto: “Era stato definito il processo del secolo, ora dovrà essere ricordata come l’ingiustizia del secolo”. Ma il partito dei “però” era stato altrettanto pronto a emettere la propria sentenza. Il tris dei procuratori palermitani, prima di tutto, il capo Pietro Grasso, l’aggiunto Guido Lo Forte e il pm d’aula Roberto Scarpinato. Tutti a rivendicare la fondatezza dell’accusa, e a ricordare, quasi gettandolo in faccia al personaggio politico, il fatto che lo stesso Senato della repubblica non avesse ravvisato nell’attività delle toghe alcun “fumus persecutionis” e avesse concesso l’autorizzazione a procedere. Certo, si era nel bel mezzo del 1993, ed era pressoché impossibile dire di no alla magistratura e al procuratore Caselli, anche se lo stesso Andreotti, nella sua veste di presidente del consiglio, aveva contribuito a una notevole attività di governo contro la mafia.
Pur se nel più totale sfregio dello Stato di diritto. Ma, anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione nel 2004, si aprivano a valanga i commenti sul “però”, perché Andreotti era stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa per gli anni successivi al 1980, mentre per i fatti degli anni precedenti era scattata la prescrizione. Che, nel corso del tempo, si era trasformata in responsabilità sicura. Di che cosa quindi stupirci oggi se il partito del “però” vuole a tutti i costi Berlusconi colpevole?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
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Lo sfogo di Berlusconi: "Mai fatto nulla di male ma processato 136 volte". Dal ’94 l’assalto giudiziario al leader di Fi "Diecimila ore per preparare le udienze". Stefano Zurlo il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.
I sorrisetti ironici e il clima elettrico me li ricordo benissimo. È il 13 dicembre 94 e Silvio Berlusconi, da pochi mesi premier, viene interrogato dal Pool Mani pulite. Il pensiero generale è evidente: scacco matto, game over, sipario sulla breve stagione del leader di Forza Italia, travolto dalle tangenti pagate alla Guardia di finanza e messo ko da un avviso di garanzia, tecnicamente un invito a comparire, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera nel corso di un summit internazionale a Napoli. Alla presenza dei grandi del mondo. Quasi ventinove anni dopo, il 15 febbraio 2023, il Cavaliere viene assolto nel processo Ruby ter: non è più il presidente del consiglio ma è sempre uno dei personaggi più influenti della politica italiana. È sopravvissuto a grappoli di processi, che riempiono collezioni intere di giornali e biblioteche di saggistica. Si può anzi dire che questi interminabili procedimenti abbiamo segnato, con i loro nomi, una stagione della vita tricolore: Sme, Lodo Mondadori, Macherio, All Iberian 1 e 2, Medusa, corruzione dell'avvocato David Mills, consolidato Fininvest, Ruby uno e Ruby ter, un elenco chilometrico e scoraggiante che qualcosa dice sulla torsione della nostra vita democratica. «Ho subito - spiega il Cavaliere il giorno dopo l'assoluzione - 136 processi per un totale di 3672 udienze: mettendole in fila, si avrebbe un processo infinito, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Non mi hanno mai colpito dentro, perché so di non aver fatto nulla di male, ma ho dedicato alla preparazione delle udienze diecimila ore e tantissimi sabati e domeniche pomeriggio». La stagione dei processi comincia nel '94, sulla coda di Mani pulite, mentre Di Pietro taglia silenziosamente la corda. Poi nel '95 compare sulla scena Stefania Ariosto, il teste Omega, che racconta di pacchi di banconote passate di mano per corrompere i giudici di alcuni delicatissimi processi e nel 2010 è la volta di Ruby, delle Olgettine, di Nicole Minetti, l'igienista dentale, e del bunga bunga che fa il giro del mondo. Ma questo, per grande sintesi, perché il percorso giudiziario del Cavaliere è molto più articolato, accidentato, complesso. E naturalmente accompagnato da scontri furibondi in Parlamento e nel Paese. È la guerra dei trent'anni che potrebbe finire ora, ma anche no perché l'assoluzione dell'altro ieri - che poi è la terza del filone Ruby ter dopo Siena e Roma e la quarta conteggiando il Ruby uno - potrebbe essere impugnata in appello, dopo la lettura delle motivazioni. Insomma, sarcasmi a parte, ci vorrebbe un'enciclopedia per raccontare tutta questa storia che mischia letteratura giudiziaria e cronaca politica e che ha due risvolti drammatici: il processo Ruby porta con la crisi dello spread alla caduta dell'ultimo governo Berlusconi nel 2011, la condanna per frode fiscale, l'unica definitiva, oggetto di ricorso a Strasburgo e pure del «pentimento» di uno dei giudici del collegio, è la causa della cacciata del Cavaliere dal Senato il 27 novembre 2013. Un'altra data, come quel 13 dicembre '94, senza ritorno e invece Berlusconi riesce a riemergere anche da quel crepaccio. E poi ci sono gli incartamenti che riguardano Cosa nostra e i mandanti esterni delle stragi che scompaiono e ricompaiono come i fiumi del Carso, fra un'archiviazione e una riapertura d'indagine, come è ora a Firenze per la coppia Berlusconi - Dell'Utri. E anche qui è difficile capire come il Cavaliere sia di volta in volta complice dei boss ma anche vittima delle loro tentate estorsioni. Insomma, un panorama obiettivamente incredibile che abbraccia mezzo codice penale. «Credo sia un record assoluto certamente in Italia e probabilmente nel mondo - aggiunge il Cavaliere -. Non oso dire quanto mi è costato tutto questo e a quanto ammontano le parcelle dei 105 avvocati e dei 30 consulenti di parte che ho dovuto impiegare. Farebbe - è la conclusione - troppa impressione». Ma fa impressione anche questa intricata geografia dibattimentale davvero unica in Occidente. Uno sfregio, comunque la si voglia giudicare, alla nostra democrazia.
"Una vittoria per mio papà ma a un prezzo troppo alto". La soddisfazione della primogenita Marina: "Inchiesta sul nulla condotta con furioso accanimento ideologico". Anna Maria Greco il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Con Marina Berlusconi entra in scena la famiglia, una famiglia ferita, una famiglia che al sollievo mischia la rabbia. Perché l'accusa al processo Ruby ter per il padre era particolarmente «infamante», dura da digerire per dei figli. L'ultima assoluzione è arrivata dopo 9 anni, «perché il fatto non sussiste», dice la primogenita del leader di Forza Italia, ma «è una vittoria che ha avuto un prezzo troppo alto».
La presidente della Fininvest è sempre stata parca di interventi pubblici, soprattutto se dal peso politico, ma quando si è trattato di difendere il padre, Marina non si è mai tirata indietro. Di «caccia all'uomo contro di lui» parlò nel 2009, «barbarie legalizzata» disse nel 2011, definì il processo Ruby «una farsa che non doveva cominciare» nel 2013 e nel 2021 denunciò inchieste «nate solo per schizzare fango».
Oggi sottolinea con forza che la quarta assoluzione nei «vari filoni di quel mostro giuridico chiamato caso Ruby, che si trascina da 12 anni», non può ripagare neppure in minima parte i danni subiti dal patriarca Silvio e dalla sua famiglia in primis, ma anche da «tutte le persone che lo amano e lo stimano, dai milioni di italiani che negli anni lo hanno votato». Danni personali, danni economici e danni politici, vuol far capire bene.
Ecco perché Marina dice che «la soddisfazione è grandissima, e il fatto che la giustizia riconosca finalmente la verità è importante», ma tutto questo non basta. «Una persecuzione del genere non si può cancellare così, con un colpo di spugna».
E qui cerca i colpevoli, la figlia di Silvio, non si accontenta dell'idea che si può essere trattato di una catena di errori. Questa vicenda delle feste ad Arcore e delle giovani ospiti, che ha portato ad accuse «infondate» di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, è «nata sul nulla e sul nulla portata avanti con furioso accanimento ideologico da una piccola ma potente parte della magistratura». Marina punta il dito sulle toghe politicizzate, che in ogni modo hanno cercato di sbarrare il passo al Cavaliere che si stava prendendo l'Italia, con il suo successo elettorale. Il processo, dice, «ha segnato e condizionato la storia e la politica del nostro Paese, la sua stessa immagine all'estero».
Non errori, dunque, ma «guasti provocati dalla faziosità e dall'odio coltivato contro l'avversario» hanno portato a questo. Come a dire: si è toccato il fondo, ora forse ci si può rialzare. Ed è il sistema giustizia che deve farlo, con un vero processo di cambiamento. Marina Berlusconi, figlia ferita, manager amareggiata, cittadina delusa, si augura «che i tribunali possano finalmente essere davvero per tutti aule di giustizia e non di lotta politica, che i cittadini possano guardare alle toghe con la fiducia che gran parte di esse meritano».
Quella fiducia dei cittadini verso la dea bendata, con una bilancia che troppo spesso pende da una parte o dall'altra per ragioni diverse da quelle giudiziarie, è precipitata negli ultimi decenni ai minimi storici. E se Marina vede nel calvario del padre in questi anni una nota positiva, è nel fatto che la sua storia può essere di monito per il futuro. «Solo in questo modo, credo, questa vicenda potrà forse risultare un po' meno drammaticamente assurda».
Le parole della primogenita di Silvio sull'ultima assoluzione al processo Ruby ter, sono davvero pietre. Un atto d'accusa che non consente di chiudere tutto rallegrandosi perché, proprio alla fine, la giustizia ha trionfato.
Chi è Franco Coppi, l’avvocato che ha fatto assolvere Berlusconi usando solo il diritto. GIULIA MERLO su Il Domani il 15 febbraio 2023.
Franco Coppi è uno dei penalisti più famosi d’Italia, ha difeso anche Andreotti e De Gennaro, oltre a molti imputati per i principali casi di cronaca nera. Refrattario al clamore mediatico, ha spostato la linea difensiva dall’attacco alla procura e alla contestazione dei fatti, a uno studio di diritto per individuare gli errori giuridici dell’accusa
Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, è stato assolto in primo grado nel processo Ruby ter dall’accusa di corruzione in atti giudiziari.
Il tribunale di Milano lo ha assolto “perchè il fatto non sussiste”: il Cavaliere era imputato per aver corrisposto del denaro alle ragazze che avevano partecipato alle feste in casa sua e, nell’ipotesi accusatoria, si era trattato di corruzione per indurle a non testimoniare nel processo a suo carico.
L’assoluzione di Berlusconi è stata una vittoria soprattutto per il suo legale, l’avvocato Franco Coppi, che ha visto accogliere interamente la sua linea difensiva.
Da quanto ha assunto la difesa del Cavaliere, accanto allo storico studio Longo di Padova, dove lavorava anche il defunto Niccolò Ghedini, Coppi è riuscito a farlo assolvere in tutti i procedimenti penali del filone “Ruby”.
LO STILE DI COPPI
Quello di Coppi è stato un cambio di linea e di stile difensivo, che ha spostato il fuoco dalla contestazione dei fatti per come ricostruiti dalle procure alla contestazione prima di tutto della loro costruzione giuridica.
Tradotto: basta con la linea aggressiva nei confronti dei magistrati e di muso duro contro quella che Berlusconi ha sempre ritenuto una persecuzione giudiziaria. Il modo migliore per vincere, secondo Coppi, è quello di lavorare in punta di diritto e non agitando ragioni politiche e attacchi mediatici.
Non a caso una delle storiche citazioni a lui attribuite è che «L’impatto che i mass-media possono avere su un processo dipende esclusivamente dai protagonisti. Se il giudice, il pubblico ministero, l’avvocato hanno i nervi saldi e sanno fare il loro mestiere, sono perfettamente in grado di gestire anche l’eventuale rapporto con giornali e televisioni. Quello che conta in un processo è ciò che succede in aula».
Di più: il suo fastidio per il clamore intorno ai processi è stato manifestato in più occasioni, anche con la rinuncia del mandato. È stato il caso di don Pierino Gelmini, il fondatore della comunità Incontro accusato di abusi sessuali: all’ennesima esternazione pubblica del suo assistito, Coppi ha conunicato con un telegramma la rinuncia alla difesa, spiegando che la sua linea di difesa non era compatibile con «l’ingestibilità» del cliente.
Un mantra, questo, che applica anche a se stesso. Nonostante sia uno dei più noti penalisti italiani, in pochi fuori dai tribunali conoscono la sua faccia.
Per nulla amante della ribalta mediatica, rifugge anche la vita mondana e non ha mai mischiato attività professionale e visibilità personale. Alle lusinghe della politica ha sempre preferito il suo studio in viale Bruno Buozzi, nel cuore dei Parioli a Roma.
Viene descritto da chi lo conosce come persona sobria con un unico vezzo, quello delle cravatte. Di lui si racconta anche la vena superstiziosa, incanalata nell’uso esclusivo di una penna Ferrari rossa per scrivere durante le udienze.
Con lui lavora anche la figlia, che è anche il suo contatto con la politica: suo genero è l'avvocato veneto Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera.
CHI È COPPI
Nato a Tripoli nel 1938, si è laureato alla Sapienza di Roma ed è stato allievo e assistente di Giuliano Vassalli, autore della riforma del codice di procedura penale. Professore ordinario di diritto penale dal 1975 prima a Teramo, poi a Perugia e infine alla Sapienza, è emerito dal 2011.
Nel corso della sua lunghissima carriera da avvocato è stato il difensore di moltissimi imputati famosi, al centro dei principali processi italiani. Il suo assistito più noto, almeno quanto Berlusconi, è stato Giulio Andreotti nel processo per mafia, che lanciò anche una sua giovane collaboratrice di studio, oggi presidente della commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno.
Negli anni il suo nome è stato affiancato ad Antonio Fazio nello scandalo della banca Antonveneta, al generale Vito Miceli per il tentato golpe Borghese, a Gianni De Gennaro per i fatti del G8 di Genova e i pestaggi alla scuola Diaz, l’assistente Bruno Romano nell’omicidio Marta Russo e la ThyssenKrupp nel processo per il rogo delle acciaierie di Torino.
Tra i principali casi di cronaca nera, sua è stata anche la difesa di parte civile nel processo per l’omicidio di Marco Vannini, dell’imputato Raniero Brusco nel processo per il delitto di via Poma e di Sabrina Misseri nel caso dell’omicidio di Avetrana. Recentemente è stato anche il difensore di Luca Traini per l'attentato di Macerata e di Pietro Genovese, il figlio del regista Antonio Genovese accusato di omicidio stradale per l’investimento di due ragazze in Corso Francia a Roma.
Per sua stessa ammissione in una delle rare interviste, ha spiegato che «Gli espisodi di cronaca nera sono quelli che decisamente mi affascinano di più. In aula riesci a percepire certi movimenti dell’animo umano, come agisce in determinati frangenti, cosa lo motiva. Ho passato tutta la vita nei tribunali e posso dire tranquillamente che è una gabbia di matti».
IL CASO RUBY TER
Anche nel caso Ruby ter, la linea di Coppi è stata quella del profilo basso e dell’abbassamento del livello di scontro con la procura di Milano. Una linea forse poco incline con il carattere di Berlusconi, ma che si è rivelata pagante.
La difesa dall’accusa di corruzione in atti giudiziari, infatti, è stata giocata più che sul merito, sulle ragioni tecniche.
Proprio Coppi, nell’ultima udienza di discussione, ha lasciato la parte in fatto al collega Federico Cecconi e si è limitato a concludere con quella in diritto, spiegando le ragioni per le quali la procura aveva sbagliato a rubricare il reato a carico di Berlusconi con motivazioni solamente giuridiche. Berlusconi aveva sì pagato le ragazza, per un atto di liberalità secondo lui e corruttivo secondo la procura, ma lo aveva fatto in una fase in cui ancora non erano testimoni. Dunque la procura aveva sbagliato l’ipotesi di reato, perchè per essere accusato di corruzione in atti giudiziari Berlusconi avrebbe dovuto corrompere persone che già avevano assunto la qualità di testimoni, quindi di pubblici ufficiali.
In una nota del tribunale di Milano, che depositerà le motivazioni della sentenza in 90 giorni, è evidente come la sua linea sia stata accolta.
Si leggono infatti le motivazioni: la corruzione in atti giudiziari «sussiste solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale. Per giurisprudenza costante, la persona che testimonia assume un pubblico ufficio e le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che il giudice chiamato ad accertare la fattispecie correttiva deve verificare se il dichiarante che si assume essere stato corrotto sia stato o meno correttamente qualificato come testimone» e «Poiché le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari».
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
(ANSA venerdì 24 novembre 2023) Alessandra Sorcinelli torna all'attacco dopo che l'immobiliare Dueville ha chiesto entro dicembre 2023 la restituzione della villa di Bernareggio avuta in comodato da Silvio Berlusconi. Villa gemella a quella data a Barbara Guerra. Sorcinelli, che con Guerra è una delle ragazze assolte nel processo Ruby Ter, ha infatti pubblicato sul suo profilo Instagram degli audio di sue conversazioni con Berlusconi. Il contratto di comodato "è la consegna definitiva a voi delle case, che diventano di vostra proprietà appena possiamo" ovvero "alla fine dei processi" si sente Berlusconi spiegare. In altri audio si parla però anche di pacchetti di azioni di Mediolanum.
"Ti do azioni della compagnia Mediolanum che distribuisce dividendi per il 10% del valore in Borsa. Avete azioni che valgono tre milioni e portate a casa 300mila euro all'anno. È come avere contanti", ovvero "siete delle signore per tutta la vita".
"Se mi dici che vuoi solo 1,5 milioni così e 1,5 in azioni - spiega il Cavaliere - ti do 1,5 milioni in azioni che ti rendono 150mila euro, ma gli altri 1,5 milioni non rendono nulla". In uno dei reel che ha pubblicato Sorcinelli oltre a una parte degli audio viene ripresa mentre strappa la raccomandata con cui le è stato chiesto di lasciare la villa, mentre come colonna sonora suona 'Bitch Better Have My Money' di Rihanna.
"La volontà di Silvio Berlusconi di risarcire la sottoscritta dopo anni di fango mediatico a causa di un processo durato oltre 10 anni che mi vede assolta perché il fatto non sussiste... chiedo di ascoltare - ha scritto - per mettere a tacere tutti quelli che ancora diffamano il mio nome diffondendo notizie false sulla mia persona... prima di scrivere articoli fasulli dovete conoscere la Verità e portate rispetto!".
Alessandra Sorcinelli e gli audio di Berlusconi sulla villa in comodato: «Tua dopo il processo. E ti do anche delle azioni». Redazione Milano su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
L'ex «olgettina» assolta nel processo Ruby Ter condivide su Instagram alcuni vocali per opporsi alla richiesta di lasciare la casa di Bernareggio. «Ecco la volontà di Silvio Berlusconi, un risarcimento dopo anni di fango mediatico»
Alessandra Sorcinelli torna all'attacco dopo che l'immobiliare Dueville ha chiesto la restituzione, entro dicembre 2023, della villa di Bernareggio avuta in comodato da Silvio Berlusconi. Si tratta di una villa gemella a quella data a Barbara Guerra. Sorcinelli, che con Guerra è una delle ragazze assolte nel processo Ruby Ter, ha pubblicato sul suo profilo Instagram alcuni audio di sue conversazioni con Berlusconi. Il contratto di comodato «è la consegna definitiva a voi delle case, che diventano di vostra proprietà appena possiamo» ovvero «alla fine dei processi» si sente Berlusconi spiegare.
In altri audio si parla anche di pacchetti di azioni di Mediolanum. «Ti do azioni della compagnia Mediolanum che distribuisce dividendi per il 10% del valore in Borsa. Avete azioni che valgono tre milioni e portate a casa 300 mila euro all'anno. È come avere contanti», ovvero «siete delle signore per tutta la vita». «Se mi dici che vuoi solo 1,5 milioni così e 1,5 in azioni — spiega il Cavaliere — ti do 1,5 milioni in azioni che ti rendono 150 mila euro, ma gli altri 1,5 milioni non rendono nulla».
In uno dei reel pubblicato da Sorcinelli, oltre a una parte degli audio viene ripresa mentre strappa la raccomandata con cui le è stato chiesto di lasciare la villa, mentre come colonna sonora suona «Bitch Better Have My Money» di Rihanna. «La volontà di Silvio Berlusconi di risarcire la sottoscritta dopo anni di fango mediatico a causa di un processo durato oltre 10 anni che mi vede assolta perché il fatto non sussiste. Chiedo di ascoltare — ha scritto — per mettere a tacere tutti quelli che ancora diffamano il mio nome diffondendo notizie false sulla mia persona, prima di scrivere articoli fasulli dovete conoscere la verità e portate rispetto».
Sandro De Riccardis per repubblica.it - Estratti venerdì 24 novembre 2023.
Alessandra Sorcinelli, perché ha deciso di diffondere questi nuovi audio in cui parlava con Silvio Berlusconi della casa di Bernareggio?
“Voglio ristabilire la verità. Due settimane fa ho letto i primi articoli che parlavano del mio sfratto dalla casa che Berlusconi mi ha lasciato, così come ha fatto con Barbara Guerra. Leggevo che dovevamo andare via.
Ho chiamato il mio legale, l’avvocato Luigi Liguori, che mi ha spiegato che non c’è nessuno sfratto esecutivo. Era invece una richiesta di restituzione dell’immobile da parte della società immobiliare. Io non sono stata sfrattata, c’è un comodato. Gli audio spiegano che Berlusconi l’ha lasciata per sempre a me, così come l’altra alla signora Guerra. Scriviamo la verità. Non va di moda la verità?”.
A che periodo risalgono le conversazioni?
“L’audio è di circa un anno e mezzo fa. Io sono rimasta in contatto con Silvio fino a poco prima che lui venisse a mancare. Avevamo intrapreso con gli avvocati una strada per un accordo di risarcimento, perché si era deciso che alla fine del processo lui avrebbe sistemato la questione.
L’audio parla di questo. Della casa e del risarcimento, con le azioni Mediolanum. Con Berlusconi mi sono sentita quasi fino alla fine. Non stava molto bene, ma la sua volontà era quella di chiudere in maniera serena, e di lasciare serena la sottoscritta per tutta la vita. Penso di aver incassato già tanto fango e tanta spazzatura. Pur non avendo fatto nulla, sono stata coinvolta in un processo durato dieci anni e finito con una assoluzione”.
Quanti audio ha ancora?
“Ma tanti.. Io non sono una di quelle che vogliono tirare fuori le cose, ma non dovete svegliare il can che dorme. Ero bella tranquilla, e ho rispettato il lutto. Ma io ho subito tantissimo in questi anni. Non li auguro a nessuno, ma ora perché accanirsi?”.
Si riferisce agli eredi Berlusconi?
“Io rimarrei scioccata se fossero loro a volere una cosa del genere, perché so che erano così legati al padre, l’hanno sempre difeso, e ora si voltano contro. Mi auguro che non sia una scelta dei figli. Il padre non condividerebbe questa decisione”.
Quindi lei non vorrebbe usarli…anche se questo suona come una minaccia.
“Sto valutando una causa per il risarcimento dei danni. Qualora non venisse rispettata la volontà di Silvio, a quel punto verrebbero usati gli audio, perché sono la prova della verità di quanto sto affermando”.
Cosa contengono?
“Non è che devo dirlo adesso. Nel momento opportuno, quando ci sarà la causa, valuteremo come usarli”.
Che ricordo ha del Cavaliere?
“Lo ricordo sempre come una presenza ingombrante, nel bene e nel male. Ancora oggi, come vede, stiamo parlando di lui. Io vengo sempre associata a questa persona. E’ stato un uomo importante della mia vita, e io gli ho voluto bene. E’ stata una bella amicizia, ma ho avuto anche tanti danni. Il mio nome e la mia dignità sono stati rovinati. Io lavoravo e i miei contratti sono stati stracciati non appena sono uscita sui giornali e sulle tv di tutto il mondo come una escort, associata alle serate del “Bunga bunga”. Ho vissuto in un mondo di incertezze e paura, sono stata danneggiata per anni e anni”.
(…)
Fino a quando andrà avanti con la sua battaglia?
“Fino alla fine, assolutamente, se non ci dovesse
essere un accordo. In base alle risposte che avremo, valuteremo quale sarà la
strada da intraprendere per difendere i miei diritti”.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per corriere.it il 22 febbraio
2023.
Assolta nel processo dall’accusa di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari, Alessandra Sorcinelli, 38 anni, rivela di aver addirittura pensato al suicidio quando è stata coinvolta nell’inchiesta «Ruby ter». Per lei la procura aveva chiesto 5 anni per corruzione in atti giudiziari accusandola, come le altre assolte, di aver preso soldi dal Cavaliere per mentire su ciò che avvaleva nelle cene e nei dopocena del «bunga bunga». Famiglia benestante di Cagliari, oggi 38 anni, ex showgirl, rifiuta di essere accomunate alle altre. Con il suo legale, l’avvocato Luigi Liguori, sta valutando di fare causa all’ex premier che accusa di non averla difesa.
(...)
Com’è possibile che una ragazza di 20 anni diventi amica di un uomo di 70?
«Perché era lui, per il piacere di frequentare l’allora premier. All’epoca tutta Italia era ai suoi piedi e io volevo stare al top. Ero ambiziosa, lo sono ancora. Non per ottenere qualcosa, ma anche solo per poter stare in un certo tipo di ambiente e imparare. Io volevo fare la mia strada, fare carriera, non volevo i suoi soldi. Era molto affettuoso con me e si disse disponibile ad aiutarmi».
Tra le ragazze finite sotto processo e assolte in primo grado, lei è stata tra una di quelle che ha ricevuto più denaro dal Cavaliere. Oltre 237 mila euro, un’auto, doni vari e una villa da 800 mila euro.
«La questione della villa è una falsità perché è rimasta sempre sua. È vero, mi ha sempre trattata come una regina, ma i regali, compresi diamanti, me li aveva fatti prima dello scoppio del caso Ruby. Mi diceva: "Per i periodi i cui non lavori e per pagarti gli studi, sappi che provvedo io". Era lui che si offriva. Per lui era come invitare una ragazza a cena e pagarle il conto, la proporzione è quella».
Perché ride?
«Perché mi è venuto in mente un fidanzato che mi chiese di pagare la metà di un conto a cena. Mi è capitato di pagare, in amore non si sta a guadare queste cose. Preferisco stare con una persona che non ha soldi piuttosto che con uno ricco, viscido e schifoso».
Grazie ai regali di Berlusconi, poteva permettersi una casa in affitto in Largo La Foppa, una delle zone più esclusive del centro di Milano.
«Lì mi sentivo sicura».
Il 14 gennaio 2011 esplode il caso Ruby e vengono perquisite le abitazioni delle ospiti di Berlusconi. Lei compresa.
«E tutto ciò che si era creato a livello lavorativo va in fumo. Quando la polizia è arrivata alle 5 del mattino, per me che non avevo mai avuto a che fare con la giustizia in vita mia, è stato un trauma. Ero spaventatissima. Da quel momento hanno cominciato a chiamarmi Olgettina. Non potevo e non posso accettarlo».
Non sarà stata in via dell’Olgettina, ma aveva sempre una casa pagata da Berlusconi.
«È un qualcosa che non mi rappresenta, è la prima falsità su di me. Perché è un’accezione molto negativa, io vivevo in Brera».
Con quelle ragazze, però, si è trovata alle stesse cene.
«Alcune volte sì, ma quando c’erano queste ospiti io tendevo sempre ad andare via perché ero in forte disagio. Infatti, non risulta la mia presenza in molte cene in cui ci sono loro».
Chi la invitava?
«Lui, mi chiamava direttamente. Non c’era chi faceva da tramite e mi portava. Io avevo un rapporto diretto con lui che risaliva al 2005».
Il giorno dopo la perquisizione c’è stata la famosa riunione ad Arcore alla quale parteciparono le ospiti e gli allora avvocati di Berlusconi.
«Sono stata convocata, lui chiedeva "Chi vuole essere la mia fidanzata?". Nessuna sapeva cosa rispondere. Sembrava che lui avesse in mano una sorta di piano per ripulirsi l’immagine, passare come il fidanzato d’Italia, tant’è vero che lui si è subito legato a Francesca Pascale».
C’è stata una richiesta diretta?
«Sì. Ho declinato la proposta di diventare la sua fidanzata».
In cambio cosa avrebbe avuto?
«Non so, probabilmente questa immagine di first lady».
Perché ha rifiutato?
«Perché c’era un rapporto d’amicizia, quello vedevo in lui. Io all’epoca ero anche fidanzata, figuriamoci. Per me era inconcepibile».
Dopo quella riunione ha rotto i rapporti?
«Ho iniziato a ricredermi su di lui come persona perché mi ha mischiato a tutta questa storiaccia, non ha riconosciuto il nostro rapporto di amicizia, non hai mai fatto una smentita e non mi ha difeso pubblicamente. Mi sono sentita maltrattata, usata».
L’ha più risentito?
«Raramente, in occasioni come Natale. A volte chiamava lui, a volte io, ma il rapporto si era raffreddato».
È mai andata da Giuseppe Spinelli, il contabile di Berlusconi, a chiedere soldi?
«Prima provvedeva il Presidente. Poi, qualche volta, sono andata dal ragioniere».
Berlusconi le dava i 2.500 euro al mese?
«Sì».
Li manda ancora?
«No. Da quando ci arrivò la lettera in cui si diceva che potevano essere intrepretati come una forma di corruzione».
E non è arrivato più altro, neppure per le spese legali.
«Niente».
A febbraio 2015, quattro anni dopo, subite le perquisizioni per l’inchiesta Ruby ter in cui eravate accusate di corruzione e falsa testimonianza.
«Sono stata malissimo, ho anche pensato al suicidio. Era una persecuzione, non ce la facevo più. Ero già provata e sono entrata in depressione. Ero stanca e non vedevo una via di uscita».
C’è una telefonata in cui con molta insistenza lei e Barbara Guerra chiedete soldi a Berlusconi.
«Eravamo stravolte, arrabbiatissime perché avevano sequestrato tutti i nostri soldi. Lui era sparito e questo ci aveva fatto uscire di testa».
Perché non ha detto queste cose in Tribunale?
«Volevo farlo, ma poi con il mio avvocato abbiamo deciso di mettere tutto in una memoria scritta. Chiunque osi chiamarmi Olgettina sarà querelato».
Come ne è uscita?
«Mi sono concentrata su quello che mi dicevano la mia famiglia, che mai ha smesso di supportarmi, e il mio avvocato Luigi Liguori, al quale devo dire grazie perché mi ha sostenuta in tutti questi anni anche umanamente. Ho cominciato a viaggiare per staccare il più possibile con l’Italia e non pensare a questa vicenda».
L’assoluzione è avvenuta, è una questione giuridica, sacrosanta, per carità. Le testimonianze, compresa la sua, non erano utilizzabili, ma ciò non vuol dire che non fossero false e pagate da Berlusconi.
«Io non ho detto il falso. Io ho partecipato a cene che erano normali finché c’ero. Poi andavo via e non so cosa succedeva».
E’ più tornata a casa di Berlusconi?
«Qualche volta, il tempo di un caffè».
Gli ha detto del suo stato d’animo?
«Certo, che mi sono arrabbiata per il suo atteggiamento. Io non ho partecipato a nulla e sono stata messa in mezzo. Non sono una escort, non sono una schiava sessuale e Berlusconi lo sa benissimo. Mi ha detto che lo avrebbe detto ma non l’ha mai fatto. Ho subito danni psicologici e di immagine che mi porterò dietro per tutta la vita».
Sta pensando di fargli causa?
«Con l’avvocato Luigi Liguori stiamo studiando cosa fare».
Ora cosa vorrebbe fare?
«Sono sollevata dall’assoluzione, ho avuto i brividi tutto il giorno. Ora vorrei andare all’estero, lontano da tutti. Fare qualcosa nel mondo dello spettacolo».
È fidanzata?
«No. Non ho ancora trovato la persona che mi fa battere il cuore».
Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per corriere.it il 23 Febbraio 2023.
«La mia dignità è stata distrutta» come è finita «da un giorno all’altro la mia carriera televisiva». All’indomani della sentenza di assoluzione nel processo di primo grado Ruby ter, anche Barbara Guerra denuncia di aver avuto la vita rovinata da 13 anni di esposizione nelle indagini e nei processi sulle cene e i dopocena del «bunga bunga» a casa di Silvio Berlusconi, e lo accusa: «Silvio non hai mai speso parole per dire che conosceva la mia famiglia e che ero una ragazza per bene come mi diceva quando ci vedevamo, prometteva sempre di volerlo fare, di volere difendere la mia dignità. Solo promesse, mai mantenute».
Guerra era accusata, come la maggior parte delle donne ospiti ad Arcore, di falsa testimonianza nel processo Ruby bis e di corruzione in atti giudiziari per aver ricevuto dall’ex premier almeno 235 mila euro a partire dal 2011.
Secondo la procura di Milano, che farà molto probabilmente appello, i soldi avrebbero pagato i silenzi e le falsità su quanto accadeva a casa di Berlusconi. L’assoluzione è arrivata dopo che i giudici hanno considerato inutilizzabili le deposizioni.
Guerra affida il suo sfogo ad una dichiarazione in cui dice […] è stato un «calvario giudiziario e mi sono ritrovata in una storia più grande di me», dice ancora, raffermando che tutto questo ha avuto conseguenze «sia di salute che nella mia vita personale e professionale».
Lo stesso Berlusconi, quando aveva ammesso di versare 2.500 euro al mese a ciascuna delle sue ospiti finite nei guai con la giustizia, aveva detto che lo faceva per indennizzarle dei danni che stavano subendo. «Avevo una carriera televisiva che è stata distrutta da un giorno all'altro. Anni che non auguro a nessuno visto il peso di tutto ciò che ho dovuto subire, un peso che mi ha logorato e scalfito, facendomi provare un continuo senso di inadeguatezza e sconforto […]».
Guerra è stata protagonista di alcune intercettazioni telefoniche dai toni piuttosto forti, anche con Berlusconi: «Sono stata dipinta come una persona senza nessun valore, ma io vengo da una buona famiglia, con valori e principi, mio padre è un imprenditore, che amo e che indirettamente ha subito i danni di immagine per tutto lo scandalo mediatico che è venuto fuori. Ed è grazie all’affetto e al supporto dei miei familiari che oggi sono ancora qui».
Ha temuto anche che potesse accaderle qualcosa: «Più volte mi sono accorta di essere seguita, ma non ho mai capito bene lo scopo di essere controllata e da chi». «Quando è morta Imane Fadil (una delle testimoni d’accusa, deceduta per una grave malattia, ndr) ho provato paura e dispiacere, sono stata convocata dai pm» […]
Roberta Bonasia, l'ex olgettina assolta nel processo a Berlusconi: «Ho cambiato cognome per poter lavorare». Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023
Bonasia è tra i 29 imputati nei confronti dei quali il Tribunale di Milano ha sancito che «il fatto non sussiste». Lei: «Nessuno mi ridarà gli anni persi»
«Questa sentenza è una liberazione, ma la verità - sospira amareggiata Roberta Bonasia - è che la condanna l’ho già scontata perché nessuno mi ridarà gli anni persi, nessun giudice e nessun tribunale mi restituirà gli affetti, le amicizie, le opportunità lavorative a cui sono stata costretta a rinunciare per questa storia...». La «storia» è lo scandalo del Bunga Bunga e delle (presunte) cene «bollenti» ad Arcore: Roberta è stata assolta dopo essere stata sbattuta in prima pagina come «fidanzata di Berlusconi», spacciata per «la favorita del Cavaliere», processata tra le «olgettine», accusata di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’ex premier.
La vita durante il processo
Bonasia è tra i 29 imputati nei cui confronti 48 ore fa il Tribunale di Milano ha sancito che «il fatto non sussiste»: papà abruzzese, mamma calabrese, è nata a Nichelino nel Torinese e spesso gravita nel Veronese dove, a San Pietro in Cariano, abitano uno zio e i cugini. «Quando nel 2010 Roberta venne travolta dal caso Ruby, si rifugiò proprio in terra scaligera, voleva fuggire da quelle accuse ingiuste, fu allora che la conobbi e ne assunsi la difesa - racconta l’avvocato veronese Maurizio Milan -. Per lei quel momento era terribile, le cadde il mondo addosso, non se lo meritava perché non aveva commesso alcun reato». Il problema è che «ci sono voluti tanti, troppi anni per arrivare al verdetto assolutorio» appena pronunciato per tutti gli imputati (Silvio Berlusconi in primis) del Ruby ter: «Anni lunghissimi - confida Roberta -, anni che non auguro a nessuno visto il peso di tutto ciò che ho dovuto subire, un peso che mi ha logorato e scalfito, facendomi provare un continuo senso di inadeguatezza e sconforto».
«Ho trovato solo porte chiuse»
Uno scandalo che ha «lasciato un marchio indelebile, una condanna a vita» sulla pelle e nell’animo dell’ex infermiera che sognava di diventare regina di bellezza e di sfondare nel mondo dello spettacolo. Invece dopo il clamore e i titoloni dei giornali si è trovata «solo porte chiuse, pettegolezzi infondati, accuse senza senso». La sua famiglia non è agiata e per mantenersi Roberta ha dovuto allora rimboccarsi le maniche, «fuggire da tutto e tutti», ricominciare da zero: «Per un po’ si è rifugiata dai parenti veronesi, poi ha deciso di reagire e reinventarsi», rivela l’avvocato Milan. «Non è stato facile, nessuno l’ha aiutata, però in silenzio e con impegno Roberta ce l’ha fatta»: ora lavora con successo per una radio nazionale, ma con un cognome diverso pur non essendo sposata. «È stata costretta a cambiarlo, per dimostrare il suo talento e la sua abilità senza essere più additata come “ex olgettina” o “ex favorita” del Cavaliere».
Il successo sui social
La «nuova» Bonasia ha successo anche sui social, vantando 40 mila follower sul suo profilo Twitter: «Ma quanti dolori, quanti dispiaceri ho sopportato in questi anni - confessa -, sempre con la paura costante che qualcuno fosse pronto a giudicarmi senza sapere davvero chi fossi o cosa provassi. Questo verdetto mette il punto a tutto lo sconforto che ho provato e che mi ha cambiato la vita in negativo. Ho subìto attacchi ingiusti, sono sollevata ma resterò sempre emotivamente molto provata». Per il suo legale torinese Stefano Tizzani «si è trattato di un processo lungo e impegnativo, ma la sentenza del Tribunale ci rende finalmente giustizia. Il prezzo pagato da alcune di queste ragazze è stato troppo alto, in particolare per la mia assistita». E ora Roberta si auspica «solo di ritrovare un po’ di serenità, quella che mi è stata tolta in tutti questi ultimi anni
Da lastampa.it il 15 febbraio 2023.
"A Berlusconi dico che Dio esiste, è una persona di grande cuore e tutto prima o poi nella vita torna. Gli faccio auguri di una lunga vita. Si goda questo momento. Lo hanno attaccato e per lui abbiamo pagato tutte".
Marysthell Polanco, ex-olgettina assolta nel processo Ruby ter manda così un saluto all'ex-premier Silvio Berlusconi una volta uscita dall'aula bunker del tribunale di Milano. "Berlusconi è stato attaccato per anni e - ha spiegato Polanco - per questo ha avuto una vita molto difficile. Io come le altre siamo stati dei numeri e a nessuno è fregato niente di noi".
“Spinoza” per “il Fatto quotidiano” il 23 Febbraio 2023.
Zelensky contro Berlusconi: "Non ha mai avuto le bombe in casa". Preferiva le bimbe.
Estratto dal “Fatto quotidiano” il 23 Febbraio 2023.
Quel nome forse le rimarrà incollato addosso tutta la vita. Ma Karima El Mahroug – per tutti, finora, Ruby – crede che la recente assoluzione in uno dei filoni del processo sulle “cene eleganti” possa davvero consentirle di cambiare vita.
Per farlo, Karima presenta il suo libro nel salotto buono della tv e pure della politica, ovvero lo studio di Porta a Porta, dove di fronte a Bruno Vespa la giovane riscrive la storia del suo rapporto con Silvio Berlusconi: “Non ho mai fatto sesso a pagamento, non ho mai fatto sesso con Berlusconi. Lo dico da quando avevo 17 anni e sono costretta a ridirlo adesso. L’arma della prostituzione è stata la più semplice da dire alla gente”. Il contrario di ciò che stabilì la sentenza che pure assolse Berlusconi nel 2015 dal reato di prostituzione minorile, con la motivazione che B. non fosse a conoscenza dell’età di Ruby ai tempi delle feste di Arcore.
[…] La ragazza torna anche a quel San Valentino 2010 in cui per la prima volta mise piede nella villa di B.: “Io quella sera non sapevo dove stessi andando, lavoravo nei locali e giorno per giorno mi dicevano dove lavorare. Lele Mora mi ha detto: ‘Preparati, stasera vai in un posto’. Mi accompagnò Emilio Fede, che avevo già incontrato in un concorso in Sicilia”. Nulla più che una cena, però.
Poi una generosa busta di contanti: “Mi fece un regalo, non ho mai negato di aver ricevuto il suo aiuto. Sono stata sei volte a casa sua e mi ha sempre aiutata. Per quello che ha fatto gli sarò sempre grata”. Nessuna accusa […] al sistema delle feste che rendeva così facilmente ricattabile […] Silvio, [che] decise di chiamare in prima persona la Questura di Milano la notte in cui Ruby fu fermata a seguito di una lite (da lì la celebre storiella di Karima nipote di Mubarak). Ma la ragazza non tentenna […]: “Dopo 13 anni, credo che delle scuse mi siano dovute”.
Estratto dell'articolo di Claudia Guasco per “il Messaggero” il 17 febbraio 2023.
Su che fine avrebbero fatto quei soldi, i pm dell'inchiesta Ruby ter un'idea ce l'hanno: investimenti a Dubai e l'apertura di attività commerciali in Messico. Karima El Mahroug, forte di un'assoluzione per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, fa spallucce: «Una che nasconde 5 milioni credo sia facile da scovare. Ma non è successo. Perché io quei soldi da Silvio Berlusconi non li ho mai avuti».
Il giorno dopo la sentenza, dalle ceneri della Ruby appena diciottenne delle feste di Arcore rinasce Karima, che fa i conti con il passato. Nonostante tutto, dell'ex premier ha un buon ricordo. «Non ho nessun motivo per proteggere Berlusconi, ha un potere ben diverso dal mio ed è capace di difendersi da solo. Con me è stata una persona rispettosa, da lui ho ricevuto del bene: in quelle sei occasioni nelle quali sono stata sua ospite ho avuto un aiuto economico. Ci ha consegnato delle buste, quando l'ho aperta e ho contato il denaro per me era già tantissimo, mi ha permesso di non dormire per strada, di comprarmi da mangiare e mandare qualcosa a mia madre. Per questo parlo di gratitudine, certo non di milioni».
Gli spedirà la biografia che ha appena scritto?
«Spero la legga e mi riferisca la sua opinione, se dovesse farlo pubblicamente ne sarei contenta. Non che me lo deva, ma se avesse sprecato due parole per dire che ragazza ero quando tutti mi accusavano di essere una prostituta e le altre mi chiamavano zingara, forse sarebbe stato di grande aiuto».
Vede ancora le invitate alle serate del Cavaliere?
«Non ho più parlato con loro, ho evitato qualsiasi rapporto anche con quelle che erano mie amiche. In questo caso per paura che qualsiasi telefonata potesse essere strumentalizzata. Poi i contatti si sono persi e va bene così».
Imane Fadil è stata teste dell'accusa. Ha avuto paura quando è morta?
«Non l'ho mai conosciuta, ma ho provato un dispiacere infinito. È una vicenda che ha legato tutte noi, avendo vissuto quella casa. Anche la scomparsa dell'avvocato Ghedini mi ha toccato. Io mi sono sempre sentita diversa dalle altre ragazze, per età e per il mio vissuto, e quando è cominciato il marasma a tratti ho temuto per la mia incolumità. Sono stata anche pedinata, vai a sapere da chi».
(…)
Estratto dell'articolo di Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 17 febbraio 2023.
«Non sono una prostituta». «Non ho parenti famosi». «Non ho mai ricevuto milioni di euro, altrimenti non sarei nemmeno rimasta in Italia a soffrire». «Non ho mai avuto la sensazione di essere vista come un pezzo di carne dal presidente Silvio Berlusconi».
«Non tornerei nelle casa di Arcore». «Non speravo in un'assoluzione». «Non so quante altre ragazzine avrebbero retto questo fardello».
Ieri , durante la presentazione del suo libro, Karima El Mahroug ha pronunciato moltissimi «non». Un tentativo di cancellare tutto quello che le è capitato negli ultimi tredici anni, da quel 14 febbraio del 2010 in cui ancora minorenne partecipò alla sua prima serata nella villa di Berlusconi, al 15 febbraio di quest'anno, quando i giudici milanesi hanno assolto per ragioni «di carattere esclusivamente giuridico» lei e tutti gli altri imputati del processo Ruby Ter (quello in cui le ipotesi di reato erano falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari).
(…)
Ha ripetuto di essersi sentita usata. Come mai?
«Hanno sempre detto che sono furba, qualcuno ha parlato di "furbizia orientale", ma per quanto tu possa essere furba a 17 anni comunque non sei preparata a degli avvenimenti simili. Quando dico usata è perché nessuno mi ha tutelata. Perché sono stata etichettata davanti a tutti come la prostituta minorenne?».
Ricorda l'istante in cui le è cambiata la vita?
«Il 28 ottobre, quando sono scesa di casa e ho visto le prime pagine con la mia faccia. Traumatizzante, ho tremato».
Dice che si è sempre sentita rispettata da Berlusconi. Ma qual è il suo giudizio sul contesto delle serate ad Arcore?
«Io parlo per quella che è stata la mia esperienza. Berlusconi con me si è comportato da persona rispettosa. Non ho mai negato di aver ricevuto, le sei volte in cui sono stata a casa sua, anche un aiuto economico. Ma non parliamo di cinque milioni. Ai miei occhi comunque erano già tantissimi soldi, perché mi hanno permesso di non dormire per strada, di comprarmi da mangiare e di mandare qualcosina a mia madre. Per questo parlo di gratitudine nei suoi confronti».
Ha più incontrato le altre ragazze imputate nel processo?
«No, ho evitato qualsiasi avvicinamento anche a quelle figure che potevano essere amiche per paura che qualsiasi chiamata, qualsiasi cosa, potesse essere strumentalizzata. Va bene così. Nel libro ho scritto che mi sono sempre sentita diversa dalle altre ragazze per una questione di età e di vissuto. Non tutte hanno alle spalle una storia come la mia».
Ha mai avuto paura?
«Sì, l'ho confidato ad alcune amiche anche se non sapevo nemmeno quale entità mi avrebbe potuto far del male. Ci sono stati dei pedinamenti, ma vai a capire se erano giornalisti, polizia...Per settimane sono stata chiusa in casa finché non si è festeggiato, si fa per dire, il mio diciottesimo. Il giorno in cui ho indossato quel maledetto vestito azzurrino...».
Come si immagina il suo futuro? Che sogni ha?
«A 18 anni ero incinta e non ho avuto la possibilità di godere di un momento spensierato neanche per scegliere la culla di mia figlia. Ero sempre dagli avvocati. Quest'assoluzione per me è l'inizio di una vita da persona normale e da donna libera. Sono sempre stata controllata. Ora potrò iniziare a progettare la mia vita».
Ha regalato una copia del suo libro alla pm Tiziana Siciliano. Ne manderà una copia anche ad Arcore?
«Spero che Berlusconi possa leggerlo e che trovi il modo per farmi sapere la sua. Se poi dovesse farlo anche pubblicamente ne sarei contenta. Se avesse sprecato due paroline per parlare della mia persona, quando ha visto tutti accusarmi di essere una prostituta e altre ragazze definirmi "la zingara che arriva sporca, non fa niente e non si spoglia neanche", forse sarebbe stato di grande aiuto».
(…)
Fabrizio Guglielmini per il “Corriere della Sera” il 17 febbraio 2023.
(…)
Un acconto in prima persona, affidato a venti capitoli che attraverso le vicissitudini esistenziali subite fin da bambina si conclude sulla sua vita post Arcore con una riflessione: «Se tornassi indietro non varcherei più il cancello di quella villa, non per la persona, ma per quello che rappresenta quella persona» — spiega El Mahroug — «quando ci sono entrata non sapevo neanche dove stessi andando, non sapevo chi fosse il presidente Berlusconi.
Io in quella persona non ho mai visto il politico, o il potere. Ho cercato in lui la possibilità di essere aiutata, mi sono sentita rispettata, perché da Silvio Berlusconi non ho mai avuto la sensazione di essere vista come un pezzo di carne». Tra il leader di Forza Italia ed El Mahroug oggi non ci sono più contatti, i due non si sono sentiti neanche ieri l’altro dopo la sentenza del Tribunale di Milano che li ha visti entrambi assolti.
Attraverso le pagine dell’autobiografia, Karima torna più volte anche sul ruolo dei media: «La mia storia l’avete scritta soprattutto voi, adesso è il momento di dare la mia versione dei fatti e in particolare di abbandonare l’ingombrante personaggio di Ruby: questa sentenza riguarda tutta la mia vita dai 17 anni in poi e nessuno mi risarcirà mai per quello che ho passato».
Ripete più volte di essere «molto emozionata» soprattutto nel leggere alcuni passi di questa autobiografia che vuole essere una testimonianza di «un’altra persona, molto diversa da quella che per anni ha dovuto subire una gogna». Una nuova vita cominciata già otto anni fa, dopo il trasferimento a Genova, l’incontro con il fidanzato Daniele e la nascita della figlia Sofia. La presentazione del libro è costellata dalle domande che vertono soprattutto sui sei incontri ad Arcore. Karima declina quasi tutte le questioni insistendo però su un punto: «Nella mia storia personale c’è il tema di un sistema di potere che mi ha sfruttata fino in fondo con rare eccezioni di umanità». E sui presunti milioni di euro ricevuti: «Non ho mai ricevuto somme del genere, altrimenti non sarei rimasta in Italia a soffrire tutto quello che ho sofferto».
Estratto dell’articolo di G. Gua. per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2023.
[…] Della ventina di «olgettine» imputate di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, alla sentenza del Ruby ter […] si presentano solo Karima «Ruby» El Mahroug […] Vestita di nero, elegantissima, Ruby è raggiante.
[…] Quando le si chiede dei soldi ricevuti dal Cavaliere, però, svicola: «State ancora a parlare di questo?». Tra i suoi legali, gli avvocati Jacopo Pensa e Paola Boccardi, parla di una «battaglia molto più grande di me di cui io non ne ho fatto parte, ma mi sento di poter dire di esserne stata la vittima strumentalizzata». Su ciò che è accaduto ad Arcore afferma di aver «detto sempre la verità» e di aver sempre parlato bene di Berlusconi perché «si è comportato sempre bene con me ed al quale sarò sempre grata per avermi dato la possibilità di conoscerlo».
Fa qualche passo e si presenta al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che aveva chiesto la sua condanna a 5 anni. Le stringe la mano e le porge il suo libro Karima , che presenterà oggi ed in cui, come rileva l’Adnkronos, racconta che nella prima serata ad Arcore «il presidente mi offrì il posto accanto a lui e gli occhi addosso delle altre ragazze un po’ mi mettevano in imbarazzo. Iniziò la cena e mi fu chiesto di presentarmi: avevo la risposta già collaudata: “Mi chiamo Ruby Hayek, sono metà egiziana e metà brasiliana, ho ventiquattro anni. Mia madre è una cantante molto famosa in Egitto”». […]
Estratto dell’articolo di C. Gu. Per il Messaggero il 15 febbraio 2023.
(...)
Come andavano le cose a quei tempi lo racconta Karima el Mahroug nella biografia appena pubblicata. «Non sono una prostituta», scrive a pagina uno. Primo appuntamento con Silvio Berlusconi ad Arcore: «Il presidente mi offrì il posto accanto a lui e gli occhi addosso delle altre ragazze un po' mi mettevano in imbarazzo. Iniziò la cena e mi fu chiesto di presentarmi: avevo la risposta già collaudata:
"Mi chiamo Ruby Hayek, sono metà egiziana e metà brasiliana, ho ventiquattro anni. Mia madre è una cantante molto famosa in Egitto». In realtà è nata in Marocco e crescita in Calabria. Ma il suo fascino esotico funziona. «Io mi sono esibita ballando la danza del ventre più di una volta, indossando un vestito regalato al presidente da Gheddafi - ricorda - Ballare con un vestito così prezioso mi inorgogliva, mi faceva sentire importante.
Speciale». I dopocena, racconta, erano frizzanti. «C'erano esibizioni, balletti sexy, travestimenti, spogliarelli. Alcune volte sono rimasta ospite per la notte. Era molto piacevole perché, al mattino, il momento della colazione era il più interessante. Lontano dagli schiamazzi, il presidente raccontava la sua vita, discuteva di temi a me molto lontani, ne ero affascinata. Era un mondo così importante il suo e mi sembrava incredibile poterne in qualche modo, anche lontanamente, farne parte. Mi sentivo trattata con dignità, direi come un'interlocutrice degna». Il contesto però la infastidiva. «Quello che non sopportavo era il clima di avidità che si respirava - dice nel libro - Non mi sapevo spiegare, e rimane per me un mistero anche adesso, come facesse a fidarsi di tutte quelle persone o a volerle intorno».
Oggi le ragazze delle feste di villa San Martino sono donne con una nuova vita, per molte appartata per altre esibita sui social. Come Nicole Minetti, l'ex igienista dentale ai tempi assidua frequentatrice di Arcore. La carriera politica nel consiglio regionale lombardo è durata un lampo, dopo una condanna a 2 anni e due mesi nel Ruby bis e a un anno e un mese nel processo rimborsopoli si è dedicata alle sfilate in bikini e da un anno si è trasferita a Ibiza. Professione deejay e video mentre si allena postati sui social sono la sua nuova attività.
Riflettori spenti e un lavoro che non ha nulla a che fare con il mondo dello spettacolo invece per Barbara Faggioli, fotografata qualche anno fa in compagnia del campione di basket Danilo Gallinari, esistenza appartata anche per Roberta Bonasia, ex infermiera di Nichelino incoronata "Miss Torino" nel 2010. Il concorso l'ha portata dritta alla tavola del Cavaliere, con il ciclone delle inchieste ha preferito tornare nell'ombra e si è trasferita a Verona.
Le gemelle Concetta ed Eleonora De Vivo abitano a Napoli, la loro città, Marysthell Polanco vive in Svizzera, ha avuto tre figli da un giocatore di basket e si concede incursioni nella musica, scrivendo pezzi e cantando. Alla pronuncia del verdetto era in aula: «Ora mi sento benissimo. E visto che sono stata assolta, vorrei che si scusassero per il fango che ci hanno tirato addosso. A Berlusconi dico che Dio esiste e che tutto torna. Lo hanno attaccato anno dopo anno e adesso gli auguro di godersi questo momento». C.Gu.
Storia dei processi Ruby, "Mi hanno strumentalizzata, ora è finito un incubo". “Ruby non è mai esistita, io vittima del circo mediatico”: la liberazione di Karima el Mahroug dopo l’assoluzione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Febbraio 2023
Karima el Mahroug è stata assolta nel primo grado del processo Ruby Ter, che portava il suo nome: “Ruby Rubacuori”, com’era stata soprannominata dalla stampa, è stata assolta “perché il fatto non sussiste” con l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e altre venti giovani donne ospiti delle cosiddette “cene eleganti” nelle serate della villa di Arcore del leader di Forza Italia. “Non immaginavo una cosa così – ha detto dopo la lettura del dispositivo – Sono contentissima. È stata una liberazione” da una vicenda “che mi ha travolto” quando “avevo 17 anni e che è stata un macigno non da poco”, ha detto ai cronisti. Alcuni altri imputati per posizioni minori sono invece stati prosciolti per intervenuta prescrizione.
“Sono stati anni difficili, dove ho perso la mia identità. Ho fatto la mamma, sono stata forte ma ho avuto anche molti momenti di cedimento”, ha detto Karima El Mahroug dopo la lettura della sentenza di assoluzione. Poche dichiarazioni: domani “risponderò a tutte le domande. Finalmente vi potrò raccontare la mia storia” in occasione della presentazione del suo libro Karima alle 10:30 all’hotel Diana a Milano. Dopo la lettura della sentenza si è presentata nell’aula bunker di San Vittore, dov’è stato letto il dispositivo del verdetto, ha stretto le mani al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e al pm Luca Gaglio e ha rilasciato qualche dichiarazione. Ha regalato una copia del suo libro al procuratore Siciliano.
Karima el Mahroug si è detta “vittima del circo mediatico, mi hanno strumentalizzata. Pentita di avere parlato? Ho fatto come meglio potevo, avrei potuto fare meglio ma sono fiera del mio percorso” e ha aggiunto che “Ruby è stata tutta un’invenzione, il mio nome rimane Karima e ora è finito un incubo”. All’epoca dello scandalo mediatico del “Bunga Bunga” aveva 17 anni. Era arrivata dal Marocco con i genitori, era cresciuta nelle campagne di Letojanni, in provincia di Messina. Il padre faceva l’ambulante e lei scappò da una comunità dopo essere stata abbandonata dalla famiglia. A un concorso di bellezza nel 2009 venne notata da Emilio Fede, secondo la ricostruzione dei pm. L’anno dopo esplose il caso del “Bunga Bunga”. I processi su quelle che vennero definite “cene eleganti” hanno finito per portare il suo nome.
Per Karima El Mahroug era stata chiesta una condanna a cinque anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari e la confisca di cinque milioni di euro per non aver rivelato quello che sarebbe successo a Villa San Martino. Secondo Gaglio “le centinaia di migliaia di euro che spendeva le venivano consegnate, tramite il suo legale Luca Giuliante, da Berlusconi; lei più di così non poteva spendere, più di così c’era solo buttare i soldi dalla finestra”. E invece: il fatto non sussiste. “Ho bisogno di tempo per assimilare, sono contenta perché finalmente una parte di verità è venuta fuori”. Oggi El Mahroug è una donna di 30 anni, è madre di una bambina e ha un compagno, vive a Genova.
“Per fortuna oggi c’è un’assoluzione in cui si può parlare e dire che tutto quello che si è detto da parte mia è sempre stata la verità. Di Berlusconi, anche ai tempi, ne ho sempre parlato bene, non ho mai parlato dell’uomo politico. Ho sempre parlato dell’uomo e con me si è sempre comportato bene e quindi potrò solamente essergli grata, grata di aver conosciuto una persona così. Poi quello che è venuto dopo non lo auguro a nessuno, in tanti momenti ho pensato anche che era meglio non averlo mai incontrato. È stata una battaglia molto grande forse più grande di me e io sono sempre stata la vittima”, ha aggiunto citata da Lapresse.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2023.
Conosco Berlusconi da quaranta anni, sia lui che io eravamo ancora giovani. Silvio era già straricco e già abbastanza odiato dagli straccioni.
(...)
Mi invitava spesso alle romanzate cene eleganti a cui mi recavo non perché mi augurassi di fare delle scopate supplementari, dato che in questo settore me la sono sempre cavata egregiamente da solo. Andavo certe sere ad Arcore poiché stimavo il padrone di casa, sempre di una squisita gentilezza. In effetti nella sua splendida dimora mi trovavo a mio agio, malgrado fossi e sia un ruvido bergamasco.
Silvio ed io suonavamo il pianoforte, lui meglio di me, il che mi seccava un po’ dato che da ragazzo facevo, per arrotondare, il pianista di piano bar ogni domenica sera. Alle famose cene partecipavano venti o venticinque persone. Il primo piatto consisteva in una pastasciutta patriottica tricolore: bianco al burro, rosso al pomodoro e verde al pesto. Poi veniva servita della carne che evitavo perché non amo mangiare animali, pesci compresi.
La parte più divertente era quella canora. Un tipo suonava su una tastiera e il Cavaliere cantava brani francesi interpretando i quali dimostrava di padroneggiare alla perfezione la lingua di Parigi. Verso mezzanotte la brigata si scioglieva e Berlusconi distribuiva ai suoi ospiti dei regalini, confermando di essere molto generoso. Indubbiamente tra gli invitati vi erano signore e signorine assai carine ma non ho mai visto Silvio dedicare loro smancerie sospette.
Il che non era stupefacente perché un gentiluomo è normale che abbia solo un riguardo particolare per le donne, le quali a me piacciono ancora anche se non ne ricordo il motivo. Questione di età, quando si invecchia succede di dimenticare pure le passioni. In ogni caso quelli che hanno descritto Villa San Martino come un bordello di lusso hanno visto lucciole per lanterne.
Se i magistrati, e ne conosco tanti, avessero interrogato me prima di accusare a vanvera l’ex premier di essere un maniaco sessuale, non lo avrebbero perseguito sadicamente per oltre 10 anni. La verità è abbastanza nota ma come tutte le verità è poco o per nulla creduta.
Silvio è stato massacrato dalla giustizia solo perché ha vinto in tutti i campi in cui si è cimentato: da quello edilizio a quello televisivo e perfino a quello calcistico. Il fatto poi che sia riuscito in alcuni mesi a sfondare in politica con un partito improvvisato, ha suscitato una tale rabbia negli avversari di sinistra e nei loro amici togati da indurli addirittura a processarlo, non una volta ma 136 uscendone sempre vincitore tranne in un circostanza.
Mi riferisco all’evasione fiscale di una sua azienda di cui Silvio non era responsabile, essendosi dimesso, dopo essere diventato premier, da ogni carica sociale e direttiva. Una condanna ingiusta che gli costò addirittura la cacciata dal Parlamento, in base a una legge cretina stesa dalla ministra Severino.
L’ultimo appuntamento con i giudici gli è valso una assoluzione, ma nessuno potrà risarcirlo perché i nostri tribunali, salvo eccezioni (per fortuna), sono mattatoi. Caro Dottore, non punti più su di me giacché non conto più niente se non come amico.
Da “Un Giorno da Pecora – Rai Radio1” il 16 febbraio 2023.
L’assoluzione di Silvio Berlusconi nel Ruby Ter? “Sono felicissimo, è stata una soluzione top. Io condannato? Io sono innocente, la Procura ha un suo modo di vedere, si vede che per loro meritavo di esser condannato, mi reputo di esser stato frutto di immaginazione di chi vedeva cose che non esistevano”.
A parlare, intervistato da Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è Lele Mora, manager dei vip, coinvolto in quelle conosciute poi come le ‘cene eleganti’ ad Arcore. Quelle erano davvero ‘cene eleganti’? “No, erano cene noiosissime, si mangiava malissimo a parte le sere che cucinavo io – ha detto Mora a Rai Radio1 -, il divertimento c’era solo quando qualcuno si vestiva da Boccassini oppure da Fassino”. C’era qualcuno che si travestiva così? “Si, c’era chi si vestiva anche da Napoleone”.
Da quanto tempo non si sente Silvio Berlusconi? “Non lo sento da tantissimo tempo, saranno undici anni che non ci sentiamo”. Quindi la sala del Bunga Bunga, a suo avviso, non esisteva? “Mai vista la saletta in cui si sarebbe dovuto tenere Bunga Bunga, quella era solo una barzelletta”. In questa vicenda lei si è mai pentito di qualcosa? “Siccome non ho fatto nulla – ha concluso Mora a Un Giorno da Pecora - non mi pento di nulla”.
Estratto dell’articolo di P.C. per “la Stampa” il 15 febbraio 2023.
«Mi stanno telefonando da tutte le parti, ma che vogliono?». Emilio Fede, 91 anni, un po' è confuso, un po' è contento. Un po' mastica amaro. Perché in fondo, di tutta la storia di Ruby Rubacuori, quello rimasto col cerino in mano è lui, l'Emilione nazionale: 4 anni e 7 mesi per induzione della prostituzione. Più altre condanne varie, dalla bancarotta alla diffamazione aggravata, su cui ormai si stende il velo pietoso dell'oblio: «Mi sono fatto 8 anni ai domiciliari senza essere colpevole di nulla».
Berlusconi assolto e lei condannato. Mondo crudele?
«[…] Mi chiedo invece perché io sono stato calpestato fino alla fine […]...» . «[…] io ho perso tutto, licenziato, sbattuto fuori dall'ufficio in tre minuti. Perché? A chi dovevo fare spazio? A chi davo fastidio?».
Ha qualche idea in merito?
«Non lo so. So che in un carcere milanese, un detenuto in punto di morte ha detto che io in queste storie non c'entravo niente».
Chi glielo ha raccontato?
«Una signora che frequenta le carceri per lavoro. Non posso dire di più».
Come andò il licenziamento?
«Ricordo che ero andato allo stadio con il Cavaliere, torno e trovo il mio ufficio chiuso. Un avvocato e un altro figuro che mi dicono: lei ha chiuso, licenziato. Dopo tutto quello che avevo fatto!».
In effetti, lei dalle cene eleganti andava e veniva...
«[…] Le cene a cui ho partecipato io si concludevano a mezzanotte, poi io uscivo, andavo all'edicola di piazzale Loreto a prendere i giornali, leggevo le prime pagine e telefonavo al Cavaliere per fargli il resoconto». […]
Ha sentito di recente il Cavaliere?
«L'ultima volta è stata la vigilia di due Natali fa. Ero stato in ospedale dopo una caduta e mi aveva chiamato: "Ciao Emilio? Ma cosa fai? Dai, vieni qua..." Ma io non potevo ero in carrozzella. Poi non ci siamo più sentiti». […]
Emilio Fede: «Giustizia per Berlusconi, ama le donne ma ad Arcore nessuna sconcezza. Io ho pagato l’invidia». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.
L’ex direttore del Tg4: «Ho vissuto accanto a lui per molti anni da amico, non da complice di bagordi. L’invidia di tanti, anche vicini a lui, l’ho pagata cara»
Direttore Emilio Fede, contento per l’assoluzione di Silvio Berlusconi?
«Sono felice — risponde tonico, malgrado i 91 anni, il giornalista che dopo una lunga carriera alla Rai ha avviato il primo telegiornale in casa Mediaset (allora Fininvest) ed è stato legato al Cavaliere da una forte amicizia — Me l’aspettavo perché ho vissuto accanto a lui per anni e anni, da amico vero, non da complice di bagordi. Però...».
Però?
«Questa sentenza doveva arrivare prima. Questa giustizia così lunga è un dramma. Lo so bene io che da otto anni vivo agli arresti domiciliari (e si commuove, ndr). Non ho potuto nemmeno andare a votare...».
Quindi, non c’era nulla di vero nelle accuse?
«Sotto giuramento posso dire che non ho mai visto sconcezze, esibizioni volgari, scene hard. Io partecipavo a queste cene e a mezzanotte me ne andavo. Passavo all’edicola di piazzale Loreto per poter leggere in anteprima i giornali a Berlusconi».
Berlusconi amava invitare tante donne...
«Sì, perché le ama, come me. In Sicilia si dice: è masculo... Ma tutto quello che si è detto e scritto è stata un’esagerazione pazzesca. Ha coinvolto e travolto perfino me che dalla mattina alla sera mi sono ritrovato licenziato. E da anni continui a chiedere invano: perchè?».
Forse quegli inviti alle cene ad Arcore erano un po’ troppo allargati, direttore.
«Può essere che la guardianìa non sia stata troppo attenta... Non so bene chi faceva gli inviti».
Proprio lei è stato accusato di essere uno dei «reclutatori».
«Guardi (e si commuove ancora, ndr), pensando alla persona che ho amato di più (la moglie Diana De Feo, scomparsa nel giugno 2021), posso dire che non ho mai invitato nessuno. Solo una volta ho accompagnato a casa una ragazza di cui nemmeno ricordo il nome».
Dicono che sia stato lei a introdurre Ruby ad Arcore.
«Ma che scherziamo? Di tutto quello che si è detto è vera una minima parte. Io Ruby l’ho vista ad una delle serata tra le tante invitate. Nulla più».
La sentenza di assoluzione rende giustizia a Berlusconi?
«Per lui è stata una sofferenza enorme. Il suo onore è rimasto inalterato, i nemici dicano quel che vogliono».
Ma cosa ha rappresentato Berlusconi per il nostro Paese?
«La sua discesa in campo ha segnato una svolta storica. Lui era un ragazzo che sognava di attraversare l’Italia con un treno veloce...».
Ci è riuscito?
«Non so, mi chiederei chi ne è capace. Lui in parte ci è riuscito. Ma i nemici, che potrebbero non essergli troppo lontani, hanno sempre cercato in ogni modo, compreso quello giudiziario, di impedirglielo. Lui ama l?Italia, la considera la sua casa. Farebbe di tutto per renderla più bella e più accogliente. Molti altri intorno a lui, invece, cercano solo l’esibizione».
Siete ancora amici?
«Io ne parlo come amico. Mi ha telefonato un paio di Natali fa per invitarmi a casa sua ma ho dovuto declinare perché ero reduce da una brutta caduta e non mi andava di spostarmi in carrozzella. Ma ci mandiamo dei messaggi. Continuiamo a volerci bene».
Sicuro?
«Mi sento assolutamente tranquillo, non ho mai abusato di lui e della sua amicizia. Anzi, ho rifiutato in passato la sua proposta di portarmi in Senato perché io volevo fare solo il giornalista».
E allora perché lei è finito in mezzo a tanti guai?
«L’invidia è una brutta bestia. Il fatto che io fossi così legato a Silvio evidentemente ha disturbato qualcuno. Alcuni della sua cerchia familiare forse non hanno gradito».
Berlusconi le aveva promesso un posto anche nel suo mausoleo di famiglia ad Arcore.
«Guardi, io vorrei raggiungere in ogni modo mia moglie (e la voce si incrina, ndr), ma confermo che il posto c’era. Perché a monte c’era un’amicizia leale e sincera e Silvio pensava che fosse giusto ci fosse un posto anche per me. Ma...».
Ma?
«Non parliamone più. L’invidia mi ha già duramente colpito».