Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le carte segrete del Caso Moro.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ricordando il Divo.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Secessionisti.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Ricordando Craxi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Italiano per Antonomasia.
La Biografia.
Berlusconi e la Morte.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Berlusconi e la Salute.
Berlusconi e gli Affari.
Berlusconi e la Politica.
Berlusconi e lo Sport.
Berlusconi ed i Media.
Berlusconi e la Chiesa.
Berlusconi e la Cultura.
Berlusconi e la Gastronomia.
Berlusconi e gli Animali.
Berlusconi e la Famiglia.
Berlusconi e le Donne.
Berlusconi e la Giustizia.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Al tempo del Nazismo.
Al tempo del Fascismo.
INDICE QUINTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli eredi del Duce.
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le carte segrete del Caso Moro.
Le Donne.
La Ricorrenza.
Gli Intellettuali.
Il giornalismo e la tv.
La Pista americana.
Il Lodo Moro ed i Palestinesi.
La pista sovietica.
I Complotti.
Le Sedute spiritiche.
Indagine su Persichetti.
Le Brigate Rosse.
Il delitto di Vittorio Bachelet.
I Vuoti.
Il generale Dalla Chiesa.
Archivio sparito.
Le carte segrete.
Estratto dell’articolo di Roberto Faben per “La Verità” il 24 giugno 2023.
Nel 1971, quando a Canzonissima apparve Rosanna Fratello, all’epoca ventenne, molte mogli italiane, sistemate sul divano accanto ai mariti, provarono un lampo di gelosia. Quella giovane bruna che, interpretando Sono una donna, non sono una santa, avversava una tentazione e faceva attendere per esaudire una promessa d’amore, calamitava l’attenzione.
La cantante pugliese, nata a San Severo (Foggia) nel 1951, aveva già raggiunto fulminea notorietà a Sanremo 1969, tanto da essere chiamata, l’anno dopo, anche nel cast del varietà Rai del sabato sera E noi qui, accanto a Gino Bramieri e Giorgio Gaber. Tra i telespettatori c’era anche Giuliano Montaldo, che in lei vide subito Rosa, moglie dell’anarchico Nicola Sacco, anch’essa pugliese, affidandole poi la parte nel film Sacco e Vanzetti, che le valse il Nastro d’argento come miglior attrice esordiente.
Lino Banfi l’avrebbe voluta per le sue commedie al peperoncino: incassò un no e ripiegò su Edwige Fenech. Per lei Giorgio Conte, fratello di Paolo, ha scritto Non sono Maddalena. Sposata dal 1975, una figlia, Guendalina, 43 anni, e due nipoti, Alessandro, 12, e Giovanni, 10, vive a Milano, ma spesso si reca nella sua casa a Pietrasanta, in Toscana, e ha molti progetti.
È stato spesso scritto che Aldo Moro abbia avuto per lei un’infatuazione.
«Io ho conosciuto l’uomo politico attraverso, come una volta si usava fare, gli spettacoli dopo i comizi, si andava a cena, un paio di volte sono stata seduta vicino a questo grande statista a cena. Ho cenato a casa di Berlusconi, conosciuto Craxi, conoscere un politico non significa essere la sua amante.
Moro era umano, amava i giovani, mi diede anche dei consigli. Mi disse che gli piaceva il mio timbro di voce, che arrivava al cuore, all’anima, con questi canti un po’ sofferti, le canzoni folk della nostra terra, era anche lui pugliese, apprezzava la mia persona, il mio modo di essere, tutto qua. Mi è stato riferito che ci sarebbe, agli atti, una lettera scritta alla moglie durante la prigionia, in cui le chiede scusa per un pensiero, un minimo di debolezza avuto nei confronti di una giovane donna.
Io, questa lettera, non sono mai andata a leggerla, ma sembra quasi che se gli piacevano la mia voce e le mie canzoni sia una colpa. Moro bisogna solo rispettarlo». […]
Il caso del sequestro Gancia. Chi era Umberto Rocca, ultimo testimone del processo sulla morte di Mara Cagol a Cascina Spiotta. L’indagine era stata archiviata nel 1987, ma non era stata allegata agli atti perché introvabile a causa dell’alluvione, per cui meno di un anno fa è stata riaperta per decisione del gip di Torino su richiesta della procura. Frank Cimini su L'Unità il 25 Novembre 2023
È morto il generale Umberto Rocca, l’ultimo testimone di un processo che la magistratura torinese sta compiendo ogni sforzo per celebrare circa mezzo secolo dopo, ma non per cercare di accertare se a Margherita Cagol alla Cascina Spiotta dove era tenuto sotto sequestro l’imprenditore Vallarino Gancia fu sparato il colpo di grazia mentre era inerme e inoffensiva per terra, ma per individuare il militante delle Brigate Rosse che sarebbe riuscito a scappare dopo la sparatoria.
L’indagine era stata archiviata nel 1987, ma non era stata allegata agli atti perché introvabile a causa dell’alluvione, per cui meno di un anno fa è stata riaperta per decisione del gip di Torino su richiesta della procura.
I fatti della Cascina Spiotta risalgono al 5 giugno del 1975. Dice Davide Steccanella, difensore di Lauro Azzolini in relazione all’omicidio del brigadiere D’Alfonso: “Se io raccontassi all’estero che un giudice in Italia può revocare una sentenza di assoluzione per fatti di 50 anni fa di cui non dispone materialmente mi prenderebbero per pazzo”.
Secondo il legale emergerebbe al massimo che Azzolini potrebbe aver toccato il documento dattiloscritto riferito ai fatti in cui era morta una fondatrice delle Brigate Rosse che venne esaminato da moltissimi militanti e che fu persino oggetto di una pubblicità su un giornale clandestino.
La circostanza ovviamente non prova nulla circa la presenza di Azzolini, indagato insieme ad altri dirigenti dell’epoca, sul luogo della sparatoria. E’ molto probabile che la procura a breve chiuda l’indagine riaperta e chieda il processo pur avendo in mano ben poco a livello probatorio. Il problema è che le indagini sugli anni ‘70 sono eterne e che serve politicamente agitare a distanza anche di mezzo secolo un fantasma del passato. Frank Cimini 25 Novembre 2023
Addio al generale Umberto Rocca, un eroe nazionale negli anni di piombo. Venne decorato di medaglia d’oro al valor militare, cala il sipario su una delle pagine più brutte degli anni di piombo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 25 Novembre 2023
Con la morte mercoledì scorso del generale dei carabinieri Umberto Rocca scompare l’ultimo testimone di quanto avvenne il 5 giugno del 1975 alla cascina Spiotta di Arzello in provincia di Alessandria. Il giorno prima le Brigate Rosse avevano sequestrato a scopo di estorsione Vittorio Vallarino Gancia, figlio del proprietario dell’omonima casa vinicola. L’allora tenente Rocca, insieme al maresciallo Rosario Cattafì e agli appuntati Giovanni D’Alfonso e Pietro Barberis, individuarono nella cascina Spiotta il luogo della detenzione dell’ostaggio. Durante l’irruzione morirono nel conflitto a fuoco D’Alfonso e la brigatista Mara Cagol, moglie di Renato Curcio. Rocca, colpito da una bomba a mano, perse un braccio e rimase ferito ad un occhio. I dettagli della sanguinosa sparatoria non furono mai precisati completamente e non venne mai identificato l’altro brigatista che era con Cagol e che era riuscito a scappare.
Lo scorso anno, il figlio di D’Alfonso, anch’egli carabinieri, ha chiesto ed ottenuto la riapertura delle indagini. Tesi accolta dal gip di Torino che ha iscritto a maggio per omicidio l’ex brigatista Lauro Azzolini, ora ottantenne, e Curcio per concorso morale. Il Ris dei carabinieri ha trovato alcune sue impronte digitali su un memoriale sequestrato nel covo milanese delle Br di via Maderno, nel 1976, dove si nascondeva Curcio. “Quel documento venne visto e letto oltre che da me anche da tutti o quasi i membri dell’organizzazione nelle rispettive colonne, dato che riportava nel dettaglio come era avvenuta l’uccisione di una delle fondatrici delle Br, una persona peraltro molto cara a tutti noi”, aveva dichiarato Azzolini dopo aver saputo di essere indagato.
Arrestato nel 1978 e condannato all’ergastolo, era poi tornato libero grazie ai benefici di legge. Sulla morte di Cagol, Azzolini, che poi avrà un ruolo decisionale nel rapimento di Aldo Moro, nell’attentato ad Indro Montanelli, e nell’uccisione a Biella del vicequestore Francesco Cusano, aveva aggiunto: “Mi colpì molto, perché da quanto si leggeva si traeva l’impressione che fosse stata uccisa quando ormai si era arresa disarmata, e ricordo che quel testo venne anche pubblicato sul “giornale” clandestino delle Br per il quale, a fronte delle informazioni scritte dell’accaduto giunteci, passò di mano in mano per redigerne la sua stampa”.
Azzolini, arrestato nel 1978 e condannato all’ergastolo, poi tornato libero grazie ai benefici di legge, nel 1987 era stato assolto per questa vicenda per “non aver commesso il fatto”. La sentenza, e gli atti dell’inchiesta, però, spazzati via dall’alluvione di Alessandria del 1994. “Non potendosi conoscere quali sarebbero state le fonti di prova acquisite in un procedimento conclusosi con provvedimento oggi irrevocabile — ha scritto in una memoria il difensore di Azzolini, l’avvocato Davide Steccanella — risulta impossibile ogni valutazione comparativa con quelle nuove indicate dal richiedente”. Con la morte di Rocca, che per l’atto d’eroismo venne decorato di medaglia d’ora al valor militare, cala così il sipario su una delle pagine più brutte degli anni di piombo.
«Mio padre avrebbe approvato la scelta di incontrare chi ha ucciso lui e la sua scorta». Agnese Moro, figlia dello Statista, da anni gira l’Italia per raccontare l’esperienza degli incontri tra vittime e protagonisti della lotta armata. Franco Insardà Il Dubbio il 6 novembre 2023
«Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro “perché l’hai fatto?” so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia. Pensavo fossero mostri, ho scoperto che anche loro sono persone nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati. Ma poi ha scoperto in loro un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso se stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuto atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne».
Sono le parole che Agnese Moro ripete pubblicamente quando viene invitata a parlare della sua esperienza. Un cammino iniziato nel 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati dal padre gesuita Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale.
Un percorso che è stato prodomico per la giustizia riparativa, della quale il professor Ceretti può essere considerato il padre e spiega spesso: «Nella comprensione della giustizia le vittime non erano considerate: ci si concentra solo sul colpevole. Si ignorava il vissuto della vittima, imprigionata in un eterno presente che alimenta l’odio. L’odio dà un ruolo a sé e al nemico. La giustizia riparativa cerca di liberare vittime e carnefici dai loro inferni».
«Quando ho ricevuto la proposta di padre Guido inizialmente ho rifiutato - racconta Agnese Moro nei suoi frequenti incontri - ma mi sono resa conto che lui mi veniva incontro per qualcosa di diverso. Si era accorto del mio dolore e in 31 anni nessuno l’aveva mai fatto. Alla fine dei processi ero soddisfatta perché quelle condanne stabilivano che la violenza non è uno strumento legittimo per affermare un ideale ma dal punto di vista personale non avevano forma risarcitoria. Io non stavo meglio sapendo che un altro soffriva». Sono quelle che Moro definisce le «scorie radioattive di un’ingiustizia piccola o grande che sia» che restano addosso sia alla vittima sia all’autore del reato.
Quel percorso doloroso e silenzioso è diventato nel 2016 “Il libro dell’incontro” che racconta il cammino di Agnese Moro, Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, di altre vittime e di alcuni ex militanti della lotta armata: da Valerio Morucci ad Adriana Faranda, da Maria Grazia Grena a Franco Bonisoli. Proprio da quest’ultimo ha preso spunto Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire, per scrivere “Un’azalea in via Fani”, che ha «il merito di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia», come disse Agnese Moro presentandolo.
Parlando degli incontri con gli ex terroristi la figlia dello statista dice: «Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme». E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che «queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza».
Come ricorda spesso Nicodemo Oliverio, allievo di Moro alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento «l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui».
La figlia dello statista da anni porta in giro per l’Italia la sua esperienza, insieme con altre vittime ed ex terroristi, e dice: «Ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di se stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore». E Giovanni Ricci confida che quando ha incontrato Morucci gli ha detto: «La tua croce è più grande della mia».
Estratto dell’articolo di Massimo Fini per il “Fatto quotidiano” il 18 agosto 2023.
Mi scrive il lettore Maurizio Minghi: “Chiedo cortesemente a Massimo Fini di spiegarmi che cosa c’è di imbarazzante nelle lettere di Moro spedite dal carcere delle Br. Inoltre in che modo, secondo lui, queste avrebbero rovinato la sua eccelsa, secondo me, figura”. Rispondo volentieri: perché in quelle lettere Aldo Moro, pur di salvare la pelle, rinnega le leggi, le Istituzioni, il proprio partito (la Democrazia Cristiana) cui per anni aveva chiesto agli italiani di credere. Esiste un diritto alla paura, ma allora non si può pretendere di guidare un popolo di più di cinquanta milioni di abitanti.
Alzando di molto il livello, è un discorso che vale anche per Benito Mussolini che incitò ed eccitò i ragazzi che andavano a morire per Salò e alla fine cerca di fuggire travestito da soldato tedesco. Più coerenti sono stati Hitler, Goebbels, Himmler e quasi tutta la classe dirigente nazista che si tolse la vita. Commisero efferatezze ripugnanti, ma alla fine bisogna almeno essere all’altezza delle proprie cattive azioni. Ma quelli, si sa, nazisti o no, sono tedeschi, nel male e nel bene. […]
[…] le Brigate Rosse […] almeno nella prima parte della loro storia, furono rispettabili anche se cavalcavano un’ideologia, il marxismo leninismo, che sarebbe morta definitivamente una ventina di anni dopo col collasso dell’Unione Sovietica. […] se si vanno a leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza o anche dei giovani di Salò, ragazzi di poco più di vent’anni, vi si trova una dignità che certamente non c’è nelle lettere dal carcere delle Br del sessantaduenne Aldo Moro. Quelle lettere erano talmente imbarazzanti che l’integerrimo Ugo La Malfa disse: “Se dovessi essere rapito, attribuite le mie lettere alla tortura”.
Dal “Fatto quotidiano” il 18 agosto 2023.
Caro Massimo Fini, sul giudizio di Moro ti vorrei sottoporre due questioni: 1) Non hai mai fatto menzione della scorta. Ciò rende plausibile la ricostruzione che con qualche pretesto qualcuno delle istituzioni lo abbia fatto scendere prima della messa in scena del rapimento; 2) Ha messo in primo piano la vita umana quando si è reso conto del tradimento della Dc e delle varie istituzioni in cui lui aveva fortemente creduto. […]
Enrico Carabelli
Risposta di Massimo Fini
Gentile Carabelli, non ci fu nessun tradimento nei confronti di Aldo Moro da parte delle Istituzioni e della Dc che allora ne incarnava una gran parte. Anzi in quella situazione la Democrazia Cristiana dimostrò quel senso dello Stato che sempre le avevamo rimproverato, quorum ego, di non avere. […]
Ne ripresi i concetti pochi giorni dopo in un articolo pubblicato dal quotidiano socialista il Lavoro diretto da Ugo Intini, con grande coraggio, di Intini intendo, perché i socialisti erano per la “trattativa”: “nelle sue lettere, Moro, a cui per trent’anni è stata attribuita fama di statista insigne, sconfessa tutti i principi dello Stato di diritto, sembra considerare lo Stato e i suoi organismi un proprio patrimonio privato, invita gli amici del suo partito e i principali rappresentanti della Repubblica a fare altrettanto, chiede pietà per sé ma non ha una parola per gli uomini assassinati della sua scorta, anzi l’unico accenno che ne fa è burocratico, per definirli ‘amministrativamente non all’altezza’”, (Aldo Moro: statista insigne o pover'uomo?), il Lavoro, 5 maggio 1978.
Ma lasciando da parte per il momento i principi, guardiamo sul piano pratico che cosa sarebbe successo se lo Stato, impersonato in questo caso dalla Democrazia Cristiana e sorretto dal Pci, avesse accettato di trattare con le Br come volevano molti politici e intellettuali socialisti, alcuni dei quali, in seguito e non a caso, si rivelarono se non sostenitori, simpatizzanti delle Brigate Rosse. Il giorno dopo le Br avrebbero rapito un Andrea Bianchi qualsiasi e lo Stato si sarebbe trovato di fronte l’alternativa: accettare ancora il ricatto o rifiutarlo.
Se l’avesse accettato si sarebbe arrivati, gradino dopo gradino, alla dissoluzione dello Stato, se non l’avesse accettato si sarebbe dimostrato, direi plasticamente, che in Italia ci sono cittadini di serie A e di serie B. E il giorno dopo le Brigate Rosse avrebbero potuto aprire uno sportello con la dicitura, quasi bancaria, “iscrizione alle Br”. E molti cittadini vi ci sarebbero precipitati. Insomma, in un caso o nell’altro, lo Stato avrebbe firmato la sua dissoluzione.
Il dialogo che non c'è. Gli anni di piombo, il macchiettismo e quella pacificazione tradita dalla visione romantica degli estremismi. Benedetta Frucci su Il Riformista il 18 Agosto 2023
L’avvento del Governo Meloni ha riportato in auge il dibattito sugli anni di piombo, un capitolo di storia con cui il Paese non ha fatto ancora e fino in fondo i conti.
Polemiche e accuse incrociate hanno ridotto però a macchiettismo quello che poteva essere un sano dibattito sugli estremismi che hanno attraversato il Paese, anziché cercare di aprire un confronto abbandonando lo scontro ideologico.
Di recente, in un’intervista rilasciata a Libero, il Viceministro Galeazzo Bignami ha parlato di un episodio terrificante della sua adolescenza: a 14 anni, ha raccontato l’esponente di FdI, un gruppo di ragazzi della Fgci entrò nella sua classe, chiedendo chi fosse Bignami. Lui alzò la mano e il risultato fu che venne messo al guinzaglio e trascinato a quattro zampe con un cartello al collo con su scritto “fascista”.
Gli anni di piombo erano finiti, ma il clima nella rossa Bologna a quanto pare non era cambiato.
Prevengo già le obiezioni: Bignami è quello che si è travestito da nazista per Carnevale, non importa se si è scusato. Contro obiezione: chi ha a cuore la democrazia, non approva la violenza neppure contro chi abbraccia con uno “scherzo” di pessimo gusto ideologie terribili.
Torniamo quindi al racconto del sottosegretario. O meglio, alla reazione. Quella del deputato del Pd De Maria, il quale sostiene che si sarebbe trattato di un fatto isolato e personale perché la FGCI non sarebbe stata protagonista di episodi di violenza politica in quegli anni.
Ebbene, la pratica di appendere al collo il cartello con scritto fascista era largamente usata dai giovani di estrema sinistra negli anni di piombo. A volte gli scontri si limitavano (da ambo le parti) a umiliazioni e botte. Altre volte, ci scappava il morto. Fu quella la sorte di Sergio Ramelli, che prima di essere massacrato a colpi di chiave inglese fu oggetto proprio di questa democratica usanza.
Ecco, che siano stati o meno i giovani comunisti o i giovani missini o esponenti di gruppi autonomi che nulla avevano a che fare con Pci e Msi a compiere atti di violenza in quegli anni, De Maria non ha centrato il punto: quel racconto di Bignami avrebbe potuto essere l’occasione infatti per riaprire un confronto da ambo le parti su quella stagione terribile.
Ci ha provato anni fa da sinistra Luca Telese, con il suo bellissimo “Cuori neri”, un’antologia delle storie dei ragazzi di destra morti negli anni di piombo.
Ci ha provato qualche mese fa la sottosegretaria Paola Frassinetti che si è recata a Milano a commemorare Fausto e Iaio, i due giovani di sinistra uccisi dai fascisti durante gli anni di piombo. Lo ha fatto Beppe Sala, ricordando Sergio Ramelli.
Entrambi sono stati oggetto di attacchi scomposti.
E di poca solidarietà.
Sembra quasi che la pacificazione in questo Paese non sia possibile: da un lato perché mantenere alto il livello dello scontro dà argomenti a chi argomenti non ne ha, dall’altro perché nel retro pensiero mai confessato di chi quegli anni li ha vissuti e se li è lasciati alle spalle, c’è talvolta un giustificazionismo alla violenza e una visione romantica degli estremismi o ancora perché, come nel caso Di Maria, si pensa ancora a difendere quella che fu la propria parte anziché provare a instaurare un dialogo. Benedetta Frucci
(askanews il 9 maggio 2023) - "Le stragi” del terrorismo "talvolta sono state compiute con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa; con la violenza politica, tra giovani di opposte fazioni che respiravano l'aria avvelenata di scontro ideologico". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo.
"Le cifre di quei tragici eventi sono impressionanti: quasi 400 vittime per il terrorismo interno, ai quali vanno aggiunti i caduti per il più recente fenomeno del terrorismo internazionale", ha ricordato il capo dello Stato aggiungendo che "ciascuno di loro fa parte, a pieno titolo, della storia repubblicana".
Aldo Moro, il presidente del dialogo: 45 anni dopo quel 9 maggio che cambiò la storia. La rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 14 Luglio 2023
Da dove iniziare per cercare di raccontare una figura come quella di Aldo Moro? È stato, ed è tuttora, uno degli uomini politici più amati dagli italiani. Padre costituente, presidente del Consiglio, più volte ministro e storico leader della Democrazia Cristiana. Inevitabilmente, quando si parla di Aldo Moro, si rischia di schiacciare il racconto della sua vita su quei drammatici 55 giorni del 1978, quelli che Moro trascorse da prigioniero delle Brigate Rosse e che portarono alla sua morte. Ma la storia umana e politica di Aldo Moro non può esaurirsi nel racconto del suo tragico epilogo. Procediamo dunque per gradi.
Aldo moro nasce in un piccolo paesino in provincia di Lecce, Maglie. Padre pugliese e madre calabrese, di Cosenza (doverosa citazione patriottica). Si laurea in Giurisprudenza a Bari e giovanissimo, diventa professore universitario. Entra nella FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana) diventandone il presidente nazionale. Furono anni decisivi per la sua formazione politica. Stringe una solida amicizia con monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) e inizia a frequentare futuri compagni di strada come Giulio Andreotti, che tra l’altro gli succedette proprio alla guida della FUCI.
Sul finire della guerra nel 1943 partecipa a una serie di incontri in casa di Giuseppe Spataro durante i quali ebbe modo di confrontarsi con gente come De Gasperi, Gronchi, Scelba, Piccioni, Fanfani, Dossetti, Andreotti. Nascono in quel momento le basi della Democrazia Cristiana. Nel ’46 Moro viene eletto all’Assemblea costituente e anche lui venne chiamato a far parte della Commissione dei 75 per redigere materialmente la nuova Costituzione.
Entra a far parte del governo De Gasperi nel 1948 come Sottosegretario agli Esteri. Qualche anno dopo sarà Ministro della Giustizia e poi Ministro dell’Istruzione, introducendo nelle scuole lo studio dell’educazione civica. Fu sua l’idea di utilizzare i mezzi della neonata RAI per contribuire all’alfabetizzazione del Paese attraverso le celebri lezioni del maestro Manzi durante la trasmissione Non è mai troppo tardi.
Tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ’60 è uno dei primi a comprendere la domanda di cambiamento che proveniva da una società italiana in fase di profonda trasformazione. Per interpretare al meglio questa esigenza Moro crede, insieme a Fanfani, che la strada da percorrere sia un accordo con i socialisti di Nenni, con l’obiettivo aggiunto di isolare il PCI. Prende così forma la cosiddetta apertura a sinistra, che costò a Moro non poche incomprensioni con Vaticano e Stati Uniti. In quegli anni ottenne il trasferimento alla facoltà di Scienze politiche alla Sapienza, per poter conciliare al meglio i suoi impegni politici e accademici.
Non lascerà mai la sua cattedra e si dedicherà all’insegnamento fino all’ultimo. Era molto apprezzato dai suoi studenti, anche da chi aveva idee politiche contrapposte, i quali ne riconobbero sempre l’estrema disponibilità al dialogo.
Nonostante le opposizioni interne ed esterne, Aldo Moro riuscì a diventare nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo di centrosinistra. I socialisti entravano a far parte per la prima volta dell’esecutivo con Nenni vicepremier. Il programma politico di Moro era molto ambizioso e riformatore. Ottenne qualche risultato concreto soprattutto nella prima fase. Riuscì a rimanere al suo posto fino alla fine della legislatura del 1968, ma dovette farlo con tre maggioranze diverse. Ricoprirà poi per diversi anni la carica di Ministro degli Esteri.
Sul finire del 1971 rischia di arrivare al Quirinale, quando la sua candidatura viene superata in extremis da quella di Giovanni Leone. Ritorna a palazzo Chigi nel 1974 per formare il suo quarto governo, questa volta con il repubblicano Ugo La Malfa nel ruolo di vicepresidente. È in questo periodo che inizia il dialogo con il PCI di Enrico Berlinguer con il tentativo di avvicinamento tra comunisti e democristiani che passerà alla storia come compromesso storico.
Questo complicato processo subisce una brusca battuta di arresto il 16 marzo del 1978. Quel giorno Giulio Andreotti si presentava a Montecitorio per chiedere la fiducia della Camera e far nascere così il suo quarto governo. Ma quella mattina non verrà ricordata per questo motivo. Mentre il Parlamento è riunito in aula si sparge una notizia che lascia l’intero emiciclo sgomento: Aldo Moro è stato rapito e gli uomini della sua scorta sono stati assassinati. Avviene tutto nei pressi dell’abitazione del presidente democristiano, all’incrocio tra via Fani e via Stresa, dove ad attendere il passaggio di Moro e della sua scorta c’erano le Brigate Rosse. Iniziano così i giorni più tormentati e difficili della nostra Repubblica. Inizia la prigionia di Aldo Moro nel carcere del popolo delle BR. Per 55 giorni si susseguono comunicati dei brigatisti che chiedono in cambio del rilascio la scarcerazione di alcuni compagni. Si cerca disperatamente di trovare il covo dove le BR tengono rinchiuso Moro, Roma è tappezzata di posti di blocco e gli elicotteri della polizia volano senza sosta sulla capitale. Tutti i tentativi falliscono, compreso quello goffo di via Gradoli (confuso con il comune in provincia di Viterbo e la cui storia meriterebbe un capitolo a parte).
Si formano due fazioni contrapposte che verranno definite partito della fermezza e della trattativa. La classe politica si trovava di fronte a un tragico dilemma, indecisa fino all’ultimo su quale linea adottare e mai veramente in grado a mio avviso (vista anche l’eccezionalità della situazione), di comprendere che cosa fare: scendere a patti con i terroristi salvando così la vita di Moro oppure rifiutarsi di farlo e condannare a morte uno dei migliori uomini politici del nostro Paese? Anche papa Paolo VI, amico personale di Moro dai tempi della FUCI come ricordato inizialmente, pronuncia la sua supplica rivolgendosi agli uomini delle BR e chiedendo di rilasciare il prigioniero senza condizioni. Il suo “senza condizioni”, mi permetto di dire, rendeva di fatto vano l’appello del pontefice.
Aldo Moro durante i giorni della sua prigionia scrisse molto e non fece sconti a nessuno. Sentiva di essere stato abbandonato ed espresse parole forti nei confronti dei suoi amici più stretti, che erano anche gli uomini ai vertici dello Stato dai quali dipendevano le sue possibilità di salvezza. Qualcuno iniziò a mettere in dubbio l’autenticità di quelle carte, insinuando addirittura che se davvero fossero state opera di Moro allora questi era da considerarsi in uno stato alterato (forse perché sorpresi dallo stile così diretto, e inedito, del politico pugliese). Ad ogni modo molti studiosi, oltre a riconoscere la grafia di Moro, ne accertarono l’estrema lucidità. Dolcissime invece le lettere che riservò alla moglie Eleonora.
Il 9 maggio si spegne ogni speranza. Franco Tritto, assistente dell’ex premier, riceve la telefonata che mai avrebbe voluto ricevere. Dall’altro capo del telefono il brigatista Valerio Morucci gli comunica il luogo esatto dove si trova il corpo dell’Onorevole Moro: nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani, nel centro di Roma, simbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscure (sede del PCI) e piazza del Gesù (sede della DC). Esistono date che rappresentano uno spartiacque; sicuramente nel nostro Paese vi è un prima e un dopo quel 9 maggio di 45 anni fa. Quel giorno l’Italia perse l’uomo che più di tutti tentò di cambiare e di trasformare la società italiana. La classe politica da quel momento in poi dovrà fare i conti con l’enorme macigno di non essere riuscita a salvare il suo uomo più rappresentativo e probabilmente il suo uomo migliore da una fine tragica, che senza dubbio ha contribuito a fare di un personaggio storico una leggenda.
Come sempre mi piace ricordare, prima di concludere, una delle frasi più famose o di maggiore impatto. Questa di Aldo Moro a mio avviso, riesce a riassumerne efficacemente la profondità di pensiero:
“Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà”.
Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti
45 anni fa l'assassinio. Chi era Aldo Moro, il mite profeta della democrazia incompiuta. Ancoraggio euroatlantico e apertura verso la società: ecco i due pilatri sui quali lo statista edificò la sua idea di Paese ancora oggi attuale. Stefano Ceccanti su L'Unità il 24 Maggio 2023
Una delle preoccupazioni fondamentali di Moro nel periodo costituente, è quella di evitare una chiusura oligarchica del sistema dei partiti, pur uscito forte e legittimato dalla Resistenza. Tale necessità emerge in molti interventi parlamentari, non solo quello molto noto del 22 maggio 1947 a favore dell’emendamento Mortati sul vincolo di democrazia interna alla vita dei partiti, ma anche quelli del 14 ottobre dello stesso anno contro la costituzionalizzazione del voto segreto nell’approvazione delle leggi che eluderebbe “la necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale”, nonché quello del 16 ottobre per non mettere limiti temporali rispetto all’entrata in vigore delle leggi assoggettabili a referendum giacché da subito deve poter emergere “la possibilità di un disaccordo fra la coscienza pubblica e le Camere”. Anche lo scioglimento anticipato, dice il 24 ottobre dello stesso anno, serve soprattutto ad “adeguare la rappresentanza popolare ai reali mutamenti dell’opinione pubblica”.
Una prospettiva di apertura, quella di Moro, che riguarda anche la revisione costituzionale, compresa la possibilità di revisioni puntuali alle formulazioni sui diritti, come precisa il 3 dicembre, giacché, parlando contro un emendamento che vorrebbe rendere non revisionabili quegli articoli, Moro invita a distinguere il nucleo dei diritti naturali che va tenuto fuori dalle “mutevoli esigenze della vita pubblica” dalle loro formulazioni concrete, precludendosi “quelle riforme di dettaglio che attengono a quel tanto di storico e di mutevole che è in questi diritti assoluti”. Ipotesi rimasta astratta fino alla recente costituzionalizzazione del diritto all’ambiente nella parte Principi fondamentali, fin lì immutata.
Questa apertura va di pari passo con la preoccupazione per le divisioni del sistema dei partiti sulle alleanze internazionali, che rendono quella italiana una democrazia difficile senza possibilità reali di alternanza. Per Moro non poteva essere pensata come irreversibile neanche l’adozione della proporzionale come uscita dalla Costituente, come preciserà nell’ampio intervento dell’8 dicembre 1952 alla Camera a favore della legge con premio di maggioranza. Il Costituente la decise come legge ordinaria, ma non volle costituzionalizzarla ritenendo che “dovesse lasciarsi libertà al futuro legislatore di adeguare di volta in volta il sistema elettorale prescelto alla realtà del momento politico”. Ed essa secondo Moro richiede una netta distinzione tra la maggioranza chiamata a governare e la minoranza chiamata a controllare. Certo, la situazione obiettivamente è di lacerazione sulle scelte di fondo che non consente al momento l’alternanza, ma questa condizione che porta attraverso la legge ad una “certa cristallizzazione della situazione politica” è “da addebitare alle forze politiche” che non accettando l’alleanza eurotlantica hanno “introdotto un significato di democrazia che sostanzialmente contrasta con un autentico ideale democratico”.
Nella legislatura successiva, nel corso del dibattito sulle tensioni relative a Trieste il 6 ottobre 1953 alla Camera Moro chiarisce esattamente il senso dell’euroatlantismo, dell’indissolubilità delle due scelte complementari: “questo sistema di integrazione – che noi chiamiamo sistema atlantico – riteniamo che possa essere un contributo alla pace dei popoli” e “abbiamo fiducia” anche nell’ “unità europea”, in un’ “Europa che è per se stessa una struttura anti-egemonica”. Moro vi ritorna poi in un momento delicatissimo, il 29 settembre 1954 sempre a Montecitorio, a ridosso del fallimento della Comunità europea di difesa, ribadendo la validità del disegno. La Ced è caduta per i nazionalismi europei, non certo per l’ “atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’unità europea”, notoriamente favorevole e che “dimostra che questo (loro) intento egemonico non esiste”. Resta decisivo per il futuro “un nucleo europeo dell’alleanza atlantica” che ora si sarebbe chiamata Ced e “che domani chiameremo probabilmente in un altro modo”. Viene poi il momento di un’intesa militare ben più limitata, quella della Ueo, l’Unione Europea Occidentale, e Moro il 23 dicembre 1954 sempre alla Camera ha quindi modo di tornare a chiarire l’impostazione euroatlantica: “La nostra politica ha proceduto in questi anni secondo queste due direttive: formare e rafforzare una solidarietà occidentale in senso generale; inserire, nell’ambito della generale solidarietà dell’Occidente, una particolare comunità europea”.
Da qui la soddisfazione per la chiusura dell’esperimento Tambroni nell’intervento del 5 agosto 1960 sulla fiducia al III Governo Fanfani alla Camera che ottiene l’astensione del Partito Socialista, in cui Moro ben chiarisce che la nuova fase è possibile per le posizioni socialiste su Europa e Nato: la responsabilità richiesta al Partito Socialista non è perché esso “annulli la carica di sinistra ma la riconduca nell’alveo democratico” e quando poi si forma il Fanfani IV con la partecipazione del Psi il 9 marzo 1962 a Montecitorio ribadisce la “non oscillante ed evanescente posizione di politica estera” delle “forze ancorate” al “presupposto dell’autonomia degli interessi nazionali e del loro spontaneo coordinarsi con quelli dei popoli liberi”.
Il governo Moro IV, sorto qualche mese dopo il decisivo referendum sul divorzio, viene presentato dal presidente del Consiglio già come una sorta di ponte verso l’opposizione comunista che ha cambiato posizione sull’Europa e sembra sulla strada di modificare anche quella sulla Nato. Per un verso Moro, nel suo intervento del 2 dicembre 1974 alla Camera, fotografa la realtà, quella di una “democrazia difficile con ridotte possibilità di un vero e continuo succedersi di forze politiche nella gestione del potere” che resta per lui il migliore modello democratico, a causa delle “profonde diversità” che rendono meno credibile “l’alternanza al potere”, ma non si ferma lì, rispetto a possibili iniziative dell’opposizione di un confronto di cui “non solo non abbiamo timore, ma anzi lo ricerchiamo”. È un’unità ricercata con tenacia che Moro poi celebra il 15 febbraio 1977 a Montecitorio, intervenendo sull’elezione diretta del Parlamento europeo che sarà poi operativa nel 1979. Moro sottolinea con soddisfazione che tra le principali forze politiche del Paese vi “è un sostanziale accordo per essere europei, per ritenere che questo è il nostro destino” e che questo si collega a rapporti che “debbono essere fiduciosi ma equilibrati tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America”, un “legame vitale non lo riteniamo in alcun modo in contraddizione con l’autonomia che vogliamo acquisire”. Tra l’ottobre e il dicembre 1977 le Camere voteranno poi solenni mozioni di politica estera in cui le forze politiche che aderiscono alla maggioranza di solidarietà nazionale affermeranno la comune volontà di rispettare le alleanze internazionali dell’Italia. Cominciava così a compiersi l’auspicio di Moro nella seduta della Costituente del 13 marzo 1947 di trovare “nell’atto di costruire una casa comune un punto di contatto, un punto di confluenza” che si era realizzata solo in parte alla Costituente a causa della frattura della Guerra Fredda. Era l’apertura della terza fase della democrazia italiana, dopo il dialogo della Costituente e l’egemonia della Dc nel periodo della Guerra Fredda, che poteva, come ha interpretato in modo pieno e puntuale Ruffilli, finalmente preludere alla fisiologia dell’alternanza.
Tuttavia varie forze erano ancora in campo per impedire, dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, questo esito fecondo, tra cui l’eversione armata. E il modo rallentato con cui ci siamo poi arrivati ha nuociuto gravemente alla qualità dell’esito. Ma Moro ci avrebbe invitato a non piangere sul latte versato e a guardare avanti, come fece con i suoi parlamentari il 28 febbraio 1978, invitandoli a scegliere non una logica testimoniale, minoritaria, ma l’etica della responsabilità. “Io credo che dobbiamo domandarci – disse allora – sempre di fronte anche ai grandi fatti politici, che non sono regolati dalla pura convenienza (io non credo che la politica sia pura convenienza, ha coefficienti di convenienza ma non è pura convenienza; la politica è anche ideale): di fronte a questa situazione vogliamo fare della testimonianza, cioè una cosa idealmente apprezzabile, rendere omaggio alla verità in cui crediamo, ai rapporti di lealtà che ci stringono al Paese, o vogliamo promuovere una iniziativa coraggiosa, una iniziativa che sia misurata, che sia nella linea che abbiamo indicato e sia pure nelle condizioni nuove nelle quali noi ci troviamo?”. Parole che costituiscono tutt’oggi una grande sorgente di ispirazione. Stefano Ceccanti
Cosa ci ha lasciato davvero Aldo Moro, oltre al mistero della sua morte. Sulla morte di Aldo Moro sappiamo quasi tutto, e il “quasi” è più importante del “tutto” ma ormai “solo” da un punto di vista etico. Giampiero Casoni su Notizie.it il 18 Maggio 2023
Senza essere necessariamente complottardi spinti si può affermare in punto di serena morigeratezza che sulla morte di Aldo Moro sappiamo quasi tutto, e il “quasi” è più importante del “tutto” ma ormai “solo” da un punto di vista etico. Nel corso dei decenni di indagini, analisi, retro-pensiero galoppante e e sensi di colpa di un sistema complesso che per Moro fece meno del dovuto, il quadro dell’uccisione dello statista democristiano si è delineato come un dipinto impressionista. Come uno scenario cioè dove il soggetto è ben visibile ma “sfumato” nell’intenzione simbologica a cui deve rimandare.
Ed in questi giorni, in cui la morte di Moro è stata ricordata con meno vigore che nel passato tanto che l’otto maggio è passato con gli stornelli di Gianni Morandi in Senato senza neanche un attimo di commemorazione, è giusto chiedersi cosa ci abbia davvero lasciato quell’uomo saggio. Un uomo che per primo capì la necessità di agganciare la sinistra italiana a ruoli di responsabilità per evitare che cadesse nel “tranello ideologico spinto” del socialismo Urss. E che per questa sua visione modernissima pagò con la vita per cause certe e “mani morte atlantiche” più defilate. Questi sono i giorni in cui, nello scenario politico italiano, la polarizzazione fra destra e sinistra è tornata forte.
Un decennio e passa di populismo e sovranismo
Veniamo da un decennio e passa di populismo e sovranismo ed ormai siamo abituati a considerare la politica come tema social più che come mezzo per realizzare un’esistenza in cui tutti abbiano le stesse possibilità di star bene o quanto meno di lottare equanimemente per farlo. Ma Aldo Moro, che la sventura dei social non la conobbe e che visse in un mondo dove chi sapeva di più aveva il dovere morale di guidare chi sapeva di meno, è stato il totem di un insegnamento fondamentale. E di una condotta che, piaccia o meno, oggi ha portato la politica a contenere e diffondere all’occorrenza gli anticorpi dei suoi stessi eccessi, anche se tu tempi a volte incompatibili con le nostre urgenze di ritorno alla rettitudine.
La riprova? Dopo lustri di estremizzazione e delega alla cosiddetta “volontà popolare” il baricentro del pubblico cimento sta tornando gradualmente ad essere quello di un approccio più pacato alla vita pubblica. Giorgia Meloni, leader di una destra che certo non è mai stata immune da estremismi ideologici, è forse la leader più “moderata” a livello Europeo. Il Partito Democratico di Elly Schlein ha sì ripreso in mano la sua originaria connotazione “pop” e polarizzante, ma nella sostanza è ancora una formazione social democratica. Il centro sta rinascendo come esigenza di equilibrio e il concetto generale di politica sembra essere tornato a considerare la polpa dei temi piuttosto che il loro utilizzo sguaiato a fini pubblicistici.
Sia chiaro: non stiamo descrivendo un nuovo idillio italiano in cui la figura gigante di uno statista del passato ha gettato seme tardivo, consapevole e tenace, ma solo di un graduale e forse indipendente ritorno a quelle precondizioni che però quello statista ebbe il merito di mettere a regime per primo. Certo, di Aldo Moro non ci restano solo esempi fulgidi e indicazioni autorevolissime su come procedere nella nostra vita di sistema complesso. Ci restano anche ombre su cui diverse Commissioni Parlamentari di inchiesta hanno cercato di far luce.
Gli atti desecretati su uno dei misteri italiani
Ed atti che, a partire dal governo Renzi, sono stati via via desecretati, anche se parzialmente. Atti che riportano cose come questa: “Rispondendo, infine, ad ulteriori domande, Adriana Faranda ha detto che il 16 marzo 1978 si trovava in via Chiabrera ad ascoltare le trasmissioni radio della Polizia e dei Carabinieri e aveva il compito di ‘rimettere in piedi’ la colonna romana se l’azione di via Fani fosse finita male e fossero rimasti uccisi i brigatisti”.
E ancora: “Ha affermato che non si era deciso di collocare l’auto col corpo di Moro in punto specifico di via Caetani: si era scelto di lasciarla in un luogo centrale che fosse simbolicamente significativo poiché vicino sia alla sede della DC sia a quella del PCI, senza preordinare esattamente neanche la strada; l’8 maggio venne trovato un posto libero in via Caetani e fu lasciata lì l’auto destinata a occupare il luogo fino al mattino dopo, quando venne sostituita dalla Renault col corpo di Moro”.
Cosa ci ha lasciato davvero Aldo Moro
Questo è il testo integrale della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, istituita con legge 30 maggio 2014, N° 82, XVII Legislatura, relatore e presidente Giuseppe Fioroni, consegnata alle Presidenze il 7 dicembre 2017, pubblica e consultabile. E proprio questo brano ci dice che i brigatisti ed i loro sodali non sbagliarono nel collocare il corpo di Moro dove poi lo lasciarono.
Loro, assassini dentro per morbilità ideologica spinta, non potevano saperlo, che non solo i resti di quell’uomo, ma anche se sue idee avrebbero messo dimora nel punto esatto che sta fra due modi di concepire la politica italiana. Ed oggi ricordarsi di dove sta quella “pianta” e continuare ad innaffiarla è il solo modo per onorare la memoria di Aldo Moro.
CASO MORO. Quel violento e ingiustificato attacco al Colle sul caso Moro. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della deposizione di una corona di fiori sotto la lapide dell’On. Aldo Moro-
Il Capo dello Stato è diventato bersaglio su alcuni organi di stampa per le parole pronunciate durante un convengo sul leader Dc assassinato dalle Br. Francesco Damato su il Dubbio il 14 maggio 2023
Reduce da un convegno su Aldo Moro in cui era stato uno dei relatori e motivato dall’intervento di un “Tizio” - ha scritto lui stesso - intervenuto fra il pubblico per evocare i complici appena lamentati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando al Quirinale ai familiari delle vittime del terrorismo, Domenico Cacopardo ha sferrato un duro attacco al capo dello Stato su ItaliaOggi. Di cui è collaboratore da tempo, e dove ha condiviso la necessità sostenuta dal “Tizio” di fare finalmente i nomi di quanti tradirono lo Stato negli anni di piombo.
«Mattarella - ha scritto Cacopardo, 87 anni compiuti in aprile, già magistrato e collaboratore, con incarichi anche di Gabinetto, di ministri e presidenti del Consiglio di quando lavorava, da Massimo D’Alema a Giovanni Spadolini in ordine alfabetico - ha ancora una volta sbagliato.
Nell’interpretare le sue funzioni e nello svolgerle, Lui è stato eletto presidente della Repubblica, e quindi non può fare proprie le parole in libertà che sono circolate e circolano in giro pr il Paese, si tratti di Brigate rosse, si tratti di mafia. E la sua insinuazione è in sostanza manifestazione di un permanente sospetto, più volte dichiarato non rispondente alla realtà dei fatti dalla Cassazione. Vedi il caso di Mario Mori e collaboratori».
Ma si tratta appunto del generale Mori e dei collaboratori appena assolti in via definitiva dall’accusa di essere stati partecipi della mafia nelle fantomatiche trattative per strappare concessioni allo Stato con le stragi. Qui, a proposito del discorso di Mattarella al Quirinale, si tratta di Moro, al singolare, che nel 1978 i brigatisti rossi riuscirono a catturare fra il sangue della scorta, in una mattanza per strada, e ad uccidere poi anche lui, come un cane nel bagagliaio di un’auto, dopo 55 lunghissimi giorni di prigionia in un covo promosso dai carnefici a “carcere del popolo”.
«Mattarella - ha insistito Cacopardo - è il capo dello Stato e non un Travaglio qualsiasi. E ha quindi il dovere, nel pronunciare determinate frasi, di farle seguire da fatti concludenti, cioè da riferimenti precisi e circostanziati che confermino le sue generiche parole. Altrimenti, ricorda tanto il vizio parlamentare (e palermitano) di mascariare senza aggiungere un briciolo di prova. Ed è giunto il momento che lo faccia: parli chiaro e cessi con le allusioni». Di cui quindi avrebbero ragione a lamentarsi anche i terroristi ancora vivi, e fermi nel sostenere di avere voluto e saputo fare tutto da soli nei terribili anni di piombo.
Trovo alquanto stravaganti questi soccorsi, volenti o nolenti, a parole anch’essi, prestati a tanta e tale gente, anche a costo di attaccare un presidente della Repubblica peraltro palermitano d’anagrafe, vista la citazione della città siciliana fatta tra parentesi da Cacopardo.
Il quale non è il solo, fuori e dentro i giornali, a pensarla così di Mattarella, anche se è stato il solo a scriverlo così esplicitamente e duramente.
Non ho parole per commentare. Le lascio all’immaginazione dei lettori, sulla cui sagacia scommetto, specie se anziani abbastanza per avere vissuto quegli anni terribili prodotti con le loro sole presunte forze dai terroristi.
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Quando Cossiga valutò che Moro fosse già morto. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 10 maggio 2023.
Caro Aldo, insegnavo ai tempi del delitto Moro e tra gli studenti vi era incertezza, Moro era comunque considerato un uomo del potere contro cui bisognava andare. Ricordo lo smarrimento dell’Assemblea degli studenti, si voleva capire e questo fu fondamentale per creare il dialogo e per capire che Aldo Moro era un uomo di dialogo, un uomo che credeva nella democrazia come fonte di riforme ed innovazioni. Oggi la sua figura è quanto mai attuale, Moro ha da insegnare a tutti che i problemi si affrontano con il dialogo. Gianni Mereghetti
Caro Gianni, Aldo Moro era il presidente di un partito che governava l’Italia da oltre trent’anni. Eppure aveva molti nemici. A sinistra e a destra. Per i brigatisti rossi che lo assassinarono, ma non solo per loro, era il dc tentatore che voleva imbrigliare i comunisti nella rete della democrazia, distogliendoli dalla rivoluzione. Ma per la destra era il cavallo di Troia per far entrare i comunisti nella cittadella del potere. La Democrazia cristiana era il partito del centrodestra italiano. Il suo simbolo era lo scudo crociato, che difendeva la civiltà cattolica dai comunisti. Ma la maggioranza dei suoi elettori era molto più a destra della Dc, almeno di come la concepiva Moro. Lo si vide quando la Dc crollò, e a Roma Fini prese il 47% al ballottaggio; ed era il Fini del Duce «più grande statista del secolo», non il Fini del «fascismo male assoluto», che invece prese lo 0,4. Moro era mal sopportato anche da molti votanti del suo partito. Qualcuno, anche a Washington, alla sua morte tirò un sospiro di sollievo. Tra questi non ci fu Francesco Cossiga. Che però — nell’unica delle tante interviste che volle rileggere prima della pubblicazione, cosa che ora chiede pure l’ultimo peone — mi disse che a un certo punto del sequestro si era valutato che Moro fosse di fatto già morto, e salvarlo fosse impossibile. Il sistema non avrebbe potuto reggere all’urto di un Moro liberato. Mentre resse benissimo all’urto di Moro ucciso. Non è vero che la Dc finisce con la morte di Moro. La Dc finisce quando cade il muro di Berlino. Nel frattempo i protagonisti del caso Moro avevano tutti fatto fortuna. A cominciare da Cossiga, che divenne presidente del Consiglio, presidente del Senato e presidente della Repubblica; e da Giulio Andreotti, che visse ancora una lunga stagione di governo.
«La verità è più grande del male»: la lettera inedita di Aldo Moro su Il Domani il 9 Maggio 2023
Pubblichiamo una lettera inedita di Aldo Moro, scritta all’avvocato Giuseppe di Lecce il 31 maggio 1945. Questa insieme ad altre si può trovare sul numero di POLITICA in edicola e online da sabato 13 maggio. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
Pubblichiamo una lettera inedita di Aldo Moro, scritta all’avvocato Giuseppe di Lecce il 31 maggio 1945. L’avvocato (classe 1926), allora studente di Giurisprudenza, aveva conosciuto Moro nel 1944 all’Università di Bari, quando era titolare della cattedra di Filosofia del Diritto. Tra i due nacque un’amicizia profonda, che proseguì negli anni per via epistolare. Un anno dopo Moro fu eletto deputato all’Assemblea costituente e cominciò la sua straordinaria carriera politica. Il resto dell’epistolario inedito sarà pubblicato su Politica in edicola con Domani sabato 13 maggio.
Roma 31/05/1945
Carissimo, Ti ringrazio tanto del saluto che hai voluto inviarmi, con affettuosa cordialità nella lettera di Besegnano. Io son partito da Bari quest’ultima volta con un senso vivo di pena e di gioia. Di pena, perché lasciavo nuovi amici cari; di gioia perché appunto questa amicizia, pur soffrendo della separazione, non può morire. Ecco, io sono diventato più ricco della sola ricchezza che vale la pena di possedere.
Dopo tanti giorni, pure tra l’incalzare di eventi gravi e doveri, quella commozione che provavo nel chiudere un nuovo anno di studio, quella commozione irresistibile che mi prendeva dinnanzi a voi, non si è perduta. Il ricordo di quell’incontro non è passato e non può passare.
Ho trovato degli uomini, dunque; ho scoperto anime umane ed ho fatto perciò la più bella e fruttuosa scoperta che si possa immaginare. Sono entrato in comunicazione con loro. Tutto il resto non conta.
Tanto sangue dietro di noi e tanto, forse, dinnanzi a noi, non contano di fronte a questo fatto che riscatta la vita. Tra tanto male e tanto dolore questa umanità che si ritrova è un annuncio di speranza.
Possiamo forse anche gioire? Non so; ma tutte queste cose sono vere; la vita, con tutto il suo lamento, è una cosa vera. Vale, perciò, la pena di vivere. La verità esiste ed è più grande del dolore e del male. Ricordi qualche volta? Buon lavoro e tanti affettuosi saluti.
Aldo Moro
Ritratto di uno statista ancora da scoprire. Aldo Moro, il mite rivoluzionario che aprì la finestra al vento del ‘68. Franco Vittoria su Il Riformista il 26 Aprile 2023
L’unicità di Moro nella storia della DC sta proprio nell’aver saputo intendere la voce del cambiamento, il radicale mutamento storico che emergeva in quegli anni. Egli rimaneva uomo della Dc (e in questo senso uomo di centro) proprio perché osava proporre alla Dc di ascoltare il linguaggio della novità civile, per poter divenire «alternativa a se stessa». Moro vede il messaggio del ’68 come una nuova connessione tra ideale e politico, come un rinnovamento spirituale e popolare della politica e delle stesse istituzioni.
Il passo sopra riportato, che è di un testimone lucido e autorevole del suo tempo come Baget Bozzo, rende pienamente ragione della misura in virtù della quale Aldo Moro è da considerarsi, sin dai suoi esordi di studioso e uomo politico, un attento interprete, prima che della vita istituzionale, di quella politica e sociale: è un brano scelto non casualmente per introdurre la presente riflessione , il cui scopo è quello di evidenziare come, al di là delle contingenze politiche, l’ispirazione politica dello statista democristiano sia stata coerente con la sua formazione intellettuale. La sua cifra di statista e uomo politico è stata caratterizzata da una costante apertura e dal confronto serrato tra principi ideali – in qualche misura sovrastorici – e la realtà secolare, che, per svariati versi, gli si parava innanzi in guisa conflittuale.
Queste affermazioni sono da considerarsi vere non solo rispetto alla così difficile transizione dal fascismo alla democrazia, quand’anche per l’intero secondo dopoguerra, fino alla trasformazione sociale di cui il ’68 è, al tempo stesso, contemporaneamente, motore e sintomo, su cui il presente articolo vuole focalizzarsi. È in occasione delle trasformazioni delle società di capitalismo avanzato della fine degli anni 60 che il leader democristiano sollecita i suoi compagni di partito a prendere in considerazione un sostanziale cambio di marcia, “ricostruendo” il tessuto morale, la tensione ideale prima della semplice realtà istituzionale di un partito, la Democrazia cristiana, il cui compito, nel delicato frangente determinato dal ‘68, sarebbe dovuto consistere nell’essere all’altezza dei cambiamenti.
Moro e la formazione
Tutto il suo cammino accademico e politico è un continuo rincorrere la centralità dell’umano, della persona, tema che apparteneva alla concezione cristiana della vita ma anche della filosofia razionalistica, si pensi a Kant e al suo “ rispetta l’uomo come fine e non come mezzo”. Egli in un editoriale del Popolo del 13 settembre 1946 scrive dell’ «uomo sociale» e di come «costruire il nuovo Stato sulla base incrollabile della persona con tutte le sue risorse morali e di dare alla vita politica un criterio di misura che ne assicuri costantemente il valore umano». Anche in questo scritto, Moro rincorre l’umano, e lo fa da par suo, chiarendo che solo condannando ogni «statolatria, ogni illimitato potere attribuito alla società organizzata, ogni coattiva limitazione delle visuali e delle naturali espansioni della vita umana, che si rafforza l’autorità dello Stato, se ne interiorizza, per quanto è possibile, il potere vincolante, se ne nobilitano e rendono efficaci le funzioni».
Descrivere la figura complessa di Moro, non è cosa semplice, fin da giovane studioso cercò di interrogarsi sull’importanza della persona rispetto allo Stato, inteso come fondamento essenziale per la conquista cristiana del mondo, e così da giurista si proietta a studiare le ragioni del superamento dello Stato totale, che potrà avvenire solo da un rinnovamento etico e dalla critica della riduzione del diritto a forza. Per troppo tempo si è raccontato di Moro iniziando dalla sua tragica fine, come se non ci fosse un presupposto a rappresentare il pensiero e la politica, e soprattutto le idee di un esponente politico di primissimo piano nel panorama della Repubblica. Questo contributo vuole cercare di rappresentare la complessità della figura morotea, che è legata indissolubilmente alla storia del Novecento. Il passaggio dalla cronaca alla riflessione storica e culturale non è stata una cosa semplicissima in questi anni, il quadro tragico dei cinquantacinque giorni ha per lungo tempo preso il sopravvento sulla statura morale e culturale. Moro docente, fin da giovane, ha tentato una riflessione sul diritto come un continuo cercare una dimensione sociale con lo sguardo alla persona e alle sue relazioni, ed è la sua formazione che sancirà anche il prosieguo dell’attività politica.
Il senatore e docente universitario Roberto Ruffilli, trucidato dalle Brigate rosse, sottolinea che la formazione di Moro – come dimostrano le Lezioni degli anni 40 – è influenzata da un neo-tomismo di marca positivistica, oltre che dallo storicismo vichiano, tracciando in modo netto nella formazione del futuro segretario della Dc la grande lezione montiniana della “spinta al dialogo con il mondo moderno”. Proprio la lezione del futuro Papa Paolo VI accompagnerà la seconda generazione dei cattolici come Moro all’altare della politica come vocazione. Papa Montini non gli farà mai mancare il supporto ideale e culturale. Moro attraverso i suoi studi di filosofia del diritto, scriverà di umanesimo e Stato, che non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona. È significativo a tal proposito il suo intervento all’Assemblea Costituente del 14 marzo del 1947: «Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale».
Da giovane componente della Costituente a leader del partito cattolico
Nel discorso che Moro tenne al Consiglio Nazionale del suo partito nel 1961 c’è la grande attenzione per le masse :«Si comprende bene, perché, pur attenti come siamo ad ogni evoluzione democratica, noi guardiamo con particolare attenzione là dove sono masse di popolo e di lavoratori, là dove sono obiettivamente idealità ed aspirazioni che riguardano l’avvenire della società, là dove si compie uno sforzo che si spera possa inserirsi costruttivamente, completando ed approfondendo, nel complesso dei principi e dei valori della democrazia ancorata alla tutela integrale della libertà politica e della dignità umana». Il 16 marzo del 1959 diventa segretario politico della Democrazia Cristiana . È un uomo politicamente moderato, un costruttore di equilibri, un tessitore instancabile, capace di coniugare le differenze, senza avere l’ansia di apparire. Viene considerato un “ uomo nuovo” e allo stesso tempo, lontano dalle logiche correntizie che inaspriscono i rapporti tra il nuovo campo dei dorotei e il raggruppamento di Iniziativa democratica che fa capo a Fanfani. Moro diventa segretario che non ha ancora compiuto 43 anni.
Il suo storico capo ufficio stampa, Corrado Guerzoni, che gli rimane accanto fino alla sua tragica morte con lucidità descrive la candidatura a segretario nel 1959: fu chiamato, allora, Moro, dicevamo, un uomo che avrebbe dovuto svolgere un ruolo, transitorio, di mediazione tra i belligeranti. Nessuno pensava che sarebbe stato un leader, che ne avesse le caratteristiche, nessuno lo riteneva un uomo d’azione come lo era stato fino a poco prima Fanfani; lo si considerava, lo ripetiamo, un innocuo uomo di riflessione, di ponderazione, utile per abbassare la temperatura, per preparare un congresso. Nel corso degli anni si dimostrerà uomo di riflessione, ma dirigente preoccupato per la dimensione pura della politica, intesa come un processo in divenire, non solo di astratti teoremi, ma di attenzione dell’agire politico. Il più «degasperiano dei dossettiani» già dal discorso di insediamento del VII congresso di Firenze, tenterà, nonostante il complicato rapporto con una parte delle gerarchie ecclesiastiche che avversano sin da subito il disegno moroteo, di tenere insieme il difficile equilibrio tra le correnti e il tentativo di scavare nella possibilità di una piena disponibilità del mondo socialista. Il nuovo segretario cercherà di rinsaldare gli equilibri interni, e sul piano esterno di valorizzare i temi sociali e lo Stato come “regolatore” di un rinnovato processo di sviluppo. Sin dagli anni 60 intuisce che la democrazia dei partiti, organizzata così com’era non avrebbe retto oltre l’urto di una società che chiedeva partecipazione, ma soprattutto, la trasformazione dell’esistente.
Moro «pedagogo della democrazia»
Dopo mesi di silenzio nell’autunno del 1968, con un discorso che non è eccessivo definire storico, tenuto al Consiglio Nazionale del 21 novembre, chiarisce i termini della sua idea di politica: «Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale e al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto del mondo di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia». Moro intuisce l’evoluzione di una società che sta mutando in modo perentorio, e si accorge che il suo partito si riduce a gestire l’esistente, mentre la sua azione culturale e politica chiede una «significativa prospettiva di integrazione umana».
Moro e i cinquantacinque giorni.
Il 9 maggio del 1978 si chiude la stagione della Repubblica dei partiti. Si chiude anzitempo la storia repubblicana dei grandi partiti di massa, il dopo è solo una rincorsa alla resistenza. Nell’intervento al consiglio nazionale democristiano, del 18 gennaio del 1969, Moro parla di distacco tra società civile e società politica, di una certa crisi dei partiti, e invita il suo partito ad aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati, per farvi entrare il vento che soffia nella vita, intorno a noi. Per tutta la vita, Moro si spese per costruire l’unità della Democrazia cristiana, per lui era condizione fondamentale nel rapporto con il Pci per dare vita al governo di solidarietà nazionale.
Unità e difesa della Dc.
Con il discorso del 9 marzo del 1977 («non ci faremo processare sulle piazze»), Moro difende il ministro Gui da una giustizia sommaria, ma soprattutto rivendica con orgoglio il ruolo storico della Dc. Il lascito di Moro è nella sua costante preoccupazione per l’umano, e per la continua conciliazione delle masse con le istituzioni repubblicane. Franco Vittoria
Il sequestro del presidente della Dc. Il rapimento di Moro ha deviato la storia d’Italia: a destra o a sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Novembre 2022
La mattina del 16 marzo, alle 9 e due minuti, le Brigate Rosse bloccarono le due auto con le quali Aldo Moro e la sua scorta stavano dirigendosi a Montecitorio. Una Fiat 130 e una Alfetta. Nessuna delle due era blindata. Fu un inferno di fuoco, durò esattamente tre minuti. I cinque uomini della scorta furono sterminati. Moro, illeso, fu trasferito a forza sulla Fiat 128 guidata da Mario Moretti, cioè dal capo delle Br. Poi fu spostato nel bagagliaio di un furgone e portato al covo nel quale restò prigioniero per 55 giorni, in via Montalcini, al Portuense.
Quel giorno fu deviata la storia d’Italia. A Montecitorio era prevista per le dieci la seduta della Camera chiamata a dare la fiducia al nuovo governo. Era un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che per la prima volta dal 1947 avrebbe ottenuto la fiducia dei comunisti. Il nuovo governo era frutto di un lunghissimo lavoro di mediazione condotto da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sul filo di equilibri difficilissimi. All’ultimo momento Moro, insieme ad Andreotti, aveva modificato la lista dei ministri, riducendo il numero dei tecnici orientati a sinistra ed aumentando il numero degli uomini più conservatori della Dc. Berlinguer si era infuriato e minacciava di non votare la fiducia. Alle 9 e 10 minuti la notizia del rapimento irruppe a Montecitorio. Berlinguer riunì la segreteria del partito e fu deciso di chiedere a Pietro Ingrao, che era il presidente della Camera, e a Fanfani, che era il presidente del Senato, di stringere i tempi del dibattito parlamentare e di votare la fiducia in serata. Berlinguer rinunciò a tutte le sue perplessità e diede ordine ai parlamentari di votare la fiducia. All’una di notte il governo era insediato.
E iniziò a muoversi su due binari. Il primo riguardava proprio il rapimento Moro, e Berlinguer, insieme al segretario della Dc, Zaccagnini (allievo e quasi fratello di Moro), e ai suoi vice (Galloni, Granelli, Bodrato e altri) stabilirono la linea della fermezza. Con le Br non si tratta. Craxi si dissociò. Anche nella Dc qualcuno si scostò dalla linea ufficiale. In particolare Fanfani e i suoi. Vinsero Berlinguer e Zaccagnini. La linea della fermezza fu affidata ad Andreotti e Cossiga che la applicarono con molto rigore. Il secondo binario sul quale si mosse il governo fu quello delle riforme. Anche su questo terreno il Pci prese la guida delle operazioni. In pochi mesi furono approvate alcune riforme importantissime. Prima di tutto l’introduzione dell’aborto (col voto contrario della Dc e cioè con l’opposizione del governo) poi la riforma sanitaria, che introduceva il diritto assoluto alla salute gratuita per tutti, poi la riforma psichiatrica, poi una clamorosa riforma degli affitti (di segno praticamente socialista) cioè l’equo canone, infine la riforma dei patti agrari, che riduceva i poteri dei proprietari di terra. Diciamo che si aprì la più grandiosa e feconda stagione riformista della storia della repubblica. Che si svolse sotto il tiro delle Brigate rosse e in pieno scorrere degli anni di piombo.
Una domanda che nessuno mai si è posto è questa: se Moro non fosse stato rapito, e se dunque la guida della maggioranza di unità nazionale fosse toccata a lui, e non a Berlinguer e Andreotti, si sarebbero realizzate le stesse riforme? Moro in realtà, alla guida della Dc – che dalla fine degli anni Cinquanta fino alla sua morte esercitò in alternanza con Amintore Fanfani – fu sempre un conservatore. Il primo periodo riformista del centrosinistra (con la riforma della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica) avvenne sotto la direzione di Fanfani, non di Moro. Moro era grandioso nelle sue doti di mediazione ma anche nella sua capacità di aggirare gli ostacoli e rinviare i problemi. Era un politico-politico, convinto che per governare l’Italia si dovesse muovere poco mantenendo però sempre una grande apertura mentale. È probabile che un governo di unità nazionale guidato da Moro – e quindi coi comunisti e anche i socialisti in gabbia – avrebbe avuto una carica riformista molto ridotta.
Sarebbe interessante studiare anche questo aspetto, mai esplorato della politica e della storia italiana. Il terrorismo svolse – come si diceva allora – una funzione reazionaria, cioè – per reazione – spinse a destra l’Italia; o invece mise in mora la destra, aiutando oggettivamente una politica di riforme? Ci vorrà molto tempo per capirlo. Moro restò per 55 giorni nella prigione delle Br. Inviò centinaia di lettere polemiche verso tutto l’establishment. Si disse che in quel modo destabilizzò la politica italiana. Non è vero. Rafforzò l’asse tra Dc e Pci. Creando quella amalgama che in parte esiste ancora adesso è il nucleo forte del Pd.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Ricordo di Aldo Moro, il governo non c’è e la corona arriva tardi. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2023
Il governo non ha partecipato alla cerimonia per ricordare il rapimento dell’esponente della Dc e l’uccisione dei cinque uomini della scorta
Il governo non ha partecipato alla commemorazione del 16 marzo, giorno nel quale Aldo Moro venne rapito dal commando brigatista che quarantacinque anni fa uccise anche cinque agenti della sua scorta.
Ieri mattina in via Fani c’erano il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il governatore del Lazio Francesco Rocca, ma all’inizio della cerimonia si scopre che manca il rappresentante dell’esecutivo. Il cerimoniale prevede che vada deposta la corona della presidenza del Consiglio, poi quelle di Camera e Senato, infine l’omaggio cumulativo di Comune, Regione e Città metropolitana.
E solo in quel momento ci si accorge che la corona del governo non c’è. Comincia l’attesa, parte un rapido giro di consultazioni ma dopo 40 minuti si decide di procedere comunque. Solo poco dopo arriva un camioncino scortato dalla polizia con la corona del governo.
Alle 12.20 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni twitta: «Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero barbaramente i 5 uomini della sua scorta. A distanza di 45 anni non dimentichiamo il sacrificio di questi servitori dello Stato e di un uomo delle istituzioni che tanto diede alla Nazione».
A ricordare quanto accadde nel 1978 è anche la nota del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che parla di «una pagina drammatica della storia repubblicana che ebbe un impatto profondo sulla politica italiana e ancor oggi rappresenta uno fra i momenti più dolorosi della storia del nostro Paese. È nostro dovere oggi ricordare e onorare il sacrificio di chi pagò il prezzo più alto per difendere eroicamente la Democrazia».
L'assassinio dell'intellettuale cattolico. Chi era Roberto Ruffilli, il pensatore che anticipò il crollo dei muri. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 25 Aprile 2023
Il giornalista Paolo Giuntella, uno degli amici più stretti di Roberto Ruffilli, era solito dire che, rispetto ai momenti chiave della formazione di ciascuno di noi, i doni ricevuti si devono restituire a trasmettere a nostra volta. Ed è anche per questo che ho ritenuto di promuovere, insieme al prof. Clementi, un seminario che parte dal trentacinquesimo anniversario del suo assassinio (16 aprile) per ragionare sulle riforme, anche tenendo conto della ricorrenza del trentennale del referendum elettorale del Senato (18 aprile).
Mi sono trovato a diciotto anni, nel novembre 1979, dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, ad assistere ad un mio primo convegno politico nazionale ad Arezzo, organizzato dalla Lega Democratica di Pietro Scoppola, che è stato come Aldo Moro docente della nostra Facoltà di Scienze Politiche de “La Sapienza”, e Achille Ardigò, in cui conobbi per la prima volta Roberto Ruffilli, intitolato “La terza fase e le istituzioni”. Il primo passaggio che vorrei affrontare è quello della definizione di “terza fase”. Lo storico delle istituzioni nato a Forlì, allora semplice docente universitario, aveva ad Arezzo il compito di parlare sul tema “Il dibattito sulle istituzioni nell’Italia repubblicana” e, come si può rileggere nel numero del successivo mese di dicembre di “Appunti di cultura e di politica”, la rivista della Lega Democratica, riprese le fila dell’eredità di Aldo Moro, ucciso l’anno precedente. Per Ruffilli “l’insegnamento di Moro pare essere quello di una specie di ritorno alle origini del sistema politico, un ritorno alla ‘tregua’… Il problema è adesso quello di riprendere il lavoro lasciato interrotto alla Costituente per la individuazione di regole comuni del gioco politico democratico”.
Dopo la prima fase del dialogo all’Assemblea Costituente, segnata da un accordo alto sui Principi della Prima Parte della Costituzione ma anche, a causa della Guerra Fredda, da una sfiducia reciproca che si era tradotta in una legislazione elettorale iper-proporzionalista e in una forma di governo debolmente razionalizzata, vi era stata la seconda, quella della centralità democristiana e del cosiddetto bipartitismo imperfetto, con la Dc sempre al Governo e il Pci sempre all’opposizione, ma poi se ne era aperta una terza, una fase di stallo, con le elezioni dei “due vincitori” del 1976, così denominata da Aldo Moro. Di “ritorno alle origini” e di “fase di stallo” parla in ultimo Aldo Moro anche nel suo memoriale scritto durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Ruffilli ritorna costantemente sul pensiero di Moro, affinando progressivamente l’analisi, come segnala Federico Scianò su “Appunti di cultura e di politica” il mese successivo all’uccisione del professore. Secondo Scianò quello che è chiaro nel pensiero di Moro ricostruito da Ruffilli è il poter arrivare alla fisiologia dell’alternanza democratica, igiene della democrazia, mentre Moro non fa alcuna affermazione precisa su come si sarebbero scomposte e ricomposte le forze politiche in un sistema imperniato su una logica del tutto diversa da quella precedente.
Del resto per Moro le novità nel sistema dei partiti non erano figlie solo di una dinamica politica autoreferenziale, ma di un processo di liberazione della società che finiva col mettere in discussione anche vecchie appartenenze e collateralismi. A differenza dei settori più intransigenti del mondo cattolico, come Augusto del Noce, altro docente della nostra Facoltà, che avevano ritenuto di leggere in modo solo negativo quel processo di liberazione, parlando della “società radicale” come un blocco individualistico da combattere, ad esempio promuovendo un referendum per abrogare la legge sul divorzio, Moro ed anche Ruffilli non leggevano così la realtà, preferendo distinguere e praticare l’arte della mediazione. Ruffilli era stato a Forlì tra le poche personalità dell’area cattolica ad esprimersi in dissenso dalla Democrazia Cristiana e dalla Conferenza Episcopale Italiana rispetto al referendum sul divorzio.
Un’esperienza da cui poi si sviluppò la Lega Democratica. Per Aldo Moro, e più in generale per quel filone del cattolicesimo democratico, il nodo non era quello di contrapporsi in blocco alla nuova sensibilità per i diritti, ma di riuscire ad accompagnarla con un “nuovo senso del dovere”, diverso quindi dalla riaffermazione astratta di principi e di vecchie mediazioni datate, ritenute erroneamente immutabili, a cominciare da schemi paternalistici e patriarcali. In questo senso, come ha scritto il sociologo Luca Diotallevi, anch’egli impegnato nella Lega Democratica, il referendum sul divorzio ha rappresentato una presa di coscienza sul versante cattolico analogo a quello che Carniti e Tarantelli (altra vittima delle Br) imposero alla sinistra sui temi del lavoro e dell’inflazione nel referendum del 1985.
Il secondo passaggio che vorrei affrontare, e che parte sempre dal titolo del Convegno di Arezzo, è il tema delle riforme istituzionali. Il punto di svolta di quel convegno intitolato, ripeto, “La terza fase e le istituzioni” fu appunto la consapevolezza che la terza fase, la prospettiva dell’alternanza, potesse e dovesse essere incentivato anche da nuove regole elettorali e istituzionali, e non solo da dinamiche strettamente politiche. Lo spiega bene Leopoldo Elia, sempre nel numero del maggio 1988 di “Appunti di Cultura e di politica”: “più di uno tra noi comprendeva in quegli anni che non bastava insistere nell’attuazione della Costituzione… intravvedemmo che le indicazioni politiche di Moro potevano trovare una vera terza fase in una politica istituzionale nella quale si realizzassero condizioni e regole per una democrazia più idonea a corrispondere alle sue grandi missioni di giustizia e di progresso sociale per l’attuazione del disegno fissato nella Prima Parte della Costituzione”.
Una tentazione, quella del conservatorismo costituzionale, che si ammanta dello slogan dell’attuare inteso in alternativa al riformare, ben criticata da Elia, che è una costante della storia italiana. Da allora Ruffilli sviluppa con coerenza, in particolare su “Appunti di cultura e di politica” questa doppia e simultanea attenzione, per un verso al tramandare il senso profondo delle indicazioni morotee (“Si tenta di cancellare la stessa immagine di Moro”, articolo del marzo 1981; le due immagini di Moro” del novembre 1983) e per altro verso a individuarne precise conseguenze sulla riforma delle regole (“In nome del popolo sovrano” febbraio 1984; “La razionalità istituzionale”, gennaio-febbraio 1988).
Come è maggiormente noto, rispetto a questi articoli sulla rivista della Lega Democratica, queste riflessioni hanno poi trovato i punti di caduta più precisi in due testi editi da Il Mulino nella collana curata con l’Arel, “Materiali per la riforma elettorale” (1987) e “Il cittadino come arbitro” (1988). Nelle conclusioni del primo, Ruffilli segnala che l’aggregazione al centro del sistema politico è entrata in crisi proprio perché ha avuto successo, ormai vi è un consenso all’interno riconosciuto anche all’esterno sulle scelte di fondo di collocazione euro-atlantica delle principali forze politiche, ma che però questo non era in grado di tradursi, a regole invariate, in un sistema di comportamenti, accordi, convenzioni tra le forze politiche, in grado di realizzare un chiaro rapporto tra consenso, potere e responsabilità che faccia del cittadino attraverso l’elezione del Parlamento anche della chiara scelta di una coalizione di Governo per la legislatura. Quello del ruolo del cittadino rispetto alla scelta di una maggioranza è per Ruffilli l’obiettivo gerarchicamente più importante della riforma elettorale e di conseguenti riforme costituzionali.
È il tema trattato in modo ancora più netto nel secondo testo: di fronte all’indubbio “sfaldarsi delle regole, delle convenzioni e dei comportamenti politici” che portano alla “richiesta di deleghe in bianco” e che ci allontanano dalla fisiologia delle grandi democrazie parlamentari che funzionano con coalizioni, dove non è messa in discussione come regola ordinaria la convenzione per la quale la guida del Governo è attribuita per la legislatura al candidato indicato prima del voto da parte del partito più grande della coalizione, l’obiettivo delle riforme è dare centralità alle scelte del cittadino elettore. Prima della caduta del Muro di Berlino esistevano però ancora schegge di resistenza ad una compiuta democrazia dell’alternanza, di colore opposto ma convergenti nelle loro azioni, anche attraverso l’uso dell’assassinio politico, contro i promotori di questo decisivo cambiamento.
In questa chiave, sempre nel numero citato di Appunti del mese successivo, Paolo Giuntella accomuna gli omicidi Ruffilli, Moro, Bachelet e Tarantelli, uomini che avevano saputo anticipare il crollo dei muri, segnalando per inciso, come ulteriore attenzione profetica di Ruffilli quella della consapevolezza dell’importanza della tutela costituzionale dell’ambiente. È del tutto evidente quanto queste acquisizioni di cultura politica abbiano reso possibile la nascita e lo sviluppo del movimento referendario per le riforme elettorali dei primi anni ’90 che ha ottenuto risultati coerenti e positivi per Comuni e Regioni, parziali e contraddittori per il livello nazionale. Anche forse per l’assenza di queste personalità che ci sono state sottratte anzitempo siamo oggi in un cammino ancora pienamente compiuto, in cui dobbiamo inserirci, senza dogmatizzare nessun particolare punto di caduta concreto, ma certo ispirandoci agli stessi principi.
Ezio Tarantelli, l’ultima lezione (e tutta la vita che venne dopo). GIOVANNI BIANCONI su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023
Carole Beebe, vedova dell’economista ucciso dalle Br, si racconta ad Alessandro Portelli nel libro «Sotto un sole metallico» edito da Donzelli
Ezio Tarantelli (1941–1985)
C’era una volta un professore di economia che da ragazzo aveva vissuto il trauma del padre costretto a emigrare per mantenere moglie e figli, e che per riscattare il proprio destino decise non di diventare ricco o avere successo, bensì di aiutare a combattere la disoccupazione. Prima con lo studio: «Quando l’ho conosciuto stava combattendo con le equazioni differenziali, perché lui in matematica era una frana, ma all’università non poteva non capire la matematica»; poi nella collaborazione con il sindacato: «Secondo lui reagiva alle decisioni di altri e chiedeva migliorie, ma non stava nella cabina di regia dove si decideva, e lui diceva “il sindacato deve stare lì, perché ha il potere di chiudere il Paese, allora lo deve utilizzare per costringere alle riforme”».
Potrebbe cominciare così la storia di Ezio Tarantelli, l’economista assassinato dalle Brigate rosse la mattina del 27 marzo 1985, a nemmeno 44 anni d’età, narrata dalla moglie Carole, cittadina statunitense e italiana che ormai ha superato gli ottant’anni e ha cambiato vita due volte; la prima seguendo in Italia il marito conosciuto negli Usa, e la seconda sopravvivendo al suo omicidio, insieme al figlio Luca che aveva appena 13 anni: «Eravamo rimasti noi due soli, da quello che era il progetto. Perché quando ti sposi o ti metti insieme, poi quando hai un figlio, è un progetto... Allora dopo è nato un impegno totale, che non potevano aver distrutto anche Luca, anche quello che è rimasto della famiglia… È stato duro».
Carole Beebe Tarantelli, psicoanalista e deputata per tre legislature (fra il 1987, quando fece parte del gruppo della Sinistra indipendente, e il 1996), si è raccontata ad Alessandro Portelli, già professore di Letteratura angloamericana e tra i fondatori della cosiddetta «storia orale», e ne è venuto fuori Sotto un sole metallico, libro-dialogo il cui titolo rievoca la sensazione provata dalla donna alla notizia di essere rimasta vedova. Era una bella giornata, ma all’improvviso «il sole è diventato metallico, ha perso tutto il suo calore», ricorda.
Ezio Tarantelli fu ucciso nel cortile della facoltà di Economia e commercio, a Roma, dopo aver tenuto una lezione, al tramonto degli «anni di piombo», con le Br ormai pressoché in disarmo; fu designato come vittima perché considerato «uno dei massimi responsabili dell’attacco al salario operaio e alla storia di conquiste politiche e materiali del proletariato nel nostro Paese… non a caso uscito da quel covo internazionale di politiche antiproletarie di oppressione imperialista che è il Mit (lo statunitense Massachusetts Institute of Technology, ndr), una delle centrali a livello mondiale della politica economica e finanziaria del grande capitale multinazionale». E pensare che, rivela Carole, durante una fase degli studi in Inghilterra, Ezio aveva avuto come tutor l’economista marxista Joan Robinson, che «lui adorava».
Ma per i terroristi la realtà è solo quella rappresentata dalle proprie visioni e dai propri simboli, e nel pieno del dibattito sulla riforma della scala mobile (sostenuta da Tarantelli per sconfiggere l’inflazione, nemico dei lavoratori al pari della disoccupazione, ma non nella versione varata dal governo Craxi nel 1984) lo scelsero come bersaglio. Per l’estate dell’85 era fissato il referendum abrogativo proposto dal Pci, il Partito comunista per cui votava il professore «sempre fuori dalla scatola», come dice la moglie, cioè out of the box, che significa «fuori dagli schemi precostituiti»: «Ezio e un gruppo di persone di centrosinistra stavano cercando di vedere di neutralizzare il referendum cambiando il decreto; infatti lui dopo la lezione doveva andare a una riunione… quando è uscito dalla lezione l’hanno ammazzato».
Nei confronti di killer e mandanti la moglie della vittima ha provato sentimenti altalenanti, «mi stavo addentrando su un sentiero di risentimento, di vendetta…», ricorda, ma poi ha cambiato direzione: «C’erano dei punti di contatto con gli assassini, nel senso che… noi eravamo critici del sistema, avevo fatto il ’68 e organizzato i ragazzi poveri contro la guerra in Vietnam, insomma… i brigatisti non erano alieni, ok? E in fondo io penso che questo mi ha salvato».
Questo, e poi l’incontro con altri terroristi in carcere (non quelli che hanno sparato a Tarantelli) nella veste di parlamentare, insieme ad altre personalità che parlavano di riformismo a «una banda di pseudorivoluzionari che prendevano appunti»; un paradosso, o «un’ironia enorme» come dice la donna a cui le Br hanno cambiato la vita per la seconda volta, e che ha reagito continuando a cercare di incidere sul mondo circostante. Per esempio attraverso il lavoro in un Centro antiviolenza sulle donne; un impegno divenuto «il mio canale di lotta, contro la violenza omicida delle Brigate rosse». Una storia che contiene molte storie insieme, e può aiutare a interpretarne altre ancora.
Il libro
Il volume di Carole Beebe Tarantelli «Sotto un 0 sole metallico. La mia vita raccontata a Alessandro Portelli» è pubblicato da Donzelli Editore (pp. 122, euro 24)
Così Mughini raccontò la viltà degli intellettuali verso Moro. Il giornalista, all'epoca, scrisse un pamphlet che venne insabbiato. Dimostrava la doppia morale della sinistra. Massimiliano Parente il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.
«Né con lo Stato né con le Br», facile criticare questa oscena condanna a morte decenni dopo. Era le posizioni della stragrande maggioranza degli intellettuali comunisti in quei 55 giorni in cui fu rapito e infine ucciso Aldo Moro, tra il 16 marzo 1978 al 9 maggio.
Ma perché vi parlo di questo? Perché all'epoca uno dei nostri intellettuali più importanti e liberi, Giampiero Mughini, lavorava come redattore al quotidiano comunista Paese sera. Da cui dette le dimissioni poco dopo. È sempre stata questa la vita di Mughini, stare dove può essere libero, andarsene dove non può, e lo dico intellettualmente parlando, non per chi lo conosce solo per il suo outfit (strepitoso) in televisione (dove va per denaro, giustamente, ma anche lì dicendo sempre quello che pensa, e Mughini è uno che pensa, ce ne fossero di più come lui).
Ma torniamo ad Aldo Moro. Nell'ottobre del 1978 uscì per Sellerio quello che è diventato un j'accuse senza appello contro la classe politica italiana, L'affaire Moro di Leonardo Sciascia. Ma c'è un altro piccolo libro di cui nessuno ha saputo nulla, commissionato nello stesso anno a Mughini da Feltrinelli: Gli intellettuali e il caso Moro. Una volta consegnato, indovinate un po' cosa è successo? Non uscì. O meglio uscì per finta, stampato in duecento copie. Semplicemente perché Mughini, come Sciascia, non risparmiava nessuno.
Oggi è ristampato dalle Edizioni Pedragon, e se fossi un editore come Adelphi lo metterei proprio insieme a L'affaire Moro. Un libro incandescente scritto a caldo, che portò Mughini sulla via, come lui stesso scrive nell'introduzione, del mondadoriano Compagni, addio (pur non essendo mai stato comunista un solo minuto della sua vita). «Purtroppo la dicotomia che mi provavo a vivere in quel 1978, l'essere io un amico e sodale dei socialisti che lavorava tuttavia in un quotidiano comunista la cui fedeltà al Pci era irrinunciabile, era destinata a non reggere».
Non sto qui a riepilogarvi quello che fu la vicenda di Aldo Moro, ma una cosa è certa: pochi ebbero il coraggio di prendere una posizione netta, Mughini fu tra questi. Tanti erano i distinguo per condannare Moro a morte, da parte degli intellettuali sempre organici, infettati dal virus del comunismo. Il germanista e critico Cesare Cases scriveva che «dopotutto il terrorismo minaccia l'esistenza di singoli, il potere quella di tutti», e dunque che Moro muoia. Perfino Giorgio Gaber, nella canzone Io se fossi Dio, scritta con Luporini, canta «che Aldo Moro assieme a tutta la Democrazia Cristiana/ è responsabile maggiore/ di vent'anni di cancrena italiana», e finendo che anche da morto «resta ancora la faccia che era» (Mughini scopre che il testo originario era addirittura «faccia di merda»).
A dire il vero un politico che considerò una trattativa c'era, si chiamava Bettino Craxi. Diventò poi uno dei nostri più grandi statisti, uno che è ancora avanti mille anni luce avanti a ogni nostra sinistra impantanata dentro se stessa, e al quale il popolo italiano ha lanciato le monetine. D'altra parte, come scrive Mughini, «mai e poi mai il Pci avrebbe accettato di averli di fronte quei delinquenti politici il cui linguaggio altro non era se non quello del comunismo staliniano parlato negli anni Cinquanta dai comunisti di tutto il mondo. Temevano i comunisti italiani che da un qualsiasi raffronto con i terroristi rossi dei Settanta sarebbe emerso come gli uni e gli altri appartenessero a un unico e comune album di famiglia».
D'altra parte, aggiungo dal mio punto di vista, questo album di famiglia continua ancora oggi, pur sgangherato e delirante in questi tempi di social e presenzialismi per presentare solo se stessi. C'è una destra che fatica a dichiararsi antifascista (e dovrebbe), come c'è una sinistra maggioritaria che non ci pensa proprio a dichiararsi anticomunista (e dovrebbe). Sempre con l'idea che il fascismo è stato un male (e non c'è dubbio) ma il comunismo no, l'hanno solo applicato male. In ogni caso vi consiglio di procurarvi questo libro del grande Mughini (detta così sembra il Grande Mazinga, ma io sono un figlio degli anni Ottanta, Mazinga lottava per la libertà, insegnata ai giapponesi dagli americani con due atomiche), prima che diventi introvabile, e vi assicuro: ci troverete molte similitudini con la realtà attuale. Per esempio oggi non c'è Moro ma c'è l'Ucraina, e a parte i putiniani ospitati nelle nostre televisioni e sui quotidiani, ci sono i pacifisti del «né con la Nato né con Putin». Stessa roba, ragazzi.
Giorni fluttuanti. Gli intellettuali e il caso Moro, quarantacinque anni dopo. Giampiero Mughini su L’Inkiesta il 17 Marzo 2023.
Nel 1978 Feltrinelli commissionò a Giampiero Mughini un libro intorno a un dilemma: se bisognava pagare un prezzo o no per la vita del politico della DC rapito dalle Brigate rosse. Quel volume fu pubblicato in sole 200 copie ed è rimasto clandestino per oltre quarant’anni. Oggi torna con una nuova edizione (Pendragon) e una nuova introduzione
I 55 giorni che vanno dalla mattina del 16 marzo 1978 alla mattina del 9 maggio dello stesso anno, dal momento in cui un agguato politico criminale mise a morte i cinque uomini della scorta di Aldo Moro fino al momento in cui il suo cadavere venne ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa posteggiata a metà strada tra la sede centrale del PCI e quella della Democrazia Cristiana, sono stati fra i più drammatici e fluttuanti nella storia della Repubblica. E dico fluttuanti perché per uno che durante quei 55 giorni volesse ragionare di quanto stava accadendo, ossia di una gang terroristica che deteneva il presidente della Democrazia Cristiana e che minacciava di ucciderlo se non fossero stati liberati tredici dei loro complici detenuti nelle carceri italiane, ciascun minuto poteva farti dirottare da quello precedente nel senso che da un minuto all’altro poteva arrivare una notizia che arrovesciasse il senso di quanto era accaduto fino a quel momento.
In ciascun minuto di quei 55 giorni poteva arrivare un nuovo “comunicato” delle Br o magari una foto che cambiavano l’ordine dei pezzi sulla scacchiera, in ciascun minuto poteva arrivare una qualche risultante dei 72.460 posti di blocco operati dalla polizia in quei giorni – ovvero del controllo di oltre sei milioni e quattrocentomila persone – che permettesse di arrivare alla “prigione del popolo” in cui era detenuto Moro e salvarlo. Niente, di risultati da quei controlli non ne arrivarono.
Le Brigate Rosse sconfissero persino “il calcolo delle probabilità”, scriverà Leonardo Sciascia a tre mesi dalla morte di Moro in quel suo mirabile L’affaire Moro edito da Sellerio nell’ottobre 1978.
Figuratevi quale fosse la condizione intellettuale del sottoscritto trentasettenne al quale un redattore della casa editrice Feltrinelli aveva chiesto per telefono a inizio aprile (mentre mi trovavo nella tipografia dove si stampava il quotidiano comunista romano Paese Sera di cui ero un redattore) di scrivere a tamburo battente il resoconto di una discussione che aveva nel frattempo acceso alcuni fra i più importanti scrittori e intellettuali italiani, se davvero valesse la pena difendere questo nostro Stato dall’attacco frontale di quelle canaglie, “figli nipoti e pronipoti” del comunismo staliniano. Se ne valesse la pena. Di questo dovevo scrivere a tamburo battente, e dunque magari prima di sapere come quella tragedia si sarebbe conclusa. Ci riuscii, quaranta cartelle fitte fitte consegnate nei giorni in cui si era appena saputo della sorte di Moro e che stando ai patti dovevano essere pubblicate seduta stante.
Accadde invece che i redattori della Feltrinelli con cui avevo avuto a che fare non dessero più segno di vita, se non uno di loro mormorare al telefono che i più comunisti e i più ultrarossi di quella loro redazione erano avversi al mio testo. e finché alcuni mesi dopo non mi arrivarono una decina di copie di un libriccino dal titolo “Gli intellettuali e il caso Moro” che portava come sigla editoriale quella della Libreria Feltrinelli, e che se non sbaglio era stato edito in 200 copie. Un libriccino che in questo mezzo secolo sarebbe rimasto semiclandestino o forse clandestino del tutto, salvo che su Amazon ne comparisse ogni tanto una copia a un prezzo più vicino ai 150 che ai 100 euro.
Una di queste copie l’ha comprata un mio vecchio compare, il libraio antiquario bolognese Piero Piani, il quale ha voluto rieditarlo. Bontà sua. È un libriccino che io stesso avevo come cassato dalla mia memoria. Lo tenevo su uno scaffale alto della mia biblioteca, lontano dallo scaffale dove sono riposti i 35 o 36 libri che ho firmato nella mia vita. Era come se quelle sue 64 paginette non mi appartenessero. Né mai più lo avevo preso in mano e riletto. Solo continuava a bruciarmi l’offesa che mi era stata fatta dalla Feltrinelli in quell’autunno del 1978, e non che sia stata l’unica della mia carriera professionale. Il libriccino a questo punto l’ho letto e riletto, un paio di volte. Confesso che non mi è spiaciuto affatto, per quanto turbinosa fosse la materia con cui cercavo di fare i conti. Non mi è spiaciuto affatto il modo in cui portavo i miei 37 anni. Mi ci ero messo in cammino già allora verso il libro che funge da targa a scandire un prima e un dopo del mio destino, il Compagni addio mondadoriano che avevo covato per dieci lunghi anni. Durante i quali non avevo scritto un solo altro libro.
Non che nel giornale in cui lavoravo io fossi in quei 55 giorni particolarmente puntato professionalmente sul ratto e l’agonia di Moro. Li seguivo passionalmente e angosciosamente, da cittadino della Repubblica. Ne scrivevo magari in prima pagina, ma a dare la linea del giornale erano i fondi del direttore Aniello Coppola, il più liberal dei giornalisti comunisti del tempo. Intellettualmente e ideologicamente ero allora uno e bino. Lavoravo e ricevevo lo stipendio da un quotidiano comunista questo sì, ma comunista non lo ero né lo sono mai stato un solo minuto della mia vita.
Il meglio della mia identità lo diceva il fatto di essere, in quello stesso torno di tempo, un collaboratore assiduo del Mondoperaio mensile diretto da Federico Coen, quella bellissima rivista nella cui redazione incontravi Giuliano Cafagna, Giuliano Amato, Luciano Vasconi, Gino Giugni, Luciano Pellicani, Federico Mancini, Ernesto Galli della Loggia, il giovane Claudio Martelli, e ne sto dimenticando, ovvero il drappello di guerriglieri intellettuali che stava riscattando l’identità del socialismo italiano col sottrarla alla strabordante e ultra trentennale egemonia del comunismo togliattiano. E tanto più che questo neosocialismo s’era fatto orgoglioso in politica dov’era rappresentato dalla prorompente personalità di Bettino Craxi, uno che ai comunisti berlingueriani eccome se non le mandava a dire.
Purtroppo la dicotomia che mi provavo a vivere in quel 1978, l’essere io un amico e sodale dei socialisti che lavorava tuttavia in un quotidiano comunista la cui fedeltà al PCI era irrinunciabile, era destinata a non reggere. Gli attriti tra socialisti e comunisti stavano crescendo a vista d’occhio nella scena pubblica italiana, e il “caso Moro” li stava arroventando dato che Craxi mostrava sempre più di volersi discostare dalla linea della “fermezza” cara al PcI, dall’atteggiamento secondo cui mai e poi mai si poteva fare ai brigatisti l’onore di “riconoscerli” politicamente e questo con l’avviare una “trattativa” sulla vita di Moro.
Mai e poi mai il PCI avrebbe accettato di averli di fronte quei delinquenti politici il cui linguaggio altro non era se non quello del comunismo staliniano parlato negli anni Cinquanta dai partiti comunisti di tutto il mondo. Temevano i comunisti italiani che da un qualsiasi raffronto con i terroristi rossi dei Settanta sarebbe emerso come gli uni e gli altri appartenessero a un unico e comune “album di famiglia”.
Eravamo entrambi ospiti in quei giorni di un dibattito pubblico, non ricordo più se in Toscana o in Emilia-Romagna, quando Piero Melograni, uno dei maestri della mia gioventù, mi sussurrò che di volantini scritti più o meno alla maniera di quelli delle Br ne aveva personalmente diffusi tanti ai tempi in cui lui (nato nel 1930) era un giovane militante comunista.
Deve essere stato uno dei primi giorni di settembre del 1978 quando al Paese Sera mi arrivò il pezzo di un “intellettuale organico” del PCI da mettere in terza pagina. Era uno sproloquio contro Craxi nutrito solo di insulti i più banali, nient’altro che della monnezza intellettuale. A metterlo in terza pagina e titolarlo e tutto, mi vergognavo. Lo feci presente al vicedirettore del giornale, il quale mi disse di lasciar perdere, di metterlo e basta. La mia insofferenza cresceva a vista d’occhio. Mi chiamò Aniello Coppola, che era stato mio amico e che qui ricordo con affetto, a dirmi che mi toglievano dal lavoro della terza pagina e mi mettevano a fare non ricordo cosa. Uscii dalla sua stanza, andai a due stanze di distanza dov’era la mia macchina da scrivere e scrissi in un battibaleno la lettera di dimissioni dal giornale. Era il settembre del 1978, sapevo come pagare il fitto di ottobre e novembre della mia casa romana. Non quello dei mesi successivi.
Tutti egualmente brucianti, gli argomenti all’ordine del giorno in quei maledetti 55 giorni erano tanti. Il più angosciante quello se sì o no patteggiare coi brigatisti, se sì o no dare un prezzo alla vita di Moro col mettere in libertà un qualche numero di brigatisti persino colpevoli di reati di sangue come pure le Br avevano chiesto. Se sì o no accettare questo “scambio” di prigionieri costituiva un dilemma atroce e pressoché inedito per una democrazia occidentale del secondo dopoguerra. Era stato il dilemma vissuto dalla Germania Occidentale dopo che il 5 settembre del 1977 i terroristi ultrarossi della RAF (la formazione creata nel 1970 da Hans Baader e Ulrike Meinhof) sequestrarono il presidente della Confindlstria tedesca Hanns-Martin Schleyer dopo aver ucciso il suo autista e i tre agenti.
Da “Gli intellettuali e il caso Moro”, di Giampiero Mughini, Pendragon, 88 pagine, 12,35 euro
4 dicembre 1977. Storia della vignetta di Forattini su Berlinguer che seppellì il compromesso storico. Forattini su “Repubblica” ritrae il leader del Pci in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Duccio Trombadori su L'Unità l'8 Luglio 2023
L’indimenticabile e maledetto 1977. Il PCI, dopo un balzo elettorale che lo aveva portato quasi alla pari con la DC, sosteneva con l’astensione parlamentare (la “non sfiducia”) un governo monocolore presieduto da Giulio Andreotti, con l’impegno a fronteggiare una assai brutta situazione economica e sociale (inflazione, recessione, debito pubblico) in presenza di una strisciante guerra civile alimentata, se non auspicata, da varie forze interne e internazionali, con la presenza di gruppi estremisti armati, di sinistra e di destra, infiltrati e organizzati, in parte clandestini, nel mondo del lavoro e in quello studentesco, che scuotevano seriamente le fondamenta delle istituzioni democratiche.
Berlinguer, con equilibrio e tenuta ideologica, aveva intrapreso e sostenuto la controversa politica di ‘austerità’ (condizione necessaria per affrontare la crisi) generando malumori esterni ma anche interni al Partito comunista e al sindacato CGIL dove, in polemica con Luciano Lama, varie correnti (soprattutto i metallurgici) mal digerivano i sacrifici richiesti e reclamavano a parole una ‘sterzata a sinistra’ sul piano politico. La quale si annunciò il 2 dicembre 1977, qualche giorno dopo l’assassinio brigatista del giornalista de La Stampa Carlo Casalegno, con lo sciopero generale ed una imponente manifestazione nazionale operaia di CGIL-CISL-UIL, che sfilò per le vie di Roma reclamando una svolta nella politica economica.
Fu quella un’evidente “pressione dal basso” sulla politica del PCI considerata troppo “attendista”. A dare manforte ci si mise pure Forattini, che pubblicò una vignetta con Berlinguer in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Quella vignetta produsse il suo notevole effetto. Quasi per reazione a quell’immagine che lo canzonava, il segretario del PCI puntò diritto dove voleva, forse, già andare: vale a dire a far cadere il governo Andreotti per ottenere l’ingresso diretto del PCI in una maggioranza di governo con la DC.
Se questa era l’idea perseguita da Berlinguer, tale non sembrava essere quella di buona parte del PCI, per diverse ragioni, a partire dalla cosiddetta ‘destra’, che temeva di toccare equilibri interni e internazionali: ricordo in proposito il disappunto di Paolo Bufalini, quando esponeva le sue inquietudini in privato, parlando con mio padre, durante gli abitudinari incontri al desco de La Carbonara; ma soprattutto non corrispondeva al progetto di Aldo Moro, il quale, nel suo previdente temporeggiare, se non escludeva le intese con il PCI, aveva però sempre precluso l’ipotesi di un governo con i comunisti.
Forse toccato dalla vignetta di Forattini (che fece clamore, con sommo gaudio di Scalfari per le vendite di Repubblica) o forse no, fatto sta che Enrico Berlinguer da quel momento accelerò la scalata alla ‘stanza dei bottoni’ (fino al punto di dichiararsi favorevole anche ad una improbabile maggioranza “laica” senza la DC) e aprì una crisi di governo -forzando le intenzioni del Presidente democristiano- che iniziò nel gennaio 1978 e si concluse il 16 marzo 1978 sull’onda emotiva del tragico sequestro di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta da parte dei ‘comunisti combattenti’ delle Brigate Rosse.
Perché Berlinguer ebbe timore di vedersi caricaturato con le pantofole e il giornale in poltrona, davanti ad un thè fumante, non mi è mai risultato chiaro. Più chiari e anche purtroppo più infausti mi sono sempre apparsi i risultati della sua reazione a quella simbolica e compromettente vignetta.
Duccio Trombadori 8 Luglio 2023
Il caso Moro e l'avvio del declino dell'informazione in Italia. Ivo Mej nel suo libro, edito da Historica e Giubilei-Regnani, "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia" parla delle conseguenze sull'informazione del delitto più eccellente della storia dell'Italia repubblicana. Andrea Muratore il 25 Marzo 2023 su Il Giornale.
In Italia il caso Moro e i due mesi di infodemia a esso associati hanno cambiato radicalmente l’informazione. Non necessariamente in meglio. Lo fa presente il giornalista di La7 Ivo Mej nel suo libro, edito da Historica e Giubilei-Regnani, "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia". “Il primo libro” – ricorda Mej dialogando con IlGiornale.it – “in cui si analizza l’impatto del caso Moro visto attraverso la lente dei media e della loro evoluzione”.
Mej ricorda che il caso Moro lo ha accompagnato per tutta la vita: “Quando ero al liceo pensavo già di fare il giornalista. Quando rapirono Moro mi feci mandare a fare ottenni un’intervista a Leonardo Valente, capo cronaca del TG1. Volevo capire come funzionavano i meccanismi dei media. Questa lunga intervista che la registrai con su una cassetta per walkman e l’ho tenuta per anni diventando poi ed è stata la base della mia tesi al CSC nel 1982 e della prima edizione del libro, uscita nel 2008 e ora ampiamente ridondante ampliata e rimaneggiata, per la cui pubblicazione ringrazio l'editore Francesco Giubilei".
Perché il 16 marzo 1978 fu il giorno in cui finì l’informazione? Perché, nota Mej, da allora essa “ha subito una mefamorfosi. Prima del rapimento Moro”, nota il giornalista e saggista non c'è bisogno, “qualsiasi tipo di informazione era sostanzialmente o un resoconto notarile del potere politico o, al massimo, aggiungeva una piccola riflessione una sezione di cronaca nera, mettendo da a parte il gossip e tutto il resto”. Con il rapimento, il sequestro e l’uccisione di Moro tutto “è confluito in un "unicuum” spettacolarizzato. E se dapprima “le Brigate Rosse sfruttarono tale spettacolarizzazione”, in seguito essa funse da divenne volano per l’azione politica di manipolazione dell’opinione pubblica avente alla base l’operato del discusso funzionario Usa Steve Pieczenik.
“Nell’infodemia del caso Moro”, nota Mej, “Pieczenik agì approfonditamente preparando l’opinione pubblica a un’eventuale fase di annuncio della morte di Moro” e per completare “il suo vero obiettivo: riportare quella che per lui era la stabilità in Italia”, Paese chiave del campo atlantico. Mej inserisce in questa operazione di spin influenza occulta “il falso comunicato sull’uccisione di Moro e sulla deposizione del suo cadavere nel Lago della Duchessa”, realizzato con ogni probabilità è accertato dal falsario Tony Chicchiarelli, “probabilmente ben conosciuto dai servizi segreti, manovrabile e autore di un falso d’autore” diventato la base per la prova generale per testare l’efficacia dell’opinione pubblica. Il falso comunicato uscì il 18 aprile 1978, stesso giorno in cui fu scoperto il covo brigatista di via Gradoli, a Roma e l’operato di Pieczenik fu quello di “amplificare l’effetto del comunicato per testare la tenuta di media, opinione pubblica e politica allo shock” che poi sarebbe avrebbe davvero colpito caduto sull’Italia il 9 maggio successivo.
Il comunicato del Lago della Duchessa, nota Mej, “è il caso di studio di un contesto in cui qualcosa di completamente incoerente ed illogico (il lago era ghiacciato da mesi) diventa plausibile” o percepibile come veritiero per grazie alla l’amplificazione mediatica in un contesto di infodemia. Mutatis mutandis, nota Mej, è “ciò che accade anche oggi in diversi casi: ad esempio, quando i media dicono che Putin vuole conquistare l’intera Europa ma non riesce in realtà neanche a conquistare il Donbass”, piaccia o meno, si trasforma il pubblico nella vittima di un’operazione di spin influenza politico
In questo quadro “finisce l’innocenza dell’occhio di chi fruisce l’informazione, rimbambito dal rumore di fondo” mediatico. Curioso sottolineare che la televisione resta, come riportava il vignettista Bonvi in una striscia delle sue Sturmtruppen, l’arma più forte, ieri come oggi. Del resto Mej fa un esempio riferibile a quei tempi: “uno dei personaggi più famosi della Tv italiana, Bruno Vespa, diventa noto al grande pubblico con la grande visibilità della famosa diretta del TG1 da 86 minuti e 10 secondi condotta il 16 marzo 1978”, primo giorno di una serie di collegamenti in cui il pubblico era venne indotto portato a incontrare un contesto in cui si respirava “un mix di ansia per il futuro, di angoscia, di pervasività del timore per le conseguenze del caso Moro” ma che resero la sua immagine e il suo stile riconoscibile fino a oggi.
Il caso di Vespa è uno tra molti di quelli di figure diventate celebri sulla scia del caso Moro. Ma a livello complessivo, prescindendo dalla parabola dei singoli personaggi, a quarantacinque anni di distanza ci si accorge che “la notiza del rapimento Moro ha portato tre grandi novità”. Per Mej “ha cambiato i rapporti tra giornalisti e politica, tra giornalisti e notizia, tra giornalisti e opinione pubblica”. Nel primo caso, in prospettiva è partito dall’Italia un percorso che vede i giornalisti “sempre meno cani da guardia del sistema e sempre più cani al guinzaglio, comunicatori o amplificatori di linee decise dall’alto”. In secondo luogo, sulle notizie “i giornalisti sono diventati più opportunisti, selezionando cosa pubblicare e cosa no”. Infine, per sull’opinione pubblica sono piombati gli effetti “dell’esordio dell’informazione in presa diretta”, spesso <mplificatrice di ansie.
Numerosi, poi, negli anni a venire gli esempi di commistione tra politica, servizi segreti, giornalismo e potere economico. E dopo il 1978 è iniziato un vero declino strutturale dell’informazione italiana. Per Mej “il problema italiano è il fatto che editori indipendenti non esistono, tutti i gruppi sono in qualche misura dipendenti o sensibili al potere politico. In America c’è maggiore indipendenza del ruolo della stampa ma anche se decenni di neoliberismo friedmaniano hanno consentito la concentrazione di enorme ricchezze, e anche nei media ci sono sempre più tycoon” che usano i media per la propria agenda politica. Fino ad arrivare all’estremo di casi di testate che diventano megafoni espliciti per operazioni politiche o d’intelligence, “come avviene nel mondo anglosassone per il ruolo di MI6 e CIA nella guerra in Ucraina”, senza che nessuna testata si sforzi di validare le rivelazioni che vengono proposte al pubblico. Un modus operandi che in Italia ha avuto la sua palestra proprio nel Caso Moro. Diffondendosi poi nel resto dell’Occidente. Fino ad arrivare al caos informativo odierno.
Il saggio "Rapimento Moro: il giorno in cui finì l’informazione in Italia", raccoglie l’immediata reazione delle principali testate italiane, analizzandola con lo sguardo di chi ha ora la consapevolezza che la democrazia è un organismo di cui i mezzi di comunicazione di massa rappresentano i vasi sanguigni. Ivo Mej il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
In occasione del 45° anniversario del rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978, pubblichiamo un estratto del libro "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia" del giornalista e conduttore televisivo Ivo Mej, su gentile concessione dell'autore e delle case editrici historica e Giubilei Regnani. Si tratta del primo saggio che ricostruisce la vicenda partendo da un'attenta analisi della documentazione stampa e della copertura televisiva di quei giorni.
Due sono le fasi che normalmente contraddistinguono un evento trattato dai media di informazione in senso stretto:
1. Tempestività nel fagocitare l’evento.
2. Riespulsione dello stesso dopo averlo fatto passare per una fase di prima razionalizzazione.
Nel caso di tutte le edizioni straordinarie trattate, sia televisive che di stampa, questa seconda fase fu davvero minima, soprattutto da parte dell’organo con l’ascolto più vasto, cioè il TG1. Tale atteggiamento ha rivelato di avere valenze ambigue in relazione con i feedback indotti negli spettatori.
Tale fenomeno è stato minore nei quotidiani a causa dell’ovvia diversità strutturale del mezzo e perché il tempo di riflessione è stato in questo caso imposto dalla composizione del giornale e dalla fase di stampa. Tuttavia, bisogna rilevare che il TG2 risentì in misura molto minore dell’improvvisazione che caratterizzò allora il TG1, imponendosi a priori uno spazio di riflessione che indusse i suoi dirigenti a “staccare la spina” per circa quindici-venti minuti dopo lo scarno annuncio della prima notizia.
È altresì rilevabile lo scarso ascolto del telegiornale del secondo canale (circa 100.000 utenti), che denota una preoccupante preferenza del pubblico – già allora – per la “drammatizzazione” della notizia (il TG1 vantava ascolti molto superiori al TG2 nell’ordine di 1 a 10, ma quel 16 marzo il rapporto fu stravolto arrivando a un rapporto di 1 a oltre 400!).
Nei giorni seguenti il rapimento si parlò molto della proposta del più autorevole studioso di mass media vivente, Marshall McLuhan.
Questi, come qualcuno ricorderà, propose un completo black-out informativo su tutto ciò che riguardava le Brigate Rosse. Oggi, come allora, la proposta McLuhan può sembrare adeguata a rigore di logica ma comunque inaccettabile da un punto di vista professionale da parte dei giornalisti e anche etico da parte del cittadino, che ha diritto di sapere cosa accade attorno a lui.
A proposito dell’“opzione McLuhan” e dell’effettivo comportamento dei giornalisti interessati all’epoca dei fatti, ecco un brano dell’intervista realizzata nel 1978 a Leonardo Valente, capo del servizio Cronaca del TG1 durante il rapimento Moro.
«La nostra professionalità era l’unica garanzia reale che c’era per offrire all’utente obiettività e completezza di informazione. La vera professionalità sta nell’onestà del giornalista cioè nel fatto di non fare mai agio rispetto agli elementi di giudizio ad una convinzione personale se non a livello di mediazione culturale che mi pare sia legittima, anzi, indispensabile».
D’altro canto, il dibattito, continuato a lungo sui giornali, per quanto riguardava la Rai ebbe termine subito in virtù di una delibera del Consiglio di Amministrazione che riaffermò essere «compito dei giornalisti quello di garantire l’informazione più ampia, obiettiva e responsabile possibile».
Nel confronto del TG1 con i quotidiani bisogna tenere conto che la valutazione della valorizzazione della notizia avvenne sul fattore tempo nel primo caso, sul fattore spazio nel secondo.
Inoltre, funzione fondamentale della tv è quella di riferirsi al complesso audio visuale di un ipotetico utente.
È necessario anche rilevare il limitato “senso dell’im- magine” o “senso iconico” della informazione televisi- va italiana, cosicché il TG serve solitamente non a for- nire una completa comunicazione “televisiva” ai suoi utenti, ma a offrire loro dosi più o meno massicce di “parlato radiofonico” e di “immagini mute”. Al con- trario, i servizi filmati presenti in un TG dovrebbero essere pensati e realizzati per assumere un significa- to completo e univoco e per trasmettere un messaggio ben preciso composto inscindibilmente di parola e im- magine. Tanto più in occasione di eventi straordinari e di emergenza nazionale come il caso Moro. Eventi così particolari e unici dovrebbero essere pensati e rea- lizzati per assumere un significato completo e univoco e trasmettere un preciso messaggio composto inscindibilmente di parola e immagine.
Estratto dell’articolo di Fabio Martini per la Stampa giovedì 27 luglio 2023.
Una storia di grande politica scivolata nell'oblio per decenni e che ora riaffiora per una catena di casualità. È la storia di un senatore americano di 35 anni, Joseph Robinette jr Biden, che all'inizio del 1978, viene incaricato dal Congresso di svolgere un Rapporto sui Partiti comunisti europei e, in particolare, sul più forte di tutti, il Pci guidato da Enrico Berlinguer.
Sono anni difficili: in tutte le sedi diplomatiche occidentali si scambiano allarmatissimi report sulla possibilità che il Pci possa entrare a far parte del governo. Uno spauracchio che nella primavera del 1976, aveva spinto George H. W. Bush, appena nominato direttore della Cia, a valutare in una riunione top-secret, la possibilità addirittura di una svolta autoritaria in Italia.
E, invece, il giovane senatore Biden conclude così il suo Rapporto al Congresso: «Se il processo della democrazia italiana dovesse portare alla partecipazione del Pci al governo, gli Stati Uniti dovrebbero essere preparati ad agire con prudenza, basandosi su un'attenta interpretazione della situazione italiana».
(...)
La storia che lega Biden, l'Italia e il Pci di Berlinguer è riaffiorata grazie al lavoro di scavo di Lucio D'Ubaldo, già senatore del Pd, direttore del "Domani d'Italia", che ha scoperto negli archivi dell'Istituto Sturzo, una lettera del giovane senatore americano al presidente del Consiglio Giulio Andreotti: «Dear Prime Minister…». Ma per capirla bene questa storia, occorre fare un passo indietro.
Tutto era iniziato nel febbraio del 1978: negli Usa erano tornati al potere i Democratici, non c'era più Henry Kissinger a dettare la linea ed era stato eletto Presidente Jimmy Carter: Joe Biden presenta le conclusioni del Comitato Affari Europei della Commissione Esteri del Senato e in quella occasione ribadisce concetti noti («la partecipazione del Pci al governo è contraria agli interessi americani»), perché permaneva il terrore per il possibile accesso alle informazioni riservatissime sul sistema di sicurezza internazionale.
Ma la sostanza del messaggio di Biden era diversa: in più passaggi si invitava ad una realistica prudenza e il senatore aveva anche programmato un viaggio in Italia, del quale si trova traccia nella lettera spedita al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ritrovata da D'Ubaldo. Che sostiene: «Nel corso degli anni ha preso corpo la tesi di un Moro abbandonato al suo destino, che avrebbe pagato con la vita la sua spericolata apertura al Pci. Una ricostruzione che, descrivendo Moro come temerario, ignora la sua natura: un esempio di superiore attitudine alla moderazione e di forte attaccamento al realismo. Il Rapporto Biden aiuta a capire che nel suo disegno di aprire una nuova stagione, Moro teneva in conto di quel che si muoveva anche Oltreoceano».
L'ambasciatore Usa a Roma Gardner era contrarissimo al Pci, ma il suo vice Allen Holmes scrisse allora un cablo segreto, ora desecretato, davvero sorprendente: «È un errore l'ostilità assoluta al Pci. La faziosità americana in Italia non ha eguali in altri Paesi: non possiamo presumere di sapere cosa vogliono gli italiani, meglio di loro». Una cosa è certa: l'invito di Biden a non demonizzare la presenza comunista in Italia si rivelerà, a suo modo, profetico. Il 16 marzo 1978 Pci entrò a far parte della maggioranza di governo, contribuendo a consolidare la democrazia in Italia nel passaggio forse più difficile di tutto il dopoguerra.
La strage di Fiumicino del 1973: «Vidi 17 miei amici morire. Nessuno ci aiutò e la PanAm mentì». Viviana Mazza e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera domenica 6 agosto 2023.
L’americana Christi Warner aveva 24 anni quando rimase coinvolta nell’attacco palestinese allo scalo romano: era diretta in Arabia Saudita. Cinquant’anni dopo, ha deciso di raccontare la sua verità sul massacro
A quasi cinquant’anni dalla strage di Pan Am a Fiumicino, una settantatreenne che vive ai piedi delle Montagne Rocciose sta cercando di raccontare l’attentato «dimenticato». Christi Warner, che allora si chiamava B.J. Geisler (poi ha preso il cognome del marito e ha cambiato nome perché non le era «mai piaciuto»), è una degli ultimi quattro passeggeri che uscirono vivi dal massacro del 17 dicembre 1973 all’aeroporto romano e una dei pochissimi non ancora deceduti di vecchiaia. Sta pubblicando un libro, Terror on Pan Am Flight 110 , che porterà alla Fiera di Francoforte a ottobre in cerca di un editore internazionale e che vorrebbe trasformare in un film. Battaglia angosciante eredità di una guerra mai finita. Un episodio tragico parte di un momento storico dove la violenza politica, i sequestri di jet, le trappole esplosive rappresentano il quotidiano. Eventi così numerosi che rischiano persino di cancellarne il ricordo tranne per chi li ha vissuti in prima persona come è toccato a Christi.
«Diciassette miei amici morirono» ci dice al telefono da Colorado Springs. «Eravamo un gruppo di 32 persone, viaggiavamo con Aramco, la compagnia petrolifera, per andare a trovare familiari e amici in Arabia Saudita per Natale». Una foto che condivide con noi mostra lei e altri tre passeggeri davanti alla fontana di Trevi il giorno prima del volo.
Christi Warner, allora 24 anni, e Barbara McKinney, 22, il giorno prima del massacro, mentre tirano la monetina portafortuna nella fontana di Trevi: entrambe sopravvissero. A fianco Russel Turner, 12 anni, e la sua accompagnatrice Muriel Berka, 52, che invece rimasero uccisi
Christi, 24 anni, e Barbara McKinney, 22, lanciano monetine nella fontana: sono sopravvissute. Accanto a loro Muriel Berka, 52 anni, e il dodicenne Russell Turner, che non ce l’hanno fatta. «Russell studiava in America e doveva raggiungere i genitori in Arabia Saudita per le feste: era stato affidato a Muriel all’aeroporto di New York». Muriel aveva un genero che lavorava per Aramco, era la vicina di casa e «una seconda madre» per Christi; mentre Barbara, la nipote di Muriel, era stata sua compagna di scuola. Le aveva seguite in vacanza, il suo primo viaggio fuori dagli Stati Uniti e dal Canada.
L’attacco
Tutto accade nel giro di quaranta minuti. I terroristi palestinesi, arrivati con un volo da Madrid, attaccano la sala di transito del terminal alle 12:50-12:51. «Passano solo quattro minuti prima che prendano degli ostaggi». Tutto facile perché i controlli sono minimi e i fedayn riescono a portarsi le armi fin dalla Spagna. Alle 12:55 corrono sulla pista fino al jet Pan Am. Alle 12:56 si sente la prima esplosione. Lanciano una granata a frammentazione e una al fosforo attraverso la porta anteriore, mossa ripetuta da quella posteriore. Non vogliono dare scampo.
L’ordigno raggiunge la cabina di prima classe, l’esplosione investe l’hostess Diana Perez, in piedi davanti alla scaletta. Muore sul colpo mentre la sua collega Lari Hemel perde conoscenza sotto un mucchio di corpi. «Lei si riprende poco dopo e dice loro di togliersi di mezzo, ma sono tutti morti. Afferra una scarpa e s’accorge che dentro c’era un piede», racconta Christi, rimasta in seconda classe. «Avrei dovuto essere in fondo, ma mi ero spostata nel mezzo che era vuoto e avevo convinto Muriel e Barb a venire con me. Volevo dormire: la sera prima eravamo state al Piper, e dato l’embargo sulla benzina (la famosa austerity, ndr ) c’erano pochi taxi. Solo alle 4 ne avevamo trovato uno per arrivare a Fiumicino in tempo per la partenza alle 8. Più tardi mi diranno che la granata era finita proprio sul sedile che avrebbe dovuto essere il mio: resta ustionata in modo orribile la mia amica Robyn Haggard, una ragazza bellissima, un peperino, e sua cugina Bonnie Presnell, che quella sera spirò per le ferite». Ad aggravare la situazione il tipo di sedili altamente infiammabili. Anche per questo tanti passeggeri perirono in pochissimi minuti. Lezione dura. La tragedia porterà l’industria a cambiare i materiali, dopo la causa condotta dall’avvocato Ralph Nader, famoso per l’attivismo per la sicurezza dei consumatori, prima che come candidato alle presidenziali.
La forza della disperazione
La narrazione prosegue. «Muriel è finita a terra per l’impatto dell’esplosione. La prendo in braccio, anche se sono molto più piccola di lei: in momenti come questo dicono che uno sviluppi una forza sovrumana. È proprio così. Avanzo verso la prima classe ma, arrivata alla tenda, questa si apre di botto e mi trova faccia a faccia con uno dei terroristi. C’è un fumo denso, buio pesto. Una coppia salta fuori dal suo nascondiglio e mi travolge, seguita dal guerrigliero. Non riesco più a trovare Muriel. Poi sento la voce del mio angelo custode: “È tempo di andare”». Nulla da fare per Muriel, non uscirà viva dalla carlinga.
A tentoni, Christi raggiunge l’uscita di sicurezza. «Qui vedo Dominic Franco, uno degli assistenti di volo, che si precipita fuori dal bagno fino all’uscita di sicurezza sul lato opposto al mio. Ha tentato di nascondersi nel carrello delle bevande, ma non c’entrava». Fasi ancora più concitate, Christi sbuca sopra l’ala: «Ci sono sette-otto persone là sopra, erano fuori di sé. Una donna ci grida di scendere perché l’aereo può esplodere. Salto giù, la mia borsa si apre rovesciando il contenuto. “Devo prendere il passaporto”, è la mia prima reazione e mentre lo afferro guardo in alto. Un terrorista a due metri da me mi punta contro la pistola e preme il grilletto, ma non accadde niente. Lui sbatte l’arma contro il palmo della mano. Niente ancora. Per tre secondi ci fissiamo, poi corre verso il jet Lufthansa sulla piazzola poco distante». Il commando è pronto per la fuga a bordo del Boeing tedesco.
Abbandonati nel terrore
Quello che dopo cinquant’anni fa male, sostiene Christi, sono le «falsità raccontate da Pan Am» sull’eroismo di alcuni suoi dipendenti. «Ho visto il capitano e il secondo pilota uscire dalla cabina e scappare verso il terminal, non hanno aiutato i passeggeri a scendere dall’ala - è la sua accusa -. È stato l’ingegnere di volo, Ken Pfrang, ad aiutarmi a farlo prima di cercare rifugio. Intanto io continuo a pensare: “Devo trovare Muriel e Barb”. Così risalgo dalla scaletta sul retro, quando avvisto Robyn e Bonnie che scendevano.
Carbonizzate. La pelle si è letteralmente sciolta e pende dalle braccia, i vestiti sono fusi con il corpo, una vista orribile. Su di me tracce di sangue e altro, ciocche di capelli bruciate. Dopo aver inalato tanto fumo tossico riesco a parlare a stento e ripeto ossessivamente “devo trovare Muriel e Barb”. Robyn e Bonnie rispondono che avevano già controllato, dicevano che erano tutti morti. Loro erano scampate nascondendosi in uno dei bagni, mentre nell’altro c’erano due assistenti di volo. Quelle due ragazze avevano trovato la forza per attraversare l’aereo in fiamme e verificare se ci fossero sopravvissuti. Robyn aveva 15 anni, Bonnie 21».
Il silenzio dell’equipaggio
Degli otto piloti e assistenti di volo, tutti sopravvissuti all’attentato a parte Diana Perez, resta oggi in vita solo Barbara Marnock, che «non ha mai voluto parlare di ciò che accadde». «All’improvviso riprendono gli spari», continua Christi. Alle 13:10 il Boeing Lufthansa è circondato dagli agenti, c’è uno scambio di colpi. Un tentativo della polizia di contrastare gli assalitori, una reazione non sufficiente. Christi rimprovera gli errori commessi dalle autorità in questa vicenda. «Oh, ve ne furono tanti. All’inizio nel terminal gli uomini della sicurezza sono rimasti paralizzati, non hanno fatto nulla quando i terroristi hanno spianato i fucili». Anche perché il presidio a difesa di Fiumicino è debole.
In fuga
A questo punto le tre ragazze si rifugiano sotto un furgone. «C’era un poliziotto italiano nascosto. “Tira fuori la pistola, spara, fai qualcosa!”, gli grido. Lui risponde che non vuole essere coinvolto». Correndo con i polmoni pieni di fumo, dopo aver provato diverse porte chiuse, Christi, Bonnie e Robyn riescono a tornare nel terminal. Lari Hemel è l’ultima a emergere viva, uscendo sull’ala. Franco, nascosto dietro la ruota dell’aereo, l’aiuta a scendere. Sono scene infernali. «Trovano una bambina sulla pista e Lari la porta all’Alitalia». Barb - come scopre più tardi - è salva: seduta vicino all’uscita di sicurezza, è stata spinta subito fuori ed è corsa nei campi. Bonnie, invece, muore quella notte.
Un’altra ragione di risentimento è che - sostiene Christi - Pan Am avrebbe «mentito per evitare di risarcire i sopravvissuti, sostenendo falsamente che l’Arabia Saudita, dove avevano comprato i biglietti, non era parte delle convenzioni che garantiscono un massimo di 75mila dollari ai feriti».
Risarcimenti umilianti
Alla fine, Christie ottiene «circa cinquemila dollari, al netto delle spese legali. Robyn riceve quei 75mila dollari, ma spenderà milioni. Quattro anni dopo avrà un terribile incidente d’auto: il marito e il figlio morirono, oggi è quadriplegica e non ricorda più nemmeno di essere stata sposata. Ma rammenta la notte prima che prendemmo l’aereo a Fiumicino, quando andammo a ballare al Piper».
La rabbia di Christi è simile a quella di altri. Per diverse ragioni. L’azione eversiva è costata la vita a una trentina di persone, comprese la guardia di finanza Antonio Zara, il dirigente Eni Raffaele Narciso, Giuliano De Angelis, la moglie Emma, la figlia Monica di soli 9 anni e l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti, il cui corpo è buttato sulla pista di Atene nella fase successiva dell’incursione criminale.
I misteri
I fedayn, dopo l’eccidio, si impadroniscono del jet Lufthansa che è parcheggiato vicino al Pan Am e costringono il capitano a raggiungere prima la Grecia e, al termine di un’odissea nei cieli, il Kuwait dove si consegnano alle autorità che li trasferiranno in Egitto. Mosse accompagnate da negoziati dietro le quinte. I killer sono rilasciati, nel novembre 1974, grazie all’ennesimo dirottamento mentre la presunta mente dell’attacco, il palestinese Abdel Ghaffour, viene eliminato dall’Olp in una strada di Beirut due mesi prima. Metodo brutale per sbarazzarsi di un ex funzionario messosi a disposizione della Libia. Secondo alcune fonti ha preparato l’assalto su ordine della Libia decisa a punire l’Italia per i rapporti petroliferi troppo stretti con sauditi. Uno - non l’unico - dei possibili moventi in un mare di versioni. Saranno forti le polemiche sulle scarse misure di protezione nello scalo nonostante fossero arrivati segnali d’allarme, così come non si spegneranno mai le accuse sui patti sottobanco siglati dai governi italiani con le fazioni mediorientali per essere risparmiati da altre nefandezze. Illusioni. È un’epoca feroce, l’Europa trasformata in arena, l’aviazione civile obiettivo primario e i dirottamenti diventati la tattica principale del terrore. Gli assassini colpiranno ancora e per lungo tempo. Fiumicino sarà insanguinata nel dicembre 1985 dai sicari di Abu Nidal, un volo Pan Am esploderà con oltre 200 persone a bordo nei cieli di Scozia tre anni dopo. E anche qui tornerà la pista libica, certificata da un processo a carico degli agenti di Gheddafi ma contestata da chi pensa che i veri colpevoli siano altri, con sospetti sugli iraniani, su un nucleo palestinese, su figure sfuggenti responsabili di delitti che attendono ancora giustizia.
Estratto dell’articolo di Pierfrancesco Carcassi per corrieredelveneto.corriere.it mercoledì 22 novembre 2023.
Ogni fine settimana a Marghera decine di giovani ballano sotto le casse di Argo 16. Si chiama così un locale che ospita musica dal vivo tra le fabbriche deserte. Difficile capire quanti dei ragazzi che lo frequentano sappiano che quel nome non è casuale: apparteneva a un aereo dei servizi segreti italiani caduto su quella zona industriale 50 anni fa. Il punto dello schianto è segnato da un cippo fatto con un frammento d’ala - “sciagura aerea”, recita la scritta a qualche chilometro dal club.
È l’unico segno di un mistero italiano dimenticato: ci sono voluti decenni per collocare quel bimotore al centro di un intrigo che lega l’esercito clandestino Gladio, il conflitto tra israeliani e palestinesi al tempo della Guerra Fredda e l’ombra di un attentato del Mossad, poi smentito da una sentenza che non è bastata a trovare la verità.
Ma questo gli operai che la mattina del 23 novembre 1973 si videro sfiorare dalla carlinga di un bimotore Dakota C53 non potevano saperlo. Mentre le sirene davano il via al turno del mattino nel formicaio industriale di Porto Marghera, poco dopo le 7.30, un ruggito di motori coprì ogni rumore.
L’aereo bucò la foschia in picchiata, urtò contro la palazzina del centro di calcolo della Montefibre, azienda della plastica, ed esplose a terra lasciando una scia di fuoco e lamiere. «Avevo appena assegnato i lavori agli operai», ricorda Lando Arbizzani (nella foto a sinistra), tra i primi ad arrivare sul posto: «C’erano duecento metri di rottami in fiamme assieme ai resti dell’equipaggio».
Le vittime
Uniche vittime, il pilota Anano Borreo e il secondo Mario Grande, il marconista - cioè l'addetto alle comunicazioni radio - Francesco Bernardini e il motorista Aldo Schiavone. Evitarono gli uffici pieni di impiegati per un soffio. Il portinaio ebbe un infarto. «[…] Indenni i serbatoi di fosgene, gas tossico usato dall’industria, che sorgevano non lontano da lì: all'epoca si parò di un miracolo. L’area si riempì di militari. […] Quel giorno due ufficiali bussarono alla porta di Luigi Borreo, studente ventenne. Lui aveva già intuito perché. Suo padre Anano, pluridecorato nella Seconda guerra mondiale, era il colonnello ai comandi di Argo 16. «Nel mio cuore mio padre è sempre vivo, ricordo il suo eroismo: mi diceva “sai, chi ha il comando deve essere pronto a dare la vita”», ricorda. Oggi fa il dentista. A cinquant’anni di distanza non sa cosa abbia fatto cadere quel Dakota. Negli ultimi tempi il padre si raccomandava: «Non dire mai, Luigi, quando parli con gli amici, dove vado”. “Perché?”. “Sai, ‘sti attentati...».
Le dichiarazioni dello 007
L’aereo, diretto ad Aviano, era caduto pochi minuti dopo il decollo da Venezia. Per l’Aeronautica militare avvenne per “causa imprecisata”. La magistratura archiviò quasi subito di conseguenza. Antonio Bernardini, ingegnere in pensione, si chiede da 50 anni come fosse possibile schiantarsi per un equipaggio così esperto.
Suo padre Francesco era marconista sull’Argo 16. «Ha volato ogni settimana per 32 anni – riflette – quanto è probabile che proprio quel 23 novembre sia capitato un incidente?». Le probabilità crollarono nel 1986: l’ex capo del controspionaggio Ambrogio Viviani in un’intervista a Panorama definì la fine di Argo 16 «un avvertimento del Mossad, un consiglio un po’ cruento per dirci di smetterla con Gheddafi e il terrorismo arabo-palestinese».
Tra israeliani e palestinesi
Il giudice Carlo Mastelloni di Venezia aprì un’inchiesta per strage: interrogò Viviani e lo arrestò per reticenza. Dalle indagini emerse che il 31 ottobre 1973, appena tre settimane prima del suo ultimo volo, Argo 16 era servito per la riconsegna a Tripoli di due terroristi palestinesi che avevano pianificato un attentato contro un aereo israeliano a Ostia. Presi il 5 settembre 1973 e rilasciati il 30 ottobre.
Come “ripicca”; secondo Mastelloni, gli israeliani fecero abbattere l’aereo che li aveva trasportati. La tesi era stata al centro di un’interrogazione del deputato missino Beppe Niccolai nel 1974, ma il governo aveva negato. In quegli anni di scontro tra Israeliani e palestinesi in Europa, tra massacri, omicidi sotto copertura e dirottamenti aerei, l’Italia tentava di uscirne con un “doppio gioco”, il cosiddetto Lodo Moro: fedeltà ufficiale alla Nato e a Israele e, in segreto, accordo con i palestinesi cui veniva lasciava libertà di movimento a patto che non colpissero obiettivi italiani.
[…]
L'aereo fantasma
Durante le indagini gli elementi a supporto del sabotaggio vennero meno. Alcuni militari citarono un fascicolo dei servizi segreti su Argo 16 ma non fu mai trovato. Altri riferirono di una relazione dell’Aeronautica in cui si parlava di «sabotaggio tra la fusoliera e la coda» ma non fu trovata alcuna documentazione scritta. Impossibile fare una perizia: nel 1988 l’aereo era stato rottamato. Le indagini ricostruirono che i rottami rimasero alle Officine aeronavali di Tessera fino al 1976, poi vennero spostati a Treviso, venduti e distrutti. Ma le voci dicono sia rimasto a Tessera molto più a lungo. Nei documenti sullo smaltimento, scrisse il giudice, c’erano dei vuoti.
Segreto di Stato
Quando Mastelloni chiese ai Servizi la documentazione sui viaggi di Argo 16 si trovò davanti a un muro: segreto di Stato. Quel segreto proteggeva Gladio, gruppo paramilitare creato negli anni ‘50 con regia Usa fuori dai limiti della Costituzione contro un’eventuale invasione sovietica. Fu rivelato da Andreotti nel 1990 dopo quasi quattro decenni di silenzio.
Argo 16 serviva a spostare uomini e armi, oltre che per operazioni di spionaggio sui cieli del blocco orientale. Portava civili dal Nord Italia in una base ad Alghero, in Sardegna, dove venivano addestrati», sottolinea l’avvocato Sebastiano Sartoretto, che assistette Luigi Borreo come parte civile. «Questo sarebbe emerso dai movimenti di quell’aereo perciò non si poteva rivelare».
La verità sugli ultimi secondi di Argo sparì con i nastri delle comunicazioni di bordo. Nel 1995 Mastelloni dispose il sequestro delle bobine ma risultarono irreperibili: l’ufficiale dell’Aeronautica che le aveva prelevate dopo l’incidente non sapeva spiegare che fine avessero fatto. Altra stranezza: quando il giudice fece perquisire la casa del capo di stato maggiore dell’Aeronautica furono sequestrati i suoi diari e l’unico mancante era quello del 1973.
Il processo
Nel 1999 iniziò il processo con 22 imputati, i più importanti furono i vertici dei servizi segreti italiani e israeliani: per strage, il capo del Mossad, Zvi Zamir, e il suo referente di Roma, Asa Leven - presunto esecutore - che nel frattempo era morto; il numero uno degli 007 italiani dell’epoca Vito Miceli, per soppressione di documenti, e il numero due Gianadelio Maletti.
[…]
Tutti assolti
In aula si perse il conto dei “non-so-non-ricordo-non-rispondo” dei militari ogni volta che si parlava dell’ipotesi di attentato. Nel 1999 gli imputati furono tutti assolti perché il fatto non sussiste: niente riscontri di sabotaggio, niente soppressione di documenti. La procura fece appello subito, ma poi aderì alle motivazioni dei giudici e rinunciò.
La tesi dell’attentato era stata sostenuta anche dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: «Ne parlò più volte, anche in una lettera a un onorevole, in termini diretti, ma poi ritrattò pubblicamente», sintetizza Sartoretto. L’ultima spiaggia per le famiglie fu rivolgersi al presidente del Consiglio: «Scrivemmo a Prodi nel 2006 per chiedere chiarezza, non ricevemmo risposta. Ho sperato che qualcuno che conoscesse la verità, in fin di vita, decidesse di rivelarla. Ma non è avvenuto» […]
Sa che per queste affermazioni verrà attaccata da tutti? Diranno che lei sostiene che Giulia se l’è cercata.
«Lo so che le femministe tossiche diranno questo. Ma Giulia non se l’è cercata. La colpa è di Filippo. Dico solo che avrebbe dovuto pensare più a se stessa che a Filippo...». […]
Contrappeso al Patto con l'Olp. Cosa prevedeva il lodo Moro: l’accordo segreto con Israele. Ecco i documenti. Il Sismi dal 1975 aveva il compito di raccogliere informazioni sui dispositivi militari di Libano, Siria, Iraq e Egitto. Notizie che poi avrebbe trasmesso al Mossad. Paolo Persichetti su L'Unità il 17 Giugno 2023
Nel 1975 Italia e Israele stipularono un lodo segreto con lo scopo di rafforzare la sicurezza dei confini dello Stato ebraico prevenendo eventuali attacchi militari nei suoi confronti. Si tratta dell’ultima clamorosa novità venuta fuori dalla seconda tranche dell’incartamento Sismi-Olp versato lo scorso 19 aprile 2023 presso l’Archivio centrale dello Stato. Il Servizio segreto militare (Sismi), grazie agli ottimi rapporti intrecciati con le maggiori organizzazioni palestinesi e alla rete di informatori messa in piedi in Medioriente, aveva il compito di raccogliere informazioni sui dispositivi militari di alcuni paesi arabi, in particolare Libano, Siria, Iraq e Egitto. Notizie che poi avrebbe trasmesso al Mossad.
Una sorta di contrappeso all’accordo riservato raggiunto tempo prima con l’Olp e che aveva come obiettivo la messa in sicurezza del territorio italiano e dei suoi interessi oltre i confini nazionali evitando che l’Italia fosse travolta dal conflitto israelo-palestinese, come era già accaduto in più circostanze. In cambio, le autorità italiane avrebbero fornito sostegno internazionale e riconoscimento politico all’attività dell’Olp. Del lodo Israele, definito in codice «Operazione Venti», si trova traccia in una dichiarazione inviata al Cesis dal generale Silvio Di Napoli il 19 settembre 1985 (doc. 192).
Questo documento, il cui contenuto è confermato da una lettera dell’Ammiraglio Fulvio Marini, Direttore del Sismi, alla Presidente del consiglio Bettino Craxi e al Cesis, del 1 ottobre 1985 (doc. 193), consente di precisare meglio quello che fu il cosiddetto «lodo Moro»: una linea di politica estera parallela che prevedeva una serie di accordi informali e riservati con i vari attori del teatro mediorientale. Vennero coinvolti Stati come Israele e organizzazioni politiche che incarnavano forme di Stato nascente, come l’Olp, ma anche altre formazioni minori, con l’obiettivo di smilitarizzare lo scontro e ripoliticizzare il conflitto mediorientale.
Dal 1975 al 1985
Questo secondo versamento, più voluminoso del primo, conta 429 fogli, pari a 163 documenti, anche se quelli indicizzati sono in realtà 193. Ne mancano all’appello 30, solo in parte compensati dai precedenti 32 depositati lo scorso anno e che smentivano clamorosamente la narrazione tossica diffusa dalla destra su un presunto ruolo palestinese nella strage di Bologna: si veda in proposito l’approfondita analisi svolta da chi scrive insieme a Paolo Morando su Insorgenze.net. Considerando i doppioni (ne abbiamo contati tre) e i sei documenti mancanti all’appello, nel complesso per gli studiosi è accessibile un bacino di 186 documenti che sul piano cronologico si integrano perfettamente coprendo circa un decennio, dal 21 novembre 1975 al 3 ottobre 1985.
Non ci sono le informative utili a comprendere il periodo di formazione della politica dei lodi, se è vero – come riferisce Giovannone nel suo interrogatorio del 20 giugno 1984 (doc. 191) davanti al pm Giancarlo Armati – che su mandato del Sismi nel 1972 allacciò rapporti con i vertici palestinesi «disponibili a intavolare un dialogo». Manca ancora un nucleo documentale di almeno tre anni molto importante per capire come lo Stato italiano ha costruito questa diplomazia parallela, il cui attore principale in loco non era l’ambasciatore ma il capocentro del Sismi a Beirut.
Vicenda Toni-De Palo
Un paio di dispacci accennano di sfuggita alla vicenda dei due giornalisti, Italo Toni e Gabriella De Palo, scomparsi in Libano nel settembre del 1980. Anche se molto più interessanti in proposito sono le dichiarazioni del colonnello Giovannone rese davanti al pm, nelle quali si riferisce di un flusso di informative inviate dall’ambasciatore italiano a Beirut, D’Andrea, che seguiva personalmente le indagini. Dispacci intercettati da Giovannone per conto del Sismi. Documenti, non presenti in questo versamento, nonostante le rassicurazioni della presidente del consiglio Giorgia Meloni, ma che dovrebbero trovarsi presso l’archivio del ministero degli Esteri e, almeno quelli intercettati, presso l’archivio dell’Aise che ha ereditato le carte del Sismi.
Abu Nidal e messa in sicurezza Olp
Un altro tema rilevante riguarda la figura di Abu Nidal, ovvero Sabri Khalil al-Banna, l’esponente palestinese che fu rappresentante dell’Olp al Cairo. Brillante, ambizioso, profondo conoscitore della situazione egiziana, prima della sua rottura con i vertici di Fatah a causa della svolta “moderata” impressa da Arafat, fu individuato da Giovannone come una potenziale fonte da arruolare per ottenere informazioni di prima mano. Le carte raccontano dei primi contatti con Nidal, forse addirittura una sua iniziale collaborazione col Sismi, e poi la lunga caccia condotta in stretta collaborazione con l’Olp per prevenire i suoi attacchi e mettere in sicurezza la sede diplomatica palestinese a Roma e i suoi esponenti.
L’Operazione Aquila
Il grosso del carteggio è una integrazione dei dispacci e degli appunti sulla vicenda del sequestro dei due lanciamissili del Fplp a Ortona nel novembre del 1979 e l’arresto di tre autonomi romani e del palestinese Abu Anzeh Saleh. Le nuove carte arricchiscono i passaggi dell’inchiesta inizialmente condotta dal Sismi per comprendere la natura dei fatti e verificare la veridicità della versione palestinese, quindi la laboriosa trattativa che ne seguì e la realizzazione di una seconda operazione speciale, l’«operazione Aquila», finalizzata alla scarcerazione di Saleh. Documentazione che conferma il fitto intreccio tra l’azione del Sismi, il coinvolgimento degli avvocati degli imputati e i passaggi processuali, oggetto della trattativa con l’Fplp che confermano senza appello l’assoluta estraneità dei palestinesi nella vicenda dell’attentato alla stazione di Bologna e il naufragio della operazione di intossicazione messa in piedi dalla destra da oltre un decennio.
Gli Armeni e il lodo Cossiga
In questa ultima tornata di documenti si parla anche del lodo armeno, messo a punto sempre dal Sismi con l’Asala, l’organizzazione armata segreta armena – grazie alla supervisione decisiva dell’Olp – per prevenire eventuali suoi attacchi contro interessi turchi presenti sul suolo italiano e contro sedi diplomatiche o aziende italiane estere. Nell’aprile del 1980 – scrive il generale Ninetto Lugaresi, capo del Sismi, in una lettera al ministro dell’Interno Scalfaro del 19 agosto 1983 (doc. 189) – «allo scopo di bloccare le azioni terroristiche armene contro l’Italia, sono stati presi contatti tramite l’Olp, con l’Asala, conclusi nel dicembre dello stesso anno».
Le date sono significative poiché l’accordo venne stipulato sotto la presidenza del consiglio Cossiga, nello stesso arco di tempo in cui avvenne la strage di Bologna. Si tratta di una ulteriore prova, indiretta e logica, della assoluta assenza di sospetti da parte del Sismi e delle autorità politiche italiane nei confronti dei palestinesi, in caso contrario difficilmente sarebbe stata riposta tanta fiducia ai fini della tutela della sicurezza interna italiana. L’Asala, in realtà, non aveva commesso grosse azioni contro l’Italia, solo l’incendio di un magazzino della Mondadori per rappresaglia nei confronti di una intervista poco apprezzata uscita su Panorama.
Gli attentati più gravi vennero realizzati a Parigi nel 1981, con l’attacco all’ambasciata turca, e nel luglio 1983 con l’assalto all’aeroporto di Orly. Episodio che spiega il ritorno di attenzione da parte del Sismi diretto da Lugaresi e la messa punto del lodo stipulato tre anni prima. Anche in Francia si attivò un’azione politica da parte delle autorità che avviarono una trattativa segreta per accogliere e ricondurre su canali politici le rivendicazioni del gruppo armeno. La vicenda è raccontata da Louis Joinet, il consigliere giuridico di Mitterrand, che fu uno degli artefici principali di questa trattativa, nel suo libro Mes raisons d’Etat, La Découverte, 2013.
Il lodo Israele
Sia il colonnello Giovannone che il generale Di Napoli, avevano opposto il «segreto di Stato» davanti ai magistrati che li avevano interrogati tra il 1984 e il 1985, segreto poi confermato dal presidente del consiglio Bettino Craxi. In una informativa inviata al Cesis, del 19 settembre 1985 (doc. 192), Di Napoli spiegava il contenuto delle «operazioni speciali» di cui era stato a conoscenza nel periodo tra il 30 aprile 1979 e l’11 ottobre dello stesso anno, in virtù dell’incarico che aveva assunto: capo della quinta sezione autonoma della seconda divisione Sismi.
Si trattava della «Operazione Venti condotta dal col. Giovannone di concerto con l’allora Direttore del Servizio, gen. Santovito, finalizzata ad acquisire notizie politico-economiche e militari (con specifica attenzione ai dispositivi militari) a riguardo del Libano, della Siria, dell’Iraq ed Egitto. Tali notizie venivano raccolte a favore del Servizio Israeliano (Mossad) nell’ambito di un particolare rapporto di collaborazione». Paolo Persichetti 17 Giugno 2023
I 32 documenti desecretati. Dietro il lodo Moro l’azione dei servizi segreti. David Romoli, Giordana Terracina su Il Riformista il 7 Febbraio 2023
Cosa è stato davvero il “lodo Moro”? Coinvolgeva direttamente il potere politico o era un accordo semisegreto stretto essenzialmente dall’intelligence? Si trattava di un’intesa vaga e allusiva o di un accordo preciso, dettagliato e ben strutturato? Le informative inviate tra la fine del 1979 e i primi mesi del 1982 a Roma dal capo centro del Sismi in Medio Oriente Stefano Giovannone, già uomo di Aldo Moro nell’Intelligence, permettono di rispondere a queste domande in modo preciso.
Si tratta di 32 documenti che, come scritto nella copertina del fascicolo, afferiscono alla vicenda “Giovannone Olp” e sono stati acquisiti in copia dalla Procura della Repubblica di Roma, relativamente alla strage di Ustica. Desecretati dalla Direttiva Draghi del 2 agosto 2021 e attualmente custoditi presso la Sala delle Raccolte Speciali dell’Archivio Centrale dello Stato. Le informative riguardano tutte la vicenda dei due lanciamissili Sam-7 Strela sequestrati nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 a Ortona, nell’auto di tre autonomi romani che li avevano trasportati fino al porto dove dovevano essere imbarcati per conto di un militante dell’Fplp, organizzazione facente capo all’Olp, Abu Saleh. Il palestinese sarebbe stato a sua volta arrestato il 13 novembre.
I tre autonomi non facevano in realtà parte di organizzazioni terroriste e non erano neppure al corrente di quale fosse il contenuto della cassa che gli era stato chiesto di trasportare. I lanciamissili erano in transito e non dovevano essere utilizzati in Italia. Tuttavia sia Giovannone che l’Olp intravidero subito il rischio che l’incidente potesse danneggiare i rapporti tra palestinesi e Stati europei. L’agente del Sismi, il 15 novembre, definisce Saleh “elemento emarginato dall’Fplp” anche se legato a uno dei suoi dirigenti, Taysir Qubaa, anche perché suo parente. “Arafat, Gufo (nome in codice di un alto dirigente dell’Olp n.d.r.), e altri esponenti Olp sono costernati che compromette, se non addirittura annulla, quanto acquisito durante anni in corso nel campo politico-diplomatico”, scrive l’agente e aggiunge che Arafat e l’Olp intendono “porre sotto accusa “esponenti del Fplp e in particolare Taysir Qubaa” perché sospettano che il fattaccio di Ortona “rientri in complesso iniziative ispirazione iraqena o libica miranti a sabotare attuale linea moderata Arafat.
La preoccupazione sia dell’Olp che di Giovannone è attribuire l’azione a una frangia manovrata da Baghdad o da Tripoli. Se dovessero emergere collegamenti con il terrorismo italiano, l’Olp non ne sarebbe responsabile e neppure a conoscenza. Due giorni dopo, il 17 novembre, Giovannone aggiunge che Quuba potrebbe agire all’insaputa anche del Fplp ma per conto di Gheddafi: “Non escludesi che Saleh possa aver contribuito operazione Ortona su richiesta servizi libici”. In effetti, specifica il colonnello “si sospetta da tempo” che Quuba fornisca uomini alle operazioni organizzate da Iraq e Libia. L’intento è palesemente quello di assolvere preventivamente l’Olp da qualsiasi responsabilità addossando ogni colpa a Quuba e a Saleh, per il cui permesso di soggiorno in Italia si era peraltro prodigato proprio Giovannone. Già nelle informative seguenti, infatti, la longa manus di Gheddafi scompare, Quuba non è più sospetto di doppio gioco e il 20 novembre Giovannone informa che i lanciamissili erano destinati a essere usati contro Israele: “Sono orgogliosi di farmi comprendere che l’operazione costituisce elemento di una offensiva” in territorio israeliano che dovrebbe costituire “decisiva escalation grazie a impiego armi sofisticate e procedure nuove e inattese”.
È il caso di segnalare che il capo dell’Intelligence italiana in Medio Oriente parla di quella che lui stesso definirà il 23 novembre “una rinnovata campagna terrorista in Israele” ma si raccomanda di non avvertire il Paese alleato: “Il capo centro a Beirut sottolinea l’opportunità di evitare divulgazioni di notizie attinenti all’obiettivo (Israele) perché, in caso contrario, potrebbe derivarne un grave rischio personale per lo stesso”. Tre giorni prima, sullo stesso argomento, aveva usato toni anche più drammatici: “Avete praticamente la mia vita nelle vostre mani e tale affermazione non è retorica”. Per la fine del novembre 1979 il quadro è chiarito: i lanciamissili erano solo in transito in vista della campagna di attentati in Israele, i contatti con gli autonomi, che avevano agito in nome della solidarietà, erano stati presi da “frange autonome del Fplp”. Resta il problema principale: la sorte di Saleh e dei due lanciamissili. È un problema che coinvolge direttamente il presidente del consiglio Cossiga.
In una nota del 17 dicembre Giovannone riassume “un difficile colloquio” svoltosi quella stessa mattina tra lui e Qubaa, nel quale il palestinese si è subito accertato che il contenuto di precedenti incontri sia stato “riservatamente riferito al presidente Cossiga”. I palestinesi chiedono il rinvio del processo fissato per il giorno stesso a Rieti “onde consentire che collegio difesa possa ricevere nuovi elementi per dimostrare inconsistenza accusa ‘importazione d’armi’” e soprattutto chiedono l’impegno di Cossiga a vietare che i lanciamissili e relativa documentazione siano “esaminati o consegnati” dai servizi di Israele o degli Usa. Giovannone segnala infine che l’interlocutore “habet minacciato immediata azione dura rappresaglia nel momento in cui venisse a conoscenza rifiuto aut non rispetto impegno richiesto”.
Il 24 aprile Giovannone invia un lungo e dettagliato appunto ai vertici del governo: a Cossiga, ai ministri della Difesa e della Giustizia, al capo di gabinetto della presidenza del consiglio, al segretario generale del Cesis e all’ambasciatore Malfatti. Il testo veicola “le richieste definitive del Fronte”. Il Fplp chiede che il processo d’appello contro i detenuti, condannati tutti in primo grado a 7 anni, si celebri in giugno-luglio e non, come previsto, in settembre-ottobre, che le condanne siano ridotte a quattro anni per i tre autonomi ma che Saleh sia assolto per insufficienza di prove, che ai detenuti siano concessi i benefici già applicati al ministro Tanassi, che i due lanciamissili vengano distrutti rimborsandone il prezzo di 60mila dollari al Fronte stesso. La conclusione è esplicitamente minacciosa: “L’interlocutore ha infine dichiarato che qualora la comunicazione da parte italiana attesa sentirò il 15 maggio p.v. fosse negativa e non desse sufficiente affidamento circa l’accoglimento delle richieste avanzate il FPLP riterrà definitivamente superata la fase del dialogo passando all’attuazione di quelle iniziative già reiteratamente sollecitate dalla base e da una parte della dirigenza”.
L’agente raccomanda una risposta positiva e chiede al governo di adoperarsi presso la magistratura a tal fine. I messaggi sempre più allarmati di Giovannone si susseguono per tutta la primavera finché il 27 giugno, incidentalmente data di Ustica, segnala “Habet informatomi tarda serata che Fplp avrebbe deciso riprendere totale libertà d’azione. Se processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato”. Il processo d’appello inizierà il 2 luglio e si concluderà con l’abbassamento delle pene da 7 a 5 anni. Saleh però resta in carcere. Il 22 maggio 1981 la Corte rigetta l’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Il 4 giugno Giovannone allarmatissimo scrive al Vice Direttore del Servizio che “non si può più fare affidamento su sospensione attività Fplp in Italia decisa nel 1973 e segnala due possibili attacchi: un dirottamento aereo o l’occupazione di un’ambasciata italiana”. Il 14 agosto 1981 Saleh viene scarcerato. I coimputati restano in carcere.
Documenti «declassificati»: dopo il «Lodo Moro» spunta il «Lodo Scalfaro» (con armeni e Olp). Silvio Leoni su Panorama il 20 Maggio 2023.
Così, nell’83, i servizi segreti italiani conclusero un accordo con i terroristi marxisti-leninisti dell’Asala, avviato nell’aprile 1980 per evitare loro nuovi attentati in Italia. Lo dicono le carte desecretate dal Governo e nelle mani di Panorama.it
Non c’è stato solo il cosiddetto «Lodo Moro», quell’accordo, segreto, che prende il nome dall’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, concepito all’inizio degli anni Settanta per cercare di proteggere gli interessi italiani dalla minaccia dalle organizzazioni palestinesi. Che, a più riprese, soprattutto a ridosso delle stragi di Ustica e Bologna, continuavano a ideare attacchi ad aerei, ambasciate ed altri siti dell’Italia tenendo sotto ricatto il nostro Paese. L’intesa, emersa oramai da svariati documenti, concedeva alla galassia terroristica araba di far transitare uomini, armi ed esplosivi attraverso l’Italia. E, in cambio, garantiva che i mujaheddin si sarebbero trattenuti da nuove azioni eversive ai nostri danni. Dalla “declassificazione”, decisa, finalmente, dal governo Meloni, di 163 documenti, coperti fino a pochi giorni fa dal segreto di Stato e protetti, per anni, dalla classifica «Segretissimo», emergono nuove verità. E spunta, dopo il “Lodo Moro”, un accordo “gemello”, sconosciuto fino ad oggi, il “Lodo Scalfaro”, dal nome dell’allora ministro dell’Interno che fu informato, passo passo, dai Servizi segreti italiani dell’intesa che si andava strutturando. Il dossier, recuperato pochi giorni fa dalla ricercatrice Giordana Terracina all’Archivio di Stato, a Roma, e ora in possesso di Panorama.it è un faldone di 429 pagine contenenti cablogrammi, minute e scambi di messaggi tra il colonnello Stefano Giovannone, a capo del centro Sismi di Beirut (soprannominato «Bermude»), e il governo italiano. Documenti che si arrestano cronologicamente davanti all’abisso del 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, per riprendere, poi, a settembre dello stesso anno, ma «saltando» anche la strage di Bologna. Il materiale desecretata porta, come detto, alla luce la circostanza inedita di un altro accordo segreto finora sconosciuto, un gemello del «Lodo Moro», concordato e firmato, anche questo, dai Servizi segreti italiani, autorizzati ad agire in tal senso dal governo di Roma, ma con l’Asala, l’Armenian secret army for the liberation of Armenia, attraverso la mediazione dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, che garantiva la tenuta dell’intesa.
Fondata nel 1975 a Beirut, nel corso della guerra civile libanese, da Hagop Hagopian, il cui nome vero è Haroutyun Takoushian, e l’Asala era un’organizzazione terroristica marxista-leninista responsabile, in 11 anni di intensa attività eversiva, di decine di attentati mortali, soprattutto contro i diplomatici turchi in tutto il mondo. Di quell’accordo con l’Asala fu informato certamente l’allora ministro dell’Interno italiano, Oscar Luigi Scalfaro. Tant’è che in uno delle centinaia di documenti declassificati, quello datato 19 agosto 1983 e che ha come oggetto «Problemi di interesse per la sicurezza dell’Italia», il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare dell’epoca, il generale di corpo d’armata Ninetto Lugaresi, scrive all’allora titolare del Viminale («In riferimento al colloquio che ho avuto stamane con la Signoria Vostra Onorevole…») sollecitando un suo intervento in relazione a tre argomenti: uno è, per l’appunto, l’accordo da raggiungere e firmare per far interrompere la catena di attentati compiuti anche sul suolo italiano dall’Asala. Nella nota indirizzata a Scalfaro, ecco quel che scrive Lugaresi: «Nell’aprile del 1980 (quattro mesi dopo sarebbe esplosa la bomba alla stazione di Bologna, ndr), allo scopo di bloccare le azioni terroristiche armene contro l’Italia, sono stati presi contatti tramite l’Olp con l’Asala, conclusi nel dicembre dello stesso anno con una bozza di accordo (all. 1) dal quale si rileva che all’Italia si chiede di non consentire il transito sul proprio territorio degli emigranti armeni (diretti verso gli Stati Uniti)». L’Asala, che con i suoi attentati puntava a costringere la Turchia ad addossarsi la responsabilità dell’uccisione di 1 milione e mezzo di armeni, a risarcire il popolo armeno e a concedere una porzione di territorio per la creazione di uno Stato armeno, non voleva, ovviamente, che il suo popolo fuggisse all’estero perché questo avrebbe indebolito proprio le battaglie contro la Turchia. Così cercava di ostacolare, in tutti i modi, i cittadini armeni dal lasciare il Paese, anche pretendendo con la forza dagli altri Paesi, Italia compresa, limitazioni o divieti verso gli emigranti. E questo era uno dei punti qualificanti di quello che oggi potremmo chiamare il «Lodo Scalfaro».
«All’epoca», ricorda Lugaresi a Scalfaro, «era stato ottenuto dagli Usa di chiudere gli uffici romani noti che svolgevano nella Capitale le pratiche di immigrazione e di concedere il visto di transito per l’Italia soltanto agli armeni che si presentavano presso l’ambasciata di Mosca». L’ufficiale ricordava anche che «recentemente il console generale Usa ha chiesto al Mae (la Farnesina, ndr) la concessione del visto anche presso l’ambasciata d’Italia a Beirut». E, quindi, Lugaresi metteva in guardia il ministro: «Ritengo che l’attuazione del provvedimento proposto dal console Usa potrebbe avere riflessi negativi ai fini della sicurezza perché potrebbe essere assunto quale pretesto da parte dell’Asala per rinnovare azioni violente contro interessi italiani, compresi quelli, rilevanti, presenti oggi in Libano». La questione ricorda la vicenda dei missili di Ortona.Quattro anni prima, il 7 novembre 1979, tre aderenti ad Autonomia operaia e il giordano Abu Anzeh Saleh, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) erano stati arrestati nel piccolo centro vicino a Chieti per il trasporto in Italia di due missili terra-aria Sam Strela 7. E, poi, erano stati processati e condannati. Per quella vicenda, il Fplp aveva fatto di tutto per evitare il procedimento e la condanna del suo rappresentante, Saleh: in un’udienza del processo, a Chieti, era stato letto un proclama del Fplp che rivendicava i missili come suoi. E accennava a non meglio identificate «intese» che avrebbero dovuto garantirne la restituzione. I nuovi documenti di cui stiamo parlando sembrano riproporre, in fotocopia, un caso assai simile.Solo che stavolta non è l’Fplp ad agitare minacce contro l’Italia per far liberare Saleh, ma l’Asala.Lugaresi, infatti, suggerisce: «Considerato che, a suo tempo, era stata mostrata tolleranza per il semplice transito degli emigranti attraverso l’area internazionale dell’aeroporto di Fiumicino, il ministero dell’Interno potrebbe riesaminare la possibilità di realizzare apposite strutture logistiche in tale area. Ciò eliminerebbe, fra l’altro, la necessità del visto presso le Rappresentanze italiane all’estero e contribuirebbe ad attenuare il rischio di rappresaglia». In allegato, nella nota inviata da Lugaresi a Scalfaro e controfirmata per ricevuta, c’è la bozza di accordo, tradotta, fra il governo italiano e l’Asala esplicato in tre punti:Primo punto: «Il governo italiano si impegna a chiudere tutti i centri emigrazione sul suolo italiano che trattano l’emigrazione organizzata del popolo armeno dai Paesi arabi e socialisti».Secondo punto: «L’Asala si impegna a non proseguire nelle sue operazioni militari dirette contro persone ed interessi italiani in Italia all’estero».Terzo e ultimo punto: «L’Olp garantisce questo accordo e la sua attuazione pratica». Le cinque pagine del documento desecretato, che svela l’esistenza di un «Lodo Scalfaro» tra lo Stato italiano e l’Armenian secret army for the liberation of Armenia, per evitare attentati in Italia, sono accompagnate da una lettera scritta a mano su carta intestata del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare - Ufficio del direttore - il capo della segreteria - nella quale si legge: «Caro Violante, ti restituisco come concordato per le vie brevi la minuta dell’Appunto del sig. Direttore del Servizio per Ministro Scalfaro». Il tema era già stato trattato da Lugaresi. In precedenza, infatti, il 28 febbraio 1982, il direttore del Sismi aveva posto all’attenzione del Cesis (il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) il problema delle «minacce dell’Asala contro obiettivi in Italia» oltre alla vicenda del palestinese Yousef Nasry el Tamimy arrestato a Fiumicino, due mesi prima, con 14 detonatori. Nel documento ora declassificato, Lugaresi giudicava «necessario che venga resa nota al ministero dell’Interno la serietà delle minacce dell’Asala ai fini della protezione degli obiettivi turchi in Italia e dei centri di assistenza per l’emigrazione degli armeni», e sottolineava che «è confermata la determinazione degli armeni nel porre in atto la minaccia di cui all’intervista di Hagop Hagopian riportata sull’Espresso n. 6 del 14 febbraio scorso». Lugaresi aggiungeva che «l’Olp ha assicurato il proprio intervento, inteso a ottenere un ulteriore congelamento, in attesa di una risposta alle note richieste, delle operazioni in Italia, ma ha anche ipotizzato che i libici forniscano sostegno finanziario agli estremisti armeni, da cui deriva la possibilità di una utilizzazione dell’Asala ai loro fini». Un mese prima, il 29 gennaio 1982, sempre Lugaresi scriveva al Cesis e ai ministri degli Esteri e dell’Interno, ricordando i prodromi dell’accordo con l’Asala. Che si era concretizzato nel dicembre 1980 in una bozza, per il tramite dell’Olp, e «sul quale doveva essere espresso il parere delle autorità italiane». Successivamente, segnalava Lugaresi, «si richiedeva di favorire sui massmedia italiani la diffusione dell’idea armena e i problemi connessi». Un mese dopo ci sarà, effettivamente, l’intervista su L’Espresso ad Hagop Hagopian, fondatore dell’Asala. Andrà diversamente al settimanale Panorama, «punito» da Hagopian - per un’intervista che il fondatore dell’Asala evidentemente non doveva aver apprezzato - con un attentato al deposito della Mondadori a Porta Ticinese. Non solo. Le minacce di morte dell’Asala che arrivarono a Panorama costrinsero la direzione del settimanale a proteggere il giornalista autore dell’intervista che non era piaciuta ad Hagopian, trasferendolo come corrispondente a New York. Mentre al direttore dell’epoca, Carlo Rognoni, fu assegnata una vettura blindata.
Così furono fatte sparire le carte del «Lodo Moro» dal centro Sismi «Bermude» di Beirut. Silvio Leoni su Panorama il 21 Maggio 2023.
Nei documenti del Sismi, appena declassificati dal governo Meloni, si legge che, nel gennaio 1980, il colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri Servizi segreti a Beirut, fece sparire le carte per evitare fosse scoperto l’accordo segreto con i terroristi palestinesi
A Beirut, nel gennaio 1980, nel cosiddetto Centro “Bermude”, l’ufficio dei Servizi segreti italiani in Libano ospitato all’interno dell’Ambasciata, ci fu disperata, affannosa corsa per far sparire i documenti segreti e compromettenti dei rapporti spericolati che il nostro Paese teneva con i palestinesi e continuare così a nascondere l’esistenza del «Lodo Moro». È una delle nuove, clamorose, rivelazioni che emergono dalla “declassificazione” disposta dal governo Meloni di centinaia di documenti dei Servizi segreti italiani, finora coperti dal segreto di Stato e relativi al «dossier Giovannone», dal nome del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, nome in codice «Maestro», che fu capocentro del Sismi in Libano e negli anni Ottanta - gli anni delle più gravi stragi italiane, da quella di Ustica a quella della stazione di Bologna – impegnato dal governo italiano a gestire, dal Medioriente, i difficili rapporti tra l’Italia e le organizzazioni palestinesi.
La situazione già molto complessa, divenne incandescente dopo l’arresto, avvenuto a Ortona nel novembre 1979, di tre rappresentanti romani dell’organizzazione dell’estrema sinistra Autonomia operaia, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri, e del giordano Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp). L’arresto fu determinato dalla scoperta di due missili terra-aria Sam Strela 7, sequestrati ai tre autonomi nel piccolo centro di Ortona, vicino a Chieti: i tre vennero fermati dai carabinieri per un controllo e portati in carcere nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979. Il 13 novembre fu arrestato a Bologna, dove viveva, anche Saleh, accusato di essere loro complice, e tutti e quattro furono rinviati a giudizio per direttissima.
Subito, però, il Fplp cominciò a minacciare attentati contro gli interessi italiani, proprio per vendicarsi di quella che ritenevano una gravissima violazione unilaterale da parte dell’Italia del cosiddetto Lodo Moro. La documentazione ora in possesso di Panorama.it , recuperata dalla ricercatrice Giordana Terracina all’Archivio Centrale dello Stato dov’era depositata, consiste di 429 pagine, che ricostruiscono minuziosamente - attraverso gli scambi di messaggi fra Giovannone e i vertici dell’intelligence italiana e fra questi ultimi e il governo dell’epoca - quel periodo buio della Repubblica: un momento dominato dagli allarmi per la crescente minaccia palestinese di attentati ad aerei, ambasciate e altri beni dell’Italia, nel quale appare evidente lo sbandamento delle istituzioni italiane, poste sotto ricatto dalle organizzazioni arabe. Nel caso dei missili di Ortona, il Fplp tenta in tutte le maniere di riavere le micidiali armi sovietiche terra-aria, oppure di ottenere, in cambio, 60.000 dollari. Un vero e proprio ricatto. L’obiettivo principale del Fronte, peraltro, è far liberare Abu Anzeh Saleh, ufficialmente in Italia per motivi di studio (e incredibilmente protetto dall’allora Pci, che si prodigò, raccontano le carte mai smentite, per impedirne l’espulsione, richiesta ripetutamente dagli 007 italiani), e i tre autonomi. Un copione che si ripeterà varie volte anni dopo quando le organizzazioni arabe torneranno alla carica, con lo stesso, identico, approccio: minacciando attentati ritorsivi, per far liberare dall’Italia altri esponenti dell’Fplp, come Yousef Hasry El Tamimy, arrestato a Fiumicino il 5 gennaio 1982 assieme alla compagna, la tedesca Brigitte Pangedam, perché trovati in possesso di 14 detonatori. Le carte ora declassificate confermano la consuetudine delle organizzazioni terroristiche arabe a utilizzare l’Italia, negli anni Settanta e Ottanta, per trasportare, da una parte all’altra della penisola, carichi di esplosivi, detonatori e armi su treni, aerei, o in auto, incuranti del terribile rischio che questo rappresentava. E confermano anche come le stesse organizzazioni, una volta che i terroristi fossero stati intercettati e scoperti, pretendevano che venissero liberati come se nulla fosse, reclamando persino il diritto di vedersi restituito - o pagato - il materiale sequestrato.
Va ricordato, al proposito, quanto Francesco Cossiga scrisse a proposito della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 nel libro considerato il suo testamento politico-istituzionale, “La versione K” (Ed Eri-Rizzoli, 2009): «Su Bologna, la mia l’ho detta e la ripeto. Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso: fu, con molta probabilità, una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell’occasione e che, invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». E non è un caso che la vicenda dell’affannosa distruzione dei documenti segreti e compromettenti custoditi nel Centro Sismi di Beirut (soprannominato «Bermude») ruoti proprio intorno alla figura di Cossiga, presidente del Consiglio dal 5 agosto 1979 al 18 ottobre 1980, tenuto evidentemente all’oscuro degli accordi stipulati fra il Sismi e i palestinesi. Per comprendere bene il significato di quanto emerge dai documenti desecretati, bisogna sempre ricordare che il sequestro dei missili a Ortona avviene il 7 novembre 1979, e che la strage di Bologna è del 2 agosto 1980. Nel corso di quei mesi delicatissimi le minacce dell’Fplp sono un crescendo inquietante, giorno dopo giorno. In quel periodo così complicato, a Beirut il Sismi fa capo all’uomo di fiducia di Aldo Moro, il colonnello Stefano Giovannone (Moro ne invocherà la sua presenza a Roma durante il suo sequestro da parte delle Brigate rosse). Giovannone ha rapporti diretti con tutti i capi delle organizzazioni palestinesi. E il suo obiettivo è tenere l’Italia immune (“neutralizzata” è scritto nelle carte) dal rischio di attentati terroristici che, all’epoca, insanguinavano l’Europa. Così il 15 gennaio 1980 Giovannone scrive ai suoi capi dei Servizi a Roma un messaggio concitato: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto da ambasciata per proprio archivio alt fine». Che cosa sta accadendo? Perché Giovannone è così preoccupato? Cos’è che lo spinge a smobilitare di corsa la documentazione dei suoi rapporti intessuti con le organizzazioni palestinesi?
Cinque giorni prima, il 10 gennaio 1980, mentre a Chieti è in corso il processo per direttissima per il sequestro dei missili di Ortona, il colonnello Giovannone informa il generale Santovito, a capo dell’intelligence, che sta cercando di impedire un passaggio che reputa pericoloso: si tratta della consegna a Mauro Mellini, avvocato difensore dei quattro imputati nonché parlamentare radicale, di una «lettera aperta» che il Fplp vorrebbe fosse letta in aula davanti ai giudici di Chieti. Nella missiva, il Fronte popolare di liberazione della Palestina intende chiedere la testimonianza nel processo del presidente Cossiga e dell’exdirettore del Sid, il Servizio informazione difesa, generale Miceli.Lo scopo? Dimostrare l’esistenza del Lodo Moro. Sarebbe una catastrofe per Giovannone, che ha agito sì per conto di Moro, ma ne ha sempre tenuto all’oscuro Cossiga. E sarebbe anche un problema gigantesco da gestire, non solo verso gli alleati della Nato e nei confronti dell’opinione pubblica – ovviamente ignara che lo Stato italiano si è accordato con i terroristi - ma anche verso l’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano D’Andrea, con cui i rapporti sono roventi e la convivenza in ambasciata difficilissima perché la presenza nella sede consolare del capocentro Sismi e il suo iperattivismo nelle relazioni con le varie organizzazioni arabe ha finito per creare una sorta di doppio binario diplomatico, per molti versi imbarazzante e fonte di pericolosi malintesi. La lettera aperta che i palestinesi, spinti dalla Libia, vorrebbero fosse letta in aula riferisce anche che, subito dopo gli arresti di Pifano, Baumgartner, Nieri, e di Abu Anzeh Saleh, il Fplp riteneva di aver chiarito la questione all’ambasciata italiana di Beirut che poi aveva risposto di aver riferito tutto al governo: i missili erano danneggiati e inutilizzabili, erano semplicemente in transito sul territorio italiano e i rappresentanti di Autonomia operaia ignoravano il contenuto delle casse, così come Saleh.Il problema è che Giovannone e il Centro “Bermude” non sono l’Ambasciata italiana. E che Giovannone si è ben guardato dal riferire al governo. Gli sforzi del capocentro del Sismi a Beirut sono inutili. E il 10 gennaio 1980 l’avvocato Mellini legge, in udienza, la lettera dell’Fplp.Ovviamente, scoppia un pandemonio. Anche perché, poco dopo, lo stesso Mellini e altri parlamentari radicali presentano un’interpellanza parlamentare al governo per chiedere lumi.A quel punto, il caso politico è inevitabile.Cossiga, infuriato, convoca il generale Santovito. Che è costretto a raccontare tutta la verità al presidente del Consiglio.Tre giorni dopo, il 13 gennaio 1980, il Sismi invia un appunto a Cossiga tentando di ridimensionare i fatti: Mellini viene accusato di aver messo in atto una strumentalizzazione politica con i radicali, mentre il Fplp nega di aver chiesto l’audizione testimoniale di Cossiga. Il governo può, a quel punto, rispondere all’interpellanza negando agevolmente l’esistenza del Lodo. Ma l’ambasciatore italiano in Libano, D’Andrea, è furibondo perché, in effetti, non ha mai avuto alcun rapporto con l’Fplp. E dirama un comunicato stampa. Che nessuna agenzia italiana pubblicherà mai.Il 15 gennaio 1980 Giovannone chiede al Sismi, con un fonogramma urgente, d’intervenire per placare D’Andrea. E, nello stesso documento, dopo aver ricordato che, nei suoi rapporti con palestinesi e altri gruppi armati (eritrei, somali, sciiti), non ha mai dichiarato di rappresentare l’ambasciata e di non aver mai fatto entrare esponenti del Fplp nei locali della sede diplomatica, scrive il messaggio che abbiamo visto: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto fatto da ambasciata per proprio archivio alt fine».La segretezza del «Lodo Moro» è salva. O, almeno, così pare. Ma i documenti ora declassificati dal governo Meloni ne confermano, invece l’esistenza. E senza più alcun dubbio.
Simonetta Fiori per “la Repubblica” - Estratti giovedì 30 novembre 2023.
“Il 7 ottobre del 2023 è una data terribile per l’umanità perché l’odio feroce di Hamas, refrattario a qualsiasi possibile freno, ha manifestato una carica anche simbolica che non hanno le azioni di violenza consumate altrove. Ha voluto dire: noi vogliamo distruggere gli ebrei, vogliamo annientarli qui, non c’è spazio per loro».
Protagonista e testimone di un lungo tratto della storia d’Italia, Giuliano Amato interviene sulla guerra in Medio Oriente con lo sguardo rivolto anche al passato. Nella veste di presidente del Consiglio, ebbe occasione di incontrare Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993, a ridosso della ratifica degli accordi di Oslo. «Fu il momento più alto del processo di pace tra i due popoli. E lì dobbiamo tornare, anche se la strada è molto difficile».
Il sabato nero ha risvegliato l’incubo con cui convive Israele fin dalla sua nascita: l’incubo della sua cancellazione.
«Personalmente mi ha provocato una totale repulsione. Io sono sempre stato convinto che quando nacque lo Stato di Israele fu fatta giustizia di una storia plurimillenaria: quella era la Terra promessa dai tempi della Bibbia, la terra a cui questo popolo poté tornare dopo il lungo esilio in Egitto.
Questa è la prima ragione per cui Israele ha comunque ragione davanti a un’aggressione che vuole negare il suo diritto di esistere. E ha il diritto-dovere di reagire eliminando Hamas. La mia fermezza nasce anche da una semplice constatazione: Israele è la mia civiltà. Israele è me che sono lì. Tutta la storia delle persecuzioni ebraiche dimostra quanto della nostra civiltà la cultura ebraica sia parte e quanto abbia contribuito a farla crescere. Quello che ora non possiamo non chiederci, riflettendo sul sabato nero, è come ci siamo arrivati».
Hamas è un’organizzazione terroristica che predica la sottomissione del mondo a una versione fondamentalista dell’Islam.
«Ricordo che quando nacque nel 1987 rimasi impressionato da un dato: nella sua carta fondativa era scritto a chiare lettere che voleva piantare la bandiera di Allah su ogni centimetro quadrato della Palestina, quindi il suo scopo era quello di eliminare gli ebrei dalla regione. Nel corso degli anni, a contatto con una popolazione più ampia di cui assorbiva sentimenti diversi, in modo ondivago e confuso accanto alle azioni terroristiche aveva cominciato a mostrare un’anima meno radicale in una sua ala politica.
A partire dal 2006 vinse diverse elezioni, e i suoi esponenti dichiararono che avrebbero riconosciuto Israele se Israele avesse accettato uno Stato dei palestinesi con tutti i loro diritti. Ma Hamas non ha mai smesso di coltivare il terrorismo. Certo è che il 7 ottobre l’ha riportata all’anno zero, anzi a come non era mai stata: un’opera così efferata non l’aveva mai commessa. Per questo non posso non chiedermi: come si è arrivati a questo? Che cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto?».
Chiama in causa le classi politiche occidentali?
«Sì, tutti noi, e in primo luogo chi ha governato Israele negli ultimi quindici anni. Qui non posso non rimarcare la straordinaria differenza tra un premier come Netanyahu e la generazione precedente dei Shimon Peres e dei Rabin: questi leader credevano nell’interazione e nell’integrazione dei palestinesi, mai sfiorati dall’idea che la loro presenza dovesse essere cancellata dalla Terra promessa.
(...)
Parlò di questo anche con Arafat?
«Più volte. Lui aveva il problema del diritto al ritorno dei palestinesi. Ricordo una conversazione a Palazzo Chigi in cui gli dissi: “Tu hai accettato che vi sia lo Stato sovrano di Israele su questa terra” – usai proprio queste parole formali. Lui assentì: “Questo io non posso non accettarlo”. “E allora è evidente”, proseguii, “che il diritto al ritorno dei palestinesi non potrà non essere concordato con lo Stato che ha la sovranità su quel territorio”.
Taceva, ma non aveva argomenti da oppormi. Gli accordi di Oslo furono il momento più alto dell’incontro tra questi uomini di buona volontà, anche se Arafat non era certo privo di ambiguità. Ma la storia spingeva in quella direzione. Tutto ciò è venuto meno con il governo di Benjamin Netanyahu».
Quali critiche muove all’attuale primo ministro israeliano?
«Nel corso di questi anni sono state ridotte le possibilità concrete perché nascesse lo Stato palestinese, mangiando via via con un numero crescente di insediamenti in Cisgiordania il territorio che gli accordi di Oslo avevano destinato ai palestinesi. Ho seguito questa espansione grazie al lavoro dell’ebreo Henry Siegman, del cui gruppo americano facevo parte: Henry faceva disegnare sulle mappe il progressivo addensarsi degli insediamenti, un ostacolo crescente alla realizzazione degli accordi di Oslo. L’altro elemento di frattura era l’atteggiamento punitivo dei coloni e dei militari israeliani nei confronti della popolazione palestinese. E in tutto questo Netanyahu nulla ha fatto per impedire che Hamas venisse finanziata dal Qatar, con l’effetto di indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese. È evidente che Netanyahu non ha mai letto Cavour o, se l’ha letto, ne ha tratto la lezione contraria».
A quale insegnamento di Cavour si riferisce?
«Cavour ci ha insegnato – e lo insegnava ai conservatori sabaudi che chi non fa i cambiamenti opportuni quando è il momento di farli scatena la reazione più estrema e violenta. Per evitare la violenza oppositrice, occorre far camminare le istanze giuste che si ha la responsabilità di governare. Netanyahu ha fatto la scelta opposta».
(...)
Eppure nelle piazze di sinistra compaiono le bandiere di Hamas.
«Sbagliano! Come ho trovato incomprensibile la presenza di quei vessilli nelle straordinarie manifestazioni popolari nate spontanee dopo l’assassinio della povera Giulia Cecchettin. Ma come è possibile? Io sfilo contro la violenza sulle donne e porto con me il simbolo di chi ha commesso pochi giorni prima i crimini più efferati sui corpi delle donne israeliane? Roba di una disumanità e di una doppiezza che francamente è difficile immaginare».
(...)
Pensando al dopoguerra, quale soluzione è possibile?
«Sono convinto che non nella testa di Netanyahu ma di qualcuno dei suoi ministri possa esserci l’idea che la conquista di Gaza sia un legittimo obiettivo di Israele e quindi fa bene la comunità internazionale, a cominciare dal presidente Biden e dal bravissimo segretario di Stato Blinken, a sostenere che nella Striscia non potrà esserci un governo neppure transitorio di Israele. Qualcun altro la deve guidare. Ma la difficoltà è proprio qui».
Può tornare a governare l’Anp di Abu Mazen?
«Tenderei a escluderlo, ormai Abu Mazen è il contrario del nome che porta. Incarna l’autorità palestinese ma di autorità non ne ha più alcuna per le ragioni a cui accennavo sopra e anche per la connivenza con la corruzione in cui è caduto il suo governo. Ritengo azzardato qualsiasi paragone di Marwan Barghouti con Nelson Mandela, che considero il più grande personaggio del Novecento, ma penso che la soluzione in un caso così estremo non possa che essere una figura del genere: un leader palestinese dotato di un forte credito e anche circondato dall’affetto del suo popolo. Barghouti potrebbe guidare il processo che porta verso la costituzione dello Stato palestinese».
E il leader israeliano più adatto a questo processo?
«Non lo so, ma non escludo che la risposta arrivi dalla reazione al male che Israele ha subito. Quando un popolo vive sulla sua pelle un male così estremo come quello inferto da Hamas – solo Israele può misurarne la portata, tutti noi l’abbiamo vissuto dall’esterno – è portato alla riflessione cavourriana: io non voglio che questo male accada mai più. E allora devo tagliare alle radici le ragioni che possono portare alla crescita di una pianta velenosa come è stata la pianta di Hamas. La convivenza tra israeliani e palestinesi metterebbe fuori l’odio su cui si fonda Hamas».
(...)
Prima lei faceva riferimento all’ambiguità di Arafat. C’è un episodio di cui lei è testimone che conferma questo tratto del leader dell’Olp: la vicenda dell’Achille Lauro, la nave italiana sequestrata nell’ottobre del 1985 da un gruppo di terroristi palestinesi.
«Sì, in quel caso Craxi fu ingannato dal leader dell’Olp: Bettino aveva chiesto un mediatore e Arafat gli mise a disposizione Abu Abbas, che in realtà era il regista dell’operazione, nata sì con un’altra intenzione ma sfociata nel sequestro e nell’assassinio dell’ebreo americano Leon Klinghoffer. Noi però l’avremmo scoperto più tardi».
Una volta arrivati in Italia su un aereo egiziano i quattro artefici del sequestro furono consegnati alla giustizia. Mentre restò libero Abu Abbas, poi volato da Roma a Belgrado su un aereo jugoslavo. Gli americani vi hanno sempre rimproverato di averlo lasciato scappare.
«Ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio e seguii personalmente la vicenda, dopo il confronto da brivido a Sigonella tra Italia e Stati Uniti. Ero a Ciampino quando nella notte tra l’11 e il 12 ottobre verso mezzanotte atterrò il volo egiziano con Abu Abbas. Stavo in una saletta con i nostri diplomatici Renato Ruggiero e Antonio Badini e a un tratto vidi avvicinarsi alle vetrate dell’aerostazione un aereo americano con il muso puntato verso di noi. Noi tre ci accucciammo sotto le poltroncine, sicuri che ci volessero spiare. Alle 5 del mattino l’ambasciatore americano Maxwell Rabb bussò alla porta del ministro della Giustizia Martinazzoli con le prove – così sosteneva lui – della colpevolezza di Abbas, accusato di pirateria, cattura degli ostaggi e associazione a delinquere. Ne chiedeva l’arresto provvisorio ai fini dell’estradizione».
Perché lo lasciaste andare?
«Non vi erano prove sufficienti. Questo fu il giudizio dei magistrati interpellati da Martinazzoli. A quel punto non potevamo trattenerlo».
Rabb annunciò l’imminente arrivo di altre prove, ma secondo la ricostruzione americana non gli deste il tempo.
«Io ricordo che le prove sarebbero arrivate non qualche ora più tardi, ma in un periodo successivo. E infatti Abu Abbas sarebbe stato processato e condannato, e quindi alla fine abbiamo dato ragione agli americani. Ma in quel passaggio preciso agiva la convinzione che Abu Abbas fosse un mediatore. E nel clima molto pesante nato a Sigonella, la pressione statunitense ci appariva un sopruso».
È sbagliato ipotizzare che voi non vedevate l’ora di liberarvene anche per non rompere con Arafat?
«Non so se nella testa di Craxi agisse questo vincolo, e forse proprio a questo si riferisce Kissinger con la sua frase “We had to get mad, you had to set him free”, noi fummo costretti arrabbiarci, voi foste costretti a liberarlo. Ma sono convinto della nostra buona fede.
Non c’è dubbio che la politica estera di Craxi fosse vicina all’Olp e in più momenti abbiamo dovuto incontrare i leader israeliani per rassicurarli. Ricordo una cena all’Hilton con Shimon Peres per spiegargli che il governo italiano si stava adoperando con Arafat nell’interesse di entrambi i popoli. E devo dire che Peres accoglieva le nostre posizioni senza difficoltà. Questa era l’Israele di allora. Con gli americani il litigio si sarebbe risolto rapidamente. “Dear Bettino”, così cominciava la lettera scritta da Reagan dopo la vicenda di Abu Abbas. Il caso era chiuso».
Estratto dell'articolo di Marco Gregoretti per “Libero quotidiano” il 5 Luglio 2023.
Una telefonata alle due di notte. “Greg, ti mando in anteprima un libro bomba sul caso Moro.”. A tirarmi giù dal letto Riccardo Sindoca, criminologo, operatore di intelligence della Nato. Raffiche di bugie a Via Fani. Stato e Brigate Rosse sparano su Aldo Moro, scritto dal generale in congedo, Piero Laporta, già capo di Stato maggiore, è di fatto un dossier che racconta la storia di un colpo di Stato.
«Caro Sindoca, visto che Laporta ti cita come fonte disvelatrice, portami da lui e fammelo intervistare». E così è stato, venerdì 12 maggio, vicino a Roma. Con l’operatore tv ho registrato due ore che diventeranno un docu-film. Ecco le clamorose anticipazioni in questa intervista esclusiva che Laporta ha rilasciato a Libero.
È vero che la mattina del 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro non era in via Fani?
«Testimonianze e documenti assicurano che Moro fu “prelevato” prima di via Fani. I Br non ebbero capacità tecnica di sparare senza colpirlo, lo assicura un killer professionista, addestrato dai sovietici e reclutatore di Carlos lo Sciacallo. Bassam Abu Sharif depose davanti alla commissione Fioroni: «Le Br non hanno rapito Aldo Moro... Le Br non avevano la possibilità di uccidere cinque guardie del corpo senza che Aldo Moro venisse ferito».
Moro stesso avrebbe nascosto nelle lettere le notizie su che cosa fosse successo?
«Io ho fatto l’esame filologico della prima lettera a Francesco Cossiga, del 29 Marzo e di quella alla signora Nora per Pasqua, mai pervenuta. Nel libro dimostro che Aldo Moro comunica che della sorte della scorta (e quindi dell’agguato di via Fani) non sa nulla.
Cossiga disse alla prima commissione Moro che le lettere furono esaminate “con metodi artigianali”. Io ho lavorato con metodi artigianali e sono giunto a risultati esplosivi, confermati dalla rigorosa decrittazione di sei anagrammi tratti dalle missive. Da dilettante, dopo 45 anni... Doveva essere fatto nei 55 giorni dallo Stato, con le risorse delle università».
Dove si trovava, dunque, lo statista Dc?
«Negli anagrammi dice che era “in terra dantesca”, in una casa con “tre tetti nascosti”, nelle mani di “popolo russo”, trasportatovi “in elicottero”».
Perché uccisero la scorta?
«Perché testimoni di quanto avvenuto prima di via Fani, per ottenere il triplice distacco: Moro separato dalla scorta, dall’inseparabile Oreste Leonardi e dalle sue cinque borse, una delle quali lo seguiva ovunque».
Chi agì in via Fani?
«Il Gru, servizio segreto militare sovietico, avvalendosi del gruppo Carlos, anche per collocare esplosivo ad alto potenziale nella Mini Cooper verde col tetto nero, parcheggiata davanti al bar Olivetti e alle spalle dei Br che sparacchiarono contro l’Alfetta.
L’annientamento di Oreste Leonardi e di Domenico Ricci, i due carabinieri di gran lunga più pericolosi dei cinque della scorta, fu operato con totale sorpresa, senza spruzzi di sangue e coi primi tre colpi dell’agguato, da un commando di quattro killer professionisti, con uniformi Alitalia e col berretto con visiera a proteggerli dal riconoscimento satellitare».
C’era un “traditore” nelle alte sfere dello Stato?
«La presenza di un Giuda ad alto livello è certa. I Br seppero un mese prima che l’agguato sarebbe avvenuto in via Fani. Per andare nel centro di Roma, vi sono tre itinerari: uno è per via Fani, ma ci sono anche via della Camilluccia e via Trionfale. Il Giuda ordinò a Oreste Leonardi di passare per via Fani, facendosi precedere da una Fiat 128 bianca. È provato nel mio libro».
È vero che durante la prigionia Moro fu torturato?
«Il verbale di autopsia dedica dieci righe a quattro costole di Aldo Moro, rotte in tempi differenti. Meno di due righe liquidano un “vasto edema cerebrale”. Il verbale fu occultato alle Commissioni parlamentari di inchiesta e ai magistrati. È stupefacente che né la commissione Fioroni, né le precedenti, né l’ultima commissione antimafia, le cui conclusioni sono successive all’uscita del mio libro, mai si siano accorte della tortura che piegò Moro ai disegni dei rapitori, a svelare tutti i suoi segreti. Ebbero un bel dire che non ne custodisse di rilievo. Egli fu l’uomo della Nato e il rifondatore dei servizi segreti, con saldissimi legami oltreatlantico. Che poi a Washington si siano fatti intortare da Mosca è un altro discorso».
Ci furono depistaggi?
«Un depistaggio, documenti alla mano, è propalato da due monsignori, i quali gabellarono Moro ucciso da Giustino Devuono (sicario della criminalità ndr) il quale sparava i colpi “a raggiera”, su una linea circolare intorno al cuore. Due giornalisti, Paolo Cucchiarelli, Giovanni Fasanella e il gruppo Pd della Commissione Fioroni avallarono. Nel libro dimostro che i colpi “a raggiera” non esistono. I colpi sono distribuiti su due segmenti convergenti e rettilinei a cercare le fratture alle costole e confondere le acque sulla tortura bestiale patita dallo Statista. Anche il covo di via Montalcini è una delle tante gabole del racconto di magistrati e di sedicenti giornalisti d’inchiesta».
(...)
Insomma, secondo lei, il sequestro di Moro fu un colpo di Stato ben riuscito?
«Lo dicono ricercatori come Sergio Flamigni. Stupisce che nessuno di essi s’accorse del depistaggio dei colpi a raggiera o delle torture dimenticate, sebbene testimoniate da L’Unità e da La Stampa. Stupisce la distrazione sul Morucci nel Sisde e che non ci sia chi ricordi l’esplosivo ad alto potenziale in via Fani, che esige addestramento peculiare, estraneo ai Br. Lecito attendere quindi incriminazioni a inchiodare i responsabili del depistaggio, nello Stato e fuori. Finché costoro saranno in libertà non ci si può aspettare un genuino pentimento dei Br, i quali, a loro volta, devono rispondere delle guarentigie procacciatesi con la menzogna».
PAGINE OSCURE D'ITALIA. Il governo inglese ha desecretato file scottanti sul terrorismo italiano e il caso Moro. Stefano Baudino su L'Indipendente il 22 giugno 2023
Il ministero degli esteri inglese ha appena declassificato una serie di documenti scottanti rimasti fino ad oggi riservati. Si tratta di carte dalla portata esplosiva riguardanti il possibile ruolo giocato dall’organizzazione paramilitare Gladio negli anni del terrorismo in Italia, il supporto operativo che essa avrebbe ottenuto dagli 007 anglosassoni e le implicazioni legate ai presunti condizionamenti dell’intelligence dietro alla morte di Aldo Moro. Sullo sfondo, si stagliano le ombre sulla P2 di Licio Gelli, loggia massonica che avrebbe partecipato in prima linea alla “strategia della tensione”. Il quadro, anche alla luce delle recenti sentenze che hanno appurato il ruolo operativo di massoneria deviata e servizi segreti negli attentati che hanno insanguinato l’Italia negli “anni di piombo”, prende sempre più forma. Un altro fatto troverebbe conferma nei documenti, in cui si legge che “non è un segreto” che il governo USA offrì “un occasionale sostegno alla P2 e, in alcuni casi, anche ad atti di terrorismo in Italia”.
La strategia della tensione
Per “Strategia della tensione” si intende l’insieme delle operazioni eversive cui avrebbero partecipato gli apparati di sicurezza italiani sotto l’influenza della CIA, attraverso il ruolo attivo di logge massoniche, gruppi neofascisti organizzati per la lotta armata e organizzazioni paramilitari clandestine. Tra queste, spiccherebbe Gladio, struttura segreta dotata di compiti di “stay behind”, la cui missione apparente era quella di respingere l’Armata Rossa in caso di invasione sovietica. Lo stesso Giovanni Falcone, poco prima di morire – come dimostra il contenuto dei diari sopravvissuti all’opera di manomissione dei suoi appunti, avvenuta poco dopo la strage di Capaci – aveva posto la sua lente d’ingrandimento su Gladio, manifestando l’intenzione di indagare sul presunto ruolo che avrebbe avuto dietro ad alcuni omicidi eccellenti. L’obiettivo della strategia della tensione è riassumibile in uno slogan: “destabilizzare per stabilizzare”, ovvero contribuire a produrre tensioni sociali tramite attacchi terroristici per instillare paura e senso insicurezza nei cittadini, al fine di “sgonfiare” il consenso politico delle sinistre e le ambizioni governative del Pci, aprendo la strada ad un governo autoritario.
Le ombre su Gladio
Proprio su Gladio si sofferma uno dei documenti desecretati, che riguarda un aide-mémoire redatto da Francesco Fulci, rappresentante permanente dell’Italia all’ONU, condiviso in una riunione “super-ristretta” del 6 novembre 1990 del Consiglio Nord Atlantico, principale entità decisionale politica della NATO, e poi trasmesso ad alti funzionari inglesi in patria e all’estero. L’esistenza di Gladio era stata riconosciuta davanti al Parlamento solo due settimane prima, il 24 ottobre 1990, dal Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti, che aveva parlato di una «struttura di informazione, risposta e salvaguardia». Sulla base di una nota fornita dallo stesso Andreotti al “capo della Commissione parlamentare italiana che indaga sugli atti terroristici”, l’aide-mémoire evidenzia che, dopo la seconda guerra mondiale, i servizi segreti occidentali idearono “mezzi di difesa non convenzionali, creando nei loro territori una rete nascosta di resistenza volta ad operare, in caso di occupazione nemica, attraverso la raccolta di informazioni, il sabotaggio, la propaganda e la guerriglia”, iniziando a concepire l’organizzazione nel 1951.
Le condizioni per l’operazione, denominata in codice “Gladio”, furono stabilite sulla base di un “accordo” raggiunto “il 26 novembre 1955” tra “il Sifar (Servizio Informazioni Militare Italiano) e un corrispondente Servizio alleato” concernente “l’organizzazione e le attività di una ‘rete clandestina post-occupazione’, comunemente nota come “stay behind“. Nel documento si legge che Gladio “era formata da agenti attivi nel territorio che, in virtù della loro età, sesso e attività”, potevano “ragionevolmente evitare l’eventuale deportazione e carcerazione da parte degli occupanti stranieri; facile da gestire anche da una struttura di comando al di fuori del territorio occupato; a livello top secret e quindi suddivisa in ‘cellule’ così da ridurre al minimo eventuali danni causati da defezioni, incidenti o penetrazioni nella rete”. Le varie diramazioni dell’organizzazione coprivano operazioni di “informazione, sabotaggio, propaganda, comunicazioni radio, cifratura, ricezione ed evacuazione di persone ed equipaggiamenti”. Tali strutture dovevano “operare in modo autonomo, con collegamenti e coordinamento assicurati da una base esterna“.
I “materiali operativi” utilizzati avrebbero compreso “armamenti portatili, munizioni, esplosivi, bombe a mano, pugnali, coltelli, mortai da 60 mm, pistole da 57 mm, fucili ottici, trasmettitori” ed erano nascosti in 139 depositi sotterranei segreti in tutto il Paese. “Per migliorare la sicurezza”, si legge nella memoria, nell’aprile del 1972 questi arsenali “furono riesumati e trasferiti negli uffici dei Carabinieri vicino ai siti originali”. Interrogato dai partecipanti al vertice del Consiglio Nord Atlantico, che domandarono “se Gladio avesse deviato dai suoi obiettivi” di “stay behind“, pur “non potendo aggiungere nulla a quanto contenuto nell’aide-mémoire”, Fulci confermò che “le armi utilizzate in alcuni episodi terroristici provenivano da depositi predisposti da Gladio“.
Il rapimento Moro
Nonostante la pervasiva campagna anticomunista promossa da attori ufficiali e da altre entità “sommerse”, negli anni Sessanta il Pci è in grande crescita. Alle elezioni del 1963 supera per la prima volta il 25%, nel 1968 tocca il 30% per poi ottenere, nel 1976, addirittura il 34,4%. Sono gli anni in cui si pongono le basi del compromesso storico, operazione politica che vide come grandi protagonisti il leader Pci Enrico Belringuer e il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro (volto più importante della fazione di centro-sinistra del parito) che si concretizzò, di fatto, nell’appoggio esterno garantito dai comunisti al governo monocolore Dc di Solidarietà Nazionale formato nel 1976 e guidato da Giulio Andreotti. Poi, il 16 marzo 1978, tutto si arenò in occasione del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione di cinque delle sue guardie del corpo. Lo stesso Moro sarebbe stato giustiziato dai brigatisti nemmeno due mesi dopo. Alle elezioni del 1979, le prime dopo il caso Moro, il Pci perderà molti punti.
Una nota declassificata del 5 novembre 1990 del Foreign Office, redatta dall’allora ambasciatore britannico a Roma, John Ashton, offre un ampio spaccato sulla questione. “Ci sono prove circostanziali che uno o più rapitori di Moro erano segretamente in contatto con gli apparati di sicurezza all’epoca; e che questi ultimi hanno deliberatamente trascurato di seguire le piste che avrebbero potuto condurre ai rapitori e salvare la vita di Moro”, dichiarava Ashton, che sottolineava al contempo come “la maggioranza del comitato di crisi dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga era iscritto – a quanto pare a sua insaputa – alla P2”, loggia massonica inquadrata come una delle tante “misteriose forze di destra” che si sforzavano “con il terrorismo e la violenza di strada di provocare un contraccolpo repressivo contro le istituzioni democratiche italiane” nell’ambito della strategia della tensione.
“La teoria del complotto – scrive ancora Ashton – vuole che le Forze di sicurezza abbiano orchestrato l’uccisione di Moro, o almeno vi abbiano acconsentito; e che a loro volta abbiano agito per i loro padroni politici, e forse anche per la CIA”. Quale che sia la verità, l’ambasciatore mette in luce come Moro avesse “convinto” i comunisti che il loro appoggio esterno al governo Andreotti “sarebbe stato l’ultimo passo prima del loro ingresso al governo”: ciò sarebbe stato “un anatema per la P2, che allora controllava virtualmente l’apparato di sicurezza, per molti politici dell’establishment non appartenenti alla P2 e anche per gli Stati Uniti”. Chiudendo la nota, Ashton osserva che “la verità sul coinvolgimento di Washington negli ‘anni di piombo’” in Italia “probabilmente non sarà mai conosciuta”, sebbene non sia un segreto “che gli Stati Uniti abbiano fornito per molti anni un sostegno occulto agli oppositori italiani del comunismo, ad esempio finanziando segretamente la Democrazia Cristiana” e offrendo “un occasionale sostegno alla P2 e, in alcuni casi, anche ad atti di terrorismo in Italia”. [di Stefano Baudino]
Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani. Fabrizio Peronaci su Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2023
Eleonora Skerl, nonna della 17enne uccisa nel 1984, fu interrogata dalla Digos il 16 marzo 1978. I legami con il caso Orlandi, le analogie tra i comunicati Br e dell'Amerikano
Il giallo infinito della scomparsa di Emanuela Orlandi (1983), del quale a breve si occuperà una commissione parlamentare d'inchiesta, si incrocia con un altro mistero italiano, il più tragico e controverso dal dopoguerra: il caso Moro (1978). In passato erano emerse analogie tra il linguaggio dei sequestratori della «ragazza con la fascetta» e quello usato dai brigatisti. Gli investigatori - analizzando i messaggi dell'«Amerikano» e del «Fronte Turkesh» - avevano notato punti di contatto lessicali tra chi aveva preso Emanuela e gli «uomini delle Brigate rosse»: un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni. Il sospetto fu che, tra i registi dell'operazione-Orlandi (allontanamento da casa della quindicenne, a scopo di ricatto), potesse esserci qualcuno che ragionasse (e scrivesse) con le stesse categorie mentali dei rapitori dello statista democristiano, se non proprio un terrorista rosso in persona. Tuttavia, in mancanza di riscontri, la traccia fu abbandonata. Oggi invece, 40 anni dopo, arriva il colpo di scena: esiste un verbale d'interrogatorio di cui nessuno - a cominciare dalla magistratura - si è mai accorto, che stabilisce una connessione tra l'enigma Orlandi e l'affaire Moro.
Testimone della strage in via Fani
Eccola, la novità che il Corriere è in grado di documentare: Katy Skerl, la 17enne strangolata il 21 gennaio 1984 in una vigna di Grottaferrata, vittima di uno dei gialli collegati alla sparizione di Emanuela, era la nipote di una testimone oculare del rapimento di Aldo Moro. Poco prima delle 9 del 16 marzo 1978, affacciata al suo appartamento di via Stresa 96, all'angolo con via Fani (zona Trionfale), c'era la nonna paterna Eleonora Skerl, all'epoca 58enne. Il commando br guidato da Mario Moretti fece fuoco uccidendo i 5 uomini della scorta e strappando l'onorevole Moro dal sedile posteriore della Fiat 130 blu, e la donna era lì, alla finestra, spaventata e con le orecchie tese. Posizione privilegiata: dall'alto, con buona visuale delle vie di fuga. Tanto che quella stessa mattina, mentre l'intero Paese si fermava sgomento, la teste veniva portata in Questura.
Le indagini sulla parentela
Il verbale firmato da Eleonora Skerl fu redatto dalla Digos alle 12.35 del 16 marzo 1978. Oggi, dopo indagini svolte negli uffici anagrafici di mezza Europa, un ricercatore indipendente ed esperto in sicurezza digitale, Alberto Fittarelli, ha appurato che non si tratta di un caso di omonimia. Era proprio lei: la signora Skerl, nata nel 1919 in Romania, madre di Peter, regista apolide in quegli anni famoso per un film scabrosissimo vietato ai minori, nonché nonna di Katy, che di lì a sei anni sarebbe rimasta vittima di un oscuro omicidio. Alla residente in via Stresa, in particolare, fu chiesto se prima delle raffiche di mitra esplose sulla scorta di Aldo Moro avesse udito altri spari, possibile indizio di un gruppo di fuoco più ampio.
L'incrocio tra due misteri italiani
La nonna di Katy Skerl era in via Fani, dunque: due misteri d'Italia s'incrociano. Per la prima volta, un filo robusto connette i casi Orlandi e Moro. Ma quali trame potrebbero celarsi dietro il combinato disposto della testimonianza del 16 marzo 1978, la morte violenta di Katy e la scomparsa della «ragazza con la fascetta»? Il delitto Skerl è tornato d'attualità in relazione al sequestro Orlandi nel 2015, quando Marco Accetti, il fotografo che si è autoaccusato del rapimento, invitò gli inquirenti ad aprire la tomba della 17enne. Fu una sorta di sfida al procuratore Giuseppe Pignatone, che aveva appena archiviato l'inchiesta: «La bara della Skerl è stata rubata per far sparire una prova (una camicia con l'etichetta "Frattina", ndr) del collegamento con Emanuela Orlandi. Controllate e poi mi direte se sono un mitomane».
Il doppio movente
La verifica, a lungo rinviata, è stata compiuta nel luglio 2022 e ha dato esito positivo: in effetti la cassa con la salma era stata trafugata dal cimitero Verano e nel loculo era rimasta soltanto una maniglia d'ottone (qui la video-anticipazione del cronista, nel 2021). Ciò ha inevitabilmente accresciuto la credibilità del reo confesso e indotto il pm Erminio Amelio ad aprire un'inchiesta, alla quale sta lavorando da mesi un pool di investigatori della Squadra mobile romana. Secondo Accetti (qui le sue vittime, reali e presunte), Katy Skerl fu ammazzata per vendetta dalla fazione opposta a quella che aveva organizzato il sequestro di Emanuela e di Mirella Gregori, al fine di attuare un duplice ricatto: da un lato frenare il fermo anticomunismo di Giovanni Paolo II (e indurre Ali Agca a ritrattare le accuse a Est, sgradite alla componente ecclesiastica favorevole al dialogo con Mosca), dall'altro defenestrare il capo dello Ior Marcinkus e recuperare i soldi inghiottiti dallo scandalo Ior-Ambrosiano.
Il profilo di Katy (e di suo padre)
Anche Katy, insomma, fu vittima dei regolamenti di conti ambientati ai tempi della Guerra Fredda? Il profilo della ragazza accredita tale scenario, anche perché la pista del maniaco, in assenza di tracce di violenza sessuale, fu presto scartata. Soprattutto dal 2022, con la scoperta della tomba vuota, il movente politico ha acquisito peso crescente. La 17enne, studentessa del liceo artistico Giulio Romano (abitava con madre e fratello a Montesacro), era iscritta alla Fgci, pacifista e femminista convinta. Il padre Peter, regista giramondo nato a Belgrado nel 1940 (e poi trasferitosi in Svezia, a Roma e negli Stati Uniti), era famoso per il film hard "Bestalità", campione d'incassi in sale di terz'ordine. Non si può escludere che nella scelta di Katy come vittima sacrificale la figura paterna (utile a evocare scenari depistanti di pedofilia e perversione) abbia avuto rilievo. Ma non basta: nel 2014 il Corriere scoprì che compagna di classe di Katy era stata Snejna Vassileva, la figlia di uno dei funzionari bulgari (addetto militare d'ambasciata) accusati di complicità con Agca nell'attentato a Wojtyla del 13 maggio 1981 (pista rossa). Una circostanza che riporta al movente internazionale. Possibile siano tutte coincidenze? O forse la presenza della nonna in via Fani chiude il cerchio? Katy fu scelta come bersaglio per i rimandi che portava con sé, da spendersi in operazioni coperte?
Il gerundio nei comunicati Br e su Emanuela
Ulteriori spunti vengono dalle assonanze con il gergo Br riscontrate nei messaggi dei sequestratori di Emanuela e Mirella (qui, ecco perché le due storie sono collegate). Un primo punto di contatto balza agli occhi nel comunicato del 20 luglio 1983, data di scadenza dell’ultimatum per lo “scambio” della giovane Orlandi (scomparsa un mese prima) con Agca, quando l'«Amerikano» dettò un testo perfettamente sovrapponibile al linguaggio brigatista. Scrisse a tal proposito, lo stesso giorno, l’agenzia Ansa: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio («pervenendo alla soppressione del 20 luglio») è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse («eseguendo la sentenza»), diffuso durante il sequestro Moro». Ancora: è pura casualità o al contrario l'analogia dimostra che qualcuno degli ideatori dell’affaire Orlandi non era poi così estraneo al clima politico-culturale e ai movimenti eversivi di quel periodo?
La «nota personalità»
C'è poi un secondo tassello. Si tratta di una locuzione diventata di pubblico dominio ai tempi del sequestro Moro, riproposta più volte dai rapitori di Emanuela: «La nota personalità». Vediamo l'antefatto: la mattina del 9 maggio 1978, quando non era ancora stato scoperto il corpo di Moro, Claudio Signorile, vicesegretario del Psi, fu convocato dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, e in seguito, a proposito di tale incontro, l'esponente socialista racconterà: «Nell'ufficio c’era una cicalina collegata con il prefetto e il capo della polizia: "È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere...” Un attimo di silenzio e poi: "È la nota personalità". Cossiga diventa bianco e dice “Mi devo dimettere”. Ci abbracciamo, me ne vado...» A cosa alludeva Signorile? Forse al fatto che il futuro capo dello Stato fosse già informato dell'avvenuta esecuzione di Moro?
La sciarada delle Idi di Marzo
In ogni caso, un'espressione del genere non si dimentica. E 7 anni dopo i registi dell'azione Orlandi-Gregori infilano più volte la «nota personalità» nelle rivendicazioni firmate "Fronte Turkesh". Prima nel "Komunicato XXX" del 27 novembre 1985, nel quale si annuncia che «Emanuela non tornerà»: «Sono stati spietati. La colpa è del Vaticano, di papa Wojtyla, dello Ior, del ‘giudice’ di Alì Agca, del governo del Costa Rica e di una nota personalità...» Poi nel messaggio di poco successivo (3 dicembre 1985), che oltre a riepilogare i precedenti e prendere le distanze da tal Ilario Ponzi, firmatario di alcune lettere da Ancona, propone un rompicapo sul quale si sono applicate più generazioni di investigatori, studiosi, giornalisti. Vediamolo: «La nota personalità: ecco il codice, non è difficile – 2 X IB - 3 X BANO – before born Idi di marzo – Gregori è uguale - EPR - + I VV - 15,15,15,15 + ...» A quale traditore alludevano i rapitori, evocando l’assassinio di Giulio Cesare? Il groviglio di lettere, sigle, numeri e segni matematici non è stato mai decodificato: una sciarada da tentare di risolvere oggi, anche alla luce di quel faccia a faccia Signorile-Cossiga...
La piccola Katy sapeva troppo?
Grazie alla rilettura dei pregressi indizi e alla novità del verbale "dimenticato" su via Fani, insomma, il dubbio di una "manina" delle Br dietro l'intrigo Orlandi trova più di un appiglio. Il ricercatore Alberto Fittarelli, per non incorrere in errori sulla "vera" Eleonora Skerl, ha contattato archivi e uffici anagrafici dalla Romania alla Serbia, dove la nonna di Katy aveva vissuto con suo marito, prima di essere espulsa dal regime di Tito e fuggire in Italia. «Certamente - ragiona Fittarelli, che ha pubblicato il suo lavoro nel sito SEDICidiMARZO.org - esercita una certa suggestione pensare che la povera Katy, giovanissima militante comunista con forti motivazioni politiche, sei anni dopo via Fani, magari incuriosita da quanto visto, sentito o raccontato in casa da sua nonna, abbia svolto indagini in proprio, imbattendosi in qualcosa di più grande di lei, e che per questo sia stata punita. Però attenzione - aggiunge lo studioso - in mancanza di riscontri siamo per l'appunto alle prese con una suggestione, per quanto sorprendente e interessante. Ad altri il compito di accertare la verità». La parola agli inquirenti tuttora in campo, dunque: Procura di Roma, Ufficio del promotore di giustizia vaticano e commissione parlamentare bicamerale, non appena verrà istituita. Quarant'anni dopo, sarà la volta buona?
Berlinguer e quel patto con la DC che poteva cambiare tutto: ma la morte di Moro spazzò via il sogno Paolo Franchi su L'Unità il 18 Maggio 2023
La sera del 21 giugno 1976 si assiepò sotto le Botteghe Oscure, per festeggiare il più grande successo elettorale del Pci, una folla mai vista, quasi una rappresentazione fisica del 34 e rotti per cento che aveva votato comunista: vecchi militanti e allegre famigliole coi bambini, materialisti storici (e talvolta anche dialettici, alla faccia di chi erroneamente pensava che l’unico vero merito di Federico Engels fosse quello di aver mantenuto Carlo Marx) e cattolici praticanti, quadri di partito da una vita “sdraiati sulla linea” e gruppettari che avevano votato comunista seguendo l’indicazione di Lotta Continua, femministe non ancora diventate “storiche” e compagne dei quartieri popolari e delle borgate tuttora ispirate al modello dell’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, borghesi (piccoli, medi, e pure grandi) e proletari (in molti casi, sottoproletari).
Verso le dieci Berlinguer parlò a questa folla osannante: grazie compagne e compagni, la nostra avanzata è straordinaria in tutto il Paese, festeggiamola e, da domani, ancora al lavoro e alla lotta, perché nuovi e difficili compiti ci attendono. Bene, benissimo, nessuno si aspettava, nell’ora della grande festa, riflessioni particolarmente approfondite su un voto che pure, di lì a poco, a molti dirigenti del Pci (ricordo per tutti Gerardo Chiaromonte, uomo di finissima intelligenza e di cosmico pessimismo) sarebbe parso paradossalmente eccessivo, perché rovesciava sul partito un sovraccarico di domande spesso contraddittorie a dir poco.
Nanni Moretti, nel Sol dell’Avvenire, indica in chiave onirica nel 1956 la grande occasione persa dal Pci: se Togliatti, invece di schierarsi con l’Unione Sovietica, avesse preso le parti degli insorti di Budapest, la nostra storia e pure le nostre storie sarebbero andate molto diversamente. Sicuramente è così, ma sul piano storico e politico una simile scelta era, per il Migliore e per la grande maggioranza del partito di allora letteralmente impensabile: se le nostre nonne avessero avuto le ruote, anche il traffico urbano sarebbe oggi assai diverso.
Vent’anni dopo, però, le cose stavano in tutt’altro modo. Non solo perché i comunisti italiani, soprattutto a partire dal “grave dissenso” e dalla “riprovazione” manifestati nel 1968 a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia, avevano fatto significativi passi avanti sulla strada della revisione e dell’ autonomia dall’Unione Sovietica, e Berlinguer era giunto a dichiarare di sentirsi più tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Ma anche, e soprattutto, perché il voto del 20 e del 21 giugno, per eterogeneo che fosse, una evidenza la esprimeva: un terzo degli elettori italiani aveva messo una croce sul simbolo comunista (“il primo, in alto, a sinistra”, si ricordava fino all’ultimo con orgoglio agli elettori più anziani e/o meno acculturati) perché vedeva nel Pci “di lotta e di governo” la forza principale di una possibile alternativa, o meglio di una successione democratica alla Dc, che alla guida del governo ci stava ininterrottamente da trent’anni. Allora mi chiedo, anch’io in chiave onirica, si parva licet alla Moretti, quale altro corso avrebbe preso la nostra storia se Berlinguer, nella tarda serata di quel 21 di giugno, avesse semplicemente detto: “Abbiamo vinto in due, il Pci e la Dc, e questo impone a noi e a loro di trovare un qualche accordo per dare un governo al Paese. Ma il voto al Pci esprime una domanda di cambiamento politico e sociale, in una parola di alternativa, fortissima. Per non deluderla, per non restare in una situazione di stallo, dobbiamo cambiare anche noi”.
Ma Berlinguer queste parole non le disse. Di un revisionismo comunista (teorico, culturale, politico, organizzativo e, perché no, anche storico) che avrebbe dato linfa vitale alla costruzione, in forme originali, di quella presenza egemone di un partito socialista che in Italia, caso unico nel panorama europeo, non è mai esistita, quasi non ci fu traccia: anzi, cominciarono a manifestarsi da subito i segnali della guerra civile a sinistra destinata a concludersi, di lì a non troppi anni, con la comune rovina delle parti in lotta. Finita con l’assassinio di Aldo Moro la stagione dell’unità nazionale, il Pci – quello di Berlinguer, e ancora di più quello dei suoi successori – si ritrovò privo di una prospettiva politica. Ed entrò in agonia, una lunga agonia, ben prima del 1989, sul finire del quale Achille Occhetto, per evitare che quanto restava del suo esercito restasse intrappolato sotto le macerie del Muro di Berlino, promosse non una revisione, ma (per paradosso inspirandosi alla tradizione della Terza Internazionale) una svolta, assai più radicale di quella di Salerno. O meglio, disse lui (ispirandosi inconsapevolmente al medesimo slogan di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980), un Nuovo Inizio.
Probabilmente non poteva fare altrimenti, il “fattore tempo” di cui parlava Giorgio Amendola giocava contro di lui. Ma lo stile, politicista e scanzonato, fu quello dei parlamentini universitari seppelliti dal Sessantotto, e segnatamente dell’Unione goliardica italiana, di cui era stato (come Marco Pannella, ma pure Bettino Craxi, Gianni De Michelis e, per parte comunista, Claudio Petruccioli) un esponente importante. La storia, la tradizione, la cultura politica, il modello di partito del Pci, mai sottoposti a una seria revisione che mettesse in chiaro ciò che si dava per morto e sepolto e ciò che invece si considerava vivo e vitale, furono accantonati, o, per essere più precisi, sempre più vigorosamente sospinti sotto il tappeto; e ogni richiamo a quello che un tempo si chiamava il movimento operaio e socialista soppresso anche nel nome del nuovo partito, il Pds (co – erede, assieme a Rifondazione comunista, del vecchio Pci), non casualmente definito, prima che nel 1991, a Rimini, prendesse formalmente corpo, “la Cosa”.
Tutto questo ha contribuito non poco a far sì che un’eredità difficile, ma importantissima, come quella del comunismo italiano sia stata letteralmente dissolta, come se quel “grumo di vissuto” (la definizione è di Pietro Ingrao) di intere generazioni non avesse niente da dire alle generazioni successive, e non ci fosse nulla da trasmettere, se non orrori e tristezze su cui era meglio far calare l’oblio. Più tardi, mentre i post comunisti, assieme a vari altri post, in primis democristiani, si mettevano senza fortuna in caccia di una indefinibile idea politica “nuova” e del partito, anch’esso “novissimo”, in grado di incarnarla, del Pci e di ciò che esso è stato si sono occupati pressoché solo gli anticomunisti, nel migliore dei casi per farne la caricatura, nel peggiore per rappresentare la sua storia come una tragedia dai risvolti criminali ed eversivi, quanto meno alla pari, se non addirittura peggiore, di quella fascista: così che da tempo non solo sui morti di Reggio Emilia del luglio 1960, ma pure sulle migliaia e migliaia di partigiani e partigiane comuniste caduti nella Resistenza si fa pendere (magari chiamando a sostegno l’incolpevole Norberto Bobbio) il sospetto che non siano morti per la libertà e la democrazia, ma per imporre una dittatura di partito.
Trentadue anni, e trentadue anni come questi, sono molti, moltissimi. Sicuramente troppi per riesumare il Pci: ma questo non intende farlo (spero) nessuno. Forse non troppi, invece, per rielaborare la sua vicenda storica, cercando di rintracciarvi, tra tanti peccati per opere e per omissioni, tanti colpevoli ritardi, tante contraddizioni irrisolte, anche un filo rosso da tirare per contribuire alla fioritura di una forza politica popolare e di sinistra per fare l’opposizione che merita al governo più a destra della storia della Repubblica. “Un giornale è un giornale è un giornale” si diceva, parafrasando Gertrude Stein, all’Unità di una volta, per rivendicare un minimo di autonomia dal partito. “Un giornale è un giornale è un giornale”, si potrebbe dire anche all’Unità appena tornata, tanto più perché il partitone da cui essere autonomi non c’è più da un pezzo e, semmai, bisogna vedere se e come dare una mano a costruirne un altro, si tratti di un nuovo Pd o no non è qui il caso di discutere. Ditelo pure, se volete, ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che quella vecchia storia è in una certa misura anche la vostra, per il nome che portate e non solo: chi non ha un passato, si tratti di un giornale o di un partito, non ha nemmeno un futuro. Abbiatevi intanto gli auguri di cuore di uno che un comunista italiano lo è stato per un tratto importante della sua vita, e resta convinto, sulla scia di Arthur Koestler, che la cosa più insopportabile nel fare dell’anticomunismo sia la compagnia degli anticomunisti.
Il sequestro del presidente della Dc. Il rapimento di Moro ha deviato la storia d’Italia: a destra o a sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Novembre 2022
La mattina del 16 marzo, alle 9 e due minuti, le Brigate Rosse bloccarono le due auto con le quali Aldo Moro e la sua scorta stavano dirigendosi a Montecitorio. Una Fiat 130 e una Alfetta. Nessuna delle due era blindata. Fu un inferno di fuoco, durò esattamente tre minuti. I cinque uomini della scorta furono sterminati. Moro, illeso, fu trasferito a forza sulla Fiat 128 guidata da Mario Moretti, cioè dal capo delle Br. Poi fu spostato nel bagagliaio di un furgone e portato al covo nel quale restò prigioniero per 55 giorni, in via Montalcini, al Portuense.
Quel giorno fu deviata la storia d’Italia. A Montecitorio era prevista per le dieci la seduta della Camera chiamata a dare la fiducia al nuovo governo. Era un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che per la prima volta dal 1947 avrebbe ottenuto la fiducia dei comunisti. Il nuovo governo era frutto di un lunghissimo lavoro di mediazione condotto da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sul filo di equilibri difficilissimi. All’ultimo momento Moro, insieme ad Andreotti, aveva modificato la lista dei ministri, riducendo il numero dei tecnici orientati a sinistra ed aumentando il numero degli uomini più conservatori della Dc. Berlinguer si era infuriato e minacciava di non votare la fiducia. Alle 9 e 10 minuti la notizia del rapimento irruppe a Montecitorio. Berlinguer riunì la segreteria del partito e fu deciso di chiedere a Pietro Ingrao, che era il presidente della Camera, e a Fanfani, che era il presidente del Senato, di stringere i tempi del dibattito parlamentare e di votare la fiducia in serata. Berlinguer rinunciò a tutte le sue perplessità e diede ordine ai parlamentari di votare la fiducia. All’una di notte il governo era insediato.
E iniziò a muoversi su due binari. Il primo riguardava proprio il rapimento Moro, e Berlinguer, insieme al segretario della Dc, Zaccagnini (allievo e quasi fratello di Moro), e ai suoi vice (Galloni, Granelli, Bodrato e altri) stabilirono la linea della fermezza. Con le Br non si tratta. Craxi si dissociò. Anche nella Dc qualcuno si scostò dalla linea ufficiale. In particolare Fanfani e i suoi. Vinsero Berlinguer e Zaccagnini. La linea della fermezza fu affidata ad Andreotti e Cossiga che la applicarono con molto rigore. Il secondo binario sul quale si mosse il governo fu quello delle riforme. Anche su questo terreno il Pci prese la guida delle operazioni. In pochi mesi furono approvate alcune riforme importantissime. Prima di tutto l’introduzione dell’aborto (col voto contrario della Dc e cioè con l’opposizione del governo) poi la riforma sanitaria, che introduceva il diritto assoluto alla salute gratuita per tutti, poi la riforma psichiatrica, poi una clamorosa riforma degli affitti (di segno praticamente socialista) cioè l’equo canone, infine la riforma dei patti agrari, che riduceva i poteri dei proprietari di terra. Diciamo che si aprì la più grandiosa e feconda stagione riformista della storia della repubblica. Che si svolse sotto il tiro delle Brigate rosse e in pieno scorrere degli anni di piombo.
Una domanda che nessuno mai si è posto è questa: se Moro non fosse stato rapito, e se dunque la guida della maggioranza di unità nazionale fosse toccata a lui, e non a Berlinguer e Andreotti, si sarebbero realizzate le stesse riforme? Moro in realtà, alla guida della Dc – che dalla fine degli anni Cinquanta fino alla sua morte esercitò in alternanza con Amintore Fanfani – fu sempre un conservatore. Il primo periodo riformista del centrosinistra (con la riforma della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica) avvenne sotto la direzione di Fanfani, non di Moro. Moro era grandioso nelle sue doti di mediazione ma anche nella sua capacità di aggirare gli ostacoli e rinviare i problemi. Era un politico-politico, convinto che per governare l’Italia si dovesse muovere poco mantenendo però sempre una grande apertura mentale. È probabile che un governo di unità nazionale guidato da Moro – e quindi coi comunisti e anche i socialisti in gabbia – avrebbe avuto una carica riformista molto ridotta.
Sarebbe interessante studiare anche questo aspetto, mai esplorato della politica e della storia italiana. Il terrorismo svolse – come si diceva allora – una funzione reazionaria, cioè – per reazione – spinse a destra l’Italia; o invece mise in mora la destra, aiutando oggettivamente una politica di riforme? Ci vorrà molto tempo per capirlo. Moro restò per 55 giorni nella prigione delle Br. Inviò centinaia di lettere polemiche verso tutto l’establishment. Si disse che in quel modo destabilizzò la politica italiana. Non è vero. Rafforzò l’asse tra Dc e Pci. Creando quella amalgama che in parte esiste ancora adesso è il nucleo forte del Pd.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it il 21 maggio 2023.
«Rifarei tutto. Anche la trattativa con Vito Ciancimino». Il generale Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e del Sisde, il servizio segreto civile, è intervenuto al festival della giustizia penale di Modena, ripercorrendo il lungo processo che l’ha visto imputato per oltre un decennio, fino alla recente assoluzione in Cassazione.
Mori ha contestualizzato l’iniziativa che lo portò, nel 1992, a cercare un’interlocuzione con Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo: « Lo Stato era in ginocchio, c’era la resa totale. Io agivo senza una direttiva da parte delle gerarchie superiori, né ricevetti un uomo in più. C’era il silenzio, la stasi. Erano tutti sotto la scrivania, politici compresi, in attesa di capire chi avrebbe vinto. Noi non ci tirammo indietro».
[…]
Così Mori ha ripercorso quanto accadde. «Dopo la strage di Capaci, l’allora tenente De Donno, che aveva arrestato due volte Ciancimino per appalti truccati, mi disse: “Perché non proviamo a contattarlo? Io l’ho trattato bene, conosco anche il figlio”». Mori aderì alla richiesta «per alzare il livello dei nostri contatti con la controparte. Ero disilluso, ma partivo da una posizione di forza. Di lì a qualche mese Ciancimino sarebbe tornato in carcere. L’uomo era di valore, era un politico-mafioso, un mezzo criminale, intelligente e furbo.
Pensò di sfruttare l’ancora di salvezza. Ma quando si fa una trattativa, non si può pensare di chiedere tutto senza dare nulla. Io gli chiesi: “Signor Ciancimino, che possiamo fare? Siamo al muro contro muro tra Stato e mafia”. Lui rispose: “Io provvederò, perché conosco”. Ma ero convinto che non avrebbe fatto nulla. E fui veramente sorpreso quando al terzo incontro mi disse: “Ho parlato con la controparte. Ma voi che cosa offrite?”. Ancora dubitavo, lo misi alla prova: “Noi offriamo tanto, se loro si consegnano alla giustizia tratteremo bene le loro famiglie”.
Ciancimino, pur settantenne, schizzò in piedi dalla poltrona come una palla e disse: “Lei mi vuol far morire e vuol morire pure lei. Io queste cose non le posso dire”. Ci accompagnò alla porta e andammo via. Sulle scale De Donno mi disse che avevamo sbagliato, io gli risposi: “No. La cosa è seria, questo era veramente terrorizzato, quindi ha davvero parlato con la mafia. Vedrai che prima o poi ci richiamerà. Poi noi abbiamo catturato Riina grazie all’indagine del capitano Ultimo, ma sono convinto che Ciancimino ci avrebbe consegnato Riina perché aveva paura di lui. Provenzano no, perché erano troppo amici».
In attesa delle motivazioni, Mori sostiene che le vicende degli Anni 92-93 dovrebbero a questo punto essere sottratte alle indagini giudiziarie e affidate a una commissione parlamentare d’inchiesta.
«Ecco perché Aldo Moro liberato non serviva. Qualcuno ha approfittato del suo sequestro». Ecco cosa pensa il giudice milanese Guido Salvini del rapimento, della prigionia, delle indagini e della morte del presidente della Democrazia Cristiana. Fausto Mosca su Il Dubbio il 15 maggio 2023
Ritiene che il sequestro Moro sia stato deciso e pianificato solo dalle Brigate Rosse o che vi sia stata una qualche forma di eterodirezione?
Non direi una eterodirezione ma il mantenimento degli eventi su determinati binari da parte degli attori entrati sulla scena a sequestro avvenuto.
L'obiettivo che si erano proposte le Brigate Rosse sequestrando Moro era quello di colpire ad alto livello il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali. Ma non sono riusciti nemmeno a scalfirlo, ammesso che esistesse.
Incolti, salvo l'eccezione di cui tra poco dirò, impreparati a gestire un discorso al di fuori di quello delle armi, chiusi nella loro vetusta gabbia ideologica i brigatisti non si sono resi conto che il percorso che avrebbe avuto la prigionia dell'ostaggio sarebbe stata in realtà seguito, condizionato e in qualche modo diretto da altri che hanno colto l'occasione di quanto accaduto per dirigerlo ai propri fini Era uno scenario più grande di loro e in questo senso paradossalmente le Brigate Rosse sono rimaste confinate nel solo ruolo di esecutori. Non è un caso che dopo il sequestro, con il quale in realtà non hanno ottenuto nulla se non la separazione definitiva da quelle simpatie che pure avevano in alcuni contesti sociali, abbiano rapidamente percorso la strada del declino e dell'uscita di scena almeno come organizzazione armata.
Ci può spiegare meglio chi ha approfittato del sequestro dell'onorevole Moro?
Moro era inviso a entrambe le forze dominanti dello scacchiere internazionale dell’epoca. Non piaceva agli oltranzisti atlantici il suo progetto di associare il Pci al governo, progetto che era in discussione proprio nei giorni del suo rapimento. Ma non era gradito nemmeno ai sovietici perché Berlinguer e il Pci eurocomunista partecipando al governo avrebbero dimostrato che anche per via democratica si poteva accedere alle stanze del potere e ciò avrebbe significato il crollo del primato ideologico del Pcus. Moro voleva introdurre elementi dinamici in un quadro internazionale che doveva essere statico, metteva così in discussione gli equilibri di Yalta.
Secondo lei quale nei 55 giorni del sequestro è stata il passaggio che aveva dentro di sé la premessa per un esito tragico?
Secondo me il comunicato n. 3 con cui le Brigate Rosse annunciavano che l'interrogatorio proseguiva con la piena collaborazione del prigioniero, collaborazione ribadita nel comunicato n.6 in cui si affermava che Moro, con nomi e fatti, aveva rivelato i responsabili delle pagine più sanguinose della storia italiana Le Brigate Rosse avevano tuttavia dichiarato di non voler rendere subito pubblici, tramite i mass media o altri comunicati, il contenuto degli interrogatori.
A quel punto l'intera vicenda è stata affrontata con occhi diversi. Non si trattava più con una operazione militare e giudiziaria solo di cercare il luogo ove era tenuto prigioniero ma di recuperare quei “verbali”. Lo ha colto bene nel suo libro di memorie Dieci anni di solitudine il senatore Giovanni Pellegrino già Presidente negli anni 90 della Commissione stragi. Prima di tutto Moro doveva essere delegittimato diffondendo l'interpretazione che scriveva sotto dettatura dei suoi carcerieri e questo concetto è stato inoculato nell'opinione pubblica.
Poi l'obiettivo più urgente diventava quello di mettere le mani sugli interrogatori e renderli inoffensivi. Pensiamo al secondo rinvenimento di via Montenevoso nel 1990, con gli accenni che i manoscritti contenevano anche alla struttura Stay Behind. Molto probabilmente, questo è un aspetto che in genere non si considera, le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, a fronte del comunicato n. 6, comunque allusivo e sibillino, potevano temere che Moro avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto di più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali.
A quel punto Aldo Moro era politicamente morto, più ancora che morto divenuto ingombrante, poteva essere lasciato morire e così è stato.
Il consulente Usa nel comitato di crisi Steve Pieczenik ha del resto spiegato anni più tardi in una intervista che la morte di Moro non era stata un insuccesso della sua missione, anzi era stato consentito che ciò accadesse senza intervenire. L'ostaggio più importante dal punto di vista degli equilibri politici, erano invece le carte, gli interrogatori.
Alla fine Moro è stato ucciso e i suoi interrogatori completi non sono stati mai trovati né resi pubblici nemmeno con la caduta dell’intercapedine di via Montenevoso. Questo nonostante l'affannosa ricerca ordinata dal generale Dalla Chiesa anche in tutte carceri speciali e nonostante appaia molto difficile che gli originali, le bobine e forse qualche video siano stati bruciati, come ha sostenuto Moretti. Le Brigate Rosse erano maniache dell'archiviazione di tutti i loro documenti e ben difficilmente, anche in vista di un utilizzo futuro, si sarebbero private di un trofeo del genere.
Quindi dopo l'abbandono da parte dello Stato, più interessato a quanto Moro avesse detto che alla vita dell'ostaggio, la sorte del prigioniero era segnata?
Credo di sì. C'è stata nelle ultime settimane prima del 9 maggio l’iniziativa del Vaticano che, lo abbiamo definitivamente accertato con il lavoro della 2ª Commissione Parlamentare Moro, aveva messo a disposizione una somma enorme, 10 miliardi di lire, da consegnare alle Brigate Rosse in cambio della salvezza dell'ostaggio.
Ma per quanto condotta ad alti livelli quella del Vaticano era pur sempre una “iniziativa privata” che non proveniva dal governo e dalle istituzioni mentre le Brigate Rosse pretendevano da queste un riconoscimento politico. Quindi era destinata a fallire.
Alla fine vi è stato secondo lei un accordo tacito tra le istituzioni e le Brigate Rosse?
Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, compreso il silenzio sui “verbali” di Moro, è molto probabile. lo ricorda sempre il presidente Pellegrino, che lo Stato si sia accontentato della verità, utile sul piano strettamente giudiziario ma parziale, offerta dal memoriale di Valerio Morucci e il livello di “dicibililità” si sia fermato lì. Una sorta di scambio tacito, appunto.
Morucci, Moretti, con i suoi 6 ergastoli, e a seguire tutti gli altri hanno avuto i primi consistenti benefici penitenziari dopo appena una dozzina di anni di carcere, un trattamento molto più benevolo rispetto alla carcerazione subita da militanti meno noti di altri gruppi armati che però non avevano niente da vendere e rispetto anche ai condannati per delitti comuni.
Chi condusse gli interrogatori di Moro?
Certamente non solo Mario Moretti, un semplice perito industriale che aveva la metà degli anni di Moro e che non era all'altezza sul piano culturale di condurre un dialogo del genere.
Credo che il regista degli interrogatori dello statista sia state “intelligenze”, forse il professor Giovanni Senzani, criminologo consulente del ministero di Giustizia, che operavano dalla base del Comitato esecutivo a Firenze e cioè dal back stage mai del tutto venuto alla luce di quei 55 giorni.
Anche questo aspetto del sequestro è stato lasciato in ombra e anche per questo motivo le bobine degli interrogatori sono scomparse.
Passando più in dettaglio alla vostra Relazione come avete lavorato nei termini di tempo ristretti dovuti allo scioglimento delle Camere?
Innanzitutto per la prima volta con il lavoro di queste commissioni, la seconda Commissione Moro e la Commissione antimafia, si è offerta una ricostruzione visiva della scena di via Fani con piantine e rappresentazioni grafiche dettagliate in cui sono collocati, ognuno al suo posto, gli sparatori, i testimoni, le autovetture e le rose dei bossoli. E questo studio ha dato dei risultati.
Credo che si riferisca al numero e alla posizione degli sparatori. Sono stati individuati tutti coloro che agirono in via Fani?
Credo che dalla relazione emerga, sulla base di elementi oggettivi e non di dietrologie che abbiamo sempre evitato, che in via Fani abbiano agito più sparatori rispetto quelli indicati da Valerio Morucci.
Mi riferisco a uno o più sparatori in alto a sinistra che annullarono il tentativo di reazione dell'agente Iozzino. Richiamo l'attenzione sul racconto di una testimone da noi sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. Poi un altro sparatore posizionato in basso a destra che colpì con precisione alle spalle il brigadiere Zizzi.
Poi un testimone molto attendibile, un medico che stava passando in via Fani e che era stato praticamente dimenticato dagli inquirenti dell'epoca, ci ha confermato la presenza di una motocicletta accanto ai terroristi travestiti da avieri. Anche la presenza di una moto con funzioni di appoggio è quindi ormai una certezza. Sono protagonisti della scena di via Fani su cui non si è mai voluto dire nulla e bisognerebbe capire perché.
Nella relazione si parla anche di quello che è avvenuto dopo la fuga da via Fani e del trasbordo di Moro sul furgone…
Nella relazione c'è anche una ricostruzione della fuga del convoglio da via Fani da cui emerge che i brigatisti disponevano quella mattina non di uno ma di due furgoni e che ben difficilmente il trasbordo di Moro nella cassa di legno può essere avvenuto, come affermano, in una piazza frequentata, Piazza del Cenacolo. Con ogni probabilità quell'operazione è avvenuta nella zona isolata e boscosa di via Massimi, non molto dopo l'inizio della fuga, e con l'intervento di altre presenze che sono state taciute.
Ancora sono emersi nuovi elementi che rafforzano l'ipotesi che l'ultima prigione di Moro, poco prima dell'omicidio, non fosse via Montalcini ma si trovasse proprio nella zona del Ghetto ebraico ove il corpo è stato ritrovato. Tutte zone d'ombra queste che dovrebbero avere una spiegazione e che si intersecano con il punto centrale e cioè la strategia e l'esito tragico di quei 55 giorni.
La relazione approvata dalla Commissione antimafia è molto critica sul modo con cui furono condotte le indagini dagli investigatori e dalla magistratura già nei momenti immediatamente successivi a sequestro. Cosa ci può dire in merito?
La fase iniziale delle indagini e cioè quella decisiva è stata condotta in modo artigianale. I testimoni oculari sono stati sentiti in modo più che approssimativo da differenti organi di Polizia giudiziaria e poi da magistrati che “ruotavano”, senza nemmeno una piantina che collocasse esattamente i testimoni e quanto avevano visto in un preciso punto dell'incrocio e senza fotografie con i vari modelli di vetture e furgoni da identificare. In questo modo, senza una struttura di indagine unica e dedicata, ogni audizione è avvenuta senza nemmeno conoscere il contenuto delle altre e senza quindi poter formare un quadro d'insieme e sovrapponibile. Non parlo di tecniche scientifiche, che all'epoca potevano non essere disponibili, ma di normali audizioni di testimoni la cui tecnica doveva essere un patrimonio degli investigatori e degli inquirenti. Eppure ci si trovava dinanzi al più grave delitto politico del dopoguerra.
Dopo il mancato confinamento di via Fani e l'invasione dei curiosi questo è stato il secondo inquinamento colposo della scena del crimine. Poche delle conoscenze così perdute erano recuperabili, qualche testimone per fortuna è stato rintracciato e si è reso disponibile grazie all'impegno delle Commissioni parlamentari.
La Commissione ha anche sentito Franco Bonisoli uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse e presente in via Fani. Come si è rapportato con voi?
Franco Bonisoli ha da tempo ripudiato la lotta armata e ha partecipato a incontri anche nelle scuole sui temi del terrorismo e della riconciliazione con Agnese Moro e i familiari di altre vittime. Ma la sua audizione è stata desolante.
Ci ha raccontato di non poterci dire niente perché aveva dimenticato, sì, dimenticato, dice così, tutto quello che era successo in via Fani e dopo. Come se uno dei principali protagonisti della più importante e con maggiori conseguenze azione brigatista potesse semplicemente averla del tutto rimossa dalla sua mente. Un comportamento, quello di Franco Bonisoli ma anche di altri in occasioni simili, che fa riflettere su certi atteggiamenti puramente esteriori e poco costosi che dopo la fine del terrorismo sono stati tanto apprezzati. Un vero mutamento interiore dovrebbe passare attraverso l'offerta di verità. Altrimenti la fraternizzazione anche con i parenti delle vittime rimane una scatola vuota e priva di contenuto.
Cosa ne pensa del possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro dell'onorevole Moro?
Non enfatizzo un possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro Moro. Può darsi che vi sia stato qualche appoggio logistico, ma non molto di più. Invece è certo che durante i 55 giorni della prigionia la criminalità organizzata, dalla banda della Magliana alla camorra, si sia proposta e sia stata attivata per individuare la prigione di Moro, anche con qualche probabilità di successo. Ma anche la disponibilità e l'attivismo della criminalità organizzata, ce lo hanno detto molte testimonianze tra cui quella di Maurizio Abbatino, fu fermata. Non per motivi etici ma perché Moro liberato non serviva più.
Rapimento Moro, quei complottisti a caccia di fantasmi...Il presidente della Dc è stato sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Ma dalle Commissioni d’inchiesta alle procure sono 45 anni che si tenta, inutilmente, di smentire la versione ufficiale. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 marzo 2023
Sono passati quarantacinque anni esatti dal sequestro di Aldo Moro e dalla strage della sua scorta, ma i dietrologi e gli illusionisti di ogni risma non riescono proprio ad accettare il fatto che a rapire e a uccidere il presidente della Democrazia cristiana furono le Brigate rosse e nessun altro. A quasi mezzo secolo di distanza da quei tragici eventi continuano infatti ad evocare cospirazioni, manipolazioni, regie occulte, disturbati dal pensiero che un piccolo manipolo di operai e studenti di bassa estrazione sociale abbia tenuto sotto scacco lo Stato e i suoi apparati per così tanto tempo. La chiamavano “geometrica potenza” dell Br una bella suggestione letteraria, in altri termini il nome che lo Stato aveva dato alla sua incapacità di comprendere e contrastare il fenomeno brigatista, ma quell’immagine di efficienza militare attribuita dalla politica e dal circo mediatico all’organizzazione comunista armata ha alimentato con enorme successo il filone del complottismo.
Non stiamo parlando solamente del flusso di opinione qualunquista e gelatinoso che scorre sui social, dei discorsi da bar o delle ossessioni degli “specialisti” della congiura come Sergio Flamigni o Paolo Cucchiarelli che su questi giochetti di ombre cinesi agitate attorno all’affaire Moro hanno costruito una discreta carriera.
La caccia ai fantasmi di via Fani è purtroppo uno sport ancora in voga anche ai più alti livelli politici e istituzionali.
Illuminante in tal senso è stato il lavoro della Commissione Moro II con la sua fissazione di voler scovare a tutti i costi il Dna di individui estranei alle Br sul luogo dell’attentato per suffragare l’ipotesi di complotto.
Come nel plot twist di un film hollywoodiano i commissari di Palazzo San Macuto speravano di far emergere verità scottanti e inconfessabili, magari illuminando la longa manus dei servizi segreti, o addirittura quella delle centrali di intelligence straniere: la Cia, il Kgb, e persino gli israeliani del Mossad come sostenne l’ex Pubblico Ministero di Genova Luigi Carli in una memorabile audizione davanti alla Commissione.
Un fronte di indagine, quello genetico, affidato al Reparto investigazioni speciali dei carabinieri, il celebre Ris, che ha messo a confronto le tracce biologiche rinvenute in via Fani con quelle presenti nel covo brigatista di via Gradoli 96.
Le analisi però non confermano nessun sospetto evocato dalla Commissione, al contrario denudano diverse fake news che negli anni hanno tentato di smontare senza successo la “versione ufficiale”.
In primo luogo nel covo non è stato ritrovato nessun frammento del Dna di Moro ( i quattro profili genetici isolati dal Ris, due maschili e due femminili, non coincidevano con quelli prelevati ai familiari dello statista Dc), il che smentisce chi afferma che il leader democristiano fosse stato imprigionato o comunque avesse transitato anche per via Gradoli: in tutti i 55 giorni del sequestro rimase nella “prigione del popolo” di via Montalcini come hanno sempre affermato i brigatisti coinvolti.
Inoltre nei reperti di via Gradoli emerge una «compatibilità biologica» con il l Dna della brigatista Adriana Faranda, un’altra conferma di quanto sostenuto dai protagonisti: nella base avevano vissuto infatti tre coppie, Carla Maria Brioschi e Franco
Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Valerio Morucci, questi ultimi proprio durante i giorni del rapimento dopo che l’appartamento di Piazzale Vittorio Poggi in cui vivevano si era “bruciato”. Anche l’inseguimento dei “tabagisti” sulla scena del delitto si è rivelato un flop: le analisi dei 39 mozziconi ritrovati nella Fiat 128 targata corpo diplomatico utilizzata in via Fani per bloccare le automobili di Moro e della sua scorta isolano infatti le tracce genetiche di Nando Miconi, il proprietario del mezzo rubato, su alcuni mozziconi ci sono invece le tracce miste di Miconi e di un ignoto, con ogni probabilità un suo amico o conoscente. Sono soltanto dieci i mozziconi riconducibili a sei ignoti, ma poiché nessuno ha mai visto uscire sei persone dalla Fiat 128 la mattina del 16 marzo 1978, con tutta evidenza le tracce sui mozziconi appartenevano anch’esse a conoscenti del proprietario.
Nel 2021 il fascicolo sui tabagisti viene ereditato dalla procura di Roma la quale convoca quei brigatisti che inizialmente si erano rifiutati di fornire alla Commissione i loro profili genetici. Un accanimento che secondo Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br «è un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità come le torture».
Arrestato il 17 maggio del 1978, otto giorni dopo la morte di moro, Triaca venne in effetti torturato dal funzionario di polizia Nicola Ciocia, il cosiddetto “professor De Tormentis” che lo sottopose al waterboarding, la stessa tecnica utilizzata dalla Cia per far parlare i sospetti jihadisti e proibita da qualsiasi convenzione internazionale Convocazioni pittoresche quelle della procura romana, basti pensare a Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Br addirittura nel 1974 o a Giovanni Senzani che non è mai stato un fumatore. In tutto furono una dozzina abbondante gli ex Br convocati, la maggior parte condannati in via definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Cercando di comprendere l’utilità di simili test, siamo ancora in attesa degli esiti dei nuovi accertamenti genetici visto che l’inchiesta della procura è ancora in corso.
Un altro brutto autogol della Commissione riguarda il testimone Alessandro Marini: nessuno aveva sparato contro di lui in via Fani e il parabrezza del suo motorino Boxer Piaggio si era rotto a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
Peraltro, e questo particolare la dice lunga su quanto il furore cospirazionista flirti con il cinismo, il presidente della Commissione Fioroni non hai mai contattato la procura perché avviasse la revisione delle condanne per il tentato omicidio di Marini, tentato omicidio che logicamente non è mai avvenuto.
Le strane certezze della Commissione Antimafia. Il complotto sull’uccisione di Aldo Moro scatena la fantasia della commissione antimafia. Vladimiro Satta su Il Riformista il 16 Marzo 2023
La cessata commissione parlamentare Antimafia della legislatura scorsa ha reso note le Risultanze di un supplemento di acquisizioni investigative sull’eventuale presenza di terze forze, riferibili a organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani (Doc. XXIII n. 37, Sez. VII). La decisione a prima vista stravagante di occuparsi della vicenda Moro –che in sede parlamentare era stata già oggetto di inchiesta di due commissioni monotematiche, di buona parte dei lavori delle commissioni Stragi e Mitrokhin e di ulteriori discussioni nelle assemblee e nelle commissioni permanenti, nonché di molteplici procedimenti giudiziari e di una montagna di studi storici e di testi pubblicistici e giornalistici – era stata adottata nel quadro di un’espansione a largo raggio: le sezioni tematiche in merito alle quali l’organismo presieduto dal senatore Nicola Morra ha pubblicato relazioni sono ben venticinque.
Tra esse figurano la sparizione di Rossella Corazzin, i delitti delle coppie nella provincia fiorentina tra il 1974 e il 1985 e i rinvenimenti di cadaveri nelle acque del lago Trasimeno nel 1985, l’assassinio di Simonetta Cesaroni a Roma in via Poma, la morte del ciclista Marco Pantani, il furto della pellicola originale di un film di Pier Paolo Pasolini e «le possibili connessioni di quel crimine con l’uccisione» dell’artista. La tendenza ad allargarsi si è manifestata anche nelle pagine dell’elaborato interamente dedicato all’agguato di via Fani, poiché un capitolo tratta della «possibile interferenza» non solo della criminalità organizzata ma anche di «altri soggetti» negli «accadimenti che hanno segnato i 55 giorni del sequestro Moro», invece di attenersi alla dinamica dell’episodio iniziale come il titolo faceva pensare.
Nelle sue pagine introduttive la commissione Antimafia dichiara di essere pervenuta «ad un giudizio di maggior probabilità rispetto al passato in relazione alla presenza nell’azione di un numero diverso di soggetti rispetto a quelli riscontrati in sede di accertamenti giudiziari» (p. 4) e, in quelle conclusive, di «ritenere che nell’organizzazione di un’azione che comportava capacità strategiche elevate e una notevole preparazione militare [che le BR abbiano] chiesto ed ottenuto l’apporto, con qualche contropartita, di uno o più soggetti che potevano assicurare la propria esperienza, tanto nell’uso delle armi da fuoco in condizioni difficili, quanto nella gestione dei sequestri di persona». (p. 61). La Commissione vanta di essersi «avvalsa per la prima volta, in occasione di alcune audizioni, di una precisa e leggibile planimetria della scena dei fatti approntata dalla Polizia Scientifica» (p. 5) e «integrata con il contributo (…) del collettivo di ricercatori Sedicidimarzo» (p. 6) consistente in un «gruppo di quattro persone che si sono incontrate in rete per via del comune interesse al caso Moro» (questa la loro autodefinizione sul blog che hanno creato) e del signor Maurizio Barozzi (Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, p. 6), personaggi di cui la relazione mostra di fidarsi maggiormente (nota 5, nota 6 e passim).
Altra risorsa sulla quale l’Antimafia punta molto è un’audizione della testimone oculare C. D. (uso le iniziali perché la signora non desidera pubblicità e quando è stata chiamata a rivivere la drammatica scena ha acconsentito esclusivamente per senso del dovere), la quale era già stata sentita due volte nel 1978 dagli inquirenti e dal Giudice Istruttore. Scorrendo le sessantuno cartelle del Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, i concreti riferimenti a «uno o più o soggetti» diversi dalle BR che avrebbero affiancato i terroristi si riducono al solo Giustino De Vuono, un appartenente alla ‘ndrangheta morto nel 1994 il quale nel 1975 aveva partecipato ad un altro sequestro di persona, quello dell’ingegner Saronio, effettuato da elementi di estrema sinistra che però non erano brigatisti rossi e avevano agito a scopo di estorsione. Viceversa, l’Antimafia inclina ad escludere il coinvolgimento di un altro elemento della ‘ndrangheta, Antonio Nirta (p. 54, nota 132), ipotesi che la Commissione Moro-2 (anni 2014-2018) aveva ritenuto plausibile e la giornalista Simona Zecchi del Fatto Quotidiano aveva addirittura spacciato per dimostrata al novantanove per cento. Nelle prime ore successive all’attacco in via Fani, De Vuono era stato sospettato di essere implicato «in veste di elemento di appoggio» alle BR (p. 57).
La suggestione era stata presto smentita ma taluni dietrologi non si sono dati per vinti e in seguito hanno dipinto De Vuono «anche come soggetto eventualmente coinvolto nella tragica conclusione della vicenda» (ibidem), cioè nell’esecuzione di Moro. L’Antimafia non adduce nulla di nuovo a sostegno delle illazioni sul defunto De Vuono, fuorché un’audizione di Alice Carobbio, ex-compagna di uno dei protagonisti del sequestro Saronio, Carlo Casorati. A detta della Carobbio, il De Vuono, cui in sede processuale era stato attribuito «un ruolo di semplice telefonista e quasi di comprimario» del rapimento Saronio, avrebbe invece svolto anche «mansioni operative nell’ambito della predisposizione del sequestro» (p. 58). Tutto qui.
L’Antimafia stessa, peraltro, riconosce che nel 1977 De Vuono, ricercato, espatriò in Paraguay, da lì «si sarebbe spostato in Brasile e sarebbe rientrato ad Asuncion in Paraguay nell’agosto del 1978» e, soprattutto, che «non vi è tuttavia allo stato alcuna evidenza certa della presenza di Giustino De Vuono in via Fani» (pp. 57-58). È perciò misterioso cosa abbia indotto l’Antimafia ad una conclusione più che possibilista in ordine ai presunti apporti di uno o più soggetti esterni alle BR. Tale scenario è anzi inverosimile per una serie di ragioni, che si possono sintetizzare come segue: 1) dal punto di vista delle BR, chiamare a sparare in via Fani un esterno sarebbe stato rischiosissimo. Quale garanzia di lealtà a tutta prova avrebbe mai potuto dare loro uno come De Vuono?; 2) tutte le numerose azioni militari delle BR, prima e dopo via Fani, furono eseguite senza aiuti esterni; 3) gli assalitori di via Fani non avevano bisogno di aiuti esterni, come dimostra l’analogo caso avvenuto nel 1977 in Germania allorché i terroristi della Raf rapirono l’industriale Schleyer con modalità simili a quelle di via Fani, riuscendo anche loro a sterminare gli uomini della scorta della vittima senza subire perdite; 4) i lavori peritali disposti tra il 2014 e il 2015 dalla Commissione Moro-2 ribadirono che in via Fani non ci fu alcun superkiller, ovvero nessuno che fosse dotato di capacità militari straordinarie, di gran lunga superiori a quelle degli altri; 5) il mattino del 9 maggio in cui l’inerme Moro fu ucciso, perché mai le BR avrebbero avuto necessità di chiamare di nuovo il ricercato De Vuono? Non erano forse capaci di assassinare il prigioniero da sole?
Si tratta di obiezioni già ampiamente sollevate dagli studiosi, cui i dietrologi non rispondono ma che la commissione Antimafia, per coerenza con l’impegno a differenziarsi da questi ultimi preso a pagina 4 della relazione, avrebbe dovuto prendere in considerazione, quantomeno. Così non è stato, invece, forse a causa di un deficit di conoscenza del pluridecennale lavoro altrui. La relazione dell’Antimafia offre più di un indizio in questo senso. Ad esempio, essa attribuisce ad un libro dell’ex-brigatista Paolo Persichetti uscito nel 2022 (La Polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro) la primogenitura della notizia dell’esistenza di un furgone di riserva tenuto pronto dai terroristi il 16 marzo 1978, e ne deduce che la loro è una «verità a rate», rivelata «proprio mentre era in corso l’attività di approfondimento di questa Commissione» (p. 37); Persichetti ha avuto buon gioco a replicare, sulla testata Insorgenze, che la presunta primizia in realtà era stampata nel libro autobiografico di Mario Moretti realizzato con le giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda, Brigate Rosse: Una storia italiana, notissimo agli esperti della materia, edito nel 1994!
Di inedito c’è dell’altro, piuttosto, nella relazione dell’Antimafia. Nella nota 134 (p. 55) si fanno i nomi della coppia che, durante i lavori della Commissione parlamentare Moro-2 (anni 2014-2018, presidente Giuseppe Fioroni) si accertò avere ospitato nell’autunno 1978 il latitante Prospero Gallinari in un appartamento di via Massimi 91 a Roma: Fabio Milioni e Silvia Salvetti. Su via Massimi 91 l’Antimafia, nella nota 134, aderisce all’ipotesi in corso di verifica che i brigatisti in fuga da via Fani con l’ostaggio abbiano fatto tappa lì. Dal canto mio, avendo scritto nel 2018 un libro in collaborazione con un membro della commissione Fioroni, Fabio Lavagno (intitolato Moro. L’inchiesta senza finale) ricordo bene che in quel periodo -cioè dopo che l’organismo parlamentare aveva chiuso i battenti- i nomi della coppia di via Massimi erano top secret, sicché io stesso continuai ad ignorarli. La commissione Moro-2 aveva fatto sapere, piuttosto, che sulla coppia erano in corso indagini da parte dell’autorità giudiziaria, cui naturalmente l’organismo parlamentare aveva trasmesso le informazioni in suo possesso. Anche quando a maggio 2020 la stampa diede notizia di una querela contro l’ex-parlamentare Gero Grassi presentata dai due indagati (o da uno dei due) i loro nomi non furono pubblicati. Sfortunatamente la nota dell’Antimafia non dice se le indagini giudiziarie su Milioni e Salvetti siano terminate. Vladimiro Satta
Le strane convinzioni dell'Antimafia. Lo “sparatore sconosciuto” è solo una delle fantasie su Moro…Vladimiro Satta su Il Riformista il 19 Marzo 2023
De Vuono a parte, il Doc. XXIII, n. 37, Sez. 7 propone una ricostruzione dell’attacco in via Fani che si caratterizza per tre aspetti. Il primo, è la conclusione «con altissima probabilità» che uno degli sparatori colpisse dal lato destro di via Fani anziché dal sinistro come gli altri (p. 45); il secondo è la tesi che il vicebrigadiere Zizzi, il quale fu trovato riverso sul sedile della seconda auto di scorta, in realtà nel corso dell’attacco fosse uscito dalla vettura, avesse tentato di reagire, fosse stato raggiunto dai proiettili brigatisti e, non essendo deceduto all’istante, fosse rientrato nella vettura e avesse provato a dare l’allarme alla Centrale di Polizia usando l’autoradio, sebbene non ci fosse riuscito (p. 29); il terzo, è che uno «sparatore sconosciuto» si sia «dileguato autonomamente» rispetto agli altri aggressori (p. 17).
Si tratta di affermazioni in contrasto con le precedenti ricostruzioni giudiziarie, parlamentari e storiografiche, mentre limitatamente alla questione del lato destro trovano qualche rispondenza nella pubblicistica. Preliminarmente, va ricordato che a sparatoria conclusa una folla invase la sede stradale prima che la Polizia avesse avuto il tempo di fare tutti i rilevamenti del caso, che alcuni bossoli giacenti sull’asfalto furono prelevati dai curiosi o spostati involontariamente con i piedi, sortendo effetti che la pendenza di via Fani probabilmente accentuò, e che gli assalitori non erano fermi su piazzole di tiro bensì erano liberi di muoversi e, naturalmente, si mossero. La Polizia Scientifica, incaricata dalla commissione Moro-2 di ricostruire la dinamica dell’attacco, nel 2015 puntualizzò infatti che un brigatista «nella fase finale dell’agguato si è spostato, girando intorno alle vetture, per portarsi sul lato destro», dal quale fece partire alcuni colpi all’indirizzo degli uomini della scorta. Bisognerebbe andare assai cauti, pertanto, se si volessero disegnare scenari rivoluzionari poggiandosi sull’analisi delle traiettorie intra-somatiche dei proiettili e sulle posizioni dei bossoli.
Tornando al Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, si rileva che la testimonianza della signora C. D. (pp. 15-17) riferisce esclusivamente di spari dal lato sinistro (né poteva essere altrimenti, data la posizione nella quale ella aveva trovato riparo). La nuova planimetria di via Fani tracciata su incarico dell’Antimafia deve essere posteriore alla data di (ri)nascita dell’Antimafia stessa, 7 agosto 2018, il che però significa che è posteriore pure rispetto alla risistemazione di via Fani che fu fatta in funzione della costruzione di una nuova e più imponente lapide inaugurata il 16 marzo 2018. Al fine di creare un’area di rispetto davanti al monumento funebre, uno dei marciapiedi della via fu allargato occupando parte della corsia destra (quella a scendere) e corrispondentemente fu ristretto il marciapiede a sinistra. Nel 1978, insomma, la situazione era leggermente diversa da come è divenuta a partire da marzo 2018. Dando per scontato che la planimetria fatta preparare dall’Antimafia sia fedele all’aspetto che l’area aveva nel 1978, ciò implicherebbe che è stata sviluppata partendo dai dati disponibili già in passato. Di conseguenza né la testimonianza di C. D. del 2022 né la planimetria a lei mostrata recano riscontri che possano dirsi nuovi all’ipotesi -vecchia- che un tiratore fosse appostato sul lato destro.
Riguardo a Zizzi, la dinamica prospettata dal Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII è diversa dai racconti di tutti i testimoni oculari, di ieri e di oggi: stando al testo, non vide nulla del genere neppure la signora C. D., benché ella fosse ben posizionata per osservare l’automobile sulla quale viaggiavano Iozzino e Zizzi. L’Antimafia, che nel descrivere la fi ne di Iozzino si basa largamente sulla signora C. D., pare dimenticarsi di lei quando si tratta di Zizzi. Di certo l’estensore della relazione (il magistrato Guido Salvini?) ha ignorato le affermazioni del dirigente della Polizia Lamberto Giannini, audito dalla Commissione Moro-2 l’8 luglio 2015 insieme a due suoi colleghi della Scientifica, il quale escluse persino che Zizzi fosse sceso dalla vettura.
Dal Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII nulla trapela circa le repliche della Polizia Scientifi ca alle contestazioni da parte dell’Antimafia, e viene persino da domandarsi se tali contestazioni le siano state mosse. Lo «sparatore sconosciuto» (perché mai non dovrebbe trattarsi di uno dei dieci brigatisti conosciuti?), a rigore, nessuno sa come si sia dileguato: neanche la testimone C. D. Prova ne sia che l’elaborato dell’Antimafi a, nella nota 103 di pag. 45 scrive che «non è peraltro escluso» che l’uomo si sia allontanato a bordo della moto Honda di cui tanto si parla da sempre. Se la testimone C. D. lo avesse seguito con lo sguardo fi no al momento in cui egli si dileguò, non ci sarebbero margini di dubbio sul mezzo di trasporto da lui adoperato.
Ma se non lo seguì con lo sguardo fino ad allora, non si può essere certi che l’uomo non si sia unito ad altri brigatisti qualche attimo dopo che la signora lo aveva perso di vista. Le perplessità sulle affermazioni del Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII appena illustrate vanno accompagnate da qualche rifl essione sulla tematica che esso affronta rispetto alla vicenda Moro nel suo complesso. Cosa cambierebbe se uno degli attaccanti avesse sparato da destra anziché da sinistra? O se uno di loro si fosse allontanato da via Fani da solo e non insieme agli altri? Poco o nulla, poiché non basterebbe affatto a dimostrare che il presunto tiratore da destra e/o il presunto fuggiasco solitario fossero estranei alle BR. Non basterebbe nemmeno a dimostrare il presunto occultamento di chissà quale complotto da parte dei brigatisti, perché nessuna testimonianza di scene del genere di quella di via Fani può essere esatta fin nei minimi particolari -e infatti ci sono divergenze pure tra i racconti dei passanti – specie a distanza di anni. Oltre tutto, i terroristi erano intenti a rapire Moro ed annichilire i suoi difensori, non ad annotare particolari da riferire in futuro agli inquirenti.
Con il trascorrere degli anni spesso si mettono di mezzo anche i vuoti, gli inganni e gli inquina menti della memoria. Dare esagerato rilievo a ricerche di estremo dettaglio e inessenziali quando esse sembrano suscettibili di aprire una sia pur minuscola crepa all’interno del mosaico che sin dal 1983 la magistratura e la commissione parlamentare Moro-1 assemblarono, e che poi gli storici hanno arricchito, è un atteggiamento che accomuna il Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII ad altri contributi di varia natura e provenienza, non una sua esclusiva. Si potrebbe anzi argomentare che l’Antimafia non abbia potuto fare di meglio perché, a differenza di altri, è stata condizionata dal poco tempo a disposizione (ulteriormente accorciato dalla fi ne anticipata della Legislatura XVIII) nonché dalla concomitanza di molti altri temi cui si era impegnata a dedicare attenzione e risorse. Resta il problema, comunque, che il criticismo portato all’eccesso rischia di produrre -consciamente o no- un mutamento dell’oggetto di studio, che finirebbe per non essere più il caso Moro, bensì diventerebbe il grado di precisione formale con cui il caso Moro è stato rappresentato finora.
Il senso della misura deve aiutarci a non cadere nell’errore di immaginare che qualora si scoprisse un’inesattezza marginale nella ricostruzione consolidatasi in più di quarant’anni di inchieste e studi, -cosa teoricamente possibile e anzi probabile, continuando ad esplorare al microscopio ogni singolo punto di una vicenda durata cinquantacinque giorni intorno alla quale si diedero da fare migliaia di persone- allora tutto andrebbe azzerato e rifatto da capo. Tranne rare e fallimentari eccezioni, le dietrologie del caso Moro finora non sono state capaci di offrire compiute alternative alla tesi secondo cui quella vicenda fu l’apice di una lotta armata condot ta coerentemente dalle BR per quasi venti anni, che ebbe quale bersaglio politico privilegiato la Democrazia Cristiana e si concluse dieci anni dopo Moro con l’omicidio di un altro esponente dello scudo crociato, il senatore Roberto Ruffilli. Non a caso, molte volte, i complottisti si trincerano nella paradossale affermazione che ancora non si sarebbe indagato abbastanza (!) e si limitano ad esercizi di decostruzione minimalistici che non porterebbero lontano neppure qualora andassero a buon fine.
L’inchiesta dell’Antimafia sul caso Moro, in definitiva, è stata un secondo tentativo parlamentare di riscrivere il caso Moro rimasto, però, molto al di sotto delle ambiziose aspettative iniziali. La volta precedente, quella della Moro-2 della Legislatura XVII, l’allora presidente Fioroni aveva pronosticato che gli storici sarebbero stati costretti ad un super-lavoro per stare dietro alla sua Commissione (resoconto della seduta 1 luglio 2015), ma al termine ammise che l’opera dell’organismo parlamentare era stata «frammentaria» (seduta del 6 dicembre 2017) e diede segno di essersi smarrito al punto di non riuscire più nemmeno a dire «con precisione chi ha ucciso Aldo Moro e come, dove e perché» (Moro. Il caso non è chiuso, Lindau, Torino 2018, p. 8). Indubbiamente l’Antimafia, come si diceva, ha l’attenuante di essere stata costretta a interrompere la propria inchiesta prima del previsto. In ogni caso, nel contesto della recentissima ricostituzione di una commissione parlamentare Antimafia nella corrente Legislatura XIX e di altre proposte di istituzione di commissioni parlamentari d’inchiesta che circolano attualmente, sarà bene tenere conto delle difficoltà incontrate nella Legislatura XVIII e valorizzare meglio il patrimonio delle conoscenze già maturate. Queste ultime sono in grado di dare agli interrogativi su caso Moro e più in generale sulla lotta armata, -il contesto in cui il caso Moro si colloca-, risposte molto più esaurienti e convincenti di quanto alcuni suppongono ce ne siano.
*Già curatore della documentazione della Commissione parlamentare d’inchiesta su terrorismo e stragi dal 1989 al 2001, è stato poi autore di numerosi studi e lavori sul caso Moro. Tra i suoi volumi, il primo fu Odissea nel caso Moro, (Edup, Roma 2003) e il più recente è Moro. L’inchiesta senza fi nale (Edup, Roma 2018), quest’ultimo scritto insieme a Fabio Lavagno (a sua volta ex-componente della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro-2). Vladimiro Satta
Prodi, Moro e il famoso mistero della seduta spiritica. Davide Maria De Luca su Il Post 4 aprile 2018.
La storia incredibile di come 40 anni fa si cercò Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse, nel posto sbagliato ma non così sbagliato
Il 4 aprile del 1978 un professore universitario bolognese, Romano Prodi, raccontò a un alto funzionario della Democrazia Cristiana (DC) che durante una seduta spiritica aveva scoperto dov’era tenuto prigioniero Aldo Moro, il presidente della DC rapito dalle Brigate Rosse due settimane prima. Spiegò che la seduta spiritica era avvenuta due giorni prima a Zappolino, un comune poco fuori Bologna, e che gli spiriti avevano rivelato a lui e a altri presenti che Moro era prigioniero a Gradoli, un paesino vicino a Viterbo, sul lago di Bolsena. La segnalazione fu presa seriamente e arrivò alla polizia, ma gli agenti mandati sul posto non trovarono nulla. Due settimane dopo a Roma la polizia scoprì per caso l’appartamento dove viveva Mario Moretti, l’organizzatore della strage di via Fani e uno dei carcerieri di Aldo Moro. Moretti sfuggì alla cattura – che avrebbe potuto cambiare le sorti del sequestro – perché aveva lasciato il covo per l’ultima volta poche ore prima. Il covo si trovava in via Gradoli, sulla strada che porta a Viterbo.
Dopo l’uccisione di Moro, magistrati e commissioni di inchiesta chiesero più volte ai dodici partecipanti alla seduta di Zappolino come fosse stata possibile una simile coincidenza. Tutti quanti confermarono la versione di Prodi: la parola “Gradoli” associata al rapimento di Aldo Moro era emersa durante una seduta spiritica in una villa fuori Bologna, il 2 aprile del 1978. Sono passati esattamente quarant’anni e nessuno dei dodici protagonisti ha cambiato versione: tutti parlano seriamente di una seduta spiritica compreso Prodi, che nel frattempo è stato due volte presidente del Consiglio e capo della Commissione europea. A seconda di come la si vuole leggere, questa è la storia dell’ultimo mistero del caso Moro o della sua più grottesca coincidenza.
L’ultimo mistero
Nel quarantennale del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, che è caduto proprio quest’anno, non è stata dedicata molta attenzione alla misteriosa rivelazione che Romano Prodi fece il 4 aprile del 1978. Gli speciali televisivi hanno dedicato all’episodio pochi minuti, ripetendo sostanzialmente cose già note. Non sono state pubblicate nuove inchieste e nessuno dei partecipanti a quell’episodio ha voluto aggiungere alcunché per chiarire cosa accadde davvero. Nemmeno la seconda commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, che ha concluso i suoi lavori lo scorso dicembre, ha aggiunto molto su quella vicenda. «Sostanzialmente non ci siamo occupati della seduta di Zappolino», ha raccontato al Post l’ex deputato del PD Gero Grassi, uno dei componenti più attivi della commissione.
Eppure l’attenzione sui veri e soprattutto presunti misteri del caso Moro non è mai mancata. Nella prefazione all’edizione aggiornata del libro Un affare di stato, il giornalista Andrea Colombo scrive: «Quando questo libro fu scritto, dieci anni fa, la bibliografia sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro era già tale da occupare un’intera biblioteca. La stragrande maggioranza degli studi partiva dal presupposto che la verità sull’uccisione dello statista democristiano fosse in realtà ancora sconosciuta». Invece, continua Colombo, «dietro l’uccisione di Aldo Moro non c’è nessun segreto, nulla che non si può o non si voglia rivelare». Le piste occulte, le inconfessabili trame internazionali, le improbabili coincidenze, sono state negli anni rivelate nella loro inconsistenza da studiosi rigorosi come Vladimiro Satta (il libro di Colombo è uno dei pochi, tra quelli usciti ultimamente, a utilizzare le corpose ricerche di Satta).
Quarant’anni dopo quei fatti, la seduta di Zappolino è uno dei pochi “misteri” che ancora resistono ai tentativi di spiegazione. Cosa accadde davvero il pomeriggio del 2 aprile a Zappolino? Cosa raccontò esattamente Romano Prodi agli alti funzionari della DC a Roma il 4 aprile? Come era venuto a sapere davvero che Gradoli e Viterbo erano due indicazioni in grado di portare vicino al luogo dove era tenuto prigioniero Moro? Sono tutte domande ancora senza una risposta univoca.
La seduta
Il 2 aprile del 1978 dodici adulti e cinque bambini parteciparono o assistettero alla “seduta parapsicologica” di Zappolino, come la definirono loro stessi. Nove erano professori dell’Università di Bologna e negli anni successivi cinque di loro sarebbero divenuti presidenti del Consiglio, ministri, viceministri o presidenti di importanti società pubbliche. Gli altri erano mogli o mariti. Esclusi i bambini, i partecipanti avevano tra i 30 e i 40 anni (Prodi ne aveva 39). Tutti e dodici firmarono la lettera scritta da Romano Prodi nel 1981 che attesta che le cose andarono esattamente come lui le aveva raccontate al funzionario DC durante il sequestro. Questo documento è diventato nel tempo la versione ufficiale, a cui i dodici partecipanti si sono sempre attenuti.
Il racconto ufficiale comincia il 2 aprile del 1978, due settimane dopo il rapimento Moro, quando Alberto Clò, professore di Economia dell’Università di Bologna, invitò un gruppo di amici per un pranzo nella sua villa di Zappolino, poco fuori Bologna. Costretti in casa dalla pioggia, i docenti decisero di ingannare il tempo con il “gioco del piattino”: e visto che in quei giorni non si parlava che di Moro, pensarono di domandare agli spiriti dove fosse tenuto prigioniero il presidente della DC. Su un grande foglio di carta scrissero lettere e numeri. Poi, a turno, poggiarono l’indice su un piattino da caffè rovesciato. L’idea dietro al gioco è che, una volta posta la domanda, gli spiriti compongano la risposta muovendo il piattino e facendolo fermare sulle varie lettere disposte sul tavolo. Per un prestigiatore o per un truffatore non è affatto difficile orientare e “spingere” il piattino senza che nessuno si accorga di niente. Secondo tutti i protagonisti, però, quel pomeriggio non ci fu nessun trucco. Quando agli spiriti fu chiesto se Moro fosse vivo e dove si trovasse, una forza sconosciuta mosse il piattino sul tavolo e, senza l’aiuto di nessuna mano umana, compose le parole: Viterbo, Bolsena e Gradoli.
Questo è il contenuto essenziale e scarno della lettera firmata dai dodici partecipanti, cioè la versione ufficiale. Nel tempo, alcuni dei protagonisti hanno arricchito di dettagli la vicenda. La descrizione più vivida dell’episodio la dette proprio Romano Prodi, durante la sua audizione alla prima commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, nel giugno del 1981. Prodi raccontò che le domande vennero rivolte agli spiriti di don Luigi Sturzo e di Giorgio La Pira, storico sindaco democristiano di Firenze. Alberto Clò, il proprietario di casa e ideatore del gioco, disse che la seduta durò dalle 15.30 circa fino alle 18. Mario Baldassarri, uno dei partecipanti arrivato in ritardo all’incontro, raccontò che in un primo momento «uscivano cose assolutamente prive di senso: lettere in sequenza, k, z, t, r, senza alcun significato» e che solo dopo un lungo lasso di tempo iniziarono a formarsi parole di senso compiuto. Tutti i partecipanti dissero di essere assolutamente certi che nessuno avesse manipolato il gioco: le parole si erano formate grazie a una forza che non erano in grado di spiegare.
Il gioco, anche su questo sono tutti concordi, ebbe una svolta quando il piattino formò la parola “Gradoli”. Le parole “Viterbo” e “Bolsena” non avevano infatti insospettito nessuno: erano località conosciute da tutti. Gradoli invece nessuno sapeva cosa fosse, ma allo stesso tempo sembrava un’indicazione coerente, non un insieme casuale di lettere.
A qualcuno venne l’idea di controllare se per caso esistesse un paese con quel nome vicino a Viterbo. Andarono a prendere uno stradario in macchina e quando lo aprirono si accorsero con grande sorpresa che Gradoli era un piccolo paese appena fuori Viterbo, lungo la statale 74. «All’indomani», scrivono i dodici illustri firmatari della lettera, «fu quindi normale che della cosa si sia venuti a parlare con amici e conoscenti». Soltanto nel caso del professor Prodi, però, parlarne con «amici e conoscenti» significò riferire alle autorità quello che era emerso durante la seduta. Il 4 aprile, due giorni dopo la seduta, Prodi – che era già molto vicino alla Democrazia Cristiana – andò a Roma e riferì della seduta a Umberto Cavina, portavoce del segretario della Democrazia Cristiana, Benigno Zaccagnini. A quanto è emerso fino a oggi, nessun altro partecipante raccontò dei risultati della riunione fino a dopo la fine del sequestro di Aldo Moro. Cavina, il funzionario DC con cui Prodi parlò il 4 aprile, oggi è morto; il Post ha provato a interpellare Romano Prodi, che ha fatto sapere di non avere altro da aggiungere sulla vicenda oltre alle numerose testimonianze già date in passato.
L’appunto
Cosa disse esattamente Prodi una volta arrivato a Roma è una delle questioni centrali dell’intera vicenda. La presunta seduta spiritica fu lunga e caotica, hanno raccontato tutti i protagonisti. Alcuni di loro si avvicinavano al tavolo, partecipavano al gioco e poi si allontanavano, sostituiti da altri. I bambini correvano e giocavano tutt’intorno a loro. Si beveva Coca Cola e poi ci si allontanava dal tavolo per andare a controllare se il caffè fosse uscito. Nel frattempo il piattino produceva parole su parole, alcune di senso compiuto, altre inintelligibili. Ma il piattino indicava anche numeri e sigle che finivano con il complicare il tutto. Nessun avrebbe preso seriamente il gioco, raccontano, se una delle parole che si formarono non fosse stata “Gradoli”, un comune realmente esistente, ma che tutti assicuravano di non aver mai sentito nominare.
Il problema è che, stando a quanto attestano i documenti dell’epoca, l’indicazione che Prodi fornì alle autorità non era affatto così vaga e limitata a quelle uniche tre parole, “Bolsena”, “Viterbo” e “Gradoli”. Un appunto del ministero dell’Interno, datato 5 aprile 1978, contiene indicazioni ben più dettagliate: «Lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località GRADOLI, casa isolata con cantina».
Questo biglietto fu scritto da Luigi Zanda, all’epoca stretto collaboratore del ministro dell’Interno Francesco Cossiga e oggi importante politico del Partito Democratico. «Fu una segnalazione come tante, ne arrivavano a decine in quei giorni», ha raccontato al Post Zanda, oggi senatore del PD. A fargli questa segnalazione era stato proprio Cavina, il dirigente incontrato da Prodi. Zanda ha spiegato che in quei giorni era così comune ricevere una soffiata come quella che non ne chiese la fonte, ma si limitò a passarla al capo della polizia. «Ho ricevuto molte segnalazioni in quel periodo, così come ne ha ricevute molte anche il ministro e molti altri dei suoi collaboratori: era un fatto abituale e del resto Cavina in quell’occasione mi fece anche un’altra segnalazione», ha spiegato Zanda. Sul biglietto, infatti, si legge anche l’indirizzo di un appartamento a Milano.
Il biglietto scritto da Luigi Zanda tra il 4 e il 5 aprile, sulla base della segnalazione ricevuta da Umberto Cavina, che a sua volta l’aveva ricevuta da Romano Prodi.
Il giorno dopo il capo della polizia ordinò di effettuare un controllo e 24 tra carabinieri e agenti di polizia della questura di Viterbo si recarono a Gradoli, un paese di meno di duemila abitanti, dove perquisirono un casolare e alcune grotte vicino alla statale 74. Il risultato di quella ricerca si trova riassunto da un’altra mano sullo stesso biglietto di Zanda: «Il sopralluogo ha dato esito negativo».
Nel rapporto di quell’azione infruttuosa, però, il vicequestore di Viterbo ripeteva ancora una volta l’indicazione molto accurata uscita dalla seduta di Zappolino: casa isolata con cantina, nel comune di Gradoli, in provincia di Viterbo. E questa indicazione si trova anche nel verbale della deposizione di Prodi ai magistrati di Bologna nel dicembre del 1978. All’epoca fu lui stesso a specificare che tra le informazioni che aveva dato a Cavina c’era anche di cercare una “casa isolata con cantina”.
Il rapporto del questore di Viterbo sulla perquisizione effettuata in un casolare di Gradoli, in provincia di Viterbo
L’appunto è depositato, come tutti gli altri documenti citati, negli atti della prima commissione Moro, che oggi, insieme a tutti gli altri documenti prodotti dalle altre commissioni che si sono occupate del caso, sono accessibili a chiunque grazie al lavoro del senatore Gero Grassi e dei suoi assistenti.
Nonostante questo, negli anni sulla perquisizione di Gradoli sono state diffuse molte ricostruzioni improbabili. È stato detto per esempio che la perquisizione di Gradoli fu un’azione militare con centinaia di agenti coinvolti, filmata dalle televisioni e mostrata dai telegiornali in prima serata (persino Colombo, nel suo documentatissimo libro, parla di “centinaia” di agenti coinvolti). In realtà, come dimostrano le carte, fu un’operazione limitata e di cui, come hanno dimostrato numerosi ricercatori, non venne data notizia alla stampa fino alla fine del mese.
È stato detto anche che la segnalazione di Prodi fu presa sul serio per via dell’alto profilo dei partecipanti alla seduta, o solo perché qualcuno era a conoscenza di segreti inconfessabili. In realtà in quei giorni confusi di segnalazioni come quella ne arrivavano a decine, al punto che nemmeno si faceva caso alla loro provenienza. «La situazione era tumultuosa e le sensazioni che tutti provavamo erano molto forti», racconta oggi Zanda ricordando quel periodo. Per dare un’idea della vastità dello sforzo in corso, basta ricordare che nei 55 giorni del sequestro Moro furono perquisiti in tutta Italia 37.068 tra appartamenti e altri edifici. Soltanto a Roma si facevano 121 perquisizioni domiciliari ogni giorno.
La soffiata
Quello che oggi quasi tutti danno per assodato è che la seduta spiritica fu in realtà un modo estremamente goffo di nascondere una fonte che bisognava proteggere. Secondo questa teoria, uno dei professori avrebbe ricevuto l’informazione su via Gradoli e avrebbe usato la scusa della seduta spiritica per rivelare l’informazione in sicurezza. Su chi fosse la fonte da proteggere sono state fornite le teorie più svariate. Alcuni suggerirono immancabilmente i servizi segreti, ma non è chiaro perché avrebbero dovuto seguire una via così tortuosa e che avrebbe certamente finito con l’attirare l’attenzione. Altri ipotizzarono che la fonte fosse qualcuno appartenente o vicino a un ramo “dissidente” delle BR, intenzionato a far catturare Moretti. Nel 2006 il presidente della commissione Mitrokhin, Paolo Guzzanti, disse che l’informazione era arrivata dal KGB, il servizio segreto sovietico.
La spiegazione più plausibile, e su cui concorda la maggior parte dei ricercatori più scrupolosi, è che l’informazione arrivasse da qualcuno vicino ai movimenti dell’estrema sinistra. Bologna all’epoca era una città ricca di gruppi autonomi di estrema sinistra, anche tra gli studenti universitari, e secondo molti è possibile che qualcuno a conoscenza del covo di via Gradoli abbia fatto arrivare l’informazione ai professori. Alcuni sostengono da anni di aver identificato la fonte dell’informazione in Franco Piperno, uno degli ideologi del movimento studentesco, all’epoca professore all’Università della Calabria, la stessa dove insegnava Beniamino Andreatta, importante dirigente della DC e mentore politico di Prodi. Piperno però ha sempre smentito, e gli stessi brigatisti hanno sempre negato che il covo di via Gradoli potesse essere oggetto di pettegolezzi all’interno dell’organizzazione.
Ma il problema più grosso di tutte queste teorie è un altro. I documenti dimostrano che l’informazione era allo stesso tempo estremamente precisa ed estremamente sbagliata: il covo delle BR non si trovava in una casa isolata con cantina sulla statale 74 poco fuori dal paese di Gradoli, in provincia di Viterbo, bensì in un condominio di via Gradoli, a Roma, a quasi 50 chilometri di distanza. Non è chiaro, quindi, che interesse avrebbe avuto la fonte a fornire un’indicazione allo stesso tempo precisa ma fuorviante. Come ha riassunto correttamente l’ex deputato Marco Taradash, membro di una delle cinque commissioni parlamentari che si sono occupate del caso Moro: «È assurdo pensare che un informatore che è a conoscenza di qualcosa sappia soltanto un nome, “Gradoli”, e non anche “via Gradoli”».
Sono poche le spiegazioni che restano. Una è che lo scambio di “Gradoli” con “via Gradoli” sia il frutto di un errore come quelli che avvengono nel gioco del “telefono senza fili”. L’informazione che in via Gradoli, a Roma, sulla strada per Viterbo, c’era un covo delle BR sarebbe passata di bocca in bocca talmente tante volte da trasformarsi. “Via Gradoli” divenne “Gradoli”; “sulla strada per Viterbo” divenne “in provincia di Viterbo”. Lungo il percorso vennero aggiunti anche altri dettagli: Bolsena, statale 74, casa isolata con cantina. Quando gli chiesero come mai nell’appunto di Zanda ci fossero molte più informazioni di quanto affermato nella lettera firmata dai dodici professori, Prodi spiegò che probabilmente quei dettagli erano stati aggiunti dagli stessi professori per eccesso di zelo in un secondo momento. Per esempio “statale 74” sarebbe emerso quando, consultando la mappa, notarono che la strada che passa per il comune di Gradoli si chiamava così.
C’è stato anche chi ha sostenuto che la soffiata di Prodi non fu affatto così fuorviante come la raccontano i documenti. In una lettera inviata alla prima commissione Moro nel 1981, la deputata DC Tina Anselmi scrisse che Cavina, il dirigente della DC con cui aveva parlato Prodi, le parlò di una segnalazione in cui si parlava di “Gradoli, via Cassia, Viterbo”, e che comprendeva una serie di numeri che lei non ricordava ma che si rivelarono identici sia alla distanza tra Gradoli e Viterbo, sia al civico e all’interno del covo di via Gradoli. Inoltre, la famiglia di Moro sostiene che, quando venne a sapere dell’infruttuosa perquisizione a Gradoli, suggerì alla polizia di controllare anche via Gradoli (una circostanza sempre smentita dal ministero dell’Interno). Queste due circostanze hanno contribuito a creare l’impressione che qualcuno sapesse di via Gradoli, ma che non volesse scoprire quel che c’era da scoprire.
Il racconto di Anselmi, però, non sembra del tutto convincente. Il covo di Mario Moretti si trovava all’interno 11 del numero 96 di via Gradoli, mentre la distanza tra Gradoli e Viterbo è di circa 50 chilometri. Inoltre Anselmi, stando ai verbali delle commissioni, probabilmente non venne a sapere della seduta fino a quando i giornali, a fine aprile, non iniziarono a parlare della perquisizione di Gradoli, facendo spesso ipotesi su potenziali collegamenti con la via in cui era stato trovato il covo di Moretti. I documenti inoltre sembrano molto chiari: l’indicazione che fornì Prodi non poteva dare adito a dubbi. Sosteneva che Moro fosse prigioniero in un casolare nella campagna viterbese, non in un grosso condominio in una via di Roma.
Una grottesca coincidenza
Se decenni di dietrologie e complotti hanno finito con l’oscurare i ricordi persino degli stessi protagonisti di questa storia, diventa interessante rileggere cosa sostenevano quando la vicenda era ancora fresca nella loro memoria e non inquinata da anni di interviste, audizioni, supposizioni e sospetti. Per esempio, l’allora ministro dell’Interno Cossiga era uno dei più convinti sostenitori della teoria della “soffiata” da parte di ambienti dell’autonomia bolognese; ma nel 1980, quando la prima commissione Moro gli chiese cosa pensasse della coincidenza tra la segnalazione di Prodi su Gradoli e il covo di via Gradoli, rispose che non aveva «motivo di ritenere che vi sia un collegamento tra le due cose». Nel 1980, insomma, non sembrava così assurdo, come ci sembra oggi, che un gruppo di illustri professori universitari decidesse di ingannare il tempo con una “seduta spiritica”. E forse non era davvero così assurdo come può sembrare nel 2018.
Negli anni Settanta l’Italia era un paese molto più ingenuo di oggi. Appena pochi anni prima della seduta di Zappolino, la finale della popolarissima trasmissione Rischiatutto era stata vinta da Massimo Inardi, un esperto di musica autodefinitosi “professore di parapsicologia”. Inardi partecipò a nove puntate del programma e lo fece con un tale successo che a un certo punto a Mike Bongiorno furono forniti fogli che non contenevano le risposte al quiz ma solo le domande, nel timore che Inardi fosse in grado di leggergli nel pensiero. Quelli erano anche gli anni di massima celebrità di Gustavo Adolfo Rol, un prestigiatore di Torino ai cui “prodigi” numerosi giornali dedicarono lunghi articoli proprio tra il 1977 e il 1978. Anche gli investigatori del caso Moro ricorsero alle facoltà medianiche di alcuni veggenti per ricevere un aiuto nella soluzione del caso. Successe almeno in un paio di casi, il più curioso dei quali fu quello delle visioni di una suora di clausura. Come ha ricordato Massimo Polidoro, fondatore del CICAP, all’epoca «ovunque, tra la gente, sui giornali o in tv, si dava per scontato che certi accadimenti o certe facoltà paranormali fossero reali».
Per coloro che ritengono il “telefono senza fili” una spiegazione ancora troppo contorta, e per quelli che non vogliono ipotizzare il silenzio complice e quarantennale dei dodici illustri personaggi presenti alla seduta, rimane quindi aperta un’ultima possibilità: che le cose siano andate come i partecipanti raccontano da 40 anni. Il nome Gradoli venne fuori per caso, durante un gioco. La “seduta”, sostengono i partecipanti, durò diverse ore e in casi simili è facile immaginare che a muovere il piattino, più che uno spirito o un baro, siano i movimenti involontari e inconsci di chi ci teneva sopra il dito. Tutti i partecipanti sono concordi nel dire che la maggior parte dei risultati prodotti era priva di senso, come ci si aspetterebbe da una serie di movimenti dettati dal caso. Il professor Clò, inoltre, raccontò che in diversi momenti il gioco si interrompeva per discutere se il piattino si fosse o meno fermato su una certa lettera che avrebbe dato un senso piuttosto che un altro alla parola che stava emergendo. Baldassarri arrivò a sostenere che in realtà non era mai emersa la parola Viterbo, ma solo la sigla “VT”.
A quel punto è possibile che qualcuno iniziò ad orientare il piattino affinché componesse la parola Gradoli e poi, forse per scherzo, negasse di fronte a tutti gli altri di sapere cosa significasse quel nome. Sarebbe stato poi per un eccesso di zelo, o forse per farsi notare dagli alti dirigenti democristiani, che Prodi decise di riferire quel risultato. Il gesto, comunque, di sicuro non danneggiò la sua carriera: appena sette mesi dopo quella seduta fu nominato per la prima volta ministro dell’Industria.
Il caso dell'ex br. Per il giudice non c’è reato, ma il Pm indaga Persichetti. L’ex br scrive ad Albamonte, che lo accusa di favoreggiamento. “Come avrei potuto essere complice nel 2021 di una persona fuggita nel 1981?”
Frank Cimini su L'Unità il 27 Ottobre 2023
“Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Questo scriveva il protagonista del romanzo di Georges Simenon, Lettera al mio giudice. Paolo Persichetti, invece, ha scritto al pm Eugenio Albamonte una lettera aperta dal titolo: “Io indagato per favoreggiamento di chi e per cosa?”. ”Il favoreggiamento c’è o non c’è” scrive il ricercatore storico in passato condannato per fatti di lotta armata. Il favoreggiamento sarebbe relativo alla presunta divulgazione di materiale riservato della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.
Una storia tra l’assurdo e l’incredibile dove un anno fa il gip scrisse che non c’era reato dopo la caduta di quello più grave nel giro di pochi giorni, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. “E chissà se mai ci sarà”, aggiungeva il giudice. Che il reato fosse il favoreggiamento Persichetti lo ha saputo dopo una richiesta formale alla procura fatta perché i termini di indagine sono scaduti da tempo. Non è possibile fare alcuna attività e il pm non decide cosa fare, se chiedere il processo o archiviare.
La data del reato – diciamo così – è il 2015. Quindi sarebbe già tutto prescritto. E con ogni probabilità la procura di Roma per uscire dal cul de sac in cui si è cacciata punta proprio a quello. Per non ammettere di essersi sbagliata, sintetizziamo così. La materia è molto delicata. Fa parte, questa indagine, di una lunga caccia ai misteri inesistenti del caso Moro, a una sorta di gruppo di mandanti e complici occulti che non sono mai stati trovati ma si sono rivelati utili per mettere in circolazione volumi e atti a partire da ormai quasi mezzo secolo fa.
Paolo Persichetti fu perquisito l’8 giugno del 2021. Subì il sequestro di tutto il possibile e immaginabile comprese le carte mediche del figlio diversamente abile. Nel 2015 ci fu l’invio via mail a un sacco di persone, ricorda Persichetti, di un breve stralcio della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro2. Testo pubblicato a distanza di 48 ore. “Perché ci sia favoreggiamento deve esserci prova del sostegno alla fuga o al riparo oppure al sostentamento. Come avrei potuto favorire nel 2015 una persona fuggita dall’Italia nel 1981 quando avevo 19 anni?. Parliamo di una persona che vive, lavora e ha famiglia in un paese dove ha residenza e nazionalità. In che modo avrei potuto favorire persone già condannate all’ergastolo per quei fatti? – scrive Persichetti – Interrogare una fonte storica, ricostruire quel che ha fatto o non ha fatto integrando o divergendo dalle conclusioni giudiziarie sarebbe forse un reato?”.
Albamonte è un magistrato di sinistra, corrente Area, appartiene a quella parte politica che in pratica da sempre alimenta i misteri che diversi processi negli anni hanno escluso. Anche perché nessun pentito, nessun dissociato ha mai detto nulla al riguardo. “Terrorismo” e soprattutto “Moro” sono paroline magiche che permettono di formulare le ipotesi più strambe e tenerle in piedi senza mai provarle. Insomma sul punto non ci sono regole da rispettare.
Aveva ragione lui su tutta la linea: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. Lui sì che aveva capito bene. Dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse al culmine di uno scontro sociale e politico durissimo sfociato in una guerra civile a bassa intensità. Neanche troppo bassa a dire il vero. Ma dopo mezzo secolo c’è ancora chi lo nega raccontando favole. Frank Cimini 27 Ottobre 2023
E' ancora caccia ai fantasmi. Caso Moro, dopo 44 anni la giustizia cerca altri 4 o 5 colpevoli cui dare ergastoli…Paolo Persichetti su Il Riformista il 17 Marzo 2022
Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma.
Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.
Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimondo Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.
Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all’attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro.
Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti, solo perché nel mese di aprile 1978 avevano preso parte parte a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo ed erano fuggiti con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione. Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo.
La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche, non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa. Paolo Persichetti
Il caso Moro. Indagine su Persichetti finita, ma il pm Albamonte non trova il reato e lo tiene “in ostaggio”. Frank Cimini su Il Riformista il 31 Gennaio 2023
I termini delle indagini sono ormai scaduti. Il reato non c’è perché così aveva messo nero su bianco il giudice delle indagini preliminari peraltro aggiungendo: “E chissà se mai ci sarà”. Ma il pm non ha ancora deciso di archiviare o di inventarsi l’ennesimo reato poi cassato. Tiene a bagnomaria l’unico indagato (di cosa? Ah saperlo!). Si chiama Paolo Persichetti ricercatore storico indipendente, si occupa di terrorismo e del caso Moro, le due paroline magiche che in questa democratura impediscono rispetto delle regole e dei diritti.
Il pubblico ministero è per usare una parola oggi di moda “latitante” e forse tra trent’anni lo prendono. Si chiama Eugenio Albamonte, fa parte anzi è il leader della corrente di Area-Magistratura Democratica, quindi è uno di sinistra. E anche molto pieno di sé. Nei giorni scorsi, come avete potuto leggere su questo giornale, aveva intimato nel pieno delle polemiche sulle intercettazioni telefoniche e ambientali al ministro della Giustizia Carlo Nordio di tacere per una decina di giorni. Nessuno ovviamente si era indignato per un pm che esorbitando non di poco dal suo ruolo ordina il silenzio al ministro. Lui Eugenio Albamonte, invece, sta zitto dopo aver condotto un’indagine senza capo né coda a caccia di misteri inesistenti, complicità di chissà quali poteri occulti dietro il gruppo di comunisti rivoluzionari che rapirono il presidente della Democrazia Cristiana.
Il reato al centro dell’indagine è già cambiato cinque volte. Quello più grave, associazione sovversiva finalizzata al terrorismo, partendo dalla diffusione di carte segrete che segrete non erano della commissione parlamentare sul caso Moro, evaporava in pratica immediatamente. Con i termini di indagine scaduti il pm non può fare niente, tranne che tenere nel limbo l’indagato al quale ha già sconvolto la vita dall’8 giugno del 2021 sequestrando di tutto fino alle certificazioni mediche del figlio disabile. Le carte solo di recente dopo l’estrazione della copia forense sono tornate a casa. Ma Albamonte sta zitto, non dice e non fa.
Forse pensava di scoprire chissà che, lui titolare anche dell’indagine in cui aveva chiesto e ottenuto di poter prendere 43 anni dopo i fatti il Dna dei condannati per via Fani e altre persone. Anche lì risultati zero. Pure l’esperimento del laser in loco sentenziava che a sparare furono solo le Brigate Rosse. La stessa realtà accertata in cinque processi e nell’attività di ricercatore svolta dal povero Persichetti. E in più, come se non bastasse, con chissà quali competenze di via Fani ora si occupa pure la commissione parlamentare antimafia per sostenere che furono la ‘Ndrangheta e la banda della Magliana ad aiutare le Br. E, dulcis in fundo, in contatto con i brigatisti nel 1978 c’era anche Paolo Persichetti. Il quale però allora frequentava, avendo 16 anni, un liceo sgarrupato della capitale.
È un paese dove la mamma dei dietrologi è sempre incinta. Sulla rivista “Historia Magistra”, ultimo numero, c’è un articolo a firma di Paola Baiocchi e Andrea Montella due allievi del mitico senatore piccista Sergio Flamigni, dal titolo significativo: “Com’è NATO un golpe: il caso Moro”. Cioè a rapire Moro fu la Nato. Bisognerebbe allora chiedere cosa ne pensa il generale James Lee Dozier rapito poi dalle Br. Dietrologia senza fine. Frank Cimini
La Sinistra.
Il delitto di Vittorio Bachelet.
Germana Stefanini.
Renato Curcio.
Mario Moretti.
Dolore e furore muovevano le scelte dei giovani brigatisti. FABRIZIO SINISI, Drammaturgo, su Il Domani il 23 novembre 2023
Il saggio di Sergio Luzzatto ha il merito di rispondere a una semplice domanda: chi erano le Br? Emerge il ritratto di ragazzi convinti di essere partigiani che si sono ritrovati a essere “solo” assassini
Non si comprenderà mai davvero il fenomeno delle Brigate rosse – che oggi appare così lontano da sembrare il miraggio di un’altra epoca, più astratta e selvaggia di questa – senza partire da una considerazione che nel nuovo libro di Sergio Luzzatto (Dolore e furore, Einaudi 2023) compare già nella seconda pagina del prologo: «Allo sguardo di chi si sentiva – in un modo o nell’altro – un militante per il comunismo, quei sei mesi dell’autunno caldo del 1969 avevano dischiuso la prospettiva concreta, o addirittura imminente, di una rivoluzione vittoriosa».
È un errore, ed è inevitabile: guardiamo sempre la storia col senno del poi, come in un film di cui conosciamo già il finale. Ogni volta che torniamo a esaminarla ci sembra che il destino non potesse che essere quello.
Seguiamo i protagonisti già sapendo il fallimento che li aspetta, leggiamo il loro percorso alla luce della buca in cui già sapremo che cadranno.
I personaggi di quel periodo ci sembrano oggi degli insetti ciechi, impegnati in una battaglia che solo una fantasia troppo puerile poteva credere possibile: falene impazzite bruciate da una luce che non poteva non abbatterli. Il lungo decennio di vita delle Brigate rosse – dall’autunno del 1969 alla fine del 1980 – corrisponde a questa sfasatura di percezione: un pezzo di generazione, composto perlopiù di giovanissimi, che in un paese a capitalismo avanzato decide di imbracciare le armi per innescare una rivoluzione proletaria.
La rivoluzione, comprensibilmente, non arriva, e quei ragazzi convinti di essere partigiani si ritrovano ad essere “solo” degli assassini. Lo storico di quel periodo deve pulire quelle vicende dal destino che, in qualche modo, le ha montate, e interrogare quei ragazzi fuori dalla ferrea tragedia che li ha inghiottiti.
VIVI SOLO POCHI GIORNI
Chi erano quei ragazzi? Non certo, come spesso si dice, le marionette di una qualche occulta dietrologia internazionale. Piuttosto, giovani del loro tempo, ognuno con la sua spesso disastrosa peripezia individuale. Quali intenzioni li animavano, quali speranze li muovevano? Che sofferenze li agitavano, che gioie li facevano trasalire?
Livio Baistrocchi, brigatista latitante di cui non si sa oggi nemmeno se sia vivo o morto, quand’era ancora un animato militante del Partito comunista ebbe a dire: «Siamo vivi solo pochi giorni all’anno, di scatto». Due anni dopo sarebbe entrato in clandestinità. Bisognerà capire, allora, che entrare nelle Brigate Rosse dovette essere per alcuni non un farneticante delirio, ma un disperato esperimento di felicità, il tentativo folle di «vivere tutti i giorni dell’anno». Anche se quel “vivere” ha significato, a volte, il morire di altri.
RITRATTO
Il libro di Sergio Luzzatto – un libro che, lo diciamo da subito, costituisce un capitolo inaggirabile per chi voglia capire il fenomeno delle Br – ha innanzitutto il merito di rispondere a questa domanda: chi erano queste persone?
Ne emerge una galleria di personaggi, primo tra i quali il più sconosciuto e fantasmatico tra tutti i brigatisti, Riccardo Dura: trentenne capo della colonna genovese, morto nella strage di via Fracchia e quindi – così come la fondatrice Mara Cagol – scomparso prima ancora di poter diventare quel personaggio così tipico del panorama italiano che è l’“ex-terrorista”, irriducibile o dissociato che sia.
Riccardo Dura è un eterno giovane mai diventato adulto, un fantasma di ragazzo incastrato nel passato. Un personaggio di cui finora non si sapeva nulla o quasi, e di cui Luzzatto ha il merito di ripercorrere l’esistenza intera: l’infanzia difficile nei quartieri popolari di Genova, l’abbandono del padre prima e della madre poi; una trafila di ricoveri psichiatrici, e un’adolescenza vissuta in un luogo distopico come la nave-riformatorio Garaventa.
Un ragazzo che diventa portuale e operaio marittimo, un marginale senza nome, un umiliato e offeso come tanti che però, a un certo punto del suo vagabondare, incontra le Br. E la sua vita cambia. Entra in clandestinità, rischia tutto. Inizia a sparare.
È sua la mano che ucciderà il sindacalista Guido Rossa: l’operaio dell’Italsider accusato di aver denunciato un compagno sospetto di brigatismo, il 24 gennaio 1979.
È l’episodio che segna la fine delle Brigate Rosse, o perlomeno il loro definitivo scollamento dalle fabbriche e dagli operai, inorriditi che si potesse arrivare a giustiziare un compagno, un lavoratore, uno di loro. Il funerale di Guido Rossa, in una piazza De Ferrari gremita sotto la pioggia battente, è uno di quei momenti che segnano un prima e un dopo.
Da quel giorno, la storia delle Br diventa una vicenda autoreferenziale sanguinosa ed esclusivamente militare: una selvaggia guerra privata con lo Stato. «A quel punto», scrive Luzzatto, «la via italiana a una rivoluzione comunista si mostrò definitivamente per quello che era. Seminata di insidie, di scorciatoie, di trappole. Battuta dal fuoco amico, oltreché dal fuoco nemico. Ingombra di morti, e senza neppure le ombre di un sol dell’avvenire». Fu a quel punto che la storia, che in molti fino ad allora avevano considerato ancora indecisa e in bilico, si cementò in destino.
GENOVA AL CENTRO
Un destino che si giocò in larga parte proprio a Genova, grande teatro e città-palestra della lotta armata. È forse per la prima volta che, nella storiografia brigatista, il baricentro dell’analisi non è Milano (dove le Br sono nate) né Torino (teatro delle lotte della Fiat e del primo grande processo), ma Genova.
Genova è la città del primo sequestro prolungato, quello del pubblico ministero Mario Sossi (1974). A Genova avvengono i primi omicidi deliberati, vittime il procuratore generale Francesco Coco e gli uomini della sua scorta (1976). A Genova avviene il primo attentato a un esponente politico del Pci, con la “gambizzazione” del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano (1977).
A Genova si consuma la strage di via Fracchia, quando in circostanze ben poco chiare gli uomini del generale Dalla Chiesa – dietro imbeccata del pentito Patrizio Peci – fecero irruzione in un appartamento dove dormivano quattro brigatisti, giustiziandoli tutti e quattro, il 28 marzo 1980.
«Ricostruire la vicenda delle Brigate Rosse attraverso il prisma di Genova», scrive Luzzatto, «equivale a misurarsi con l’alfa e l’omega dell’intera storia».
CIÒ CHE NON SA
Riccardo Dura non è l’unico personaggio ritratto in questo libro. Altri ne compaiono di estremamente interessanti – dall’italianista accademico Enrico Fenzi, raffinato petrarchista al servizio della lotta armata al suo ambiguo cognato Giovanni Senzani, sociologo brigatista e contemporaneamente consulente del Ministero; dalla cattolicissima Vicky Franzinetti alla 79enne Caterina Picasso, «la nonna delle Br», che a Rivarolo Ligure gestiva uno tra i più importanti depositi di armi.
Ma Dura è senza dubbio il più pregnante, il più centrale: il più paradigmatico. La breve e violenta vita di Riccardo Dura funziona come una parabola, il ritratto del Jesse James che l’Italia poteva permettersi: un teorema disperato che dimostra come lì dove alberga il dolore si annida anche il furore.
Ed è abbastanza indimenticabile una lettera, finora inedita, che Riccardo Dura scrive a sua madre, e che Luzzatto scopre e pubblica nella sua interezza all’interno del libro. Quella lettera costituisce il cuore sofferto e segreto di questa vicenda. Una lettera terribile e commovente, scritta da un semianalfabeta a cui l’ultrasinistra genovese ha saputo offrire non solo una casa, una famiglia e una (pur terribile) ragione di vita, ma anche qualcosa di più prezioso e, insieme, più pericoloso: un linguaggio. Parole con cui provare a dire qualcosa che – per dirla con Pasolini – esprimono la voce di chi, in quella generazione come in questa, «è ciò che non sa».
FABRIZIO SINISI Drammaturgo, poeta e scrittore. Dal 2010 è dramaturgo stabile della Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze e docente presso il Teatro Laboratorio della Toscana. Dal 2017 è drammaturgo presso il Teatro Stabile di Brescia. Collabora con i maggiori teatri italiani.
"Gli intellettuali di sinistra? Flirtarono a lungo con le Br". Matteo Sacchi il 9 Agosto 2023 su Il Giornale.
Lo storico racconta la zona grigia che ha fatto in modo che i terroristi rossi fossero solo "compagni che sbagliano"
Eugenio Di Rienzo ha insegnato Storia delle dottrine politiche e Storia moderna. Dal 2006 professore ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università La Sapienza di Roma. È anche direttore di Nuova rivista storica e membro del comitato scientifico di Geopolitica. Gli abbiamo chiesto di riflettere con noi sulla storia del terrorismo e della violenza politica in Italia, a partire da come viene raccontata.
Professor Di Rienzo come si sono posti gli intellettuali italiani rispetto al terrorismo degli anni Settanta?
«Parliamo soprattutto degli intellettuali di sinistra perché di intellettuali di destra non ve n'erano più molti... Presero da subito una posizione diversa da quella istituzionale del Pci e della Cgil che in teoria erano i loro punti di riferimento politico. Il partito comunista cercava di bloccare le loro infiltrazioni. A partire da alcune posizioni come quella di Sciascia, che per altro fu frainteso, prese piede quello slogan né con lo Stato né con le Br che veniva fatto passare per equidistanza ma equidistanza non era. Ci fu persino chi negò l'esistenza del terrorismo di sinistra, sostenendo che ci fosse solo un terrorismo di destra. Quello di destra c'era ma c'era anche quello di sinistra ma i due fenomeni erano paralleli. Io mi sono laureato nel '77 le ho viste le P-38... Ci fu un'indulgenza, un chiudere gli occhi. Quella violenza non è discutibile».
Un'altra espressione a sinistra fu «compagni che sbagliano» e la cosa non rimase confinata agli intellettuali...
«Anche una fascia di opinione pubblica sposò queste tesi. C'erano moltissimi fiancheggiatori, molti più di quanti si possa pensare. In questo caso pesò una eredità sbagliata della Resistenza. La Resistenza da un pezzo di sinistra era stata vista come una occasione mancata. Per molti non si trattava di battere il nazifascismo ma di instaurare il comunismo in Italia. Questo retaggio era rimasto».
La giornalista Rossana Rossanda in un articolo sul Manifesto in pieno sequestro Moro scrisse: «chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria...». Scoppiò un putiferio.
«Una parte più estremista del Pci negli anni '50 usava questo linguaggio. Ma la dirigenza Togliattiana aveva scelto un'altra strada. La fase rivoluzionaria Togliatti l'aveva archiviata, certo il linguaggio di piazza era un'altra cosa. Dirigenza del Pci era più avanti su questo dei suoi intellettuali di riferimento».
Ma questo cortocircuito dentro la base non era così chiaro...
«Diciamo che negli anni '50 la base operaia fu sul punto di esplodere. Ma poi gli operai vennero disciplinati. Gli intellettuali meno. E questo modo di pensare è rimasto presente tra gli intellettuali molto a lungo, non credo nemmeno sia mai scomparso del tutto».
Lo scavallamento a sinistra del Pci da parte di questi componenti spiega scelte come il compromesso storico?
«Sì divenne una lotta interna alla sinistra. I terroristi erano diventati quelli che potevano erodere la base del Pci».
Quella sinistra da sempre ambigua con l'estremismo. Dagli ex terroristi ai picchiatori: sono molte le contiguità che oggi si fa finta di non ricordare. Matteo Sacchi l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.
Questo Paese ha una storia complessa e ha attraversato un periodo tremendo come gli anni di piombo. Anni in cui la violenza politica degli opposti estremismi ha dilagato. Su quell'epoca esiste una verità storica ed una verità giudiziaria, su cui non è il caso di discutere in queste pagine. Di certo di quell'epoca esiste una memoria che al momento sembra funzionare a rate... A colpi di improvvise amnesie. Amnesie che non riguardano solo i fatti dell'epoca ma anche il modo in cui sono stati gestiti dopo e il modo in cui è stato trattato chi li ha commessi. Ad esempio, una lunga articolessa di ieri di Stefano Cappellini su Repubblica raccontava con largo uso di esempi il presunto cuore di tenebra e le radici, mai troncate, che legherebbero l'attuale destra italiana agli estremisti di un tempo. Il tutto mentre la sinistra, a partire dal Pci, avrebbe fatto piazza pulita in un secondo delle proprie aderenze nel mondo del terrorismo e dell'estremismo.
Si potrebbe prendere la questione a partire dal lato intellettuale. I brigatisti, come moltissimi altri gruppi eversivi, reclamavano a gran voce le loro radici all'interno del partito comunista. Prima ancora lo aveva fatto la banda Cavallero che confondeva la brutale rapina e l'esproprio proletario tanto da cantare davanti ai giudici Figli dell'officina. Non è una confusione che coinvolse i vertici del Pci? Nemmeno i vertici del Msi erano confusi. Almirante diceva: «Pena doppia per i terroristi neri». Nella base e tra gli intellettuali andava in un altro modo. Basta pensare ad un terribile slogan che ha fatto tanta strada: «Né con lo Stato né con le Br». Qualcuno lo ha attribuito ad un grandissimo come Sciascia, non è esatto, il discorso di Sciascia era più articolato, ma le ambiguità c'erano. E dopo questo clima in cui le verità processuali andavano bene ma sino ad un certo punto, andavano bene ma con lo sconto ha fatto tanta strada a sinistra.
Le verità processuali andavano rispettate ma, ad esempio, nel caso di Silvia Baraldini la verità processuale statunitense su Silvia Baraldini è stata trattata con le molle a partire dalle visite in carcere del leader del Pci Francesco Cossutta dotato di rose rosse, sino alla collaborazione, a guida Walter Veltroni, con il comune di Roma nel 2003. Se ha senso nel 2023 interrogarsi su estremisti e picchiatori passati per l'Msi forse avrebbe avuto senso interrogarsi di più su Sergio D'Elia, ex esponente di Prima Linea, per la sua elezione con la Rosa nel Pugno (2006 -2008) in quota «radicale» e per la nomina a segretario d'aula a Montecitorio. D'Elia ha compiuto tutto un percorso di dissociazione, sia chiaro, come è chiaro che ha sposato la non violenza. Ma se vale a sinistra dovrebbe valere anche a destra.
Tanto più che i casi di esponenti dell'estremismo politico di sinistra che hanno continuato ad avere un ruolo è vasto. Basta scendere di un gradino per incontrare casi come quello di Susanna Ronconi. Fece parte del commando delle Brigate Rosse che assaltò la sede del Msi di Padova il 17 giugno 1974; il commando assassinò Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Ronconi ebbe funzione di palo e raccolse i documenti sottratti dalla sede. Fu il primo omicidio, sebbene non premeditato, commesso dalle Brigate Rosse. Durante il secondo governo Prodi, il ministro Livia Turco voleva inserirla con un ruolo di consulente ministeriale per la lotta alla droga. Rinunciò per via di alcune proteste. Il 5 dicembre 2006 il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero (Prc), nominò Susanna Ronconi membro della Consulta Nazionale delle tossicodipendenze. Finì indagato per l'ipotesi che avesse dato il ruolo ad una persona interdetta dai pubblici uffici. Ronconi si dimise. Non ci sì è fatti tante domande nemmeno su incarichi pubblici di rilievo nella sanità ad Antonio Belpiede che ha sempre professato, nonostante la condanna, la sua estraneità all'omicidio di Sergio Ramelli. Però la realtà giudiziaria è un altra. Quando venne arrestato era capogruppo del Pci a Cerignola. Pur avendo il Pci, anche solo per il timore di essere scavalcato a sinistra, sempre cercato di tenere le distanze dalla violenza extraparlamentare. Una storia complicata, una storia dove deve esserci lo spazio per la redenzione, per il rispetto delle vittime e delle sentenze, per il buon senso. Ma non si può far finta che sia una storia solo di destra. Perché per la maggior parte non lo è.
Giovanni Bachelet: «Papà Vittorio aveva paura, ma la teneva per sé. Pregai per i terroristi ma non li perdono». Storia di Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2023.
«Ho ucciso il professor Vittorio Bachelet il 12 febbraio del 1980 al termine di una lezione alla facoltà di scienze politiche. Lo aspettavo. Scese le scale seguito e circondato dai suoi studenti. Ero vestita come uno di loro, in giaccone, pantalone stivali, con un cappello di lana in testa. Gli andai incontro ed esplosi undici colpi. Fu un attimo. Solo mentre cadeva lo guardai, vidi i capelli grigi, gli occhiali, il cappotto blu…. Non ero stata io a individuare l’obiettivo né a condurre l’inchiesta. Il professor Bachelet era un bersaglio facilissimo, non aveva la scorta e faceva sempre gli stessi percorsi».
Il «bersaglio facilissimo»
Il «bersaglio facilissimo» di cui parla Anna Laura Braghetti nel suo Il prigioniero io l’ho conosciuto personalmente. Avevo ventuno anni ed ero consigliere comunale a Roma. Bachelet era stato eletto nella Dc, credo per volontà di Moro, e durante le lunghe sedute dell’assemblea capitolina tra lui e me si era instaurato un rapporto particolare. Parlavamo del compromesso storico, della Dc e del Pci, delle nostre famiglie, di Dio e dell’umano. Quando lo hanno ucciso, il «bersaglio facilissimo», ho sofferto. Vicino a lui, quel giorno c’era la sua assistente, Rosy Bindi. Qualche giorno dopo ai suoi funerali ascoltai, rapito da tanta forza, suo figlio Giovanni pronunciare queste parole, inedite in quel tempo di odio e sangue: «Preghiamo per i nostri governanti, per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Per tutti i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila la battaglia per la democrazia, con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
Oggi chiedo a Giovanni di ripensare a suo padre, a com’era. «Una persona tenera, inclusiva, perdeva tempo a persuadere anche noi, adolescenti ribelli. Sapeva guidare, ha avuto ruoli importanti, ma lo faceva con il convincimento. Frequentavo il Mamiani, negli anni tra il ’68 e il 1975. Allora certi genitori tendevano a non mandare i figli in quel tipo di scuole per sottrarli al rischio di contagio estremista. Io fino alla terza media ero stato in una scuola di preti irlandesi. Volevo restare lì ma i miei mi iscrissero, quasi a forza, al Mamiani: “Bisogna andare nella scuola di tutti, non chiudersi nella nicchia, non separarsi nelle riserve indiane in cui tutti sono uguali. Bisogna vivere il mondo di tutti, non solo il proprio. Bisogna imparare a stare con tutti. Tu vai alle assemblee ma fatti un’opinione tua, non aggregarti passivamente. Pensa con la tua testa, non scappare”. Era aperto, ma con principi importanti, non era del tipo “chi non è con me è contro di me”».
Chiedo a Giovanni se suo padre avesse paura. «No paura no, ma certo non era incosciente. In quel tempo, del quale non bisogna avere nostalgia, chi assumeva un incarico di rilievo doveva mettere nel conto i rischi. Diceva: “Se tutti giriamo con intorno quattro persone rischiamo di dare ragione a chi dice che l’Italia è un Paese militarizzato. Io ho accettato questo incarico, se avessi paura mi dimetterei”».
Non aveva paura, ma era consapevole. «In quel periodo ammazzavano una persona a settimana. Ricordo quando non si riusciva a comporre la giuria del processo alle Br di Torino perché i terroristi avevano detto che avrebbero ucciso chi avesse accettato quel ruolo. In televisione intervistarono uno dei pochi che aveva detto di sì e gli chiesero se avesse paura. Quell’uomo rispose: “Sì, la paura ce l’ho, ma me la tengo”. Mio padre commentò: “Che bravo, un altro avrebbe fatto una concione, un proclama etico morale, lui invece ha detto solo la verità”. Forse quelle parole valevano anche per lui, per il suo stato d’animo».
Come viveste in famiglia i giorni di Moro? «I giorni del sequestro sono stati molto duri. Io nel tempo ho capito meglio le ragioni di chi sollecitava iniziative umanitarie per salvarlo, ma chissà... Mio padre non parlò mai di questo tema pubblicamente, ma disse a noi che, se lo avessero rapito, non dovevamo credere a parole che gli fossero attribuite perché in quella condizione la dimensione dell’autonomia di pensiero è fortemente condizionata dalla sottrazione della libertà. Quindi credo lui sperasse davvero che Moro potesse essere liberato e fosse preoccupato per le sorti della democrazia. Le Br sparavano sulle persone, come i cattolici democratici del tempo, che cercavano di andare oltre i confini della guerra fredda prima che la guerra fredda finisse. C’era, tra loro e la sinistra e il Pci, una curiosità anche culturale, c’era la matrice comune della Resistenza, c’era lo stare dalla parte degli ultimi, per fede e/o per coscienza civile. I terroristi sparavano su chi dialogava ma anche altri, per interessi più biechi, penso alla P2, volevano chiudere quella fase di incontro che forse, magari più per Moro che per Berlinguer, avrebbe dovuto essere solo un passaggio di legittimazione dopo il quale si sarebbe conosciuta l’alternanza al governo. La follia eversiva dei terroristi si incontrò con interessi più solidi. Solo per esempio: Ruffilli lavorava a una riforma istituzionale in questo senso, quello che è succeduto a mio padre al Csm, uno della P2, si adoperò per fare avere il passaporto a Calvi…».
Le tue parole al funerale sono state di rifiuto dell’odio, non di rimozione della violenza. «Quella preghiera non fu solo mia, fu il prodotto di tutta la famiglia. La elaborammo insieme. Era un testo molto ponderato, anche politicamente. La preghiera, il rifiuto dell’odio e dello spirito di vendetta non voleva dire cancelliamo tutto, siamo tutti in guerra, facciamo la pace. Non abbiamo niente da vendicare, ma ognuno ha la sua responsabilità. Quando si cerca di giustificare il terrorismo con il “clima politico” di quegli anni, io ricordo sempre che l’articolo 27 della Costituzione dice che la responsabilità penale è personale. Quando tu prendi in mano una pistola per uccidere un povero cristo sei tu che lo fai, non “il clima politico”. La Braghetti l’ho conosciuta fugacemente ad un convegno della Caritas in Campidoglio. Il fratello di mio padre, Adolfo, li aveva incontrati spesso in carcere e ha sostenuto lui il dialogo con loro. Io ero ben contento di delegarlo perché c’è stato un periodo in cui si diceva, voltiamo pagina, scordiamoci il passato… Come se ci trovassimo in Sud Africa, ci fosse stata la guerra civile e ci dovessimo riconciliare. Si parlò molto delle parole della mia preghiera in chiesa, ma io non pensavo che dovessimo riconciliarci. Non eravamo uguali, io non sparavo a nessuno e mio padre nemmeno. In quel tempo qualcuno sparava e qualcuno veniva ucciso. Era una terribile asimmetria. Un’altra cosa era superare le restrizioni imposte dalle leggi Cossiga. Nessuno ricorda che il Csm, mio padre vicepresidente, diede un parere negativo perché avvertì una alterazione delle garanzie democratiche, per esempio nella triplicazione della durata delle pene afflittive. La giustizia e i diritti sono stati la sua ispirazione».
Come hai saputo dell’attentato a tuo padre? «Alle sei del mattino, ero nel New Jersey. Sono venuti due amici avvertiti uno da un giornalista dell’Ansa e l’altra da mia madre e mia sorella. Penso che i miei abbiano fatto così perché, visto il mio passato di depressione, hanno preferito che ci fosse qualcuno quando avessi saputo della notizia. Ricordo l’ultima telefonata con mio padre, qualche giorno prima che lo uccidessero. Ero negli Usa per lavorare e gli dissi: “Come stai papà?” “Bene, quando ti sento.”».
40 anni fa l’omicidio Bachelet, tifoso della Ue e nemico dei sovranisti. Stefano Ceccanti de Il Riformista l'11 Febbraio 2020. Domani ricorrono i quarant’anni dell’assassinio del professor Vittorio Bachelet, ucciso il 12 febbraio del 1980 nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza a opera delle Brigate Rosse. Molto si potrebbe dire su Vittorio Bachelet, in quel momento oltre che docente universitario anche vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura e in precedenza condirettore del periodico della Fuci Ricerca sotto la presidenza di Alfredo Carlo Moro e presidente dell’Azione Cattolica Italiana negli anni del Concilio Vaticano II. Una delle personalità chiave di quello che è stato definito il cattolicesimo democratico, che è stato particolarmente colpito dal terrorismo brigatista, come dimostrano anche i casi di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella e Roberto Ruffilli. «Uccidono sempre gli stessi», fu il commento di Nilde Iotti a Maria Eletta Martini alla Camera dei Deputati il giorno dell’uccisione di Ruffilli. Rinvio per completezza al profilo tracciato dal professor Fulco Lanchester nel Dizionario Bibliografico Treccani, leggibile anche on line. Per questa occasione, per non ripetere cose scontate o che altri potrebbero dire molto meglio, ho pensato di rileggere il volume di Scritti Civili curato da Matteo Truffelli e pubblicato dall’Ave nel 2005 e devo dire che l’ho trovato particolarmente attuale. Il messaggio più forte che se ne ricava è quello di un superamento del nazionalismo esclusivista con una piena accettazione delle opzioni atlantica ed europea. Un dato per niente scontato in quella fascia generazionale in cui tra i giovani cattolici socialmente più aperti, compresi vari costituenti, notevoli erano le riserve sul rapporto stretto con gli Stati Uniti d’America (che si sarebbe rivelato alla distanza una scelta capace di integrare tutte le forze politiche democratiche), in particolare tra i dossettiani e i gronchiani, che si sommava alla diversa opposizione dei settori della destra curiale. Com’è noto, pur allineandosi nel voto finale d’Aula, questi settori espressero chiaramente le loro riserve nel dibattito interno al gruppo democristiano. Ma non era più tempo per Bachelet, né in chiave progressista né conservatrice, di opporsi a questo duplice legame, anche a quello atlantico. Ciò avrebbe di fatto significato, al di là delle intenzioni, riproporre «un residuo di venerazione per questo mito della assoluta sovranità nazionale, in cui si assomma il mito dello Stato inteso come valore assoluto e il mito della nazione ritenuta necessariamente e in perpetuum come autosufficiente politicamente» (“La patria nella comunità internazionale”). Era invece tempo per Bachelet di praticare il principio di sussidiarietà anche all’idea di Patria in una chiave, come diremmo oggi, multilivello: «La patria può essere il nostro paese, la nostra città, la nostra regione; può essere la nostra nazione radicata in un territorio e coincidente o non con lo Stato; può essere lo Stato stesso ma può essere una comunità di Stati; può essere (anche se man mano che i confini si dilatano può sembrare più difficile riconoscere negli uomini un vero e proprio sentimento di amore patrio) la comunità di tutti gli uomini» (Ivi). Soprattutto è l’Europa che va coltivata come «una comunità politica» poiché essa, appunto sulla base del principio di sussidiarietà, in questo caso verso l’alto, è «di dimensioni adeguate alla realizzazione del bene comune dei popoli europei nella situazione attuale del mondo» (“Gioventù europea”). Questo messaggio di fondo non portava comunque Bachelet a dogmatizzare le concrete istituzioni che si creano in un processo necessariamente dinamico e di lunga prospettiva: «le forme che storicamente hanno tentato di organizzare questa comunità su piano giuridico si sono dimostrate finora, com’è naturale data la complessità del problema, del tutto imperfette. Ciò ha prodotto nella opinione pubblica una certa sfiducia e un certo scetticismo…ma questo scetticismo…non riesce spesso a vedere che più che di inutilità delle organizzazioni internazionali dovremmo parlare di incapacità degli Stati nazionali a superare anche politicamente, e sia pure con la dovuta gradualità, una misura che quasi in tutti i casi è stata superata sia nel campo economico sia in quello più strettamente industriale, in quello demografico come in quello militare; e perfino scientifico» (La patria.., cit). Del resto era il medesimo pragmatismo con cui Bachelet si rapportava allo scarto, alla “notevole differenza” tra le due parti della nostra Costituzione: la prima «innovatrice e talora audace» e la seconda «ferma a un’impostazione di tipo pre-fascista, inadeguata quindi alle funzioni nuove dello Stato» (“Crisi dello Stato”). Del resto Bachelet aveva preso a modello nel suo slancio ideale il “senso concreto del possibile e del giusto” di Alcide De Gasperi che considerava il suo modello di riferimento. Quel senso concreto nel segno di una capacità riformista, di aggiornamento profondo della cultura e della politica che gli schemi ideologici chiusi del terrorismo individuarono allora, non a torto, come a esso radicalmente alternativo. Quel senso che dobbiamo riscoprire qui ogni giorno, come nostro dovere comune.
Vittorio Bachelet e la sua lezione di riformismo. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Il professor Lanchester ci chiede come abbiamo vissuto il sacrificio di Vittorio Bachelet nel 1980 per condividere alcuni elementi di memoria. Quello era il mio ultimo anno di liceo e l’omicidio di Bachelet veniva dopo anni tormentati; in particolare era ancora dentro di noi il terribile ricordo dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione. Quel cognome mi era noto per due degli ambienti che allora con alcuni altri coetanei frequentavo assiduamente: il Movimento Studenti di Azione Cattolica e il gruppo locale Jacques Maritain federato alla Lega Democratica di Pietro Scoppola, Achille Ardigò e Paolo Giuntella. Dal primo avevo imparato il senso non intimistico della cosiddetta scelta religiosa implementata pochi anni prima da Bachelet, che portava con sé la necessità di conoscere approfonditamente i documenti del Concilio e la Costituzione, distinguendo, ma unendo in una doppia fedeltà, il ruolo di credenti e quello di cittadini. Dal secondo, soprattutto dallo splendido libro di Pietro Scoppola La proposta politica di De Gasperi, uscito nel 1977, avevamo colto alla luce del passato il senso degli anni della solidarietà nazionale: la collaborazione resistenziale era durata troppo poco, lacerata allora dalla Guerra Fredda, e c’era bisogno di un lavoro comune, non solo di Governo, ma anche molecolare, per dare spessore a una base condivisa, emersa positivamente nel riconoscimento di tutte le principali forze politiche della collocazione atlantica e di quella europea, che consentisse l’alternanza. Quella che Scoppola chiamava la “cultura dell’intesa”. Nel 1979 ad Arezzo si era svolto il convegno della Lega democratica su “La terza fase e le istituzioni” che aveva prospettato anche l’esigenza di accompagnare la possibile alternanza con riforme della Seconda Parte della Costituzione. Il senso di parole come distinzione, mediazione (nel doppio significato verticale, tra principi e realtà, e orizzontale, tra posizioni diverse), che segnano come spiegava Scoppola la liberazione umana come processo aperto, dialogico, si pensi alle belle pagine del volumetto successivo sul 25 aprile, non era però del tutto condiviso. Proprio nel 1977 si era sviluppato un eterogeneo movimento di protesta, che portava con sé esigenze ambigue, alcune positive in chiave libertaria contro gli eccessi delle culture doveristiche tradizionali che avevano strutturato il Paese, altre però distruttive che avevano portato consenso alle frange terroristiche residue. Gruppi che si ispiravano alla cultura della Rivoluzione, intesa come un punto fisso di arrivo, da raggiungere a tutti i costi per via di imposizione, l’esatto contrario del processo aperto di liberazione. Come ha spiegato Micheal Walzer in Esodo e rivoluzione ci sono due modelli politici e teologici diversi a seconda che si consideri la terra promessa da raggiungere come pura, o, viceversa, da scegliere solo perché migliore di quella presente, senza pretesa di perfezione. La violenza tendeva a opporre la Rivoluzione agli uomini che col proprio riformismo incarnavano davvero la possibilità di Liberazione. Negando la Liberazione dentro il sistema si illudevano di imporre la Rivoluzione. All’idea di Costituente incompiuta, di un Governo delle forze popolari troppo presto interrotto nel 1947 e da riprendere trent’anni dopo per consentire un’alternanza non traumatica, si opponeva il mito della Resistenza tradita che poteva compiersi solo con la Rivoluzione di una parte che si imponeva all’altra. In qualche modo, però, la contestazione alle idee di distinzione, di mediazione, di doppia fedeltà era contestata anche nella Chiesa. Quel cattolicesimo impersonato da Moro e Bachelet ad alcuni sembrava datato, troppo elaborato, e non nel senso scontato in cui ovviamente nessuna eredità non può essere solo passivamente ripetuta. Cosicché quando qualche settimana dopo l’omicidio, per l’appunto a Pisa, il 24 e 25 maggio, esattamente quarant’anni fa, in un convegno nazionale dei giovani della Lega Democratica che presero il nome della “Rosa Bianca”, l’allora presidente della Fuci Giorgio Tonini usò come parole chiave “mediazione culturale”, si ingenerò una dura polemica ecclesiale sull’opportunità o meno di archiviare per intero quell’eredità in nome di un approccio più immediato all’opzione religiosa, teso a svalutare anche la stagione della solidarietà nazionale e l’appartenenza comune alla Costituzione. Come nella contestazione terroristica riviveva la teoria della “Resistenza tradita” e la polemica estremista contro le forze di sinistra che avevano progressivamente accettato la collocazione europea ed atlantica, così nella Chiesa rivivevano alcune delle pulsioni intransigenti che si erano manifestate al momento dell’approvazione della Costituzione, vista come un cedimento ad altre impostazioni, delle elezioni municipali di Roma del 1952 con la cosiddetta operazione Sturzo, nelle dure opposizioni al primo centro-sinistra e nelle riserve verso lo stesso Concilio. Giacché i piani sono distinti, ma la connessione è sempre forte. Due opposizioni del tutto diverse, niente affatto assimilabili, ma entrambe tese a polarizzare, a privilegiare l’immediatezza sulla mediazione, la propria Rivoluzione alla Liberazione comune, la propria esperienza religiosa declinata in termini tradizionalistici come contrapposta alla cittadinanza comune. A tanti anni di distanza credo si possa legittimamente rivendicare che invece quella via di Liberazione, nel segno della mediazione e del riformismo, fosse l’unica portatrice di futuro, al netto della capacità di ciascuno di noi di saperla rinnovare costantemente.
Quegli otto colpi di pistola, il finto allarme bomba, la fuga dei terroristi sulla 131 bianca. La cronaca di allora. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Gian Antonio Stella e Bruno Tucci, Maria Serena Natale, Giovanni Bianconi. Quarant’anni fa moriva Vittorio Bachelet, professore di Diritto e vice presidente del Csm ucciso il 12 febbraio 1980 alla Sapienza. La cronaca dall’archivio del «Corriere» e l’eredità dell’intellettuale cattolico assassinato dalle Brigate rosse. Quarant’anni fa moriva Vittorio Bachelet, professore di Diritto, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura e figura di riferimento del mondo cattolico impegnato nel rinnovamento democratico del Paese, ucciso dalle Brigate rosse all’università La Sapienza. Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella partecipa agli eventi commemorativi nella sede del Csm e nell’ateneo romano. Riproponiamo la cronaca di allora, firmata da Gian Antonio Stella e Bruno Tucci sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del 13 febbraio 1980. L’attacco, questa volta, è nel cuore dell’università. Le Brigate Rosse colpiscono a freddo una delle più alte cariche dello Stato, il professor Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Quattro colpi all’addome, altri in testa mentre il docente è a terra agonizzante. Commenta a caldo il procuratore capo Giovanni De Matteo: «È il più grave attacco alle istituzioni nella storia della Repubblica italiana». Roma è sconvolta, decine di «gazzelle» e di «pantere» la percorrono in lungo ed in largo. Scattano posti di blocco, retate, perquisizioni. La città universitaria è isolata: nessuno può entrare o uscire senza aver lasciato un proprio documento d’identità. Lo potrà ritirare dopo gli accertamenti. Come una bomba, la notizia rimbalza dal Quirinale al Parlamento, dal Senato a Palazzo Chigi. La Roma politica rivive le ore angosciose della mattina di via Fani. Pertini è attonito, interrompe le udienze, s’infila un cappotto beige, si precipita all’università. Dinanzi al cadavere dell’amico, si commuove, scuote il capo, esce da una porta secondaria, forse per nascondere le lacrime. Lo seguono Amintore Fanfani, Nilde Jotti, Rognoni, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Piccoli, Zaccagnini, Stammati, il sindaco Petroselli. I rituali di sempre: la commozione, lo sdegno, le parole di dolore, l’abbraccio alla vedova, ai figli. Poi la solita, ossessiva domanda: è proprio impossibile fermare questa drammatica escalation? Commenta De Matteo: «Per combattere il terrorismo, ci vogliono mezzi legislativi, di polizia, sostanziali. I decreti approvati recentemente sono solo il primo passo, ne debbono seguire altri». La facoltà di Scienze politiche è assediata, nell’aula magna di Giurisprudenza Luciano Lama parla ad una folla di studenti. È proprio qui che il segretario generale della CGIL, tre anni fa, fu contestato dai giovani. Dice: «Spero che questa volta ci sia una prova di unità tra lavoratori, insegnanti e studenti. In questo palazzo c’è un uomo morto, appartiene anche lui alla nostra famiglia, alla famiglia di coloro che non accettano la violenza. Che si battono per la vita contro la morte». Fuori, la città universitaria brulica di gente: giornalisti, fotografi, cineoperatori premono per sapere qualcosa, le notizie filtrano con il contagocce. La polizia e i carabinieri, barricati nell’androne dove è avvenuto il delitto, non lasciano entrare nessuno. A fatica si ricostruisce il film di questo barbaro assassinio. Soltanto a tarda sera, per esempio, si saprà da una dichiarazione di Rognoni alla Camera, che le BR avrebbero trafugato una borsa che Bachelet teneva sotto il braccio.Sono le 11.35 di una mattinata splendida. Il sole è primaverile, la temperatura è tiepida, nei viali dell’università gli studenti passeggiano con i libri sotto il braccio. Vittorio Bachelet, 54 anni, sposato con due figli, professore di Diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, ha appena concluso la lezione. Esce dall’aula numero 11, dedicata ad Aldo Moro, e si avvia chiacchierando verso le scale che portano all’ingresso della facoltà. Sono con lui la sua assistente Bindi e due studenti. Bachelet sale le scale e si ferma nell’androne a parlare con la professoressa: «Sono indeciso se tornare a casa o fermarmi in ufficio a sbrigare alcuni lavori». Sul pianerottolo e sulle scale che conducono al secondo piano una quindicina di studenti discutono fra di loro. È il momento dell’agguato: i due terroristi sono sulla porta, la tengono aperta, sorvegliano, con disinvoltura, il professore e la piazzetta interna, cioè la via della fuga. Sono un uomo, snello, un metro e settanta, zuccotto in testa, baffi scuri e folti, giaccone sportivo chiaro, venticinque anni circa; e una ragazza, magra, un metro e sessantacinque, capelli ricci, baschetto chiaro, soprabito verde, pallida in volto, sui ventidue anni. Bachelet continua a parlare con l’assistente, la terrorista si innervosisce, decide di entrare in azione. Con freddezza, fa un paio di passi, raggiunge il professore che le volge la schiena, lo afferra per una spalla, lo gira e spara quattro volte. Quattro colpi all’addome da non più di trenta centimetri. Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura si piega su se stesso, barcolla, cerca istintivamente rifugio in un angolo a ridosso della vetrata. Interviene il secondo terrorista: si precipita verso Bachelet che sta crollando a terra. Preme per quattro volte il grilletto, il professore si affloscia su un fianco, perde gli occhiali. L’assassino si china su di lui e gli spara il colpo di grazia alla nuca. L’autopsia confermerà che gli assassini hanno usato una pistola calibro 32: otto pallottole che lo hanno centrato. Una al cuore, una alla nuca. «Scappate, scappate, ci sono le bombe», grida il killer. È un trucco per coprirsi la fuga. Infatti, si scatena un fuggi-fuggi generale: i terroristi ne approfittano, scendono nella piazzetta interna e raggiungono, a passo veloce, un cancello secondario di viale Regina Margherita che qualcuno ha aperto durante la notte, tranciando con un tronchese la catenella del lucchetto. I due assassini salgono su una 131 bianca che si perde nel traffico scomparendo verso piazza Bologna. In quella zona sarà trovata qualche ora dopo. Era stata rubata da un commando delle BR. Non è ancora mezzogiorno, dalla città universitaria l’allarme arriva in questura. Partono «gazzelle» e «pantere», parte pure un’ambulanza, ma inutilmente, perché Vittorio Bachelet è morto sul colpo. Dopo il terrore e lo smarrimento, si comprende quanto è accaduto. Si interrompono le lezioni, la vita dell’università si blocca, le aule si svuotano. Studenti e professori si precipitano alla facoltà di Scienze politiche. Stupore, sdegno, commozione. Dice il professor Adolfo di Majo, docente di Diritto civile e membro del Consiglio superiore della magistratura: «Hanno voluto colpire non l’uomo, ma l’istituzione». La notizia dell’agguato giunge nell’aula magna, dove si sta tenendo un dibattito sul terrorismo, condotto da Stefano Rodotà e da Luciano Violante. Il dibattito si trasforma immediatamente in un’assemblea aperta, carica di tensione.La facoltà di Scienze politiche viene «occupata» dal procuratore capo De Matteo, dagli ufficiali dei carabinieri e dai funzionari di polizia. Si fanno i primi rilievi, mentre ai centralini di due giornali arrivano le telefonate che rivendicano l’attentato. «Siamo le Brigate Rosse, abbiamo giustiziato noi il professor Bachelet. Seguirà comunicato». Delle quindici persone che hanno assistito all’omicidio, restano quattro testimoni: l’assistente di Bachelet e tre studenti che permettono alla polizia una prima ricostruzione. Si tenta anche un identikit, ma per il momento non c’è niente di ufficiale. Le indagini si presentano difficili, come sempre. «Vittorio, Vittorio, che cosa ti hanno fatto?». La moglie Maria Teresa Bachelet, giunta all’università insieme con la figlia Maria Grazia, si china sul corpo del marito. Piange, si dispera, continua a invocare il suo nome. «Glielo avevo detto che doveva stare attento, e lui mi rispondeva: è un rischio che dobbiamo calcolare». Arrivano gli amici, i conoscenti, i colleghi: dinnanzi alla vetrata chiusa la gente si accalca. Qualcuno dice: «Stanno uccidendo a caso». Un vecchio professore s’indigna, esclama: «Macché a caso! Per carità, non si prende di mira un Bachelet tanto per sparare nel mucchio. Sapevano bene chi avrebbero ucciso». La confusione è tale che gli esperti della scientifica bussano inutilmente per alcuni minuti. Entreranno dopo con non poca fatica. Nell’aula magna, gremita di gente, parla il rettore Antonio Ruberti. Pallido in volto, dice al microfono: «Non è più possibile stare alla finestra, perché quando si continua a non dare alcun peso alla vita umana e si colpisce persino dentro l’università vuol dire che si è giunti ad un punto di grave imbarbarimento dal quale è difficile uscire senza un serio, profondo impegno di tutti quanti». Gli fa eco l’onorevole Stefano Rodotà: «C’è un esplicito disegno di cancellare le libertà democratiche nel nostro Paese; c’è una strategia che tende a colpire ogni occasione di vita del Paese, a sostituire la discussione con la paura». Aggiunge il sindaco Petroselli: «Sono ormai dieci anni che il nostro Paese è vittima di questa catena di delitti. Diciamo ancora ai terroristi: non siete passati e non passerete. La democrazia italiana è e sarà più forte dei suoi nemici».A Roma si vivono ore di grande tensione: i controlli sono estesi finanche alla Camera ed al Senato, dove i commessi hanno l’ordine di perquisire chiunque entri o esca da Montecitorio e da Palazzo Madama. Oggi, per rispondere alla nuova sfida del terrorismo, l’Italia si ferma due ore per uno sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali. Le scuole apriranno con un’ora di ritardo. A Roma il blocco sarà di quattro ore: all’università è prevista una manifestazione a cui parteciperanno i massimi dirigenti della federazione unitaria. Nei tribunali di tutt’Italia saranno sospese le udienze. Il Consiglio dei ministri si occuperà di ordine pubblico.
Rosy Bindi: «Dietro l’agguato poteri occulti che volevano fermare il Paese». Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin. La mattina in cui fu ucciso Vittorio Bachelet, nei corridoi della facoltà di Scienze politiche della Sapienza c’era meno gente del solito. Il 12 febbraio di quarant’anni fa era un martedì, nell’aula magna si stava tenendo un incontro sul terrorismo — tra i relatori Luciano Lama, Stefano Rodotà e Luciano Violante — e qualcuno aveva diffuso la voce che c’era una bomba all’università: un’idea dei brigatisti per non trovare intralci durante la fuga. Terminata la sua lezione, Bachelet si era fermato a fare due chiacchiere sul mezzanino della scalinata che porta all’aula docenti, insieme alla sua assistente, Rosy Bindi, che quel giorno compiva 29 anni. Anche da vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, non aveva voluto rinunciare all’insegnamento. «Anzi, mi aveva confessato che attendeva con ansia la fine di quell’anno — ricorda Bindi —, quando avrebbe terminato l’incarico al Csm, e sarebbe tornato in Ateneo a tempo pieno».
Come racconterebbe, a uno studente di oggi, chi era Vittorio Bachelet?
«Era semplicemente un professore, nel senso più alto del termine. Il suo amore per i giovani era merce rara. Riusciva a trasmettere ai ragazzi la passione per il diritto perché non partiva mai dall’astrattezza, ma dai problemi reali del Paese».
E agli esami com’era?
«Era giusto. Se un candidato non era preparato, non lo poteva promuovere… Ma faceva sempre una domanda in più, per essere sicuro. Mi diceva: dobbiamo dare a tutti una possibilità di appello. A me, che seguivo i laureandi, aveva dato questa indicazione: con i più bravi puntiamo alla lode, ma anche gli altri devono arrivare al traguardo».
Come racconterebbe, a uno studente di oggi, perché l’hanno ucciso?
«È stato ammazzato perché, come tutte le altre vittime delle Br, era un autentico servitore dello Stato. Aveva competenza, intelligenza e rettitudine: è chiaro che per abbattere lo Stato, come volevano fare i brigatisti, bisognava privarlo dei suoi uomini migliori. È poi c’è un’altra ragione, più profonda».
Quale?
«La mia convinzione, maturata nel corso dei decenni, è che queste vittime non sono state uccise solo dalle Br, ma da poteri occulti, preoccupati perché la generazione allora al governo stava attuando davvero lo spirito della Carta costituzionale. Oggi molti lo hanno dimenticato, ma quelli sono stati anche anni molto belli, una stagione di autentiche riforme nel Paese: il servizio sanitario nazionale, l’istituzione delle Regioni, il diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, fino ai consigli di quartiere. Contro tutto questo ci fu un doppio accanimento: da parte dei terroristi, e da parte dei poteri che usarono chi sparava nelle strade».
Lei guardò negli occhi la ragazza che sparò per prima a Bachelet.
«Quando arrivò, pensavo fosse una studentessa. Poi prese il professore alle spalle e vidi il volto di lui trasformarsi: capì cosa stava accadendo un istante prima di me. Dopo gli spari, corsi a cercare aiuto ma non trovai nessuno: i terroristi avevano pianificato tutto per lasciarci soli».
Il commando era composto da due brigatisti, Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti. Entrambi arrestati pochi mesi dopo e condannati all’ergastolo, ormai sono liberi da molti anni. Pensa che siano rimasti in carcere il giusto?
«Il compito di stabilire le pene è della magistratura, che ha applicato le leggi dello Stato. La penso come Giovanni, il figlio del professore, intervistato da Giovanni Bianconi sul Corriere. Come dice la Costituzione, la funzione della pena non è la vendetta ma la riabilitazione della persona. Quello che non avrei mai accettato, sarebbe stato un colpo di spugna: la tentazione c’è stata, ma per fortuna non è avvenuto. Una cosa è il percorso personale di ciascun terrorista, un’altra l’assoluzione storica del terrorismo. E quest’ultima sarebbe inaccettabile, perché il terrorismo va condannato, punto. Non ha alcuna possibilità di giustificazione. E poi c’è un altro problema decisivo. Il problema che la verità, i brigatisti, non ce l’hanno mai detta».
Lei cosa chiederebbe oggi a chi armò Seghetti e Braghetti?
«Se erano uno strumento consapevole o inconsapevole di altri poteri».
Braghetti ha dimostrato grandi doti di «comunicatrice»: ha scritto un libro molto auto-indulgente, «Il prigioniero», dal quale è stato tratto un film di successo, «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio. A lei è ispirato il personaggio interpretato da Maya Sansa, la brigatista presa dai dubbi, che sogna la liberazione del presidente Dc.
«Mi ha lasciata perplessa soprattutto il film. Come il mio professore, io sono tra chi scommette sempre nella possibilità che le persone si possano riscattare. Però mi chiedo: se ha avuto davvero tutti quei dubbi durante il sequestro Moro, come ha fatto due anni dopo a uccidere Bachelet con tanta freddezza?».
Il cardinal Martini ha definito Bachelet un martire laico. La Braghetti, invece, ha scritto di lui: «Un bersaglio facilissimo».
«Facilissimo proprio perché è andato consapevolmente incontro al suo martirio. Sapeva da tempo di essere un obiettivo delle Br ma aveva rifiutato la scorta, perché non voleva mettere in pericolo la vita di altre persone».
Le è mai capitato di pensare cosa sarebbe successo se due anni prima, durante il sequestro Moro, fosse passata la linea di Craxi, quella della trattativa con i sequestratori?
«Con i terroristi non si può trattare. Più che linea della trattativa, io la definirei preoccupazione di salvare la vita a Moro a tutti i costi. E non era certo una preoccupazione solo di Craxi, lo fu anche di alcuni democristiani come Fanfani. Io, che ero una semplice dirigente dell’Azione cattolica e ricercatrice precaria all’università, all’epoca ero per la linea della fermezza. Negli anni successivi mi sono convinta che noi invece avremmo dovuto salvare la vita di Moro. Perché lo Stato era comunque più forte dei terroristi. Quindi si poteva salvare la vita di Moro senza intaccare la forza delle istituzioni. Anzi, sarebbe stato necessario farlo».
Negli anni successivi, i terroristi facevano meno paura.
«Non è questo il punto. Il paradosso è che salvando Moro lo Stato sarebbe diventato più forte, e invece senza di lui si è indebolito. Rimasto solo, Berlinguer non è stato in grado di proseguire il percorso che avevano cominciato insieme. E presto si è aperta la stagione di Craxi. Le mie critiche a Craxi non dipendono dalla stagione di Tangentopoli, considero quella di Hammamet una tragedia umana. Sono legate a quello che accadde negli anni Ottanta: fu allora che avvenne una mutazione del ruolo dei partiti, e della leadership politica, i cui influssi negativi resistono ancora oggi. Tutto questo è accaduto perché è venuto meno il progetto di Moro. Ma purtroppo nel 1978 non era chiaro ai più quanto lungimirante e illuminante fosse per la democrazia italiana il progetto moroteo».
Al funerale di Bachelet, nella chiesa di San Roberto Bellarmino a Roma, suo figlio Giovanni disse una cosa enorme: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
«Fu un messaggio dirompente, di un’attualità straordinaria. Oggi si parla tanto di farsi giustizia da soli, nelle chat si inneggia alla pena di morte, si promuove un’idea di Stato che non pratica la giustizia ma la vendetta. C’erano anche allora questi sentimenti, e l’idea di sospendere le garanzie costituzionali per combattere il terrorismo. Ma il terrorismo fu sconfitto con la Costituzione, grazie anche a Vittorio Bachelet e alla sua famiglia. Per questo oggi vorrei che quella preghiera straziante venisse letta in tutte le scuole. Perché la democrazia non si conquista una volta per tutte, bisogna impegnarsi ogni giorno per preservarla».
Da studente universitario Bachelet, nei primi anni del Dopoguerra, scrisse nella rivista della Fuci: «Con nessuno dei nostri simili abbiamo il diritto di rifiutarci o di essere pigri nel gettare il ponte».
«Questa per me è l’essenza di Bachelet: un uomo di fede. In epoche di cambiamenti profondi, com’erano gli anni Settanta e ancora di più il mondo di oggi, il cristiano ha uno strumento in più da offrire alla società: il Vangelo. Da qui nasceva in Bachelet il grande rispetto nei confronti degli altri, la sua attitudine al dialogo, la sua capacità di unire. Questa era la sua intelligenza, la sua cultura, il suo carattere, ma soprattutto la sua autentica fede cristiana. Il cristianesimo non come fazione, ma come spirito di servizio al Paese. In tempi in cui l’odio sembra un sentimento sdoganato, perfino politicamente corretto, uomini come Bachelet ci mancano enormemente. Dobbiamo continuare a interrogarli, tramandare le cose che hanno scritto, il modo in cui hanno vissuto e in cui sono morti. La strada l’hanno tracciata. È faticosa, ma è davanti a noi».
Come ha deciso di trascorrere il giorno del suo compleanno?
«Ho quattro appuntamenti. La mattina sono alla cerimonia in memoria di Bachelet al Csm, poi alla celebrazione che si tiene alla Sapienza, entrambe alla presenza del presidente Mattarella. Nel tardo pomeriggio vado a messa. La sera mi aspetta una cena con la mia famiglia, tra mia mamma che di anni ne ha cento e una schiera di nipoti e nipotini».
Con la preghiera di suo figlio Giovanni la nostra generazione scoprì la vita pubblica. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. «Preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà...». Credo che la mia generazione si sia affacciata alla politica o, meglio, alla vita pubblica ascoltando quella frase, pronunciata da un ragazzo poco più grande di noi. Un ragazzo a cui avevano ammazzato il padre, e che mentre mezza Italia invocava la pena di morte perdonava gli assassini e, di più, pregava per loro. Le parole di Giovanni Bachelet al funerale di suo papà Vittorio non rappresentano solo il culmine del cattolicesimo democratico, di una certa idea di percepire la politica come «la più alta forma di carità» (Paolo VI) e il potere come verbo, non come sostantivo. Ebbero l’effetto di una scossa di commozione, di energia, anche di fiducia su bambini, ragazzini, adolescenti cresciuti durante gli anni di piombo, che fino a quel momento non avevano ben capito quel che stava accadendo.Ricordo quando la tv trasmise le immagini della strage dell’Italicus. Avevo sette anni. Chiesi a mio nonno Aldo: «Ma sono più le persone buone, come noi, o quelle cattive, che mettono le bombe sui treni?». Non ricordo cosa e se mi abbia risposto. Anche il nonno, che pure era passato attraverso la guerra d’Africa, il fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, la ricostruzione, il nonno che mi parlava per ore della sua giovinezza grandiosa e terribile — Hitler, Stalin, Mussolini —, era senza parole di fronte a un orrore che sfuggiva alla sua comprensione. E poco importa che la bomba sull’Italicus l’avessero messa terroristi neri, e Vittorio Bachelet fosse stato assassinato da terroristi rossi. Era comunque un attacco vile a quella fragile democrazia che gli italiani delle generazioni precedenti erano riuscite a costruire. Poi vennero quelle parole. Pronunciate dal pulpito di una chiesa, da un ragazzo rimasto orfano. Fu allora che compresi una realtà forse lapalissiana, ma che aveva necessità di conferme: erano di più i buoni. E come accade non sempre, ma spesso, alla fine i buoni avrebbero vinto.
Il figlio di Vittorio Bachelet: «Papà morì per lo Stato. I killer liberi? Gli andrebbe bene. Pregammo per loro». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. «Preghiamo per i nostri governanti», esortò Giovanni Bachelet al funerale del padre Vittorio, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura assassinato due giorni prima dalle Brigate rosse. Dal pulpito della chiesa, durante l’orazione dei fedeli, fece i nomi del capo dello Stato Sandro Pertini e del presidente del Consiglio Francesco Cossiga, seduti in prima fila; poi citò «i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila per la democrazia, con coraggio e amore». Parole da tempo di guerra, accolte dal silenzio commosso e teso di autorità, amici e semplici cittadini. Poi aggiunse: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Subito scattò un applauso, forse più di stupore che di convinta adesione, ma forse anche liberatorio. Come se si fosse svelata una nuova, possibile forma di resistenza all’imbarbarimento in cui il terrorismo stava risucchiando l’Italia. Era il 14 febbraio 1980, Vittorio Bachelet era stato ucciso il 12, all’università di Roma La Sapienza, dove insegnava Diritto alla facoltà di Scienze politiche. La stessa di Aldo Moro. Quarant’anni dopo suo figlio Giovanni — all’epoca venticinquenne ricercatore negli Stati Uniti — insegna pure lui alla Sapienza, ordinario di Fisica, dopo essere stato deputato del Partito democratico dal 2008 al 2013. E ricorda bene la genesi di quella preghiera. Sorprendente al punto da conquistare le prime pagine dei giornali, ma non per una famiglia credente e militante della Chiesa conciliare come quella costruita da Vittorio Bachelet, che prima di essere eletto al Csm fu presidente dell’Azione Cattolica e consigliere comunale a Roma per la Dc guidata da Moro e Benigno Zaccagnini. «Con mamma, mia sorella, gli zii — racconta Giovanni — decidemmo di provare a dire quello che avrebbe detto mio padre di fronte a persone non troppo abituate ad ascoltare il messaggio del Vangelo, per lui così importante. Purtroppo di funerali di Stato ce n’erano tanti in quel periodo e una volta, con il suo tono un po’ burlone, riferendosi a un paio di politici notoriamente non cattolici mi disse: “Certo sono situazioni tragiche, ma chissà che tutte ’ste messe non gli facciano bene...”. Noi tentammo di fargli fare una buona figura, riaffermando i valori della democrazia e della Costituzione a cui papà aveva dedicato la vita». Non era facile in quegli anni di assalto alle istituzioni, morti e feriti in strada, leggi d’emergenza: «Ma era anche una questione di coerenza. Quando fu trovato il cadavere di Aldo Moro andammo con qualche amico davanti alla sede della Dc, dove alcuni provocatori invocavano a gran voce la pena di morte. Gli intimammo di smetterla o di allontanarsi perché la storia di Moro, padre costituente e professore di Diritto penale, non era compatibile con le loro grida. Proprio sotto l’attacco del terrorismo era necessario spegnere le strumentalizzazioni antidemocratiche, sebbene ci fosse la sensazione di trovarsi sul ciglio del burrone». Pure Vittorio Bachelet era preoccupato per il clima di guerra che si respirava in Italia: «Guardava con inquietudine alla militarizzazione della vita quotidiana, perché temeva che fornisse ulteriori argomenti a chi protestava contro “lo Stato imperialista delle multinazionali”. Tanto più che tutte quelle scorte si rivelavano insufficienti a proteggere le persone, come dimostrò la strage di via Fani. A Moro era molto legato, fu lui a proporgli di andare al Csm. Durante il sequestro non volle prendere una posizione pubblica a favore o contro la trattativa con le Br; pensava che il compito di chi era nelle istituzioni fosse di lavorare in silenzio per liberare l’ostaggio. La lacerazione tra lo Stato e la famiglia fu un’ulteriore sofferenza per lui, amico e compagno di studi di Carlo, magistrato e fratello di Aldo». È probabile che anche Bachelet, in quel contesto, temesse per la propria vita: «Una sera vedemmo insieme un servizio del telegiornale sul processo torinese ai capi storici delle Br, con l’intervista a un giurato popolare. Il giornalista gli chiese se avesse paura, e papà ironizzò sull’intelligenza della domanda, peraltro davanti a una telecamera. Ma il giurato rispose: “La paura ce l’ho, ma me la tengo”, e mio padre commentò ammirato: “Ecco un uomo vero, senza retorica”. Dopo la sua uccisione pensai che forse s’era identificato in quell’uomo». L’omicidio del vice presidente del Csm arrivò al culmine di una carneficina di toghe e uomini in divisa: «Ricordo che alla camera ardente allestita al Csm c’era il registro con l’elenco dei visitatori, mi avvicinai e su una riga lessi le lettere Br. Difficile non immaginare una forma di rivendicazione giunta fin lì, camuffata tra centinaia di nomi; riflettei sul clima di omertà che circondava il terrorismo e la violenza politica, paventato anche da Moro, che permetteva a queste persone di muoversi e infiltrarsi senza timore di essere riconosciute. Come accadde pure all’università. Dopo il funerale io tornai subito negli Stati Uniti, dove vivevo da qualche mese e sarei rimasto un altro anno, senza avere tempo di assistere alle reazioni all’omicidio di papà, né a ciò che avevo detto in chiesa. La nostra famiglia non si costituì parte civile nel processo ai brigatisti responsabili del delitto, perché ritenemmo che la questione giudiziaria fosse di esclusiva competenza dello Stato, colpito nella sua persona. Fu una decisione consequenziale alla nostra preghiera». Da parecchi anni gli assassini di Vittorio Bachelet, scontate le pene, sono tornati liberi: «Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e ritengo che mio padre come Aldo Moro, due persone che hanno dato la vita per la Repubblica e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò. L’incontro con i terroristi non l’ho mai cercato; l’ha fatto mio zio Adolfo, fratello di papà, che era un gesuita. A me è capitato casualmente, anni dopo, di stringere la mano alla donna che sparò a mio padre, e non ricordo particolari sensazioni. Nella legislatura in cui sono stato deputato, assieme a Sabina Rossa e Olga D’Antona (figlia e moglie di altre due vittime delle Br, ndr) presentammo un disegno di legge per interrompere la prassi di pretendere dagli ex terroristi un contatto con i familiari delle persone colpite, a riprova del loro “sicuro ravvedimento”; proponemmo che ad accertare “il completamento del percorso rieducativo” fossero solo giudici e operatori penitenziari, senza mettere in mezzo i parenti delle vittime. Ma la proposta non venne nemmeno posta in discussione». Restano, quarant’anni dopo, i ricordi e gli insegnamenti di un genitore che sebbene molto impegnato nella vita pubblica non fece mai sentire la sua assenza in famiglia: «Papà è sempre stato molto presente, anche dall’America continuavamo a scriverci e telefonarci, sebbene non con la frequenza consentita oggi da Internet. E ogni volta che gli chiedevo “come stai?” rispondeva: “Bene, quando ti sento”. Della sua morte mi avvisarono due amici, chiamati da mia sorella e da un giornalista legato a papà: in America vivevo da solo, i miei non vollero dirmelo al telefono. Io stavo ancora dormendo perché lì era l’alba o poco più, mi svegliarono bussando forte alla porta. Il primo pensiero fu di trovare un aereo per tornare a casa. Poi venne tutto il resto».
Il sacrificio della secondina innocente uccisa come Aldo Moro: «Ma cosa vi ho fatto?» Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.
Il 28 febbraio 1983 fu assassinata a Roma, unica donna vittima dei gruppi armati «rossi». Il cadavere fu riconsegnato nel bagagliaio di un’auto come cinque anni prima quello dello statista
Il cadavere fu riconsegnato nel bagagliaio di un’auto, come cinque anni prima quello di Aldo Moro. Ma stavolta la vittima era molto meno famosa, e persino inattesa: una signora di 57 anni che i giornali dell’epoca definirono «anziana», vigilatrice del carcere femminile di Rebibbia addetta al controllo dei pacchi per i detenuti, nubile, di origini umili e popolari. Un secondina, si diceva allora. Assassinata a Roma il 28 gennaio 1983.
Si chiamava Germana Stefanini, ed è l’unica donna uccisa perché bersaglio designato del terrorismo rosso in Italia; l’altra vittima, Iolanda Rozzi, morì nel 1980 dopo un attentato incendiario alla casa dove viveva con la sorella militante democristiana, obiettivo della banda che appiccò il fuoco. Ma nonostante questo triste primato, Germana Stefanini ha faticato e fatica ancora oggi ad uscire dall’anonimato. È rimasta una tra tante, mai o quasi mai ricordata anche a quarant’anni esatti da quell’efferato delitto, commesso nella fase ormai discendente della lotta armata in Italia, quando non c’era più nemmeno il flebile collegamento con le pulsioni rivoluzionarie degli anni precedenti. E le azioni dei sedicenti guerriglieri incutevano solo terrore.
La rivendicazione
A rivendicare l’omicidio fu un piccolo gruppo vicino alle Brigate rosse-Partito guerriglia, battezzatosi Nucleo per il Potere proletario armato, formato da poche e giovanissime leve; autori di «una spietata esecuzione — scrisse il giudice istruttore nell’ordinanza di rinvio a giudizio — che soltanto paranoici e schizofrenici potevano compiere nell’attento, silente, rabbioso sgomento dei sani di mente, e in particolare dei veri “proletari” che nelle SS non si sono mai identificati».
Parole che trasudano sdegno per un’azione difficilmente comprensibile per chi aveva vagheggiato (o ancora vagheggiava) prospettive insurrezionali, mentre le Br e i gruppi affini decimati da arresti e «pentimenti» tentavano di resistere al ritmo di un attentato all’anno, destinati all’estinzione nel giro di un lustro.
Prima di ucciderla, i terroristi che l’avevano sequestrata in casa sua sottoposero Germana Stefanini a un «processo proletario». La fotografarono davanti a uno striscione pieno di slogan, («Accerchiare, smantellare e distruggere il carcere», «Annientare il personale politico-militare che lo attiva», eccetera), infagottata nel cappotto, le mani giunte in grembo, il capo reclinato e l’aria rassegnata. La registrazione dell’interrogatorio emerse dal covo dei suoi assassini, insieme ai bossoli degli spari con cui fu eseguita la sentenza di morte. Che due mesi prima avrebbe dovuto colpire anche una dottoressa del carcere, rimasta miracolosamente in vita con un proiettile in testa.
«Errori di questo tipo non si ripeteranno più», avvisarono i «proletari armati» nel documento di rivendicazione. E con Germana Stefanini mantennero la minaccia. Il volantino fatto ritrovare dopo il delitto la bollò come «aguzzina» impegnata a «manomettere, sezionare e distruggere» i pacchi destinati ai reclusi di Rebibbia, mentre svolgeva semplicemente il proprio lavoro di vigilatrice.
La registrazione
La trascrizione dell’interrogatorio doveva essere un atto d’accusa nei suoi confronti, ma ha solo svelato la crudeltà dei suoi assassini.
«Hai la licenzia media?».
«No».
«Che c’hai?».
«La quinta elementare».
«Perché hai scelto questo mestiere?».
«Perché non sapevo come poter vivere… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia».
«Che funzione hai?».
«Io faccio i pacchi… (…) È poco che sto ai pacchi?».
«Ah è poco? Sono sei anni».
«Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia».
«Controllavi il lavoro delle detenute?».
«No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche (detenute per fatti di lotta armata, ndr) nessuna mi dice male, a me tutte mi portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto».
«Spiegaci come sei entrata a Rebibbia».
«Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi “proviamo”». (…)
«Ma è il primo lavoro che facevi, questo?».
«Sì, perché avevo papà invalido di guerra».
«Tuo marito che stava…».
«Non sono sposata. Se avessi avuto marito mi contentavo di quello che portava lui…».
A un tratto nella registrazione si sente il pianto di Germana e uno dei sequestratori che dice «Nun piagne, tanto non ce frega un cazzo!», ma la donna insiste: «Ve l’ho detta la mia vita, perché ve la dovete prendere con me?». La stessa voce risponde: «Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio».
La risposta del nipote
Tutto questo avvenne nell’appartamento della vittima, dove i terroristi l’avevano aspettata e bloccata al suo arrivo. Nello stesso palazzo, un piano più su, abitava un’altra guardia carceraria in servizio a Rebibbia, Mirella; i «proletari armati» provarono a rapire anche lei facendola chiamare da Germana dalla finestra, ma la donna rispose che non poteva perché aveva il bambino malato. Con lei c’erano pure Marisa e Massimo, la nipote di Germana e il suo futuro marito; lui si affacciò e chiese se voleva che scendesse Marisa, ma Germana rispose brusca: «No, non mi servite a niente».
Massimo si stupì per il tono sbrigativo, senza immaginare in che situazione si trovasse la quasi-zia acquisita. Né si accorse di quello che avvenne dopo: i sequestratori che portano via l’ostaggio per ucciderlo e restituirne il cadavere nel vano di una Fiat 131 rubata
Oggi, dopo quarant’anni, Massimo ha ancora in testa quei momenti e la fine assurda di «zia Germana»: «Non aveva paura, nemmeno dopo l’attentato alla dottoressa, che appunto era una dottoressa, non un’operaia. Per noi era un’azione impensabile, e invece quei terroristi l’hanno pensata e portata a termine. Da vigliacchi. Hanno preso una donna del popolo, come Anna Magnani in Roma città aperta»
Massimo ricorda il funerale al quale volle partecipare il presidente della Repubblica Sandro Pertini, «in forma privata» recita il registro del Cerimoniale conservato al Quirinale: «Ci ha abbracciato commosso. Da partigiano aveva combattuto una guerra vera, ma nemmeno in quel contesto si fucilavano le donne. Con zia Germana invece l’hanno fatto, ed è stato un boomerang, perché dopo quel delitto la dissociazione dalla lotta armata ha preso ancora più piede. Insieme a zia Germana quegli assassini hanno ammazzato l’idea stessa della rivoluzione che dicevano di inseguire. Noi li abbiamo ignorati, senza odio né rancore. Hanno rovinato la nostra famiglia ma anche le loro, per le quali proviamo compassione».
Il contrappasso
I tre condannati all’ergastolo per l’omicidio Stefanini — Carlo Garavaglia, Francesco Donati e Barbara Fabrizi — arrestati quattro mesi più tardi a seguito di una fallita rapina a un ufficio postale, sono ancora in carcere dopo quattro decenni. Fanno parte di quella sparuta pattuglia di «irriducibili» che non hanno mai chiesto benefici (permessi, lavoro esterno o altro) non volendo instaurare alcun rapporto con le istituzioni. Anche a «guerra finita». Prigionieri del proprio sanguinoso passato.
Uno di loro fu processato (e infine assolto ) per aver rivendicato dalla cella l’assassinio del professor Massimo D’Antona, nel 1999, ma oggi sembra aver preso le distanze anche da quegli epigoni brigatisti. Un altro è ancora in regime di alta sicurezza, mentre Barbara Fabrizi, da qualche mese, è stata «declassificata» in media sicurezza. E coltiva l’orto, come faceva a suo tempo la sua vittima. Nello stesso penitenziario che oggi si chiama «Casa circondariale Germana Stefanini».
Una sorta di contrappasso, che Massimo non manca di sottolineare: «Ogni volta che deve fare una domandina alla direzione del carcere, nell’intestazione quella detenuta deve leggere o scrivere il nome di zia Germana. Va bene così».
L'avvocato Steccanella: "Ecco perché Azzolini non è il mister X della Spiotta". Intervista all'avvocato dell'ex terrorista, a capo della colonna milanese delle Br oggi indagato dalla procura di Torino per la sparatoria nel covo di Arzello, nell'Alessandrino, dove fu rapito l'industriale Gancia. Manuela Messina il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.
Un mistero italiano che va avanti da quasi 50 anni: chi era il cosiddetto mister X sparito dalla scena della sparatoria alla Cascina Spiotta? Era il 5 giugno del 1975, quando in seguito a uno scontro tra militari e brigatisti, nel covo dove era sequestrato Vittorio Vallarino Gancia, erede della dinastia piemontese che inventò lo spumante italiano, morirono l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e Margherita Cagol detta Mara, capocolonna brigatista e moglie di Renato Curcio. Il terrorista che insieme a Cagol stava sorvegliando Gancia, invece, riuscì a fuggire e finora non è mai stato identificato. A distanza di quasi mezzo secolo, la procura di Torino ha riaperto l'indagine a carico di Lauro Azzolini ai tempi a capo della colonna milanese delle Br, ritenendo che mister X sia proprio lui. L'ex terrorista, oggi dissociato, era già stato indagato e prosciolto nel 1976, ma la sentenza di proscioglimento non si trova, probabilmente andata persa nell'alluvione del 1994 di Alessandria. E se la sentenza non si trova, non si può revocare, ha sostenuto la difesa di Azzolini. La gip Anna Mascolo di Torino non è stata dello stesso avviso: ha dato il via libera ai pm torinesi sostenendo che vi siano "elementi di novità". In particolare, 11 impronte digitali presenti sulla relazione interna alla Br sulla sparatoria, ritrovata nel covo di via Maderno a Milano, e che secondo la procura fu scritta proprio dal fuggitivo. Davide Steccanella, è l'avvocato di Azzolini. Intervistato in esclusiva da ilGiornale.it, ha già presentato ricorso in Cassazione contro l'ordinanza con cui la giudice Anna Mascolo ha riaperto le indagini a carico del suo assistito.
Che cosa ne pensa delle nuove prove, cioè delle famose 11 impronte sul memoriale che sarebbe stato scritto dal fuggitivo, a cui fa riferimento la procura di Torino?
“Non ne capisco la rilevanza, perché non sono affatto nuove, come ho sostenuto nel mio ricorso per Cassazione. Il documento è stato acquisito dall'autorità giudiziaria nel gennaio 1976, in occasione dell'arresto di Curcio. La prova è quella, quindi non una prova nuova, nessun documento, nessuna nuova testimonianza. È ancora un documento del 1976, quindi prima che Azzolini venisse assolto nel merito dal giudice di Alessandria. Ora, se ai tempi fu deciso di non approfondire più di tanto, di non fare questi rilievi, è un aspetto di carattere procedurale che non può costringere l'imputato ad affrontare un processo due volte. È come se io oggi facessi fare una perizia su un bilancio acquisito 40 anni prima e dicessi che siccome la perizia dà un certo esito, è una nuova prova. La prova resta il bilancio. È quindi una prova del tutto irrilevante se si volesse dimostrare che Azzolini è l'ignoto brigatista fuggito dalla sparatoria della Spiotta, come sembra intendere la procura".
Le impronte, secondo gli ultimi rilievi dei carabinieri del Ris, appartengono a Mario Lupo, uno degli alias adoperati proprio da Lauro Azzolini in quel periodo.
"Si tratta di un documento che, come ha già affermato lo stesso Curcio, ha girato per tutte le colonne delle Brigate rosse, interessate a comprendere le circostanze in cui è stata uccisa la cofondatrice dell'organizzazione armata, Margherita Cagol. Non è un documento privato dato dal brigatista fuggitivo al marito Curcio per vedovanza, è un documento che tutte le Brigate Rosse hanno letto e pure pubblicato su un giornale clandestino. Quindi su quel foglio che come dice lo stesso Curcio ha girato le varie brigate possano comparire impronte di ex brigatisti mi sembra più normale”.
La sentenza a carico di Azzolini è andata perduta nell'alluvione di Alessandria. Quindi, come afferma anche lei, la gip l'ha revocata senza leggerla...
"È una situazione surreale, che in tanti anni di carriera non mi era mai capitata. Si è revocata una sentenza di merito, pronunciata in nome del popolo italiano, senza neanche averla letta. Sono allibito. Io ho fatto ricorso in Cassazione, che dovrà dire se nel nostro Paese è possibile a distanza di quasi 50 anni cancellare la sentenza di proscioglimento di un cittadino senza neppure averla letta. Peraltro non sembrerebbe essere perduta solo la sentenza, ma l'intero fascicolo dell'istruttoria ai tempi fatta dal giudice istruttore quindi anche con le eventuali prove favorevoli all'imputato che era stato assolto. Non si capisce quindi se si vorrebbe fare oggi secondo processo che l'imputato dovrebbe affrontare solo con la nuova prova d'accusa, perché quelle a sé favorevoli si sono perse insieme alla sentenza. Mi sembra una situazione paradossale, io non posso che fare il mio mestiere, cioè chiedere alla Suprema Corte di valutare se questo è possibile, non solo dal punto di vista giuridico ma anche del buon senso".
Un altro elemento a vostro favore è che le testimonianze dell'epoca parlano del "mister X" come di una persona di media statura, mentre Azzolini è alto 1,90.
“Se il giudice di Alessandria all'epoca ha deciso di assolvere nel merito, con formula piena, Azzolini, è perché ha tenuto conto di quelle che erano le testimonianze descrittive al momento del fatto. Quelle descrizioni, che sono state riportate anche in diversi libri, sono concordi nel descrivere una persona di altezza media, di 1,75-1,78. Un elemento che di certo contrasta con il dato oggettivo: Azzolini è una persona particolarmente alta. Il riconoscimento da parte di chi c'era e di chi l'ha visto direttamente, non può essere superato da quelle impronte su un foglio che è girato per mille brigatisti".
Ci sono altri elementi nebulosi in questa vicenda?
"Secondo il memoriale, che appunto secondo la procura fu scritto dal brigatista presente alla Spiotta, le modalità della morte della Cagol sembrano indicare una esecuzione. È un aspetto inquietante che non capisco come mai la procura non voglia approfondire. Dalla descrizione di quel memoriale l'ignoto scappa quando la Cagol è ancora viva: e avrebbe sentito gli spari successivamente, quando era nel bosco, quando lei sarebbe stata disarmata, arresa. Quindi la tesi che la Cagol sia morta nell'ambito di un conflitto a fuoco per un colpo sparato all'indirizzo di quello che lanciava la bomba è completamente smentito? La procura lo ha considerato quando vuole fare un nuovo processo? Tra l'altro non lo dico io, ma Curcio in una memoria che è agli atti”.
Azzolini come l'ha presa?
"È tranquillissimo, sapendo di non essere stato lui. Non è bello essere riprocessati quando si è scontata la propria pena, per un fatto che non si è commesso e per cui si è stati assolti. Ritengo in generale che i processi abbiano un senso se vengono fatti il più possibili vicino al fatto, non 50 anni dopo, perché così si delegittima la giustizia, che deve rimanere una cosa seria”.
Torino, rapimento di Vittorio Vallarino Gancia e morte di Mara Cagol: 50 anni dopo indagato il brigatista Lauro Azzolini. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023
Svolta nell'inchiesta, per gli inquirenti è lui l'uomo che fuggì dalla cascina Spiotta dopo il conflitto a fuoco in cui morirono Mara Cagol e il carabiniere Giovanni D'Alfonso
Era il capo della colonna milanese delle Brigate Rosse e per gli inquirenti Lauro Azzolini è anche l’uomo che fuggì dalla cascina Spiotta nel giugno del 1975, quando in un conflitto a fuoco persero la vita Mara Cagol (moglie di Renato Curcio) e il carabiniere Giovanni D’Alfonso.
È questa la svolta dell’inchiesta della Procura di Torino che un anno e mezzo fa ha riaperto il fascicolo che racconta il rapimento dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Il nome di Azzolini è stato iscritto sul registro degli indagati: il pm Ciro Santoriello gli contesta l'omicidio (il reato di sequestro di persona è ormai prescritto). Oltre a lui è sotto inchiesta anche Renato Curcio (all'epoca capo della colonna torinese delle Br), che risponde di concorso morale: gli inquirenti sono convinti che fosse al corrente del rapimento dell’industriale e che avesse sempre saputo chi fossero i brigatisti presenti alla Spiotta nel giorno del conflitto a fuoco che portò alla liberazione del re dello spumante. Azzolini è un personaggio di primo piano degli Anni di Piombo. Ebbe un ruolo nel processo decisionale che portò al rapimento del presidente della Dc Aldo Moro: arrestato nel '78, venne condannato all'ergastolo.
Il caso è stato riaperto nell'autunno 2021 in seguito a un esposto depositato da Bruno D'Alfonso, il figlio del carabiniere morto. All'epoca l'uomo, che ha seguito professionalmente le orme del padre, aveva dieci anni e viveva a Mosciano Sant’Angelo, nel Teramano. Il padre Giovanni era appuntato dell'Arma e lavorava al Nord. La moglie Rachele era rimasta al paese con la figlia maggiore Cinzia, 16 anni, Bruno e la sorellina Sonia di due anni e mezzo. Nel maggio del ‘75 Giovanni venne trasferito ad Acqui Terme, nell’Alessandrino. E il 5 giugno si trovò ad affrontare i brigatisti alla cascina Spiotta, ad Arzello. Fu il battesimo di sangue delle Brigate Rosse.
Cascina Spiotta, il brigatista mancante nella strage dei segreti che anticipano il Caso Moro. Simona Zecchi su L'Espresso il 24 Aprile 2023
Il giallo del terzo uomo sparito dalla scena della sparatoria del 1975 nel luogo in cui era tenuto l’industriale Gancia e in cui morì Mara Cagol, la moglie dell’ideologo delle Br Renato Curcio. Il controspionaggio aveva una fonte all’interno del vertice brigatista. Il rebus sul “Piccolo”, il sequestratore dall’accento meridionale segnalato dall’ostaggio
I segreti degli anni ’70 hanno quasi tutti un punto in comune: non sono frutto di un capitolo di storia già chiuso, ma ancora possono (e devono) essere trattati alla stregua dei cold case. Ecco perché tornare su un fatto di 48 anni fa su cui la Procura di Torino (insieme alla Dna) ha riaperto un fascicolo nel 2022.
Il fatto è la sparatoria alla Cascina Spiotta del 5 giugno 1975, una strage dopo uno scontro tra militari e brigatisti rossi nel covo del sequestro dell’industriale Vallarino Gancia avvenuto il giorno prima. Il 5 giugno del 1975 ad Arzello, nell'Alessandrino, rimangono uccisi l’appuntato Giovanni D’Alfonso e Margherita Cagol detta Mara, che aveva già preso parte al sequestro del giudice Mario Sossi e all'assalto al carcere di Casale Monferrato, da cui venne fatto evadere Renato Curcio, suo marito. Il tenente Umberto Rocca, preso in pieno da una bomba a mano, perse un braccio e un occhio, mentre il maresciallo Rosario Cattafi, investito dalle schegge, rimase ferito. D'Alfonso morì in ospedale dopo alcuni giorni di agonia. La medaglia d’oro promessa ai famigliari dall’Arma fu poi declassata ad argento. E fu la madre di un ex partigiano ucciso dai nazifascisti nel ‘44 a portarla simbolicamente sulla bara.
Il giallo su quel che accadde veramente alla Cascina Spiotta riguarda l’identità dei brigatisti coinvolti. Uno soltanto finora è stato il condannato: l’allora 22enne Massimo Maraschi che in realtà alla Cascina Spiotta, vicino alle colline di Acqui Terme, terra degli scrittori Pavese e Fenoglio, non è mai arrivato perché arrestato il giorno stesso del sequestro. E che pure ha subito la condanna anche per il conflitto a fuoco. Ci sarebbe poi almeno una terza persona, impegnata nella sparatoria insieme alla Cagol nel tentativo di fuggire, e riuscita a far perdere le proprie tracce per quasi 50 anni. Ed è sul brigatista mancante che si arresta il cuore di un mistero o forse di un segreto ben custodito. Che non è l’unico.
La procura di Torino ritiene di averlo individuato nel milanese Lauro Azzolini che per questo è la seconda persona, insieme con Renato Curcio, considerato ideatore del sequestro Gancia, finita nel nuovo fascicolo. Tuttavia, presto, potrebbero esserci altre sorprese.
Ma torniamo a quel giorno: a rimanere illeso tra i carabinieri fu l’appuntato in borghese Pietro Barberis che insieme al resto dei militari fisserà così la descrizione del fuggitivo: «Esile, vestito elegante, alto un metro e 75 aveva i capelli castani lisci e corti. Quello non era Curcio». Descrizione ripetuta in udienza anche da un altro militare, Rosario Cattafi. Ma va detto che Barberis è colui che affrontò lo sconosciuto nel conflitto a fuoco e a sua volta era alto 1.80. Difficilmente avrebbe potuto sbagliarsi sull’altezza dell’uomo che aveva di fronte.
Lo scorso 20 aprile la procura di Torino, rilevando 11 impronte digitali sul memoriale che Curcio richiese al Br fuggito dalla battaglia, ha indagato Azzolini che è però molto più alto (circa 1,90). D’altro canto, nell’ottobre del 2022, ad avere indicato Azzolini a Il Giornale era stato l’ex alto ufficiale del Sismi Luciano Seno che però in precedenza aveva fatto altri nomi. E va aggiunto che il presunto ruolo di Azzolini spuntava già fuori da un procedimento andato disperso per anni e apertosi contro di lui. Per Azzolini si arrivò ad emettere nel 1987 una sentenza «di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto».
Allo stato attuale, se sia davvero lui il fuggitivo rimane un interrogativo aperto.
A voler far luce su chi fosse veramente presente quella mattina, insieme all’avvocato Sergio Favretto c’è anche Nicola Brigida, legale che da molto tempo segue alcuni familiari delle vittime del caso Moro. Qui Brigida è il legale della figlia dell’appuntato D’Alfonso, Cinzia. Bruno D’Alfonso, l’altro figlio dell’appuntato ucciso, a L’Espresso pronuncia parole chiare adombrando il sospetto che le presenze nel teatro della sparatoria fossero più di quanto si è creduto finora: «In questa storia tutti mentono: carabinieri e Brigate rosse. È come se fosse stato raggiunto un patto. Ho avuto una difficoltà oggettiva all'interno dell'Arma per la mia ricerca della verità».
D’Alfonso ora è giornalista per la cronaca abruzzese de Il Messaggero, ma prima era un maresciallo dei carabinieri e per anni ha cercato di indagare in solitaria. L’Espresso ha tentato di parlare anche con uno dei militari coinvolti nel conflitto a fuoco ancora in vita, l’ufficiale Umberto Rocca, ma sembra non sia stato possibile per motivi di salute.
L’uomo fuggito dalla battaglia alla cascina, dove il 4 giugno era stato condotto dalle Br l’imprenditore Vallarino Gancia, sequestrato a Caselli in provincia di Asti, resta dunque il fantasma che aleggia su questa storia. E non è l’unico perché lo stesso sequestrato Vallarino Gancia, in un verbale di interrogatorio del 6 giugno 1975, mai pubblicato prima, parla di un carceriere con accento calabrese-lucano, soprannominato da lui “il piccolo”.
Diverso dal terzo uomo, il brigatista, alto anche per lui circa 1.75, fuggito dal teatro della sparatoria. Che l’area fosse terreno favorevole per i brigatisti, del resto, è testimoniato dal fatto che a soli cinque chilometri in linea d’aria dalla Spiotta (che a quanto pare i carabinieri tenevano d’occhio da tempo) c’è un altro casolare. Era servito come poligono di tiro, gestito dal superclan di Corrado Simioni confluito poi nella criptica “scuola di lingue” francese, Hyperion, indicata dall’ex pentito delle Br, Michele Galati - esponente di spicco dell’allora colonna veneta - come una sorta di centrale del terrorismo internazionale.
La ricostruzione della fuga del terrorista mancante ha impegnato a lungo la procura di Torino. Che ha anche acquisito un attento lavoro svolto da due giornalisti, Simona Folegnani e Berardo Lupacchini. Nel loro libro “Brigate rosse. L’invisibile: dalla Spiotta a Via Fani” (Falsopiano editore, pagg. 521) hanno pubblicato diversi documenti inediti e nuove ricostruzioni su quel giorno di sangue.
Renato Curcio è entrato nell’inchiesta da indagato nel marzo scorso per il ruolo apicale nella organizzazione e nel sequestro. Ruolo avuto anche da un altro capo delle Br, Mario Moretti, come emerge da un suo libro-intervista. Tuttavia, al momento Moretti non risulta indagato.
Nell’unica sentenza di condanna finora scritta sulla battaglia della Spiotta (1978), c’è un particolare significativo: il terzo uomo, il brigatista mancante, si sarebbe fatto scudo di Mara Cagol lanciando una granata prima di allontanarsi.
Il terzo uomo insomma si sarebbe coperto la fuga sacrificando una compagna più esposta al fuoco dei carabinieri.
Di sicuro Mara Cagol, che le perizie indicano essere stata colpita da Barberis, oltre alla borsa repertata aveva anche una valigetta 24 ore misteriosamente sparita. La brigatista aveva gestito il sequestro Gancia ma era pure intervenuta in difesa dell’ostaggio quando il terzo uomo fantasma aveva avanzato la possibilità di ucciderlo. A raccontarlo in una intervista rilasciata a L’Espresso nel 1995 è stato lo stesso Gancia che aveva sentito la Cagol dire allo sconosciuto «non c’entra niente», in riferimento al sequestrato. Sapere quindi cosa è accaduto anche a "Mara" dovrebbe essere l'altro nodo da sciogliere.
Nella ricostruzione di quel che accadde, potrebbero essere di aiuto inoltre alcuni documenti dei Servizi, Sid e Sisde.
I giornalisti Folegnani e Lupacchini ne condividono uno, mai entrato nel caso della Spiotta, datato proprio 5 giugno 1975. Si tratta di un appunto sequestrato cinque anni dopo all’allora capo del controspionaggio Gianadelio Maletti. Tra le tante cose, l’ufficiale fa riferimento a una fonte dell’estremismo di destra (Casalini, ovvero la fonte Turco) a proposito della strage di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969). Ma in quell’appunto, c’è un’aggiunta: una riga, stretta tra due note, come notizia da lui avuta in quel momento oppure ricordata all'improvviso, e sottolineata a lato da una riflessione politica. Lì Maletti appunta che il blitz alla Cascina Spiotta era stato anticipato dall’autorità giudiziaria. L’ex caporeparto del Sid, dunque, aveva sentito la necessità di evidenziare che il Nucleo dei carabinieri guidato da Carlo Alberto Dalla Chiesa, era intervenuto anticipando i Servizi i quali evidentemente erano pronti a intervenire. Un'operazione d'intelligence davvero sfumata oppure un corto circuito tra i due corpi? E chi aveva informato gli uomini di Dalla Chiesa?
Come risulta dalle ricerche di Folegnani e Lupacchini, il Sid disponeva di una fonte dell’universo brigatista, denominata “Frillo”, un militante proveniente dall’Autonomia Operaia veneta, fonte poi confluita nelle Br. “Frillo”, come scoperto da Folegnani e Lupacchini, sarebbe Leonio Bozzato, fonte del Sid di Padova. A confermarlo un appunto del Sisde del 1994 conservato presso l’Archivio di Stato di Roma e visionato in esclusiva da L’Espresso: «Positivi risultati furono ottenuti anche a seguito del reclutamento quali fonti di Marco Pisetta e Leonio Bozzato», scrive il Servizio. E Frillo-Bozzato, come emerge da un altro appunto degli 007 di Padova avrebbe reso possibile l’arresto di Renato Curcio e Nadia Mantovani il 18 gennaio 1976. Frillo era la fonte della Spiotta? Fino a quando continuò a lavorare per il Servizio? Era attivo ancora nel 1978, quando l’offensiva brigatista raggiunse l’apice con l’assassinio del presidente della Democrazia cristiana? Ed era possibile attraverso di lui fermare la strage di via Fani? Un dato certo è che informasse i Servizi sin dal 1971.
Altri interrogativi sono quelli che pone poi Sergio Favretto, l’avvocato che rappresenta Bruno D’Alfonso, il figlio del carabiniere ucciso alla Cascina. Per fugare almeno qualche ombra si chiede a sua volta: «Perché i Servizi non segnalarono ai carabinieri di Dalla Chiesa l’acquisto della cascina Spiotta che Cagol aveva comprato sotto falso nome? Perché non vennero prese le impronte digitali sulle armi utilizzate e lasciate all’interno del covo e sul prato?». Domande che sottendono a un interrogativo di fondo: chi si doveva far scomparire dalla scena della sparatoria, chi andava protetto? Di sicuro aggiunge Favretto, «si potrebbero confrontare le impronte con le banche dati di oggi».
Brigate Rosse, l'ex terrorista Azzolini indagato per la sparatoria alla cascina Spiotta: "Uccise lui il carabiniere D'Alfonso". Federica Cravero su La Repubblica il 20 Aprile 2023
Per i pm di Torino l'ex capo della colonna milanese sarebbe l'uomo misterioso che, durante la liberazione dell'imprenditore sequestrato Vallarino Gancia, fuggì in seguito allo scontro a fuoco che costò la vita anche alla brigatista Mara Cagol
Potrebbe essere l'ex brigatista Lauro Azzolini, che era a capo della colonna milanese delle Br e che poi negli anni si è dissociato, l'uomo misterioso, la cui identità è stata coperta per quasi cinquant'anni, coinvolto nella sparatoria avvenuta a Cascina Spiotta, nell'Alessandrino, dove era tenuto ostaggio l'imprenditore del vino Vittorio Vallarino Gancia.
I pm torinesi Emilio Gatti e Ciro Santoriello hanno infatti notificato un avviso di garanzia per l'omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso. Nel conflitto a fuoco del 5 giugno 1975 era rimasta a terra, colpita a morte, anche Mara Cagol, moglie di Renato Curcio.
Se la ricostruzione fosse confermata, l'inchiesta della procura di Torino e della Direzione nazionale antimafia potrebbe riscrivere un nuovo capitolo di storia. Una versione diversa rispetto a quella che era stata scritta anche dalla giustizia dal momento che Azzolini, che ora è difeso dall'avvocato Davide Stancanella, è già stato prosciolto dall'accusa di essere coinvolto nel rapimento e nella sparatoria. Tanto che sarà necessaria l'autorizzazione di un giudice per proseguire con le contestazioni.
«Sentenza scomparsa per un’alluvione»: dopo 48 anni è scontro sull’ex brigatista indagato. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023
Il sequestro Gancia e l’omicidio del carabiniere nel ’75. Il vecchio proscioglimento di Azzolini non si trova più
Il cold case del terrorismo italiano riaperto dopo quasi mezzo secolo rischia di rimanere senza soluzione per via di una sentenza scomparsa. Probabilmente persa a causa di un’alluvione.
Ostacolo insuperabile per la difesa e invece ininfluente per l’accusa, che chiede di autorizzare nuove indagini su ciò che avvenne il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, sulle colline in provincia di Alessandria, dove le Brigate rosse tenevano in ostaggio l’industriale Vallarino Gancia; lì furono sorprese da una pattuglia dei carabinieri, ne nacque un conflitto a fuoco in cui morirono l’appuntato Giovanni D’Alfonso e l’aspirante guerrigliera Margherita Cagol, che con il marito Renato Curcio e pochi altri aveva fondato l’organizzazione armata già responsabile di omicidi e rapimenti, e di lì a tre anni avrebbe sequestrato e ucciso — il 9 maggio 1978 — il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.
Nella sparatoria della Spiotta furono gravemente feriti il tenente Umberto Rocca e il maresciallo Rosario Cattafi, mentre l’appuntato Pietro Barberis restò illeso. Un altro brigatista riuscì a fuggire, e la sua identità è rimasta sempre sconosciuta. Ci furono un paio di sospettati prosciolti, poi nessuno se ne occupò più sul piano giudiziario. Nei libri di storia sono comparse solo ipotesi che non hanno mai trovato conferma finché adesso, a 48 anni dai fatti, la Procura di Torino ritiene di aver individuato il terrorista misterioso in Lauro Azzolini, già componente del comitato esecutivo delle Br, arrestato a ottobre del ’78, condannato per il caso Moro e altri delitti, dissociato e tornato libero a pena scontata, che a ottobre compirà ottant’anni.
Sulla base di 11 sue impronte digitali individuate dai carabinieri del Ris sul «memoriale» (completo di disegni per illustrare i luoghi e la dinamica) relativo ai fatti della Spiotta che il brigatista superstite redasse all’epoca e consegnato a Curcio, Azzolini è stato iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di omicidio, ma c’è un problema: è uno dei brigatisti già inquisiti e prosciolti con una sentenza emessa dal giudice istruttore il 3 novembre 1987. Ora i pubblici ministeri Diana de Martino (della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo), Emilio Gatti e Ciro Santoriello (della Procura di Torino) hanno chiesto di revocarla sulla base degli elementi raccolti con le nuove tecniche investigative, solo che non si trova.
Tutte le ricerche effettuate nel tribunale di Alessandria hanno dato «esito negativo». Come ha scritto lo scorso anno il funzionario addetto alla cancelleria, non si è riusciti a «individuare quanto richiesto attesa la risalenza temporale dei fatti nonché le condizioni dell’archivio del tribunale, a suo tempo danneggiato da eventi alluvionali».
I carabinieri del Ros, spediti a cercare la sentenza scomparsa, sono risaliti a un’unica traccia nel «registro fascicoli processuali», dove sono annotati gli spostamenti del procedimento numero 433/77. Lì è scritto che, su richiesta conforme del pm, Azzolini fu prosciolto «per non aver commesso il fatto» a fine ’87, assieme a un altro ex brigatista nel frattempo deceduto. Ma la sentenza non c’è, né tra le carte messe in salvo dall’alluvione del 1994, né tra quelle trovate ammuffite in un altro deposito.
«È agevole concludere che sia andata distrutta», conclude la Procura che considera irrilevante questo dettaglio. Ma il difensore di Azzolini è di tutt’altro avviso: non si può revocare un atto che non c’è.
«Non potendosi conoscere quali sarebbero state le fonti di prova acquisite in un procedimento conclusosi con provvedimento oggi irrevocabile — sostiene l’avvocato Davide Steccanella nella sua memoria difensiva — risulta impossibile ogni valutazione comparativa con quelle nuove indicate dal richiedente». Il legale ritiene inoltre non decisive le impronte di Azzolini sul «memoriale»: dimostrano che l’ha toccato, non che ne sia l’autore. Secondo la Procura, invece, se si è riusciti a rilevarle a quasi mezzo secolo di distanza è perché quelle tracce erano intrise di sudore, sintomo di uno stato emotivo di agitazione attribuibile soltanto a chi l’ha scritto.
Su questo — ma prima ancora sul peso della sentenza scomparsa — deve decidere oggi a Torino la giudice delle indagini preliminari Anna Mascolo, mentre a Roma, nel palazzo del Quirinale, si celebra il solenne Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo.
Estratto dell'articolo di Francesco Grignetti per la Stampa il 9 maggio 2023.
I brigatisti ci hanno raccontato per 45 anni il falso. La loro versione non regge alla rilettura delle testimonianze e alle prove scientifiche. Il memoriale di Valerio Morucci insomma è quantomeno incompleto, ma a quella sua «verità» si sono appoggiati tutti gli altri a cominciare dal capo Mario Moretti. Sono almeno tre i passaggi eclatanti su cui sappiamo solo di non sapere: la dinamica dell’eccidio di via Fani, la fuga dei brigatisti con Moro prigioniero, e infine l’esecuzione dello statista.
«Dopo quarant’anni non si conosce ancora l’identità di tutti coloro che hanno sparato in via Fani», è l’amara conclusione del giudice Guido Salvini, che ha operato come consulente della Commissione Moro II nella legislatura 2013-18 e poi nella sottocommissione dedicata al caso Moro dell’Antimafia nella legislatura 2018-22, presieduta da Stefania Ascari, M5S.
Il lavoro di Salvini è alla base di una Relazione approvata dal Parlamento, ma ignorata. A leggerla c’è da fare un salto sulla sedia. Di certo non hanno sparato soltanto i quattro avieri di cui è pacifica la presenza. I brigatisti, per dire, hanno affibbiato a Franco Bonisoli quasi tutto il lavoro sporco nell’eccidio, ma è evidente che i conti non tornano.
(...) A lui solo sarebbero riferibili i 49 colpi repertati nella parte alta di via Fani, più 4 colpi sparati con la Beretta. In tutto ben 53 colpi, più della metà di quelli accertati complessivamente in via Fani.
Un mitra sicuramente sparò più di tutti, ma non era quello di Bonisoli.
(...)
«Viene da chiedersi - ragiona il consulente - perché i due capi brigatisti “falsifichino”, in sintonia tra loro, il comportamento di Bonisoli, e perché vogliano far credere che Bonisoli abbia ucciso Iozzino con la sua pistola calibro 7.65».
Per non dire dei due brigatisti sconosciuti a bordo della famosa moto Honda (anche se uno di essi potrebbe essere stato l’assassino di Zizzi). Sul mistero della moto Honda sono decenni che ci si accapiglia. Ci sono almeno cinque testimoni che hanno parlato della moto e di due persone a bordo.
Uno di essi, Luca Moschini, era giovanissimo, passò per via Fani e si fermò alle strisce per far passare due brigatisti travestiti. L’hanno risentito di nuovo nel 2022 e ha precisato: «Dato che i primi due avieri (i due che attraversavano sulle strisce) stavano andando verso gli altri sul marciapiede, ho avuto come l’impressione di un gruppo che si stava riunendo, come se dovessero andare all’aeroporto o qualcosa di simile. Inoltre sempre mentre transitavo, ho notato nella parte davanti al bar Olivetti che dà su via Stresa una motocicletta ferma sul suo cavalletto con al posto di guida un altro giovane vestito da aviere come gli altri».
La testimone Eufemia Evadini raccontò subito che lei aveva visto sette o forse otto soggetti sparare sul lato sinistro. Antonio Buttazzo, un ex poliziotto della Squadra Mobile che passava di lì e si gettò coraggiosamente all’inseguimento dell’auto con Moro dentro, ha raccontato che lui vide salire sulla Fiat 132 quattro brigatisti con Moro al centro e li descrisse uno per uno. I brigatisti dicono invece di essere stati in tre in quell’auto.
I brigatisti, insomma, hanno cercato di nascondere la verità. Si prenda Lauro Azzolini, il milanese. Di lui si è parlato recentemente perché la procura di Torino lo ha appena indagato per l’uccisione dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, alla cascina Spiotta, durante la liberazione dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Ebbene, tutti ne negavano la presenza a via Fani finché arrivò il pentito Patrizio Peci. Un altro pentito, Alfredo Bonavita, raccontò che Azzolini, prima dell’azione era così agitato che si fermò «a bere un cognacchino». E Mario Moretti nel suo libro-intervista lo elencò tra gli «avieri».
(...)
Ce n’è abbastanza per rendersi conto che la verità ancora latita. Non torna nemmeno l’epilogo di questa tragedia. I brigatisti sostengono di avere assassinato Aldo Moro nel garage di via Montalcini, dopo averlo fatto entrare nel portabagagli della R4 rossa. Le ultime relazioni, quella balistica e quella medico-legale, basate sull’esame dei reperti dei colpi che hanno raggiunto Moro, sull’esame autoptico e dei vestiti e sulle tracce che provengono dalla Renault, conducono a risultati diversi e agghiaccianti: l’onorevole sarebbe stato colpito prima da un maggior numero di colpi, mentre si trovava in piedi o a cavalcioni del pianale posteriore della vettura e soltanto in seguito da altri colpi, quand’era nel bagagliaio, in tempi e forse in luoghi diversi. E non in quel garage così angusto. Probabilmente accadde in un locale nel centro storico da dove poi i brigatisti raggiunsero facilmente via Caetani per far ritrovare il corpo del prigioniero.
Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 9 maggio 2023.
Il cold case del terrorismo italiano riaperto dopo quasi mezzo secolo rischia di rimanere senza soluzione per via di una sentenza scomparsa. Probabilmente persa a causa di un’alluvione.
Ostacolo insuperabile per la difesa e invece ininfluente per l’accusa, che chiede di autorizzare nuove indagini su ciò che avvenne il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, sulle colline in provincia di Alessandria, dove le Brigate rosse tenevano in ostaggio l’industriale Vallarino Gancia; lì furono sorprese da una pattuglia dei carabinieri, ne nacque un conflitto a fuoco in cui morirono l’appuntato Giovanni D’Alfonso e l’aspirante guerrigliera Margherita Cagol, che con il marito Renato Curcio e pochi altri aveva fondato l’organizzazione armata già responsabile di omicidi e rapimenti, e di lì a tre anni avrebbe sequestrato e ucciso — il 9 maggio 1978 — il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.
Nella sparatoria della Spiotta furono gravemente feriti il tenente Umberto Rocca e il maresciallo Rosario Cattafi, mentre l’appuntato Pietro Barberis restò illeso. Un altro brigatista riuscì a fuggire, e la sua identità è rimasta sempre sconosciuta. Ci furono un paio di sospettati prosciolti, poi nessuno se ne occupò più sul piano giudiziario. Nei libri di storia sono comparse solo ipotesi che non hanno mai trovato conferma finché adesso, a 48 anni dai fatti, la Procura di Torino ritiene di aver individuato il terrorista misterioso in Lauro Azzolini, già componente del comitato esecutivo delle Br, arrestato a ottobre del ’78, condannato per il caso Moro e altri delitti, dissociato e tornato libero a pena scontata, che a ottobre compirà ottant’anni.
Sulla base di 11 sue impronte digitali individuate dai carabinieri del Ris sul «memoriale» (completo di disegni per illustrare i luoghi e la dinamica) relativo ai fatti della Spiotta che il brigatista superstite redasse all’epoca e consegnato a Curcio, Azzolini è stato iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di omicidio, ma c’è un problema: è uno dei brigatisti già inquisiti e prosciolti con una sentenza emessa dal giudice istruttore il 3 novembre 1987. Ora i pubblici ministeri Diana de Martino (della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo), Emilio Gatti e Ciro Santoriello (della Procura di Torino) hanno chiesto di revocarla sulla base degli elementi raccolti con le nuove tecniche investigative, solo che non si trova.
Tutte le ricerche effettuate nel tribunale di Alessandria hanno dato «esito negativo».
Come ha scritto lo scorso anno il funzionario addetto alla cancelleria, non si è riusciti a «individuare quanto richiesto attesa la risalenza temporale dei fatti nonché le condizioni dell’archivio del tribunale, a suo tempo danneggiato da eventi alluvionali».
I carabinieri del Ros, spediti a cercare la sentenza scomparsa, sono risaliti a un’unica traccia nel «registro fascicoli processuali», dove sono annotati gli spostamenti del procedimento numero 433/77. Lì è scritto che, su richiesta conforme del pm, Azzolini fu prosciolto «per non aver commesso il fatto» a fine ’87, assieme a un altro ex brigatista nel frattempo deceduto. Ma la sentenza non c’è, né tra le carte messe in salvo dall’alluvione del 1994, né tra quelle trovate ammuffite in un altro deposito
(...)
Renato Curcio interrogato sull'omicidio D'Alfonso. Contestata la frase: «Rompete l'accerchiamento sparando». Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.
L'indagine riguarda la sparatoria alla cascina Spiotta e la morte del carabiniere. Spunta un opuscolo scritto nel '75. L'ex fondatore delle Br: dovete anche chiarire le circostanze della morte di mia moglie, Mara Cagol
Renato Curcio ha risposto a tutte le domande negando il suo coinvolgimento nell'omicidio del carabiniere Giovanni D'Alfonso, e ha anche chiesto agli inquirenti di chiarire le circostanze della morte della moglie. Questo, secondo quanto si è appreso, è stato l'atteggiamento del fondatore delle Br Renato Curcio nel corso dell'interrogatorio che ha sostenuto, nella veste di indagato, davanti a un pm della procura di Torino e ad alcuni ufficiali di carabinieri del Ros.
L'indagine riguarda la sparatoria alla cascina Spiotta, nell'Alessandrino, in cui il 5 giugno 1975 morirono la moglie di Curcio, Mara Cagol, e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso.
Il caso è stato riaperto per accertare l'identità di un secondo brigatista presente sul luogo, che riuscì a fuggire. Curcio però ha anche fatto riferimento all'esito dei risultati dell'autopsia sulla donna, da cui risulta che sia stata trafitta da un proiettile sotto l'ascella: elemento che dimostrerebbe secondo Curcio come in quel momento si fosse già arresa e avesse le mani alzate. Gli inquirenti, sempre secondo quanto si apprende, avrebbero replicato che non trascureranno nessun aspetto della vicenda.
L'opuscolo
Ci sono delle espressioni contenute in un opuscolo propagandistico sequestrato nell'ottobre del 1975 nella contestazione mossa dalla procura di Torino a Renato Curcio, uno dei fondatori delle Br, nell'inchiesta sulla sparatoria alla Cascina Spiotta. Curcio è indagato per concorso nell'omicidio dell'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso, ma nel corso del suo interrogatorio ha negato qualsiasi coinvolgimento nell'episodio. L'opuscolo, secondo quanto si apprende, è intitolato «Lotta armata per il comunismo».
In particolare gli investigatori si sono interessati a un paio di indicazioni ai militanti: «Se il nemico vi avvista, sganciatevi» e se questo non è possibile «rompete l'accerchiamento sparando».
L'avvocato: «Indagine anomala»
«Una anomalia assoluta» secondo l'avvocato Vainer Burani, il legale di Curcio, che così commenta l'iscrizione del suo assistito nel registro degli indagati da parte della procura di Torino. Curcio, secondo quanto si apprende, era stato convocato come testimone assistito ma a pochi giorni dall'interrogatorio è diventato indagato per concorso nell'omicidio del militare.
Altri ex brigatisti sono stati interrogati come persone informate sui fatti o testimoni assistiti. «Naturalmente - commenta Burani - non è sbagliato cercare di chiarire cosa successe allora. Ma a distanza di 48 anni un'indagine è problematica di per sé, e questo mi sembra il modo peggiore di ricostruire una vicenda così lontana nel tempo. Attribuire a Curcio un ruolo diretto o indiretto su queste basi è una forzatura priva di logica giuridica».
Il sequestro Gancia
A Curcio la procura attribuisce un 'ruolo apicale' nelle Brigate Rosse e, quindi, di avere deciso e organizzato il sequestro dell'imprenditore piemontese Vittorio Vallarino Gancia, rinchiuso alla Cascina Spiotta dove il 5 giugno 1975 avvenne lo scontro a fuoco. Curcio però ha ricordato che nei mesi precedenti, a seguito della sua evasione dal carcere di Casale Monferrato del 18 febbraio 1975, viveva nascosto e aveva pochissimi contatti con l'esterno.
Estratto dell’articolo di Berardo Lupacchini e Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 25 febbraio 2023.
È tornato davanti ai magistrati Renato Curcio, l’ideologo delle Brigate Rosse, da anni fuori dal carcere e nella nuova vita da editore della cooperativa editoriale e sociale "Sensibili alle foglie". È stato interrogato da due procure, Roma e Torino, perché indagato per il concorso in omicidio del carabiniere Giovanni D'Alfonso, 45 anni, padre di tre bambini, ucciso durante il blitz che ha portato alla liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, il 5 giugno 1975 vicino ad Acqui Terme.
È stato Curcio a pianificare il rapimento del re delle bollicine, chiedendo un miliardo di lire come riscatto per la liberazione. E lo ha fatto con la moglie Mara Cagol, che è stata uccisa durante il conflitto a fuoco con i carabinieri, e con Mario Moretti. Ma sul sequestro sono tante le ombre rimaste: a cominciare da un terrorista, il cui nome è rimasto misterioso.
L'ex brigatista è stato ascoltato dai magistrati che conducono nuove indagini dopo l'esposto presentato dal figlio della vittima, Bruno D'Alfonso, e dai suoi avvocati, Sergio Favretto e Nicola Brigida. La decisione è arrivata dopo la pubblicazione di alcuni libri sulla vicenda, compreso quello autobiografico scritto da Curcio che si chiama "A viso aperto", e arrivato dopo aver scontato la pena di 21 anni di carcere.
Racconta lui stesso di aver deciso e organizzato il rapimento proprio con Moretti e Cagol, ma si chiama fuori dall'azione operativa. […] Ma in un saggio, viene collocato sulla scena Moretti insieme con Cagol. E secondo alcuni elementi raccolti sarebbe riuscito a fuggire. A conferma di questa tesi c'è una relazione scritta sul conflitto a fuoco, trovata a casa di Curcio a Milano quando è stato arrestato il 18 gennaio 1976, insieme con Nadia Mantovani.
[…] L'ex capo brigatista, oggi 81enne, durante l'interrogatorio a Roma ha consegnato una memoria scritta per dirsi estraneo alla sequestro. È stato accompagnato dal suo avvocato, Vainer Burani, che segue nella stessa inchiesta altri brigatisti, sentiti anche loro ma come persone informate sui fatti: Franco Bonisoli, Attilio Casaletti e Loris Paroli.
[…] Le indagini riaperte dalla procura anti terrorismo di Torino, coordinata da Emidio Gatti, mirano comunque a far luce sull'identità del brigatista fuggito dalla cascina Spiotta dove Gancia è rimasto segregato per meno di 24 ore. L'indiziato numero 1 è Mario Moretti.
È stato Enrico Fenzi, arrestato con lui nel 1981 dopo nove anni di latitanza, a parlare per la prima volta davanti alla Commissione parlamentare su Aldo Moro come del br scappato in maniera rocambolesca. «Il risentimento del nucleo storico già incarcerato e cioè Curcio, Franceschini e Semeria, nasceva nei confronti di Moretti soprattutto, e non solo da quella sua fuga», ha dichiarato Fenzi, che si è pentito nel 1982.
[…] Oggi Curcio, pur non essendosi mai dissociato, ha dichiarato la fine della lotta delle br e ha criticato alcune delle sue scelte. Nel 1998 è stato scarcerato con quattro anni di anticipo, dopo quattro anni di semilibertà. Da allora è tornato all'attività di saggista nella cooperativa editoriale e sociale "Sensibili alle foglie", da lui fondata. Si occupa di tematiche legate alla disabilità, alle carceri e ai manicomi, oltre che di studi sulle nuove forme di controllo sociale nella società di massa.
Renato Curcio indagato, Br senza vergogna: “Chi ha ammazzato mia moglie?” Libero Quotidiano il 25 febbraio 2023
Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Torino per i fatti avvenuti il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta di Arzello, in provincia di Alessandria. In quella circostanza si verificò una sparatoria durante la liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, che era stato sequestrato dai brigatisti: persero la vita la moglie di Curcio, Mara Cagol, e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso.
“Ho fatto presente ai magistrati che mi hanno interrogato - si legge nella nota diffusa dal legale di Curcio - consegnando loro anche una memoria scritta, la mia totale estraneità sia alla decisione di effettuare il sequestro di Vallarino Gancia, sia a tutto ciò che lo ha riguardato". Il caso è stato riaperto nel 2022, dopo un esposto presentato dal figlio del carabiniere Bruno D'Alfonso, con i magistrati che cercano di risalire di un brigatista mai identificato, che quel giorno era presente e riuscì a dileguarsi tra i boschi. Per Curcio la procura ipotizza il concorso nell'omicidio D'Alfonso.
"Poiché sono comparse sulla stampa curiose ricostruzioni accusatorie - aggiunge Curcio - faccio anche presente che, come ho detto ai magistrati, 47 anni dopo quei fatti non ho ancora saputo chi in quel giorno ha ucciso Margherita Cagol Curcio mentre era disarmata e con le braccia alzate come ha inoppugnabilmente dimostrato l’autopsia. L'esperienza delle Brigate Rosse si è conclusa con una dichiarazione pubblica, anche mia, nel 1987 e poiché negli anni di quell'esperienza ho collezionato in silenzio un record di concorsi morali anomali scontati interamente come le altre pene inflitte faccio presente che mi difenderò da questa ulteriore e incomprensibile aggressione".
Estratto dell’articolo di Gianni Oliva per “La Stampa” il 27 febbraio 2023.
Il 4 giugno 1975 un nucleo della colonna torinese br sequestra l'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia: il giorno successivo una pattuglia di carabinieri giunge nel cortile della cascina Spiotta D'Arzello, vicino ad Acqui Terme, senza sapere che è il luogo dove l'imprenditore è tenuto prigioniero.
I due terroristi che fanno da guardiani, Margherita Cagol, e un uomo rimasto sconosciuto, sentendosi scoperti tentano una sortita sparando e lanciando una bomba a mano: i carabinieri rispondono al fuoco in uno scambio concitato durante il quale muoiono l'appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Cagol, mentre il capo pattuglia tenente Umberto Rocca perde un occhio e un braccio. Il secondo terrorista riesce invece a dileguarsi.
Qui finisce la versione ufficiale e iniziano i dubbi. Chi era il secondo terrorista? Lo stesso Renato Curcio, che della Cagol era marito e che con lei aveva fondato le br? Oppure qualche esponente di quelle «seconde file» del terrorismo che di lì a poco, dopo l'arresto dei capi storici, avrebbero assunto la direzione del movimento «alzando il livello dello scontro» e passando dai sequestri alle uccisioni? E la Cagol è morta nello scontro oppure è stata freddata quando era a terra ferita o addirittura arresa con le mani alzate?
[…] La riapertura delle indagini e la lunga memoria dello stesso Curcio sono però la spia di un passato archiviato con troppa fretta e che, drammaticamente, sta tornando di attualità tutto insieme.
Le turbolenze violente degli anarchici resuscitati all'attivismo dal caso Cospito; l'aggressione squadristica agli studenti di Firenze; ora la vicenda della cascina Spiotta. Gli Anni Settanta del piombo rosso e del tritolo nero sembrano riemergere da un silenzio che era assai più rimozione che superamento.
[…] Ma non sottovalutiamo, perché le derive della storia procedono sempre da segnali non percepiti. Gli squadristi vanno chiamati con il loro nome e condannati, allo stesso modo degli anarchici e delle loro violenze. E Renato Curcio può legittimamente chiedere ragione di quanto accaduto alla cascina Spiotta: ma se vuole essere credibile non finga di ignorare chi era l'altro terrorista e ne faccia il nome.
L'inchiesta che dura da 50 anni. Renato Curcio chiede la verità per la morte di Mara Cagol, giustiziata a sangue freddo alla cascina Spiotta. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Febbraio 2023
Sarà stato per quel gruppo musicale che si chiamava “P 38-La Gang” che pareva inneggiare alle Brigate rosse, che aveva dedicato un brano alla Renault rossa in cui fu trovato il corpo di Aldo Moro, e che diffondeva magliette con il nome del capo Br Renato Curcio. O sarà anche stato il fatto che certi lutti non passano mai, quando hai subito la tragedia da bambino e poi devi spiegarla ai tuoi figli, nella speranza che possano capire, loro millennial, che cosa sono stati gli anni settanta del novecento.
Fatto sta che Bruno D’Alfonso, ex carabiniere andato in pensione giovanissimo come molti suoi colleghi, e figlio di quell’appuntato Giovanni che il riposo dal lavoro non fece in tempo a sognarlo perché lo ammazzarono a 45 anni, l’anno scorso di esposti alla magistratura ne ha presentati due. Uno nei confronti del gruppo musicale, che nel frattempo comunque si è sciolto. Il secondo è ben più impegnativo e costringe alla memoria del tempo in cui Bruno D’Alfonso era un bambino e in Italia c’era il terrorismo che lo ha privato del padre.
Così, per via di quel secondo esposto, a dolore si somma dolore. Anche perché non c’è un pubblico ministero che abbia la forza di dire che non esiste giustizia a cinquant’anni dai fatti, e poi agire di conseguenza, cioè lasciar perdere anche l’esposto di un figlio che vuol sapere anche l’ultimo nome di coloro che erano presenti all’omicidio di suo padre. Se non lo ha saputo nel corso di cinquant’anni, non sarà certo quel nome a dare soddisfazione al suo bisogno di giustizia. Né crediamo possa dare piacere il fatto che Renato Curcio, ex capo delle Br, un signore anziano di 81 anni sconosciuto ai più, tranne forse tra i giovani, a quei quattro che avevano costituito il gruppo che inneggiava alla P 38, sia oggi indagato addirittura per concorso in omicidio.
La preistoria di 48 anni fa segnala le prime attività delle Brigate Rosse, quelle di cui Renato Curcio fu fondatore e capo e il giorno tragico che porta la data del 5 giugno 1975. Il giorno precedente il nucleo torinese delle Br aveva realizzato il sequestro-lampo dell’amministratore delegato di una importante azienda di spumanti, Vittorio Vallarino Gancia. L’intenzione era di chiedere un miliardo di lire per il riscatto e di finanziare l’attività del gruppo terroristico. Che evidentemente, per lo meno all’inizio, non aveva ancora sviluppato le capacità di azione e mimesi che mostrerà solo tre anni dopo con il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro e l’uccisione della scorta in via Fani a Roma. Fatto sta che il luogo della prigionia di Vallarino Gancia fu individuato ventiquattro ore dopo il rapimento, alla cascina Spiotta nell’alessandrino.
L’irruzione fu fulminea, il sequestrato fu liberato e nello scontro tra terroristi e forze dell’ordine furono uccisi l’appuntato D’Alfonso e Margherita Cagol, moglie del capo Br Renato Curcio. Un altro carabiniere rimase ferito e un terrorista riuscì a scappare e non sarà mai individuato. Qualcuno dice che potesse essere Mario Moretti, colui che dopo l’arresto di Curcio, avvenuto un anno dopo, divenne il numero uno delle Br e organizzò il rapimento e l’uccisione di Moro. Ma non si sa. Ora i magistrati vogliono sapere da Curcio quel nome, e per cavarglielo di bocca lo imputano di “concorso” nell’omicidio dell’appuntato.
Si mobilita persino la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. A questo punto si risveglia però anche lo spirito battagliero dell’ottantunenne Renato Curcio, a chiedere pure lui giustizia. Per sua moglie Margherita, che era una terrorista, ma che fu probabilmente, così si intuì allora sulla base dei risultati dell’autopsia, uccisa a freddo mentre si era arresa e stava con le braccia alzate. E quindi? Signor Bruno D’Esposito è così sicuro di voler riaprire il caso cinquant’anni dopo?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Interrogato il fondatore delle Br. Renato Curcio indagato 48 anni dopo la sparatoria di cascina Spiotta, l’inchiesta basata su un opuscolo…Carmine Di Niro su Il riformista il 25 Febbraio 2023
A quasi mezzo secolo dai tragici fatti di cascina Spiotta, nell’Alessandrino, dove nel 1975 morirono in uno scontro a fuoco Mara Cagol, e un appuntato dei carabinieri, Giovanni D’Alfonso, il nome di Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse e marito della stessa Cagol, è stato inserito nel registro degli indagati dalla procura di Torino.
La notizia, anticipata oggi dalla Gazzetta di Reggio e dal Messaggero, è stata confermata all’Ansa da ambienti investigativi. Curcio è stato interrogato a Roma alla presenza del suo avvocato difensore Vainer Burani. Le indagini, svolte dai carabinieri del Ros, sono state aperte dopo un esposto di Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso.
Curcio, secondo quanto appreso dall’agenzia stampa, ha risposto a tutte le domande dei magistrati e ha negato il suo coinvolgimento nell’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso. Curcio, secondo quanto si apprende, era stato convocato come testimone assistito ma a pochi giorni dall’interrogatorio è diventato indagato per concorso nell’omicidio dell’appuntato.
Non solo: il fondatore delle Brigate Rosse ha anche chiesto agli inquirenti di chiarire le circostanze della morte della moglie, che in quel periodo era latitante dopo l’evasione dal carcere di Casale Monferrato.
In occasione della sparatoria alla cascina Spiotta, avvenuta il 5 giugno 1975, morirono appunto Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Un’altro carabiniere rimase ferito nello sconto a fuoco e un brigatista riuscì a sfuggire.
Nella cascina i brigatisti tenevano in ostaggio l’imprenditore piemontese Vittorio Vallarino Gancia, catturato il 4 giugno dia un commando delle Br. Il caso è stato riaperto dopo un esposto di Bruno D’Alfonso proprio per accertare l’identità del secondo brigatista sul posto.
Indagini, quelle di Procura e carabinieri del Ros, fondate anche sull’ascolto di numerosi ex brigatisti, tra cui Alberto Franceschini, che con Curcio e Mara Cagol è stato tra i fondatori delle Br.
Curcio nel suo interrogatorio ha fatto riferimento in particolare all’autopsia della moglie, da cui risulta che sia stata trafitta da un proiettile sotto l’ascella: elemento che dimostrerebbe secondo Curcio come in quel momento si fosse già arresa e avesse le mani alzate.
Le accuse invece nei confronti dell’ex fondatore delle Br, indagato per concorso nell’omicidio del carabiniere D’Alfonso, farebbero riferimento a delle espressioni contenute in un opuscolo propagandistico sequestrato nell’ottobre del 1975.
L’opuscolo, secondo quanto scrive l’Ansa, è intitolato ‘Lotta armata per il comunismo’. In particolare gli investigatori si sono interessati a un paio di indicazioni ai militanti: “se il nemico vi avvista, sganciatevi” e se questo non è possibile “rompete l’accerchiamento sparando“.
A Curcio la procura attribuisce un ‘ruolo apicale’ nelle Brigate Rosse e, quindi, di avere deciso e organizzato il sequestro di Vittorio Vallarino Gancia. Curcio però ha ricordato che nei mesi precedenti, a seguito della sua evasione dal carcere di Casale Monferrato del 18 febbraio 1975, viveva nascosto e aveva pochissimi contatti con l’esterno.
Di diverso avviso il legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, che parla delle nuove indagini come di “una anomalia assoluta”. Naturalmente – aggiunge Burani – non è sbagliato cercare di chiarire cosa successe allora. Ma a distanza di 48 anni un’indagine è problematica di per sé, e questo mi sembra il modo peggiore di ricostruire una vicenda così lontana nel tempo. Attribuire a Curcio un ruolo diretto o indiretto su queste basi è una forzatura priva di logica giuridica“.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Da ansa.it l’11 Febbraio 2023.
Un nuovo capitolo della sua vita lo ha portato a Brescia dove Mario Moretti, figura di spicco delle Brigate Rosse e responsabile del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro, vive da qualche tempo.
Condannato a sei ergastoli, in semilibertà dal 1997, secondo atti che il Giornale di Brescia ha reso pubblici, l'ex Br ha trascorso Capodanno e i primi giorni di gennaio in un appartamento che ha eletto a domicilio in città. Sul citofono di un appartamento in una vecchia palazzina c'è ancora scritto il suo nome, fondamentale per le forze dell'ordine che tra le 22 e le sette del mattino, quando aveva l'obbligo di stare in casa, andavano a controllare che il detenuto fosse realmente presente.
Moretti, 77 anni, risulta associato al carcere di Verziano e dal 4 gennaio deve rispettare le prescrizioni firmate dal Dap sulla base del piano di trattamento approvato dal magistrato di sorveglianza di Brescia il 23 dicembre scorso. Moretti esce dal carcere al mattino per far rientro non dopo le 22, può muoversi con un'auto che è intestata alla compagna e "ha libertà di movimento nella provincia di Brescia, possibilità di recarsi nel comune di Milano per le esigenze lavorative o per far visita ai familiari".
Da inizio anno l'ex brigatista, mai pentito e mai dissociato dalla lotta armata e che nel 1993 ha dichiarato di essere stato l'esecutore materiale dell'omicidio del presidente della Dc, svolge attività di volontariato per un'associazione bresciana in modalità smart working presso la propria casa per tre giorni alla settimana, mentre per altri due è autorizzato a recarsi nella sede di una Rsa della città. Anche in questo caso il suo è lavoro di ufficio. Ha il divieto di percepire denaro per le attività che svolge come volontario e nemmeno può interrompere il percorso. E sempre come socio volontario collabora in maniera occasionale con una cooperativa di Milano e fornisce assistenza informatica a uno studio legale anche in questo caso di Milano.
Prima di Moretti a Brescia in passato aveva provato a ripartire anche l'ex boss del Brenta Felice Maniero. Con una nuova identità era andato a vivere in un quartiere a nord della città con la figlia e la storica compagna e aveva pure avviato un'azienda che si occupava di depurazione delle acque, realtà poi fallita. L'esperienza bresciana di Maniero è terminata a ottobre 2019 quando è stato arrestato per maltrattamenti sulla compagna. Che gli sono costati una condanna a quattro anni di reclusione.
La nuova vita di Mario Moretti: dall'esecuzione di Aldo Moro al volontariato in una Rsa di Brescia. A cura della redazione Cronaca su La Repubblica il 10 Febbraio 2023.
Dal 4 gennaio lavora (gratuitamente) per un’associazione bresciana in modalità smart working e per due giorni raggiunge una Residenza sanitaria assistenziale
Si era preso sei ergastoli Mario Moretti, l'uomo che quando faceva parte delle Brigate Rosse ammise di essere stato l'esecutore materiale dell'uccisione di Aldo Moro. Sono passati 45 anni, e adesso Moretti si trova a Brescia, e sconta fin dal 1997 la sua pena in un regime di semilibertà. Con permessi premio, licenze straordinarie, periodi fuori dalle mura carcerarie anche di notte.
Il carcere che lo ospita dal 23 dicembre scorso è quello di Verziano. Dalla fine del 2022 vive, come scrive il Giornale di Brescia in un appartamento dove c'è il suo nome scritto sul citofono con un pennarello. Deve rimanere in casa dalle 22 alle 7 del giorno successivo.
Dal 4 gennaio svolge attività di volontariato per un’associazione bresciana in modalità smart working: Moretti, 77 anni compiuti il 16 gennaio scorso, lavora dal nuovo domicilio bresciano e per due giorni alla settimana può recarsi negli uffici di una Rsa. Il volontariato l'aveva occupato già a Milano: anche in questo caso può stare fuori dalle 8 alle 22. E nel weekend può lasciare più tardi il carcere. Guidando l'auto della sua compagna.
Il capo delle Br in smart working. La vita semi-libera di Moretti. Il fondatore delle Br che rapì e uccise Aldo Moro è stato trasferito dal carcere di Opera. Luca Fazzo l’11 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Una notizia che riappare dalle brume degli anni Ottanta, che parla di un uomo ormai quasi vecchio che è stato un simbolo della stagione di piombo vissuta dal Paese: e costringe un po' a meditare sulla risposta giudiziaria e politica che gli è stata data.
L'uomo si chiama Mario Moretti, ha appena compiuto settantasette anni, ed è stato uno dei fondatori delle Brigate Rosse: per anni imprendibile, il leader indiscusso che diresse il sequestro di Aldo Moro, condusse l'interrogatorio del presidente della Democrazia cristiana e lo uccise il 9 maggio 1978, dopo cinquantacinque giorni nella «prigione del popolo». La notizia appare ieri sul Giornale di Brescia e racconta la «nuova vita» di Moretti, che ha trascorso il Capodanno e qualche festa a casa, vicino Brescia, su autorizzazione del tribunale di Sorveglianza; che collabora, un po' in presenza e un po'da remoto, con una associazione di volontariato. La vita ordinaria di un anziano con alle spalle un passato non ordinario.
In realtà, nella vita quotidiana di Moretti è cambiato poco. Unica differenza, il carcere dove rientra ogni sera: non più quello di Opera, il grande e duro istituto alle porte di Milano dove è rimasto per decenni, ma che ora era diventato problematico. Il reparto dei semiliberi a Opera è affollato, le «stanze di pernotto», come il lessico ufficiale chiama le celle, ospitano anche cinque o sei persone, e dal punto di vista sanitario per Moretti - che risente dell'età e della inevitabile fragilità di una lunga carcerazione - non era più adeguato. Così il capo delle Br ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Verziano, il carcere bresciano, più piccolo e con un reparto destinato ai semiliberi più accogliente.
Per il resto, Moretti resta in quella sorta di limbo che è la semilibertà: non più davvero detenuto, ma neanche arrivato al «fine pena». Per lui, d'altronde, il «fine pena» non arriverà mai, perchè è gravato da una serie di ergastoli. A ottenere la semilibertà, nell'ormai lontano 1997, arrivò dopo avere dichiarato pubblicamente, insieme ad altri del gruppo fondatore, di considerare chiusa l'esperienza delle Brigate Rosse, e disconoscendo di fatto i nuclei che allora e negli anni successivi si erano impadroniti della sigla commettendo nuovi delitti. Ma non si è mai neppure pentito nè dissociato, come avrebbe potuto fare acquisendo i benefici carcerari. E a chi periodicamente lo invitava a parlare degli aspetti ancora oscuri della storia delle Br ha sempre fatto sapere che non c'è più niente da dire: dietro le Br c'erano solo le Br.
Del nucleo storico restano in carcere, semiliberi come Moretti, poche unità. Alcuni sono morti, come Prospero Gallinari, che prima di andarsene scrisse un libro illuminante sulla sua storia di brigatista; altri sono da tempo del tutto liberi, come Alberto Franceschini che fu tra i primi a dissociarsi, o come Renato Curcio che non avendo condanne all'ergastolo è fuori ormai da un quarto di secolo. In carcere davvero restano in pochi: gli irriducibili delle nuove Br, o qualcuno della colonna milanese Walter Alasia come Nicola De Maria, che continua a lanciare proclami.
Lui, Moretti, di proclami ha smesso da tempo di lanciarne. É in carcere, in un modo o nell'altro, da quarantun anni. Chissà se la cosa ha senso.
Stragi di Ustica e Bologna: nelle carte segrete del Sismi spunta il nome del terrorista Carlos. Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi e Andrea Soglio su Panorama il 29 Marzo 2023
Esiste un nuovo, possibile collegamento tra il terrorista Carlos e le due misteriose stragi di Ustica e di Bologna. Il legame emerge da un vecchio documento dei servizi segreti militari italiani, fin qui classificato «segretissimo». Si tratta di un appunto, datato lunedì 14 aprile 1980, nel quale il Sismi riferì al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, e ai ministri della Difesa e della Giustizia, rispettivamente Lelio Lagorio e Tommaso Morlino, nonché al segretario generale del Cesis, il prefetto Walter Pelosi, l’allarmante notizia secondo cui elementi estremisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), l’organizzazione terroristica guidata da George Habbash, avevano preso contatti con il terrorista venezuelano Carlos, nome di battaglia di Ilich Ramírez Sánchez, conosciuto internazionalmente anche come «lo Sciacallo».
Il Sismi, cioè il nostro servizio segreto militare di allora, segnalava la presenza di Carlos a Beirut. E riteneva possibile «un’iniziativa contro l’Italia», cioè un attentato come ritorsione per il mancato rispetto degli accordi del cosiddetto Lodo Moro. L’iniziativa avrebbe potuto essere «affidata ad elementi autonomi o non palestinesi e probabilmente europei, allo scopo di non creare difficoltà all’azione politico diplomatica di Arafat per il riconoscimento dell’Olp (cioè l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr)». L’allarme del Sismi su Carlos a Beirut e sui suoi allarmanti rapporti con i palestinesi arriva a Roma esattamente 74 giorni prima del disastro del Dc9 Itavia, che intorno alle 21 del 27 giugno 1980 sarebbe precipitato con 81 persone a bordo nel Tirreno meridionale, tra le isole di Ponza e di Ustica. E arriva 110 giorni prima dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, il 2 agosto 1980, che avrebbe provocato la morte di almeno 85 persone. L’appunto inedito del Sismi, datato 14 aprile 1980 e da allora classificato «segretissimo», fu indirizzato al governo italiano dal capo del Centro Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone. Il messaggio era l’ultimo risultato di un lungo negoziato con un alto esponente del Politburo del Fplp, Taysir Qubaa, che Giovannone aveva avviato all’indomani dell’arresto a Bologna (il 14 novembre 1979) di un giordano di origini palestinesi, Abu Anzeh Saleh, responsabile della rete clandestina del Fplp in Italia. Saleh, che come copertura era studente universitario a Bologna, era stato coinvolto nel traffico di due lanciamissili di fabbricazione sovietica SAM 7 Strela, che i carabinieri avevano sequestrato la notte tra il 7 e l’8 novembre di quell’anno a Ortona. Le trattative tra Giovannone e Qubaa, che agiva come diretto superiore di Saleh e rispondeva al Fplp di George Habbash per le attività del suo «uomo in Italia», si erano intensificate dopo la condanna a 7 anni di reclusione che il 25 gennaio 1980 era stata inflitta dal Tribunale di Chieti a Saleh e ai suoi complici, i tre esponenti romani di Autonomia operaia Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri e Daniele Pifano: i tre erano stati arrestati nei pressi del porto di Ortona (Chieti) la notte del 7 novembre 1979 mentre in un furgone trasportavano i due lanciamissili, acquistati dal Fplp al prezzo di 60mila dollari. Dopo quell’arresto, e soprattutto negli ultimi mesi, Giovannone e Qubaa avevano giocato una rischiosa partita a scacchi che li aveva impegnati anche e soprattutto a titolo personale. Per tutti e due era una sorta di patto col diavolo. Il primo, infatti, era un po’ il «fideiussore» del controverso Lodo Moro, cioè l’accordo segreto (il cui nome era collegato a quello dell’ex presidente del Consiglio che aveva spinto per la sua stipula) che impegnava il nostro governo a tollerare il passaggio sul suolo italiano di elementi del terrorismo palestinese, ottenendone in cambio la garanzia che non si sarebbero verificati attentati contro obiettivi del nostro Paese. Giovannone era anche il «garante» delle attività di Abu Anzeh Saleh in Italia. E lo era sin dal 27 ottobre 1974, come dimostra un salvacondotto predisposto in favore di Saleh e controfirmato dal direttore dei servizi segreti militari di allora, l’ammiraglio Mario Casardi, il quale riconosceva e sottoscriveva le rassicurazioni fornite all’epoca proprio da Qubaa. Quest’ultimo, sul versante opposto, era il burattinaio dello stesso Saleh, con cui aveva forse un legame di parentela, e rispondeva delle sue attività al Politburo del Fplp. Se Qubaa, a causa di un suo uomo (in questo caso Saleh), creava un problema che rischiava di coinvolgere l’organizzazione, toccava a lui trovare al più presto una soluzione. A parti invertite, lo stesso meccanismo valeva per Giovannone, ma nei confronti del servizio segreto militare e dello Stato.
Giovannone e Qubaa, insomma, erano coinvolti in un doppio intreccio ad alto rischio, personale e professionale, che risaliva all’autunno del 1974 e che si era aggrovigliato proprio intorno alla figura e al ruolo di Saleh. Un personaggio che per il Fplp faceva da ufficiale di collegamento in Italia con il gruppo Carlos, l’organizzazione terroristica «Separat», così denominata dalla Stasi, i servizi segreti della Germania orientale. Non va dimenticato, infatti, che nell’agenda personale di Saleh, sequestrata dai carabinieri nel suo appartamento bolognese il 14 novembre 1979, cioè il giorno stesso del suo arresto, alla pagina corrispondente al 22 luglio di quell’anno era annotato il numero della casella postale noleggiata da Saleh alle Poste centrali di Bologna: il 904. Lo stesso numero di casella postale era stata annotata da Carlos nella sua agendina, ritrovata dal servizio di sicurezza ungherese nella base dello Sciacallo a Budapest. Nell’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 c’è la conferma di quanto avrebbe dichiarato a verbale – l’8 ottobre 1986, davanti al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’inchiesta sul traffico di armi tra l’Olp e le Brigate Rosse – il colonnello Silvio Di Napoli, all’epoca dei fatti vicedirettore della seconda Divisione del Sismi (ricerca all’estero), sui contatti presi a Beirut tra il Fplp e il super terrorista internazionale Carlos. Il colonnello Di Napoli rivelò (e il passaggio venne trascritto a mano dal giudice istruttore in calce al verbale dopo la sua riapertura, trattandosi di una integrazione di particolare rilevanza) che «dopo la prima condanna inflitta agli autonomi e al giordano pervenne da Giovannone l’informativa secondo cui il Fplp aveva preso contatti con il terrorista Carlos. Ciò avallò la minaccia prospettata da Habbash». Oggi, 37 anni dopo, trovano quindi una straordinaria conferma le dichiarazioni rese alla magistratura dal colonnello Di Napoli sui contatti tra Carlos e Fplp nella primavera del 1980, così come le sue rivelazioni sulle «minacce contro gli interessi italiani» da parte palestinese, nel quadro della crisi scoppiata all’indomani del sequestro dei lanciamissili a Ortona, con l’arresto e la condanna in primo grado dei tre autonomi romani e di Saleh. Tecnicamente, dal punto di vista formale, essendo il documento del Sismi, alla data dell’interrogatorio del colonnello Di Napoli, coperto da segreto di Stato da oltre due anni, l’ufficiale della nostra intelligence militare, rivelando quelle informazioni avrebbe commesso un reato. Fortunatamente per lui, nessuno se ne accorse. Tornando al documento del 14 aprile 1980, il Sismi attirava l’attenzione del governo di Roma sulle allarmanti notizie relative ai contatti presi in quei giorni dal Fplp con Carlos. Informazioni che avvaloravano le gravissime minacce palestinesi rivolte alle autorità italiane dopo la condanna di Saleh. Su questo punto esiste un ulteriore, straordinario riscontro. Il 28 marzo 1980 – appena un paio di settimane prima dell’appunto segretissimo inviato dal Sismi al governo Cossiga – Taysir Qubaa si era incontrato clandestinamente a Berlino Est con Carlos e con il suo braccio destro, il tedesco Johannes Weinrich, in una suite dell’Interhotel Stadt Berlin. Il loro incontro venne puntualmente registrato dalla polizia segreta della Ddr, come dimostra il rapporto informativo del 25 aprile 1980, predisposto dalla XXII divisione della Stasi. L’esponente palestinese, per dissimulare la sua identità, si era presentato alla riunione utilizzando il falso nome di Gerald Rideknight. C’è il fondato sospetto che Qubaa fosse un Giano Bifronte: da una parte cospirava con il gruppo Carlos contro il nostro Paese, dall’altra negoziava con il colonnello Giovannone, mostrandosi interlocutore «responsabile e moderato». Alla luce di quanto si scopre oggi, Qubaa appare come un campione del doppio gioco. E non è escluso che lo stesso Giovannone ne sia caduto vittima. L’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 fu coperto dal segreto di Stato dal presidente del Consiglio Bettino Craxi il 28 agosto 1984, dopo che lo stesso Giovannone, indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma sulla sparizione a Beirut (il 2 settembre 1980) dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, chiese alla presidenza del Consiglio l’opposizione del segreto di Stato sui suoi rapporti con i palestinesi. L’appunto è stato declassificato il 26 marzo 2021, insieme ad altri, dall’Aise (l’Agenzia che ha preso il posto del Sismi). La decisione, due anni fa, è arrivata al termine di un lungo dialogo tra il governo presieduto da Mario Draghi e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) presieduto da Adolfo Urso. Il 16 aprile 2021 il Dis (il Dipartimento alle dipendenze del governo che coordina l’attività dei due rami dei servizi segreti) ha preso atto del provvedimento di declassifica da segretissimo a segreto. Questo passaggio formale ha permesso al governo Draghi di svincolare dal «divieto assoluto di ostensibilità» numerosi atti del vecchio Sismi, relativi ai rapporti tra Giovannone e la dirigenza del Fplp, e di trasmetterne una parte all’autorità giudiziaria, che ne aveva fatto richiesta. L’appunto del 14 aprile 1980 fa parte di questa partita. Altri 32 documenti sono stati invece consegnati all’Archivio centrale dello Stato di Roma, e restano comunque non divulgabili con «vincolo di riservatezza».
Sequestro Moro: c’è davvero un video dell’agguato di via Fani? Di Emanuele Beluffi il 15 Aprile 2023 su Culturaidentità.it
Piazza delle cinque lune si trova a Roma vicino a Piazza Navona. Piazza delle cinque lune è anche il titolo del film di Renzo Martinelli, del 2003, in cui il regista di Porzus propone una versione alternativa alla vulgata largamente accettata dell’affaire Moro.
Ma Piazza delle cinque lune è anche dove, il 6 marzo 1979, tre vite legate da un filo comune si spezzano: il giornalista Mino Pecorelli, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il Colonnello Antonio Varisco, morti il 20 marzo 1979, il 3 settembre 1982, il 13 luglio 1979 (e se vogliamo fare i precisini e buttare lì un’esca, un quarto personaggio, legato soprattutto a Pecorelli, muore pochissimi giorni dopo di lui: il liquidatore del Banco Ambrosiano, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979). Tenete bene a mente le date. E legate Piazza delle cinque lune al sequestro e uccisione del Presidente della DC Aldo Moro. C’erano davvero solo le Brigate Rosse dietro….alle Brigate Rosse? Forse no.
E a dirlo è un film, quel film di Renzo Martinelli, regista scomodo che nella finzione cinematografica ha detto, forse, le vera verità su Moro: la versione dominante sulle modalità in cui avvenne il massacro di via Fani sarebbe falsa e servirebbe, ancora oggi (il 9 maggio saranno 45 anni dalla morte di Aldo Moro), a coprire i mandanti dell’eccidio. Esterni alle Brigate Rosse.
Questa verità, questa ipotetica verità, è contenuta nella sceneggiatura del film e chi scrive ha potuto constatarlo semplicemente leggendola. Perché c’è anche questo da dire: non solo il film di Renzo Martinelli non ha mai goduto della comunicazione mediatica che avrebbe meritato, ma la sua stessa sceneggiatura è contenuta in un libro, ora rarissimo manco fosse la prima edizione mondiale del Dottor Zivago di Feltrinelli.
In quelle pagine sono riprodotte le foto della dinamica di via Fani e si vede un piccolo dettaglio, che dovrebbe smontare tutta l’impalcatura della narrazione di via Fani.
Secondo la versione di Mario Moretti e Valerio Morucci, i brigatisti in via Fani sparano sulla scorta di Moro da sinistra, basando la dinamica dell’agguato sul doppio tamponamento: alla guida della 128 bianca Moretti inchioda allo stop di via Stresa facendosi tamponare dalla 130 di Moro, a sua volta tamponata dall’Alfetta della scorta.
Ma girando la sequenza durante le riprese del film a Cinecittà, il regista Martinelli scopre una contraddizione: gli spari, quel giorno, non potevano arrivare da sinistra. Recentemente intervistato da Roberto Faben (La Verità), Martinelli dice: “lo stunt man che interpretava il povero Maresciallo Leonardi, il caposcorta, salta fuori dalla macchina e dice a me: «A Martinè, ma che c…o sto a fà, me sto a fà ammazzà? Ce stanno quattro che arrivano da sinistra, per sparà, io sò coperto dall’autista e je sparo»”.
Ed infatti le foto di via Fani e il referto dell’autopsia sul corpo del Maresciallo Leonardi, seduto sul lato passeggero della 130, parlano chiaro: recuperate dalla commissione parlamentare d’inchiesta, due foto da destra (poi pubblicate nel libro) mostrano che non vi fu tamponamento tra la 128 e la 130. Mentre l’autopsia sul corpo di Leonardi mostra che il Maresciallo venne colpito da destra.
Un altro elemento disturbante è che in via Fani vennero sparati 93 colpi, ma nemmeno uno scalfì Moro.
C’era davvero, allora, quella moto Honda su cui viaggiavano due personaggi misteriosi, uno dei quali nella finzione cinematografica fornisce al magistrato il super 8 di via Fani?
Se è vero quel che disse Licio Gelli, per cui una struttura così organizzata come le Brigate Rosse non poteva non registrare il sequestro del secolo, esiste per davvero questo filmato?
E perché allora la versione dominante di via Fani è un’altra?
Forse avrebbero rischiato di essere uccise in carcere, come avvenne ai due membri tedeschi della Rote Armee Fraktion (RAF), detta anche Banda Baader-Meinhof, Andreas Baader e Gudrun Ensslin, che il 5 settembre 1977 sequestrarono il presidente della Confindustria tedesca Hanns Martin Schleyer il cui cadavere venne poi trovato nel bagagliaio di un’automobile?
E perché Pecorelli, Dalla Chiesa e Varisco vennero assassinati? Forse perché erano al corrente di una parte del memoriale Moro che nessuno conosceva? Forse l’esistenza di una certa Stay Behind detta anche Gladio?
E se quel Super 8 dell’agguato di via Fani esiste davvero, chi ce l’ha?
Moro, 45 anni dopo le Idi di Marzo. La verità assente: troppe coincidenze e tanti misteri ancora tutti da spiegare. Di Censor su beemagazine.it il 27 Marzo 2023
Per gli immemori, per gli indifferenti, per chi sa ma ne vorrebbe sapere di più, per chi non si accontenta di vulgate di comodo, per chi non vuole dimenticare un Grande Italiano, stimato e criticato in vita e ora imbalsamato in immagini stereotipate, compresa quella della Renault rossa. Intanto molti giovani ne studiano il pensiero politico, la sua visione del valore della persona, nelle scuole, nelle Università. Ne scoprono la figura di docente, di giovane Costituente che dialogava con Nenni, Togliatti, Calamandrei, Croce. Questo è un racconto che cerca di ricostruire una pagina terribile della nostra storia nazionale e non solo, con l’indicazione di varie fonti bibliografiche e documenti.
La sera del 15 marzo 1978 il capo della DIGOS, Domenico Spinella, si recò da Aldo Moro per organizzare un servizio di vigilanza presso lo studio del presidente della DC sito in via Savoia a Roma. Lo stesso Spinella decise che tale servizio sarebbe iniziato due giorni dopo, il 17 marzo 1978. Ma la mattina del 16, mentre si recava alla Camera, Moro sarebbe stato rapito con l’esito che conosciamo. La mattina del 16 l’allarme viene diramato dalla questura di Roma alle ore 09:02. Ma Emidio Biancone, autista del capo della DIGOS Domenico Spinella, ha più volte dichiarato – in tre interrogatori separati – che a quell’ora stava già correndo sul luogo dell’agguato con la Alfasud targata S88162 e Spinella a bordo. L’auto esce dalla Questura di Roma “poco dopo le 08:30”. Prima dell’allarme generale … ma quasi mezz’ora prima dell’agguato. (0)
La relazione di Spinella al Questore di Roma arriverà con tutta calma il 22 febbraio 1979, cioè quasi un anno dopo. È solo uno dei tanti, tantissimi misteri del sequestro Moro.
LA VICENDA ALDO MORO: QUELLO CHE SI DICE E QUELLO CHE SI TACE, di Antonio Giangrande – pag. 225 e seguenti
Il quadro politico.
Il 28 febbraio, durante le consultazioni a Montecitorio, Moro fece il suo ultimo discorso pubblico in cui offrì ai gruppi parlamentari democristiani la sua analisi della situazione politica. Moro partì dalla considerazione che le elezioni politiche del 1976 avevano visto due vincitori, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano (il quale aveva superato il 34 % dei suffragi) e che vista la disponibilità del PCI era necessario «trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci ha portato».
Il momento era politicamente cruciale perché il PCI si apprestava a sostenere dall’esterno il quarto governo Andreotti, diventando solo parte della maggioranza. Anche con queste particolari caratteristiche il sostegno comunista rappresentava una grossa novità, trattandosi della prima occasione dopo la crisi del maggio 1947, quando De Gasperi, su pressione del segretario di Stato americano George Marshall e dell’ambasciatore James Clement Dunn, aveva escluso i ministri socialisti e comunisti dal governo allora in carica.
Dopo il difficile percorso del governo delle astensioni (Andreotti III, dal luglio 1976 al 13 marzo 1978) il PCI si avvicinava alle stanze del potere suscitando, in determinati ambienti, anche grandi timori. Il primo promotore di questa operazione politica era Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, che aveva dovuto superare molte difficoltà e fortissime pressioni internazionali.
Il governo Andreotti IV nasceva come monocolore democristiano, ma era il risultato dei contatti e dei rapporti che Moro aveva intrattenuto con il segretario del PCI Enrico Berlinguer, assieme al quale aveva sviluppato la formula politica delle larghe intese a partire dall’antica idea morotea delle convergenze parallele (quest’ultima espressione fu coniata da Eugenio Scalfari) che sul lungo periodo avrebbero portato la Democrazia Cristiana ad un incontro con la sinistra.
Il sostegno democristiano al governo delle larghe intese era passato attraverso il voto di una lunga e combattuta assemblea congiunta dei parlamentari democristiani, tenutasi dal 28 febbraio al 1° marzo 1978. Nel corso della prima giornata si erano consumati duri scontri tra le varie correnti democristiane; la situazione iniziò a distendersi quando Moro fece il suo ultimo discorso pubblico ai gruppi parlamentari (vedi sopra) lanciando inoltre un appello all’unità interna del partito contro ogni possibile alleanza tra i gruppi sconfitti da Zaccagnini all’ultimo congresso e la destra di Fanfani, e lodando il lavoro di ricomposizione svolto da Andreotti. Gli ordini del giorno presentati in assemblea furono ben quattro, ma alla fine la direzione nazionale DC decise di appoggiare il governo in fase di formazione; l’opposizione interna alla fine accettò questo orientamento, ma ponendo limiti e paletti alla libertà di manovra del futuro governo.
Oltre alle resistenze interne al suo partito il presidente della DC aveva dovuto cercare di superare vari contrasti con altre forze politiche, anche con il PCI che aveva sollevato obiezioni sulla composizione del IV governo Andreotti. Berlinguer, infatti, aveva chiesto l’esclusione dal governo di taluni esponenti decisamente anticomunisti oltre alla designazione di qualche tecnico, mentre altri dirigenti del partito faticavano ad accettare l’idea del sostegno parlamentare ad un governo che era pur sempre un monocolore democristiano. Per fare un esempio, Giancarlo Pajetta dichiarò che non avrebbe partecipato alla votazione, ma i perplessi come lui erano numerosi. Alla fine si decise per un compromesso, con i parlamentari comunisti che si riservavano formalmente la libertà di voto per decidere sul da farsi solo dopo aver ascoltato il discorso di Andreotti alla Camera.
Il sequestro annunciato
Il giornalista Mino Pecorelli, titolare dell’agenzia di stampa Osservatore Politico (OP) il giorno prima del rapimento pubblicò un criptico articolo in cui faceva riferimento alle Idi di marzo (data dell’ assassinio di Cesare) ed al prossimo giuramento del governo Andreotti, parlando anche di un nuovo Bruto. Pecorelli, uomo informatissimo con molte entrature nei servizi segreti, seguì tutta la vicenda del sequestro Moro anche dopo il tragico epilogo, facendo anche riferimento in più occasioni al Memoriale Moro ben prima del suo ritrovamento.
La mattina di quel 16 marzo Renzo Rossellini diede la notizia del sequestro Moro dai microfoni di Radio Città Futura con circa tre quarti d’ora di anticipo.
Rossellini era una figura ben nota e ben seguita della politica e della comunicazione romana, ed il vice questore Umberto Improta lo conosceva personalmente. Radio Città Futura e Radio Onda Rossa trasmettevano le dirette radio di tutti i cortei del Movimento del ‘77 a Roma, che erano seguitissime non solo dal pubblico ma anche dal Ministero dell’Interno che registrava costantemente le loro trasmissioni. Stranamente la magistratura venne informata della “anticipazione” di Rossellini con inspiegabile ritardo, e precisamente solo il 27 settembre 1978 in seguito alle rivelazioni del settimanale cattolico Famiglia Cristiana. Resta il fatto che al momento di depositare in tribunale le bobine di quel fatidico 16 marzo esse erano stranamente monche, per cui la frase di Rossellini non si poteva più ascoltare.
Secondo Vittorio Fabrizio, funzionario della Digos interrogato dalla Commissione Moro, è impossibile che la mattina di quel fatidico 16 marzo la “anticipazione” non sia stata ben ascoltata e “non sia stata portata subito a conoscenza del dirigente dell’ufficio politico”, che in quel momento era proprio Domenico Spinella, di cui abbiamo già parlato.
Una decina di anni dopo, in un’intervista per il programma di Raiuno La notte della Repubblica, Rossellini dichiarò che il suo coinvolgimento nelle indagini sul sequestro Moro era stato determinato da un fraintendimento di fondo, sorto dalla testimonianza di una domestica dell’allora senatore democristiano Vittorio Cervone. Secondo tale ricostruzione la donna aveva inizialmente dichiarato al senatore di aver appreso del rapimento dello statista democristiano ancor prima che avvenisse realmente, e ciò solo ascoltando la radio; secondo Rossellini si trattava molto probabilmente solo della divulgazione di una sua analisi politica, che ipotizzava un’azione delle BR considerata molto probabile. (1)
(1. la vicenda è così ricostruita nella voce Radio Città Futura consultabile su wikipedia)
Bisogna ricordare che il senatore Vittorio Cervone, personaggio molto qualificato, per tutta la durata del sequestro rimase sempre vicino alla famiglia di Moro e lottò fino alla fine per ottenerne la liberazione, purtroppo senza successo. Cervone, più volte sottosegretario, dedicò alla vicenda anche un libro (Ho fatto di tutto per salvare Moro), ma la sua generosa determinazione gli costò cara ed egli non fu più ricandidato.
Il sequestro, la scelta della data e la strage della scorta
La mattina del 16 marzo 1978 la Fiat 130 di servizio su cui viaggiava Aldo Moro fu intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un gruppo di armati di cui facevano parte esponenti delle Brigate Rosse. L’azione fu breve e violentissima, i brigatisti uccisero i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro (il maresciallo Oreste Leonardi e l’autista Domenico Ricci) oltre a colpire i tre poliziotti sull’Alfetta di scorta (Giulio Rivera morì subito, Raffaele Iozzino riuscì ad uscire per rispondere al fuoco ma cadde colpito dai brigatisti, Francesco Zizzi cessò di vivere qualche ora dopo all’ospedale), per poi sequestrare il presidente della Democrazia Cristiana.
Secondo la versione “ufficiale” dei brigatisti rapire Moro sarebbe stato una seconda scelta; il bersaglio iniziale – il condizionale in questo caso è veramente d’obbligo – sarebbe stato Giulio Andreotti, che però a quanto sembra risultava troppo protetto. È tutto molto strano perché Andreotti, sempre molto mattiniero, si alzava prestissimo per andare a messa senza scorta recandosi poi da solo in ufficio.
Valerio Morucci, uno dei principali dirigenti della colonna romana delle BR, nel suo libro La peggio gioventù (anno 2004) scrisse di avere valutato, in una prima fase, un’azione per rapire Moro nella Chiesa di Santa Chiara dove il presidente si recava quasi ogni mattina per la messa. Tale ipotesi venne accantonata per evitare di coinvolgere terze persone, per cui l operazione venne organizzata diversamente.
Va ricordata anche la testimonianza della vedova del maresciallo Leonardi, secondo la quale quasi tutte le mattine prima di recarsi in ufficio Moro andava a passeggiare allo Stadio dei Marmi assieme al suo fidato caposcorta. Si tratta di un luogo dove un rapimento sarebbe stato facilissimo, ma – altra stranezza – la circostanza era sfuggita a molti.
A sentire i brigatisti persino la scelta della data (teniamo ben presente che il 16 marzo il governo Andreotti si presentava alle Camere) sarebbe stata casuale. Nel corso di un processo davanti alla Corte d’appello di Roma Valerio Morucci dichiarò che «l’organizzazione era pronta per il 16 mattina, uno dei giorni in cui l’on. Moro sarebbe potuto passare in via Fani. Non c’era certezza, avrebbe anche potuto fare un’altra strada. Era stato verificato che passava lì alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre. Non c’era stata una verifica da mesi. Quindi il 16 marzo era il primo giorno in cui si andava in via Fani per compiere l’azione, sperando, dal punto di vista operativo, ovviamente, che passasse di lì quella mattina. Altrimenti si sarebbe dovuti tornare il giorno dopo e poi ancora il giorno dopo, fino a quando non si fosse ritenuto che la presenza di tutte queste persone, su quel luogo per più giorni, avrebbe comportato sicuramente il rischio di un allarme».
Quanto dichiarato da Morucci sulla data del 16 marzo come ipotesi da verificare è, ancora una volta, piuttosto strano. Da quanto risulta l’azione era stata preparata con cura, ad esempio forando con un punteruolo nella notte precedente tutte e quattro le gomme del Ford Transit appartenente ad Antonio Spiriticchio, fioraio ambulante, per impedirgli di parcheggiare in via Fani angolo Via Stresa come faceva ogni mattina. Lo stesso Morucci, successivamente, avrebbe dichiarato di avere agito in tal senso per motivi umanitari al fine di evitare che il fioraio potesse essere colpito nel corso dell’azione armata. (O forse anche per scoraggiare la presenza di un testimone che sarebbe potuto essere utile alle indagini? NdR)
Il ruolo di alcune automobili nel sequestro Moro
Per quanto possa sembrare una coincidenza stranissima qualcuno ha anche rilevato (2) che quel mattino, al posto del furgone di Spiriticchio, sulla destra era mal parcheggiata a circa 80 cm dal marciapiede una Mini Clubman Estate 1100, targata Roma T50354 nella disponibilità di tale Patrizio Bonanni, uno dei fondatori della società Poggio delle Rose che in quel periodo viveva nella palazzina di via Fani 109.
La Mini Clubman così posizionata avrebbe reso difficile ogni tentativo di manovra o di fuga alla 130 di Moro nel corso dell’assalto. Essa risultava intestata alla già citata società Poggio delle Rose, costituita “con atto del notaio Vittorino Squillaci, già funzionario del Ministero dell’interno, poi notaio di fiducia dei servizi segreti” (Gero Grassi, durante la seduta dell’8 luglio 2015 della Commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro). La Poggio delle Rose faceva capo alla Fidrev Srl, che a sua volta faceva capo alla Immobiliare Gradoli spa la quale aveva interessi negli immobili di via Gradoli 96 e 75. Va ricordato che in via Gradoli, proprio al civico 96, venne scoperto un covo delle BR, mentre il box-auto del civico 75 veniva usato dai brigatisti. Fidrev e Gradoli sono quasi una cosa sola, giacché “dal finire del 1973 il consiglio di amministrazione della Fidrev era composto dalle stesse cariche che figurano nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare Gradoli spa”.
Citiamo testualmente da “Le Mini che uccisero Aldo Moro”, un articolo molto interessante di cui riportiamo i riferimenti in nota:
“Gli interscambi di personaggi tra la Fidrev e la Gradoli venivano pure indicati in una relazione del capo della polizia Fernando Masone, rivelata dal libro Il Covo di Stato di Sergio Flamigni:
“[la Fidrev srl] era a sua volta controllata dall’immobiliare Gradoli, nella quale sindaco supplente, dal giugno 1977, era tale Gianfranco Bonori, nato a Roma il 26-7-52. Il Bonori, dal 1988 al 1994, ha assunto l’incarico di commercialista di fiducia del Sisde, subentrando alla Fidrev. […]”.
Inoltre sia la Fidrev che la Gradoli spa ebbero sede a piazza della Libertà 10. Anche la Immobiliare Poggio delle Rose ebbe sede al numero 10 di piazza della Libertà. Il fatto che la Poggio delle Rose ebbe, per un certo periodo, la medesima sede della Fidrev, sarebbe sospetto e in tanti hanno dedotto da questo la connessione Poggio delle Rose-Sisde”. (2)
(2. Le Mini che uccisero Aldo Moro )
Per quanto concerne invece il noto tema della vettura blindata mai assegnata a Moro circa un anno fa molti documenti sono stati desecretati dalla Commissione per la biblioteca e archivio storico del Senato, di cui era presidente il senatore Pd Gianni Marilotti.
Tra questi riveste particolare importanza la relazione del Servizio segreto militare (Sismi), predisposta nel 1979 per la prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. In tale relazione si legge che il maresciallo Leonardi, caposcorta di Moro, avrebbe tra le altre riferito che circa un mese prima dell’attentato due motociclisti armati avevano affiancato l’auto del presidente della DC; tale circostanza era ben nota, ma nessun brigatista la aveva mai collegata con i preparativi del sequestro.
La relazione del Sismi riferisce altresì che «il maresciallo Leonardi dopo tale fatto avrebbe chiesto, senza precisare a quale organo, di avere un’altra auto di scorta in rinforzo, ed una vettura blindata per il parlamentare». Ma l’auto blindata non fu mai assegnata ad Aldo Moro.
Il lavoro di desecretazione avviato dalla commissione della biblioteca del Senato, grazie al quale è oggi possibile leggere questo documento del Sismi, è solo all’inizio: «Passati i cinquant’anni dall’evento – ha spiegato il presidente Marilotti – le carte classificate possono essere coperte solo dal segreto di Stato, il resto lo renderemo fruibile». (3)
(3. Rapimento di Aldo Moro, le carte desecretate della commissione d’inchiesta: la richiesta di un’auto blindata pochi mesi prima, di Giovanni Bianconi – Corriere della Sera, 16 marzo 2022)
Resta il fatto che Eleonora Moro, sentita il 1°agosto del 1980 dalla commissione parlamentare d’inchiesta, avrebbe confermato la circostanza aggiungendo: “Alle mie insistenze ripetute e reiterate, veramente fino ad essere opprimente (e qualche volta, ripensandoci ora, un pochino me ne dolgo, ma d’altra parte …) la risposta di mio marito, quando gli chiesi come fosse andata la vicenda circa la cosa che lo avevo tanto pregato di fare, fu che gli era stato risposto che mancavano i fondi”.
In un riepilogativo della prima Commissione d’inchiesta sempre sul caso Moro, si legge che “a proposito dell’auto blindata la Commissione si è trovata di fronte a due verità inconciliabili, quella di Andreotti e Cossiga da un lato e quella della signora Moro e dei figli dall’altro. Dall’onorevole Cossiga è stata affacciata l’ipotesi che Aldo Moro non abbia mai richiesto l’auto blindata e abbia poi detto alla moglie di averla chiesta e di non averla ottenuta per ragioni di bilancio. È un’ipotesi in linea teorica plausibile, ma che la signora Moro ha respinto con forza, affermando che sarebbe stata in netto contrasto con le abitudini del marito. (4)
(4. Il sequestro Moro ed i dubbi della Commissione d’inchiesta sull’auto blindata. Sito Marco Barone, 21 aprile 2015).
La mancata concessione della vettura blindata a Moro assume particolare rilevanza visto il momento di estrema tensione politica.
Infatti nella relazione del Sismi si legge che «in relazione alla possibilità che in concomitanza con l’apertura del processo di Torino, fissato per il 3 marzo 1978 a carico di Curcio e altri terroristi, le Brigate Rosse effettuassero atti di terrorismo in Italia o all’estero con il concorso di elementi stranieri come la banda Baader Meinhof o l’Armata rossa giapponese o gruppi estremisti palestinesi o arabi, o altre cellule internazionali, il 15 febbraio 1978 il Servizio aveva provveduto ad allertare tutta la propria rete informativa nazionale e internazionale e i servizi collegati».
Ed infatti il 18 febbraio il colonnello Stefano Giovannone, capocentro del SID e poi del SISMI in Libano nel periodo della guerra civile, in un suo rapporto fa riferimento ad una segnalazione acquisita da un appartenente all’organizzazione palestinese Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina guidata da George Habbash, suo contatto abituale. Secondo tale confidenza era da ritenersi possibile nel prossimo futuro un’azione terroristica di notevole portata che stava per scattare in Italia. La segnalazione da Beirut è ben documentata con intestazione “Ufficio R, reparto D, 1626 segreto”, provenienza “fonte 2000”.
Come si è svolto l’assalto? Quanti furono i partecipanti? Tante domande… senza riposta.
Secondo quanto emerso dalle indagini giudiziarie, all’azione avrebbero partecipato 11 persone, ma il numero dei reali partecipanti è stato messo più volte in dubbio, come anche la loro identità.
Anche le confessioni dei brigatisti sono state contraddittorie e su più punti smentite dai fatti, come ad esempio quando sostenevano che solo nove persone avrebbero partecipato all’agguato e di queste solo cinque avrebbero fatto fuoco.
Ma procediamo un passo alla volta. La mattina del 16 marzo intorno alle 8.55 l’auto di Moro e quella della scorta lasciarono l’abitazione in via del Forte Trionfale 79 per imboccare via Trionfale verso la chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giuochi Delfici, dove come abbiamo detto Moro era solito recarsi.
L’agguato scattò circa sette minuti dopo quando le due auto svoltarono a sinistra da via Trionfale in via Fani. Qui Rita Algranati, nota come compagna Marzia e moglie di Alessio Casimirri, si era appostata all’angolo fra le due strade sollevando un mazzo di fiori per segnalare a Moretti, Lojacono e al marito Casimirri il passaggio del corteo. Ciò fatto la Algranati salì su un motorino e fuggì.
I quattro brigatisti armati, con indosso uniformi Alitalia, circa un quarto d’ora prima avevano preso posizione all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa nascondendosi dietro le siepi di fronte al bar Olivetti, locale in liquidazione situato di fronte allo stop dell’incrocio. Il bar a quanto sembra quel 16 marzo doveva essere chiuso, ma tale circostanza molti anni dopo verrà contestata e si inizierà a parlare anche degli strani rapporti del titolare Tullio Olivetti uomo dai vari precedenti, con il mondo dei servizi. La scelta di vestirsi da avieri Alitalia, abbigliamento estremamente evidente che rendeva il commando ben identificabile, secondo alcuni era dovuta al fatto che quella mattina avrebbero partecipato all’azione anche altre forze estranee alle BR, personaggi che i brigatisti molto probabilmente non avevano mai incontrato.
Il gruppo dei brigatisti disponeva di quattro autovetture, tre Fiat 128 ed una Fiat 132.
Mario Moretti, alla guida di una Fiat 128 con targa (falsa) del Corpo diplomatico si appostò sul lato destro nella parte alta della strada, prima di via Sangemini. Davanti a lui era parcheggiata una seconda Fiat 128 con Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. La terza Fiat 128 con al volante Barbara Balzerani era ferma sempre su via Fani, ma appena oltre l’incrocio con via Stresa ed in direzione opposta rispetto alle altre due.
Una quarta auto, una Fiat 132 blu condotta da Bruno Seghetti, era in attesa su via Stresa poco dopo l’incrocio per prendere a bordo Moro in retromarcia subito dopo l’agguato.
Visto il segnale del mazzo di fiori Moretti con la sua 128 uscì di scatto e si posizionò esattamente davanti alla macchina di Moro, tagliandole la strada; la seconda 128 di Lojacono e Casimirri chiudeva la colonna, con in mezzo la 130 e l’Alfetta della scorta. Una volta giunti all’incrocio con via Stresa Moretti arrestò di colpo la sua macchina bloccando la Fiat 130 su cui viaggiava Moro, che si trovò chiusa tra la 128 e l’Alfetta. A questo punto la 128 di Lojacono e Casimirri si piazzò di traverso posteriormente, impedendo ogni movimento alle due auto del presidente.
E qui entrarono in azione i quattro uomini vestiti da avieri Alitalia, che uscirono da dietro le siepi del bar Olivetti con in mano le pistole mitragliatrici. Il commando era composto da Valerio Morucci «Matteo», personaggio molto noto dell’estremismo romano ed esperto di armi, Prospero Gallinari «Giuseppe» ricercato e già evaso nel 1977 dal carcere di Treviso, Raffaele Fiore «Marcello» che proveniva dalla colonna brigatista di Torino ed infine Franco Bonisoli «Luigi» della colonna di Milano.
I quattro si avvicinarono alle due auto del presidente bloccate all’incrocio. Qui Morucci e Fiore aprirono il fuoco a colpi singoli contro la Fiat 130 di Moro, attenti a non colpire il presidente, mentre Gallinari e Bonisoli spararono contro l’Alfetta di scorta. Secondo quanto riferito dai brigatisti tutti i mitra si sarebbero inceppati quasi subito; Morucci comunque riuscì a uccidere il maresciallo Leonardi a colpi di mitra, mentre quello di Fiore si sarebbe inceppato immediatamente.
Ciò permise all’appuntato Ricci, autista di Moro, di tentare varie manovre per far uscire l’auto dalla trappola ma la famosa Mini Clubman Estate parcheggiata casualmente sul lato destro a quasi un metro dal marciapiede rese impossibile ogni movimento. Qui Morucci con spietata determinazione tornò vicino alla Fiat 130 ed uccise con una raffica anche l’autista.
Nel frattempo Gallinari e Bonisoli sparavano contro l’Alfetta: Rivera e Zizzi furono subito colpiti mentre Iozzino, che si trovava sul sedile posteriore destro, visto l’inceppamento dei mitra dei brigatisti poté uscire e rispondere al fuoco con la sua pistola Beretta 92, anche se immediatamente dopo Gallinari e Bonisoli lo uccisero a colpi di pistola. Dei cinque uomini della scorta, Francesco Zizzi fu l’unico a non morire sul colpo: trasportato al Policlinico Gemelli vi morirà poche ore dopo.
I brigatisti sosterranno sempre che il commando proveniente dal Bar Olivetti aveva attaccato le due auto di Moro dal loro fianco sinistro all’incrocio fra via Fani e via Stresa, ma è una versione che fa acqua da tutte le parti. Infatti Raffaele Iozzino uscì dall’Alfetta da destra e venne ucciso da sei colpi provenienti proprio dal lato destro della strada. In quella posizione c’era evidentemente un altro gruppo di fuoco o quanto meno un altro tiratore, ed infatti i bossoli verranno raccolti anche sul Iato destro della strada, sia intorno alla 128 sia verso l’incrocio.
Le dichiarazioni di Morucci al processo Moro ter (1987) furono ben diverse: “Poiché si erano inceppati i due mitra che dovevano sparare, usarono la pistola e probabilmente uno di questi girò intorno alla macchina portandosi quasi all’angolo con via Stresa” sparando dal lato destro contro l’agente lozzino. In sostanza, secondo Morucci, mente la sparatoria era in pieno svolgimento uno dei brigatisti avrebbe aggirato l’AIfetta della scorta per sparare a Iozzino, agendo contro ogni regola militare e con il rischio concreto di essere colpito da “fuoco amico”.
La presenza di sparatori sui due lati della strada viene confermata dalle perizie balistiche, la prima delle quali è del 1979 mentre la seconda è del 1993. Si scoprirà che le munizioni – con un trattamento superficiale protettivo e senza matricola – provenivano da un arsenale militare come quelli in dotazione a Gladio: i “depositi Nasco”. (5)
Un altro punto riguarda il numero dei brigatisti che parteciparono all’azione.
Moretti infatti aveva sempre sostenuto di essere stato l’unico occupante della 128 con targa corpo diplomatico, ma questa versione fu smentita. Poche ore dopo il rapimento, il testimone Alessandro Marini dichiarerà alla Polizia di aver visto scendere dal sedile lato passeggero di quella 128 un secondo uomo che poi avrebbe sparato sulla 130 di Moro da destra, cioè dalla parte opposta rispetto al commando uscito dal Bar Olivetti. Va ricordato che il teste Marini si trasferirà all’estero in seguito alle telefonate con minacce di morte che lo raggiunsero a partire dalla sera stessa dell’agguato. C’è da chiedersi come in poche ore i brigatisti siano riusciti a conoscere il nome del teste ed il suo numero di casa, e ciò mentre erano impegnati a coprire la fuga e a nascondere l’illustre prigioniero. (6)
(6. LA VICENDA ALDO MORO: QUELLO CHE SI DICE E QUELLO CHE SI TACE, di Antonio Giangrande – pag. 225 e seguenti; ampio estratto reperibile in rete)
In quest’ordine di idee va ricordata un’altra testimonianza. Nel già citato libro di Antonio Giangrande a pag. 225 si legge quanto segue: “Armida Chamoun, residente in Via Gradoli 96 – dove si scoprirà il covo BR – testimonierà al magistrato Antonia Giammaria che in quell’appartamento in quei giorni c’è anche un uomo biondo “con gli occhi di ghiaccio”. Il 16 marzo lo vede uscire vestito da aviere. Nessuno dei BR arrestati ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. In via Gradoli verrà ritrovato l’elenco con gli acquisti fatti per ottenere i vestiti Alitalia. In testa all’appunto una intestazione: “Fritz”. Anna Laura Braghetti sosterrà che “Fritz” era il nome in codice con cui identificavano Moro stesso.” (7)
Come si vede i dubbi ci sono tutti, ed anzi aumentano.
La ‘ndrangheta calabrese e i “complici esterni”. Il capobastone possibile esecutore materiale del sequestro, le foto sparite e tanti altri misteri.
Nel libro già citato di Giangrande si legge che il primo a parlare di complici esterni è un super pentito della ’ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90 e collaboratore dal 1993. Le sue confessioni hanno permesso al PM milanese Alberto Nobili e alla Direzione investigativa antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo “Nord-Sud”. La vicenda di Morabito è ben illustrata nel saggio Manager calibro 9 scritto da Piero Colaprico, uno dei maggiori giornalisti di cronaca giudiziaria italiana, e Luca Fazzo. Da questo libro è stato ricavato il film Lo Spietato.
Morabito, giudicato nelle sentenze «di assoluta attendibilità», rivelerà che un mafioso importante, Antonio Nirta detto “Due Nasi” perché amava il fucile a canne mozze, capobastone della ’ndrina dei Nirta La Maggiore di San Luca, negli anni ’70 aveva legami con un carabiniere di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei Servizi. Il pentito ne parlerà con paura e aggiungerà che il suo capo, Domenico Papalia, gli avrebbe rivelato che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro»: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi. (8)
Nirta avrebbe negato, sfogandosi in una intervista rilasciata a Repubblica nel 1993 in cui si legge: “Eppure in un verbale rimasto segreto per un anno il pentito di ’ndrangheta Saverio Morabito gli punta un dito contro: “Antonio Nirta fu infiltrato dal generale Delfino a via Fani, durante il sequestro Moro”. “Dicono”, ripete il detenuto Nirta. “Ma se ci dovesse essere un interrogatorio, e spero che non ci sia, allora ne parleremo”. Una frase sibillina, che lascia il segno più delle altre sue parole in libertà. È la prima volta che Nirta si pronuncia, la prima volta che esce dall’anonimo isolamento del carcere. Ancora nessun magistrato l’ha ascoltato sulle accuse del pentito che lo ha tirato in ballo.” (9)
(9. NIRTA SI SFOGA ‘ E’ UNA BALLA’, di Stella Cervasio – Repubblica, 19.10.1993)
Forse Nirta poteva avere qualche ragione. Secondo Simona Zecchi, studiosa molto puntuale dei misteri d’Italia, si tratterebbe di una omonimia tra due persone con una grande differenza di età.
“Ma il “Ntoni due nasi” di cui parla nel 1992 Saverio Morabito, il collaboratore di giustizia ritenuto da sempre attendibile, è un altro. Il Nirta che avrebbe avuto rapporti con i servizi segreti in quanto infiltrato dall’allora generale Francesco Delfino (filone aperto nel 1993 contro l’ex capo dei carabinieri e ufficiale del Sismi, ma poi archiviato) nel 1978 aveva al contrario 32 anni essendo la sua data di nascita quella dell’8 luglio 1946 come riporta la sentenza “Nord sud” (sentenza della IV Corte d’Assise di Milano n. 16/97). La foto che qui pubblichiamo, ampiamente reperibile online e facente parte dell’archivio online de L’Unità, risale agli anni ’70 ed è molto somigliante a quella che Il Messaggero ha pubblicato lo scorso 21 gennaio. Lo storico, docente ed esperto di storie della ‘ndrangheta, il professor Enzo Ciconte, che abbiamo sentito in merito, conferma questi dati.
Non c’è dunque dubbio alcuno sull’identità di questo Nirta. Starà poi alla commissione appurare se l’uomo della foto e l’ex boss siano la stessa persona.” (10)
(10. Il caso Moro e la pista forte dell‘ndrangheta, di Simona Zecchi, 01. 02.2016)
Secondo un’altra testimone, dopo l’agguato il trasferimento di Moro sull’auto dei brigatisti avviene con grande calma e viene visto da varie persone. Quel mattino Gherardo Nucci esce e dopo essere passato alla sua carrozzeria rientra in casa, si affaccia dalla terrazza al 109 di Via Fani (sopra l’ormai noto Bar Olivetti) rientra per prendere la macchina fotografica e scatta dodici foto della scena. Il rullino viene consegnato alla magistratura dalla moglie Cristina Rossi, giornalista parlamentare dell’agenzia Asca, che a sua volta lo consegna al giudice Luciano Infelisi. Nel corso dell’audizione davanti alla nuova Commissione Parlamentare il giudice cosi si esprime sulle foto: “Non erano tante, saranno state quindici-venti o anche meno. Si vedevano un’ambulanza ferma, sette od otto macchine della polizia, quella dei vigili del fuoco, in sostanza tutte cose ex post, quando la strada era stata invasa da paparazzi che erano arrivati – senza offesa: intendo giornalisti e fotografi e che avevano scattato centinaia e migliaia di fotografie. Per non offendere la suscettibilità della signora, anche perché alla prima visione non sembrava esserci nulla di anomalo, dissi al dottor Spinella di prendere lui le foto. Luciano Infelisi. CPM2 Seduta del 20/11/2015.”
(queste foto furono mostrate al capo del forografico dell’Ansa, che, dopo averne preso una veloce visione disse: grazie ma non aggiungono nulla a quello che noi già abbiamo; del resto sono dell’Ansa le prime foto sull’agguato di via Fani, NdR) (11)
(11. Dal sito anniaffollati.it, I fantasmi del caso Moro, senza firma. Da quanto si legge le foto non sono state fatte sparire perché importanti, ma diventano improvvisamente importanti perché non si trovano più . Consultabile al link )
Sempre sul tema delle foto il libro di Giangrande dà un’interpretazione opposta, riportando anche una conversazione telefonica tra Sereno Freato, uomo vicinissimo a Moro, e il deputato calabrese Benito Cazora. A pagina 228 si legge:
“La ’ndrangheta rimette tutto a posto. Nonostante si tratti di terrorismo politico di sinistra, e non di un fatto di mafia, la ’ndrangheta calabrese è molto interessata alle foto scattate da Nucci. Ecco uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sul telefono di Sereno Freato, che negli anni 70 fu capo della segreteria di Aldo Moro, mentre parla con l’On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro. Cazora: Un’altra questione, non so se posso dirtelo. – Freato: Si, si, capiamo. – Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo. – Freato: Quelle del posto, lì? – Cazora: Si, perchè loro… [nastro parzialmente cancellato]…perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù. – Freato: E’ che non ci sono… ah, le foto di quelli, dei nove – Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio… noto a loro. – Freato: Capito. E’ un po’ un problema adesso. – Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare? – Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire. – Cazora: Dire al ministro. – Freato: Saran tante! – Detto, fatto. Foto sparite. La ’ndrangheta può stare tranquilla.” (12)
Ma lì sono anche le foto di Gualerzi.
“A pochi metri dall’incrocio con Via Fani, infatti, si affaccia il negozio dell’ottico Gennaro Gualerzi che vede sfrecciargli davanti una 128 scura con a bordo persone che si stanno togliendo la giacca e sente delle grida. Gualerzi prende al volo una macchina fotografica ed esce di corsa scattando 11 fotografie entro le 09:15. L’esistenza delle foto è indicata per la prima volta in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Via Trionfale agli atti della Prima Commissione Moro. È un sommario del verbale rilasciato la mattina del 16 marzo dall’ottico (il nome indicato è sbagliato: “Gualersi”). Sono riportate 11 foto ma vengono corrette a penna in 16”. Queste foto spariranno subito dopo la consegna ai Carabinieri per essere ritrovate solo 39 anni dopo, nel maggio 2017.( 13)
Le foto di Gualerzi sono importanti perché in una di esse compare Giustino De Vuono, detto lo “scotennato”.
La questione è molto ben ricostruita in una voce dedicata di wikipedia, Ipotesi sul caso Moro, di cui riportiamo un estratto:
“Partendo dai dubbi sull’apparente professionalità mostrata nel colpire la scorta senza uccidere Moro, alcuni hanno ipotizzato che nel commando vi fosse un tiratore scelto armato di mitra a canna corta, che sarebbe colui il quale ha sparato la maggior parte dei colpi, la cui identità sarebbe ancora sconosciuta. Il settimanale L’espresso (15) ha proposto un’identità al fantomatico cecchino.
Si tratterebbe di un tiratore scelto, ex membro della Legione straniera, Giustino De Vuono, colui che avrebbe sparato tutti i 49 colpi andati a segno e, soprattutto, tutti quelli che hanno centrato gli uomini della scorta. Agli atti della Questura di Roma si trova depositata una testimonianza, contenuta in un verbale datato 19 aprile 1978, in cui il teste Rodolfo Valentino afferma di aver riconosciuto De Vuono alla guida di una Mini o di un’A112 di color verde e presente sulla scena dell’eccidio. Altri [70], ipotizzano che possa essere stato un agente del servizio segreto (italiano o straniero) o dell’organizzazione clandestina Gladio estraneo all’organizzazione brigatista e quindi le divise sarebbero state necessarie per rendere riconoscibili a prima vista e reciprocamente i brigatisti e il tiratore scelto.
Durante i 55 giorni – peraltro – De Vuono risultò assente dalla sua abituale residenza, a Puerto Stroessner (oggi Ciudad del Este, nel Paraguay meridionale, all’epoca dei fatti retto da una giunta militare trentennale con a capo il generale Alfredo Stroessner). De Vuono era affiliato alla ’ndrangheta calabrese e diversi brigatisti testimoniarono che le BR si rifornivano di armi proprio dai malavitosi calabresi; inoltre De Vuono era ideologicamente «collocato all’estrema sinistra».
È stato anche provato che in Calabria lo Stato avviò contatti con la malavita per ottenere il rilascio di Moro. D’altronde pare accertata la presenza di De Vuono sul luogo della strage il giorno incriminato. Sebbene tutte le fotografie scattate dai giornalisti quella mattina fossero scomparse misteriosamente, esiste una fotografia che mostra, tra la folla assiepata sul marciapiede, proprio Giustino De Vuono, detto “lo Scannato” o “lo Scotennato”, ed un’altra persona identificata in Antonio Nirta, boss di San Luca in Aspromonte”. (15)
(15. Il fantasma di Via Fani, L’Espresso n. 20 del 21 maggio 2009, da wikipedia – L’ ipotesi del tiratore scelto)
Ma non è finita. Come si legge nel libro di Giangrande “la lista dei rullini scomparsi è inarrestabile: solo il 21 gennaio 2016 Il Messaggero pubblica una foto inedita scovata fra i faldoni del processo per l’omicidio Pecorelli. Si parla anche di alcune foto a loro volta sparite dagli uffici della Procura che ritraggono parte del commando proprio durante l’azione, ma non è chiaro chi le abbia scattate o se siano mai esistite.
Altri rullini vengono poi rinvenuti da una abitante della zona nel proprio giardino e da questa consegnate a un agente in borghese. C’è la testimonianza ma non se ne ha più traccia. Il giornalista Diego Cimara riferisce alla Commissione Moro dell’esistenza di altri rullini, poi scomparsi, ma anche su questo non ci sono altri elementi. Infine un’altra serie – scomparsa anch’essa – di cui Antonio Ianni, dell’Ansa, ha parlato alla stessa Commissione. Ianni è il primo fotografo arrivato sul posto. Scatta tre rullini quando i corpi non sono ancora stati coperti. La sera stessa, Ianni rientrando a casa trova la sua abitazione sottosopra, ma i rullini sono al sicuro: li aveva subito portati alla sede ANSA di Roma, dove lavora. Nei giorni successivi i rullini e alcune delle foto sviluppate da questi vengono trafugate direttamente dall’archivio fotografico dell’agenzia.” (16)
La presenza sul luogo del colonnello Guglielmi.
In Via Stresa all’incrocio con Via Fani – a pochi metri dall’agguato – quel mattino verso le 9.30 si trovava il colonnello Camillo Guglielmi, il quale era in borghese e dichiarò che stava andando a pranzo da un amico, residente in via Stresa 117 in una vicinissima palazzina dove alcuni anni prima aveva anche abitato lui stesso con la moglie e i figli.
La vicenda è uscita solo 12 anni dopo la strage, anche perché su un sito dedicato al caso Moro si legge che “a carico del colonnello Guglielmi, benché deceduto, è stato aperto ed è tuttora pendente un fascicolo presso la Procura generale della Repubblica di Roma proprio in relazione al suo ipotizzato coinvolgimento nella strage”. ( 17)
Sempre sullo stesso sito si legge una descrizione del profilo e dei compiti del Guglielmi: “Guglielmi all’inizio degli anni ’70, “veniva impiegato dal capo del Sid in operazioni internazionali” ed essendo il suo nome accostato a quello di Giovannelli, dirigente del Centro addestramento paracadutisti (Caps), egli svolgeva “un ruolo nel campo degli addestramenti speciali”.
Ha raccontato alla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro (2014 – 2017), il procuratore militare di Padova, Sergio Dini, che proprio negli anni 1972-73 (il periodo a cui risale l’appunto su Guglielmi) vi fu una notevole insistenza da parte del generale Maletti affinché la base sarda di Capo Marrargiu (centro operativo e di addestramento della Gladio italiana) fosse posta a disposizione del personale dell’Ufficio D per lo svolgimento di “esercitazioni molto particolari”.
Tra il febbraio ’72 e il maggio ’73 sono stati effettuati quattro corsi: tre riguardanti l’uso e le tecniche degli esplosivi e un corso di guerriglia, complessivamente per una quarantina di agenti segreti. L’ultimo corso del ’73, sia teorico sia pratico, verteva sulle “forme di guerriglia urbana, la tecnica dell’imboscata, gli obiettivi e i compiti della guerriglia negli abitati e in azioni di campagna”.
Attività “particolari” per l’ufficio difesa, come sottolineava il procuratore militare Dini alla Commissione stragi, che riporta: «Per quanto riguarda Guglielmi, nel 1965 partecipò alla prima esercitazione di personale dell’Ufficio D a Capo Marrargiu. Non c’è solo la citazione «Guglielmi presente a Capo Marrargiu», ma ci sono diversi documenti in cui viene indicato esattamente il programma del corso e, giorno per giorno, quello che è stato fatto. Si andava appunto da tecniche di imboscata e guerriglia urbana a tecniche di trappolamento ed esplosivi su materiale ferroviario».
E ancora: «Tra il personale che fu utilizzato per questi addestramenti particolari (…) vi sono i nomi di alcuni soggetti che, in qualche modo, sono stati portati alla ribalta da successive indagini su fatti eversivi”. Come “l’ufficiale Guglielmi, proprio quell’ufficiale invitato a colazione nelle immediate vicinanze di via Fani alle ore 9,30 del 16 marzo 1978» (Vedi: Sergio Dini, alla CPM2, Seduta del 7/10/2015)”. (18) Dove per colazione s’intende pranzo (NdR).
Sempre sullo stesso sito si legge anche quanto segue: “Nella sua scheda di servizio, acquisita dal procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli presso gli archivi dei Servizi di sicurezza, si illustrano i compiti e le funzioni dell’Ufficio R, Controllo e Sicurezza VII Sezione del Sismi di Guglielmi (un servizio costituito solo dall’ottobre 1978):
“Fare la scorta a importanti personaggi del Sismi, agli ospiti stranieri del Servizio, la vigilanza alla sala riunioni della Nato e alla villa del generale Santovito (allora direttore del Sismi, ndr), le indagini disciplinari, la scorta a valori di denaro del Servizio e agli aerei”.
Incarichi rilevanti, delicati, quindi per il servizio segreto militare.
Questa la ricostruzione dei ruolini di Servizio del Guglielmi, da cui, in ogni caso, appare evidente, come ha anche sottolineato la nuova Commissione Moro, che la figura del colonnello è ritenuta, a vario titolo (in virtù di esperienze pregresse e del suo successivo servizio alle dipendenze del SISMI), riconducibile ad ambienti dei servizi di Intelligence.
Guglielmi, infatti, è stato istruttore a capo Marrargiu, la base di addestramento delle Gladio, e proprio nelle tecniche di guerriglia (anche lasciando perdere le imboscate), e come rivelato, nel marzo 2003 da Famiglia Cristiana, dal quotidiano Liberazione e dalla rubrica del Tg3 Primo Piano, il mese precedente (febbraio ‘78) il rapimento Moro, aveva partecipato o comunque era compreso nella esercitazione, “Rescue imperator” organizzata dal Raggruppamento unità speciale-Stay Behind (cioè Gladio), poi realizzata nella notte del 12 febbraio, da cinque squadre “K” armate ed equipaggiate con materiale degli incursori del Comsubin in accordo con i carabinieri della Legione Lazio. Vi si citano luoghi (Campo Imperatore, vicino al lago della Duchessa, Magliano Sabina e il Monte Soratte).
Questo risulterebbe, dai dispacci del tempo per “Rescue Imperator”, datati rispettivamente 6 e 10 febbraio 1978, dove si cita il “gruppo Guglielmi”, che deve restare “in attesa del materiale” e di eventuali nuovi ordini presso il Centro addestramento guastatori di Alghero. È il periodo in cui Guglielmi, ufficialmente, risultava collocato in ausiliaria nella “forza in congedo della regione tosco emiliana di Firenze”.
Alcuni hanno anche parlato di omonimia, ma senza troppo convincere, e quindi se questa segnalazione documentale è corretta, il Guglielmi si troverebbe anche inserito nell’organico di una esercitazione riguardante protocolli militari di guerriglia e antiguerriglia in ambiti Atlantico e che assomiglia ad una specie di “prova generale” dell’operazione “smeraldo” di liberazione di Moro ordinata un mese e mezzo dopo da Cossiga al Comsubin ,il Raggruppamento Subacquei ed Incursori della Marina Militare e poi abortita. (19)
Va ricordato che Guglielmi di lì a poco sarebbe entrato nel SISMI – la VII divisione che controlla Gladio – alle dirette dipendenze del generale Musmeci (P2, implicato per vari depistaggi e poi condannato per quello della Strage di Bologna). Bisogna anche precisare che Guglielmi si sarebbe dedicato all’ addestramento di gladiatori, ma che non risultava essere membro del sodalizio.
(17., 18., 19.: articolo di Maurizio Barozzi pubblicato sul sito sedicimarzo.org dedicato al caso Moro)
I professionisti e la “situazione generale di protezione”
Molti anni dopo e precisamente nel 2012 Alberto Franceschini, fondatore delle BR assieme a Renato Curcio, concesse un’ intervista al giornalista Ulisse Spinnato Vega, dell’Agenzia Clorofilla. Franceschini ricordò Mino Pecorelli, e affermò: “Pecorelli, prima di morire, disse che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica volevano la morte di Moro.
Bisognava rispettare gli accordi di Yalta, cioè la spartizione dell’Europa tra i vincitori della Seconda guerra mondiale: un accordo al quale Moro si era sempre opposto, sia prima sia durante il sequestro, ritenendo ormai superata la «strategia» di Yalta e volendo a tutti i costi coinvolgere il PCI nel governo del Paese” Moro agiva politicamente per mantenersi al potere e per portare avanti il «compromesso storico», che non piaceva agli americani e ancor meno ai russi.
Un eurocomunismo con al centro il Pci avrebbe infatti portato sconquasso nell’Europa dell’Est. Ma Breznev non era Gorbaciov e non lo permise, non diede il minimo spazio di apertura. Ed ecco perché Moro doveva morire. In ogni caso, né la CIA né il KGB avrebbero potuto portare a compimento la sua eliminazione senza l’assenso dell’altro. Dunque, tutti e due i servizi segreti erano coinvolti.
Franceschini dichiarerà anche: “un’operazione di grande portata come quella del sequestro Moro non la fai se non hai qualcuno alle spalle che ti protegge. Ai miei tempi, noi militarmente eravamo impreparati. Io conosco quelli che hanno portato a compimento l’operazione: gli unici ad avere un minimo addestramento potevano essere Morucci e Moretti.
Ma secondo me c’era una situazione generale di protezione, un contesto di cui erano consapevoli solo uno o due dell’intero commando”.
Successivamente Franceschini aggiungeva: “Nel sequestro Moro furono utilizzate tecniche che non avevano nulla a che fare col nostro tipo di azione. Ad esempio, Moro fu fatto salire in auto. Noi, invece quando sequestrammo, nel 1974, il giudice Sossi, agimmo prima mettendo un furgoncino sotto casa sua: quando lui arrivò, uscirono fuori i nostri, lo presero e lo buttarono nel furgone, chiudendolo poi in un sacco. Quindi si spostarono verso di noi che stavamo in una macchina, lo scaricarono col favore del buio serale e andammo via.
Invece, i rapitori di Moro che cosa fanno? Lo fanno salire in macchina, arrivano in una piazza frequentatissima e lo trasferiscono su un furgone. Tutto questo una ventina di minuti dopo il sequestro, in mezzo al traffico e alla folla. Mi pare sinceramente impossibile che nessun testimone abbia visto”.
“Questo furgone, inoltre, non è mai stato trovato. Morucci dice che fu lasciato in un parcheggio sotterraneo, lì fu tirato fuori Moro e quindi portato, forse sulla “Renault” rossa, in via Montalcini. Il furgone non esiste, e questo sequestro non può essere certamente stato fatto così, non sta in piedi»”. (20)
(20. Intervista di Alberto Franceschini al giornalista Ulisse Spinnato Vega, dell’Agenzia Clorofilla)
L’argomento della “protezione” viene ripreso da Paolo Cucchiarelli, scrittore e giornalista investigativo, già caposervizio e collaboratore dell’Ansa nonché giornalista parlamentare ed autore di vari saggi sui misteri d’Italia.
Cucchiarelli negli ultimi anni ha scritto due libri sull’affaire Moro, il primo dei quali intitolato Morte di un presidente (2016) ed il secondo L’ ultima notte di Aldo Moro (2018). In un’intervista del 18.04.2018, rilasciata da Cucchiarelli per presentare il suo libro, si legge quanto segue: “A via Fani c’erano degli specialisti che agiscono con una tecnica militare che non appartiene assolutamente alle Brigate Rosse, non può appartenere perché poi la tecnica era stata codificata dagli americani ed attuata in speciali gruppi operativi e questi gruppi utilizzano queste tecniche.
Per di più sappiamo con certezza perché lo racconta il servizio segreto italiano che un aereo legato a queste strutture americane atterra a Fiumicino improvvisamente la sera del 15 marzo e riparte la mattina del 16 marzo intorno alle 10 – 10:15. A bordo di quell’aereo c’erano uno o più specialisti che hanno partecipato direttamente all’operazione di via Fani dando quel contributo militare che le Brigate Rosse non sanno e non possono aver dispiegato perché se si prendono i racconti dei singoli brigatisti che hanno partecipato all’operazione uno racconta di essersi messo paura, un altro racconta che la sua arma si era inceppata e un altro ancora racconta che lui ha sparato solo due colpi.
Tenendo sempre conto che i brigatisti raccontano di aver sparato solo ed esclusivamente dalla sinistra del corteo delle macchine di Moro mentre abbiamo la certezza giudiziaria documentale e logica che gran parte dell’attacco militare fu portato dalla destra da questi personaggi che non erano vestiti come gli altri brigatisti con delle divise dell’aviazione, con dei giubbotti legati all’aviazione civile ma erano (invece) vestiti di cuoio, con degli abiti di cuoio ed erano facilmente identificabili, sia il fronte che sparava da destra sia il fronte che sparava da sinistra. Abbiamo testimonianze che il libro per la prima volta mette insieme che dimostrano che qui chi spara da destra utilizza tecniche e logiche che non sono proprio delle Brigate Rosse ma appartengono a chi ha subito un addestramento militare”. Sono parole chiarissime. (21)
(21. intervista a Cucchiarelli che presenta Morte di un presidente, il primo dei suoi libri in tema – anno 2018).
(In altre parole, e non è una battuta, come anche la seconda commissione d’inchiesta sul caso Moro appurò, in via Fani quel 16 marzo c’erano ANCHE le Brigate Rosse NdR)
Nel 2021 è uscito il docufilm autoprodotto “Non è un caso, Moro” (22) scritto e diretto da Tommaso Minniti, tratto dai libri inchiesta di Paolo Cucchiarelli e con le musiche originali di Johannes Bicklerche. Il film, che nessuno ha voluto distribuire e circola con il passa parola da un cineclub all’altro, narra la storia ed i tanti retroscena dei 55 giorni del sequestro. In questo raro docufilm, che è ordinabile via posta ed è fornito con la chiavetta USB, la vicenda viene considerata sotto una luce diversa grazie anche alle testimonianze inedite e incontrovertibili di protagonisti dell’epoca: l’on. Claudio Signorile, già vicesegretario del Psi ed esponente del fronte della trattativa, e Mons. Fabio Fabbri braccio destro di don Cesare Curioni, cappellano delle carceri che gestì la trattativa umanitaria voluta da Papa Paolo VI per cercare di salvare la vita al leader democristiano.
(22. il sito del film con indicazione delle prossime proiezioni)
Monsignor Fabbri, scomparso un anno fa, fu un testimone chiave del caso Moro e dichiarò spesso di essere portatore di segreti che non poteva rivelare. Oltre a molte indicibili novità dal punto di vista storico e politico che riguardano in particolare la fine di Moro la tesi di fondo del film è che la rimozione della vicenda ha bloccato l’Italia togliendo libertà e sovranità alla nostra classe politica, che da allora non può più aspirare a grandi disegni di rinnovamento e si deve accontentare del piccolo cabotaggio in uno spazio di manovra decisamente ridotto
Un destino terribile per il nostro Paese
beemagazine.it
La strage di via Fani 45 anni fa: l'identikit del killer senza volto. Atletico e con un passamontagna nero: il mistero del membro 'esterno' del commando. Marcello Altamura il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.
Un killer professionista, dal fisico atletico e dalla assoluta padronanza delle armi, che usa un passamontagna per celare persino agli altri membri del commando la sua identità. Un killer professionista che ‘risolve’ l’azione di via Fani uccidendo l’agente Iozzino. A 45 anni di distanza dal rapimento di Aldo Moro e dall’agguato che costò la vita ai cinque uomini della scorta (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera), la figura del killer travisato resta sfuggente e, soprattutto, senza identità.
Eppure, sin dalle prime testimonianze successive all’agguato del 16 marzo 1978 la sua figura è ben delineata. Ne parlano, ad esempio, Tullio Moscardi e la moglie Maria Iannaccone, residenti in via Fani 109: i due lo descrivono come “un uomo travisato con una specie di passamontagna di colore nero, alto mt. 1.80 – forse anche di più – con fisico atletico, vestiva un abito tipo ‘tuta’ molto attillato di colore nero (dunque, non una divisa come quella dei quattro brigatisti che sparavano davanti al bar Olivetti, n.d.r.), con una specie di mascherina sugli occhi di colore rosso (in realtà è una riga rossa sul passamontagna proprio in corrispondenza degli oggi, n.d.r.), armato di mitra”.
Anche un altro testimone, Paolo Pistolesi, che al tempo aveva un’edicola in via Fani parla di un individuo che “indossava un passamontagna nero con una striscia rossa al centro, si trattava di un passamontagna del tipo da ‘motociclista’, che lascia scoperto solamente gli occhi (…) ricordo che doveva indossare qualcosa di scuro”. Il testimone precisa di aver visto “benissimo che impugnava un mitra, mi sembra col braccio destro; lo impugnava, nel momento in cui io l’ho visto, tenendolo rivolto verso l’alto e, muovendo lo stesso braccio, faceva cenno alle macchine che sopraggiungevano di tornare indietro e di allontanarsi. Ad un certo punto, poi, si è rivolto verso di me e, impugnando sempre il mitra, ha fatto cenno di allontanarmi, quindi ha abbassato il mitra nella mia direzione; a quel punto io mi sono buttato dietro una macchina ed ho sentito, senza vedere, una raffica (con ogni evidenza è quell’ultima breve raffica contro l’ingegner Alessandro Marini a bordo del suo ciclomotore, n.d.r.)”.
Anche un’altra testimone, Lina Procopio, ascoltata nell’immediatezza dal Nucleo Operativo dei carabinieri della Compagnia Roma-Trionfale, riferisce di aver visto “quattro persone in divisa di colore bleu scuro con i relativi berretti, che stavano sparando con i mitra” mentre “un’altra persona travisata con passamontagna armata di mitra teneva a bada i passanti”.
Decisiva però per mettere a fuoco il killer col passamontagna è un’altra testimone, Lina Cinzia De Andreis. Ascoltata il 24 marzo 1978 dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Roma, la donna racconta di essersi trovata, il 16 marzo 1978, in via Stresa proprio di fronte al bar Olivetti di via Mario Fani, dove si ferma per accendersi una sigaretta. “Mentre cercavo le sigarette nella mia borsa notavo ferma all’angolo di via Stresa un’autovettura Fiat 128 di colore bianco targata CD in posizione di marcia verso via Mario Fani. Notavo altresì all’interno tre persone, e mentre accendevo la sigaretta guardavo al lato opposto a quello ove mi trovavo notando un uomo dall’apparente età di 30-35 anni. Questi indossava un berretto tipo coppola, un giubbotto nero di pelle e pantaloni stesso colore e sentendosi osservato mi ha guardato in modo torvo ”.
Dunque, a via Fani, oltre ai quattro brigatisti vestiti da avieri (Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli), c’era anche almeno un quinto elemento del commando, un killer atletico, vestito in maniera differente dagli avieri e che ha tutta l’aria di essere un ‘esterno’. Non si può fare a meno di ripensare, dunque, al verbale del brigatista pentito Michele Galati del 1982, già anticipato ad agosto dal IlGiornale.it, che riferisce di una frase pronunciata da Mario Moretti in occasione della pianificazione di una rapina nel novembre ‘79 a Venezia: “Anche a Via Fani uno ci era scappato (cioè Iozzino), ma quelli di riserva lo hanno steso”.
Era dunque l’uomo col passamontagna “quello di riserva” che al momento dell’agguato, accucciatosi dietro la Mini Cooper verde del Moscardi, falciò il povero agente Iozzino? E come mai a 45 anni di distanza non ha ancora una identità? In realtà già nel 1978, proprio dalle indicazioni della De Andreis, i Carabinieri realizzarono un identikit che Il Giornale.it mostra in anteprima, di quell’uomo dell’apparente età di 30-35 anni e vestito con giubbotto e pantaloni neri di pelle: - “altezza 1.80-1.82”; - “occhi scuri a mandorla”; - “corporatura massiccia”; - “labbra carnose”; - “naso grosso e pronunciato”; - “orecchie grosse sporgenti”.
Tuttavia quella pista allora venne inopinatamente abbandonata. E anche nel corso del primo processo Moro, la De Andreis venne brevemente sentita e, di fatto, liquidata. Eppure la sua testimonianza aveva reso possibile una ricostruzione del ruolo nella strage dell’uomo che, a viso scoperto sul marciapiede antistante il bar Olivetti poco prima che iniziasse la sparatoria, indossa dopo il passamontagna nero con riga rossa centrale per non correre il rischio di essere riconosciuto. Lo stesso uomo che, durante l’azione ma subito dopo la sparatoria, viene avvistato nella parte più alta di via Fani da ben quattro testimoni, armato di una mitraglietta. Un killer che, prima spara contro la Fiat 130 e l’Alfetta riparandosi dietro alla Mini Cooper verde parcheggiata sul lato sinistro di via Fani e poi, spostandosi repentinamente verso la 128 bianca del cancelletto posteriore messa dietro l’Alfetta, fa fuoco sempre accucciato contro Zizzi che infatti viene colpito alla schiena da tre colpi dal basso verso l’alto.
È lui, probabilmente, che la testimone Cristina Damiani ancora nel 2022, vede impugnare la canna che spunta dietro la Mini Cooper che, come rivelato da Il Giornale.it, presenta un foro di proiettile sulla targa che per 45 anni è stato del tutto ignorato. Ed è a lui, piuttosto che ai quattro avieri, che l’agente Iozzino spara due colpi di pistola, intuendone la pericolosità.
Un killer che, a tutt’oggi, è ancora senza volto. L’identikit ha tratti di somiglianza con Giustino De Vuono, ex legionario e ’ndranghetista calabrese, sospettato di aver avuto un ruolo nella strage, ma la descrizione fisica, soprattutto quella relativa all’altezza e alla copertura atletica, non coincidono. C’è però una suggestione con quelle “labbra carnose” e quel “naso grosso e pronunciato” oltre che con l’altezza l’età e l’atleticità descritti dalla testimone De Andreis. Una suggestione che rimanda proprio alla Calabria e alla fisionomia di un uomo ex poliziotto e dalla vita misteriosa, che recentemente è stato associato a molti misteri italiani. Sono queste le ulteriori circostanze su cui le indagini in corso potrebbero fare definitivamente luce, come suggerito dai fratelli Giovanni e Paolo Ricci, figli di Domenico, difesi dall’avvocato Nicola Brigida.
Nonostante i tanti punti oscuri, a 45 anni dalla strage il ricordo è più vivo che mai. Lo testimonia l’iniziativa “Musica per la Memoria”, l’evento organizzato e promosso dall'Associazione Domenico Ricci per la memoria dei Caduti di via Fani, un concerto per non dimenticare le vittime del terrorismo delle forze dell’ordine liberamente ispirato dal libro “Anni Bui” di Salvatore Lordi e in programma a Roma, all’Acquario Romano.
L'ultimo giallo di via Fani, un foro nella targa di un'auto. La foto esclusiva. Repertato ma ignorato: si riapre il caso degli spari da destra per il rapimento del presidente della Dc nel marzo '78. Marcello Altamura il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
A 45 anni di distanza, la strage di via Fani, avvenuta il 16 marzo 1978, in cui furono sterminati i cinque uomini della scorta e rapito il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, ha ancora molti punti oscuri. Nonostante sei processi e un’indagine ancora in corso presso la procura di Roma, non sono chiari molti aspetti della vicenda, a cominciare dal numero dei componenti del commando che agì quella tragica mattina. Tra i dettagli rimasti oscuri a lungo, e che potrebbe cambiare la ricostruzione fino a qui data per ufficiale sul numero di sparatori presenti quel giorno, c'è il foro di un proiettile nella targa di un'auto parcheggiata non lontano dal luogo del rapimento. E che il Giornale.it è in grado di mostrare con una foto esclusiva:
In via Fani, secondo le sentenze definitive, le perizie e secondo il memoriale del brigatista Valerio Morucci avrebbero fatto fuoco soltanto quattro uomini: lo stesso Morucci, fornito di un FNA43 cal. 9 parabellum; Raffaele Fiore, che impugnava un MP12 cal. 9 parabellum; Prospero Gallinari, munito di un TZ45 cal. 9 parabellum; Franco Bonisoli, munito di un altro FNA43 cal. 9 parabellum o di un’arma similare. Gallinari e Bonisoli disponevano poi di un’arma corta (rispettivamente di una Smith & Wesson cal. 9 parabellum e una Beretta 51 calibro cal. 7.65) e i quattro brigatisti, travestiti da avieri, avevano il compito di attaccare le due auto, posizionati sul lato sinistro e spuntati da dietro le piante ornamentali del bar Olivetti, che si trovava proprio all’incrocio di via Fani.
Pur essendo negli anni emerse evidenze di molti bossoli rinvenuti in posizioni incongrue rispetto alla versione ufficiale, i brigatisti hanno sempre negato la presenza di altri sparatori. Una versione smentita, però, dalla relazione approvata dalla Commissione Antimafia del settembre 2022, elaborata da un gruppo di lavoro presieduto dall’on. Stefania Ascari e con il contributo del consulente Guido Salvini, il magistrato più competente ed esperto in tema di eversione. Nel documento, infatti, è spiegato chiaramente come sia inverosimile che, una volta inceppatosi il suo mitra, Bonisoli si sarebbe spostato più in su a destra e in diagonale, facendo poi un salto all’indietro per retrocedere sino al marciapiede e nascondersi dietro un’auto, una Mini Cooper verde parcheggiata su quello stesso lato sinistro, per poi ridiscendere verso l’Alfetta di scorta aggirandola e continuare a sparare con la 7.65 spostandosi lungo il lato destro di via Fani, opposto al bar Olivetti.
Ma perché i brigatisti sostengono una tesi così inverosimile? Per ‘coprire’, è anche la conclusione della relazione della Commissione Antimafia, gli spari provenienti da dietro quella Mini Cooper verde. Che sono, invece, oggettivi. E la prova, che Il Giornale.it può svelare in anteprima, è non solo la testimonianza riattualizzata dalla Commissione Antimafia di una ineccepibile testimone oculare di quel tempo (Cristina Damiani) ma anche un foro di proiettile sulla targa di quella stessa Mini Cooper verde targata Roma T32330.
L’auto, di proprietà di Tullio Moscardi, residente in via Fani 109 ed ex appartenente alla X-Mas del principe Borghese, al momento dell’agguato era in sosta una decina-quindicina di metri più in su rispetto all’Alfetta bianca di scorta. Pur repertato, come dimostra la foto che Il Giornale.it pubblica in anteprima, il foro sulla targa della Mini Cooper all’altezza dello 0, è stato ignorato, e messo in evidenza dopo oltre 40 anni in una memoria dall’avvocato Nicola Brigida, difensore di Giovanni e Paolo Ricci, figli di Domenico, l’appuntato dei Carabinieri che era l’autista di Aldo Moro, ucciso proprio in via Fani.
Ma perché è importante il particolare del foro nella targa? Perché dimostra con ogni evidenza, nonostante i brigatisti dicano il contrario, che c’era almeno un altro misterioso killer accucciato dietro quella macchina contro cui il valoroso agente Iozzino sceso dall’Alfetta ha tirato almeno uno dei due colpi dalla sua Beretta 92-S anziché sparare ai quattro assalitori dinanzi a sé.
Ascoltata nell’immediatezza dei fatti, il 26 marzo 1978 e poi ancora il successivo 17 maggio 1978, Cristina Damiani, testimone molto attendibile all'epoca giovane studentessa poi divenuta architetto e quindi molto attenta agli spazi e alla dinamica delle scene, racconta che mentre stava percorrendo a piedi via Fani verso via Trionfale aveva sentito “distintamente” alle sue spalle “una leggera frenata seguita da un rumore come di tamponamento e quindi un colpo isolato di arma da fuoco”. Istintivamente si era abbassata ed in quel momento aveva inteso “una raffica di colpi di tonalità diversa a cui si sovrapposero altre raffiche ripetute”. Dal suo punto di osservazione, era stata in grado di distinguere “una canna di arma da fuoco lunga circa 30 centimetri spuntare da dietro una vettura parcheggiata davanti al bar Olivetti”: e l’unica macchina ad essere posizionata in quel punto è solo la Mini Cooper verde di Moscardi.
Non solo: la Damiani aggiunge che la canna spuntava da un’altezza leggermente superiore a quella della metà della vettura (dunque, lo sparatore era accucciato) e che da essa, in direzione delle auto ferme (l’Alfetta e la 130), uscivano delle vampate di fuoco. Successivamente aveva poi visto cadere esanime l’agente Raffaele Iozzino, membro della scorta di Moro, che viaggiava sull’Alfetta.
Un ricordo nitido, quello della Damiani, ribadito anche ad oltre 40 anni di distanza, l’11 maggio 2022. Nella testimonianza alla Commissione Antimafia, che Il Giornale.it presenta qui in anteprima, la donna ha ribadito che, appena sentito il rumore degli spari, si era riparata dietro una vettura in sosta sul lato destro di via Fani ed attraverso i vetri, aveva visto nitidamente spuntare da una utilitaria, non può che essere proprio la Mini Cooper verde, parcheggiata sul lato opposto, una canna di mitra piuttosto corta da cui uscivano le vampate. La canna, racconta ancora la Damiani, si trovava a metà altezza tra il cofano e il tettuccio. Dalla posizione dell’arma, si deduce che almeno uno sparatore si trovava accucciato proprio dietro la vettura. Nella testimonianza del 2022 la Damiani precisa di non essere riuscita a vedere il corpo o la fisionomia di chi imbracciava l’arma, ma ribadisce di aver avuto la netta sensazione che proprio da quella canna dietro l’auto in sosta fossero partiti i colpi fatali che hanno ucciso l’agente Iozzino, che infatti la Damiani vede scendere dal sedile posteriore dell’Alfetta di scorta.
A via Fani, dunque, c’erano anche altri spari, più in su e a destra rispetto ai quattro bierre posizionati di fronte alla 130 e all’Alfetta. E infatti, contraddicendo ancora una volta i brigatisti, la Damiani nella sua testimonianza alla Commissione Antimafia, esclude con certezza che colui che aveva sparato dietro la vettura in sosta avesse attraversato la strada per unirsi alle altre persone che si trovavano intorno alle vetture ferme più in basso. Lo sparatore sconosciuto si era quindi “dileguato autonomamente” rispetto agli altri aggressori che si trovavano nella parte più bassa di via Fani. Aggressori che, dice la donna, erano non meno di sei e non tutti vestiti da avieri. Un’altra menzogna smascherata di una storia che resta oscura anche a 45 anni di distanza.
Del resto, come già anticipato ad agosto dal IlGiornale.it, è stato proprio Mario Moretti, presente in via Fani ma, secondo la versione dei brigatisti, solo al volante della Fiat 128 che sbarrò la strada all'auto a bordo della quale viaggiava Moro, come testimoniato dal brigatista pentito Michele Galati nell’82 al giudice Priore, in occasione della pianificazione di una rapina nel novembre ‘79 a Venezia, a dire: “Anche a Via Fani uno ci era scappato (cioè Iozzino), ma quelli di riserva lo hanno steso”.
Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per repubblica.it il 21 gennaio 2023.
[..]
La commissione antimafia è partita dai risultati della seconda Commissione Moro, effettuando degli approfondimenti e cercando di colmare i troppi vuoti ancora presenti tanto sull'agguato quanto sulla successiva detenzione dell'esponente della Democrazia Cristiana, ipotizzando appunto un coinvolgimento nella vicenda della criminalità organizzata calabrese, della camorra di Raffaele Cutolo e della Banda della Magliana. Un'attività che ha portato i commissari ad ottenere per la prima volta una "precisa e leggibile planimetria della scena dei fatti", realizzata dalla polizia scientifica e determinante per le audizioni, unita "ad apposite rappresentazioni tridimensionali".
L'Antimafia ha inoltre ascoltato nuovamente Franco Bonisoli, appartenente sin dall’inizio alla colonna milanese delle Brigate Rosse, presente all’attacco del 16 marzo 1978, che da tempo ha finito di scontare la pena e che è considerato un uomo del tutto "recuperato", tanto che ha anche "avuto un dialogo e uno stretto rapporto con Agnese Moro, Vittorio Bachelet e i familiari di altre vittime".
[...] L'Antimafia ha poi considerato che vi fosse, con altissima probabilità, sul lato destro di via Fani un soggetto, sempre a copertura dei quattro avieri, che ha freddato con tre colpi alle spalle il brigadiere Francesco Zizzi, e che vi fossero, quantomeno con un ruolo di appoggio, due soggetti a bordo di una moto Honda.
Ecco dunque anche l'attività che, più nello specifico, avrebbe svolto il crimine organizzato. La commissione ha audito l'ex boss Maurizio Abbatino, della Banda della Magliana, "Crispino", noto per la fiction "Romanzo Criminale" come "Il Freddo". Abbatino ha riferito che era pervenuta alla Banda una richiesta di Raffaele Cutolo, tramite Nicolino Selis che era detenuto con lui e aveva usufruito di una licenza. di interessarsi del sequestro dell’onorevole Moro. Ha aggiunto che era stato stabilito un contatto con l’onorevole Flaminio Piccoli, esponente dei dorotei e in quel momento presidente della Dc, e che aveva assistito a distanza a un incontro tra l’esponente democristiano e Franco Giuseppucci, uno dei fondatori della Banda, sul Lungotevere, specificando che, al termine dell’incontro, aveva saputo che il compito del gruppo criminale romano sarebbe stato quello di individuare il luogo dove Moro era tenuto in ostaggio.
"Crispino" ha pure detto di aver detto a Giuseppucci che a lui non interessava una collaborazione simile, ma che lo stesso Giuseppucci gli aveva risposto: "Se riusciamo a fare una cosa del genere ci possiamo dimenticare di andare in carcere". Abbatino ha infine affermato che Giuseppucci aveva individuato l’appartamento che si trovava in via Montalcini, in zona Portuense, e che l’informazione era stata passata a Selis, "che l’avrebbe a sua volta girata a Raffaele Cutolo, il quale verosimilmente avrebbe informato l’onorevole Flaminio Piccoli".
[...]
Infine le valutazioni sul possibile ruolo nell'agguato di Giustino De Vuono, calabrese, arruolatosi giovanissimo nella Legione straniera francese, legato alla criminalità organizzata e con un vasto curriculum di reati comuni, ma anche responsabile del rapimento dell’ingegner Carlo Saronio, maturato nell’ambito dell’Autonomia operaia. "De Vuono - sostiene l'Antimafia - è stato indicato, sin dalle prime ore successive all’avvenuto sequestro, come implicato nell’operazione del rapimento dell’onorevole Moro, in veste di elemento di appoggio alle Brigate Rosse. In seguito, è stato considerato anche come soggetto eventualmente coinvolto nella tragica conclusione della vicenda".
Un'ipotesi in cui pesa l’appunto esaminato dalla seconda Commissione Moro, inviato dal Centro informativo della Guardia di Finanza di Roma al Ministero dell’Interno già la sera del 17 marzo 1978, in cui venivano riferite le notizie acquisite da "una fonte confidenziale degna di fede", che aveva riferito circa la presenza di De Vuono, insieme a Lauro Azzolini e Rocco Micaletto, in quei giorni nella capitale e rendeva nota la probabile detenzione del sequestrato in una prima prigione munita di un garage, collocata a breve distanza da via Fani. Senza contare i tanti elementi comuni tra quell'appunto e quanto scritto il 16 gennaio 1979 dal giornalista Mino Pecorelli sul bollettino della sua agenzia Osservatorio Politico:
"L’articolo "Vergogna buffoni", dedicato proprio al sequestro Moro, si conclude con la frase, enigmatica ma indicativa: Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio. L’indicazione del "legionario" non può che riferirsi a De Vuono, che aveva militato in gioventù nella Legione straniera francese, mentre "Maurizio" era il nome di battaglia di Mario Moretti, poi condannato tra gli esecutori materiali dell’omicidio dello statista. Mino Pecorelli aveva ottimi contatti con i servizi di informazione ed il suo articolo sembra dimostrare che questi apparati, non molto tempo dopo i fatti e persino nei 55 giorni del sequestro, disponessero di importanti elementi di conoscenza in merito ai punti critici dell’intera vicenda". Per i commissari le possibili "terze presenze" nella vicenda Moro non erano dunque solo quelle della criminalità organizzata.
L'auspicio della Commissione è ora quello che nuovi elementi emersi e ipotesi fatte possano essere utili per le indagini ancora aperte presso la Procura e la Procura Generale di Roma.
Da corriere.it il 18 gennaio 2023.
Caro Aldo,
il generale Dalla Chiesa è stato un grande esempio di uomo mosso da una profonda fedeltà e fiducia nelle istituzioni, ha lasciato una eredità morale di servitore dello Stato, a difesa dei valori della giustizia, democrazia e legalità. La fiction lo celebra degnamente.
Benigno Prete
Ho appena finito di vedere ciò che ritengo un capolavoro, lo sceneggiato dedicato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Dovrebbero utilizzare questo lavoro nelle scuole, per far conoscere la nostra storia ai ragazzi e far percepire l’abnegazione, fino all’ultimo sacrificio, di uomini e donne per questa nostra Italia.
Michele De Gruttola
Risponde Aldo Cazzullo – da il Corriere della Sera
Cari lettori,
Anche a me «Il nostro generale», la fiction su Carlo Alberto Dalla Chiesa, è piaciuta; e gli ottimi ascolti non erano affatto scontati, visto che si raccontava la storia di un uomo uscito tragicamente di scena quarant’anni fa, che tanti tra i nostri ragazzi non avevano mai sentito nominare. Qualcuno non ha apprezzato le frecciate «antipolitiche» messe in bocca al generale. Ma se c’è qualcuno che ha avuto — purtroppo — ottime ragioni per lamentarsi della politica è proprio Dalla Chiesa.
Le Brigate Rosse non furono certo un tassello della strategia della tensione, nacquero dai gruppi della sinistra extraparlamentare; ma lo stesso Cossiga ammise che fu imperdonabile non stroncarle sul nascere, e in particolare le incertezze e le esitazioni tra l’arresto di Curcio e Franceschini (1974) e l’escalation di sangue sotto la guida di Moretti. La questione del ritrovamento a rate del memoriale di Moro in via Monte Nevoso passò sopra la testa di Dalla Chiesa; era in corso una faida nel potere italiano, e un generale dei carabinieri non poteva certo muoversi come il capo di una giunta militare, alla politica doveva rendere conto.
Soprattutto, Dalla Chiesa fu mandato a Palermo a morire. Isolato, delegittimato, abbandonato. L’intervista a Giorgio Bocca è lì a confermarlo. Il grande giornalista raccontò come fosse entrato nella stanza del generale senza essere fermato da nessuno, senza un controllo di identità, senza una perquisizione; e come poi al ristorante l’uomo che doveva salvare Palermo dalla mafia venisse guardato con sospetto, se non con fastidio. Un po’ tutti hanno riconosciuto i meriti dei produttori della fiction (Stand by me di Simona Ercolani e Rai fiction di Maria Pia Ammirati). Una parola andrebbe aggiunta su Sergio Castellitto: un attore straordinario, capace di diventare Boccaccio e padre Pio, il re malvagio di Narnia e il grande Fausto Coppi.
Dalla Chiesa e la fiction tv che fa torto al generale.
Sergio Castellitto interpreta il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
Il Prefetto sosteneva l'adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, ma ne avvertiva anche il rischio. Francesco Damato su Il Dubbio il 25 gennaio 2023
Ho molto esitato prima di decidermi a scrivere della fiction televisiva sul prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa morto sul campo della lotta alla mafia, “Il nostro generale”, sentendomi un po’ parte in causa per il torto che ritengo gli sia stato fatto. E ciò pur tra i tanti meriti giustamente riconosciutigli, specie quelli acquisti nella lotta alle brigate rosse e poi sommersi, nella memoria, dalle emozioni per il tragico esito della sua ultima missione al servizio dello Stato.
Mi sono alla fine deciso a scriverne con un compromesso con me stesso: quello di non raccontare come e perché sono parte interessata all’omissione che ho avvertito nella ricostruzione degli ultimi mesi, direi anche giorni di vita del generale. Che non furono contrassegnati soltanto dagli incresciosi rapporti polemici col ministro democristiano dell’Interno Virginio Rognoni, un po’ renitente ai maggiori poteri che il prefetto rivendicava per svolgere al massimo delle sue capacità le funzioni finalizzate alla lotta alla mafia. Nei cui riguardi il generale temeva di apparire debole, nonostante il prestigio di cui godeva nel Paese: debole, ripeto, ma soprattutto solo. Che è la condizione peggiore in cui si possa trovare un combattente contro la criminalità organizzata di quel tipo.
In questa ricerca persino “ossessiva” di maggiori poteri - come una volta si lasciò scappare lo stesso Rognoni parlandone col presidente del Consiglio Giovanni Spadolini - il prefetto chiese ed ottenne anche l’aiuto mediatico di Giorgio Bocca con quell’intervista a Repubblica opportunamente ricostruita e valorizzata nella fiction televisiva. Che, purtroppo per il generale, finì però per ottenere l’effetto opposto a Roma perché al Viminale ebbero la sensazione di un eccesso di personalizzazione del problema.
Ebbene, proprio in quei giorni, e in quelli immediatamente successivi, oltre che per i suoi poteri personali e per le misure legislative che avrebbero dovuto supportarli, il generale si prodigò perché fosse sperimentata un’applicazione alla lotta alla mafia della legislazione cosiddetta premiale adottata con successo nella lotta al terrorismo. Che non si sarebbe certamente vinta senza il contributo dei pentiti, a cominciare dal più famoso che fu Patrizio Peci. Il quale peraltro, destinato a perdere barbaramente per ritorsione il fratello Roberto, era stato convinto a parlare proprio dal generale dalla Chiesa. Che si vantava di averlo convinto, dopo la cattura, parlandogli - diceva ai sottoposti - “da militare a militare”. E rivelandogli le scorrettezze e persino i tradimenti riservatigli dai compagni di lotta.
Nel sostenere l’adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, sopraggiunta di molto alla morte del generale ma completamente ignorata nella fiction televisiva chissà per quale ragione, il prefetto avvertiva tuttavia il rischio - date le diverse condizioni sociali in cui i due fenomeni si erano sviluppati e operavano, i terroristi peraltro tenendosi ben lontani dalla Sicilia - di non ripetere l’esperienza di chi, pur avendo parlato senza legislazione premiale, era finito in manicomio. E il prefetto ne fece anche il nome: il palermitano Leonardo Vitale, consegnatosi nel 1973, all’età di 32 anni, nelle mani dell’allora commissario di Polizia Bruno Contrada confessando due omicidi e il tentativo di un terzo.
Il primo pentito di mafia consentì con le sue rivelazioni una quarantina di arresti, ma il processo o i processi che ne conseguirono si conclusero fallimentarmente per lui. Gli accusati furono assolti per l’ancora fortissima omertà che copriva i mafiosi, e lui condannato a 25 anni di carcere, in gran parte scontati in manicomi criminali perché considerato pazzo.
L’ultima detenzione di Vitale, proveniente da Barcellona Pozzo di Gotto, fu a Parma. Da dove uscì nel 1984, circa due anni dopo l’assassinio del prefetto di Palermo. Ma ne uscì per poco perché la mafia si vendicò del suo ormai lontano tradimento, dagli effetti giudiziari peraltro contenuti, uccidendolo il 12 dicembre, prima che l’anno della liberazione passasse. Fu un’esecuzione di pena per la vittima, in applicazione delle leggi della mafia, e un avvertimento per gli altri intenzionati ad avvalersi delle norme premiali avvertite come probabili e sostenute dal generale. Che però aveva saputo seminare abbastanza nel pur poco tempo trascorso a Palermo da prefetto, e ancor più altrove nella lotta al terrorismo, per far crescere il pentitismo, pur nelle degenerazioni prodotte - bisogna ammetterlo - da una cattiva gestione del fenomeno. All’ombra del quale, con uomini ben diversi dalla stazza morale di Carlo Alberto dalla Chiesa, sono accadute nell’intreccio fra politica e mafia, o fra cronache giudiziarie e politiche, cose da pazzi: di una follia vera, non quella attribuita al povero Leonardo Vitale.
"Basta associare papà solo alla lotta alla mafia. Sconfisse anche le Br". Paolo Guzzanti su Il Giornale il 3 Gennaio 2023
La figlia del generale Carlo Alberto: "La sua azione contro i terroristi è rimasta invisibile"
Non c'è nulla di peggio degli anniversari per banalizzare la memoria. Per fortuna esiste il caso opposto: quello del recupero della memoria, un filmato che non è una fiction, ma piuttosto un docufilm, interpretato per di più da attori come Sergio Castellitto e tanti altri, bravissimi nel riprodurre non una somiglianza ma una memoria. È accaduto. (La serie Il nostro generale andrà in onda su RaiUno dal prossimo 9 gennaio).
Quaranta anni fa il generarle Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Manuela Setti Carraro furono barbaramente assassinati a Palermo da Cosa Nostra. Da allora il Generale è salito sul palco degli eroi della guerra alla mafia. Ma Dalla Chiesa è stato prima di tutto il comandante in capo, unico e vittorioso, del Gruppo antiterrorismo dei carabinieri che accettarono di abbandonare la vita civile rinunciando a mogli e fidanzate per combattere e vincere la guerra dello Stato contro le sedicenti «Brigate rosse per il comunismo».
La figlia Rita oggi dice: «In questi anni io e la mia famiglia abbiamo spesso assistito, increduli e sgomenti a interpretazioni romantiche dei brigatisti, ritratti come ingenui idealisti oppure, nel peggiore dei casi, come vittime di un sistema politico che li manipolava». Ed è stato esattamente così: chi c'era e ricorda, sa che i brigatisti formavano una banda armata di carnefici, in parte certamente eteroguidati dal sistema sovietico (ho personalmente raccolto le dichiarazioni del Procuratore capo di Budapest nel 2006), uccidevano sparando alle spalle dei cittadini inermi, in nome di una narcisistica ideologia sanguinaria.
«È così ricorda Rita dalla Chiesa - venivano coccolati da un certo tipo di sinistra che li accoglieva nei salotti, li nascondeva nelle seconde case e arricciava il naso di fronte ai Gruppi Antiterrorismo di mio padre. Noi l'abbiamo proprio vissuta sulla nostra pelle questa ingiustizia perché, dopo mio padre, ho perso mia mamma, morta d'infarto a cinquantadue anni senza avere neanche avuto funerali decenti, dal momento che ci tenevano in caserma per proteggerci e non si poteva uscire».
Che cosa ricorda di quella mesta cerimonia di addio in un garage di una caserma?
«Ricordo carabinieri che aprivano le corone e distruggevano i fiori per assicurarsi che non ci fosse nascosto un ordigno. Non abbiamo avuto il tempo di piangere nemmeno mio padre ucciso dalla mafia. C'è gente secondo cui noi, i figli del generale, tutto sommato non ce la siamo cavata malissimo, tant'è che abbiamo raggiunto comunque posizioni. È una offensiva sciocchezza: quando uccisero papà io ero già una giornalista professionista, mio fratello Nando era professore universitario e nostra sorella consigliere comunale».
Lei ha dichiarato ieri che la memoria di suo padre è ostaggio dell'ambiguità politica. A che cosa si riferisce?
«Mi riferisco al fatto che non riuscendo a fare i conti con il proprio passato c'è una politica che ricorda quello che le fa comodo».
Insomma secondo lei i partiti di sinistra fingono di non ricordare la guerra vinta da suo padre contro i terroristi di sinistra e lo usano soltanto come icona antimafia?
«Non credo che sia un caso che la figura di mio padre sia più associata alla lotta alla mafia che non alla sua vittoria sui brigatisti rossi. Se fosse vero vorrebbe dire che un martire della criminalità organizzata è meno divisivo di colui che ha sconfitto le Brigate Rosse».
Ma qual è stato secondo lei il motivo reale, la causa immediata dell'uccisione di suo padre?
«L'arrivo del ministro Rino Formica a Palermo, quando annunciò una restaurazione della trasparenza. E questa affermazione ha esposto mio padre, già odiato da quando era tornato in Sicilia perché aveva sovvertito l'ordine naturale mafioso, fondato sulla trasversalità degli amici degli amici, i favori degli amici degli amici cui ti rivolgi per cose anche minime come una patente».
Beh, c'è una certa differenza fra i favoritismi e la mafia vera e propria.
«Da questo mercato di favori discende la non trasparenza nelle banche in cui sarebbero arrivate montagne di soldi da gestirsi fra amici e amici degli amici. Era il pericolo vero. E lo abbiamo visto materializzarsi proprio il giorno della morte del generale, quando decollò un aereo da Palermo diretto a New York: un volo mai esistito, salvo la sera in cui hanno ucciso mio padre».
Lei ha suggerito il modello del docufilm a Simona Ercolani che all'inizio pensava a una fiction e che lei ha poi ha convinto a convertire in un documento che, con l'aiuto di grandi attori, è ora un manuale di storia.
«All'inizio la Rai voleva fare una fiction e io ho detto di no: se ne sono già fatte due. Poi ho guardato Simona e ho detto: a meno che non vogliate parlare in questa serie soltanto degli anni di piombo, che non erano mai stati toccati se non in modo impreciso e provvisorio. Simona ha sposato immediatamente l'idea, perché è vero: degli anni di piombo e del terrorismo rosso non si parla mai. Ricordo quando mi resi conto che l'intero significato della vita e della morte di Dalla Chiesa era centrato tutto e soltanto sulla mafia siciliana, rendeva invisibile tutto ciò che mio padre aveva fatto lottando contro la cattiva politica e i cattivi maestri che fiancheggiarono il terrorismo delle Brigate Rosse».
E l'esercito quasi clandestino che usò suo padre?
«Questo è un film specialmente su questi ragazzi che non hanno mai avuto un nome vero, ma solo i soprannomi che gli aveva dato mio padre. Ieri mi ha scritto Trucido, e io Trucido non so come si chiami, perché per me è sempre e soltanto Trucido, anche sul mio cellulare. E questi ragazzi avevano lasciato le loro famiglie e le loro fidanzate per lavorare con papà: la loro è una grande storia, per la dedizione e l'amore che avevano per mio padre e l'amore che papà aveva per loro. La generazione che è arrivata dopo non può avere memoria di ciò che non ha vissuto».
È stato insomma un bel lavoro di squadra.
«E voglio ringraziare tutti gli attori, a partire da Castellitto, che hanno interpretato la nostra vita. Lui mi ha detto subito: Rita io non voglio somigliare fisicamente a tuo padre, ma voglio che mi racconti quello che lui aveva dentro, perché solo in questo modo io riesco a riviverlo per gli altri. E lo stesso vale per la persona che ha interpretato mia mamma, Teresa Saponangelo, un'attrice napoletana bravissima. Io le ho le ho raccontato di mamma e mi sono commossa, ho visto lo sforzo che hanno fatto e ho potuto apprezzare una casa di produzione che si è presa in carico la nostra vita, mia e dei miei fratelli, e ne è venuto fuori quel pezzo di storia che in Italia tutti dovrebbero conoscere. Questo docufilm può essere additato come esempio di ciò che andrebbe fatto per raccontare l'Italia, perché la memoria non si può costruire, la memoria non si può imporre, ma si possono fornire gli strumenti per formarla. Quando con Simona ne abbiamo parlato, le ho detto: beh beati voi che avete fatto una cosa su un pezzo della storia in Italia. E questo potrebbe davvero essere un punto di partenza per la ricostruzione della memoria, per dare consapevolezza alle nuove generazioni, visto che da loro si pretende il rispetto della memoria».
Al Ministero dei Trasporti è sparito l’archivio sulle stragi e gli anni della strategia della tensione. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 14 gennaio 2023.
Al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sono spariti i documenti riguardanti il periodo più sanguinoso delle stragi, compreso tra il 1968 e il 1980. In particolare, a mancare è tutta la documentazione del ministro e del suo Gabinetto. La conferma arriva direttamente dalla sottosegretaria del Mit Fausta Bergamotto (FdI) la quale, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha ammesso che, anche a seguito delle ispezioni effettuate da delegazioni del ministero stesso, della documentazione non vi è traccia.
A denunciare il fatto era stata la presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Daria Bonfietti, in un articolo redatto per il manifesto, nel quale sottolineava come «ci si trovi totalmente fuori da ogni applicazione della legislazione esistente sulla conservazione e trasmissione agli Archivi di Stato della documentazione delle Amministrazioni Pubbliche». L’emersione di un fatto di tale gravità arriva al termine di un percorso, iniziato nel 2014 grazie a una direttiva di Renzi, di desecretazione dei documenti relativi alle stragi avvenute tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80 e che aveva già dimostrato «l’inadeguatezza del materiale reso disponibile» dai ministeri. «Bisogna ricordare – aggiunge Bonfietti – che l’insufficienza della documentazione è sempre stata al centro delle critiche e delle denunce delle Associazioni, ed è stato negli anni la causa del contendere all’interno del Comitato nei confronti con le Amministrazioni. Una continua disputa-scontro tra carte mancanti, elenchi di nominativi non consegnati, carte clamorosamente censurate, intere parti coperte con vistose cancellature proprio nel momento della loro desecretazioni».
Bonfietti cita quindi un documento del 12 ottobre 2022, ovvero la relazione annuale del Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio Centrale dello Stato. All’interno del documento si legge che, tra i vari sottogruppi che compongono il Comitato, quello che “ha dovuto affrontare maggiori problematiche è stato quello relativo al Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. I versamenti effettuati da quest’ultimo negli anni presentano una sostanziale lacunosità sia per la scarsità di documenti versati sia per la totale assenza di documentazione coeva alle stragi interessate dalla Direttiva del 2014. Queste problematiche non derivano certo da una mancanza di collaborazione ma sono imputabili spesso a una scarsa cura nei decenni trascorsi nella conservazione, gestione e ordinamento degli archivi di deposito da parte delle Amministrazioni”, dovuto alle frequenti trasformazioni istituzionali avvenute negli anni che hanno comportato il continuo spostamento del materiale e “dispersioni o perdita di fonti rilevanti per la ricerca storica”.
Vista la gravità di quanto emerso, sono state mosse verso il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, alcune interrogazioni parlamentari. All’ultima di queste, sottoposta dal deputato Luigi Marattini (Italia Viva), la sottosegretaria Bergamotto ha risposto confermando la sparizione della documentazione. Il Mit, riferisce Bergamotto, ha effettuato un sopralluogo «da parte di una delegazione mista di personale del ministero e dell’Archivio di Stato presso l’Archivio di deposito di Ciampino, in esito al quale non è stata rinvenuta alcuna documentazione afferente agli avvenimenti di interesse del Comitato né atti secretati. Analogamente, i responsabili degli archivi di Pomezia e di Cesano hanno escluso la presenza nelle loro strutture di detta documentazione». Alcuni sopralluoghi sono stati effettuati anche da una Commissione istituita appositamente dal ministero il 13 settembre 2022 (la «Commissione per la sorveglianza e lo scarto degli atti di archivio del Gabinetto e degli uffici di diretta collaborazione») e incaricata di «attività di sorveglianza sulla documentazione del patrimonio documentale del Gabinetto dell’On. ministro e degli uffici di diretta collaborazione», oltre che di ricostruzione degli archivi. I lavori della Commissione, per il momento «ancora in corso», non hanno prodotto risultati differenti da quanto rilevato dal Comitato.
«Che non sia stato trovato nulla è qualcosa che meriterebbe una riflessione, perché in quegli anni le infrastrutture di trasporto sono state oggetto di attentati in questo Paese. Sarebbe un po’ strano se il ministero competente non avesse documentazione in merito a stazioni che vengono fatte saltare in aria o aerei che cadono» ha replicato il deputato Marattini. Come sottolineato da Bonfietti, la situazione attuale non permette in alcun modo nemmeno di conoscere le indicazioni del ministero riguardo agli eventi stragistici e lascia un enorme buco nero proprio in quelli che sono gli anni più violenti della storia contemporanea del nostro Paese.
[di Valeria Casolaro]
Sequestro di Aldo Moro, spuntano i documenti inediti degli 007 inglesi. Alessandra Zavatta su Il Tempo il 16 marzo 2023
L’aiuto agli inglesi per liberare Aldo Moro l’Italia l’ha chiesto subito. Il 16 marzo 1978, qualche ora dopo il rapimento del presidente della Democrazia Cristiana e dall’assassinio dei cinque uomini della scorta un telegramma urgente e segretissimo, inviato a Downing Street, riporta che «Squillante, capo di gabinetto di Cossiga (ministro dell’Interno) ha telefonato a McMillan (Primo segretario) per cercare la garanzia che potrebbe essere imminente l’aiuto richiesto in relazione al rapimento del signor Moro, provvedendo all’assistenza tecnica basata sulla nostra esperienza in Ulster». Il documento top secret è custodito nell’Archivio di Stato del Regno Unito. Fa parte del fascicolo intitolato «Terrorism in Italy» (terrorismo in Italia), che contiene materiale riservato ora liberato dai vincoli di riservatezza. Quarantacinque anni dopo di segreti c’è ne sono ancora molti. Nonostante un milione di pagine di carte processuali, relazioni delle commissioni d’inchiesta, informative di polizia, carabinieri e 007 di ogni ordine e grado.
L’aiuto richiesto da Arnaldo Squillante nel documento classificato «secret» fa riferimento a quanto detto dall’ammiraglio Marcello Celio, vicecapo di Stato maggiore della Marina e componente del Comitato politico-tecnico-operativo per la ricerca e la liberazione di Moro. «Gli italiani - riporta il cablogramma protocollato il 17 marzo - sarebbero grati se potessimo rendere subito disponibile un istruttore del Sas con particolare esperienza ad affrontare una situazione di assedio (qualora il nascondiglio di Moro e dei rapitori venga localizzato)». L’urgenza è tale che da Roma è pronto a partire un aereo «per raccogliere l’istruttore e il materiale». Il Sas, Special Air Service, è il corpo d’élite dell’esercito britannico creato nel 1941 in Nord Africa per effettuare raid contro le linee dell’Asse, specializzato nell’antiterrorismo e nel salvataggio di ostaggi. A stretto giro gli inglesi rispondono che possono inviare «due membri del Sas con capacità consultiva e venti granate stordenti». Con l’obiettivo di assaltare e cogliere di sorpresa le Brigate Rosse, che nel frattempo hanno rivendicato il rapimento. A patto, naturalmente di trovare il covo dove è tenuto prigioniero il presidente della Dc catturato mentre si recava in parlamento perché quel giorno il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti doveva ottenere la fiducia per essere insediato.
Alle 9.02, mentre sta percorrendo via Mario Fani, la Fiat 130 blu con a bordo Aldo Moro viene bloccata da altre due auto. Quattro brigatisti travestiti da steward dell’Alitalia sparano da dietro le fioriere del bar Olivetti, all’angolo con via Stresa. Il caposcorta, maresciallo Oreste Leonardi, e l’autista, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, vengono falciati dalle raffiche. Vengono subito ammazzati pure due poliziotti sull’Alfa Romeo che segue: Giulio Rivera e Salvatore Iozzino. Il terzo agente, Francesco Zizzi, riesce ad accennare una difesa rispondendo ai colpi. Ferito, morirà poco dopo al Policlinico Gemelli. Secondo le sentenze definitive, le perizie e il racconto dei brigatisti a compiere l’assalto sarebbero stati Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. Mario Moretti, il capo della colonna romana, a bordo di una Fiat 128 bianca, aveva il compito di farsi tamponare dall’auto presidenziale così da fermarla. Mentre Barbara Balzerani, Alvaro Loiacono e Alessio Casimirri dovevano «isolare» la strada e bloccare macchine e passanti. L’avvio alla strage lo dà, come accertato dagli inquirenti, Rita Algranati agitando un mazzo di fiori all’arrivo della macchina di Moro. Numerosi testimoni raccontano nell’immediato che a sparare non sono state quattro persone, ma almeno otto-nove e che vestiti da steward c’erano altri due uomini a cavalcioni di una moto Honda. Il procuratore generale presso la Corte d’Appello Luigi Ciampoli porterà in seguito a dodici i componenti del commando, di cui fecero parte anche elementi non appartenenti alle «bierre» e killer professionisti, e a 25 il numero complessivo delle persone coinvolte a vario titolo nell’Operazione Fritz, come venne ribattezzato l’assalto. Dei 93 colpi sparati, 49 provengono dalla stessa arma e sono quelli determinanti per l’azione. Così iniziarono i 55 giorni che travolsero l’Italia. Tra verità negate, depistaggi, documenti spariti e furti misteriosi, come quello nella redazione fotografica dell’agenzia Ansa dove vennero trafugati i rullini con le immagini di un elicottero che sorvolava via Fani pochi minuti dopo la strage ma non apparteneva alle forze dell’ordine.
Qualche ora dopo ecco l’appello «top secret» agli inglesi di mandare gli istruttori del Sas con la verità da un lato e, dall’altro, la «versione concordata con il Ministero della Difesa» da rifilare ai giornalisti. Scrive M.R. Morland del Maritime, Aviation and Environment: «Dovremmo tenere la seguente linea: alla richiesta del governo italiano quello britannico ha reso disponibili due consulenti militari per assistere le forze italiane nell’addestramento». Non si doveva sapere che a Roma sarebbero sbarcati gli 007 del Sas. Ma «Il Tempo» lo scopre e scopre pure che «dalla Germania Federale sono arrivati 32 agenti del Bundeskriminalant per collaborare con i nostri servizi di sicurezza nella caccia ai terroristi che tengono prigioniero Moro». Inglesi e tedeschi «saranno in diretto contatto con il Sisde ma non con polizia e carabinieri». L’articolo deve aver dato qualche fastidio se all’epoca venne tradotto e inviato al governo di Sua Maestà, allegato al fascicolo dei documenti secretati. Dopo la tragica conclusione del sequestro, gli inglesi stilano un bilancio. In una lettera, spedita il 31 agosto dal dicastero dell’Interno a quello degli Esteri, scrivono che «la recente visita del team Sas ha rilevato il comando e controllo come l’area più debole del piano di emergenza italiano». «Sono ad un livello rudimentale su queste questioni», insistono i britannici. Che cercano di organizzare un incontro nella sede del ventiduesimo Reggimento a Hereford, il quartier generale del Sas, a cui partecipi se possibile il ministro dell’Interno. Perché, riportano i cablogrammi che seguono, «la più grande debolezza degli italiani è l’assenza di coordinamento tra le diverse autorità dell’antiterrorismo» e «un miglioramento della loro sicurezza è anche nel nostro interesse».
Tra le tante bocciature c’è pure qualche nota positiva: «Le autorità di sicurezza italiana appaiono aver fatto qualche progresso con il recente trasferimento delle responsabilità di queste operazioni ai carabinieri sotto il comando del generale Dalla Chiesa». È il 13 ottobre. Due settimane prima è stato scoperto nel covo Br in via Montenevoso, a Milano, il Memoriale Moro, la trascrizione degli interrogatori dell’ex presidente del consiglio nella «prigione del popolo». Ci sono anche alcune bobine registrate del «processo» allo statista democristiano. Il 9 ottobre 1990, ristrutturando l’appartamento dove un tempo si nascondevano le Brigate Rosse, viene rinvenuta una seconda versione del memoriale, con cinquantatré pagine in più, nascosta dietro un pannello in cartongesso accanto a mitra, pistole, munizioni e sessanta milioni di lire in contanti. Ma Dalla Chiesa ormai non c’è più. La mafia l’ha ammazzato il 3 settembre 1982, a Palermo. Sei mesi prima era stato ascoltato dalla Commissione Moro. In audizione aveva spiegato che il memoriale rinvenuto era una copia, non l’originale, e il dubbio che mancasse qualcosa lo aveva avuto.
Caso Moro, le carte segrete: "La Cia aveva le mani legate". La lettera del 1° giugno '78 dell'allora direttore Turner "Non abbiamo potuto aiutare l'Italia a salvare il leader". Marco Liconti l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.
Washington «Avevamo le mani legate» e «non abbiamo potuto aiutare gli italiani a salvare la vita di Moro». L'ammissione è dell'ammiraglio Stanfield Turner, direttore della Cia tra il 1977 e il 1981, ed è contenuta in una lettera datata 1° giugno 1978. Destinatario, Edward P. Boland, presidente della Commissione Intelligence della Camera dei rappresentanti. Poco più di tre settimane prima, il 9 maggio, il corpo di Aldo Moro era stato ritrovato in via Caetani, a Roma, crivellato da 12 colpi, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. La lettera di Turner, scoperta da il Giornale in uno degli archivi Cia desecretati grazie al Freedom of Information Act, riscrive, almeno in parte, la storia del coinvolgimento (meglio, del mancato coinvolgimento) dell'Agenzia di intelligence Usa nella vicenda del rapimento e dell'uccisione dello statista democristiano.
Per comprendere il clima che spinse Turner a compiere un gesto irrituale, scrivendo una lettera, senza attendere di essere convocato dalla Commissione intelligence della Camera, bisogna fare un passo indietro di tre giorni. Il 29 maggio, sul Washington Post, non certo una testata della destra conservatrice, era uscito un durissimo articolo che accusava la Cia di «avere respinto la richiesta di aiuto per Moro». A Langley avevano rispedito al mittente la «top priority request» che era stata avanzata dal Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza), il predecessore dell'attuale Dis. In realtà il dito veniva puntato soprattutto su una legge del 30 dicembre '74, che proibiva le «operazioni clandestine in Paesi stranieri», a parte la normale raccolta di intelligence e salvo diverse indicazioni dal presidente Usa. Le critiche investivano anche il Congresso, che con il beneplacito dell'amministrazione Carter, aveva imposto una serie di restrizioni. Il rischio, per Turner, nell'accettare la richiesta italiana, sarebbe stato quello di esporsi a uno scandalo o a una commissione di inchiesta. Le Br in base a un Presidential Finding (valutazione presidenziale) stabilito mesi prima, non erano coinvolte in vicende di terrorismo internazionale. Questo, nonostante i sospetti che la stessa Cia aveva all'epoca sull'addestramento ricevuto da alcuni brigatisti in Paesi dell'allora blocco sovietico, o su altri legami delle Br con sigle e organizzazioni straniere. L'aiuto agli italiani nella vicenda Moro, insomma, rischiava di essere giudicato dal Congresso al pari di «attività di interferenza» nelle attività democratiche di un Paese straniero.
Per fugare ogni dubbio, Turner si decide a scrivere al presidente della Commissione Intelligence. «Vorrei assicurarmi che lei e la sua Commissione abbiate un quadro completo, laddove via siano state impressioni sbagliate. Piuttosto che aspettare l'opportunità di riferire di persona alla Commissione, ho pensato di cogliere questa opportunità per fornire alcuni commenti scritti», si legge. Il documento, sebbene desecretato, è ancora parzialmente coperto da alcuni omissis, ma un passaggio, tra quelli oscurati, appare chiaro. È quello in cui Turner scrive riguardo alla «nostra incapacità di agire rispetto all'assistenza» all'Italia nella vicenda Moro. «I fatti - prosegue il direttore della Cia - sono che abbiamo agito in maniera molto scrupolosa nell'assicurarci che qualsiasi azione intrapresa fosse in linea con le valutazioni presidenziali riguardo alla lotta al terrorismo internazionale. C'era da tracciare una linea se Omissis (evidentemente le Br, ndr) potessero essere classificate come terroristi internazionali. La valutazione è stata che non lo sono». È questo, quindi, il passaggio chiave che spiega il rifiuto della Cia di fornire assistenza all'Italia, al di là di uno psichiatra del dipartimento di Stato inviato a Roma per tracciare un quadro psicologico dei rapitori di Moro, e sul quale negli anni si è favoleggiato molto in alcune ricostruzioni giornalistiche.
Nonostante il rifiuto, scrive ancora Turner, «non c'è stata alcuna azione richiesta dal governo italiano, o che abbiamo ritenuto di potere utilmente offrire loro, che non sia stata intrapresa dal nostro governo». Una frase, quest'ultima, che appare però in aperta contraddizione con la conclusione della lettera: «Al momento della morte di Moro, tuttavia, stavamo ancora dibattendo una nuova valutazione presidenziale per assicurarci di non avere le mani legate se si fosse sviluppata una nuova richiesta o una nuova opportunità. Non avremmo voluto altri ritardi se vi fosse stato il modo di aiutare gli italiani a salvare la vita di Moro».
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ricordando il Divo.
“So di essere di media statura, ma non vedo giganti attorno a me”. Giulio Andreotti, luci e ombre del politico più longevo della Repubblica. La rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 29 Luglio 2023
Trentadue volte ministro, sette presidente del Consiglio, ininterrottamente in Parlamento dall’Assemblea costituente fino agli ultimi giorni della sua vita: dunque dal 1946 al 2013 (fate un po’ voi il conto). Bastano queste due righe per comprendere il ruolo da assoluto protagonista che Giulio Andreotti ha ricoperto nella storia repubblicana del nostro Paese. Ha assistito da spettatore privilegiato ai principali avvenimenti della vita politica italiana, incarnandone (prima e meglio di altri) virtù e difetti, luci ed ombre. È senza dubbio, a torto o a ragione, l’uomo politico più discusso della Prima Repubblica.
Giulio Andreotti nasce a Roma nel 1919. Perde il padre a soli due anni e cresce insieme alla madre e ad una vecchia zia. Frequenta i migliori licei classici della capitale, il Visconti e il Tasso, e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, laureandosi con il massimo dei voti. Fondamentale per la sua formazione politica e culturale la sua esperienza alla FUCI (Federazione Universitaria Cattolici Italiani); diventa prima direttore di Azione Fucina (la rivista degli universitari cattolici) e poi prende il posto di Aldo Moro alla presidenza della federazione. Decisivo per il suo ingresso in politica fu l’incontro con quello che diventerà il suo mentore: Alcide De Gasperi. Andreotti ha raccontato più volte di averlo conosciuto nella biblioteca vaticana, mentre studiava diritto della navigazione. De Gasperi si rivolse al giovane Giulio chiedendogli se non avesse nulla di meglio da fare. Andreotti ci rimase male ma qualche giorno dopo venne convocato in casa di Giuseppe Spataro da quello strano impiegato della biblioteca. Inizia così il cammino personale di Andreotti e della DC.
Nel 1946 è eletto all’Assemblea costituente e su suggerimento di Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI) diventa il più giovane esponente del primo governo della neonata Repubblica guidato da De Gasperi. Andreotti a soli 28 anni è Sottosegretario alla presidenza del Consiglio. L’ascesa del delfino di De Gasperi prosegue anche dopo la morte dello statista. Nel 1954 è per la prima volta ministro, andando ad occupare il dicastero dell’Interno del primo governo Fanfani. Poi ministro delle Finanze. In qualità di presidente del comitato organizzatore, ha un ruolo strategico alla Olimpiadi del 1960 a Roma. Occorre ricordare che l’impegno di Andreotti da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo fu determinante anche per la riapertura di Cinecittà e per la ripartenza del Cinema italiano nel Dopoguerra.
In quegli anni Andreotti dà vita alla sua corrente all’interno della DC (Primavera) e alla rivista Concretezza, da lui stesso fondata e diretta. Perché oltre ad essere un politico, Andreotti era anche un giornalista e uno scrittore. Fu autore di diversi libri di discreto successo, che come amava ricordare lui erano la sua vera fonte di guadagno, a differenza della politica. Nei complicati anni dell’apertura ai socialisti è confermato ministro della Difesa del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. Andreotti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta è uno dei maggiori oppositori al progetto di apertura a sinistra voluto da Fanfani e Moro.
In questa opposizione trova sponde importanti sia Oltreoceano che Oltretevere. Stati Uniti e Vaticano rappresentarono sempre i principali interlocutori, e per molti versi sostenitori, della politica andreottiana. Loro si fidavano di lui e lui traeva forza dalla fiducia di due attori che in piena Guerra Fredda esercitavano un ruolo imprescindibile. Deve attendere però fino al 1972 per diventare per la prima volta presidente del Consiglio. L’azione andreottiana si contraddistingue per un’eccezionale attenzione alla politica estera, ovviamente per il continuo e privilegiato rapporto con Washington come ricordato, ma anche per un nuovo approccio in Medio Oriente nei confronti dei paesi arabi.
È lui che presenta alle Camere il suo terzo governo (nato sulla scia dell’accordo tra DC e PCI negli anni del compromesso storico) il giorno del rapimento di Aldo Moro. Andreotti stesso racconterà che in vita sua ha pianto pochissime volte; una di queste fu quel 16 marzo del 1978. Qualcuno dice che venne colto anche da irrefrenabili conati di vomito. La vicenda Moro fu probabilmente la prima grande tragedia che lo colpì in prima persona, umanamente e politicamente. Negli anni Ottanta diventa Ministro degli Esteri, l’incarico che probabilmente gli diede più soddisfazioni e dove Andreotti poté sfruttare al meglio le sue capacità. In questo periodo, oltre a ricercare come detto un nuovo dialogo con il Medio Oriente e a provare a stemperare le tensioni tra Mosca e Washington, il politico romano ebbe più volte occasione di scontrarsi con il suo rivale Bettino Craxi. I due non si prendevano a pelle e si resero più volte protagonisti di “frecciatine” reciproche.
A proposito, su questo terreno Andreotti era un maestro. Una dei suoi maggiori talenti era quello della battuta pronta (e dell’innata ironia), della frase a effetto con la quale riusciva a pungere i suoi avversari mantenendo comunque uno stile distaccato e mai volgare. Si potrebbero riempire pagine e pagine nel citare i mille aforismi a lui attribuiti.
Dal celeberrimo “Il potere logora chi non ce l’ha”, al “Non basta avere ragione, serve anche qualcuno che te la dia”, al leggendario “I preti votano, Dio no” (in risposta alla provocazione di Indro Montanelli che sosteneva che in chiesa De Gasperi parlasse con Dio, mentre Andreotti con il prete); oppure l’enigmatico “Se non vuoi che una cosa si sappia, non devi dirla neanche a te stesso”; e si potrebbe andare avanti per giorni.
Come parlare di Giulio Andreotti senza menzionare l’importanza fondamentale che attribuiva alla memoria. I suoi diari, oggi conservati con grande cura all’Istituto Sturzo, hanno rappresentato per anni uno strumento di potere. “Si fa bene ad avere un diario, ed è utile che tanta gente lo sappia”, diceva lui stesso. A parte le congetture sul contenuto e sui segreti di questi diari, le carte raccolte in decenni di vita politica da parte di Andreotti rappresentano preziose testimonianze dirette di un lunghissimo periodo storico, una vera e propria ricchezza per studiosi e curiosi.
Per completare il quadro ricordiamo l’ultima fase della vita di Giulio Andreotti.
Gli ultimi suoi governi agli inizi degli anni Novanta sono caratterizzati dalla fine della Guerra Fredda in campo internazionale e dalla crisi interna della politica italiana travolta dall’inchiesta “Mani pulite”. Sono anni difficili per l’intero sistema politico, con i partiti tradizionali agonizzanti che di lì a poco verranno spazzati via per lasciare spazio alla cosiddetta Seconda Repubblica e all’avvento berlusconiano. La mancata elezione al Quirinale nel 1992 rappresenta una delle sconfitte politiche più cocenti per Andreotti, che comunque anche in quella occasione non diede la soddisfazione di mostrare una particolare sofferenza.
I momenti più complicati per Andreotti sono però senza dubbio quelli trascorsi nelle aule di tribunale a difendersi dalle accuse di rapporti poco chiari con la mafia. Processi dai quali uscì sempre indenne. Rimase comunque al suo posto da parlamentare fino alla fine, grazie anche alla nomina a senatore a vita voluta dal presidente Cossiga. Non che ad Andreotti facesse particolarmente piacere, perché gli impediva di fatto di continuare a coltivare quel rapporto pluriennale con il suo elettorato. Va infatti ricordato che Andreotti fu anche un fuoriclasse di preferenze: per anni il politico più votato nel Lazio e in Italia.
Andreotti è stato sicuramente uno dei personaggi più significativi della politica italiana e internazionale, per longevità e importanza delle cariche ricoperte. Il suo ricordo credo sia in parte macchiato dai processi degli ultimi anni e da una macchina del fango che come sappiamo prende spesso di mira chi resta ai vertici dello Stato per molto tempo. A distanza di dieci anni dalla sua scomparsa è forse ancora troppo presto per analizzare con occhi lucidi e in maniera oggettiva il lascito di una figura storica del nostro Paese, che però ancora oggi (per ceri versi inspiegabilmente) riesce ad affascinare le giovani generazioni.
Mi piace concludere il racconto (forse lungo e me ne scuso) di Giulio Andreotti ricordando una delle sue frasi che preferisco in assoluto e che per me costituiscono una sorta di mantra:
“So di essere di media statura, ma non vedo giganti attorno a me” Giulio Andreotti
Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti
Una classe dirigente di grande autorevolezza e di rara qualità. La Democrazia Cristiana ha garantito una stagione di benessere straordinaria: assurdo infangarne la memoria. Giorgio Merlo su Il Riformista il 21 Luglio 2023
«La Dc è come un vetro infrangibile. Quando si rompe va in mille pezzi e non è più ricomponibile». Le parole sono di Guido Bodrato, scomparso qualche settimana fa e uno degli ultimi grandi testimoni del cattolicesimo democratico italiano e leader indiscusso della Dc e della sua sinistra interna. Parole semplici, le sue, ma essenziali e come sempre intelligenti che racchiudono una profonda verità. E cioè la DC – che ha chiuso i battenti proprio 30 anni fa in un torrido giorno di luglio a Roma – è stata un «fatto storico».
Ovvero un prodotto politico concreto di una precisa ed irripetibile fase storica italiana. Non a caso continuano ad esistere i «democristiani» ma non esiste più la DC. E questo per la semplice ragione che i valori, la cultura, i principi e lo «stile» dei democristiani continuano ad essere straordinariamente attuali e contemporanei ma la forma partito è frutto e conseguenza di una stagione ormai storicizzata e consegnata agli archivi. Cioè agli storici. Com’è giusto che sia. E, pertanto, tutti i tentativi – goffi e anche un po’ patetici – di candidarsi ad eredi esclusivi o parziali della Dc – oltre ad essere un’operazione irrituale e anti storica – rende anche un cattivo servizio al ruolo politico, culturale, istituzionale e di governo esercitato per quasi 50 anni dalla Democrazia Cristiana nel nostro Paese.
Certo, non mancano – tutt’oggi – gli storici detrattori della DC. Cioè tutti coloro che, ieri come oggi, continuano ad individuare nella Dc e nella sua straordinaria classe dirigente una esperienza o «criminale» o semplicemente «nefasta» per la salute della democrazia italiana, per la credibilità delle nostre istituzioni e per il governo del paese. Una narrazione che, appunto ieri come oggi, è riconducibile prevalentemente al campo della sinistra politica, culturale, editoriale, intellettuale ed accademica. Un campo che, purtroppo, e al di là delle frasi di circostanza, non riesce a spogliarsi di questa caricatura, strumentale e rancorosa.
Eppure la storia e l’esperienza della Dc non solo hanno garantito una lunga stagione di democrazia, di benessere e di crescita all’intero paese in un periodo carico di difficoltà e di contraddizioni ma, soprattutto, hanno saputo dispiegare – seppur tra alti e basi – un «progetto di società» capace di coniugare sviluppo e giustizia sociale, libertà e autonomia, dritti e doveri, pluralismo e rispetto dell’azione di governo.
Insomma, una visione complessiva della società che affondava le sue radici nel patrimonio culturale e storico del cattolicesimo democratico, popolare e sociale. Per dirla con parole più semplici, nella storia e nell’esperienza del cattolicesimo politico italiano. Il tutto, come ovvio, con una classe dirigente di grande autorevolezza e di rara qualità.
È appena sufficiente scorrere i nomi e i cognomi dei leader storici delle tanto vituperate «correnti» – che, è sempre bene ricordarlo, erano strumenti democratici di elaborazione politica e culturale e, soprattutto, rappresentavano pezzi di società e legittimi interessi sociali – per rendersi conto che la classe dirigente della Dc non è più stata eguagliata nel tempo. Certo, sarebbe offensivo anche solo il confronto con quella della seconda repubblica per non parlare del «niente della politica», per dirla con Mino Martinazzoli, che ha caratterizzato la stagione populista, anti politica, demagogica e qualunquista di questi ultimi anni. Con l’aggiunta della deriva di impronta trasformistica e opportunistica.
Ecco perché, se le parole di Bodrato pronunciate tempo fa sono e restano inappellabili, è compito e dovere di noi cattolici democratici, popolari e sociali far sì che, oggi, la storia e l’esperienza della Dc non continuino ad essere infangati e derisi da un lato e che dall’altro quei valori e quella cultura abbiano piena ed attiva cittadinanza nella cittadella politica italiana. Non per il bene dei cattolici democratici e popolari ma, soprattutto, per la qualità della nostra democrazia, per la credibilità delle nostre istituzioni e per la stessa efficacia dell’azione di governo.
Giorgio Merlo
La storia. Il governo Andreotti-Malagodi, quei 377 giorni che furono l’anticamera della reazione. Furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio. Paolo Franchi su L'Unità l'8 Giugno 2023
Mezzo secolo fa, di questi giorni, Giulio Andreotti saliva al Quirinale per presentare le dimissioni del governo che aveva guidato per poco più di un anno, un tripartito Dc – Pli – Psdi sorretto dall’esterno dai repubblicani di Ugo La Malfa. Appena un mese dopo, già giurava un nuovo governo, guidato da Mariano Rumor, destinato a durare ancora di meno. Se non è zuppa è pan bagnato, osserverà distrattamente chi pensa alla Prima Repubblica solo come a susseguirsi di governi deboli, che nascevano, vivevano una vita grama e poi morivano in giovane età sempre per via degli intrighi (alla faccia del popolo sovrano) delle segreterie dei partiti.
E dirà, come spesso gli accade, una sciocchezza. Perché i 377 giorni di vita di quello che la mia generazione ricorda ancora come il governo Andreotti – Malagodi “anticamera della reazione” furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio. Sembrava, in quel primo scorcio degli anni Settanta, che dal Sessantotto non fossero passati solo quattro anni, ma un secolo. Strategia della tensione, terrorismo nero, primi vagiti, a sinistra, del “partito armato”; nascita, al Nord, di embrioni di maggioranze silenziose e di blocchi d’ordine, e al Sud (Reggio Calabria) di movimenti di massa a direzione reazionaria; “voto nero” della Sicilia e di Roma nelle amministrative del giugno 1971; elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica, in dicembre, con i voti determinanti del Movimento sociale. È in questo clima che il 7 maggio del 1972 si va a votare, nelle prime elezioni anticipate del dopoguerra.
La Dc prova ad uscire dallo stallo politico con una virata neo centrista, via i socialisti, dentro i liberali, nel tentativo di contendere a Giorgio Almirante quelli che considera suoi elettori in libera uscita. In qualche misura ci riesce, come si dice nel linguaggio politico dell’epoca nelle urne lo Scudo crociato tiene, ma i voti li strappa soprattutto ai suoi partner centristi. Alla faccia dei proclami democristiani contro gli “opposti estremismi”, Almirante si porta via quasi il nove per cento. È il più grande successo nella storia del Msi, che nel frattempo si è transustanziato in Destra Nazionale, dopo aver aperto le porte di casa non solo ad Achille Lauro, ma pure a militari di alto rango come l’ammiraglio Birindelli e di fedeltà quanto mai incerta alle istituzioni come il generale De Lorenzo.
La debolezza e le divisioni della maggioranza che sorregge il governo neo centrista , inviso non solo ai comunisti e ai socialisti, ma pure ad Aldo Moro, Carlo Donat Cattin e a buona parte della sinistra di Base della Dc, consentiranno ai 56 deputati e ai 26 senatori missini di praticare in molte votazioni parlamentari a scrutinio segreto una sorta di “soccorso nero” ad Andreotti. Ma Almirante è ben diverso dal suo predecessore Arturo Michelini, non si accontenta certo di fare il portatore d’acqua. Cosa ha in mente lo spiega a Firenze, il 2 giugno, mentre a Roma Andreotti è ancora all’opera per varare il nuovo gabinetto, i metalmeccanici si preparano alla battaglia d’autunno per il nuovo contratto e gli studenti stanno sì per andare in vacanza, ma già pensano (erano anni così …) alle lotte che li aspettano alla riapertura delle scuole.
A colpire, e a indignare, è soprattutto, e si capisce, l’appello ai suoi ragazzi dell’uomo che vuol far mettere alla destra neofascista il doppiopetto: “I nostri giovani devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti … e quando dico scontro frontale intendo dire anche scontro fisico”. Ma forse l’affermazione più inquietante è un’altra. “Se il governo continuerà a venir meno alla sua funzione di Stato”, scandisce il leader missino, “noi siamo pronti a surrogare lo Stato”. Curiosamente ma non troppo, è il neo ministro degli Interni, il doroteo Rumor, a cogliere meglio di ogni altro il senso di queste parole. Almirante, dice alla Camera, indica nei “vuoti di potere” dello Stato il terreno dal quale nascono “occasioni di presenza e di iniziativa della destra neofascista che tende a presentarsi, come sempre, come forza sostitutiva”.
Di lì a qualche mese (La Spezia, 15 novembre) sarà lo stesso segretario democristiano, Arnaldo Forlani, che molto più tardi preciserà di non essersi riferito al Almirante, a rincarare la dose. È in corso, sosterrà, “il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia tentato e portato avanti dalla Liberazione ad oggi”, un tentativo dalle radici “organizzative e finanziarie consistenti e solide, di ordine interno e internazionale”. È un uomo che pesa sin troppo le parole, Forlani, lo chiamano il “Coniglio mannaro”: e questo rende la sua affermazione ancora più allarmante.
Ma può essere un governo neo centrista che si dilania sulla tv a colori a mettere in scacco un attacco di questa portata? Non lo crede la sinistra democristiana, che fa quel che può per affrettarne la fine e riprendere, per accidentata che sia, la strada della collaborazione con i socialisti. Non lo crede Pietro Nenni che, a margine della grande manifestazione contro il primo congresso del Msi (Roma, 18 – 21 gennaio 1973) in cui si registra un solo saluto romano, annota nei suoi diari che il pericolo principale non viene dai fascisti, ma dall’interno stesso della Dc. E naturalmente non lo credono i comunisti, che calibrano la loro opposizione (durissima) in Parlamento e nel Paese sulla scorta di un giudizio a dir poco pessimistico sulla natura stessa della crisi italiana.
Alla Dc, anche negli anni della contrapposizione più dura, hanno sempre attribuito, seppure a denti stretti, una natura di partito popolare e di cerniera, dunque di argine verso una destra che ha nella società e nello Stato radici assai profonde e diffuse. Che fare, adesso che questa cerniera rischia di saltare? Si può puntare, certo, alla radicalizzazione dello scontro, come chiede a gran voce una sinistra extraparlamentare che nelle piazze grida: “Emmessei fuori legge/a morte la Dc che lo protegge”.
Ma questa appare non solo a Enrico Berlinguer, ma a tutto un gruppo dirigente che è cresciuto alla scuola di Palmiro Togliatti, una prospettiva suicida. Già prima delle elezioni politiche (che pure per il Pci non vanno male, anche se quel mezzo punto percentuale in più non basta a compensare, a sinistra, la disfatta del Psiup), Berlinguer ha indicato la prospettiva che nel settembre del 1973, all’indomani del golpe cileno, si incarnerà nel compromesso storico.
“In un Paese come l’Italia”, ha detto al congresso milanese del partito, “una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi componenti popolari: comunista, socialista, cattolica … La natura della società e dello Stato, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali, la profondità delle radici del fascismo (corsivo mio), e quindi la grandiosità dei problemi da risolvere e da fronteggiare, impongono una simile collaborazione”. Un po’ tutti gli hanno risposto picche, dai democristiani e ai socialisti, chi in nome della pregiudiziale anticomunista, chi nella speranza di tornare al governo per rappresentarvi la sinsitra politica e sociale nel suo complesso, chi vagheggiando l’alternativa di sinistra.
E anche a buona parte dei comunisti, ivi compresi molti dirigenti che pure, con l’eccezione di Luigi Longo, non avanzano critiche aperte, sembra un po’ paradossale l’idea che per evitare una deriva reazionaria della Dc la strada migliore sia quella di iscriverla d’ufficio a una “nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista”. Ma da questa linea il Pci non deflette. Promuove la mobilitazione antifascista, ma bada bene a che sia la più vasta e unitaria possibile, si tiene a distanza di sicurezza dalla campagna per lo scioglimento del Msi, guarda in cagnesco chi afferma che “la Resistenza è rossa, non è democristiana”. Si impegna a fondo nella battaglia dei metalmeccanici, che si conclude con il contratto forse più avanzato della storia delle relazioni industriali in Italia, quello dell’inquadramento unico operai-impiegati e delle 150 ore, avendo per bussola l’unità sindacale. Quanto più il governo annaspa, tanto più stringe i rapporti non solo con i socialisti, ma pure con i repubblicani e le sinistre democristiane.
Quando nel giugno del 1973, alla vigilia del congresso democristiano, Aldo Moro e Amintore Fanfani sottoscrivono a Palazzo Giustiniani, portandosi appresso tutti i capi corrente, l’accordo che decreta l’inizio della quaresima per Andreotti e Forlani, e impongono a una platea congressuale ferocemente antisocialista il ritorno al centro-sinistra, nella forma di un quarto governo Rumor, i comunisti per la prima volta evitano di accusare i socialisti di cedimento, e anzi salutano l’evento come una straordinaria vittoria democratica. Almeno in parte hanno ragione.
La Dc d’ora in avanti dovrà riconoscere che il tempo della sua indiscussa e indiscutibile “centralità” sta per finire, cominciando con il togliersi dalla testa l’idea di poter praticare la reversibilità delle alleanze; ma non potrà neanche illudersi che il centro-sinistra cui si sta predisponendo somigli, magari alla lontana, a quello degli anni Sessanta, visto, oltretutto, che i socialisti tornano al governo, sì, ma invocando “equilibri più avanzati”.
Berlinguer comincia a pensare sentirsi in grado di imporre alla Dc di rinunciare agli alibi, e di guardare in faccia una “questione comunista” che, dice, è tornata prepotentemente all’ordine del giorno. La partita tra comunisti e democristiani, rottura o accordo, è appena iniziata, si giocherà nel referendum sul divorzio del 1974, nelle elezioni regionali del 1975, nelle elezioni politiche del 1976, nella breve stagione dell’unità nazionale. A chiuderla provvederanno, tra il 16 di marzo e il 9 di giugno del 1978, le Brigate Rosse. Ma questo, nel giugno di cinquant’anni fa, non può immaginarlo nessuno. DI Paolo Franchi 8 Giugno 2023
Estratto dell’articolo di Fernando Proietti per “Formiche” il 5 giugno 2023.
“Sono consapevole dei miei limiti, ma sono anche sicuro di non essere circondato da giganti”, disse Giulio Andreotti. A dieci anni dalla sua morte eccoci qua a chiederci […] cosa avrebbe pensato Giulio Andreotti dell'avvento a Palazzo Chigi di una popolana della Garbatella, Giorgia Meloni, ex quartiere rosso della capitale ed ex militante del Fronte della gioventù missino. E, in aggiunta […], della sua stessa fede calcistica giallorossa. Lui, il cardinale laico della vera romanità con la sua trasversalità politica, alla premier pischella avrebbe auspicato un sincero buon lavoro con il tradizionale bigliettino di benvenuto scritto di suo pugno.
Siamo sicuri che il camaleontico senatore a vita non si sarebbe scandalizzato più di tanto dell’ascesa della giovane Meloni, erede anche lei, sia pure alla lontana, di quella Roma democristiana del dopoguerra, già affaristica e tangentara, governata con mano di velluto da Andreotti. Strizzando l’occhio a “destra”, in nome dell’anticomunismo, e a “sinistra” (i catto-comunisti di Rodano, Ossicini, Tatò futuro segretario di Berlinguer).
[…] La base del potere andreottiano con il suo sterminato consenso elettorale per lunghi anni è stata, appunto, Roma e l’enclave laziale. Una Roma post-fascista (fortemente ancora nostalgica del Ventennio mussoliniano), elettoralmente sempre di “destra”. Lo è ancora oggi soprattutto con la fine dell’andreottismo.
Tant’è che nel pieno della campagna elettorale del 1953 nella sua Ciociaria, ci fu l’abbraccio di Arcinazzo” con l’ex capo repubblichino e presidente del Msi, Rodolfo Graziani, che fece scandalo (vero). Tanto fragore per nulla anche allora, quanto il presunto bacio di Giulio al mafioso Riina di cui, alla fine, è rimasta vittima soltanto la stessa magistratura siciliana e i professionisti dell’antimafia (Sciascia).
Il futuro Belzebù (Craxi dixit) aveva fatta sua la lezione del suo maestro, De Gasperi, che in tempi di scontri frontali anche nelle piazze, in privato si dava del “tu” con Togliatti. Come a dire? il diavolo e l’acquasantiera alla fine possono convivere.
Nel cartoncino augurale alla Meloni, di cui si è immaginato all’inizio, Giulio non avrebbe nemmeno perso l’occasione per regalarle uno dei tanti aneddoti o battute ironiche, preferiti all’”oscuro politichese”. Alla giovane “presidentessa”, come da lei intimato volersi farsi chiamare, Andreotti le avrebbe ricordato, sornione, che alla potente diplomatica Usa in visita al Quirinale, Clare Boothe Luce, che chiedeva di essere presentata come “ambasciatore” e non “ambasciatrice” si trovò davanti al secco rifiuto di Luigi Einaudi: “Al capo dello Stato si possono chiedere tutti i sacrifici, ma non quello della lingua italiana”.
E nel post-scriptum le avrebbe suggerito di curare i rapporti con le due assemblee parlamentari: “I governi passano, ma senatori e onorevoli rimangono al loro posto”. Lasci perdere premierato e altre “fesserie” istituzionali.
A quanti hanno seguito la lunga stagione politico parlamentare della prima Repubblica […], non passerebbe mai per la testa d’interrogarsi su quale sarebbe la riflessione del leader o del premier che nell’ultimo trentennio si sono avvicendati alla guida dei partiti o dei governi, senza lasciare tracce visibili.
Nostalgia per il passato che non passa forse per il semplice motivo di aver vissuto quella stagione o per insofferenza per il presente? Secondo lo scrittore Kundera, il fascino della nostalgia può illuminare ogni cosa “anche la ghigliottina”.
Il peso metallico della lama mediatico giudiziaria posta sul capo di Andreotti alla fine non ha avuto l’effetto di farne né una vittima innocente né di scalfirne il suo curriculum di statista. L’accusa pesantissima di concorso esterno in mafia […], invece, gli sarà fatale nella corsa al Quirinale del 1992.
Dal maggio 1947 fino al giugno 1992 - con una breve pausa di quattro anni -, Giulio siederà a vario titolo, nelle stanze del governo. Di cui ben sette volte ne diventerà il titolare nelle più svariate alchimie politiche: destra, centro, centro-sinistra, compreso il governo della “non sfiducia” con il Pci di Berlinguer.
Il più longevo notabile di una nomenklatura che ha attraversato - tra lutti, attese e speranze -, quello che è stato chiamato il Secolo breve. “Io, in fondo – disse una volta Giulio – sono postumo di me stesso”. Già. Andreotti, nel bene e nel male – riassume in sé l’intera tormentata vicenda dell’Italia repubblicana dell’ultimo mezzo secolo. Quale che sia però il verdetto della storia - e non quello dei tribunali -, il senatore a vita non potrà non essere ricordato come tra i più importanti protagonisti della vita politica europea. E non soltanto.
Quella volta in cui Giulio Andreotti vinse il Telegatto. Giulio Andreotti è stato uno dei politici più importanti della Prima Repubblica, ma il suo lato ironico e brillante lo ha spinto a prestarsi anche a palchi inconsueti, come quelli del cinema e della televisione. Tommaso Giacomelli il 14 Maggio 2023 su Il Giornale.
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Il Telegatto
Andreotti ritira il Telegatto
Uno dei volti che più di tutti ha incarnato la Prima Repubblica d'Italia: Giulio Andreotti. Un formidabile politico, un inossidabile e incorreggibile principe romano, nel senso più machiavellico del termine. Un uomo misterioso, ma anche aperto ed espansivo, dotato di un sagace e finissimo humor, con il quale ha incrementato la sua popolarità. Tra le tante, è celebre la battuta: “Non attribuiamo i guai di Roma all’eccesso di popolazione. Quando i romani erano solo due, uno uccise l’altro”. La sua fisionomia, gli occhialoni spessi e il passo felpato, è stata un valore aggiunto che lo ha reso ancora più riconoscibile agli italiani. Il sette volte presidente del Consiglio, longevo portabandiera della Democrazia Cristiana, ha coltivato un rapporto intimo anche con le telecamere, prestandosi spesso e volentieri a presenze sul piccolo e sul grande schermo. Indimenticabile la sua comparsata nel film "Il Tassinaro", con l'amico Alberto Sordi, al pari delle volte in cui è andato a ritirare gli "Oscar" della tivù italiana: il Telegatto.
Il Telegatto
Nel 1971 la rivista "TV Sorrisi e Canzoni" idea un concorso, chiamato "Gran Premio Internazionale dello Spettacolo", volto a premiare le migliori personalità italiane dell'anno solare, spaziando dalla tivù al cinema, passando per lo sport, la cultura, la musica e persino la politica. Ai vincitori viene consegnato un gatto d'oro, che per tutti diventa il "Telegatto". L'idea di realizzare una statuetta a forma di micio fu dell'allora direttore Dario Baldi, che prese ispirazione dal proprio animale domestico, Bolla. Il felino dovrebbe comunicare calore e unità, come quando il nucleo familiare si riunisce nel proprio salotto a guardare la televisione.
Negli anni la kermesse ottiene sempre più consensi, tanto che nel 1984 approda sulle reti Mediaset con l'allure di un evento molto glamour, al quale tutti aspirano a partecipare. A votare i vincitori sono proprio gli italiani che, tramite un apposito tagliando contenuto nella rivista, indicano le personali preferenze per ogni categoria. Ed è qui che Andreotti, oltre alle urne, scopre di essere un volto particolarmente apprezzato.
Andreotti ritira il Telegatto
Il Divo Giulio verrà premiato, per la prima volta nel 1987, in qualità di personaggio politico dell'anno, guadagnandosi anche la copertina di "TV Sorrisi e Canzoni", insieme ai "Magnifici Sette" di quell'anno, posando al fianco di Vittorio Gassman e Corrado. Lo scafato politico avrà occasione di ripetersi anche in altre due occasioni, nel 1988 e nel 1990. In occasione di quest'ultima, presenzia sul palco del "Telegatto" in veste di presidente del Consiglio, duettando con arguzia e simpatia con lo storico presentatore Corrado, il quale gli chiede: "Prima c'è stato l'attore Gregory Peck, che ha detto che in Italia non è cambiato nulla, perché nel '52 fino a oggi c'era Giulio Andreotti e c'è ancora Giulio Andreotti. Lei che risponde?". La vecchia volpe prende una pausa, accenna un sorriso, alza le sopracciglia e in modo sottile replica: "Beh, sono molto contento di essermi trattenuto...". Sipario.
Dieci anni senza il Divo Andreotti. Bisignani: che consigli darebbe a Meloni e al Papa. Luigi Bisignani su Il Tempo il 07 maggio 2023
Caro direttore, più Divo che mai. In occasione del decennale della morte di Giulio Andreotti, ieri la famiglia è voluta tornare nel luogo di origine della sua vita terrena e spirituale: la parrocchia di Santa Maria in Aquiro, dedicata alla Madonna, situata nel cuore della Roma politica, tra Montecitorio e il Senato. A pochi passi da via dei Prefetti 18, la casa dell’anziana zia dove, rimasto orfano di padre a soli due anni, trascorse la sua fanciullezza. Ed è proprio in questa chiesa che Giulio mosse i primi passi da chierichetto. Tra queste mura, restaurate la prima volta da papa Gregorio III (731-741), ha coltivato anche la passione per una delle sue abitudini più celebri: la redazione dei suoi diari quotidiani. Certamente mai avrebbe immaginato che proprio quelle note l’avrebbero aiutato a disintegrare, per tabulas, più di una polpetta avvelenata gettatagli addosso nel corso della vita, soprattutto da Palermo, e che, grazie alla meticolosità con la quale registrava lo scandire dei giorni, ha potuto puntualmente restituire al mittente. Lo accusarono persino di essersi ritrovato in una masseria a baciare il mafioso Riina - proprio lui che, a stento, baciava la moglie, Livia, e ancor meno i figli, per non parlare degli amici ai quali riservava solo il braccio allungato a scatto per tenerli a debita distanza - nel momento in cui invece era dall’altra parte del mondo per partecipare ad un vertice internazionale. Aveva imparato a scrivere diari così precisi, quasi puntigliosi, grazie all’esperienza maturata nel tenere con grande cura i registri dei battesimi e dei decessi, quei decessi che tanto lo spaventavano - superstizioso com’era - quando, da chierichetto, era solito recarsi, insieme al sacerdote, in visita alle persone sul letto di morte. In talare nero e cotta bianca andava anche alle cerimonie in Vaticano dove, una volta in piena estate, rimase atterrito dalla tintura dei capelli di un anziano cardinale che, per il caldo, colava sui paramenti, convincendolo già allora che mai si sarebbe tinto la chioma. Ricordo ancora il suo disappunto, quando un giornale insinuò che anche lui facesse ricorso a questo genere di «ritocchini», circostanza che quasi volle smentire, contravvenendo così al principio, che per lui era un mantra, in base al quale «una smentita era una notizia data due volte».
Mentre la messa in suffragio scorreva, accanto alle preghiere veniva da pensare, tra la guerra in Ucraina e le prime battute d’arresto del Governo, che raccomandazioni darebbe oggi Giulio Andreotti -con il suo record di maggior numero di incarichi governativi della storia della Repubblica- a Papa Bergoglio e al premier Meloni. Potrebbero essere forse queste: «Santità, ricordo con orgoglio di averla avuta tra i collaboratori nella mia rivista "30 giorni" e le assicuro che anche qui, in Paradiso, ogni giorno preghiamo per Lei. Ne ha proprio bisogno, come ci sussurra spesso San Pietro. E osservo con piacere che sta modificando anche alcune convinzioni. All’inizio del suo Pontificato pensava che ormai l’Europa fosse marginale nel mondo, quasi inutile, ma con saggezza ha voluto rivedere le sue posizioni: la terribile guerra che si svolge in Ucraina colpisce e coinvolge il cuore dell’Europa, non a caso, le due guerre mondiali sono nate proprio qui... Vorrei esserle accanto per tentare ogni strada che porti alla pace, senza alcun inutile tweet come va di moda tra i nostri, per così dire, governanti... A tal fine mi permetta un sommesso consiglio, io che di Pontefici, Cardinali, Vescovi e Parroci ne ho visti e conosciuti, forse come, se non più di Lei: riattivi ed utilizzi la rete dei miei cari Nunzi Apostolici, preziosi e importanti tanto quanto i diplomatici della Farnesina e degli altri Paesi e si faccia aiutare dal Cardinal Parolin che ho conosciuto quando, giovane, veniva da me accompagnando il Segretario di Stato dell’epoca, il Cardinal Agostino Casaroli, che spesso incontravo anche nel villino di Maria Angiolillo, a Trinità dei Monti, , arrivavamo entrambi sempre con qualche minuto di anticipo rispetto agli altri ospiti per un breve scambio riservato di opinioni. Provi anche a volgere uno sguardo alla politica italiana ed individui un nuovo Giovanni Battista Montini, al secolo Paolo VI. Dopo 30 anni -a Napoli ce ne sono voluti 33, come gli anni di Cristo, per vincere lo scudetto - è giunto il momento che in Italia si ricrei un’area moderata di centro. I tassisti romani, che per me sono sempre stati più attendibili di qualsiasi sondaggista, (senza nulla togliere alla bravissima Alessandra Ghisleri) continuano a ripetermi: "a Preside’, se stava meglio nella Prima Repubblica, voi pensavate a tutti"». «Il mio pensiero va anche al presidente del Consiglio Giorgia Meloni -a proposito, non sa come la invidiano le mie colleghe Tina Anselmi e Franca Falcucci che ci tenevano proprio ad essere le prime donne premier della Repubblica Italiana- alla sua attività in Politica Estera, la mia vera grande passione. I miei apprezzamenti per come abilmente si sta muovendo nell’asse Euro-Atlantico, anche se mi permetto un’indicazione: quando andrà, spero presto, a Washington, vada con un "new deal" per l’Italia. Ora è il momento giusto per passare dalla teoria alla pratica, dall’orale allo scritto, chiarisco meglio: bene la sua posizione atlantista, ma ora deve presentarsi con un "Piano", anche perché credo che presto gli americani le chiederanno un altro grande segnale: prendere le distanze dalla Cina. Il mio vecchio e lungimirante amico Francesco Cossiga mi sussurrava sempre: "Caro Giulio, vanno bene Vaticano e Usa, ma ricordati di instaurare un rapporto forte anche con Londra e Israele!" Lei, Presidente, lo sta facendo da tempi non sospetti: complimenti!
Tuttavia aggiungo, qui dal Paradiso, un paio di suggerimenti: costruisca un rapporto molto più stretto con il Parlamento, che ho sempre considerato come il cuore della democrazia dove quel brav’uomo del ministro Ciriani non le sta facendo davvero un buon servizio, così come deve frenare le intemperanze del Presidente del Senato l’interista Ignazio La Russa, che mi pare di aver incontrato nella tenuta romana della Cesarina del comune amico Salvatore Ligresti. Ricordo un lontano pomeriggio con don Salvatore che portava a raccogliere le albicocche dagli alberi il Segretario di Stato Cardinal Sodano al volante di una golf car elettrica. Una gran paura, per la sua guida a scatti, con Sua Eminenza accanto all’autista ed io come un chierichetto dietro... Terrei anche un occhio e un orecchio all’Economia e alle Finanze, dove vedo l’accorto e cattolico ministro Giorgetti, forse consigliato dall’amico Monsignor Liberio Andreatta, più preso dalle cose spirituali che da quelle terrene... E, se posso ancora permettermi, parlo per esperienza personale, si tenga alla larga, come invece mi sembra non stia facendo, dalla telenovela sulla Guardia di Finanza, da generali e soprattutto Servizi che tanto piacciono al suo sottosegretario Mantovano ed al caro amico, si fa per dire, Luciano Violante... I generali sono bravi soprattutto in una guerra: quella tra di loro...». E, visto che nell’immaginario racconto è stato citato Francesco Cossiga, è bene anticipare una bella iniziativa per commemorare Andreotti a dieci anni dalla sua scomparsa, che si terrà mercoledì 17 maggio, alle ore 17, nella Sala della Regina a Montecitorio, dove verranno pubblicate, tra l’altro, le lettere del Divo con Francesco Cossiga quando era Presidente della Repubblica. Tra queste, una rivelatoria datata 15 settembre 1989, ampiamente eloquente del calvario giudiziario che Giulio Andreotti ha dovuto subire per dieci lunghi anni: "Caro Cossiga, ti rinnovo il ringraziamento espressoti a voce per aver firmato il decreto legge che impedisce a decine di condannati mafiosi di uscire subito dal carcere, in pendenza dell’appello. Non è certo piacevole proporre ancora una volta modifiche alla norma sulla carcerazione preventiva, ma se non lo avessimo fatto, oltre alla rimessa in circolazione di soggetti pericolosi (forse anche per loro stessi), avremmo nullificato l’effetto esemplare del maxi processo». A dimostrazione che in Paradiso, come diceva non si va in carrozza. Andreotti dixit.
Poca retorica e molti fatti. Il riformismo di Giulio Andreotti: duttilità e mediazione al servizio della politica. Giuseppe Fioroni su Il Riformista il 7 Maggio 2023
Foto LaPresse Torino/Archivio storicoStorico09/01/2001 RomaGiulio AndreottiGiulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) è stato un politico, scrittore e giornalista italiano. È stato tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, protagonista della vita politica italiana per tutta la seconda metà del XX secolo.nella foto: Giulio Andreotti e Sergio D’Antoni nell’organizzazione della "Democrazia Europea" sulle riforme elettoraliPhoto LaPresse Turin/Archives historicalHystory09/01/2001 RomeGiulio Andreottiin the photo: Giulio Andreotti and Sergio D’Antoni
La Messa in onore di Andreotti, a dieci anni dalla scomparsa, si celebra oggi in Santa Maria in Aquiro, porzione di un complesso monumentale identificato con il Tempio voluto da Adriano in memoria di sua suocera Matidia, poi deificata al pari dell’Imperatore. Andreotti vi si recava periodicamente a visitare insieme ad altri, sotto la guida di un sacerdote, gli orfanelli ospitati in un’ala del palazzo. Lo ricordava spesso, anche lui orfano di padre, contraddicendo lo stereotipo del politico freddo e controllato, senza emozioni.
A me dava sempre l’idea, in occasione di incontri riservati, che fosse più “umano” di tanti altri, certamente non al suo livello per carico di potere e responsabilità. Una volta mi volle vedere perché al congresso di Maiori, nel 1984, avrei dovuto candidarmi alla guida del Movimento giovanile del partito. Mi voleva bene. Non ero, tuttavia, in condizione di accettare: stavo per laurearmi e mi attendeva una carriera di medico universitario alla Cattolica di Roma. “Fai come vuoi – disse con una punta di delusione – ma ricordati che il treno passa solo una volta”. In realtà, appena finiti gli studi, fui catapultato alla guida di Viterbo: ero entrato in comune non immaginando fare il sindaco, ma solo il consigliere al servizio della mia città. In effetti sono stato trascinato dalla politica. Devo dire che quell’esperienza la ricordo con emozione, anche per l’aiuto che mi veniva da Andreotti a sostegno dello sviluppo di Viterbo come città della cultura, aperta sul piano delle relazioni internazionali.
A distanza di tempo venni eletto alla Camera – non era a atto scontato – e fui solerte a chiedergli udienza. “Lo so che vuoi dirmi, il treno è passato una seconda volta”. Ecco, Andreotti aveva il dono di una memoria formidabile. Mi dispiace leggere, fortunatamente meno oggi di una volta, commenti e giudizi che graffiano con violenza l’immagine di uno dei più grandi uomini di governo del Novecento. Lo si è accusato di fatti e di misfatti, oltre ogni misura, con ardore inquisitorio. Anche Moro, alla luce di queste accuse, sarebbe andato incontro alla sua triste fine per il cinismo di Andreotti, avendo agito da Presidente del Consiglio con imperdonabile distacco umano e politico, fino a coprire le manovre di poteri occulti. Non è vero. Mi è stato possibile accedere a una documentazione sconfinata in qualità di Presidente della Commissione bicamerale d’indagine “Moro 2” e mi sono fatto il convincimento che il ruolo svolto da Andreotti non sia stato deviato da interessi esterni o superiori, come recita una malevola vulgata. Andreotti fu colpito dolorosamente dalla vicenda Moro e visse quei 55 giorni di follia, con l’epilogo drammatico di via Caetani, nella consapevolezza di dover fronteggiare un attacco formidabile allo Stato democratico.
Nella sua vita ha operato ininterrottamente nelle istituzioni. È stato, secondo appunto i detrattori, un uomo di potere, anzi un uomo attaccato al potere. Eppure nella Dc ha saputo stare anche in minoranza, ad esempio quando con tutta l’area Zac (sinistra del partito) si oppose nel congresso del 1980 alla svolta del Preambolo, destinata a interrompere la politica del confronto con il Pci. In fondo concepiva la duttilità e la mediazione, come gli aveva insegnato il suo riconosciuto maestro, Alcide De Gasperi, strumenti al servizio della politica e non espedienti per aggirare principi e regole. Fu così che nel 1979, per aver preso impegno con Berlinguer all’inizio della stagione della solidarietà nazionale – impegno che consisteva nel prevedere che non ci fosse altra formula in Parlamento dopo quella organizzata con l’intesa dei comunisti – chiese ad alcuni senatori di votare contro il suo governo, per andare alle elezioni anticipate. Quei senatori erano andreottiani, uomini della sua corrente.
Nella sua prolungata azione di governo, più volte da Palazzo Chigi, mise in campo misure di sano riformismo: poca retorica e molti fatti. Fece scelte coraggiose, assumendosi la responsabilità dell’adesione allo Sme e poi al Trattato di Maastricht, per un lucido disegno di fedeltà all’europeismo. Prudente sulla riunificazione delle due Germanie, non esitò a garantire alla stretta finale il sostegno dell’Italia all’operazione di Helmut Kohl. Dette alla politica estera un pro lo di straordinaria forza e concretezza, specialmente nello scacchiere medio-orientale e nel bacino del Mediterraneo, lungo l’asse ideale tra sponda nord e sponda sud. Nei rapporti con il mondo arabo andò anche oltre la storica apertura della Dc, indubbiamente oltre la linea di Fanfani e Moro. Non fu mai “amerikano”: nella vicenda di Sigonella, con Craxi Presidente del Consiglio, difese l’onore dell’Italia. Forse pagò questo gesto di rigore che i circoli oltranzisti di Washington giudicarono offensivo. Ma l’uomo, comunque la si giri, aveva carattere. Ed è per questo che non possiamo non dirci andreottiani, in un tempo che rigurgita nostalgia per la serietà di una classe dirigente che lo statista romano, anche nelle traversie e negli errori, ha contribuito ad esaltare.
Giuseppe Fioroni
Divo Giulio o Belzebù? Potere e battute affilate di un sette volte premier. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023.
Preferiva l’ironia romana affilata e sussurrata a labbra chiuse, con frasi da florilegio: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», «A pensar male si fa peccato ma ci s’azzecca». Ha potuto contare su una famiglia riservatamente borghese e alla moglie scriveva lettere tenerissime
«Il potere logora chi non ce l’ha»: Giulio Andreotti ha pronunciato la sua frase feticcio nel 1951 durante un dibattito parlamentare. Giovane apprendista politico l’aveva detta per difendere De Gasperi suo gran mentore, che qualche avversario voleva allontanare perché 80enne e ormai, appunto, logorato. Il copyright del concetto-guida sarebbe in verità di Talleyrand, altra mente fina del realismo politico, ma Andreotti l’ha fatto talmente suo nel corso del tempo che è diventato chiave interpretativa della sua lunga vicenda politica e umana. Fino a trasformarlo in Belzebù, genio del male, protagonista sospetto - diretto o indiretto - di tutte le vicende oscure della politica, da Gladio alle trattative con la mafia, al presunto bacio con Totò Riina. «A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto» diceva. Ma forse era soltanto un Machiavelli in sedicesimo che «perpetuava il male per garantire il bene» come Paolo Sorrentino fa dire al suo Andreotti/Servillo nel celebrato monologo de Il Divo, interpretazione onirica e urticante della vita del politico dc, liquidata come «mascalzonata» da un Andreotti per una volta colpito al cuore: evento insolito per lui, sempre sorvolante e misurato nelle polemiche.
In genere preferiva quella ironia romanamente affilata e sussurrata a labbra chiuse con frasi da florilegio, passate direttamente nella vulgata mediatica: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», «A pensar male si fa peccato ma ci s’azzecca», «I panni sporchi si lavano in famiglia», «So di essere di media statura ma non vedo giganti intorno a me», «Non ho vizi minori» (per dire della sua avversione al fumo). Fino alla battuta con cui rese immortale un viaggio del nostro governo in Cina, nel 1986: lui, annegato nella folta delegazione italiana fra amici e collaboratori di Bettino, se ne venne fuori dall’aereo con quella battuta «Sono qui con Craxi e i suoi cari».
Un Machiavelli in salsa romana, perché, come ha detto lui stesso in una mitologica intervista-scontro con Oriana Fallaci del 1974, «Io sono romano e preferisco non drammatizzare oltre il necessario: esser romano aiuta molto a ridimensionare i problemi ed è un vero peccato che Roma non sia quasi mai riuscita ad essere governata da romani. Se pensa che prima di me non c’era mai stato un presidente del Consiglio, tutti nordisti o sudisti». Di sicuro dopo la prima volta ha pareggiato il conto, facendo il pieno con 7 presidenze del Consiglio e decine di volte da ministro in vari dicasteri. Ha fallito solo la presidenza della Repubblica, nel 1992, ma dal ‘91 è stato senatore a vita. Uomo dei dossier, teorico della politica dei due forni sia interni che internazionali, collocato nella Nato ma con un occhio di riguardo alla politica araba: dualismo diplomatico giustificato con la posizione dell’Italia nel Mediterraneo.
Ha potuto contare su una famiglia riservatamente borghese, con i 4 figli affidati alla moglie Livia Danese, conosciuta un giorno al Cimitero romano del Verano e unita da patto amoroso e solidale tutta la vita. Le scriveva lettere tenerissime, Cara Liviuccia, ora pubblicate per Solferino con postuma devozione (è scomparso il 6 maggio 2013, lei nel 2015) dai figli Serena e Stefano.
Estratto da ilsecoloxix.it – 6 maggio 2013
Quasi 500 vignette alcune «decisamente forti, un libro solo su di lui “Andreacula”, mai una querela. «Giulio Andreotti è stato uno statista che nel bene e nel male ha segnato la vita del paese, dotato di grandissimo senso dell’umorismo. Oggi la satira in Italia è morta, i quotidiani hanno paura di pubblicarmi».
Giorgio Forattini, […] da quasi 40 anni un foglio e una matita sono la sua arma per sbeffeggiare i politici italiani, collezionando querele ricorda così interpellato dall’Ansa uno dei suoi bersagli preferiti Giulio Andreotti: «Ogni volta mi chiedeva gli originali delle mie vignette, era un autentico collezionista. Quando mi capitava di incontrarlo per strada nel centro di Roma la scorta mi bloccava lui invece mi veniva incontro sorridente, lui può passare è un mio amico...».
Andreotti, insiste Forattini «l’ho rappresentato in mille maniere, alcune vignette erano proprio cattive, e non mi ha mai querelato. Ricordo che per i suoi 90 anni, durante una trasmissione, qualcuno gli chiese cosa ne pensasse di me, lui replicò: «Io sono stato inventato da Forattini!».
Ha disegnato vignette per le principali testate giornalistiche italiane da Paese Sera, a La Repubblica, La Stampa, Panorama solo per citarne alcune «ma oggi pubblico le mie vignette solo su internet e nei libri. I quotidiani sono terrorizzati dalle querele». […]
Il processo allo “zio Giulio” e all’intera Prima Repubblica. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 marzo 2023
Il 3 marzo di trent’anni fa l’uomo politico italiano più famoso è stato iscritto nel registro degli indagati per associazione a delinquere semplice e mafiosa. Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio e ventuno volte ministro, è finito alla sbarra per collusione con i boss.
Un detenuto disse al suo compagno di cella: «La vedi quella gobba? Guardala bene perché è piena di omicidi». La televisione era accesa, sullo schermo apparve l’uomo politico più famoso d’Italia che per sette volte era stato capo del governo e per ventuno ministro della Repubblica. Poi un altro raccontò: «Noi lo sapevamo chi era davvero, girava la voce che era punciutu».
Punciutu, punto sul polpastrello del dito indice della mano destra con un ago, o con la spina di arancio amaro o forse con una spilla d’oro come usavano i boss più megalomani delle province interne, comunque passato anche lui dal rito d’iniziazione con l’immagine della Madonna dell’Annunziata che prende fuoco e il sangue che sgorga mentre stregato recita la magica formula (“Come carta ti brucio, come santa ti adoro, che un giorno possa bruciare la mia carne se mai tradirò la Cosa nostra”) per diventare mafioso.
L’ENTITÀ
Giulio Andreotti mafioso. Palermo, fine inverno del 1993. Appena una decina di anni prima, e dopo un vorticoso incrocio di silenzi e di sguardi con il giudice Giovanni Falcone, il pentito Tommaso Buscetta si era limitato ad alludere a un’impalpabile “Entità” che suggeriva e proteggeva, che metteva sempre le cose a posto in Sicilia e a Roma. Ma con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, le bombe, era cambiato tutto. E quella figura avvolta perennemente nel mistero aveva preso quasi un nome.
Per alcuni ero “lo zio”, per altri “lo zio Giulio”. Era sempre lui. Così il 4 marzo del 1993, un giovedì, in una stanza al secondo piano dell’imponente palazzo di giustizia di Palermo ci fu il primo atto di quello che sarebbe stato definito Il processo del secolo.
L’iscrizione di Giulio Andreotti nel registro degli indagati “per i reati di cui agli articoli 110 e 416 c.p. e agli articoli 110 e 416 bis c.p.”, concorso esterno in associazione semplice e concorso esterno in associazione mafiosa. Ventitré giorni dopo, il 27 marzo alle undici del mattino in punto, da Palermo fu inoltrata all’ufficio di presidenza del Senato una richiesta di autorizzazione a procedere di 246 pagine firmata dal procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli e dai sostituti Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato.
Il 13 maggio la speciale giunta di palazzo Madama concesse l’autorizzazione «escludendo la sussistenza di fumus persecutionis oggettivo e soggettivo nei confronti di Giulio Andreotti», il 21 maggio la procura di Palermo modificò con un tratto di penna il capo d’imputazione: non più concorso in associazione mafiosa ma associazione mafiosa pura.
L’ITALIA DIVISA IN TRE
A quel punto l’Italia si è divisa in due e pure in tre. Quasi mafioso, mafioso, mafiosissimo. Quasi innocente, innocente, innocentissimo. Finalmente trascinato davanti a un tribunale per le sue gravi colpe, vittima di una grande macchinazione nazionale e internazionale, invischiato fino al collo nelle brutalità della mafia siciliana, corrotto e corruttore, incastrato da diaboliche forze e probabilmente anche da una fazione del governo americano che non vedeva l’ora di levarselo di torno dopo la caduta del Muro di Berlino. Particolarmente sagace, la battuta sempre pungente, una straordinaria capacità di sintetizzare pensieri complessi in una sola frase, quando le carte dei suoi insidiosi rapporti con la mafia vengono scoperte lui muove lentamente la testa incassata fra le spalle ingobbite, piega le labbra sottili e sibila: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito di tutto».
Cos’è l’atto d’accusa dei magistrati di Palermo? Un processo a un potere incrollabile? Un processo alla Storia? Un processo all’uomo - nato a Roma il 14 gennaio del 1919, democristiano, giornalista, scrittore, a ventotto anni già sottosegretario nel governo di Alcide De Gasperi, delfino di Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare - o al sistema?
I SUOI PECCATI
Ciò che è sempre stato oscuro, viene spiegato in realtà con una semplicità che sconvolge. Giulio Andreotti, uno che dalla fine della Seconda Guerra mondiale si è seduto al tavolo con i padroni del mondo, con capi di stato come Eisenhover e De Gaulle, Mitterand e Reagan, Thatcher e Gorbaciov, contemporanemente ha intrattenuto rapporti criminali con don Stefano Bontate e don Gaetano Badalamenti e persino con Totò Riina, ha “aggiustato” procedimenti in Cassazione, ha ordinato omicidi o comunque non ha fatto nulla per evitarli, ha garantito e si è garantito l’appoggio di Salvo Lima, il console in Sicilia che con Cosa Nostra era in un solo abbraccio.
I suoi misfatti e i suoi peccati, giuridicamente parlando: «Avere messo a disposizione dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l’influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione medesima». Giulio Andreotti mafioso.
Più che un’inchiesta, se pur clamorosa, simboleggia l’abbattimento di una struttura statuale messa in piedi dal 1945. Giulio Andreotti incarna la Democrazia Cristiana che ha governato per quasi quarant’anni l’Italia (da non confondere con ciò che sarebbe accaduto qualche tempo dopo con le indagini sui legami fra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, forse riciclatore di denaro sporco, forse a conoscenza di segreti sulle stragi siciliane del 1992 ma sicuramente non “uomo stato” come Andreotti), è l’occulto della Prima Repubblica.
LE TRAME E I SEGRETI
Le trame del Sifar - il servizio segreto militare all’epoca dei dossier del generale Giovanni De Lorenzo - il crack Montedison con protagonista l’imprenditore Nino Rovelli, il complotto contro il direttore della Banca d’Italia Mario Sarcinelli e il presidente Paolo Baffi, il patto con il banchiere della mafia Michele Sindona e l’altro con il banchiere di Dio Roberto Calvi, la loggia P2 di Licio Gelli, le scorrerie del comandante generale della guardia di finanza Raffaele Giudice in combutta con i petrolieri, lo spericolato intreccio con i “palazzinari" romani Caltagirone (famosa la frase pronunciata dal capostipite dei Caltagirone, Gaetano, al ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti: «A Fra’ che te serve?»), l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, le ombre sul delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sfiorato dai più grandi scandali ma mai affondato, nemmeno graffiato.
Eugenio Scalfari, in un celebre editoriale su Repubblica lo battezza Belzebù, descrivendolo «come l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco». E poi la mafia siciliana. Alla fine sono i padrini a farlo sprofondare e ad imprigionarlo in un processo infinito che si celebra nel bunker di Palermo, proprio nell’aula dove qualche anno prima erano rinchiusi i capi della Cosa Nostra.
IL DELITTO LIMA
Le indagini su Andreotti prendono avvio il 12 marzo del 1992. È il giorno dell’assassinio di Salvo Lima, il capo della corrente andreottiana siciliana che, come aveva ricordato il prefetto generale Dalla Chiesa al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini nella primavera del 1982 prima del suo sbarco a Palermo, «era la famiglia politica più inquinata del luogo».
Lima, europarlamentare e già sottosegretario alle Finanze, è un capobastone della Democrazia cristiana, è legato ai potentissimi Nino e Ignazio Salvo, proprietari terrieri, interessi nel turismo e nella commercializzazione del vino e soprattutto esattori.
Nel resto d’Italia l’aggio concesso per le somme riscosse è poco superiore al 3 per cento, in Sicilia sfiora il 10 per cento. I Salvo sono mafiosi, uomini d’onore della famiglia trapanese di Salemi. Loro e Salvo Lima sono i re dell’isola fino a quando i Corleonesi di Totò Riina non conquistano Cosa Nostra, vincono ma si ritrovano comunque all’ergastolo.
Quello di Lima è il primo delitto eccellente del 1992. I sicari lo rincorrono sui vialetti di Mondello, il mare di Palermo. E lo uccidono sparandogli alle spalle, come si fa con i traditori. Il movente: «Non avere garantito il buon esito del maxi processo». Il 30 gennaio precedente la Cassazione, contro ogni previsione, ha condannato tutti i grandi boss siciliani. È la prima volta, una sentenza storica.
Ed è la prima volta che a presiedere la prima sezione della suprema corte non c’è Corrado Carnevale, il giudice conosciuto come “l’ammazzasentenze”, sbalzato da quella poltrona da una rotazione di magistrati voluta da Giovanni Falcone e dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Meno di due mesi dopo il verdetto della mafia, l’esecuzione di Mondello.
LA CORSA AL QUIRINALE
È un omicidio che destabilizza l’Italia. Punisce Salvo Lima ma ferma anche la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti. Le elezioni del nuovo capo dello stato sono previste in primavera, lui è uno dei candidati favoriti. «Da questo momento può succedere di tutto», dice Giovanni Falcone la sera stessa del delitto. Succede che Andreotti è definitivamente fuori gioco, non diventerà mai Presidente della Repubblica.
Le indagini intorno all’omicidio Lima scavano sui summit fra “zio Giulio” e il capomafia palermitano Stefano Bontate dopo la morte del presidente della regione Piersanti Mattarella, sul condizionamento di alcuni processi ai boss, sulla sua vicinanza con il capo della loggia P2, sul suo coinvolgimento nell’uccisione del direttore della rivista OP Mino Pecorelli legata alla “carte segrete” di Aldo Moro, sui suoi viaggi non registrati fra Palermo e la Sicilia per incontrare personaggi gravitanti nell’ambiente criminale.
È il procedimento penale numero 1491/93. Migliaia di fogli raccolti in 9 volumi e 26 capitoli, i testimoni citati dall’accusa 400, i pentiti all’inizio sono 27 e alla fine 41.
L’ENIGMATICO PENTITO
Ci sono quelli cosiddetti di serie A come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia o Angelo Siino e Francesco Di Carlo, c’è qualche pugliese e qualche calabrese, c’è il messinese Orlando Galati Mamertino (quello della gobba piena di omicidi), c’è Leonardo Messina da Caltanissetta (quell’altro che aveva sentito dire che era “punciutu”), un paio sono della banda della Magliana. Poi ne salta fuori uno che fa saltare il banco. È Balduccio Di Maggio, ex autista di Totò Riina, il mafioso che porta - e ancora oggi, dopo trent’anni, non sappiamo come - i carabinieri del Ros al capo dei capi latitante da un quarto di secolo.
Ufficialmente Di Maggio viene catturato in Piemonte l’8 gennaio (ma il gelataio indovino Salvatore Baiardo, che ha annunciato la cattura di Matteo Messina Denaro, dirà che sapeva del suo pentimento già dal dicembre 1992), poi rivela una ventina di ammazzatine ai sostituti procuratori palermitani Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi, poi ancora si presenta da Gian Carlo Caselli con una fantastica favola. Quella del bacio.
Ricorda che un giorno, tra le 14 e le 16 del 21 settembre 1987, accompagnò Totò Riina nella lussuosa casa palermitana di Ignazio Salvo “alla Statua”, in fondo a viale Libertà, dove trovò ad attenderlo Salvo Lima, lo stesso Ignazio Salvo e l’ospite d’onore: Giulio Andreotti. Testuale Di Maggio: «Il Riina salutò con un bacio tutte e tre le persone».
Il bacio, per le immaginabili suggestioni suscitate nell’opinione pubblica, fuori dall’aula di giustizia è diventato il cuore del processo Andreotti. Mai dimostrato né dimostrabile (Salvo Lima era stato ucciso a marzo del 1992, Ignazio Salvo appena sei mesi dopo), negato naturalmente da Andreotti, ha rappresentato una sorta di cavallo di troia nella corposa documentazione accusatoria sullo “zio Giulio”.
Con il senno del poi potremmo dire - anche se qualcuno aveva subito intuito il pericolo di una testimonianza così iperbolica e maliziosa - che l’enigmatico Balduccio Di Maggio dell’arresto di Riina aveva ancora una volta fatto il suo mestiere coplentando l’opera con Andreotti. Verità e menzogne, abilmente mischiate.
Di quel bacio, alla fine, c’è rimasto solo il geniale pensiero dell’attore palermitano Ciccio Ingrassia: «Io non so se Andreotti e Riina si siano mai incontrati, ma se si sono incontrati di sicuro si sono baciati».
MAI VISTI DA VICINO
Il processo si apre la mattina del 26 settembre nella grande aula accanto all’Ucciardone. I giudici sono quelli della quinta sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Francesco Ingargiola, a latere Salvatore Barresi e Vincenzina Massa.
Per la pubblica accusa Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato. Il collegio difensivo è composto da Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e da una giovanissima Giulia Bongiorno. Poi si aggiungerà anche l’avvocato Odaordo Ascari. L’aula è stracolma, centinaia i giornalisti provenienti da tutto il mondo, accreditata anche una troupe giapponese.
Alla vigilia del dibattimento sugli scaffali delle librerie è in bella mostra un volume: «Cosa Loro, mai visti da vicino». Giulio Andreotti ricostruisce per la Rizzoli i suoi ultimi tre anni e mezzo di vita, dal giorno in cui il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere contro di lui.
Scrive: «In queste pagine non si troveranno invettive o generiche lamentele, ma solo descrizioni puntuali di un impianto accusatorio che io ritengo infondato e perverso». E ancora: «Era stato presentato all’inizio del preannuncio di schiaccianti dimostrazioni di mie responsabilità mafiose; ora ripiega sulla singolare tesi di un reato collettivo, compiuto dalla Democrazia Cristiana siciliana o da una parte di essa; attraverso uno scambio di favori fra politica e mafia del quale non si è avuta la possibilità di dimostrare contro di me il benché minimo esempio di concretizzazione».
Dopo duecentocinquanta udienze il dibattimento di primo grado viene formalmente chiuso il 19 gennaio. Comincia la requisitoria dei pubblici ministeri, ventitré sedute: quindici gli anni chiesti per Andreotti.
La difesa, dopo ventiquattro sedute, vuole l’imputato pienamente assolto. Fra i testi a discolpa l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Xavier Perez De Cuellar, gli ex ambasciatori Usa a Roma Maxwell Rabb e Peter Secchia, l’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, l’ex capo dei servizi segreti Riccardo Malpica, tre ex capi della polizia. E, colpo di scena, anche il boss Gaetano Badalamenti. Perché don Tano, sul delitto Pecorelli e su quello Dalla Chiesa, ha smentito Buscetta.
L’INCUBO BUSCETTA
Il primo pentito di mafia dell’era moderna è un incubo per Andreotti. Ha credibilità, carisma, ha la certificazione doc del giudice Falcone. Racconterà a proposito del suo vecchio amico Badalamenti: «Mi disse che un giorno si era incontrato con il presidente a Roma e che si era personalmente congratulato con lui, dicendogli che "di uomini come lui (Badalamenti, ndr) ce ne voleva uno per ogni strada di ogni città italiana”..».
Dopo undici giorni di camera di consiglio, il 23 ottobre 1999 il tribunale di Palermo assolve Giulio Andreotti “perché il fatto non sussiste”. Mancanza di prove sufficienti, incongruenze, dichiarazioni confuse e contraddittorie. Il contesto che dipingono i giudici intorno all’imputato eccellente però è maleodorante. Lui, che non aveva mai mostrato un gesto di gioia o un moto d’ira, per la prima volta ha un brivido, quasi trema e dice: «La partita è chiusa».
Nel frattempo Giulio Andreotti viene assolto a Perugia anche per l’omicidio di Mino Pecorelli, poi sarà condannato a 24 anni in appello e definitivamente assolto in Cassazione. Nel frattempo il presidente della Suprema Corte Corrado Carnevale viene assolto a Palermo dall’accusa di avere “aggiustato” il maxi processo, condannato a 6 anni in secondo grado e poi anche lui assolto dalla Cassazione. Si arriva così all’appello per Giulio Andreotti. E il 2 maggio del 2003 la sentenza rimescola le carte. In parziale riforma del primo verdetto i giudici affermano che, fino alla primavera del 1980, Giulio Andreotti era colluso con Cosa Nostra.
E che, solo dopo l’uccisione del presidente della regione Piersanti Mattarella, si è allontanato dall’organizzazione criminale. Condannato e prescritto per l’associazione a delinquere semplice fino al 1980, assolto sia pur in forma dubitativa per il dopo. Due epoche di mafia, due sentenze. Confermate dalla Cassazione il 28 dicembre del 2004.
IL DIVO
Ma il processo contro l’uomo politico italiano più famoso dalla fine della Seconda Guerra mondiale in realtà non è mai finito. Continua ancora oggi, a trent’anni dall’inizio dell’indagine. Intrecciandosi con tutti gli altri “processi politici” celebrati a Palermo negli anni successivi, incrocio rovente della giustizia italiana, campo di battaglia, arena. Il dibattito è sempre aperto soprattutto su un punto: bisognava processarlo e condannarlo politicamente e non trascinarlo in un’aula di tribunale. Sullo “zio Giulio” viene girato nel 2008 anche un film capolavoro, Il Divo, regista il premio Oscar Paolo Sorrentino. E poi una montagna di libri. Ne cito solo alcuni.
Quello dell’avvocato Giulia Bongiorno (Nient’altro che la verità, Rizzoli 2005), quello del sociologo Pino Arlacchi (Il processo, Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Rizzoli 1995), quello di Alexander Stille (Andreotti, Mondadori 1995), quello di Gian Carlo Caselli e di Guido Lo Forte (La verità sul processo Andreotti, Laterza 2018) e ancora tanti altri.
Sempre nel 1995 la Pironti Editore pubblica un tomo di 973 pagine che riporta integralmente la memoria dei procuratori di Palermo, il titolo fa discutere: La vera storia d’Italia. L’anno dopo, un pamphlet firmato dallo storico Salvatore Lupo (Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli) dà più ampio respiro alla vicenda: «La vera storia d’Italia passa anche per l’aula del processo Andreotti, ma – per disgrazia o per fortuna – non si ferma lì».
Giulio Andreotti muore a Roma il 6 maggio del 2013 all’età di novantaquattro anni.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
I misteri del caso Mino Pecorelli e l’inchiesta di «Atlantide». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.
Il lavoro di Purgatori mette in luce come dalle colonne di OP, Pecorelli abbia denunciato episodi di corruzione e malcostume, spesso con anticipazioni molto documentate. Era solo un bravo giornalista o un uomo dei servizi?
L’uccisione di Mino Pecorelli, assassinato in auto mentre lasciava la redazione del suo giornale OP, nel quartiere Prati di Roma (20 marzo 1979), resta un buco nero nella storia politica dell’Italia, ma anche nella storia del giornalismo. A tratti vengono i brividi a seguire il racconto di Andrea Purgatori, dedicato appunto all’assassinio del giornalista: «Atlantide» (La 7). Quando Rosita Pecorelli, la sorella, rivela che il fratello aveva consegnato a Papa Luciani un elenco di prelati infedeli e la notte stessa il Papa morì. Sarà vero? Fa parte della leggenda? Quando la giornalista Raffaella Fanelli, che ha scritto un libro sul caso, sostiene che Pecorelli era a conoscenza di lettere di Aldo Moro mai divulgate e di particolari inediti? Sarà vero? Fa ancora parte della leggenda?
Quella di Pecorelli è una storia che inquieta ancora oggi. Dirige un piccolo settimanale, OP - Osservatorio Politico di «notizie riservate», in cui parla di massoneria, di segreti vaticani, di banche e banchieri e molto spesso di Giulio Andreotti. Venticinque anni dopo l’assassinio, la Corte d’appello di Perugia condannerà Andreotti, per l’omicidio volontario di Pecorelli, a 24 anni di carcere indicandolo come capo di una banda che comprende mafiosi e i dirigenti della banda della Magliana, la più potente organizzazione della malavita romana, con la consulenza del magistrato Claudio Vitalone. Uno scenario da incubo. Un anno dopo, però, la Corte di cassazione dichiarerà nullo tutto il processo, e proclamerà libero e definitivamente assolto Andreotti, senza obbligo di sottoporsi a nuovi procedimenti. Il lavoro di Purgatori mette in luce come dalle colonne di OP, Pecorelli abbia denunciato episodi di corruzione e malcostume, spesso con anticipazioni molto documentate. Era solo un bravo giornalista o un uomo dei servizi? Per chi è interessato, il programma si trova sul sito de La7.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Secessionisti.
Il congresso del Partito socialisti.
Annabella de Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2023
Corriere delle Puglie 22 gennaio 1921
«I comunisti abbandonano il Partito socialista e i concentrazionisti vi rimangono»: così «Il Corriere delle Puglie» del 22 gennaio 1921 dà notizia della grande scissione avvenuta all’interno di una delle maggiori forze politiche del Paese, già da anni travagliata da profonde divisioni di corrente. Il giorno prima, nel Teatro Goldoni di Livorno si è concluso, infatti, il 17° Congresso nazionale del Partito socialista: è andata al voto la proposta di espellere i riformisti, o «unitari», che auspicavano una correzione del sistema attraverso le riforme e non necessariamente attraverso la rivoluzione. Questi, invece, hanno ottenuto la maggioranza dei suffragi: la fazione comunista, guidata dal napoletano Bordiga e di cui fanno parte anche Antonio Gramsci e Umberto Terracini – che a Torino avevano dato vita al settimanale «Ordine nuovo» – abbandona l’aula. «Ai comunisti che si separano da noi, noi diciamo che ci separiamo da essi con cordiale fraternità», sono le parole del socialista Bacci che compaiono sul «Corriere»; i congressisti escono, così, al canto dell’Internazionale, di Bandiera rossa e dell’Inno dei Lavoratori. Nel frattempo, nel Teatro San Marco di Livorno, si ufficializza la costituzione del Partito comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale: ai giornalisti, però, «è stato negato il permesso di assistere alla seduta».
Il destino del riformismo italiano. Matteotti, un uomo solo: un riformista inviso a destra e a sinistra. Riccardo Nencini Il Riformista il 9 Giugno 2023
All’eroe, al martire, preferisco l’uomo. L’uomo di faccia a una scelta, l’uomo di fronte al destino di uomo. L’uomo che corre dove cova l’incendio per non abbandonare alla sorte i diseredati della sua terra, la provincia più povera d’Italia, la provincia dove il bracciante viene chiamato ‘instrumento vile’, meglio la vacca. L’uomo che, quasi alla cieca, combatte per la sua verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e, da lì, si sposta in ogni regione d’Italia per mettere in guardia dallo squadrismo agrario che ha ormai i connotati di squadra fascista.
Nel gennaio del 1921, dopo la prima interrogazione su omicidi e bastonature presentata a Montecitorio, viene rapito, seviziato e bandito da una squadraccia. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. L’uomo che crede profondamente in un’idea, a tal punto da mettere a rischio la vita. L’uomo che ama un’unica donna fin dal primo incontro all’Abetone, in Toscana, e affida alle lettere sentimenti e passioni perché da anni è un bastardo, un esule inseguito, braccato. L’uomo che abbraccia la vita proprio andando incontro alla morte perché se no non è vita, è rinuncia. L’uomo che lotta contro il ‘mussolinismo’ prima ancora che contro il fascismo, che capisce che Il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola e media borghesia privandola di risparmi e soprattutto del ruolo sociale che aveva prima della Grande Guerra.
L’antibolscevico che non crede nell’illusione della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia del Parlamento e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. L’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e a sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che nel pantheon della sinistra comunista non ha mai trovato diritto di cittadinanza.
Quando il cadavere di Giacomo viene scoperto, l’attacco più duro verrà proprio da Antonio Gramsci. Scriverà: “È morto il pellegrino del nulla” che nella vita politica ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, anzi: un socialfascista, l’epiteto usato contro Turati, contro Treves, contro Matteotti, contro i dirigenti riformisti della Cgl, a partire da Buozzi, dai vertici comunisti italiani. Giorni dopo, il comitato centrale del Pcd’I approva all’unanimità un documento che si conclude con una frase di fuoco: i nemici del proletariato sono Mussolini, Sturzo, Turati e Amendola. Tutti incredibilmente allo stesso livello. Perché? Perché i comunisti ritenevano, confidando nella linearità della storia e nella veridicità del marxismo, che il capitalismo fosse in crisi e dietro l’angolo vi fosse la rivoluzione imminente il cui sbocco finale era lo stato comunista. Dunque, chi immaginava accordi parlamentari allo scopo di defenestrare Il Duce altro non era che un traditore della classe operaia. I fatti smentiranno quell’analisi e obbligheranno Gramsci, dal carcere, a fare autocritica.
Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile opposizione politica al Duce e al fascismo e perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per avere raccolto le prove di una tangente di 30 milioni pagata dalla Sinclair Oil ad alti membri delle istituzioni oltre che ad Arnaldo, il fratello del capo. Ne avrebbe parlato alla Camera l’11 giugno 1924. Venne rapito e ucciso il giorno prima.
Un uomo solo, non un eroe lontano dal tempo. Un eretico, una voce fuori dal coro. Sarà per questo che non fu tanto amato, sarà per questo che lo ricordiamo. Riccardo Nencini
L'assassinio del socialista. L’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, il leader socialista ucciso da fascisti. Milizie armate ai seggi per impedire il voto, schede taroccate, minacce e violenze. Il 30 maggio ‘24 il leader del Psi denuncia in Aula il voto farsa. Ecco il discorso che lo portò alla morte per ordine del Duce. Redazione su L'Unità l'11 Giugno 2023
Il 30 maggio del 1924 Giacomo Matteotti, leader socialista, prese la parola nell’aula di Montecitorio e pronunciò un durissimo discorso di condanna del fascismo. Questo discorso gli costò la vita. Dieci giorni più tardi fu rapito accoltellato e ucciso da una squadraccia mandata da Mussolini. Pubblichiamo ampi stralci di quel formidabile discorso. Il presidente della Camera era il giurista Alfredo Rocco, che l’anno successivo diventò ministro della Giustizia.
Presidente.
Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.
Giacomo Matteotti.
Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… (Interruzioni).
Voci al centro: “Ed anche più!”
cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti – Proteste – Interruzioni alla destra e al centro) L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza, Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso.
Una voce a destra:
“E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?”
Roberto Farinacci.
Potevate fare la rivoluzione!
Maurizio Maraviglia.
Sarebbero stati due milioni di eroi!
Giacomo Matteotti.
A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata… (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di “Viva la milizia”)
Voci a destra: “Vi scotta la milizia!”
Giacomo Matteotti.
… esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra, rumori prolungati)
Voci: “Basta! Basta!”
Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.
Giacomo Matteotti.
Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. In aggiunta e in particolare… (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero… (Interruzioni, rumori)
Roberto Farinacci.
Erano i balilla!
Giacomo Matteotti.
È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori a destra e al centro)
Voce al centro: “Hanno votato i disertori per voi!”
Enrico Gonzales.
Spirito denaturato e rettificato!
Giacomo Matteotti.
Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali. (Interruzioni)
Paolo Greco.
Voi non rispettate la maggioranza e non avete diritto di essere rispettati.
Giacomo Matteotti.
La presentazione delle liste – dicevo – deve avvenire in ogni circoscrizione mediante un documento notarile a cui vanno apposte dalle trecento alle cinquecento firme. Ebbene, onorevoli colleghi, in sei circoscrizioni su quindici le operazioni notarili che si compiono privatamente nello studio di un notaio, fuori della vista pubblica e di quelle che voi chiamate “provocazioni”, sono state impedite con violenza. (Rumori vivissimi)
Voci dalla destra: “Non è vero, non è vero.”
Giacomo Matteotti.
Volete i singoli fatti? Eccoli: ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata… (Rumori)
Maurizio Maraviglia.
Non è vero. Lo inventa lei in questo momento.
Roberto Farinacci.
Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!
Giacomo Matteotti.
Fareste il vostro mestiere! A Melfi… A Genova (Rumori vivissimi) i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati
Voci: “Perché erano falsi.”
Giacomo Matteotti.
Se erano falsi, dovevate denunciarli ai magistrati!
Roberto Farinacci.
Perché non ha fatto i reclami alla Giunta delle elezioni?
Giacomo Matteotti.
Ci sono. Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumori. I fatti o sono veri o li dimostrate falsi. Non c’è offesa, non c’è ingiuria per nessuno in ciò che dico: c’è una descrizione di fatti.
Attilio Teruzzi.
Che non esistono!
Giacomo Matteotti.
Da parte degli onorevoli componenti della Giunta delle elezioni si protesta che alcuni di questi fatti non sono dedotti o documentati presso la Giunta delle elezioni. Ma voi sapete benissimo come una situazione e un regime di violenza non solo determinino i fatti stessi, ma impediscano spesse volte la denuncia e il reclamo formale. Voi sapete che persone, le quali hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto, sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso. Già nelle elezioni del 1921, quando ottenni da questa Camera l’annullamento per violenze di una prima elezione fascista, molti di coloro che attestarono i fatti davanti alla Giunta delle elezioni, furono chiamati alla sede fascista, furono loro mostrate le copie degli atti esistenti presso la Giunta delle elezioni illecitamente comunicate, facendo ad essi un vero e proprio processo privato perché avevano attestato il vero o firmato i documenti! In seguito al processo fascista essi furono boicottati dal lavoro o percossi. (Rumori, interruzioni)
Voci: a destra: “Lo provi.”
Giacomo Matteotti.
La stessa Giunta delle elezioni ricevette allora le prove del fatto. Ed è per questo, onorevoli colleghi, che noi spesso siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione. (Applausi all’estrema sinistra) In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.
Una voce al banco della giunta: “Dove furono impedite?”
Giacomo Matteotti.
A Melfi, a Iglesias, in Puglia… devo ripetere? Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile. Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona. (Interruzioni, rumori) Volete i fatti? La Camera ricorderà l’incidente occorso al collega Gonzales. L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)
Enrico Gonzales.
I fatti non sono improvvisati!
Giacomo Matteotti.
Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’onorevole Amendola, e che fu impedita… Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che “qualcuno di noi ha provocato” e come “in seguito a provocazioni” i fascisti “dovettero” legittimamente ritorcere l’offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)
Un’altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l’unica garanzia possibile, l’ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l’unico controllo, l’unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e l’onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall’opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c’è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni…
Una voce, a destra: “Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti!”
Giacomo Matteotti.
Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l’Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all’ordine del giorno dal Presidente del Consiglio per l’atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la “regola del tre”. Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente.
Voci: “No! No!”
Giacomo Matteotti.
Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio. (Vivi rumori interruzioni)
Presidente.
Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda!
Giacomo Matteotti.
Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l’oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all’estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera) Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno… (Rumori) per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza.
Voci a destra: “Accettiamo” (Vivi applausi a destra e al centro)
Giacomo Matteotti.
[…] Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra – Vivi rumori) Redazione - 11 Giugno 2023
99 anni il delitto. Cosa c’era davvero dietro il discorso di Matteotti che gli costò la vita. Dieci giorni prima di essere rapito e ucciso, il deputato e segretario del Partito socialista unitario aveva pronunciato alla Camera un discorso durissimo per denunciare irregolarità e violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile. David Romoli su L'Unità il 10 Giugno 2023
Lo chiamavano “Tempesta” per il carattere focoso e indomabile. Quando fu rapito e ucciso, il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti aveva 39 anni ed era segretario del Partito socialista unificato, l’ala più moderata del Psi, quella che faceva capo a Filippo Turati, espulsa dal Partito socialista nell’ottobre del 1922. Dieci giorni prima aveva pronunciato alla Camera un discorso fiammeggiante, nel quale denunciava le irregolarità e le violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile 1924, le ultime prima che fosse instaurata la dittatura.
Era stato un atto d’accusa clamoroso che aveva suscitato massima ira tra i fascisti: nei resoconti parlamentari si contano più o meno 60 interruzioni, sempre più minacciose. Matteotti aveva lasciato la sua abitazione vicino a Lungotevere Arnaldo da Brescia nel pomeriggio, forse diretto verso la Camera, forse verso il fiume allora balneabile. Fu preso e caricato su una Lancia Lambda presa a nolo alle 16.30, sul lungotevere. Si difese, scalciò, ruppe con un calcio il vetro che divideva i sedili posteriori da quelli anteriori, riuscì a lanciare dal finestrino il tesserino di parlamentare. Fu accoltellato a morte nella colluttazione.
Uccidere il leader socialista non era nei progetti dei rapitori: non avevano usato alcuna prudenza, si erano fatti notare sulla stessa auto mentre preparavano il sequestro nei giorni precedenti, dopo il rapimento proseguirono col clacson premuto a tavoletta. Non avevano neppure gli strumenti necessari per seppellire il cadavere: dovettero scavare la fossa con il crick. I fascisti coinvolti nell’azione facevano parte di quella che si definiva “Ceka”, come la polizia segreta bolscevica in Russia. Nome pomposo e inadeguato: in realtà si trattava di gruppi di picchiatori e squadristi, quasi tutti ex arditi, senza una vera struttura, violenti ma dilettanteschi e indisciplinati. Quando il parlamentare rapito si difese misero mano al pugnale come erano abituati a fare sin dalla guerra.
Quanti fossero i “cekisti” coinvolti nell’azione non è mai stato accertato. Di sicuro c’erano Amerigo Dùmini, capo della squadra, 30 anni. E con lui Albino Volpi, squadrista particolarmente feroce, probabilmente l’accoltellatore, poi Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria alla guida. Quando si ritrovarono con il cadavere in macchina senza averlo preventivato si limitarono a girare per qualche ora aspettando il buio per poi seppellirlo in una radura vicino Sacrofano, in una fossa scavata con mezzi di fortuna destinata a essere scoperta solo mesi dopo, il 16 agosto.
Gli assassini tornarono a Roma intorno alle 22.30 e Dùmini si recò al Viminale con la stessa macchina nella quale era stato appena ucciso Matteotti. I referenti dei sedicenti “cekisti” erano pezzi grossissimi: Cesare Rossi, capo ufficio stampa di palazzo Chigi e uomo di fiducia di Mussolini, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, ma anche, meno direttamente coinvolti, Aldo Finzi, sottosegretario e ministro vicario degli Interni, di cui era titolare lo stesso Mussolini, destinato a essere fucilato vent’anni dopo alle Fosse Ardeatine, e il capo della polizia, l’ex quadrumviro Emilio De Bono. A procurare la macchina era stato Filippo Filippelli, direttore di un giornale di recente fondazione e affarista senza scrupoli.
Dùmini e Filippelli, nel cuore della notte del 10 giugno, nascosero la macchina in un garage, progettando di ripulirla e cancellare le tracce nei giorni seguenti. Non ne ebbero il tempo. La Lancia era stata notata mentre sorvegliava la casa di Matteotti nei giorni precedenti l’assassinio, il portiere di uno stabile aveva preso il numero della targa sospettando la preparazione di un furto. Il capo della Ceka fu arrestato il 12 giugno, due giorni dopo l’attentato, in partenza per Milano con nella valigia i pantaloni della vittima tagliati a pezzi e le parti della tappezzeria della Lancia macchiate di sangue. Nei giorni seguenti furono arrestati anche gli altri componenti della squadraccia.
Perché fu decisa l’azione punitiva nei confronti di Matteotti, sfociata poi nell’omicidio? Il deputato socialista aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni ma certamente non ci sperava neppure lui. Il 6 aprile si era votato, per la prima e ultima volta, con la legge Acerbo, approvata dal Parlamento l’anno precedente: garantiva un premio di maggioranza sproporzionato, due terzi dei seggi, a chi avesse superato il 25% dei consensi. Il listone nazionale di cui il Pnf era asse portante ottenne il 60,9% e altri seggi furono conquistati grazie a una lista civetta. Nel complesso, anche senza il premio, il listone sarebbe arrivato intorno ai due terzi dei seggi.
Le elezioni si erano effettivamente svolte in un clima minaccioso e violento che aveva sicuramente condizionato il voto, ma non c’è dubbio sul fatto che i fascisti avrebbero comunque vinto nettamente. Il rischio di una invalidazione delle elezioni era inesistente. Matteotti si accingeva a pronunciare un secondo discorso, denunciando la corruzione di alcuni elementi del governo: una storia di tangenti pagati dalla società americana Sinclair per assicurarsi le ricerche petrolifere in Italia. Alcuni storici ritengono che il vero motivo dell’omicidio sia questo ma è un’ipotesi poco convincente, sia per le dimensioni relativamente limitate dell’affare sia perché era un segreto noto già a molti.
Senza contare che, se l’obiettivo fosse stato eliminare l’uomo politico per impedirgli di denunciare il giro di tangenti, l’azione sarebbe stata meno sgangherata e improvvisata. Matteotti decise l’attacco frontale, consapevole dei rischi che ciò comportava, con l’intento di frenare quella che per lui era la deriva più pericolosa, la seduzione delle aree moderate, politiche e sociali, da parte del fascismo. Mirava probabilmente a contrastare proprio l’obiettivo che perseguiva Mussolini in quella fase. L’antifascismo del leader socialista era in un certo senso diverso dall’antifascismo maturato negli anni della dittatura, poi delle leggi razziali e della guerra.
Tutto questo, nel 1924, era di là da venire. Lo Stato liberale esisteva ancora, la sua occupazione da parte del fascismo era appena agli inizi. L’antifascismo di Giacomo Matteotti era quello di chi, prima della dittatura, aveva individuato l’uovo del serpente e prevedeva i tragici sviluppi a venire con una lucidità di cui difettavano anche grandissimi intellettuali come Benedetto Croce. Per impedire la conquista dei moderati da parte del fascismo Matteotti si era esposto così tanto. Per lo stesso motivo, rovesciato, il delitto costituì per Mussolini un problema enorme. La reazione popolare fu imprevista e altissima.
Nonostante nel Paese i morti si fossero contati a decine e centinaia negli anni dello squadrismo all’attacco, l’uccisione di un parlamentare dell’opposizione fu uno shock per gli italiani. La popolarità del fascismo precipitò, la campagna di stampa fu martellante e l’eco del delitto all’estero enorme. Per un momento sembrò che il fascismo fosse destinato a crollare. Era davvero così? Fu davvero un’ultima occasione, sprecata, per evitare la dittatura? Probabilmente no. L’indignazione popolare era reale e diffusa ma priva di sbocco politico.
Il 13 giugno Mussolini parlò alla Camera, negò ogni responsabilità, promise di fare giustizia. Subito dopo il presidente Rocco sospese i lavori sino a novembre. I partiti d’opposizione, nella stessa giornata, annunciarono la decisione di abbandonare l’aula. La scelta, definita poi “Aventino”, sarebbe stata confermata due settimane dopo quando i partiti d’opposizione annunciarono la decisione di non partecipare più ai lavori della Camera sino a che non fosse stata ripristinata la legalità e sciolta la Milizia fascista. Nella stessa giornata ci fu anche il solo sciopero generale dell’intera crisi: per soli 10 minuti.
La strategia dell’opposizione fu certamente inadeguata, debole e insufficiente, ma in ogni caso difficilmente la crisi avrebbe potuto concludersi con l’abbattimento del regime in formazione. Un tentativo di insurrezione sarebbe stato senza dubbio stroncato nel sangue e avrebbe legato ancor di più i moderati al fascismo. Per rovesciare il fascismo in Parlamento sarebbe stato necessario che tutti i non fascisti eletti nel listone e anche alcuni esponenti del fascismo più moderato si schierassero contro Mussolini, cosa che si verificò solo in minima parte. La caduta di Mussolini poteva essere provocata solo da un intervento imperioso e diretto del re. Gli aventiniani ci speravano, ma era una speranza del tutto vana e infondata.
Mussolini, del resto, reagì con l’abilità politica che gli aveva già fruttato l’ingresso a palazzo Chigi nel 1922. Mise subito alla porta Marinelli e Rossi. Quest’ultimo e Filippelli furono poi arrestati. Il capo del fascismo impose le dimissioni di Finzi agli Interni e abbandonò lui stesso il ministero lasciando il posto a Federzoni, nazionalista approdato al fascismo solo di recente, e operò un rimpasto di governo facendo entrare quattro esponenti della destra liberale o conservatrici ma non fascista. Mussolini contava soprattutto sul tempo, convinto che la tensione si sarebbe abbassata col passare dei mesi e vinse la scommessa.
Nel corso dell’estate non successe nulla e già questo fu un successo per il governo. Priva di prospettive politiche l’indignazione popolare, si attenuò, si riaccese per un attimo dopo il ritrovamento del cadavere del leader assassinato a metà agosto, poi si spense. Quando la Camera riaprì, il 12 novembre, Giolitti passò all’opposizione e si formò così un’opposizione non aventiniana alla quale si aggiunsero poi i comunisti, che abbandonarono l’Aventino per rientrare in aula. Gli altri partiti scelsero però di proseguire nella strategia aventiniana e anche la remota possibilità di dar corpo a una opposizione in aula che avrebbe potuto attrarre una parte dei deputati fascisti più moderati si perse così. Il vento era cambiato, Mussolini era uscito indenne dal momento più critico, neppure la pubblicazione dei memoriali dal carcere di Rossi e Filippelli, che lo chiamavano direttamente in causa, lo mise davvero in difficoltà.
A premere, ora, erano i duri del fascismo. Il 31 dicembre, 33 comandanti della Milizia si recarono a palazzo Chigi chiedendo di passare alla controffensiva cosa che peraltro Mussolini aveva già deciso di fare. Il 3 gennaio, in aula, Mussolini passò all’attacco: “Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione”. Quello storico discorso, nel quale il duce rivendicava tutto l’operato del fascismo, chiuse la crisi seguita al delitto Matteotti e spalancò le porte alla dittatura, che sarebbe stata formalizzata tra il 1925 e il 1926 con le leggi fascistissime.
I responsabili del delitto furono processati a Chieti, nel marzo 1926, per omicidio preterintenzionale. I mandanti furono tutti assolti e così Malacria e Viola. Dùmini, Volpi e Provenzano furono condannati a 5 anni e 11 mesi ma a tutti e tre furono subito condonati 4 anni per amnistia. Dùmini fu processato di nuovo nel 1947 e condannato all’ergastolo, commutato in una pena di trent’anni per l’amnistia Togliatti. Fu scarcerato nel 1953 per l’amnistia Pella e graziato nel 1956. Subito dopo la grazia si iscrisse al Movimento Sociale Italiano. David Romoli il 10 Giugno 2023
Matteotti riformista del futuro. Pubblicato martedì, 02 aprile 2019 da Corriere.it. Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere». A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti. Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17) Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando. Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione. Giacomo Matteotti (1855-1924) È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce. Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica. Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento. Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali. Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità. Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli. Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.
Il racconto del segretario del partito socialista. Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte. Corrado Ocone su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo. Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza. Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui. Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano. Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti. Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto. Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale. Corrado Ocone
Complotti per il Potere. Mussolini, lo storico Petacco sul blog di Grillo: "Non fece uccidere Matteotti, fu un complotto contro Benito", scrive “Libero Quotidiano”. "Mussolini è estraneo al delitto Matteotti": a novant'anni dal delitto dello statista socialista, lo storico Arrigo Petacco, sul blog di Beppe Grillo, lancia nuove teorie sull'omicidio avvenuto nel 1924, che portò alla famosa "secessione sull'Aventino" e di cui Mussolini si professò responsabile il 3 gennaio dell'anno successivo, con un famoso discorso in Parlamento. La ricostruzione dei fatti - "Il fatto è questo", spiega Petacco: "Quel 10 giugno, Matteotti passeggia sul lungo Tevere, e all'improvviso arriva una macchina, una Lancia con tanto di targa che il portiere si affretta anche a registrare. Scendono giù 4 manigoldi, squadristi e lo caricano in macchina, non gli sparano, non lo ammazzano, lo caricano in macchina. Evidentemente è solo un rapimento, solo che durante il tragitto in macchina, il Matteotti cacciato addirittura a forza sotto il seggiolino posteriore della macchina, scalcia: era un uomo forte robusto e coraggioso, scalcia, smadonna, addirittura morde i polpacci di quelli che gli stanno seduti sopra, e alla fine uno dei quattro, con una mano, trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide". Questa la ricostruzione del delitto: e Mussolini? "Il Duce, in quel periodo, voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti". Alla fine furono proprio loro ad impedire l'apertura di Mussolini ai socialisti: "Lui fu, casomai, vittima di uno scontro tra la destra estremista fascista e la sinistra estremista sociale comunista, che volevano impedire a Mussolini di creare un governo moderato, perché Mussolini in quei giorni sognava ancora di avvicinare i socialisti moderati e fare un partito con loro". E quindi, secondo Petacco, "questo cadavere servì moltissimo alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che volevano impedire a Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura. Quindi Mussolini fu spinto a destra da chi voleva impedirgli il suo avvicinamento ai socialisti, e la situazione fu tale che, ad un certo punto, lui stesso fu costretto a proclamare la dittatura il 3 gennaio del 1925. Visto che non riusciva più a liberarsi di questa colpa, fece un discorso alla camera in cui disse che se i fascisti erano una massa di delinquenti, lui era il comandante di questa banda criminale". Sono almeno tre, secondo Petacco, le ipotesi sul movente dell'omicidio. "Matteotti venne ucciso perché si apprestava a rendere di pubblico dominio intrighi e traffici sporchi di autorevoli personaggi del governo, coperti da potenti coalizioni finanziarie. Oppure Matteotti venne ucciso perché era uno dei principali esponenti del partito socialista, al quale Mussolini meditava di rivolgersi affinché non impedisse la formazione di un nuovo governo basato sulla più stretta collaborazione con la Confederazione generale del lavoro e con le masse operaie. L’ultima per il coraggioso discorso in Parlamento, in cui accusava il fascismo di aver manipolato i risultati elettorali". Insomma, "Mussolini fu coinvolto involontariamente nel delitto Matteotti: lui non c’entrava affatto, non aveva nessun motivo per uccidere il capo dell’opposizione, che aveva battuto clamorosamente alle elezioni di un mese prima. Per il resto è tutta fantasia politica e strumentalizzata che ha praticamente falsato questa vicenda. Comunque il delitto Matteotti fu casuale, non era premeditato, questo è molto chiaro". Ci sono molte perplessità, da parte degli stessi attivisti del blog grillino, sull'intervista a Petacco. Da un "Ci stiamo autodistruggendo", firmato Dino, ad un "Io credo veramente che vi siate bevuti il cervello. Cose incredibili, una giornata in cui si deve solo riflettere e chiedersi come mai abbiamo perso, ve ne uscite con queste troiate: VERGOGNATEVI! C'era gente, tanta, che ha creduto in voi!". Ironico Fausto: "Grazie a questo post risolveremo tutti i problemi del paese. Stiamo proprio perdendo il senno". Ironico anche Bob: "Per la serie 'Caro amico ti scriiivooo, cosi ti distraggo un pò...'". Secondo tanti, l'attenzione di questo post è volta soltanto a spostare l'attenzione dal disastroso risultato delle elezioni regionali, come viene ribadito anche in questo post: "Ho il sospetto che si voglia parare in qualche parte, non sono un complottista, ma questo mi da addito a dei dubbi due o tre, visto l'importanza della giornata odierna... Me li tengo per me, vedremo i prossimi sviluppi, mi sa che qua si è allo sbando".
Da Craxi a Willy Brandt: Intini racconta il '900. L'esponente socialista, attraverso 48 protagonisti e molti comprimari, fa rivivere un'epoca complessa. Roberto Chiarini il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Da un politico che scrive del suo recente passato ci possiamo aspettare, in ordine di probabilità, tre diverse impostazioni del racconto. La più frequente è una ricostruzione rigorosamente pro domo sua delle vicende di cui è stato protagonista, comprimario o testimone. La seconda, pure molto seguita, è quella del diario che si propone una narrazione in presa diretta di quanto nel corso della sua attività politica l'estensore ha visto. In entrambi i casi, parla (e tace) del suo passato in forma sempre benevola verso sé stesso. Raro è il caso del politico che si esercita in una ricostruzione d'insieme del suo tempo, tanto meno su periodi di storia più lontani. Si può star sicuri che anche in quest'ultimo caso il suo racconto del passato trasuda delle sue simpatie, dei suoi orientamenti, delle sue passioni politiche, se non addirittura dell'ideologia che ha conformato la sua azione pubblica. Insomma, gli esercizi storiografici di un politico finiscono per offrire al lettore un'occasione per capire, più che la stagione politica raccontata, l'autore. Di regola risultano spesso eloquenti, più che le affermazioni, i silenzi imbarazzanti e gli oblii interessati.
Ugo Intini per parlare del passato di cui è stato protagonista o testimone ha scelto un format originale. Non si è nascosto dietro il velo di una presunta oggettività del suo racconto. Non lo ha mosso - com'egli apertamente confessa nell'introduzione al libro (Testimoni di un secolo. 48 protagonisti e centinaia di comprimari raccontano il secolo breve, Baldini+Castoldi editore) - nessuna intenzione di «rubare il mestiere agli storici». Si augura, tutt'al più, che il suo lavoro memoriale sia di qualche aiuto agli storici, agli studenti, ai curiosi. Non è un diario, ma un ritorno al passato cercando di riannodare i fili di una vita tra impegno politico e studio, un viaggio all'indietro che lega idealmente la sua storia con i padri nobili del socialismo.
Dell'ultimo cinquantennio del secolo scorso di cui è stato comprimario e, più in generale, dell'intero secolo breve di cui ha raccolto testimonianze da tanti protagonisti, offre una rivisitazione soggettiva, costruita fedelmente, assicura, su ciò di cui è venuto a conoscenza e infarcita dalle considerazioni ispirategli dalle testimonianze raccolte, Non solo, ma condotta «con la testa e il cuore di alcuni di questi uomini», mescolando gli aspetti strettamente politici delle vicende raccontate con gli «approfondimenti consentiti da un rapporto umano» avuto con loro. E ancora: si premura di avvertire il lettore che la scelta dei personaggi da intervistare non si è attenuta a un rigoroso criterio di rappresentatività storica. Un preciso criterio lo ha ispirato: rivisitare il Novecento partendo dalla passione politica che lo ha ispirato. Quella di militante socialista. Per esser ancor più precisi, di esponente di primo piano del gruppo dirigente milanese del Psi che negli anni Settanta si è «raccolto intorno a Craxi», della cui azione di leader e statista resta un estimatore.
Negli anni Settanta si diceva che il privato è politico. Bene, Intini ha adottato il suo privato (prima di giornalista all'Avanti!, poi di parlamentare, da ultimo di sottosegretario e in un secondo momento di viceministro del dicastero degli Esteri) come angolo visuale del suo racconto. Lo ha condotto attraverso i profili di 48 personaggi, soprattutto di esponenti del socialismo, in numero preponderante italiani, ma non solo. Ha scelto di parlare dei personaggi perché anche lui è convinto che le idee camminino sulle gambe degli uomini. In questa rassegna di personalità il lettore non si aspetti le convenzionali schede biografiche. Sono piuttosto flash vivi di protagonisti della vita politica e di essi cerca di cogliere insieme l'aspetto umano e i tratti significativi del pensiero e dell'azione politica.
Apre la galleria Pietro Nenni. È il doveroso omaggio a chi ha rappresentato per Intini non solo il maestro, non solo il riferimento d'obbligo dell'autentico riformismo, ma anche il personaggio che ricongiungeva il socialismo italiano alla sua lunga e ricca storia che va dalla rivoluzione francese alla Comune di Parigi (Nenni ne aveva conosciuto personalmente alcuni reduci), dai garibaldini a Turati e ai tanti perseguitati dal fascismo. Una figura, quella del suo predecessore alla testa dell'Avanti!, che ben rappresenta qualità politiche e rigore morale di un'intera generazione. «L'ho visto sempre con lo stesso paltò - ricorda con una punta di commozione - e con pantaloni con altezza ascellare». L'amico Angelo Rizzoli, che aveva conosciuto la povertà perché cresciuto all'istituto Martinit, un giorno gli aveva regalato un paltò e lui lo aveva rifiutato perché «troppo costoso». Solidale con i poveri ma non animato da classismo rancoroso.
A Nenni segue Sandro Pertini, altro mostro sacro del socialismo novecentesco. Di cui Intini disegna con gustose annotazioni anche i tratti del «suo carattere sincero e brusco». Un mix di politica e aspetti umani del personaggio Pertini che è la cifra narrativa delle biografie narrate. Di tanti altri socialisti, ma non solo, come si diceva. Di Pajetta, ad esempio, «la quintessenza del comunismo», «demagogo, ma non populista», «più popolare di Berlinguer». Di Giulio Andreotti, «la quintessenza dei democristiani», tanto «impassibile» da sembrare «privo di passione», realista al punto da non considerare sradicabile «il male», che riteneva possibile tutt'al più «ridurlo al minimo». Seguono altri politici di casa nostra, come Cossiga e Ciampi, figure nobili, vittime del terrorismo come Valter Tobagi, o personaggi responsabili di trame oscure come Licio Gelli. Non mancano infine i ritratti di alcuni leader, europei e mondiali, veri uomini stato (Willy Brandt) o dittatori (Nicolae Ceausescu e Kim Il-sung).
Da ultimo, la rassegna di uomini illustri, apertasi con Nenni, non poteva che chiudersi, in omaggio alla fede socialista dell'autore, con Bettino Craxi, il socialista che, fatta venia per il suo carattere («un mix di coraggio e timidezza, di aggressività e riservatezza») «è riuscito - parola di Intini - dove Turati e Nenni non erano riusciti». Ed è detto tutto.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Tangentopoli fu un colpo di Stato.
Antonio Di Pietro.
Gherardo Colombo.
Gianni De Michelis.
Giorgio Ruffolo.
Enzo Carra.
Gabriele Cagliari.
Sergio Moroni.
Raul Gardini.
«Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». La cupa profezia di Craxi. Ora che persino Davigo è stato condannato in primo grado, quelle parole tornano alla mente. Paola Sacchi su Il Dubbio il 22 giugno 2023
«Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Ora che Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, è stato condannato in primo grado per rivelazione d’atti di ufficio, e il garantismo deve valere per tutti, quindi anche per lui dalle posizioni estreme sui politici, non può non risuonare in testa quella tagliente profezia di Bettino Craxi, nei giorni di Hammamet. Lo statista socialista, che aveva fatto esposti contro Davigo, per il quale usò parole durissime difendendosi da quelle altrettanto trancianti che l’esponente del pool di Mani pulite aveva usato per lui, quella cupa profezia la ripeteva spesso fin dal 1994, quando iniziò il suo esilio.
Quelle parole le diceva ai pochi ormai che lo andavano a trovare e gli stavano vicini, oltre alla sua famiglia, come l’ex capo dei giovani socialisti, Luca Josi, e pochi altri del suo stesso Psi. Giustificava solo Gianni De Michelis per non averlo lì con lui. Disse alla cronista: «Povero Gianni, lo capisco, lo hanno messo in croce sul piano giudiziario, però lui come può mi chiama sempre da una cabina telefonica».
Erano gli anni in cui lui diceva, preoccupandosi quasi più degli altri: «Attenzione, chi tocca i fili muore». E questo persino per riguardo dei pochi giornalisti, come la sottoscritta, che pur scrivendo allora per un giornale avversario, l’Unità, durante i periodi di ferie lo andava a trovare in forma privata per un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, I conti con Craxi (MaleEdizioni con prefazione di Stefania Craxi). Erano i giorni in cui già stavano emergendo le prime crepe nel pool milanese, Craxi aveva denunciato in uno dei suoi libretti clandestini, diffusi da Critica social”, dal titolo Giallo, grigio, turchino, la violazione allo stato di diritto che era stata fatta per la sua persona, il suo partito e la sua famiglia. E sperava che qualche verità emergesse dal processo di Brescia contro Di Pietro. Craxi non piangeva, lo fece platealmente in un’intervista a Carlotta Tagliarini, per la tv tedesca, solo per il suicidio di Sergio Moroni. Ma, quando lo incontravamo sul terrazzo dello Sheraton hotel si vedeva che i suoi occhi trattenevano dignitosamente e con fierezza le lacrime dell’amarezza per la sua fine. Per il fatto di essere stato trattato «peggio dei peggiori criminali, mentre io ho sempre servito solo il mio Paese e spero di averlo fatto bene». «Ma, non mi hanno neppure lasciato fare il pensionato», è scritto in uno degli appunti notturni di Hammamet, raccolti dallo storico Andrea Spiri, nel libro L’ultimo Craxi- Diari di Hammamet, per Baldini e Castoldi. Sempre Spiri nel libro
Io parlo e continuerò a parlare (Fondazione Craxi per Mondadori) ricorda le denunce ai colpi dati allo stato di diritto: «Giustizieri, protagonisti, forcaioli mostreranno tutta la corda della loro falsità». Craxi fu il primo a denunciare il perverso circuito mediatico- giudiziario. Lo stigmatizzò più esattamente così: «Clan politici, mediatici, giudiziari». Ma guardava lontano, non si fermava al suo personale calvario giudiziario, tragedia politica per un intero Paese, guardava al futuro dell’assetto tra i poteri, denunciava il colpo inferto al primato della politica da quell’uso politico della giustizia sotto il quale cadde un’intera, storica classe dirigente che aveva ricostruito il Paese nel dopoguerra, fatto importanti riforme e raggiunto successi, come i suoi, dalla scala mobile al nuovo Concordato, all’Italia nel G7. Il terremoto di quella che definì «la falsa rivoluzione» salvò solo gli ex Pci poi Pds e Ds e la sinistra della Dc. Dall’archivio della Fondazione Craxi, in suo schema autografo, riportato da Spiri in Nell’ultimo Craxi, emergono in modo spietatamente chirurgico tutti i nodi di quella stagione, alcuni dei quali ancora oggi irrisolti: «L’uso violento del potere giudiziario. Gli arresti illegali ( le modalità ingiustificate agli arresti), per esempio l’uso illegale delle manette. Gli incredibili Tribunali della Libertà. Il ruolo del Gip. Le detenzioni illegali. I trucchi adottati per allungare le detenzioni. Le discriminazioni negli arresti. La orologeria politica rispetto alle scadenze politiche. Il rapporto con il potere legislativo, con l’istituzione parlamentare. Esibizionismo logorroico. Politicismo nelle valutazioni e nella condotta».
Infine, uno dei punti più dolenti, ancora oggi alla ribalta: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Conclusione: «Violazioni sui diritti dell’uomo». Forse, Craxi aveva ben intuito con la sua profezia che un sistema politico, schiacciato e che aveva in parte avallato «la falsa rivoluzione», gioco forza, per contraccolpo, avrebbe prima o poi generato spinte e controspinte tra aree in lotta in quella stessa parte di magistratura allora dominante. «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Craxi azzeccò anche la profezia su di sé: «Io parlo e continuerò a parlare» .
Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 giugno 2023.
All'inizio del millennio, al Foglio, dove allora lavoravo, avevamo oltrepassato il centinaio di querele ricevuto dal Pool di Mani pulite. Poi assolti in blocco ma mica male come intimidazione […].
In una di esse […] Piercamillo Davigo aveva individuato una prova di dileggio in un banale refuso – mi uscì un "Pircamillo" – e lì si si consolidò il sospetto che il Dottor Sottile si stesse lasciando un po' prendere la mano, quanto a sottigliezze.
Ma ieri, dopo la condanna in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, sono stato contento di […] leggere anzi qualche articolo nel quale si osservava che l'onestà di Davigo rimane fuori discussione.
Infatti non ho mai pensato che l'onestà delle persone sia misurabile coi codici e le sentenze […]. Altrimenti non avrebbe nessun senso i Miserabili, il capolavoro di Victor Hugo nel quale Jean Valjean è un pregiudicato latitante eppure sta moralmente tre spanne sopra a Javert, il poliziotto da cui è braccato, l'incorruttibile che pretende da sé il rigore preteso dagli altri poiché crede nella perfetta coincidenza fra legge e morale, ed è questa la sua condanna.
Tra l'altro Javert nel romanzo non ha nome, soltanto il cognome, come se fosse soltanto un ruolo, una maschera: Javert. E a distanza di tanti anni confermo il refuso: se avessi voluto irriderlo, non avrei scritto "Pircamillo", avrei scritto semplicemente Davigo.
Davigo, Colombo e Di Pietro? Giardinetti, trattori e processi: che brutta fine. Libero Quotidiano il 22 giugno 2023
Gherardo Colombo porta il cane a spasso nel centro di Milano e va in giro dicendo, nonostante abbia firmato quando era in servizio decine di richieste di custodia cautelare, che il carcere «non serve a nulla e rende la società pericolosa». Antonio Di Pietro, dopo aver gettato la toga alle ortiche ed essere stato candidato nel 1996 da Massimo D’Alema nel collegio blindato del Mugello, ha fondato e chiuso un partito, l’Italia dei valori. Adesso è su un trattore in Molise e prepara il terreno per la semina delle patate. Francesco Greco, pur sotto scorta anche quando andava in bagno, è riuscito nell’impresa di perdersi il telefono che i colleghi di Brescia gli avevano chiesto per verificare se si fosse scritto con il pg della Cassazione Giovanni Salvi a proposito della condotta del pm Paolo Storari. Per la cronaca anche Salvi si era perso il telefono nello stesso giorno. Nonostante questa distrazione, il sindaco di Roma, il piddino Roberto Gualtieri, lo ha nominato responsabile della legalità del Campidoglio. Davigo, il più famoso di tutti, ha cercato di far passare come massone il collega antimafia Sebastiano Ardita, con cui aveva scritto libri e fondato- addirittura- una corrente della magistratura italiana che solo il nome mette timore: Autonomia&indipendenza.
È una fine quanto mai impietosa quella degli idoli di Mani pulite che vollero fare la rivoluzione spalancando le porte al giustizialismo più becero e volgare. Per trent’anni, come le vecchie rock band che propongono sempre lo stesso repertorio, i magnifici pm di Mani pulite sono riusciti nell’impresa di monopolizzare tv e giornali per raccontare quella stagione eroica. Scomparsi da tempo i procuratori dell’epoca, Gerardo D’Ambrosio e Francesco Saverio Borrelli, Davigo, Di Pietro, Colombo e Greco, come un disco incantato, hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto. Sconfinata l’aneddotica. Chi potrà dimenticare gli interrogatori “multitasking” di Di Pietro? Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, egli era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati, politici o membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette.
Questo stratagemma sarebbe servito ad impedire che venissero concordate le deposizioni. Una volta, come nei migliori film polizieschi degli anni ’70, Di Pietro prese invece dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una caso?». Cosi facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto. La gente, ascoltandolo, rideva, ma non c’era nulla da ridere. Davigo, che venne eletto anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non perdeva occasione per affermare che la magistratura italiana è la migliore del mondo occidentale e i magistrati italiani sono i più produttivi ed efficienti. «Citofonavamo e già cominciavano a confessare le tangenti», ripeteva Davigo.
Di quel periodo che ha cambiato la storia, però, nessuno tranne un paio di anni fa il giudice Guido Salvini, ha raccontato il “trucco” escogitato dal pool per evitare incidenti di percorso. Si trattava del fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere da gestite dal pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 8655 del 1992, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool. Un paio gli anni dopo, nel 1994, Ghitti divenne consigliere del Csm. «Un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato il “gip di Mani pulite” senza rivali». Adesso è calato il sipario.
3 Luglio ’92, l’ultimo discorso di Craxi: «Nessuno è innocente». Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio dei Ministri ed ex segretario del Partito socialista italiano. L’intervento del leader socialista alla Camera dei Deputati sul problema del finanziamento illecito ai partiti. E non solo...Il Dubbio il 19 giugno 2023
Il celebre discorso che Bettino Craxi pronunciò alla Camera il 3 luglio 1992 «È tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità».
«Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava”. Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica».
Giustizia e politica: quei leader alla sbarra da Craxi a Trump passando per il Cav...Con un po' di approssimazione si può dire che l'epicentri del terremoto che ha destabilizzato il rapporto tra politica e magistratura è rintracciabile nel nostro paese con l'inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via i partiti della Prima Repubblica. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2023
È da oltre trent’anni che il romanzo della politica si intreccia senza soluzione di continuità con quello della giustizia, un conflitto quasi “ontologico” che ha visto decine di leader, capi di Stato e di governo finire alla sbarra a ogni latitudine. L’azione dei giudici non sempre si è rivelata immune da faziosità e pregiudizio, a volte ha ribaltato gli esiti elettorali e favorito improvvisi cambi di regime, in altri casi è stata chiaramente persecutoria guidata dall’idea che la magistratura possa in qualche modo sostituirsi alla stessa politica, sospinta dal giustizialismo dell’opinione pubblica e dalla grancassa dei processi mediatici.
L’ultimo a finire nel mirino è stato l’ex presidente Usa Donald Trump, incriminato nei giorni scorsi dalla procura di Miami con l’accusa di aver trafugato documenti top secret dagli uffici della Casa Bianca, messo in stato di arresto per diverse ore dal procuratore Jack Smith che pare seriamente intenzionato a sbatterlo in prigione. «È un sicario mandato da Joe Biden, è un complotto», ha tuonato il tycoon come al solito esagerando e passando la misura. Ma che il suo accusatore sia un simpatizzante dem (la moglie regista è un’amica di Michelle Obama e donatrice del partito) è un fatto accertato e a suo modo destabilizzante visto che Trump è anche il capo dell’opposizione repubblicana e rischia di non poter partecipare alle presidenziali del prossimo anno.
Ma al di là delle storie personali, degli accanimenti o degli interessi di parte, la rotta di collisione continua tra toghe ed eletti sembra di natura sistemica, il frutto di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi decenni che ha allargato in modo significativo il perimetro di azione della magistratura.
Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro Speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Va da sé che l’inchiesta è stata archiviata ma il solo fatto di pensare a un’incriminazione del genere mostra l’idea estensiva che le procure hanno oggi del proprio potere.
Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro di quel terremoto e cambio di paradigma fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via la prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica, sepolta sotto le macerie dei partiti. L’onda d’urto di quella stagione ha dato luogo a una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm, una guerra che si è disputata lungo 36 processi penali, con una sola condanna ai danni Cavaliere, recentemente scomparso.
Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio.
Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta.
Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean-Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese a subire un verdetto di condanna.
Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi «da spioni» per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi.
Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo.
Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico- giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false?
Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo.
Prima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Avanti il prossimo
Le origini dello strapotere delle toghe rivelate in “La repubblica giudiziaria” di Ermes Antonucci. Molti credono che nasca col terremoto di Mani pulite, ma non è così. Frank Cimini su L'Unità il 6 Giugno 2023
Vale davvero la pena di leggere La Repubblica Giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio) frutto del lavoro di Ermes Antonucci soprattutto per un motivo spiegato nella controcopertina: “Molti credono che la preminenza della magistratura sulla politica sia stata innescata dal terremoto provocato da Mani pulite, ma solo un ingenuo può pensare che questa rottura sia avvenuta all’improvviso”.
“Lo strapotere della magistratura è il risultato del sommarsi di tensioni tra diverse faglie istituzionali” si spiega. Chi scrive queste poche righe per invogliare a leggere il libro di Antonucci aggiunge che tutto comincia con la madre di tutte le emergenze, quella rubricata con l’etichetta di terrorismo ma che fu in realtà un tentativo di rivoluzione fallito. Decine di migliaia di persone passate per le carceri rappresentarono un problema politico che la politica non volle affrontare direttamente delegando la questione della sovversione interna alla magistratura che ne approfittò per aumentare il proprio potere e per andare a riscuotere il credito acquisito nel 1992.
Le leggi premiali utilizzate per risolvere il problema furono pretese e ottenute dalla magistratura sempre storicamente interessata alle scorciatoie come poi andrà in epoca successiva con l’utilizzo smodato delle intercettazioni fino al trojan che continua a fare danni irreparabili ai diritti dei cittadini. Con le leggi premiali non vale più quello che un imputato ha fatto ma ciò che pensa delle sue azioni e soprattutto se fa l’autocritica agli altri.
La catena di Sant’Antonio delle chiamate di correo finirà per fare danni agli stessi politici in occasione della falsa rivoluzione di Mani pulite. Quando la politica si suicida abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere. E con quella scelta la politica non ha mai voluto fare i conti fino in fondo, salvo lamentarsi che la magistratura ha un potere eccessivo che esercita tuttora.
Con la differenza che in passato lo faceva soprattutto svolgendo indagini e ora, quando le conviene, lo fa evitando di compiere gli accertamenti che sarebbero doverosi secondo il codice. Basta ricordare il caso di Expo quando l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ringraziò la procura di Milano per avere dimostrato responsabilità istituzionale.
E a questo proposito basta riportare il passaggio in cui nel libro si ricorda “il lungo percorso culturale, politico e ideologico di una istituzione divisa fra la fedeltà a valori comuni e visioni della giustizia contrastanti. In una accurata ricostruzione storica che svela luci e ombre di un ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’, la parabola di un sistema controverso, tra interessi personali e rappresentanza delle istanze collettive”. Frank Cimini 6 Giugno 2023
Ma la Repubblica giudiziaria nasce prima di tangentopoli. Nel suo libro, Antonucci spiega che il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto che esercita funzioni requirenti, ha origini assai lontane. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 15 giugno 2023
La Repubblica giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio, 288 pp. 19 euro) scritto dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci è il primo libro sulla storia della magistratura nel periodo repubblicano. «Uno strumento utile per capire le varie tappe che hanno portato allo strapotere delle toghe», ricorda l'autore che si è cimentato in questa inedita ricerca storica». «La maggior parte delle persone pensa che la magistratura abbia sostituto la politica dopo Tangentopoli. Ma non è così. Il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto chi esercita funzioni requirenti, ha origini lontane», prosegue Antonucci che ha suddiviso il suo libro in capitoli, uno per ogni decennio, dall'entrata in vigore della Costituzione, agli anni del terrorismo, alla P2, a Tangentopoli, alle picconate di Cossiga, al berlusconismo. Grande spazio nel libro hanno, ovviamente, le correnti delle toghe. Nate come centri di elaborazione culturale, le correnti, sulla carta delle associazioni di carattere privato, condizionano (vedasi il Palamaragate) in maniera profonda il Consiglio superiore della magistratura.
Va ricordato che in nessun altro Paese occidentale esistono, come in Italia, le correnti dei magistrati. «Il primo gruppo all'interno dell'Anm fu, nel 1957, Terzo potere ( Tp) che sostenne le domande di cambiamento dei magistrati più giovani contro la struttura gerarchica dell’ordinamento giudiziario e il sistema di carriera», sottolinea Antonucci. Per contrastare il progressismo di Tp, nel 1962 nacque Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice, poi in contrapposizione con Magistratura democratica (Md), nata nel 1964. Md fin da subito influenzerà il dibattito sulla giustizia dentro e fuori la magistratura. Di Md si ricorda la giurisprudenza alternativa, fondata su una visione marxista della giustizia come lotta di classe contro lo Stato borghese. I magistrati di Md ritenevano che il «diritto avesse natura discrezionale e che la decisione giudiziaria era un atto politico». L’interpretazione della norma doveva essere a favore della classe deboli Nel convegno 1971, Giovanni Palombarini, uno dei padri fondatori di Md, propose il diritto “diseguale' finalizzato proprio ad interpretare le norme per le classi subalterne.
Era necessario partecipare insieme ai lavoratori al processo di formazione della coscienza di classe, con l'obiettivo finale di rovesciare la struttura capitalistica «attraverso l'affermazione dell'egemonia proletaria nella società, la crisi dell'ideologia dominante e degli apparati repressivi». Negli anni successivi i collegamenti con i partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare si fecero sempre più intensi, favoriti anche da un diverso atteggiamento del Pci nei confronti della magistratura a seguito di un ricambio generazionale. Il collegamento magistratura- politica era fondamentale nel quadro di una strategia unitaria «per sconfiggere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista”. Una immagine rende bene il clima di quegli anni. Ed è quella durante i funerali di Ottorino Pesce, pm romano, toga di Md, morto d'infarto a gennaio del 1970. Al termine della cerimonia, militanti comunisti e magistrati di Md, fra lo sventolio delle bandiere rosse, decisero di salutare il feretro con il pugno chiuso.
Nel 1972 il segretario generale di Md Generoso Petrella venne eletto in Parlamento nel liste del Pci. Qualche anno più tardi toccò ad un altro esponente di punta di Md, Luciano Violante, essere eletto, aprendo così la strada delle toghe che dalle aule di giustizia andavano in Parlamento con il Pci- Ds- Pds- Pd.
Dopo le rivelazioni dell'ex Mani Pulite. “Di Pietro propose a Craxi un patto: lasciare la politica in cambio dell’uscita dall’inchiesta”, la rivelazione di Bobo Craxi. Aldo Torchiaro su il Riformista il 14 Aprile 2023
Bobo Craxi, ha letto le parole di Gherardo Colombo? “I politici che avessero accettato di collaborare e si fossero fatti da parte, rispetto alla vita pubblica, sarebbero usciti dalle indagini”, ha scritto nel libro che ha pubblicato con Enzo Carra. Siamo davanti alla prova generale di colpo di Stato? Il potere giudiziario ha tentato di sopraffare il potere politico e di sostituirvisi. È nelle carte. Il Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli a un certo punto uscì allo scoperto. Con un messaggio pubblico rivolto all’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, fece sapere di essere pronto. “Sono a disposizione”. Mentre mettevano fuori gioco la classe politica, si candidavano a sostituirla.
Attuarono un golpe bianco, e neanche tanto bianco, se pensiamo al “tintinnar di manette”…
C’è stato un meccanismo preciso con cui il colpo di Stato ha provato ad avere successo: quando hanno provato ad attuare una “rivoluzione morale”, evocando la piazza, surriscaldando gli animi. Il sovvertimento può avvenire attraverso le armi, con la presa del potere militare. Oppure con la politica, come nelle rivoluzioni gentili. Oppure, ed è una via di mezzo, con l’arma giudiziaria. Una rivoluzione in parte armata e in parte gentile. Questo meccanismo si palesò ad un certo punto delle inchieste.
Quale fu la dinamica?
Fu un’escalation. La trattativa tra l’accusa e la difesa prima del processo, nella fase istruttoria, avvenne in un momento in cui la cupola giudiziaria si era arrogata poteri straordinari. Questo le ha consentito di parlare di politica con i politici, trascendendo dal ruolo naturale del giudice per ergersi a elemento regolatore dell’ordine istituzionale. In quella fase mio padre, Bettino Craxi, incontrò una serie di volte Antonio Di Pietro. In maniera assolutamente irrituale e informale.
Fu Di Pietro a chiedergli di incontrarlo?
Sì. In maniera del tutto extra legem.
Dove?
Mai al Palazzo di Giustizia, sempre in modo informale, discreto, in territorio neutro. Alla presenza dell’avvocato di mio padre, Nicolò Amato, senza altri testimoni; non vi sono eloquenti tracce verbali riprodotte nei processi a suo carico.
Quanti furono quegli incontri?
Furono una serie. Almeno tre. Tutti lontano da occhi indiscreti.
In quale fase dell’indagine di Mani Pulite avvennero?
Nel 1993, prima del processo Cusani.
Sa cosa si dissero? Suo padre gliene avrà parlato…
Certo, ne rimase particolarmente interdetto. Mi ricordo che tra le prime cose mi raccontò di un Di Pietro diverso da quello che si vedeva in pubblico, più accomodante, perfino mite. D’altronde i rumori su di lui si erano fatti assordanti.
Cosa gli chiese?
Di Pietro chiese a mio padre di restituire i denari illecitamente percepiti dal Psi, facendogli capire che se avesse collaborato con le indagini e fatto un passo indietro rispetto alla politica, il suo coinvolgimento nell’inchiesta penale sarebbe finito lì.
Cosa rispose suo padre?
Lo mandò a stendere. Per la procedura irrituale, inaccettabile. E per la premessa stessa, che lo offendeva: i finanziamenti illeciti non finirono mai nella disponibilità personale di mio padre. Non li aveva lui, non li aveva mai avuti. E dunque non poté che rifiutare quell’approccio, quell’apertura di trattativa.
Finanziamenti che pure vi furono, come disse lui stesso alla Camera, in quel discorso del 29 aprile ’93…
Non negó mai la conoscenza di finanziamenti illeciti. Né tantomeno si è mai negato il suo utilizzo nella maggioranza dei casi palese anzi palesissimo visto che un partito nazionale affrontava elezioni a rotta di collo, che le sue strutture territoriali erano ben evidenti ed altrettanto evidente il collateralismo politico. Un po’ più occulto era il finanziamento in direzione di partiti o movimenti politici esteri sovente in lotta per la libertà e la democrazia; pratica che continuo a considerare ancora molto nobile.
Fece delle ammissioni, rispetto ai reati contestati, in camera caritatis?
Craxi diede una serie di elementi di natura sistemica. Come poi fece in pubblico, parlando quell’ultima volta in Parlamento, chiarì come tutti i partiti avevano pattuito un finanziamento non lecito, al fine di tenersi in piedi. Lo ribadì anche a Di Pietro, che però aveva una missione unica: non quella di capire il fenomeno in generale, ma quella di recuperare quello che definiva “bottino”.
Dal rifiuto di arrendersi di suo padre nacque la necessità di arrestarlo, di metterlo a tacere con l’arma delle manette. Iniziò quella che Vittorio Feltri aveva chiamato “caccia al Cinghialone”, espressione di cui poi si è pentito.
Già, serviva un trofeo di caccia. E il trofeo più importante da esibire per le carriere di ciascuno degli attori. Questo accadde più tardi, quando si capì che mio padre non sarebbe stato al gioco. Quando rifiutò la resa. E allora inforcarono le armi, provando ad arrestarlo. Siamo dopo il 30 aprile 1993. Ci provò un Pm di Roma, Misiani. Ne incaricarono un ufficiale di polizia, il maggiore Francesco D’Agostino, che venne a fare delle incursioni anche ad Hammamet, senza riuscire a portare a casa il trofeo. Ed è poi finito sotto inchiesta a sua volta…
Torniamo al Di Pietro della trattativa. Era latore di una direttiva, era parte di una strategia?
Da parte della Procura di Milano ci fu una duplice tentazione. Quella di incidere sulla politica e sulle istituzioni, costituendo una barriera tra il vecchio e il nuovo, ma anche quella di trovare una onorevole via d’uscita per una inchiesta che si estendeva a macchia d’olio ogni giorno di più. A un certo punto fu chiaro agli inquirenti che se avessero applicato con metodo quella indagine a tutti, partiti, aziende, enti pubblici, si sarebbero dovute celebrare infinite serie di maxiprocessi.
E provarono a tirare una riga?
Provarono a offrire una sorta di indulto coperto per chi avesse accettato di cambiare vita, rinunciando alla politica. Lo hanno dovuto proporre a tanti, se non a tutti, se sono arrivati a parlarne perfino con Bettino Craxi.
C’è stato un precedente giudiziario?
C’è stato nell’ambito della stessa inchiesta Mani Pulite. Nella prima parte, dal 1992 all’inizio del 1993. La formula aveva funzionato con alcune delle aziende coinvolte, dove i manager si erano dimessi, avevano collaborato dando informazioni ed elementi e avevano accettato di ritirarsi e di non proseguire nelle rispettive carriere, o di andare a vivere per un periodo all’estero. Ci sono molti casi.
Ma chiedere la stessa cosa ad un politico eletto democraticamente, ad un rappresentante delle istituzioni è ben diverso…
Ed emerge oggi in tutta la sua gravità. Ma all’epoca a quei magistrati doveva sembrare normalissimo. La classe dirigente viene rimossa quando c’è una rivoluzione o quando arriva un esercito invasore. Quei giudici si comportarono così: come rivoluzionari di piazza o meglio, come un esercito armato che conquista la capitale, entra nei palazzi e spodesta con la forza chi guida le istituzioni.
La politica ha provato a resistere. Suo padre Bettino non si consegnò mai, da vivo.
Mio padre aveva un senso delle istituzioni che non gli consentiva di scendere a patti sulla tenuta democratica, sulla legittimità degli eletti. Denunciò da subito gli eccessi della barbarie giustizialista.
Il golpe riuscì, però, in parte.
Sul piano politico di fatto imposero un ricambio forzato di classe dirigente. Diedero all’avviso di garanzia la valenza della condanna, impallinando questo e quello fino a smontare il Parlamento e a distruggere cinque partiti. Quando costrinsero Scalfaro a sciogliere le Camere si capì che per un verso stavano vincendo loro.
E per altri versi?
Beh, dal punto di vista tecnico l’inchiesta Mani Pulite fu un fallimento. Non portò mai ad una conclusione chiara, accontentandosi di seminare il panico. Alcuni indagati si suicidarono. Altri se la cavarono con l’abiura. Alcuni processi sono durati dieci anni e oltre, portando anche a tante assoluzioni.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Facciamo un gioco. Cosa avremmo detto se a guidare Mani pulite cinfosse stata una junta e non il pool? Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 14 Aprile 2023
I protagonisti di quell’epopea erano dei signori intabarrati di seta nera, le loro ambizioni erano acclamate dai girotondi e i giornalisti erano embedded. Ma le loro parole d’ordine erano una pericolosa compromissione dello stato di diritto
Facciamo un gioco. Siamo sempre negli anni ’90 del secolo scorso e siamo sempre in Italia. Solo che a convocare i giornali e le televisioni per contestare un provvedimento legislativo non sono quattro pubblici ministeri in toga, in un Palazzo di giustizia: ma quattro militari, in divisa, nel piazzale di una caserma. Fuori c’è la stessa folla, ma appunto non sta sotto al balcone della procura: sta oltre i cancelli di quella caserma, e urla a quei militari impettiti di far sognare il popolo onesto mettendo in prigione gli indagati finché non confessano. I giornalisti sono sempre embedded, ma in fureria anziché in cancelleria, e da lì quotidianamente riportano le gesta della junta che ripulisce la società di tutto il marciume che la soffoca. Quello ritratto a cavallo in una fotografia pubblicata dal magazine del primo quotidiano d’Italia non è un magistrato del cosiddetto Pool che coordina la cosiddetta inchiesta Mani Pulite, ma un colonnello, lo stesso che non davanti a un Tribunale, ma ancora davanti a una caserma, dice che se il presidente della Repubblica lo chiama per riporre in riga l’Italia corrotta lui si mette a disposizione.
Che cosa si sarebbe detto a proposito della vicenda in quello scenario trasfigurato? Che cosa si sarebbe detto se a rendersi protagonisti di quell’epopea non fossero stati dei signori intabarrati di seta nera, ma un manipolo di soldati in mimetica, con pistola alla cintola e con i girotondi che ne acclamavano le ambizioni? Si sarebbe detto probabilmente, e probabilmente con appropriatezza, che quella era una vicenda di pericolosa compromissione dello Stato di diritto, e chi avesse denunciato il clima eversivo di quel periodo non sarebbe passato per una specie di bestemmiatore.
Non fu mai in discussione, almeno da parte degli osservatori spassionati e giudiziosi, il lavoro per così dire curricolare di quei magistrati, insomma il fatto che i loro provvedimenti fossero buoni o cattivi, corretti o sbagliati, legittimi o no. Fu in discussione, almeno da parte dei pochi che lo denunciarono, il pubblico straripamento di quel corso giudiziario, il fatto che esso aberrasse in una pretesa moraleggiante e di riordino sociale che non compete alla magistratura e che alla magistratura non può essere consentito di esercitare.
Dire, come disse uno di quei pubblici accusatori, che il compito del magistrato è di «far rispettare la legge», significa fraintendere la funzione del potere giurisdizionale e, ciò che è peggio, significa istigare il pubblico a quel fraintendimento: perché a far rispettare la legge è comandato il poliziotto, o appunto il militare con funzioni di polizia, non il magistrato, il quale è chiamato al compito del tutto diverso di applicarla.
Disporsi al governo del Paese, come fece qualcuno, dopo aver diffidato i partiti politici dal candidare gente con gli scheletri negli armadi, significa credere che il potere di arrestare le persone costituisca un’arma diversissima, mentre è solo succedanea, rispetto al fucile imbracciato dal militare che reclama investitura civile.
E attenzione. Il fatto che i protagonisti di quella vicenda, e i tanti che ne celebravano il comportamento indebito, potessero essere in buona fede, se possibile aggraverebbe la loro responsabilità. Perché la loro presunzione di operare a fin di bene avrebbe reso più facile commettere il male che hanno fatto al Paese.
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 6 aprile 2023.
“Negli anni ’90 Draghi ha svenduto l’argenteria del nostro Paese”. Domenico De Masi, ospite de La Confessione di Peter Gomez, [...] ripercorre la storia dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale [...].
[...] Dal punto di vista storico [...], secondo De Masi, “l’Iri era una bestemmia economica. Non solo molte aziende erano di Stato, non solo l’80% delle banche erano di Stato, ma c’era il più grande partito comunista d’Occidente. Quindi, l’Italia era un’eresia, non solo in Europa, ma in tutto l’Occidente”.
E cosa accadde quindi? Qui il sociologo colloca l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi [...]. “Fu mandato un giovane economista, un brillantissimo italiano, che aveva studiato al Mit, si era specializzato lì, fior fiore del neoliberismo. – ha spiegato De Masi – Fu mandato lì dal ’91 al 2001.
Per dieci anni fu il segretario generale del ministero del Tesoro, poi presidente della Commissione per le privatizzazioni. Il 2 giugno del 1992 arrivò a Civitavecchia il Britannia della regina Elisabetta con sopra il fior fiore dei finanzieri mondiali. – ha proseguito lo studioso –Il nostro giovane segretario generale del Tesoro salì sullo yacht, fece un discorso bellissimo in cui in sintesi disse: ‘Avete l’argenteria del nostro Paese a vostra disposizione. Approfittatene‘.
L’astuzia di questo giovane, che io ammiro proprio per la sua astuzia quasi luciferina, è che fece fare la cosa più di destra, cioè le privatizzazioni, a quattro governi di sinistra: il governo Amato, due governi D’Alema, un governo Prodi”, ha concluso De Masi.
La vittima dimenticata del pool. Riccardo Misasi fu vittima del pool, così fu fatto fuori. Ilario Ammendolia su Il Riformista l’11 Aprile 2023
Il Riformista ha riportato a tutta pagina la notizia secondo cui la cosiddetta stagione di “Mani pulite” fu in realtà un golpe. A svelare ciò non sono gli archivi dei servizi segreti ma lo si deduce dalla prefazione dell’ex pm Gherardo Colombo al libro dell’on. Enzo Carra. La tesi mi sembra suggestiva e bisognerebbe trovare “prove” significative su tutto il territorio nazionale. Mi è capitato di riflettere su ciò che in quegli anni successe in Calabria ed in particolare sulla storia dell’uomo politico più importante di quel momento storico: l’on. Riccardo Misasi.
Un politico intelligente, brillante e potentissimo che occupò incarichi nazionali importanti come quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; ministro alla Pubblica istruzione e sottosegretario alla Giustizia. Per oltre trenta anni Misasi fu parlamentare della Repubblica eletto in Calabria con vagonate di voti. Nelle elezioni del 1968 affrontò la “concorrenza” manciniana da sottosegretario alla Giustizia e sembra che proprio in quel periodo molti detenuti siano stati messi in libertà provvisoria. Potrebbe essere questa una cattiveria della stampa di estrema sinistra di allora o dei partiti concorrenti ma quello che è certo che le basi strategiche di quella campagna elettorale di Misasi furono appunto i tribunali disseminati in tutto il territorio calabrese nei quali il sottosegretario alla Giustizia incontrava magistrati, forze dell’ordine e capi elettori.
È superfluo aggiungere che molti tra quest’ultimi non erano proprio degli stinchi di santo. La storia corre veloce e i rapporti di forza cambiano radicalmente con l’arrivo della stagione di “mani pulite” tanto che nel giro di qualche mese avviene la trasfigurazione di Misasi che da uomo politico più potente della Calabria si trasforma in preda inseguita dai “segugi” e su cui le procure aprono un fuoco concentrico. Quello che era stato un intoccabile diventa un malfattore. Viene chiesta l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso, gli viene arrestato un figlio, viene indagato come capo del sistema delle tangenti in Calabria e addirittura indicato come mandante dell’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, on.Vico Ligato. Misasi è ancora parlamentare, la Camera con l’astensione del Pds nega l’autorizzazione ma è ormai un uomo braccato. Il 17 marzo del 1993 Misasi rilascia un’intervista al giornalista del Corriere della Sera Paolo Graldi che viene pubblicata col titolo “Don Riccardo in lacrime”.
Il “don” richiama quello di don Calò registrato all’anagrafe come Calogero Vizzini capo della mafia siciliana e non era stato affatto stato messo a caso. Molti magistrati, già alleati e subalterni al potere democristiano, assunsero su di loro il compito si seppellire il cadavere politico di don Riccardo che piange a dirotto e quelle lacrime non erano un segnale di umana debolezza ma di resa politica. Misasi conosceva molto quel mondo torbido già subalterno al potente ministro calabrese e affamato di potere che dominava nei tribunali e comprendeva che, anche se innocente, per sfuggire alle accuse che gli venivano mosse, le “lacrime” sarebbero state il viatico del “perdono”.
E perdono è stato! Doveva piangere ed ha pianto perché Lui sapeva meglio d’ogni altro di cosa sarebbe stato capace quel “potere” di cui era stato sicuro punto di riferimento. Così Misasi si allontanò dalla politica e dalla Calabria e per rendere plastico il suo disinteresse per le vicende calabresi scrisse un bel libro sulla storia di Orvieto. Non della Calabria e non di Cosenza ma di Orvieto. Un libro che oggi potrebbe apparire come un messaggio in bottiglia che venne subito “apprezzato” e recepito perché scritto con il linguaggio che i poteri utilizzano parlando fra di loro, soprattutto in Calabria. Misasi cede il posto che, nel bene e nel male, era frutto d’un consenso popolare che gli consentiva di essere protagonista sulla scena nazionale.
Ilario Ammendolia
I veri obiettivi e la regia internazionale. Tangentopoli fu eversione: partiti distrutti, beni svenduti. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l’11 Aprile 2023
Come ha già messo in evidenza Il Riformista con la sua prima pagina del 5 Aprile dedicata al sostanziale colpo di Stato avvenuto in Italia attraverso Mani Pulite, quasi tutte le vicende giudiziarie di maggior rilievo avvenute in Italia in questi 30 anni, hanno un forte rilievostorico-politico. In questo quadro è stato del tutto fuorviante e paradossale che da parte di Di Pietro, Colombo e Davigo ci sia stata la tendenza a ridurre in una sorta di grottesca partita a guardie e ladri sminuzzate in tante vicende processuali la storia di Mani Pulite del ‘92-’94 attraverso la quale proprio loro hanno addirittura provocato un totale rivolgimento del sistema politico italiano con la distruzione di ben 5 partiti fondamentali nella vita politica italiana.
Il fatto è che tutta la storia del finanziamento irregolare dei partiti non può essere banalizzata sotto la fattispecie della corruzione individuale come purtroppo ha fatto anche Luigi Zanda nella sua peraltro interessante intervista resa al Riformista. È avvenuto invece qualcosa di molto rilevante non appena fra l’89 e il ‘91 è finito il pericolo comunista. Allora in Italia i cosiddetti poteri forti, cioè quelli che detengono il potere finanziario e editoriale hanno valutato che i partiti non servivano più e anzi, poiché la Dc e il Psi erano i proprietari di fatto delle industrie a partecipazioni statali che invece dovevano essere smantellate e privatizzati a prezzi stracciati, allora proprio questi partiti (e quindi il loro leader Craxi, Andreotti, Forlani, andavano messi fuori gioco). Prima che l’operazione partisse, Cuccia fece, tramite Salvatore Ligresti, l’offerta a Craxi di prendere la guida della operazione neogollista, presidenzialista, antipartitocratica. Craxi rifiutò di svolgere questo ruolo, ritenendo che i partiti rimanevano un elemento essenziale per la democrazia italiana.
Allora, stando a quanto ha raccontato Massimo Pini, amico e biografo del leader socialista, quando Cuccia seppe che Craxi respingeva l’ipotesi di svolgere quel ruolo affermo’: “Peccato, era la sua ultima occasione”. Così nello spazio di un anno e mezzo Craxi da candidato a premier divenne “il cinghialone”, da braccare e sbranare. L’antipolitica, il populismo, l’antiparlamentarismo nascono da lì, altro che quegli untorelli dei grillini, arrivati molto dopo che molte cose erano già accadute. A quel punto dai poteri forti venne un input che arrivò ai magistrati di Milano, cuore del potere economico ai quattro giornali fondamentali, alle tv, in primo luogo quelle di Berlusconi che pensava così di mettersi al riparo: e infatti nel ‘92-’93 il Cavaliere non fu neanche sfiorato da un avviso di garanzia ma l’uragano è arrivato dopo, quando egli ha deciso di scendere in politica.
Non è che precedentemente fino ad allora magistrati e giornalisti non sapessero niente: fra l’altro dagli anni Cinquanta in poi don Sturzo ed Ernesto Rossi avevano riempito giornali e pubblicato libri in cui parlavano dei finanziamenti irregolari dei partiti. Né i magistrati né gran parte dei giornalisti accolsero allora quelle denunce perché, a monte di tutto il finanziamento irregolare dei partiti, c’era la divisione del mondo in due blocchi. Ora in Italia De Gasperi e Togliatti esclusero che lo scontro fra i partiti filo-occidentali e il Pci potesse finire con una guerra civile. Di conseguenza tutti sapevano come era combinato il finanziamento irregolare della Dc (a partire dalla Cia fino ai soldi provenienti dal “Quarto partito” di carattere confindustriale) e quella del Pci (a partire dal KGB, alle società di import-export alle cooperative rosse). Invece, finito il pericolo comunista, la musica cambiò totalmente. Ad opera del pool di Mani Pulite, dei quattro principali giornali, delle televisioni, la denuncia del finanziamento irregolare fu il grimaldello per far saltare il sistema politico e per realizzare l’operazione rivoluzionaria- eversiva di cui ha parlato Il Riformista qualche giorno fa.
A un certo punto si pensò anche, come risulta da una dichiarazione del procuratore generale Borrelli, che il presidente della Repubblica Scalfaro potesse dare ai magistrati anche una diretta investitura politica. Questa operazione però risultò impraticabile e allora il pool ebbe bisogno di un “braccio politico” identificato nel Pds e nella sinistra democristiana. All’interno del Pds i miglioristi sostenevano l’alleanza o addirittura l’unità socialista con il Psi per lanciare un’alternativa riformista. I “ragazzi di Berlinguer” che avevano la maggioranza del partito scartarono però quell’ipotesi sia perché essi erano stati allevati dallo stesso Berlinguer all’antisocialismo e all’anticraxismo sia perché essi erano terrorizzati dalla possibilità di finire che anch’essi sotto il tritacarne del pool visto che il Pci-Pds aveva il finanziamento più irregolare di tutti i partiti. Così, a quel punto, rivelatosi del tutto velleitario, il sogno di Occhetto di fuoriuscire da sinistra dal comunismo reale cavalcando l’ingraismo, in nome della Real Politik, sia pure con sfumature diverse, D’Alema e Veltroni fecero del Pds il “braccio politico” delle procure e dei poteri forti.
Il cosiddetto “governismo” del Pds e poi del Pd nasce da qui, da questa piena subalternità ad alcune procure e ad alcuni poteri, venendo ripagato con una totale impunità (limitata al nucleo ristretto del gruppo dirigente del vertice del partito, non certo da un inesistente neo liberismo). Così al centro Nord il circo mediatico giudiziario penetrò come un coltello nel burro delle imprese comprese le cooperative, dei partiti e delle loro correnti mentre a loro volta Fiat e Debenedetti contrattarono un compromesso fondato su lettere che contenevano parziali confessioni, profonde genuflessioni al pool (vedi le lettere di Romiti e di Debenedetti) ricambiate con il sostanziale salvataggio del sistema Fiat, di quello Mediobanca, di quello Cir, di una parte di quello Iri (Prodi) e di quello Eni (Bernabè), mentre interi settori industriali come l’edilizia e la farmaceutica e Gardini venivano massacrati.
Invece ben altra musica è stata suonata in Sicilia. Il fascicolo mafia-appalti messo insieme dal Ros di Mori, De Donno e altri (che per questo sono stati perseguitati nel corso di almeno 20 anni), qualora fosse stato tradotto in indagini giudiziarie del tipo di quelle svolte al Nord, avrebbe messo allo scoperto la versione siciliana di Tangentopoli diversa da quella esistente nel settentrione del Paese. Infatti, mentre al Nord il sistema di Tangentopoli riguardava questi soggetti: le imprese, comprese le cooperative, le istituzioni locali e nazionali, i partiti, in Sicilia il sistema aveva un altro soggetto, un convitato di pietra costituito dalla mafia. Ebbene, lì, prima la strage di Capaci e poi quella di Borsellino a via d’Amelio hanno avuto questo obiettivo di fondo: liquidare sul nascere una versione siciliana di Mani Pulite.
Tutto si è svolto con agghiacciante rapidità. Cosi non appena la mafia ha liquidato il principale pericolo rimasto su pizza dopo Falcone costituito da Paolo Borsellino, subito il procuratore Giammanco, con la controfirma di Scarpinato, ha archiviato le indagini sul filone mafia-appalti. Ovviamente, avendo questo retroterra, il processo Borsellino è stato depistato ad opera in primis del questore La Barbera, ma per ben altre ragioni di quelle citate nelle motivazioni del processo che parlano dell’obiettivo di un avanzamento di carriera. La Barbera non aveva problemi di carriera tant’è che lo ritroviamo qualche anno dopo al G8 di Genova come punta di diamante del capo della polizia De Gennaro. Come si vede, quindi, le cose presentano aspetti assai seri che vanno molto al di là delle mistificazioni orchestrate da alcuni gestori di talk show che concentrano la loro attenzione sul dito e non sulla luna. Fabrizio Cicchitto
Come nasce Mani Pulite. Tutte le tappe di Tangentopoli: dall’arresto di Mario Chiesa alle elezioni del ’94. Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2023
17 febbraio 1992 – Il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano ed esponente del Partito socialista italiano. A breve ci sarebbero state le elezioni e il segretario del Psi Bettino Craxi nega l’esistenza di pratiche e condotte fraudolente all’interno del suo partito.
5 e 6 aprile 1992 – L’Italia va al voto. Alta l’astensione, in calo i democristiani, che restano comunque il primo partito, stabile il Psi. La rivelazione è la Lega, partito nascente che accusa il “governo ladro” di Roma. Gli avvisi di garanzia arrivano a Carlo Tognoli e a Paolo Pillitteri, ex sindaco e sindaco in quel momento di Milano, tutti e due socialisti. Il 12 maggio è il turno di Severino Citaristi, tesoriere della Dc. Il 16 maggio viene arrestato il segretario milanese Pds, Roberto Cappellini. L’inchiesta prende ufficialmente il nome di Mani Pulite.
23 maggio 1992 – Strage di Capaci, sono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta.
25 maggio 1992 – Oscar Luigi Scalfaro eletto presidente della Repubblica.
28 giugno 1992 – Si insedia il governo Amato I: il 49esimo esecutivo della Repubblica Italiana e primo dell’XI legislatura.
23 agosto 1992 – Craxi comincia su l’Avanti! i corsivi contro Mani Pulite e preannuncia un dossier su Di Pietro.
2 settembre 1992 – Si uccide il parlamentare socialista Sergio Moroni, coinvolto nelle indagini. Uomo vicino a Craxi, prima del suicidio lascia una lettera a Napolitano che la legge in aula. Il segretario del Psi attacca la magistratura e la stampa. Il 15 dicembre Craxi riceve un avviso di garanzia, accusato per la tangente Enimont, che lo porta a dimettersi l’11 febbraio 1993.
5 marzo 1993 – Palazzo Chigi vara il Decreto Conso che prevede la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Il capo dello Stato Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare e il decreto viene ritirato.
21 aprile 1993 – Il governo Amato si dimette e una settimana dopo nasce l’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, il primo non politico alla guida dell’Italia repubblicana.
29 aprile 1993 – Il Parlamento vota contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Si scatenano proteste in tutta Italia. Rimane nella storia dei linciaggi, il lancio di monetine contro Craxi mentre esce dall’Hotel Raphael di Roma. Una delle pagine più buie.
20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, presidente Eni precedentemente arrestato, si suicida. Tre giorni dopo, venerdì 23, si toglie la vita anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, informato dal suo avvocato dell’avvio delle indagini su di lui. Vengono successivamente arrestati l’ad di Montedison Carlo Sama e il manager Sergio Cusani, consulente finanziario di Gardini accusato di falso in bilancio e di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti.
17 dicembre 1993 – Nell’ambito del processo Cusani si tiene l’interrogatorio pubblico di Bettino Craxi e dell’ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani.
1994 Elezioni politiche – È la prima volta in cui il popolo italiano vota senza il simbolo della Democrazia Cristiana sulla scheda. La stessa tornata elettorale è caratterizzata dalla discesa in politica di Silvio Berlusconi annunciata il 26 gennaio di quell’anno.
La scalata della magistratura. Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022
Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.
“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.
Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».
Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».
Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.
Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.
Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.
Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo. Paolo Liguori
Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.
In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.
Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.
Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.
Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce
L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».
Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».
Piercamillo Davigo – Sottile? Macché
Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.
Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?
Gherardo Colombo – Fonzie tormentato
Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».
E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.
Tiziana Parenti – L’intrusa
L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.
Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.
Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro
Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .
Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.
Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso
Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.
Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.
Antonio Di Pietro – Il testimonial
Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.
Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Sentire dai protagonisti come andarono i fatti. Mani Pulite e il ricatto ai politici: i magistrati a chi proposero quel patto scellerato? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2023
Nessuno sarebbe andato in carcere, a partire dal 1992, se il mondo della Prima Repubblica avesse accettato il ricatto degli uomini di Mani Pulite: resa incondizionata, consegna delle armi e uscita dai processi. La rivelazione sconvolgente di Gherardo Colombo, uno degli uomini che nel luglio del 1992 avrebbero avanzato la proposta ai leader dei partiti di governo di allora, parla oggi di un progetto politico mai realizzato che avrebbe cambiato il corso della storia.
Lo avevamo già intuito dalla dichiarazione di Saverio Borrelli, quando, dopo la quarta vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, aveva detto candidamente: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. L’ammissione del fatto che Mani Pulite era stata un’operazione politica e solo politica. Niente moralizzazione, niente obbligo dell’azione penale. Ma oggi Gherardo Colombo non solo conferma, ma aggiunge qualcosa di più drammatico. Un ricatto che equivale a un moto rivoluzionario. Qualcosa di violento e immorale come un push, preparato da toghe anziché da divise militari. Questa sarebbe stata l’attività di Mani Pulite. Tanto che, qualora si fosse arrivati a un accordo, la proposta del 1992 di cui parla Gherardo Colombo avrebbe comportato la rinuncia da parte dei pm all’obbligatorietà dell’azione penale in cambio di una trasformazione della politica nell’esercito dei “pentiti” e il riconoscimento del nuovo assetto di potere, quello giudiziario. La dittatura delle toghe. Sarebbe stata questa dunque la “soluzione politica” per uscire in modo indolore da Tangentopoli, lo “scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo”.
Non c’è motivo di dubitare della sincerità di Gherardo Colombo, che sta vivendo il successo della sua terza vita, dopo quella di magistrato garantista di sinistra e poi quella della passione per le manette fino alla scoperta dell’inutilità del carcere. Se quel che dice oggi corrisponde alla realtà dei fatti, vuol dire che c’è stato da parte del pool di Milano un tentativo segreto di avvelenare i pozzi. Cioè che fin da subito, da prima ancora che i leader politici del tempo, il segretario della Dc Arnaldo Forlani e del Psi Bettino Craxi ricevessero un’informazione di garanzia, i pubblici ministeri non avevano a cuore il trionfo della giustizia, ma solo la presa del potere.
E proprio perché lo dice una persona molto stimata come Gherardo Colombo, e se la proposta ci fu, vorremmo sapere non solo da chi, ma anche a chi il pactum sceleris fu avanzato. Perché tutti gli accadimenti di quell’anno sono stati distillati e centellinati in ogni angolatura, in ogni sospiro, per trent’anni in libri e giornali. E ripensandoci, e con angoscia, vien da dubitare che se l’accordo non ci fu è solo perché provvidero gli uomini di Totò Riina a portare altrove l’attenzione del mondo politico. Così l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo precede di appena un mese le elezioni politiche del 5 aprile che segneranno il primo segnale politico dell’influsso di tangentopoli sul pentapartito di governo. E poi tutto quel che seguì, con le dimissioni del Presidente Cossiga e subito dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. E poi in sequenza la prima informazione di garanzia al tesoriere della Dc Severino Citaristi e la sorte di Bettino Craxi con la sua invettiva in Parlamento mentre si votava la fiducia a un governo che non sarà presieduto da lui perché nel frattempo la sua immagine dalle parti del palazzo di giustizia di Milano non era del tutto cristallina.
Da una parte c’erano le bombe di Cosa Nostra, dall’altra i siluri di Mani Pulite. Questo era il 1992. Con Scalfaro alla Presidenza della repubblica al posto di Cossiga, due giorni dopo la strage di Capaci, e anche questo fu un cambiamento storico, e non certo positivo. Mentre a commento dei primi tre suicidi di Tangentopoli il procuratore aggiunto di Milano Gherardo D’Ambrosio diceva “A volte si muore anche di vergogna”. Ma il patto, almeno in quell’anno, non ci fu. E loro andavano avanti. E ci vorrebbe una sorta di grande Csm della storia per sentire da Gherardo Colombo come andarono i fatti e quali fossero le loro intenzioni. Per esempio, la domanda pare legittima: volevano solo un ricambio di classe politica, mandando semplicemente un D’Alema al governo (cosa poi accaduta negli anni successivi), come pensano alcuni, o volevano invece fare loro direttamente le valigie e prendere l’aereo per Palazzo Chigi? Non l’aveva del resto detto lo stesso procuratore Borrelli “se il Presidente ci chiama” siamo a disposizione?
Ma questo della resa della politica, della consegna delle armi, resterà sempre un tarlo nella mente del gruppo dei magistrati coraggiosi. Lo dimostra tutto il loro modo di procedere, lo sprezzo con cui trattavano i politici negli interrogatori, le minacce, il tono ricattatorio, l’uso del carcere preventivo. Orpelli non indispensabili nelle normali procedure della giustizia. Importanti invece nel clima di vera guerra che il Pool aveva dichiarato. I primi ad arrendersi furono comunque gli imprenditori. Non solo Romiti e De Benedetti, che evitarono il carcere con trattative condotte nei principali studi legali italiani, che diedero ai magistrati niente di più che piccole mance, una paginetta di modeste ammissioni di colpevolezza in cambio dell’impunità. Ma anche gli altri, quanto meno a partire dal 1993, quando il Presidente di Assolombarda Ennio Presutti indisse l’assemblea generale degli industriali, con la presenza dei Moratti, dei Pirelli e i Tronchetti Provera ma anche dei tanti Brambilla esasperati, e disse “Occorre chiudere con tangentopoli” e infine “Dobbiamo rassegnarci”, e fu l’inizio della resa.
Anche il mondo della politica ci provò. Ma l’interlocutore – era ormai nato il circo mediatico giudiziario – pareva insaziabile, assetato del sangue di partiti ormai in ginocchio. Due ministri per bene come Giovanni Conso e Alfredo Biondi furono uno dopo l’altro messi alla berlina come delinquenti. E intanto gli uomini del pool, quelli che contavano davvero, mandavano avanti un Tonino Di Pietro tutto elegante in abito fumo di Londra e cravatta berlusconiana a piccoli pois, a presentare una vera proposta di legge in quella cornice da “liberté égalité jet privé” che è sempre stato l’incontro promosso ogni anno dallo Studio Ambrosetti a Cernobbio sul lago di Como. Era la solita proposta capestro per umiliare la politica e l’imprenditore Berlusconi – si era ormai nel 1994 – l’unico del mondo industriale a non essersi mai piegato, mentre la Confindustria di Luigi Abete aveva dato subito il proprio consenso.
Il ceto politico seppe allora ribellarsi, il mondo era cambiato e nessuno, compreso il Presidente Scalfaro, accettò quello stravolgimento della Costituzione che si sarebbe avverato se l’ordine giudiziario si fosse impadronito del potere legislativo. Velenoso fu in quei giorni il pm Gherardo Colombo, mentre molti politici avevano accusato la proposta dei magistrati di voler creare un mondo di ”pentiti”. “Non vorrei – aveva sibilato – che chiamare delatore chi fa il suo dovere svelando la corruzione sottintendesse la convinzione che rubare ai cittadini non è così grave”. Ipse dixit. Ieri come oggi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
“Colombo ha avuto grande onestà intellettuale". Mani Pulite, il racconto di Giulio Di Donato: “Sconti ai politici, a me fu chiesto di convincere Craxi a consegnarsi”. Aldo Torchiaro su Il riformista l’8 Aprile 2023
Le rivelazioni che Gherardo Colombo, ex pm del pool Mani Pulite, ha fatto a Enzo Carra fanno discutere. Alcuni magistrati avrebbero offerto un salvacondotto ai loro inquisiti, a cui avrebbero promesso l’immunità penale in cambio di informazioni e di qualcosa di più: della promessa di “uscire dalla vita pubblica”. Da Gherardo Colombo, che d’altronde lo ha scritto nero su bianco, nessuna smentita. Arrivano invece le conferme. I protagonisti di quegli anni iniziano a parlare, a ricordare le irricevibili proposte che alcuni magistrati gli formulavano. «Pentitevi e saltate un turno dalla politica, avrete la fedina penale pulita»: Giulio Di Donato, a lungo parlamentare socialista e oggi presidente dell’associazione Socialismo Oggi, conferma nella sostanza quella che definisce “una prassi, una offerta regolare”.
E sottoscrive le parole di Gherardo Colombo, «cui va dato atto di una grande onestà intellettuale. Ha capito gli errori e anche gli orrori di una inchiesta che ha sommerso di fango la storia del Paese, e ha iniziato a scavare nel fango per rimettere qualche cosa a posto». Di Donato, napoletano, è stato l’ultimo vice segretario del Psi di Bettino Craxi, dal 1990 al 1992. Ed in quanto tale è rientrato in una trentina di procedimenti per un totale di 44 capi di imputazione. A Milano lo chiamarono in causa per una questione di sponsorizzazioni al Festival de L’Avanti. «Mi dissero che lo sapevano, che io non ne sapevo niente. Ma che da vice segretario del partito avevo delle responsabilità. E giù ore a interrogarmi, certe sere fi no allo sfi nimento». I modi sono quelli che solo l’eloquenza di Antonio Di Pietro ha saputo restituire fedelmente: “Io a quello lo sfascio”, disse di Silvio Berlusconi. I primi arrestati confessavano, denunciavano il denunciabile. Poi il clima cambiò, e mutò lo scenario.
Prima c’era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori… ma la situazione si è modifi cata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fi no a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». A quelli che consegnavano la propria carriera politica, annunciando pubblicamente di uscire dalle istituzioni, dai partiti, dalla pubblica amministrazione “almeno provvisoriamente”, come scrive Colombo, si iniziavano a fare sconti anche molto importanti. Perdonando alla fi ne anche tutto. Giulio Di Donato rievoca quegli anni e un episodio in particolare. Finisce un interrogatorio – siamo nel 1994 – e gli sequestrano il passaporto. Così, per fargli capire che non può lasciare il Paese, sospeso in quel limbo tra attesa di giudizio e attesa di giustizia in cui vengono messi a rosolare, ogni anno, mezzo milione di italiani.
“Poi successe una cosa strana: l’allora Pm di Milano, Francesco Greco, mi fece chiamare in via informale. Disse ai miei legali di voler fare una chiacchierata amichevole con me. Ero a Napoli, presi il treno con i miei legali, Greco mi incontrò nel suo ufficio senza più usare i toni dei due anni precedenti. Un pacchetto di sigarette aperto sul tavolo richiama la sua attenzione: erano Gitanes senza filtro”. Che strano, proprio le sigarette abituali di Di Donato. Una coincidenza. E quando l’ex numero due di Craxi si siede, voilà, dal primo cassetto del Pm Greco ecco che salta fuori il passaporto di Di Donato. “Eccolo, glielo volevo riconsegnare io stesso”, gli dice il magistrato. Quanta premura. E gli allunga l’accendino. Si parla di politica, di famiglia. “Pensa di fare un viaggio, adesso che può?”, gli chiede l’inquirente. E l’esponente socialista: “Non so ancora, non ci ho pensato. E a dire la verità non ricordavo neanche di non avere il passaporto”.
“Allora mi permetta di darle un suggerimento”, incalza Greco. “Perché non va ad Hammamet a trovare Bettino Craxi? Lei ci parla, gli fa capire che faremo un giusto processo, che la cosa migliore è farsi vedere in aula, e se lo convince a tornare in Italia gliene saremo tutti grati”. Non serviva aggiungere altro. Di Donato ha intuito il senso, l’obiettivo delle cortesie riservategli. E ha capito che i magistrati hanno nel mirino Bettino Craxi, “il Cinghialone”. Vogliono il trofeo di caccia da esporre. Varrebbe oro, quel trofeo. Di Donato quel viaggio lo farà, andando a salutare il leader socialista in esilio, ma si guarderà bene dal farsi messaggero delle Procure.
Né rivedrà quel Pm, al ritorno. «Una cosa però me la faccia aggiungere: c’era un disegno politico ben preciso, nell’operazione Mani Pulite. Non è vero che si voleva colpire tutta la politica. Si voleva colpire il Pentapartito, che rappresentava il nodo di potere stabile del nostro sistema politico. Si indagarono con particolare pervicacia quelli vicini a Forlani e a Andreotti, nella Dc, risparmiando quasi del tutto la sinistra democristiana. Si indagò con il microscopio fi n nelle piccole federazioni provinciali del Psi. Da noi misero a soqquadro tutto, ripetutamente». Un capitolo a parte riguarda Berlusconi. «Le Procure guardavano con simpatia a Berlusconi che ne ossequiava il lavoro con i suoi inviati di Mediaset a documentare il lavoro febbrile al Palazzo di giustizia di Milano. Nel 1994, quando entra lui in politica, sconfi ggendo Occhetto, ecco che le Procure dirigono tutte le indagini su di lui. All’improvviso. Dimostrando una regìa politica che dirigeva senza esitazioni le sue armi sul nemico di volta in volta da abbattere».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Tangentopoli fu un colpo di Stato, la rivelazione del Pm Colombo del pool di Mani Pulite. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Gherardo Colombo, l’ex Pm che è stato nei primi anni novanta uno dei cinque grandi protagonisti dell‘inchiesta “Mani Pulite” – quella che rase al suolo la prima Repubblica – ha scritto una introduzione al libro di Enzo Carra (uscito postumo in libreria in questi giorni) nella quale ci svela un aspetto finora sconosciuto di quella stagione. Sconosciuto e sconvolgente. Ci dice che nel luglio del 1992, quando le indagini erano ancora alle prime battute, fu suggerito ai politici di confessare i propri delitti e di uscire dalla vita pubblica in cambio dell’impunità.
Colombo dice esattamente che se i politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto “a che fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta Stato-Tangentopoli . Ovviamente del tutto illegale. Dal punto di vista del codice penale, se Colombo racconta il vero, il pool commise un reato piuttosto serio. Violò l’articolo 338 che punisce severamente la “minaccia a corpo politico”. Nella sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parta di singoli politici, o di imputati: parla di “politica”, al singolare, cioè si riferisce esattamente del “soggetto collettivo” al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la minaccia del carcere. L’articolo 338 del codice penale prevede pene fino a sette anni di reclusione. Ovviamente i reati sono caduti in prescrizione, però resta la ferita allo Stato.
Se davvero la procura di Milano chiese a quella che allora era la classe dirigente, legittimamente eletta, di farsi da parte, minacciando altrimenti l’arresto e il carcere, compì un atto che è difficile non considerare un vero e proprio colpo di Stato. Non in senso metaforico, simbolico: nel senso pieno e letterale della parola. L’accordo non ci fu. La politica si dimostrò migliore della magistratura. Il ricatto non funzionò. E però la Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano – sempre se è vero quello che dice il dottor Colombo – fu comunque portato avanti, con gli arresti sistematici, con l’aggiramento del Gip, con i mandati di cattura a rate, col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni o con nuovi mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi. Ed eliminò dalla scena tutta la classe politica di governo, più o meno come succedeva spesso in America Latina.
Naturalmente dal punto di vista strettamente politico, le ammissioni di Colombo non cambiano niente. La prima repubblica è morta sotto le picconate della procura di Milano e poi di altre procure. Nessuno la risusciterà. La democrazia cristiana non esiste più, non esiste più il vecchio e glorioso partito socialista, non esiste il Psdi, né il Pri, né i il partito liberale. Però è importante ricostruire quegli avvenimenti. Sapere che almeno una parte della magistratura si mosse violando in modo clamoroso la legalità. Ed è importante accertare come nella storia della repubblica c’è stata una rottura determinata non dal normale svolgimento democratico ma da un Putsch.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il tentato golpe nel 1992. Cosa ha rivelato Gherardo Colombo su Tangentopoli, il ricatto dei Pm ai politici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Un tentato golpe nel 1992 tentò di rovesciare la democrazia. A denunciarlo oggi è Enzo Carra. Sì, perché Enzo Carra parla. Parla ancora. A tutti. L’oscenità delle manette con cui lo volevano umiliare non lo ha messo a tacere. È morto lo scorso 2 febbraio, l’ultimo portavoce della Democrazia Cristiana. Ma poco prima di morire ha affidato all’amico Vincenzo Scotti, patron della Link Campus e della casa editrice Eurilink, un testo. Un manoscritto denso di rivelazioni, informazioni, ricostruzioni. Un memoriale inestimabile, soprattutto perché costruisce un terreno di confronto con la controparte – i magistrati della Procura di Milano – che ci permette di leggere anche i disegni dei Pm senza più tanti filtri. Senza infingimenti.
L’Ultima Repubblica – è il titolo che ha dato Carra – ricorda tutto, con una lucidità puntuale. E per puntellare il suo racconto di quel periodo di legalità sospesa ha invitato a dialogare uno dei suoi accusatori. Una figura sui generis: quella di Gherardo Colombo. Integrato nel gruppo di punta e dunque tra i Pm più direttamente coinvolti nel clamoroso arresto di Carra, Colombo è stato anche tra i pochi protagonisti di quegli anni a saperli rileggere con sguardo critico. Fu senz’altro sua una delle firme che condussero dietro le sbarre l’allora portavoce di Arnaldo Forlani, appunto Enzo Carra, a nome del pool milanese di Mani Pulite il 19 febbraio 1993. Bisognava celebrare il primo anniversario di Tangentopoli. Ci voleva più di un brindisi. Un brindisi “col botto”. Fu allora che la storia di quell’inchiesta assunse i contorni di qualcosa d’altro. Di più oscuro. Ed è lo stesso Gherardo Colombo a rivelarlo. A scriverlo. Rispondendo al dialogo con Carra, l’ex Pm rievoca gli eventi di quei giorni di Mani Pulite, gli errori e gli eccessi.
Quello in epigrafe: quando il colto, acuto, placido Carra venne arrestato (e ammanettato, come se fosse socialmente pericoloso e aggressivo) per essere mostrato come un trofeo di caccia davanti allo sguardo famelico delle telecamere. Un arresto insostenibile, gratuito. Come quello di molte altre vittime di quella furia giacobina. Che si può meglio interpretare con una dichiarazione disarmante di Gherardo Colombo, che nella sua introduzione squarcia il velo sul segreto dell’operazione Mani Pulite: “Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi di quegli eventi) della nomina di Martinazzoli, la politica avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale”. Lette queste parole, abbiamo chiuso gli occhi e inspirato. Poi abbiamo riletto: e sì, è tutto vero. A pagina 13 del libro di Enzo Carra il giornalista fa dire a Colombo come funzionava il meccanismo del golpe. Lo spinge ad un controinterrogatorio gentile che lo porta ad ammettere.
Veniamo a sapere che il meccanismo dello scambio – come lo definisce lo stesso Colombo – funzionava con il do ut des tra due poteri: gli eletti che avessero ricostruito notizie eventualmente possedute e avessero fatto oltre alla delazione anche un’abiura, disconoscendo il proprio mandato democratico e accettando di dimettersi “temporaneamente” (sic) nelle mani del potere giudiziario, avrebbero ricevuto dai Pm di Mani Pulite un salvacondotto capace di farli attraversare indenni l’Acheronte di Tangentopoli. Nessun problema avrebbero più avuto con la giustizia coloro i quali avessero accettato di “abdicare” alla vita pubblica. E che cos’è, la vita pubblica, se non la partecipazione democratica, il confronto elettorale, il dibattito culturale che secondo la Costituzione viene organizzato con il mezzo principale di quei pilastri della democrazia che sono i partiti? I sospetti tratteggiati nei discorsi di Bettino Craxi e nelle lettere di alcuni dei condannati a morte dal pool parlano chiaro. “Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”, scriveva Sergio Moroni all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, prima di spararsi.
Ne L’Ultima Repubblica quei fantasmi prendono forma, assumono le sembianze umane di quel pool che abbiamo imparato a conoscere bene. Come a dover aderire a un disegno sinistro, i Pm provano a buttare giù un sistema, un architrave democratico composto di partiti. Di scuole politiche. Colombo prova poi, nel testo, a rifiutare la responsabilità della storia: “I partiti sono morti da soli”, glossa a pagina 13. Poi ci torna a pagina 17: “Abbiamo pensato che la fine dei partiti italiani, avvenuta tra il 1993 e il 1994, sia stata una condanna della storia e non dei tribunali. Abbiamo pensato che la cancellazione del nostro quadro politico, creatura della guerra fredda, fosse la conseguenza positiva dello spegnersi di un lungo dopoguerra. Sì, certo, c’era stata anche la Grande Inchiesta a rendere impresentabili partiti corrotti o addirittura covi di personaggi dediti a pratiche previste come reati dalla legge italiana. ‘Finalmente ce ne siamo liberati’, gli italiani salutarono così l’insperato addio dei partiti”. Ci sarebbe da fare un’analisi filologica attenta, su tutto il passaggio di Colombo: “la politica”, sempre tra virgolette, a sminuirla.
La cancellazione del quadro politico definita solo come “positiva”. La Grande Inchiesta con le iniziali maiuscole, a sottolinearne la sacralità. Torniamo a Carra: il talento giornalistico, il fiuto politico, l’umanità profonda dell’ultimo portavoce della prima repubblica – da qui L’Ultima Repubblica – tornano a far parlare i suoi amici, riuniti per un ennesimo saluto fatto di idee e di rinnovate intese. Al primo evento di presentazione del libro, ospitato lunedì scorso dalla Lumsa a Roma, a moderare c’erano i due più grandi confidenti di Carra, i giornalisti Paolo Franchi e Stefano Folli. Riformista il primo, repubblicano il secondo. Sono loro a rievocare gli anni in cui il potere politico dovette cedere l’egemonia al potere giudiziario. Davanti agli occhi lucidi del giovane Giorgio Carra, che ha assistito suo padre nel portare a termine questo suo memoriale, sfilano i ricordi di un pezzo di storia. Vincenzo Scotti “quasi commuove”, come chiosa Franchi.
In prima fila, Mario Segni e Luigi Zanda. Dietro di loro c’è Flavia Piccoli Nardelli, appena nominata a capo dell’Associazione delle istituzioni culturali italiane, accanto a Michele Anzaldi (Iv). Uomini e donne che hanno contribuito con senso dello stato a costruire quell’ossatura della democrazia, i partiti politici, le istituzioni democratiche, che qualcuno forse avrebbe preferito vedere morte. “I corpi intermedi… esisteranno ancora i corpi intermedi?”, si chiede Gherardo Colombo a pagina 18 dell’introduzione. “Chissà che non si arrivi a una forma assai più diretta di democrazia o all’affermazione di una forma di dittatura della massa, sulla falsariga di quel che accadeva ai tempi di Ponzio Pilato”. Per ora, il potere è nelle mani degli elettori. Il pool non colpisce più. E non c’è più Enzo Carra, ma rimangono le sue parole a illuminarci: il golpe armato di toga e maglietto ha disarcionato una classe dirigente e l’ha provata a sostituire con populisti e giustizialisti. Prenderne atto è essenziale per farsi gli anticorpi.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Antonio Di Pietro, Vittorio Feltri: "I 3 cadaveri dietro al muro. Diede la notizia a me..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 agosto 2023
Ho conosciuto Antonio Di Pietro nel 1983: io ero direttore di “Bergamo Oggi”, lui era Sostituto Procuratore nella mia città. Di Pietro è sempre stato un personaggio. Di origini molisane, è nato a Montenero di Bisaccia, ha modi abbastanza burini ed è arrivato alla magistratura dopo una disparata serie di lavori: è stato operaio in una segheria, lucidatore in un’azienda metalmeccanica in Germania. Infine, dopo la laurea in Giurisprudenza, è stato commissario di Polizia e poi responsabile di un distretto alla Questura di Milano. Insomma, Di Pietro è arrivato a Palazzo di giustizia a forza di braccia, facendo uno a uno tutti gli scalini. Forse per questo, in un ambiente snob come quello delle toghe, i colleghi lo detestavano, sostenevano che fosse inadeguato. Ma si sbagliavano. Mi sono detto: «Io divento suo amico».
Lui era stato abbandonato da tutti e in me aveva trovato una sponda, un giornalista che lo prendeva in considerazione, così ha cominciato a darmi notizie interessanti. Ricordo un fatto di cronaca eclatante, a quarant’anni di distanza ancora se lo ricordano tutti: il caso del mostro di Leffe, un piccolo Comune bergamasco della Val Seriana. Un bancario del paese, Giovanni Bergamaschi, aveva ucciso la suocera, la moglie e la figlia.
La suocera, Annunciata Brignoli, l’aveva ammazzata nel 1978 e l’aveva sepolta sul Monte Croce, mentre tre anni dopo era toccato alla moglie Giannina Pezzoli e alla figlia Aurora di quattro anni, che poi l’uomo aveva murato dietro una parete eretta appositamente nel sottoscala di casa. Bergamaschi se n’era poi andato in Germania e per anni aveva inviato a casa cartoline falsificando la firma della moglie e della figlia, lasciando intendere che tutta la famiglia era emigrata e viveva là felicemente.
GLI OMICIDI - I tre omicidi furono scoperti solo il 13 febbraio del 1984: nel paese si parlava della vicenda, ma la popolazione era sospettosa, Annunciata Brignoli non si vedeva più da anni, era difficile ricostruire i fatti. Di Pietro seguì il caso e andò a perquisire la villetta della famiglia scomparsa: c’erano tracce di sangue sulla scala ma si accorse che le gocce si interrompevano nel sottoscala, che era stato murato. Notò subito che la parete era stata tirata su malamente, di fretta. Bussò e sentì che dietro suonava il vuoto. Gli agenti sfondarono a picconate la parete e trovarono due sacchi dell’immondizia, dentro i quali si trovavano i corpi della moglie e della figlia di Bergamaschi.
Di Pietro diede la notizia solo a me. Mandai un cronista a Leffe, ma al tempo in provincia non si era abituati a trattare fatti di questo rilievo, così quando tornò scrisse un pezzo, me lo portò e io mi accorsi che era un articolo breve, nel quale non dava valore alla vicenda: gli tirai dietro la mia Lettera 22 e mi misi a riscrivere di mio pugno la storia. Facemmo un titolone in prima pagina e il giorno successivo andammo in Val Seriana con i tir pieni di giornali, in edicola non se ne trovava più una copia: Bergamo è piccola, se capita qualche cosa nei paesi è come se succedesse in città e la provincia vibra subito per i fatti di sangue, perché le persone si conoscono o sanno per sentito dire, una notizia del genere chi non la legge?
Due settimane dopo mi chiamò Gian Antonio Stella, che era stato mio collega al Corriere della Sera: mi diede la notizia che stavano arrestando Bergamaschi a Roma, alla stazione Termini, mentre si recava a trovare il fratello, docente universitario. Lo scongiurai di scrivermi trenta righe, dovetti insistere perché lui lavorava ancora per il Corriere. Alla fine produsse le trenta righe che volevo e io le pubblicai: di nuovo fui l’unico a Bergamo ad aver pubblicato l’avvenuto arresto e, con mio sommo godimento, L’Eco di Bergamo bucò la notizia. Di nuovo vendemmo tutto il vendibile. Mi telefonò il direttore dell’Eco, monsignor Andrea Spada, e mi disse: «Te Vittorio, quando te ne vai fora da i bal? Te me fe diventà mat». Non ne poteva più di avermi al giornale concorrente.
Bergamaschi ammise tutto, fece ritrovare il corpo della suocera che aveva seppellito in montagna, confessò di aver ucciso la moglie perché lei aveva sospetti sulla morte della madre e di aver ucciso anche la figlia perché sarebbe stata testimone. Poi si era trasferito in Germania Est, dove era rimasto per oltre due anni. «Quel caso resta l’emblema delle indagini tradizionali», racconterà poi Di Pietro, «Oggi dominano gli algoritmi, allora invece era fondamentale l’intuito. Fu quella la chiave di tutto». L’ex bancario scontò dieci anni in un manicomio giudiziario, come persona «incapace di intendere e di volere».
La mia strada incrociò di nuovo quella di Di Pietro quando lui stava lavorando nel pool di Mani Pulite, era stato traferito alla Procura di Milano e io ero direttore dell’Indipendente. Mi fece chiamare da comuni amici di Bergamo e disse che avrebbe voluto rilasciarmi un’intervista. Mi precipitai al quarto piano del palazzo di Giustizia, era il 5 giugno del 1992: Tonino era già un eroe popolare, l’angelo sterminatore di Tangentopoli, un “marchio” il cui valore venne valutato, secondo Gavino Sanna, al tempo uno dei massimi esperti pubblicitari, dieci miliardi di lire.
TANGENTOPOLI - Di Pietro era adorato dall’opinione pubblica, tra scritte sui muri (“Forza Di Pietro”, “Signore, dacci un Di Pietro”), striscioni (“Di Pietro sei meglio di Pelé”) e poesie di Alda Merini (“Conosce benissimo Di Pietro/ le cose vinte dalla nostra Italia”). Era adorato pure dai giornalisti della cronaca giudiziaria milanese, che gli affibbiarono decine di soprannomi: “Belva”, “Zanzone”, “Padrepio”, “La Madonna”, “Dio”, “L’Onnipotente”.
Indro Montanelli diceva che Di Pietro era “uomo della provvidenza” e questa mansione il magistrato la svolgeva con gusto. Quando lo incontrai nel suo ufficio di via Freguglia, il pm lavorava in una stanza ingombra di faldoni, con una luce triste, da film neorealista. Viveva lì dieci, dodici ore al giorno. Davanti al suo tavolo c’erano due sedie, una era occupata da una pila di documenti. Mi sedetti. Mi raccontò come aveva preso l’avvio il procedimento: «Nulla di romanzesco», mi disse, «da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l’altro siamo andati lontano». Si lasciò andare sulle sue impressioni: «Mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, a me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l’indagine».
Da quel momento ebbi da Di Pietro tutte le notizie su Tangentopoli, navigammo sulla marea di sdegno che inondò quei due anni. L’inchiesta infuriava, mezza Milano tremava, tutti i politici italiani tremavano. Quel magistrato inviso ai colleghi era riuscito a fare in tre mesi ciò che a loro non era riuscito in quarant’anni. Alla fine litigammo perché aveva eseguito indagini su tutti i partiti e le uniche infruttuose erano state quelle sul Partito Comunista. «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure», si giustificò il magistrato, ma per me non bastava. Alcuni, fin troppi, di coloro che furono risucchiati dalle indagini non ressero alla pressione, oppure si videro senza scampo, e si uccisero. Ho sempre avuto l’impressione che a Di Pietro non importasse nulla, nonostante una volta abbia detto che la morte di Raul Gardini sia stata per lui una sconfitta terribile e che lo avrebbe potuto salvare. Raccontò infatti che la sera prima del suicidio i carabinieri lo chiamarono a casa, a Curno, per chiedergli se dovessero arrestarlo: «Dottore, che facciamo, lo prendiamo?».
Tonino però aveva dato la sua parola agli avvocati dell’imprenditore che non avrebbe fatto scattare le manette, a patto che Gardini la mattina seguente si fosse presentato in Procura spontaneamente. Quindi ai militari rispose di lasciar perdere. «Se l’avessi fatto arrestare subito», racconta Di Pietro, «sarebbe ancora qui con noi». Di Pietro si disse convinto che quello del finanziere fosse stato un «suicidio d’istinto, un moto d’impeto, non preordinato». Io sono invece dell’idea che Gardini non premette il grilletto all’improvviso, ma dopo aver covato il proposito per almeno 36 ore. Di Pietro avrà certamente fatto il suo mestiere secondo coscienza, ma al tempo si usava la galera come scorciatoia per arrivare in fretta a una confessione. Si rivelò un sistema spesso efficace. Ma la coercizione, in persone che non sono delinquenti abituati a passare attraverso le porte del carcere, può provocare disastri. E infatti ne ha provocati.
Gherardo Colombo: «Da ragazzino mi bocciarono due volte. Agli inizi della mia carriera giravo con un revolver». Luca Mastrantonio su il Corriere della Sera il 23 febbraio 2023
L’ex magistrato, 76 anni: «Prima di Mani Pulite ero un milanista accanito, poi mi sono calmato»
Nel salotto della casa milanese di Gherardo Colombo, un golden retriever (Luce) ci osserva dal divano, la testa poggiata sul bracciolo coperto da un lindo fazzoletto bianco. Colombo ha l’aria di aver finito da poco un esercizio di fatica domestica (un rubinetto da sistemare). L’occasione del nostro incontro è l’uscita del nuovo libro Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Garzanti).
Lei è classe 1946, brianzolo, mamma casalinga, papà medico. Primo ricordo?
«La scossa di corrente elettrica, per le dita in una presa elettrica. Da lì sono venuti i capelli ricci... (ride). Ero piccolo e sperimentavo. I miei non si arrabbiavano, erano accoglienti».
A scuola come andava?
«Bocciato in seconda media e quarta ginnasio, ho recuperato l’anno in entrambe le occasioni. Avevo difficoltà a entrare in relazione con gli altri. Ero obeso... Finalmente al liceo ho capito che la libertà passa per lo studio. Poi scelsi Giurisprudenza...».
Si immaginava già giudice?
«Mio padre faceva il medico generico, girava di giorno e di notte, curava, faceva partorire. Volevo essere utile come lo era lui, e a mio parere verificare il rispetto delle regole lo era. A differenza del medico non avrei dovuto mettere le mani sulle persone. L’alternativa era Fisica, mi piace capire il perché dei fenomeni».
Nella Giustizia ha individuato qualche legge fisica?
«Non è una legge fisica, ma poco ci manca. L’importanza dell’ambiente nelle scelte che le persone fanno anche nel campo della trasgressione. Sa, la storia in cui l’imputato è davanti al giudice, chiuso nel posto degli imputati e dice: “Signor giudice, se lei fosse nato dove sono nato io e io dove è nato lei, qui ci starebbe lei e io sarei lì”. Una regola che soffre poche eccezioni».
Ci sono ambienti in cui uno sceglie di stare. La P2. Cosa ricorda di quando nel 1981 con Giuliano Turone scopriste le liste di Licio Gelli?
«Stupore e indignazione. C’erano i capi dei servizi segreti, c’era chi aveva inquinato le indagini sulle stragi, ministri, imprenditori, giornalisti, magistrati, la catena di comando del Corriere della Sera ... C’erano buste sigillate che contenevano inquietanti notizie di reato...».
Quale fu la prima reazione?
«Preoccupazione, che i servizi segreti potessero venire a riprendersi le carte. Fotocopiare 5 mila fogli era impossibile, allora incominciammo a selezionare, fotocopiarne le più importanti, descriverle accuratamente, nasconderle in un fascicolo che riguardava altre indagini».
Lei agli inizi della sua carriera girava armato.
«Qualche volta mi capitava di portare la pistola. Il 19 marzo 1980 venne ucciso Guido Galli, con cui lavoravo. E nei gironi immediatamente precedenti erano stati ammazzati altri due giudici. Prima linea rivendicò l’omicidio di Guido. Alcuni colleghi scapparono nei Paesi di origine. Io sono rimasto, ma per una settimana ho dormito fuori casa, finché la mia moglie di allora mi ha aiutato a riprendermi. Ma ogni volta che mi fermavo con la moto ad un semaforo e qualcuno attraversava dietro, mi aspettavo il colpo. Nonostante le armi non mi siano mai piaciute mi sono obbligato ad andare in armeria, ma a comperare una pistola non ce l’ho fatta. Ci ho sono tornato un’altra volta, niente. Alla terza volta mi sono costretto ed ho preso un revolver».
Cos’ha provato?
«Quando mi sembrava d’essere più esposto dava una sensazione di sicurezza. Ma è irrazionale. Un antidoto, un’esorcizzazione della paura e basta. L’anno dopo, scoperta la P2, m’hanno assegnato la scorta, e l’arma l’ho messa in cassaforte, in ufficio. Dimessomi dalla magistratura nel 2007, l’ho consegnata in Questura chiedendo venisse distrutta. Non volevo che qualcuno usasse contro qualcun altro l’arma che era stata mia».
Molto cauto. Lei si è mai sentito tradito da qualcuno?
«Durante Mani Pulite avevamo scoperto un grande giro di corruzione nella Guardia di finanza di Milano, un corpo con cui avevo lavorato tanto e bene. Un imprenditore, interrogato, coinvolse un colonnello con cui avevo lavorato e di cui mi fidavo, temevo potesse fare un gesto estremo. La lettera che Sergio Moroni aveva scritto decidendo di suicidarsi mi aveva colpito profondamente, per cui ho disposto che, una volta arrestato, il colonnello venisse portato subito da me per l’interrogatorio, per evitare che potesse compiere atti insani, precisando che lo avrei atteso fino al giorno dopo. Arrivò alle 4 di notte e mentre aspettavamo il suo avvocato mi chiese: “Dottore mi dice lei cosa fare? Patteggio la pena? Dico che sono innocente o confesso? Mi dica lei...” Mi sono stupito, pensavo fosse disperato, non era nemmeno imbarazzato».
Lei non si arrabbia mai?
«Con le parole reagisco al momento, se percepisco un’ingiustizia. Ma conto fino a dieci e non vado oltre. Comunque mi arrabbio».
L’ultima volta?
«L’altro giorno, attraversavo sulle strisce pedonali con Luce, un’auto quasi ci ha investito. Che caspita!»
Ha urlato «che caspita»?
«Purtroppo a volte mi scappa anche qualche parola “turpe”».
Difficile immaginarla.
«Allo stadio, fino agli anni '90, ero un tifoso accanito del Milan».
Smise durante Mani Pulite?
«È che allo stadio qualche volta mi lasciavo coinvolgere, e magari dietro di me qualcuno non la prendeva bene».
È restato tifoso?
«Sì, ormai all’acqua di rose. Mi ha fatto ricordare che quando interrogammo Adriano Galliani, ad del Milan, sul caso di Lentini, per il possibile falso in bilancio, lui a un certo punto, vedendo che eravamo Davigo, Di Pietro ed io disse: “Addirittura in tre per questa vicenda?”. E Davigo: “Sa, l’indagine l’ha fatta Colombo, ma siccome è milanista non ci fidiamo tanto”. Era ovviamente una battuta, ma Piercamillo non sa resistere».
Nel 2022, a 30 anni da Mani Pulite, ha fatto un incontro pubblico con Sergio Cusani, che fu condannato.
«Ci conoscevamo anche prima della vicenda. Ci vediamo con una certa frequenza, ci sentiamo spesso».
Sente più Cusani dei suoi ex colleghi del pool?
«Sicuramente. Con una certa costanza vedo e sento Piercamillo Davigo, abbiamo un rapporto di amicizia. Però sento più frequentemente Sergio Cusani, del quale pure sono amico».
Un colpevole redento le dà più soddisfazione?
«Non è questione di soddisfazione, è questione del riconoscersi, di riconoscere le persone, distinguere le persone dai loro atti. E magari considerare, cosa che vale particolarmente per Sergio, il percorso che hanno fatto».
Gianni De Michelis, la politica e il ballo di un "avanzo di balera". Storia di Tommaso Giacomelli su Il Giornale il 5 febbraio 2023.
Con lo sguardo ti fulmina, ma con la parola ti tramortisce. Gianni De Michelis dietro a quegli occhiali spessi nasconde un occhio vivace e arzillo, la sua faccia paffutella e la sua corporatura sgraziata non devono trarre in inganno. Lui è un uomo potente, padroneggia bene ogni campo dell'ingegno umano, spazia dalla filosofia alla letteratura, dalle scienze alla fisica, con una disinvoltura impareggiabile. Si è fatto le ossa in una città romantica e intrisa di cultura, ha bagnato i piedi nella Laguna di Venezia fin dalla tenera età e, all'Università Ca' Foscari, detiene con orgoglio una cattedra in Chimica. De Michelis ha la propensione al comando e all'intrigo, la politica lo stuzzica e lo affascina. Negli anni diventa un baluardo del Partito Socialista Italiano e una figura di spicco del Pentapartito.
Quando l'Italia esce dal grigiore e della morsa degli Anni di piombo, il veneziano si prende la poltrona di ministro del Lavoro, quando a dirigere il governo c'è Bettino Craxi, poi, fai il vicepresidente del Consiglio quando il primo ministro è il profeta di Nusco, Ciriaco De Mita, infine, nei turbolenti primi anni '90 ricopre la carica di ministro degli Affari Esteri. Quando gli chiedono cosa lo abbia spinto a gettarsi tra le braccia della politica, lui risponde così: "Perché sono brutto ed è l'unico modo che conosco per essere ammirato, amato o temuto". Dentro all'animo, ciò che lo smuove di più, quel motore che gli fa vibrare le corde più intime, sono quei vizi tipici dell'uomo comune. De Michelis è un patito del ballo, fa le ore piccole nei club, ama conversare e danzare con un bicchiere in mano. Le sale da ballo, le discoteche sono un suo chiodo fisso. Spesso si fa immortalare dai flash intento a muovere le gambe sotto a una palla stroboscopica e, perché no, in compagnia di qualche conquista del gentil sesso.
Quando l'Italia si fa bella e traina l'Europa con la sua economia galoppante, sfoggiando un PIL superiore alla Gran Bretagna, sembra di assistere a una nuova impennata di benessere, che si riversa in ogni categoria. Ovviamente tutto è effimero, lo scopriremo ben presto, ma la popolazione ignara, nel frattempo, si dedica con tanta passione alla mondanità. Milano toglie l'abito austero del giorno per indossare quello delle notte, più trasgressivo e frizzante. De Michelis non ha paura a mischiarsi coi giovani e con chi ama spassarsela sotto al chiarore della Luna. Egli crede che le discoteche siano un grande spazio di aggregazione, forse, il migliore del periodo. "I locali notturni sono, dopo la famiglia e la scuola, il più importante luogo di socializzazione per le nuove generazioni. Per dirla con una battuta, nell’Italia di fine secolo le discoteche stanno sostituendo il servizio militare dell’Italia dell’inizio del secolo come prima grande scuola di vita e di comportamento per i giovani". Bizzarra e scherzosa affermazione che, per lui, possiede una punta di verità.
Il ballo per lui è un momento di evasione, di svago dalla routine quotidiana, dalle fatiche di tutti i giorni. Guardando quello che succede con i ristoranti e gli alberghi, pensa bene di realizzare di suo pugno una guida esplorativa per chi vuole spendere il proprio denaro andando a ballare nei molteplici locali che si possono incontrare lungo lo Stivale. Lui, ça va sans dire, li conosce bene e, nel 1987, fa pubblicare questo libro dal titolo esplicativo: "Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane". Si tratta di una raccolta semi-seria, indirizzata a chi vuole divertirsi in luoghi raccomandabili, a tutti coloro che desiderano spendere bene il tempo e il denaro. Si spazia da Rimini, capitale della movida italiana, alla Toscana, fino agli avamposti di Sud e Nord Italia. Insomma, De Michelis non tralascia nulla. Tratta con dovizia di particolari la cura degli ambienti, del servizio, della musica, la composizione della platea, la qualità del bar e dei servizi di ristorazione. Lo fa con garbo, con classe e con un rigore scientifico. Sembra sciocco, ma lo scafato protagonista della politica italiana sa che chi frequenta quei luoghi, poi, andrà a votare. Inoltre, introduce il suo libro snocciolando dati e analisi economiche, dandogli una dignità ben precisa. Il settore della vita notturna, all'epoca, portava un indotto alle casse statali di millecinquecento miliardi di lire. Un'industria vitale per il Bel Paese.
A proposito della curiosa opera letteraria sopra citata, Enzo Biagi ebbe modo di dire la sua, apostrofando De Michelis come "un avanzo di balera". Un'etichetta sgradevole, ma che saggiamente mostrava le due facce della medaglia di un uomo, che quando l'inchiesta "Mani Pulite" si infranse sull'Italia con la forza di un tornando, scoperchiando i tetti e gettando fuori il marcio della politica e dell'establishment nazionale, finì inevitabilmente per coglierlo in fallo. Il viveur, il dotto accademico, l'abile politico terminava la sua corsa nella morsa dei tribunali. L'Italia gaudente si spegneva nelle aule della giustizia. Sulla testa del doge veneziano pendeva una condanna definitiva di un anno e sei mesi patteggiati per corruzione nell'ambito delle tangenti autostradali del Veneto, e, di sei mesi patteggiati nell'ambito dello scandalo Enimont. La pena complessiva di due anni fu, però, sospesa con la condizionale. De Michelis ebbe modo di rifarsi nella sua seconda vita politica, trovando rifugio tra i vari partiti risorti dalle ceneri del PSI, guadagnando anche una poltrona al Parlamento Europeo. Morì di Parkinson all'età di 78 anni, nel 2019, nella sua Venezia. Gianni De Michelis è stato una figura simbolo di un'Italia spregiudicata, rampante, ma corrotta nelle viscere. Tenere in mano la sua opera, a oltre tre decadi di distanza, ci offre lo spaccato su una società vivace ed effervescente nella sua dissimulante facciata.
È morto Giorgio Ruffolo, ex ministro del Psi in quattro governi. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023
È scomparso a Roma a 96 anni. Con i socialisti militò nella corrente di Antonio Giolitti e nella sinistra lombardiana
Per Giorgio Ruffolo le parole socialismo e riformismo non era mai divenute etichette vuote. L’ex ministro dell’Ambiente, scomparso all’età di 96 anni, si era sempre sforzato di riempirle con idee e progetti, perché riteneva che il capitalismo non potesse essere lasciato allo stato brado, se ci si proponeva di assicurare all’umanità condizioni di vita meno crudeli e sperequate. Senza indulgere all’utopia, non si era mai rassegnato all’accettazione dell’esistente. Per questo si era impegnato direttamente in politica nel Psi, ricoprendo cariche importanti, anche se la sua vocazione più autentica lo indirizzava piuttosto verso la riflessione intellettuale.
Nato a Roma nel 1926, fratello di due partigiani, Nicola e Sergio Ruffolo, catturati dai fascisti e sfuggiti di poco alla morte, già nel 1944 era entrato nella gioventù socialista (all’epoca collocata su posizioni rivoluzionarie, ma antistaliniste) e aveva vissuto anche un periodo di vera a propria militanza trotskista al fianco di Livio Maitan. Benché laureato in Giurisprudenza, si era presto dedicato allo studio dell’economia e aveva trascorso anche un periodo presso l’Ocse, a Parigi, prima di approdare, nella seconda metà degli anni Cinquanta, all’Eni di Enrico Mattei, di cui ricordava con ammirazione il forte carisma, e poi al Psi di Pietro Nenni, ormai svincolato dalla sudditanza nei riguardi dei comunisti.
Nel 1962, dopo la misteriosa morte di Mattei, Ruffolo era stato chiamato da Ugo La Malfa al ministero del Bilancio, dove aveva assunto un ruolo di vertice. Nel 1964 aveva elaborato un rapporto sulla programmazione economica, presentato dal ministro Antonio Giolitti, che venne liquidato sbrigativamente come «libro dei sogni». Qualcosa del sognatore in effetti c’era, nella personalità di Ruffolo, anche se non perdeva mai il contatto con la realtà.
Negli anni Settanta, da esponente della corrente giolittiana, aveva partecipato all’opera di aggiornamento culturale del socialismo italiano avviato dalla rivista «Mondoperaio», ma era sempre rimasto abbastanza critico verso Bettino Craxi, pur senza diventarne mai un oppositore accanito. Però non è casuale che nel 1986 avesse scelto di fondare un altro periodico, «MicroMega», insieme a Paolo Flores d’Arcais, che invece con il Psi aveva rotto in maniera aspra. D’altronde i due direttori erano collocati su posizioni assai diverse: capitò anche, nel 1991, che firmassero editoriali contrapposti e alla fine il sodalizio si sciolse con l’addio di Ruffolo, che aveva sperato fino all’ultimo nel rinnovamento delle forze politiche tradizionali, mentre Flores d’Arcais puntava su una prospettiva nettamente antipartitocratica.
Parlamentare del Psi dal 1979 al 1994 (prima in Europa, poi alla Camera e quindi al Senato) e ministro dell’Ambiente dal 1987 al 1992 (governi Goria, De Mita, Andreotti VI e Andreotti VII), Ruffolo non aveva mai rinunciato a interrogarsi sulla necessità di fornire alla sinistra nuove chiavi d’interpretazione del presente. In particolare fu tra i primi a sottolineare, nel saggio La qualità sociale (Laterza, 1990) l’insufficienza di una visione quantitativa della crescita rispetto ai nuovi bisogni che si andavano manifestando. E se venne scelto come ministro dell’Ambiente, fu perché aveva sviluppato precocemente un’acuta sensibilità per le questioni ecologiche.
Dopo il naufragio del Psi determinato dal ciclone di Mani pulite, Ruffolo aveva aderito al Pds (poi Ds), nei cui ranghi aveva trascorso dieci anni al Parlamento europeo. Ma soprattutto, nella fase successiva, aveva approfondito in una serie di saggi l’analisi dell’attuale modello di sviluppo e delle alternative possibili, senza risparmiare critiche alle posizioni troppo generiche del Partito democratico, che a suo avviso rischiavano «di perdersi nella retorica della chiacchiera».
In un testo il cui titolo rifletteva il suo spiccato senso dell’umorismo, Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi, 2008), Ruffolo aveva evidenziato i rischi insiti nella finanziarizzazione galoppante dell’economia e lanciato un vigoroso allarme sul fronte ambientale: «Fermare la distruzione del capitale naturale — scriveva — è il primo comandamento della sopravvivenza umana». Con Stefano Sylos Labini, nel saggio Il film della crisi (Einaudi, 2012), aveva invocato «un’azione politica di livello internazionale per contrastare la mutazione finanziaria del capitalismo», ripristinando le condizioni del precedente compromesso tra potere economico e istanze democratiche, a cominciare dal controllo sui flussi della finanza globale.
Per quanto riguarda specificamente l’Italia, Ruffolo aveva manifestato le sue preoccupazioni per il destino dell’unità nazionale nel libro Un Paese troppo lungo (Einaudi, 2009). Non temeva tanto una frattura traumatica, quanto quella che chiamava «decomposizione», dovuta da una parte alle spinte «bizzarramente provocatorie» del leghismo e, dall’altra, alla «secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica». Anche se non aveva mai cessato di sperare in un rilancio dell’idea di solidarietà, negli ultimi tempi prevaleva in lui una tendenza pessimista. «L’attaccamento ai piccoli e grandi privilegi» di molti italiani gli appariva «profondamente inemendabile».
I funerali si svolgeranno sabato 18 febbraio alle ore 15 presso la Chiesa Valdese di Piazza Cavour.
La morte dell'ex ministro. Chi era Giorgio Ruffolo: socialista, ambientalista e laico che credeva nella politica. Valdo Spini su Il Riformista il 19 Febbraio 2023
Spiegare oggi ad un giovane che non l’ha conosciuto chi era Giorgio Ruffolo non è cosa facile, perché la sua azione va contestualizzata nel periodo politico in cui si trovò a vivere, ma il suo pensiero presenta tratti importanti di modernità che ci possono aiutare anche oggi. Ruffolo era l’uomo del piano, della programmazione, del progetto.
Oggi siamo in una fase di transizione economica e produttiva e se non vogliamo andare avanti disordinatamente, senza un progetto, incuranti di chi se ne avvantaggerà e di chi invece rimarrà sotto le macerie della vecchia economia, rischiamo il populismo se non peggio. Ministro socialista dell’ambiente, ebbe la sorte di partecipare nel 1992 alla conferenza di Rio sul futuro della terra, una delle pietre miliari dell’ambientalismo ecologista. Il suo lungo curriculum professionale e istituzionale, parte addirittura dalla collaborazione con Enrico Mattei all’Eni. Successivamente, Segretario Generale della Programmazione economica, deputato europeo, deputato italiano e poi senatore, ministro dell’Ambiente per tutta la legislatura ’87-’92, e ancora deputato europeo, Giorgio Ruffolo ha percorso tutto l’iter di un’importante vicenda istituzionale.
Lo ha fatto con la competenza dell’economista di alto livello, ma anche con l’impegno di militante politico. Socialista fino dai tempi della sua militanza nella Federazione Giovanile Socialista Italiana, che a Palazzo Barberini ne 1947 andò con Saragat per ripulsa dello stalinismo frontista. Rientrato nel Psi militò nella corrente di Antonio Giolitti e poi nella sinistra di Riccardo Lombardi. Insieme partecipammo alla fondazione dei Democratici di sinistra, formazione politica che vide la collocazione del simbolo del Partito Socialista Europeo alla base della Quercia del Pds al posto di quello del Pci.
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Su quest’ultima esperienza vorrei soffermarmi. A quell’epoca avevamo fondato la Federazione Laburista che fu una delle componenti essenziali degli Stati Generali della sinistra che nel febbraio 1998 portarono alla formazione dei Ds. Il nostro intento era quello di non disperdere l’importante impiantazione sociale e territoriale di quello che era stato il Pci e, per quello che se ne poteva salvare, anche del Psi, ma ristrutturarlo culturalmente e organizzativamente in un moderno partito socialdemocratico o forse ancor meglio laburista. Purtroppo, questa linea venne sconfitta. In nome della formazione di un Partito Democratico a vocazione maggioritaria, si optò invece per un partito “leggero” (e quindi debolmente organizzato sul territorio), che andasse aldilà del socialismo europeo ma in questo modo dotandosi di riferimenti ideali e valoriali troppo tenui per costituirne un efficace collante. Fu la famosa “fusione a freddo” tra postcomunisti italiani e postdemocristiani di sinistra, di cui gli stessi protagonisti ebbero poi a lamentarsi.
Quando questa ipotesi si delineò facemmo con Ruffolo un’ultima battaglia. Al congresso dei Ds del 2005, presentammo un “documento integrativo” a sei firme. Quella di Giorgio Ruffolo e di Alfredo Reichlin, di Giorgio Benvenuto e di Bruno Trentin, di Pasqualina Napoletano e mia. Volevamo andare oltre lo stesso simbolo adottato a Firenze che aveva solo una lillipuziana sigla Pse, per scrivervi a tutto tondo, Partito del Socialismo Europeo. Quando il documento integrativo cominciò ad essere approvato in molte federazioni, il vertice del partito decise di adottarlo e fu quindi approvato in congresso all’unanimità. Salvo che, meno di due anni dopo, pur di imbracciare la strada della formazione del Pd, uscire addirittura dal Pse. (In cui poi, ironia della storia, ve lo ricondusse Matteo Renzi).
Rievoco queste vicende, non per inutili rimpianti, ma per sottolineare come, il centro-sinistra, la sinistra riformista, per ricucire un rapporto con l’elettorato e in particolare con le classi lavoratrici che si è così deteriorato, debba oggi ripartire da fondamenta politico-ideali come quelle che animarono Giorgio Ruffolo. Da socialisti dobbiamo riaffermare il valore del lavoro, sia quello subordinato che quello dell’impresa, da ambientalisti affrontare con metodo programmatico i problemi della transizione ecologica, da laici in politica affermare le regole di una società pluralistica ed aperta. Giorgio Ruffolo credeva nella politica e quindi nel pubblico e voleva che nel potere pubblico si affermasse una logica al tempo stesso di razionalità e di partecipazione in un quadro capace di far esprimere al meglio l’iniziativa privata su grandi obiettivi collettivi. Una lezione che consideriamo viva ed attuale.
I ricordi che si affollano nella mia mente sono tanti, alcuni molti belli, qualcuno più amaro come la lotta politica inevitabilmente comporta. Dovrò forzatamente sceglierne uno, e sarà l’ultimo. Quella telefonata che mi rivolse all’inizio di un gennaio di tanti anni fa per chiedermi di sistemare le cose perché, quando fosse venuto il momento, si potesse celebrare il suo funerale in Chiesa Valdese. Lui che era un laico, aveva sentito il bisogno di un saluto, nel suo passaggio ad un’altra vita, in quella che è forse la più laica delle Chiese Cristiane, in questo modo arricchendo il messaggio politico militante e di uomo di profonda cultura che ci lascia. Valdo Spini
Quell’ “accanimento funerario” di Travaglio contro Enzo Carra...Carra è stato un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone o piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito? Francesco Damato su Il Dubbio il 6 febbraio 2023
In un prevedibile e perciò puntuale accanimento persino funerario – trattandosi di un morto – al Fatto Quotidiano non hanno gradito la generosità o l’ignoranza, o entrambe, di quanti scrivendo nei giorni scorsi di Enzo Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani alla segreteria della Dc, hanno scambiato per assoluzione la riabilitazione da lui ottenuta dal tribunale di sorveglianza di Roma il 26 marzo del 2004, una ventina d’anni fa..
Essa, in effetti, non annullò né capovolse la condanna definitiva ricevuta da Carra per false dichiarazioni nel 1995, a conferma della condanna in appello, dell’anno prima, a un anno e 4 mesi correttiva dei due anni comminatigli in primo grado, nel 1993, con la sospensione condizionale della pena. La riabilitazione si limitò a cancellare completamente dal casellario giudiziale gli effetti della condanna, a fargli riacquistare le capacità perdute e ad ottenere l’estinzione delle pene accessorie. Già nel 2001, del resto, Enzo era stato eletto deputato nelle liste della Margherita, confermato nel 2006, rieletto nel 2008 nelle liste del Pd, dove la Margherita di Francesco Rutelli era confluita.
Come ho già ricordato scrivendone dopo la morte, Enzo – nel frattempo uscito dal Pd per collocarsi più propriamente al centro con l’omonima Unione di ex o post-democristiani praticamente offertasi alle improvvise ambizioni politiche dell’allora presidente “tecnico” del Consiglio Mario Monti – sarebbe stato probabilmente rieletto ancora se non fosse incorso nel veto opposto dal senatore a vita alla candidatura di chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie negli anni di Tangentopoli, anche se riabilitato. Enzo si aspettava una difesa di Pier Ferdinando Casini che mancò. O non avvenne con la convinzione, la forza e soprattutto il risultato ch’egli si aspettava.
Oltre a contestare il Carra “assolto” e “innocente” di troppi articoli scritti in sua memoria, al Fatto Quotidiano hanno voluto riassumerne almeno il primo processo: quello al quale l’imputato fu portato con gli schiavettoni ai polsi contestati persino da Antonio Di Pietro, che lo prelevò personalmente dalla gabbia per portarselo accanto a mani libere. «Nel 1993 – ha raccontato testualmente il giornale ancora convinto, temo per altri passaggi del pezzo, della opportunità di quegli schiavettoni – Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 del codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima».
Sembra di capire, insomma, che Carra fosse stato arrestato e persino portato con gli schiavettoni al processo, attraversando così i corridoi del tribunale di Milano, anche per onorare la memoria di Falcone, trucidato l’anno prima con la moglie e quasi tutta la scorta a Capaci. Poiché non dispongo – lo confesso senza vergogna o disagio – degli archivi del Fatto Quotidiano e della memoria specialistica di quanti vi scrivono, mi sono limitato a navigare per qualche minuto in internet ed ho trovato di quella vicenda giudiziaria una cronaca dell’insospettabile Repubblica. Che faceva parte del giro dei giornali di cui l’amico Piero Sansonetti, allora all’Unità, ha onestamente raccontato che si scambiavano informazioni e titoli su Mani pulite per uscire all’unisono a favore degli inquirenti e contro gli imputati.
Ecco il racconto di Repubblica: «Processo in tempi rapidi per l’ex portavoce di Arnaldo Forlani. Enzo Carra, l’unico imputato di Tangentopoli arrestato con l’accusa di aver mentito davanti al pubblico ministero (il dottor Di Pietro), entrerà in aula giovedì mattina. L’udienza, per direttissima, è stata fissata davanti alla prima sezione penale e, quasi certamente, sfileranno testimoni d’accusa d’eccezione, come i democristiani Graziano Moro, ex presidente dell’Eni Ambiente, e Maurizio Prada, “raccoglitore” delle mazzette per lo Scudocrociato a Milano da più di dieci anni. L’arresto di Carra era scattato quando Moro era insorto: “Voi lo sapevate benissimo, delle tangenti per l‘affare Enimont”, aveva detto al forlaniano doc. Ma se quel “voi” indicasse la corrente o la Dc nazionale, non si è mai appreso con certezza. Gli avvocati di Carra, che è in carcere da oltre dieci giorni, hanno annunciato che rinunceranno a chiedere “i termini a difesa” per consentire l’immediata celebrazione del processo».
Da questa cronaca giudiziaria, ripeto, dell’insospettabile Repubblica non risulta il Carra del Fatto Quotidiano che si procura l’arresto con non so quante versioni delle rivelazioni attribuitegli da Graziano Moro, peraltro collega di partito. Nei cui riguardi, peraltro, nella sentenza d’appello si riconosce al pur condannato Carra “un raro senso della dignità” non avendo mai rinnegato, anzi confermando sentimenti di amicizia. Vi sembra questo Carra del 1993 un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone? O non piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito?
La guerra di Travaglio non finisce mai: si accanisce su Carra. Il direttore del "Fatto" più manettaro dei pm. Nessuna pietà per l'ex dc persino da morto. Marco Gervasoni su Il Giornale il 5 febbraio 2023
Leo Longanesi amava dire che in Italia le rivoluzioni cominciamo in piazza ma finiscono a tavola ma forse l'animo degli italiani non è così benevolo come credeva il grande romagnolo. Al contrario, essi tendono a non dimenticare e a riprodurre quasi in eterno le loro piccole guerre civili. Niente pietà, anche per i vecchi protagonisti che, quando defungono, continuano a essere trattati senza alcuna misericordia e soprattutto senza alcuna distanza. Forse la premessa è troppo aulica per parlare di Marco Travaglio ma calza a pennello per il suo ricordo di Enzo Carra, il giornalista ed ex parlamentare scomparso il 2 febbraio, pubblicato sul Fatto quotidiano di ieri.
Per Travaglio, come per la «signora» di Loredana Berté in una famosa canzone di Ivano Fossati, «la guerra non è mai finita». Anzi, i nemici, i corrotti, spuntano da ogni dove e dopo trent'anni siamo punto daccapo perché la rivoluzione giudiziaria non è andata fino in fondo, la ghigliottina non ha lavorato abbastanza e i «contro rivoluzionari» hanno rialzato la testa. Per questo, non bisogna avere pietà alcuna, né verso i reduci vivi, né tanto meno per i morti. Così Carra, giornalista, portavoce di Forlani, arrestato da Di Pietro nel 1993 e esposto in manette, può ben essere definito una delle tante vittime di Tangentopoli. E non solo per quel trattamento da gogna. Come ricorda Gherardo Colombo, autore della introduzione all'ultimo libro di Carra, Ultima repubblica (Eurilink University press) le cui bozze sono state consegnate pochi giorni prima della morte, il pool di Mani pulite poteva evitare di incarcerarlo. Colombo, pubblico ministero di quel gruppo, negli anni successivi era diventato amico di colui che aveva fatto arrestare. E oggi, su quella vicenda di Tangentopoli, ha uno sguardo lucido. «Anche la magistratura (meglio, qualche magistrato)», scrive Colombo, «anche inconsapevolmente ha dato allora una mano a scaricare sulla sua categoria responsabilità non sue», cioè è stato tentato di svolgere un ruolo politico. Ma Travaglio, no, resta tetragono nelle sue certezze di allora e inneggia ancora e sempre al Di Pietro, alle manette, contro un Carra defunto, che per lui resterà in eterno corrotto. Carra ebbe una seconda vita: fu parlamentare della Margherita e poi del Pd. Ma per Travaglio questo non fu un merito; anzi, lascia intendere, fu piuttosto un premio elargito tra politici conniventi. E quindi niente, ecco cancellata tutta la vita successiva all'arresto, ecco Carra fotografato in eterno con gli schiavettoni, con le manette, che per Travaglio era giusto si stringessero ai suoi polsi. Non serve che Carra sia stato un fine giornalista, prima e dopo l'arresto, se abbia scritto dei libri, se sia stato in definitiva una persona, resta il simbolo della santità della rivoluzione giudiziaria: il politico ai ceppi, il massimo dell'orgasmo. Capirà il lettore che quando noi garantisti parliamo di «manettari», non è quindi un linguaggio figurato. Colpisce un altro aspetto nel ritratto al veleno di Travaglio, un termine che appare alla fine, l'evocazione della «giustizia di classe». Carra, spiega il direttore del Fatto quotidiano, si meritava le catene perché in catene finiscono anche i normali arrestati, i poveracci. Invece di essere coerente, e di scrivere che gli schiavettoni erano e sono umilianti, e quindi chiederne un uso moderato, Travaglio lancia il suo slogan: manette per tutti, che siate tossici o politici, imprenditori o clandestini, finanzieri o ladruncoli da strada. Tutti in manette, tutti in galera, come da tormentone di Giorgio Bracardi. In galera anche i defunti e, non potendoli più tenere in cella, almeno incarcerare la loro memoria.
Enzo Carra e la toccante celebrazione del suo funerale. Il racconto di Anzaldi. Di Michele Anzaldi il 05/02/2023 su Cultura/formiche.net.
“I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori. Lettera di Michele Anzaldi sui funerali di Enzo Carra
“Mortui non mordent” (un uomo morto non fa più la guerra). Mai come in quest’occasione si è rivelato appropriato il proverbio latino. Oggi, sul Giornale di Augusto Minzolini, Marco Gervasoni risponde al fondo infamante – non dimentichiamo la tempistica – pubblicato ieri dal Fatto quotidiano giornata dei funerali di Enzo Carra.
Tralasciando gli aspetti umani e il rispetto del dolore dei suoi cari e delle persone amiche, per capirne l’inappropriatezza e infondatezza invito a leggere Gervasoni. O forse sarebbe meglio leggere l’ultimo libro scritto da Carra (l’ok alla pubblicazione è stato dato dal letto dell’ospedale Gemelli), uscito proprio in queste ore col il titolo “Ultima Repubblica”, edito da Eurilink University Press.
A dimostrazione di come è stata superata e rivalutata la vicenda rievocata in maniera inutilmente polemica da Travaglio, il libro si apre con un dialogo tra Carra e proprio uno dei magistrati del pool di Mani pulite, Gherardo Colombo, conseguenza di un rapporto che si è creato e consolidato dopo la il dibattito nato anche dalla famosa foto degli schiavettoni.
Ma lasciando da parte queste risposte giornalistiche, rimane il dolore per la perdita inaspettata di Carra.
E allora vorrei pubblicamente fare i complimenti alla moglie, la signora Olga, e al figlio Giorgio per il toccante funerale che si è svolto nonostante la situazione: la moglie costretta su una sedia a rotelle per la frattura di femore e anca, ricoverata a Torino e giunta a Roma di notte appena in tempo per l’ultimo saluto; il figlio colpito non solo dal dolore ma anche dalla burocrazia funeraria. La bellissima chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, progettata da Lorenzo Bernini, grazie alla pianta ellittica ha trasmesso ai tanti partecipanti la sensazione di vicinanza o addirittura di una riunione di redazione, come le tante presenziate da Carra nella sua lunga carriera giornalistica. Un ringraziamento al parroco Alessandro Manaresi, che nell’erudirci sulla bellezza della chiesa museo e dell’eccezionalità di celebrare un funerale in quel luogo, ha spiegato che ciò era possibile perché era il luogo abituale di incontro e di confronto tra lui ed Enzo.
Una celebrazione bella e toccante, che a causa della grande partecipazione ha dovuto limitare gli interventi solo a tre. Il primo fatto dal giornalista Francesco Giorgino, in rappresentanza dei numerosi allievi giornalisti cresciuti in redazione con Enzo. Il secondo in rappresentanza dei colleghi giornalisti fatto da Paolo Franchi. L’ultimo, il più toccante, dell’artista, cantautore, poeta, intellettuale e tanto altro David Riondino, che letteralmente ha rapito tutti recitando una poesia di Antonio Machado, Retrato, da “Campos de Castilla”.
Poesia molto bella e toccante che nella parte finale dice: “Al mio lavoro adempio con i miei soldi, pago l’abito che mi copre e la dimora che abito, il pane che mi nutre e il letto dove giaccio. E quando giungerà il dì dell’ultimo viaggio, e salperà la nave che non ritorna mai, mi troverete a bordo leggero di bagaglio, quasi svestito, come i figli del mare”.
Caro Giorgio, devi essere orgoglioso di tuo padre e dell’ultimo saluto che sei riuscito a organizzare.
Anzi mi permetto di proporti, alla luce di certe miserie, di rendere pubblico il “Libro delle Condoglianze”. Non avevo mai visto una partecipazione così ampia di grandi giornalisti, direttori, opinionisti, editorialisti di sinistra e di destra, politici, rappresentanti delle più alte istituzioni e belle e oneste persone normali.
È stato veramente un bel funerale, tutti in semi cerchio intorno a quell’inaspettata bara. “I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori.
Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano Pubblicato il 4 Febbraio 2023
La scomparsa di Enzo Carra a 79 anni e i coccodrilli della stampa italiana che lo dipinge come un martire della malagiustizia, addirittura un “assolto”, sono un’ottima cartina al tornasole del “Paese di Sottosopra” (Giorgio Bocca). Nel 1993 Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 bis del Codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima.
Il mattino dell’udienza viene tradotto dal carcere al tribunale in fila con altri 50 detenuti, tutti ammanettati e legati a una catena: i famosi “schiavettoni”, previsti dalla legge (voluta tre mesi prima dai socialisti) per evitare evasioni. L’aula è gremita e i carabinieri lo sistemano nella gabbia degli imputati. Di Pietro e Davigo lo fanno uscire e sedere accanto agli avvocati. Carra stringe la mano a Di Pietro e a Moro. Ma la sua foto in manette scatena la bagarre in Parlamento con urla e strepiti contro gli aguzzini di Mani Pulite: le manette si addicono agli imputati comuni, non ai signori. L’indomani alcuni detenuti del carcere di Asti scrivono alla Stampa: “Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Oggi ci siamo domandati quali differenze esistano fra noi e il signor Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà”. Carra viene condannato a 2 anni per false dichiarazioni al pm, poi ridotti in appello a 1 anno e 4 mesi per lo sconto del rito abbreviato e confermati in Cassazione. Il Tribunale ritiene che, avendo depistato le indagini sulla più grande tangente mai vista in Europa, “furono quantomai opportuni il suo arresto, la direttissima e la pena non confinata ai minimi di legge”. I giudici d’appello censurano il suo “poco apprezzabile sentimento di omertà”. Nel 1995 destra, centro e sinistra cancellano la legge Falcone sull’arresto dei falsi testimoni. Carra, che da incensurato non era deputato, lo diventa da pregiudicato nel 2001 con la Margherita. E, oggi come trent’anni fa, la legge uguale per tutti fa scandalo: meglio la vecchia, lurida giustizia di classe. Sorgente: Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano
Estratto dell'articolo di Alberto Giannoni per “il Giornale” il 7 febbraio 2023.
Giorgio Carra, giornalista, 39 anni, 5 giorni fa è scomparso suo padre Enzo, portavoce Dc alla fine degli anni Ottanta.
«Sono stordito. Nell’ultimo anno aveva avuto problemi, ma niente faceva presagire un precipizio così rapido» […]
Com’era Enzo Carra privato?
«[…] Colto, era abbonato a due teatri, leggeva sempre. Quando ha avuto la crisi, gli avevo portato lo zainetto con i-pad e cellulare per leggere. Era una biblioteca vivente. Amava la politica e conservava molte amicizie. Gli chiedevano consigli, la politica per lui era visione».
Che idee aveva?
«Era e restava un giornalista, notista politico del Tempo, poi portavoce Dc, non deputato, quello dopo, con la Margherita, nel 2011. Era profondamente credente, ma aveva idee molto moderne».
La foto del suo arresto in catene è rimasta nella storia.
«Avevo 9 anni. Quella foto è l’emblema di come non devono andare le cose. Poche settimane prima era stato arrestato Riina, che se la rideva, non certo con quegli schiavettoni a favore di camera».
E poche settimane fa Messina Denaro, senza manette. «È civiltà» è stato detto.
«Giusto. E Carra invece sì. Un giornalista, messo alla gogna per uno show, a mio avviso per far sì che si capisse chi comandava, chi aveva il potere in quel momento. Era il simbolo della politica vinta dal pool. Ed era uno che non poteva dire niente, se non inventandoselo. Accusato da qualcuno che al momento dell’accusa è stato liberato. Trattato come una bestia».
Ne parlava?
«Tranquillamente, sì, si era tolto qualche sassolino ma non era capace di rancori. Una consolazione ora è che sia morto dopo aver visto, anche se solo on line, il suo ultimo libro, L’Ultima repubblica. Il cartaceo è uscito il giorno della morte.
L’introduzione è un dialogo con Gherardo Colombo, del pool, che si era pentito di alcune cose. Sono diventati amici, una delle ultime telefonate che ha ricevuto era sua».
Era un episodio chiuso.
«Il 99% delle persone ha capito. E che il Capo dello Stato abbia usato quelle parole dice tutto. Era tornato a fare il giornalista, aveva intervistato Madre Teresa. L’ultima cosa che voglio è che resti inchiodato a quella foto».
Il giustizialismo […] C’è ancora.
«Ha avuto seguito, pensi a Grillo, e al suo fedelissimo che si è distinto anche stavolta, non lo cito neanche, è stato l’unico».
Marco Travaglio?
«Non scendo su certi livelli. Non l’ha mai fatto mio padre e non lo farò nemmeno io» [...]
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.
Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.
Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.
Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.
(…)
E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».
Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.
(ADNKRONOS il 2 Febbraio 2023) - È morto nella notte a Roma Enzo Carra, giornalista, portavoce della Dc tra il 1989 e il 1992, poi deputato prima della Margherita e poi del Pd. Era ricoverato da una settimana nel reparto di Terapia intensiva del Policlinico Gemelli a causa di una crisi respiratoria. Avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 8 agosto.
Da www.cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti
Enzo Carra, nato a Roma l’8 agosto 1943. Politico. Giornalista. Leader teodem. Eletto deputato con la Margherita nel 2001, l’Ulivo nel 2006 e il Partito democratico nel 2008, passato all’Udc il 14 gennio 2010. Non è stato ricandidato per le elezioni politiche di febbraio 2013 «Casini nel darmi la notizia della mia esclusione l’ha motivata con il no di Monti il quale non ha ammesso eccezioni al codice etico, ma la mia condanna di vent’anni or sono per false o reticenti dichiarazioni al pm riguardava vicende della Dc alle quali ero totalmente estraneo».
• Nel 1993, da portavoce dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, fu chiamato a testimoniare sulla tangente Enimont alla Democrazia cristiana (vedi Sergio Cusani): accusato per «dichiarazioni reticenti» dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, processato per direttissima e tradotto in aula con schiavettoni e catene, la drammatica immagine fece il giro del mondo e suscitò i primi dubbi su certi metodi del pool Mani Pulite.
• «Ti chiedevano una cosa, gli rispondevi che non ne sapevi nulla, ma loro volevano comunque che tu accusassi qualcuno. Io mi rifiutai di partecipare a questo gioco al massacro e pagai a caro prezzo, anche se tutti i condannati per Enimont, da Cusani a Severino Citaristi, confermarono che non ne sapevo nulla. Vissi quel dramma come la prova della mia vita. E se riuscii a superarla fu perché, anche grazie alla violenza che mi fu riservata, il clima nel Paese cominciò a migliorare e i garantisti trovarono finalmente spazio sui media».
• È favorevole a una riforma della giustizia: «In Italia si è creato un corto circuito che è dato dall’assenza di immunità, dal fatto che non si possono sospendere i processi per le alte cariche e che i magistrati hanno l’obbligo dell’azione penale. Questo è un problema obiettivo, che rende debole la politica rispetto alla magistratura. Discutiamone».
• «Da portavoce di Arnaldo Forlani entrava in Transatlantico chiedendo: "Ahò, che gli faccio dì oggi ad Arnaldo?". Mitico» (Luca Telese) [Grn 19/10/2007].
• «Di amici politici vedo solo Enzo Carra, di razza e surreale» (Carlo Degli Esposti, produttore televisivo).
• «Con Tremonti è tra i miei clienti più esigenti. Chiede tagli pettinabili e pratici» (Riccardo Balestra, parrucchiere).
Addio al portavoce Dc. Chi era Enzo Carra, il forlaniano ridotto in schiavettoni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Ciò che gli avevano messo ai polsi, a Enzo Carra, quel giorno di marzo del 1993 in piena Tangentopoli per esporlo alla gogna dei giornalisti, erano gli schiavettoni, non le manette. Attrezzi del genere usato sulle navi negriere: due pezzi di ferro con anelli per tenere i polsi legati da una catena. Un oggetto che si poteva usare per i briganti dell’Aspromonte, i celebri mafiosi.
E invece si trattava di un innocente catturato dal gruppo dei procuratori di “Mani Pulite”, nome originario dell’operazione “Clean hands”.
Più tardi, quando Enzo Carra e Antonio di Pietro si incontrarono, il famoso procuratore negò di avere chiesto per lui l’uso di questo strumento medievale che aveva come unico scopo quello di umiliare e rendere l’imputato penoso, ridicolo, e certamente colpevole di fronte a un’opinione pubblica e un giornalismo incline al linciaggio in un’epoca assetata di simboli carcerari. Mancavano soltanto le palle al piede con la catena e il pigiama a strisce degli ergastolani.
E onestamente non è vero affatto che a quei tempi un fremito d’indignazione spingesse tutti i giornali e i giornalisti ad aver cura o almeno rispetto dei diritti dell’accusato sottoposto alle umiliazioni più cocenti non perché fosse certamente colpevole, ma perché l’ideologia del gruppo di magistrati precedeva l’umiliazione simbolica della politica e dei politici, anzi aprendo la strada al vilipendio sistematico delle istituzioni attraverso il vilipendio dei singoli imputati. Enzo Carra era innocente, fu riconosciuto innocente, nessun indizio e nessuna prova, ma gli fu detto che non era in questione la sua innocenza ma il suo ruolo politico. L’umiliazione degli imputati politici era stata già usata con successo nei processi staliniani e poi in quelli nazisti, in cui si faceva largo uso di abiti e strumenti di detenzione che mettessero in ridicolo l’accusato. Così, quando Enzo Carra fu arrestato ed esposto ai fotografi con una messinscena degna della polizia franchista in Spagna, veramente in pochi si indignarono, mentre i più risero o almeno sorrisero.
In fondo, il giornalista Enzo Carra faceva ridere messo ai ferri ed esposto in catene. Faceva ridere quell’uomo con la barba, vecchio giornalista passato alla politica dalla parte sbagliata: quella di Arnaldo Forlani e accusato a causa di quello schieramento. Secondo molti, dietro la disgrazia di Carra c’era stato il ritorno nella corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, il quale però si trovò la porta sbarrata da Forlani e Craxi con cui prima aveva formato una sorta di triumvirato detto “Caf” dalle iniziali dei protagonisti. Ma il terzetto si era rotto, Andreotti era rimasto indietro e voleva tornare in prima linea a Forlani gli sbarrava la strada. E Enzo Carra era forlaniano.
Tutta la stampa liberal era schieratissima contro il Caf per avversione radicale contro Craxi che aveva finito con assorbire anche Andreotti. E quindi acciuffare un giornalista come Carra che era considerato un portavoce del “Coniglio mannaro” (nomignolo corrente per Arnaldo Forlani) e dunque un perfetto bersaglio per una operazione politica che troncasse gli eventuali progetti di Craxi. Più tardi Carra fu tra i fondatori della Margherita e poi partito unico fatto di democristiani e comunisti da cui però si scostò. Ma ai tempi di Forlani, Carra fu eletto deputato nelle file della Dc dove ebbe l’importantissimo ruolo di portavoce della segreteria del partito diventò dunque un uomo di peso rilevante.
Quale moto di indignazione volete che portasse un democristiano per di più “forlaniano” cioè aderente membro attivo del gruppo di Craxi Andreotti e Forlani. Oggi è tutto dimenticato. Restano solo gli schiavettoni contro i quali protestò anche Francesco Cossiga. Ma non dimentichiamo che più di metà del paese di fronte a quello spettacolo immondo si sentì rallegrata e mormorò: “Ben gli sta, forlaniano di merda”.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 3 Febbraio 2023.
Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.
Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.
Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.
(…)
E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».
Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.
Enzo Carra, solo poco prima di morire ha visto la copertina del suo libro su «L'ultima Repubblica». Paolo Franchi su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023
Da uomo della Prima Repubblica, ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, ha provato a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie
Del suo ultimo desiderio non mi aveva mai parlato esplicitamente, Enzo Carra, nonostante fossimo amici più che fraterni. Ma ci giurerei su lo stesso. Sperava di vivere abbastanza a lungo – sto parlando di mesi, di settimane, di giorni – per vedere pubblicato il suo ultimo libro, e godersi il dibattito pubblico (lui lo avrebbe voluto impietoso e serrato) che avrebbe suscitato. Ci aveva lavorato per anni, scrivendo, correggendo, tagliando, e poi riscrivendo, ricorreggendo e ritagliando ancora. Poi, finalmente, si era convinto di aver portato a compimento il lavoro.
In non so più quale convegno sui rapporti tra politica e magistratura aveva conosciuto Gherardo Colombo. Non posso dire che cosa l’ex Pm di Mani Pulite pensasse e pensi di Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani arrestato e trascinato in aula con gli schiavettoni ai polsi a dimostrazione che un’intera classe politica era stata sgominata dai magistrati: penso che ne abbia stima. Ma so per innumerevoli testimonianze dirette che, per Enzo, Colombo era stato una scoperta politica, intellettuale e soprattutto umana. Si erano visti e sentiti molte volte, in pubblico e in privato. E da questa frequentazione era nata l’idea di far precedere il testo del libro da un dialogo tra i due, fitto, ricco e, per quanto è soprattutto sereno. L’idea si è realizzata, l’ultimo desiderio di Carra no: Enzo ha fatto appena in tempo ieri, poche ore prima di andarsene, a farsi passare dal figlio Giorgio il cellulare per vedere la copertina del libro, che sta per arrivare in libreria, pubblicato da Eurilink, e ha per titolo «L’ultima Repubblica». È già qualcosa, ma l’autore avrebbe meritato di più.
Non capita spesso (anzi, per essere più precisi, fin qui non è capitato mai) che un uomo della Prima Repubblica, a suo tempo sbrigativamente e del tutto ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, provi sulla scorta della sua esperienza non solo a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie, ma pure i perché e i come del disastro cui il Nuovo ha consegnato, nel trentennio successivo, il Paese. Carra ci ha provato, secondo me con successo, restando uomo di parte anche quando la sua parte non c’era più, ma senza cedere per questo all’indulgenza e all’autoindulgenza: di questo, credo, gli va dato atto e merito.
Carra è stato un giornalista raffinato e colto, i suoi primi passi nel mestiere li ha fatti occupandosi di cinema e di teatro, ma non è mai stato, come si dice, «prestato alla politica». La politica, quella interna come quella internazionale, sono stati da sempre, ben prima di entrarvi in primissima persona, e ben oltre il momento in cui la ha lasciata, o è stato costretto a lasciarla, il suo pane quotidiano. Della politica (quella vecchia e, sempre che sia mai esistita, quella nuova) conosceva a menadito la scena e i retroscena, i piani alti i piani bassi e pure i sottoscala, anche perché li aveva praticati tutti. Senza politica (politica fatta, non solo pensata) non sapeva stare, o almeno stava molto male.
Finché gli fu possibile, appena gli si presentò l’occasione continuò a farla, prima nella Margherita, poi nel Pd e infine, per qualche tempo, nell’Udc. E coltivò pensiero politico senza disdegnare, anzi, la cosiddetta politique politicienne. Dei tempi antichi ricordo un verbo, «accarrarsi», coniato da noi giovani cronisti parlamentari che gli chiedevamo lumi sulle manovre interne alla Dc, e ne avevamo in cambio oscure metafore e dotte citazioni. Di tempi più recenti l’amicizia con Francesco Cossiga. Dei tempi nostri, la cena quasi settimanale con Olga e Gabriella. E un’infinità di interminabili telefonate, zeppe di chiacchiere giornalistiche, politiche e calcistiche (era un uomo di stadio come me, Enzo, ma tutto all’opposto di me di incrollabile fede laziale). Già mi mancano, e ancora più mi mancheranno nei giorni a venire.
Addio a Carra, vittima di Mani Pulite. Quelle manette come arma di tortura. Fu fatto sfilare in tribunale con gli schiavettoni ai polsi per un reato poi cancellato. Di Pietro voleva che accusasse Forlani. Stefano Zurlo il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Quell'immagine borbonica di un uomo sfilacciato è una delle foto simbolo di Mani pulite. L'icona di una stagione in cui le manette venivano prima della giustizia e la giustizia si misurava col metro del pentimento. È il 4 marzo 1993 e Enzo Carra, potente portavoce della ormai moribonda Dc, sfila con le manette ai polsi attraverso i grandi saloni del Palazzo di giustizia di Milano.
Antonio Di Pietro e il Pool gli contestano un reato cucito come un abito di sartoria su di lui: le false informazioni al pubblico ministero. Un illecito per cui dal 94 sarà impossibile arrestare.
Di Pietro l'ha interrogato come persona informata sui fatti, più o meno nel primo anniversario della rivoluzione giudiziaria cominciata il 17 febbraio 1992 con la cattura di Mario Chiesa, e gli ha chiesto spiegazioni su una tangente da 5 miliardi di lire incassata dal partito: il nome che tutti si aspettano è quello di Arnaldo Forlani, uno dei tre lati del Caf, il triangolo che comanda l'Italia.
Bettino Craxi in quel momento è già nel mirino della magistratura ambrosiana e viene bersagliato da avvisi di garanzia, uno dopo l'altro; Giulio Andreotti invece sembra schivare i colpi, che gli arriveranno da Palermo, e sul perché di quel galleggiamento girano nel Paese infinite leggende, tutte più o meno di matrice complottistica. Resta quell'obolo sostanzioso che potrebbe portare al segretario della Dc, ma Carra dice di non saperne nulla e finisce a San Vittore.
Il 4 marzo va in scena quello spettacolo avvilente: il prigioniero con i ferri, gli schiavettoni che diventeranno un'icona, fissati con una lunga catena stretta nelle mani di un carabiniere.
È tutto feroce, è tutto senza umanità, è tutto sproporzionato ma quella è la metrica di Mani pulite, forse all'apogeo in quei mesi.
«Prima dell'udienza - mi raccontó un giorno - mi tennero una mezz'ora in una stanza dei sotterranei, poi finalmente si decisero a spedirmi in aula. Stavano per mandarmi con le mani libere, ma ci fu una telefonata e mi misero gli schiavettoni».
Carra, che ieri è scomparso a 79 anni, riviveva quei giorni cupi cercando di descrivere tutti i dettagli, come fa un giornalista, e lui era nato con la penna in mano: dopo un esordio nella critica cinematografica, approda al Tempo dove rimane fino al 1987, firma di punta della cronaca politica; nell'89 diventa lo speaker del partito e dunque l'ombra del potere ma la caduta del Muro e l'esplosione di Tangentopoli mandano in pezzi quel mondo.
L'inverno 93 è quello decisivo: ormai il Pool è sulle tracce della tangente Enimont, la maxitangente che segnerà i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini.
La procura di Milano è una catena di montaggio: arresto, confessione, scarcerazione. Detenzioni lampo, spesso, o addirittura nemmeno quelle: basta un avviso di garanzia per correre a vuotare il sacco con un effetto domino che coinvolge imprenditori e politici.
Però non sempre va così, anche se obiettivamente è difficile resistere alla pressione che spinge sempre nella stessa direzione: c'è chi contesta quei metodi, ma i provvedimenti sono spesso confermati dai giudizi nei gradi successivi.
Succede anche con lui: Carra viene condannato a 2 anni, poi ridotti a 1 anno e 4 mesi, pena confermata in cassazione. E peró quel fotogramma scioccante e umiliante segna un punto di non ritorno: molti Tg si rifiutano di trasmettere quella sequenza così umiliante e le standing ovation per le toghe si affievoliscono.
«Io - spiegava lui - mi rimisi in carreggiata solo grazie a un amico psichiatra e ricominciai a lavorare solo dopo due anni, grazie a Minoli».
Alla Rai, Carra confeziona alcune clamorose interviste: a Gheddafi e a Madre Teresa, forse l'ultima prima della sua morte. Ma il demone della politica lo riafferra di nuovo: sta con la Margherita e il centrosinistra nell'Italia bipolare e per tre legislature è parlamentare, colto e ironico, mai cinico, con quella ferita sempre pronta a riaprirsi.
Alla fine torna al suo primo amore: ci siamo incrociati l'ultima volta tre anni fa a Radio3, nel programma di Edoardo Camurri e Pietro Del Soldà Tutta l'umanità ne parla: in un gioco semiserio io impersonavo Craxi e lui Andreotti. Anche quella volta si rivelò rigoroso, come sempre.
Il mio amico Enzo Carra, vittima di quella sua grande passione politica. Dell’ex portavoce della Dc, morto a 79 anni, si continuerà a ricordare non tanto la lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta foto in manette nel tribunale di Milano. Francesco Damato su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.
Di Enzo Carra, del mio amico Enzo Carra, morto a 79 anni, temo che si continuerà sfortunatamente a ricordare non tanto la sua lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta fotografia che negli anni terribili di Tangentopoli - o di Mani pulite, come i magistrati di Milano vollero chiamare le loro indagini sul finanziamento illegale dei partiti- lo riprese barbaramente in manette nei corridoi del tribunale ambrosiano mentre raggiungeva l’aula del suo processo.
Egli era stato accusato, e infine condannato, non di corruzione o simili ma di reticenza: per non avere detto della Dc e del suo segretario politico Arnaldo Forlani, di cui era portavoce, ciò che gli inquirenti si aspettavano. O -come lui poi mi raccontò- pretendevano che dicesse per stringere ancora di più al collo della Dc e di Forlani il cappio gemello di quello che stavano stringendo attorno al Psi e a Bettino Craxi. Del quale Forlani era amico ed alleato avendone favorito negli anni 80 la scalata a Palazzo Chigi, ed avendo collaborato con lui come vice presidente del Consiglio: veste nella quale, fra il 1983 e il 1987, il mio amico Arnaldo si trovò spesso, volente o nolente, a proteggerlo dagli agguati non tanto della forte e dichiarata opposizione comunista quanto dell’altrettanto forte ma non del tutto esplicita avversione dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che era salito anni prima al vertice del partito proponendosi come argine all’avanzata del pur alleato leader socialista, giunto ad un palmo da Palazzo Chigi già nel 1979, incaricato dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini ma fermato dalla direzione della Dc all’ultimo momento con una votazione alla quale Forlani aveva partecipato astenendosi, cioè non approvando lo stop.
Proprio a Palazzo Chigi da vice presidente del Consiglio di Craxi, dopo un turno elettorale nel quale la Dc guidata da De Mita aveva perso in un colpo solo ben sei punti percentuali, Forlani chiamò Enzo Carra a fargli da portavoce. Nel dirimpettaio palazzo dell’Inps, in Piazza Colonna, affittato al Tempo, Enzo aveva seguito sino ad allora la politica con meticolosità e convinzioni moderate in linea con quella testata.
La lunga collaborazione con Forlani, tornato alla guida della Dc nel 1989, dopo averla già guidata fra il 1969 e il 1973, rafforzò in Enzo Carra la simpatia per lo scudo crociato, tanto da tentare l’elezione a deputato nelle sue liste a Roma, purtroppo inutilmente. Ma né la delusione per quella mancata elezione, né il coinvolgimento del partito nel terremoto giudiziario e politico di Tangentopoli, o -ripeto- Mani pulite, né il suo personale impatto con quella tragedia da imputato di reticenza, trattato con quegli schiavettoni ai polsi come un criminale peggio che comune, lo distolsero da quella che era ormai diventata una sua passione politica. Al contrario -sia detto a suo merito- la rafforzarono.
Una volta passati, davvero o a parole, dalla cosiddetta prima Repubblica alla seconda, Enzo non si lasciò scappare nessuna occasione per partecipare ai tentativi di salvaguardare la memoria della Dc e di raccoglierne valori e tradizioni nei movimenti dove ciò era possibile: per esempio, nella Margherita, dove alla fine confluirono i resti della Dc contrari o impossibilitati, secondo le circostanze, a intrufolarsi nel centrodestra berlusconiano. E Carra riuscì, nella sua ostinata passione diventata ormai militanza, anche ad essere finalmente e ripetutamente eletto deputato grazie anche alle nove leggi elettorali che risparmiavano ai candidati il pesantissimo onere di cercarsi i vecchi voti di preferenza della prima Repubblica. Egli segui la Margherita nel 2007 anche nella pur controversa confluenza nel Pd, nelle cui liste fu rieletto nel 2008 ma da cui tuttavia uscì per aderire all’Unione di Centro nel 2010.
La sua esperienza parlamentare sarebbe continuata anche dopo le elezioni del 2013 se, fra i candidati post-democristiani, chiamiamoli così, raccoltisi sostanzialmente attorno alle liste improvvisate da Mario Monti non fosse incorso nello sbarramento posto dallo stesso Monti contro chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie risalenti a Tangentopoli. Il colpo fu durissimo per lui, pur riabilitato dal tribunale di sorveglianza di Roma nel 2004. Da quella delusione praticamente non si riprese più, prendendosela tuttavia più che con Monti, in pubbliche dichiarazioni, con Casini. Dal quale, nel ricordo della comune collaborazione avuta con Forlani nella penultima segreteria della Dc, prima di Martinazzoli, Enzo si aspettava una difesa a oltranza dalle forbici giustizialiste del presidente del Consiglio succeduto a Berlusconi nell’autunno del 2011.
Addio, Enzo, amico mio. O arrivederci, nella nostra comune fede religiosa, pur dopo le incomprensioni che non sono mancate fra di noi all’epoca, per esempio, della mia direzione al Giorno. Dove mi rimproveravi, a tuo modo, tra telefonate e bigliettini, di privilegiare nella linea politica i socialisti e Craxi rispetto ai democristiani e a Forlani. Del quale, a un certo punto, volli verificare personalmente gli umori scoprendo che non erano quelli del suo portavoce.
L’ultima intervista a Enzo Carra, il giornalista simbolo degli orrori di Mani Pulite. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.
E’ morto oggi a Roma il giornalista ed ex deputato Enzo Carra. Arguto, brillante, coltissimo, è stato un maestro per i giornalisti che hanno avuto la fortuna di frequentarlo. Sempre gioviale, aveva per il suo lavoro e per il dovere della corretta informazione un rispetto rigoroso. Divenuto, suo malgrado, l’immagine di una delle pagine più buie dell’inchiesta ‘Mani pulite’, nel 1993 venne arrestato e trascinato in tribunale con gli schiavettoni ai polsi a favore di fotografi e cameramen, simbolo dei danni che può procurare il perverso circuito mediatico-giudiziario.
Enzo Carra ha raccontato la politica come giornalista per vent’anni, prima di diventarne un protagonista come portavoce della Dc e quindi come parlamentare di area centrista, eletto nel 2001 con la Margherita di Rutelli.
Quella di Carra, lucidissimo interprete della politica – inventò la comunicazione politica moderna, negli anni Ottanta – fu una carriera interrotta dalla brutalità di una inchiesta giudiziaria dissennata: gli vennero ascritte colpe di cui non era responsabile usando l’atroce sillogismo del “non poteva non sapere“. Ha pagato un prezzo altissimo sull’altare della condanna mediatica.
Riabilitato dalla giustizia nel 2004, faticherà a reinserirsi nel mondo dell’informazione, a parte una collaborazione con la Rai richiestagli da Giovanni Minoli. L’ultima intervista pubblica di Enzo Carra è stata con il Riformista Tv. A margine dell’intervista rivelò di aver scritto un memoriale sulle vicende misteriose e irrisolte della prima repubblica, viste da dietro le quinte della Democrazia Cristiana. Quel manoscritto è rimasto inedito: nessun editore lo ha voluto pubblicare.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.
“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.
Che ricordo ha di quegli anni?
“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.
Non sono stati, quindi, tempi semplici?
“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.
Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?
“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.
Chi è stato più penalizzato?
“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.
Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?
“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.
Quali sono state le conseguenze?
“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.
Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…
“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.
Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.
All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?
Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.
Un nome profetico…
Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.
Torniamo a quando diventa giornalista politico.
Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.
Nell’ 89 cambiava il mondo.
E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.
Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?
Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.
Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.
E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.
Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.
Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.
Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?
Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.
Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?
Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.
Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.
E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.
Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?
Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Trent’anni fa un’inchiesta sull’Eni distrusse i partiti, oggi colpisce la procura più importante d’Italia. Enzo Carra su tpi.it il 20 Settembre 2021. “I politici non riusciranno a cambiare la giustizia.” Non ha dubbi il vecchio cronista che negli anni di Mani Pulite batteva i corridoi della Procura di Milano a caccia di poveri cristi tramortiti dagli interrogatori del Pool e spulezzava quando quelli non gli rispondevano. Ha ragione Andrea Pamparana (Libero del 20 settembre), fin qui la politica ha fatto poco, in compenso il caso e la necessità hanno provveduto al resto. Il caso si chiama Eni. Sono state infatti due inchieste intitolate alla stessa multinazionale a innalzare prima la procura milanese a Sancta sanctorum del diritto e a quartier generale nella lotta alla corruzione in politica, per trasformarla adesso nel luogo dove si sta consumando un’incredibile vicenda che divide e annebbia gli eponimi di Mani Pulite. Prima viene la tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti”: una “provvista” di 140 miliardi di lire, oltre 70 milioni in euro, per partiti di governo e d’opposizione e per faccendieri sciolti e in pacchetti. La scoperta rappresenta il punto di svolta, definitivo, di Mani Pulite, il suo trionfo. Antonio Di Pietro e Francesco Greco sono i due sostituti che hanno lavorato su Enimont, ma il merito è di tutto il pool e il risultato è che le mura già pericolanti di un sistema politico figlio della Resistenza crollano tra le lacrime di pochi e la gioia di tanti. La Magistratura italiana ha sconfitto il malaffare politico. Corsi e ricorsi. Poco meno di trent’anni dopo, alla Procura di Milano torna a bussare l’Eni. È il processo Eni-Nigeria, ovviamente per corruzione. Se ne occupa Francesco Greco, il quale si avvale delle dichiarazioni di un dipendente dell’Eni e di un ex legale “esterno” – qualunque cosa voglia dire “esterno” – della nostra multinazionale, Pietro Amara. Questi, secondo il pm Paolo Storari è troppo importante per quel processo, la procura “lo tiene in palmo di mano” e quindi non si procede per appurare se ha detto o no la verità anche su altre questioni: affari, logge segrete, promozioni, insomma il paroliere italiano. Storari quindi decide di tirare le orecchie a Greco e, in modo quantomeno “irrituale”, muove le carte che giacciono in procura a Milano e le consegna a Davigo, che a quel tempo è ancora componente del Csm. Lui ne parla con alti rappresentanti delle Istituzioni, contando forse sulla loro collaborazione nella sua campagna contro Greco e comunque sul loro silenzio: ma come fai a tenere a lungo un segreto così a Roma? A far casino ci pensa la sua ex segretaria la quale, per impedire il pensionamento del suo capo, diffonde le carte ad alcuni giornali “amici”. Lo scandalo, si illude, potrebbe prolungare la permanenza di Davigo al Palazzo dei marescialli. E che scandalo, a tanti anni dalla P2 ecco a voi un’altra loggia, più piccola, esclusiva, ma potente, parola di Amara. La nuova loggia si chiama Ungheria, ma ha sede in Roma ed è responsabilità di Greco aver tenuto nascoste quelle preziose informazioni per tanto tempo. Eppure, lì per lì, niente: i giornali non pubblicano le carte della ex segretaria, chissà perché. Mesi dopo, però, uno di loro, Il Fatto quotidiano, ci ripensa ed esce. Nel consueto “c’era questo e c’era quello” di ogni rubrica mondana: tanti bei nomi. Prevedibilissimi, sembra la short list di un ricevimento per “pochi ma buoni” in un palazzo del potere. I fratelli di Amara. Certo però se trent’anni prima un’inchiesta targata Eni aveva distrutto i partiti, oggi un processo che assolve l’Eni colpisce duramente la procura più importante d’Italia e l’immagine della magistratura italiana. Perché Amara può aver raccontato qualche verità in mezzo a un sacco di balle, ma le querele tra Greco e Davigo, l’affanno televisivo di quest’ultimo e lo smarrimento dell’opinione pubblica restano, e pesano. Corsi e ricorsi.
ENZO CARRA. Enzo Carra è un giornalista e politico italiano. Redattore capo del mensile "Il Dramma" ha successivamente lavorato per molti anni al quotidiano romano "Il Tempo" e ha scritto per il cinema e la TV. Ha realizzato alcuni reportage per la TV, tra questi un ritratto di Gheddaffi e uno di Madre Teresa di Calcutta. Dal 2021 collabora con TPI
Il suicidio dell'ex presidente. Marco Travaglio è un contraffattore: Gabriele Cagliari non era in cella “perché rubava”. È un’impostazione volgarmente plebea e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. Che bassezza. Iuri Maria Prado su L'Unità il 25 Luglio 2023
Le polemiche tra giornali costituiscono un genere classico, tuttavia frequentato molto da chi li scrive e molto poco da chi li legge. Roba noiosa e perlopiù, come si dice, autoreferenziale. A volte, però, non si tratta di “cicca cicca”, “non mi hai fatto niente faccia di serpente, non mi hai fatto male faccia di maiale”, e cioè della desolante tigna tra colleghi buona a riempire una colonna altrimenti vacua.
A volte c’è sostanza: di quale pasta, è un altro discorso. Ma c’è. Vedi, per esempio, un titolo di questo quotidiano nell’edizione di qualche giorno fa: “Gabriele Cagliari, mio padre, morto in cella perché non volle denunciare Craxi”. Che ti fa Marco Travaglio? Ieri, sul suo giornale (Il Fatto Quotidiano), smozzica quel titolo e, virgolettandolo, lo riporta così: “Gabriele Cagliari morto in cella perché non volle denunciare Craxi” (scompare quel “mio padre”, e cioè l’elemento che denunciava la fonte dell’affermazione: vale a dire il figlio di Cagliari, non il giornale, l’Unità, che semmai ne raccoglieva le dichiarazioni).
Il taglio da magliaro adempie a due scopi, entrambi vigliacchi. Il primo: lasciare intendere, appunto contro il vero, che l’affermazione fosse de l’Unità, mentre in realtà era del figlio intervistato. Il secondo: consentire all’articolista e contraffattore, cioè Travaglio stesso, di attenuare l’impatto della porcata immediatamente successiva, lì dove questo impudente si abbandona a scrivere che Gabriele Cagliari non è morto in carcere per quel motivo, ma “perché rubava”. Dire direttamente al figlio che il padre si è ammazzato perché era un ladro avrebbe fatto schifo lo stesso, ma almeno la sfrontatezza sarebbe stata piena: invece no, falta de huevos.
Che poi Gabriele Cagliari, raggiunto da tre ordini di custodia cautelare in carcere, due dei quali revocati (il terzo no: parere negativo del pm in partenza per le ferie), non fosse indagato per “furto”, è un dettaglio fastidiosamente incompatibile con la retorica macellaia di questo disinvolto violentatore della verità. Il quale, ne siamo certi, invocherebbe il diritto alla sintesi delle piazze del vaffanculo di cui è punto di riferimento fortissimo se qualcuno gli facesse osservare che Cagliari neppure se fosse stato condannato avrebbe meritato quella definizione, ladro: e figurarsi ricordare a Travaglio che Cagliari stava in galera e si ammazzava prima del processo, dunque quando le sue responsabilità (non per aver “rubato”) dovevano ancora essere accertate.
Il dramma è che piace un sacco questa impostazione volgarmente plebea, e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. E il fatto che piaccia, che abbia tanto riscontro, racconta bene la bassezza di chi vi ricorre. Perché è ancora ammissibile ascoltare la plebe violenta, è ammissibile persino mischiarvisi: ma farsene forza, no, questo è imperdonabile.
Ed esattamente questo si fa quando si scrive che un uomo si è suicidato in carcere perché era un ladro: si stimolano le trippe della turba che reclama onestà sfilando sotto ai balconi delle procure della Repubblica, lì dove i pubblici ministeri lavorano di manette nell’attesa delle collaborazioni con il Fatto Quotidiano e delle vacanze sotto l’ombrellone con il direttore.
Iuri Maria Prado 25 Luglio 2023
30 anni dal suicidio. “Ecco perché Gabriele Cagliari si è tolto la vita”, la verità del figlio Stefano. «Dava fastidio ai suoi concorrenti di tutto il mondo, alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane. Bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando». Graziella Balestrieri su L'Unità il 20 Luglio 2023
Il 20 Luglio del 1993 Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, si toglie la vita in carcere. Siamo all’inizio di Tangentopoli. Gabriele Cagliari ammette le sue colpe ma si rende conto che quella condizione a cui lui viene sottoposto e alla quale sono sottoposti gli altri detenuti non è una condizione umana. Scriverà in una delle sue numerose lettere che in carcere si è “come cani in un canile”. E allora un gesto estremo, calcolato, quando ormai capisce che la speranza gli viene tolta dall’atteggiamento dei magistrati.
Il figlio Stefano, dopo aver pubblicato nel 2018 il libro Storia mio padre (edito da Longanesi, curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna e con prefazione di Gherardo Colombo) continua a portare avanti una missione che per lui è un impegno civile, anche se dolorosissimo, sul sito gabrielecagliari.it, ricordando le numerose lettere di suo padre, i fatti, i personaggi e quel tempo di Tangentopoli che ancora rimane una ferita aperta per tutti nel nostro paese.
Tangentopoli. Che momento era quello in Italia?
L’Italia era in una situazione difficile dal punto di vista economico e finanziario. Nel 1992 i tedeschi ci avevano abbandonato e c’era stata la svalutazione della lira, il malcontento cominciava a crescere. La Lega Nord interpretava questo malcontento, era un fenomeno assolutamente nuovo, anche per l’uso aggressivo e finanche volgare del linguaggio nel discorso politico. Era un paese che si era abituato a vivere di mazzette, di favori, di tangenti, un sistema diffuso a tutti i livelli, mentre il grande mito di Tangentopoli è che solo il ceto politico ne fosse coinvolto.
Tangentopoli travolse sostanzialmente una buona parte della classe dirigente, anche di quella imprenditoriale non solo quella politica, con tutte le conseguenze che ci sono state successivamente, che devo dire un po’ stiamo ancora pagando. Era un’Italia in cui, come ho scritto in Storia di mio padre, tutti incitavano all’uso delle manette, come se mandare in galera i politici risolvesse il problema della corruzione nel paese. All’asilo i bambini si inseguivano urlando “in galera, in galera!”
Non più giustizia ma giustizialismo dunque?
Certo, a quel punto si è scatenato il giustizialismo.
Il suo libro parte da un sogno (suo padre che in realtà non si era suicidato ma era fuggito fuori dall’Italia e comunicava solo con lei). Fa ancora quel sogno dopo 30 anni?
No. Ho sognato spesso mio padre ma non più in quella situazione. In realtà alla fine chi voleva fuggire ero io, come se volessi nascondermi per non dover continuamente ritornare a quella situazione così dolorosa. Con il libro e le molte interviste non mi sono più nascosto e ora, quando sogno mio padre, sono in situazioni diciamo così di serena vita familiare.
Se dovesse raccontare suo padre a chi non ha vissuto quegli anni e a chi ignora completamente la sua vicenda che cosa direbbe?
Quello che posso dire è che era un uomo estremamente intelligente, estremamente generoso, molto corretto, molto ambizioso. E tutte queste sue qualità mi sono state manifestate in parte anche dopo la sua morte. Per esempio, sul sito gabrielecagliari.it continuiamo a caricare contenuti e ultimamente abbiamo caricato le lettere dei detenuti che lo avevano conosciuto in carcere: emerge la personalità di un uomo che aiutava tutti quelli che ne avevano bisogno, chi non aveva i soldi per l’avvocato, chi non aveva strumenti per difendersi. Ed è stato un uomo di una visione straordinaria dal punto di vista della politica industriale. All’Eni aveva fatto cose che nessuno aveva fatto prima e che per venticinque anni nessuno ha più fatto. In questi mesi in Europa sono in corso degli studi sulla sua presidenza da cui risulta che allora l’Eni era l’unica società petrolifera che si occupava di sviluppo sostenibile. Fu l’unica major che partecipò a Rio, alla conferenza del 1992, e che mise nel suo piano strategico la difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Una società che era all’avanguardia nello studio delle tecnologie di difesa ambientale. Dopo di lui si è fermato tutto, è come se avessero cancellato lui e tutto quello che stava cercando di fare e che stava proponendo. Immagini: che cosa sarebbe stata l’Eni e l’Italia se quella politica fosse andata avanti? Ma era una politica che evidentemente dava un fastidio enorme alle grandi multinazionali del petrolio, che in quel momento negavano il problema dell’esaurimento delle risorse, negavano i problemi ambientali, negavano il riscaldamento climatico. Adesso questi temi sono quasi una moda, ma questo le fa capire che mio padre aveva una visione strategica lungimirante e unica. D’altronde quelle lettere che lui ha scritto, dove già descrive quello che sarebbe successo a causa di Tangentopoli vedono lontanissimo: tutto quello che lui ha scritto poi è successo.
In famiglia vi aspettavate che venisse arrestato?
Un po’ me l’aspettavo, perché avevo visto dei segnali sui giornali e diciamo che in quel periodo, ma diciamo non solo in quel periodo, c’era un filo diretto tra magistratura e determinati quotidiani. Il fatto che avevano cominciato a tirar fuori il suo nome voleva dire che c’era burrasca nell’aria. E anche papà se lo aspettava. L’ultima volta che ha visto suo nipote, mio figlio di tre anni, quando l’ha preso in braccio, il bambino ha cominciato ad urlare “in galera, in galera!”. Mesi prima erano telefonate continue, gente che voleva favori, perché in questo paese i favori erano all’ordine del giorno, mentre in quelle ultime settimane era calato il silenzio, tutti gli stavano alla larga.
Anche l’Eni lo ha abbandonato?
Il personale, i dipendenti, hanno amato mio padre come presidente, probabilmente come, se non più, di Enrico Mattei, perché mio padre era uno di loro, era cresciuto con loro, era un tecnico, era un uomo che conosceva tutti e che aveva qualità straordinarie. Il problema dell’Eni era quello di essere una società presente sui mercati mondiali, una società che non si poteva permettere di vedere il proprio nome infangato e su questo lui si è arroccato. Ha avuto questo tipo di atteggiamento: è riuscito, come ha scritto, a salvare il middle management e a far sì che tutte le responsabilità ricadessero su di lui, questo ha fatto sì che l’Eni non venisse coinvolta.
Nelle lettere suo padre descrive la condizione del carcere come quella di “cani in un canile”.
Il suo gesto è stato un gesto di denuncia della situazione carceraria. Ormai per sé aveva perso ogni speranza, visto l’atteggiamento dei magistrati nei suoi confronti, un atteggiamento che leggeva come un tentativo di annientarlo dal punto di visto umano, di farne un capro espiatorio. Chi restava fuori non si rendeva conto della condizione carceraria.
Resistette alla prigionia durante la Seconda guerra mondiale e non al carcere durante Tangentopoli. Perché mai secondo lei?
No, in realtà lo ha sostenuto benissimo, ma anche lì aveva una strategia: il suicidio, un gesto drammatico, ne ha fatto parte. Non solo quest’anno, ma ogni anno, ci sono decine e decine di suicidi in carcere, ma sui giornali non finisce niente. La notizia va sui giornali se il presidente dell’Eni si suicida in carcere, dopo quattro mesi e mezzo di detenzione, che lui ritiene ingiustificata. Il suo è stato un gesto di grande impatto, anche se mio padre non era un uomo da copertina come lo era Gardini, e questo gesto è stato capito non solo a San Vittore dove lo avevano conosciuto bene, ma anche nelle altre carceri e fuori dalle carceri.
La prefazione del suo libro è stata affidata a Gherardo Colombo.
Gherardo Colombo è uscito dalla magistratura e sostiene con forza che non è il sistema giudiziario che può risolvere i problemi della corruzione in Italia, come Tangentopoli ha dimostrato. Il mio libro non ha voluto essere di parte né essere “targato”, è un documento storico e come tale spero che sia letto. La partecipazione di Gherardo Colombo è stato un modo per mostrare il nostro tentativo di essere equilibrati.
I magistrati che allora si occuparono del caso di suo padre, anni dopo, visto il drammatico epilogo, si sono fatti sentire in un qualche modo?
No. Nulla.
Perché suo padre ha accettato quel sistema?
Mio padre ha ammesso di aver sbagliato, lo ha anche scritto. C’è una lettera che ha scritto a Scalfari da San Vittore, in cui dice che pagare i partiti era l’unico modo per poter lavorare tranquilli. Soffriva questo sistema, come più volte ha scritto, ma ne aveva bisogno perché altrimenti non avrebbe potuto fare quello che voleva fare. C’è un’intervista a Newsweek, che si trova tradotta nel sito, da cui si capisce che mio padre fuori dall’Italia, senza i vincoli della politica, si muoveva in modo completamente diverso. Già allora aveva strategie verso i paesi che oggi sono considerati emergenti che nessuna delle major petrolifere aveva. Offriva collaborazione: tecnologie in cambio di risorse, aveva un approccio che spiazzava tutti: evidentemente mio padre dava fastidio.
Sua moglie muore, suo fratello scopre di avere l’Aids, suo padre in carcere, che momento è stato quello per lei?
Avevo un bambino di 3 anni, la cosa più importante era andare avanti per lui. Ho avuto un momento di sconforto, forse di rabbia, solo quando abbiamo aperto quella lettera (una lettera dove Gabriele Cagliari annuncia il suo suicidio ma che chiede alla moglie di aprire solo al “suo ritorno”, ndr.) perché anche in quel caso aveva anteposto i suoi ideali alla famiglia. Anni dopo ho capito da tutto quello che è venuto fuori e dalle sue lettere che forse ci ha risparmiato tanti e tanti di quei problemi, di quelle delusioni, tante di quelle sofferenze che il metterlo sotto processo per decenni avrebbe significato.
Che sentimento ha provato nei confronti della magistratura di allora?
Hanno commesso degli errori tragici, sono stati degli ingenui, pensando di fare del bene hanno fatto invece molto male.
Ingenui è diverso da dire che erano “ambiziosi”, come li definiva suo padre.
Diciamo che sicuramente Di Pietro era molto ambizioso. Poi di quasi tutti si è visto di che pasta sono fatti. Perché uno dopo l’altro sono caduti, scivolando su bucce di banana varie, e hanno cominciato a litigare tra di loro. Degli illusi, perché pensavano di cambiare il paese, quando in realtà stavano usando in maniera strumentale il loro potere. Pensando di eliminare la corruzione in Italia, hanno invece favorito un peggioramento drammatico della situazione politica e hanno decapitato una parte del sistema imprenditoriale italiano.
Come mai non avete incontrato Martelli (ma solo sua zia, come viene scritto nel libro)?
Io quel giorno non ero a casa di mia madre. Il partito… il sistema politico era il principale responsabile di quello che stava succedendo (non solo il partito socialista ma tutti i partiti, compreso il partito comunista). Mio padre era un socialista e la nostra sensazione era che il partito lo avesse abbandonato. Io l’ho vissuta come se Bettino Craxi fosse fuggito abbandonando i suoi colonnelli. Martelli in quel momento era una figura piuttosto ambigua perché stava cercando di scalare a sua volta il partito socialista sostituendosi a Craxi. Il problema è che tutti quanti sono stati poi tirati dentro. Il problema non era più questo o quel partito, il problema era il sistema, almeno così veniva venduto a livello mediatico, e quel sistema politico è crollato, tanto è vero che al governo poi è salito un populista che di politico faceva finta di non avere niente.
Il comportamento della stampa?
Il comportamento della stampa fu vergognoso, sono stati senza pietà anche nei confronti di mio padre. Il loro problema era vendere e cavalcare l’inchiesta, lo hanno fatto tutti, a partire dalle reti di Berlusconi.
Di Pietro lo ha mai rincontrato?
L’ho visto a Napoli, in un autobus che ci portava da un aereo all’aeroporto, ma non ho avuto il coraggio di parlargli, non mi è sembrato proprio il caso. Eravamo uno di fronte all’altro: ci siamo guardati a lungo, ma in silenzio.
Nessuno dei magistrati di allora l’ha mai cercata?
Scusarsi sarebbe stato ammettere che hanno compiuto cose fuori dai binari dalla legalità, come scrive mio padre.
Suo padre che cosa si aspettava?
Durante gli interrogatori ha ammesso quello che pensava fosse utile ai magistrati, però nelle lettere scrive che i magistrati chiedevano informazioni su vicende che erano completamente avulse dai capi d’accusa, e non se la sentiva anche perché il giorno dopo qualunque cosa avesse detto sarebbe finita sui giornali. L’Eni che figura ci avrebbe fatto a livello internazionale? Che fine avrebbero fatto tutti i contratti che l’Eni aveva in piedi? Che fine avrebbero fatto gli accordi sul gas? In carcere mio padre ha difeso l’Eni e ha messo in evidenza quelle che sono le carenze drammatiche del sistema carcerario in Italia, anzi, la funzione anticostituzionale del sistema carcerario perché, se usi il carcere come tortura psicologica, è chiaro che siamo esattamente dalla parte opposta della rieducazione.
A chi dava fastidio suo padre?
Ho sempre pensato che il problema fosse che non ha voluto denunciare Craxi, ma ultimamente mi gira in testa un pensiero che mi spaventa. Mi sto rendendo conto che quest’uomo dava fastidio ai suoi concorrenti in tutto il mondo. Tutte le settimane Di Pietro era all’ambasciata americana, che cosa si dicevano non lo sapremo mai. Però se mio padre dava fastidio alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane, allora bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando.
Si sente che ce l’ha un po’ con Craxi…
Diciamo che è stato un grandissimo politico, straordinario, un uomo che tra l’altro stava cercando di ridare dignità politica all’Italia in campo internazionale, e forse per questo è stato punito, però umanamente si è comportato come un codardo. Quel discorso alla Camera – quando disse a tutti di guardarsi in faccia e che nessuno era escluso da quel sistema, e tutti quanti hanno fatto finta di niente – è stato probabilmente un errore, in quanto ha delegittimato la politica tout court. Fallito quel tentativo, capisci che il problema sei tu: e allora trasforma il processo in una denuncia! Non scappare, non andartene! Il suo era un ruolo politico fondamentale, ma è stato troppo umano, quando avrebbe dovuto comportarsi da politico. Mio padre non è stato umano altrimenti non si sarebbe ammazzato. Ma ha rispettato il suo ruolo. Craxi no.
Graziella Balestrieri 20 Luglio 2023
Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per corriere.it il 19 maggio 2023.
[…] Chiara Moroni, classe 1974, figlia di Sergio Moroni, deputato socialista che si tolse la vita nel settembre 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite, è originaria di Iseo, uno dei comuni della Bresciana in cui Fratelli d’Italia ha preso alle Politiche circa il 30%. La sua uscita di scena dalla politica italiana risale al 2013, quando il partito in cui militava da poco meno di tre anni – Futuro e Libertà (Fli), di Gianfranco Fini – non raggiunse il quorum. […] Oggi Moroni […] è una manager della multinazionale farmaceutica Bristol Myers Squibb e vive a New York […]
Moroni, suo papà si tolse la vita nel 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia. Lei all'epoca stava per compiere diciott'anni. Prima di andarsene scrisse molte lettere, una anche a Giorgio Napolitano, all'epoca presidente della Camera. Sergio Moroni si professava innocente e scrisse che «quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Sono trascorsi quasi 31 anni: quel gesto è servito?
«[…] Gran parte del mio impegno politico ha avuto l'obiettivo di tenere viva la sua memoria e quella del suo gesto. Che era un gesto politico. Non posso dire che sia servito perché dovrei dire che era giusto farlo e non potrei mai. Ma sono convinta che papà è riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era dato di generare un dibattito, almeno in parte».
Cosa vuol dire che «in quel momento non è servito»?
«La violenza in quegli anni di Mani Pulite era talmente forte che nonostante il gesto di mio padre avesse avuto un impatto molto significativo, non fu abbastanza per cambiare le modalità con cui veniva gestita l’inchiesta. Cionondimeno, la lettera di papà è sempre stata al centro di un dibattito sul garantismo. Quindi in quel momento quel suo gesto non è servito abbastanza, perché avrebbe potuto - ed era quello che papà voleva - innescare una riflessione più seria e critica».
[…] «[…] alla fine i media hanno contribuito molto a rendere l'inchiesta di Mani Pulite un'inchiesta di piazza».
[…] E con Berlusconi che rapporto ha avuto? Lei uscì nel 2010 dal Popolo della Libertà per seguire la sfida interna al centrodestra lanciata da Fini.
«Non ci siamo mai più sentiti da allora. Io gli ho scritto un paio di volte […] ma non ho mai avuto risposta. Nei suoi confronti conservo una vicinanza affettiva perché, pur contestando una serie di questioni legate alla politica e alla modalità in cui lui ha fatto politica, mi ha dato anche un sacco di opportunità. Mi spiace molto vedere che non sta bene, gli auguro di guarire presto».
Cosa imputa alla gestione berlusconiana del partito?
«Lui ha sempre fatto il "dopo di me il diluvio", quindi non capisco quale futuro possa avere Forza Italia visto che lui non ha mai permesso la costruzione di una successione. Berlusconi non ha mai avuto nessuna forma di democrazia interna al partito».
Ora è in corso uno scontro tra donne in Forza Italia e una sorta di ricambio nei rapporti di forza interni...
«Non mi sorprende, ci sono sempre stati lì dentro, sia tra donne che tra uomini. La cosa che però mi fa sorridere e trovo interessante è che chi rimane vittima di questo ricambio gridi allo scandalo per il metodo che viene utilizzato, dimenticandosi che è lo stesso metodo di cui si era precedentemente agevolato».
Lei era presente il giorno del «Che fai, mi cacci?» di Fini a Berlusconi. Cosa ricorda?
«(Ride) Ero seduta lì tra le prime file, mi ricordo molto bene ogni passaggio. Fu l'esempio plastico del fatto che Berlusconi ha un concetto proprietario del partito e questa non è un'opinione, ma un fatto. Lui è un imprenditore e così come le aziende sono sue, anche il partito lo è. Fini invece viene da una cultura politica in cui le leadership si costruiscono e poi si affermano. Che poi è la stessa cultura politica in cui è cresciuta e si è formata Giorgia Meloni».
[…] Elly Schlein, segretaria del Pd. Le piace?
«[…] non penso che potrei votare il Pd oggi. Ma nella vicenda Schlein c'è una cosa che mi piace molto: il fatto che una outsider prende la tessera e vince il congresso del partito. Significa che il Pd è un partito scalabile […] Dopodiché io sono socialista riformista quindi io e Schlein non la pensiamo uguale quasi su niente […]». […]
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
Raul Gardini, la vera storia del "Corsaro" tra scommesse azzardate e faide familiari. Luigi Bisignani su Il Tempo il 30 luglio 2023
Caro direttore, un popolo di santi, eroi, poeti e naviganti. Mai come in questi giorni queste parole sono state così calzanti nel sentire la narrazione di una certa stampa e Tv su Raul Gardini, in occasione dei 30 anni dalla morte del manager ravvenate. Non è stata da meno la Rai, con l’apologetico docufilm «Raul Gardini» - andato in onda il 23 luglio - nel rappresentare la vicenda umana e professionale del «Corsaro», così soprannominato per le sue scorribande in borsa. Un protagonista temerario e certamente con idee innovative, ma anche uno spericolato «gambler» con il gusto dell’azzardo che è riuscito a distruggere uno dei più grandi player agro-industriali al mondo nello spazio di pochi mesi.
Anche nella tv di Stato la vicenda viene fatta passare per una faida di famiglia, una sorta di Dynasty «acchiappa audience» che, peraltro, proprio sul terreno degli ascolti è stata un flop. Mentre il Gruppo Ferruzzi era in realtà il progetto di una vita del patriarca Serafino, lui sì visionario e all’avanguardia, che si era sempre tenuto ben lontano da politica e finanza e che aveva costruito un megapolo integrato con una filiera rigorosamente “homemade” di trasporti, logistica, stoccaggio. Solo per dare qualche numero, parliamo di circa 170 chiatte da 1.000 tonnellate per il trasporto fluviale, di una flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico e di enormi stoccaggi in silos giganteschi alla foce del Mississippi. Tant’è che alla Borsa di Chicago, come si fa con i «grandi», quando entrava il cavalier Ferruzzi, veniva suonata la campanella. Il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stata la migliore «dote» in mano a Gardini, utilizzata per l’acquisto non solo della Montedison, ma di tante altre realtà come Central Soia, Koipe, Carapelli ed anche per la celebrata avventura de Il Moro di Venezia.
Tornando al docufilm, bastano i primi minuti per capire la follia dello storytelling celebrativo a senso unico non appena, al bravo Bentivoglio/Gardini, mettono in bocca una falsità storica: gli fanno dire che non si sa chi sia più ricco tra suo padre Ivan e Serafino Ferruzzi. La verità è che da una parte abbiamo Ivan Gardini, un piccolo imprenditore che aveva come microcosmo Ferrara, una famiglia che coltivava pesche e, quale attività complementare, quella del «sabiunat», ovvero dragava il fiume per raccogliere la sabbia. Dall’altra parte abbiamo Serafino Ferruzzi, una leggenda che per orizzonte aveva il mondo intero e con una liquidità in tasca di migliaia di miliardi di lire. La «pietas» per il tragico destino di Gardini non deve però farci dimenticare la verità e dunque la sua distruttiva arroganza. E questa volta chi postula «ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità» resterà deluso perché un’altra verità sta emergendo da una domanda spontanea: perché, dopo tutto questo tempo, si continua a rappresentare epicamente la storia di Gardini, oramai smentita da carte e testimoni, come quella di un eroe senza macchia e peccato?
Le risposte possono essere molteplici: forse per evitare di parlare del ruolo nefasto e malefico di Mediobanca e di alcuni poteri forti che contribuirono in modo sostanziale a spolpare il gruppo Ferruzzi a beneficio della Fiat.
O, più semplicemente, per spostare l’attenzione nei giorni tragici di Mani Pulite su partiti come il Pci e personaggi finiti nel mirino della magistratura, come gli Agnelli, i De Benedetti e i Falck, sfruttando e approfittando, con un grimaldello perfetto quale era il carattere impetuoso di Gardini, delle divisioni nella famiglia di Ravenna. O, forse, anche per evitare di aprire uno squarcio in seno alla stessa Procura di Milano, che aveva bisogno di «crocifiggere» Sergio Cusani e i Ferruzzi per lavarsi la coscienza dai suicidi dei vari Castellari, Moroni, Cagliari e dello stesso Gardini, portando così avanti la tesi della corruzione nella vicenda Enimont. Ricostruzioni e verità giudiziarie che tuttavia non sempre collimano con le verità reali. Più che una corruzione sta diventando palese che si trattò dell’ennesimo sciagurato finanziamento illecito ai partiti - un habitus a quei tempi di tutti i grandi gruppi industriali - per mettere fine alla guerra personale che Gardini aveva dichiarato alla politica, lanciando in campo provocazioni di ogni genere.
Leggendaria fu quella di mandare sotto la casa del ministro dell’epoca delle partecipazioni statali, Carlo Fracanzani, truppe cammellate urlanti «la chimica sono io». Oppure, ed è un mio ricordo personale ancora vivo, quando accompagnai il dottor Gardini dal presidente Andreotti per perorare un beneficio fiscale osteggiato da parte della sinistra Dc e dal Pci. Gardini spiegò le sue ragioni in maniera entusiasmante ma uscendo, con un ghigno arrogante dei suoi, si congedò dicendo testualmente «Se non me lo accordate, io i soldi me li faccio dare dai francesi». Il Divo, allora, commentò sagacemente: «Questo è matto, che se li facesse dare dai francesi, cosa è venuto a fare». Enimont durò neanche due anni. Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe. Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa. Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè, in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».
Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava. Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta, ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno. Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica, la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul, in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni, così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi. Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza, anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.
Solo una volta è venuto meno a sé stesso, solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi, che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori. L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece... Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini, si inginocchiò in stile Wojtyla. Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti: «Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare. Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa. La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria, la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri, giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti. Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri, non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.
La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello, dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura. Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini. Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori. Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale. E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio. Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti: l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto. Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano, Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi, perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino, l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo. La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini, portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire. E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia che non permise alla famiglia Ferruzzi di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna - che al contrario apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama per poterla così spingere nell’abisso. Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano. Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità” che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini. Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».
Gardini, 30 anni fa la morte. L’avvocato che passò con lui le ultime ore: «Ecco perché si uccise». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.
Marco De Luca, l’avvocato che passò le ultime ore con l’imprenditore: «Nel suo volto una tristezza profonda». Oggi il 30mo anniversario della morte
Il 23 luglio di trent’anni fa Milano si svegliò con uno sparo. A palazzo Belgioioso, nel centro cittadino, veniva trovato il corpo senza vita di Raul Gardini. L’eco fu planetaria perché il personaggio era planetario: partendo dall’eredità del suocero Serafino Ferruzzi, Gardini aveva creato in dieci anni un gruppo agroindustriale e chimico, Ferruzzi-Montedison, di dimensioni mondiali, con oltre 90 mila dipendenti; e nel contempo aveva scalato, come armatore e velista, le vette della Coppa America.
La magistratura non ebbe dubbi: suicidio. E nessun dubbio ebbero i familiari, nonostante le ombre allungate sul caso da varie inchieste giornalistiche. Com’è possibile che la pistola, trovata dalla Scientifica, fosse sullo scrittoio anziché accanto a lui? «Qualcuno nel frattempo l’ha spostata», tagliò corto il pm. E l’assenza di polvere da sparo nelle mani di Gardini? «Sono state lavate al pronto soccorso». La strage di via Palestro di quattro giorni dopo attribuita alla mafia? «Nessun nesso».
Il suicidio squassò il mondo della finanza e la famiglia. Da allora i Gardini e i Ferruzzi, già ai ferri corti per via del suo siluramento dalla guida del gruppo, non si parlano. Ma al di là delle vicende familiari, erano giorni neri per Gardini: la mattina del suicidio, dopo che quella settimana l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si era tolto la vita in carcere, sapeva di dover essere arrestato su richiesta del pool Mani Pulite che lo accusava delle tangenti pagate ai politici per la joint venture Enimont. Il giorno prima, a palazzo Belgioioso, con Gardini c’erano il figlio Ivan, la moglie Idina, il dirigente Roberto Michetti e i suoi avvocati, Marco De Luca e Giovanni Maria Flick.
Avvocato De Luca, ci racconta l’ultimo giorno di Gardini?
«Il 22 luglio ero andato da lui nel pomeriggio per rivedere il possibile interrogatorio del giorno dopo, visto che doveva essere arrestato e ne avevo parlato con Di Pietro. E ciò anche alla luce delle dichiarazioni del manager Giuseppe Garofano, rispetto alle quali stavano uscendo delle anticipazioni di agenzia. Flick ed io restammo con lui quasi tutto il pomeriggio e la sera. Io me ne andai più o meno alle undici dopo che Idina era ripartita per Ravenna dicendo che sarebbe tornata la mattina successiva».
Come trovò Gardini?
«Mi sembrava un uomo molto provato, aveva nel volto una profonda tristezza».
Che cosa lo preoccupava?
«La sua prima preoccupazione riguardava la documentazione delle attività di Montedison di cui non disponeva ma che riteneva necessaria per difendersi dalle accuse. Essendo ormai fuori dal gruppo da un paio d’anni, da quando c’era stata la rottura in famiglia, non aveva quelle carte, in particolare sulla vicenda Enimont e sulle dazioni di denaro».
Doveva essere arrestato per le tangenti ai politici. Lei aveva trattato a lungo con Di Pietro, cosa aveva ottenuto?
«Io avrei voluto che Di Pietro sentisse Gardini per rendersi conto della sua posizione effettiva, di responsabilità nella fase decisionale, non però in quella esecutiva. Ma Di Pietro non volle. Alla fine riuscii a ottenere un arresto senza passaggio dal carcere. Gardini si sarebbe dovuto presentare il giorno 23 alle 11 di mattina in una qualche caserma della Guardia di Finanza, lì Di Pietro l’avrebbe interrogato a lungo, probabilmente fino a notte fonda, e Gardini sarebbe rimasto con noi fino a che il gip non avesse concesso i domiciliari. Il 24 poteva essere a casa».
(Ascolta qui i 5 episodi della serie podcast «Chiedi chi era Gardini», di Carlo Annese)
Gardini che cosa disse?
«Temeva che dall’interrogatorio di Garofano emergesse una realtà molto diversa da quella che pensava di rappresentare. Aveva paura cioè che gli gettassero la croce addosso».
La mattina dopo come andò?
«Dovevamo vederci alle 10 nel mio studio. Flick l’aveva cercato alle 7.30 per rinfrancarlo. Gli voleva offrire un caffè prima di venire da me. Ma non è riuscito a parlargli e quando è arrivato in piazza Belgioioso era già tutto successo».
Ha dei dubbi sul suicidio?
«Nessuno».
Che idea si è fatto sul movente?
«Io credo che l’abbia fatto per tutelare la sua famiglia e l’immagine. Non dobbiamo dimenticare che accanto alle vicende di Tangentopoli era maturato in quel momento il dissesto della Montedison che avrebbe potuto ripercuotersi su di lui e su molti altri con azioni riparatorie importanti dal punto di vista economico. Penso abbia considerato il fatto che senza di lui la sua famiglia sarebbe stata in qualche modo tutelata. In quegli anni Gardini era l’imprenditore per eccellenza in Italia. Il suo nome era straordinario, a Ravenna era considerato un re. Forse voleva evitare che le vicende di Tangentopoli potessero turbare tutto questo: lui e il suo mondo, nato accanto a Serafino Ferruzzi».
Se questo era il suo obiettivo l’ha raggiunto?
«Il suo ricordo, che condivido, è rimasto quello di un uomo di grandi capacità e vedute che ha portato molto onore a Ravenna e all’imprenditoria italiana. Quindi sì, credo abbia raggiunto l’obiettivo».
Trent'anni fa la scomparsa. Il ricordo di Gardini: Raul e Serafino gli inizi dell’avventura. “Voleva convincere i commissari europei sul bioetanolo ma aveva contro la lobby del petrolio”. Marco Fortis su Il Riformista il 18 Luglio 2023
Sono trascorsi trent’anni dalla tragica morte di Raul Gardini, con cui ho avuto il piacere e l’onore di collaborare agli inizi della mia attività professionale. Gardini mi chiamò a Ravenna per dare vita all’Ufficio Studi del Gruppo Ferruzzi nel 1986. Fu per me una scelta non facile. Perché avrei dovuto abbandonare l’attività di condirettore della rivista “Materie Prime” di Nomisma che era stata co-fondata nel 1981 da me con il mio maestro accademico Alberto Quadrio Curzio, ma anche con il sostegno di Romano Prodi.
La rivista “Materie Prime” aveva diversi sponsor, tra cui il Gruppo Ferruzzi e si creò subito una sintonia ed una complementarità di competenze tra Gardini e me. Ciò fu determinante per la proposta che mi fece Gardini: lui imprenditore innovatore ed io economista con l’angolatura sulla economia reale ed internazionale. Per questo anche Quadrio Curzio, con cui collaboravo intensamente, mi incoraggiò nella mia decisione.
Così accettai, perché mi affascinavano le idee e i progetti che Gardini e suoi più stretti collaboratori stavano portando avanti e fui attratto dalla possibilità di lavorare in un grande gruppo industriale internazionale come la Ferruzzi, dove avrei comunque potuto continuare a fare ricerca economica ad alto livello, in parallelo con la mia attività universitaria, come poi è effettivamente successo fino ad oggi, prima con Ferruzzi-Montedison e poi con la Fondazione Edison.
Ricordare Gardini è, a mio avviso, molto importante. Non solo per tributare un omaggio alla memoria di un grande uomo. Ma anche per non perdere il “filo della storia”, di quella storia del nostro Paese e della sua economia i cui contorni spesso sembrano confondersi nel tempo. Per capire chi è stato Gardini occorre innanzitutto capire chi è stato prima di lui Serafino Ferruzzi, il fondatore del Gruppo, la cui figlia Idina era moglie di Gardini. Il “dottor” Ferruzzi fu, come Enrico Mattei nell’energia, un uomo di grande intraprendenza, capace di rendere l’Italia del Secondo Dopoguerra indipendente per i cereali e la soia dalle grandi multinazionali del settore. Ferruzzi sfidò le società di trading americane costruendo propri silos per i cereali sul Mississippi. Si diversificò geograficamente negli approvvigionamenti andando a comprare le materie prime agricole anche dalle cooperative argentine, si dotò di una propria flotta per trasportare le derrate in Italia, acquistò immensi possedimenti terrieri negli Stati Uniti e in Sudamerica.
Divenne così importante ed autorevole nel mondo del commercio mondiale dei prodotti agricoli che quando egli arrivava alla Borsa dei cereali di Chicago le contrattazioni venivano temporaneamente interrotte per tributargli un deferente saluto. Prima di morire in un incidente aereo in una notte nebbiosa a Forlì mentre stava tornando a casa a Ravenna col suo jet, Serafino Ferruzzi aveva accumulato uno dei più importanti patrimoni d’Italia, stimato da Cesare Peruzzi in un articolo su “Il Mondo” del febbraio 1980 in circa 3 mila miliardi di lire, ed era riuscito a comprare dal cavalier Attilio Monti l’Eridania, la principale società italiana produttrice di zucchero. Furono così create le solide basi per lo sviluppo agro-industriale del Gruppo Ferruzzi che fu poi portato avanti dopo la sua scomparsa dal genero Raul Gardini.
La storia di Raul Gardini è certamente più nota di quella di Serafino Ferruzzi ma anch’essa è conosciuta solo in parte. Ed è probabilmente conosciuta più per le tragiche vicende finali di Enimont e le imprese veliche in Coppa America che non per il ruolo che Gardini ha avuto nell’industria italiana e mondiale. Ho avuto la fortuna di condividere con Gardini gli anni di lavoro che credo siano stati per lui i più belli: anni emozionanti e travolgenti, ma ancora sereni, diversamente da quelli successivi dell’avventura tormentata nella chimica, che gli avrebbe riservato fama ma anche tante amarezze. Un periodo, quello centrale degli anni ‘80, in cui Gardini era tutto proiettato verso il futuro ed era circondato da uomini fidati: dirigenti storici che aveva “ereditato” dal suocero Serafino ed altri emergenti, come Renato Picco, a capo dell’Eridania. La Ferruzzi a quell’epoca era veramente una grande squadra di manager preparati, chi a capo del trading, chi degli olii, chi dello zucchero, chi del calcestruzzo, chi delle navi, chi dei silos: tutti compatti attorno a Gardini. Una squadra che lo aiutò molto a muovere i suoi primi passi da leader, nel solco di Serafino.
Inoltre, era entrato a far parte dei vertici anche Mauro De André, fratello del noto cantautore, che era diventato l’avvocato del Gruppo, della famiglia Ferruzzi e di Gardini. Un uomo di straordinaria professionalità, De André, un autentico baluardo per la Ferruzzi. Forse, se non fosse morto prematuramente, avrebbe saputo consigliare Gardini in taluni successivi momenti difficili della sua vita e la storia della Ferruzzi stessa sarebbe andata diversamente.
Lavoravo con Gardini nell’ufficio che egli aveva posto a piano terra nella sua casa, a Palazzo Prandi a Ravenna, in via Massimo d’Azeglio, assieme a Carlo Sama, suo più stretto assistente, con un mio giovane collaboratore e due segretarie. Tutti in un unico stanzone. Dietro l’ufficio, attraverso una serie di piccole porte comunicanti, si accedeva a una stanza privata di Gardini, dove lui amava leggere e riposarsi, circondato da suppellettili di caccia e di vela. Un’altra porta accedeva al giardino sul retro e a una piccola piscina. Un grande scalone portava al primo piano dove talvolta salivamo per il pranzo Gardini, Sama ed io, in compagnia della moglie di Raul, Idina, una donna straordinaria, semplice e molto religiosa, come la sorella Alessandra. Con Idina ho avuto la possibilità di rimanere sempre in contatto anche negli ultimi anni della sua vita, sia per dei consigli sia per organizzare eventi in memoria di Raul.
Il lavoro a Ravenna trascorreva tra Palazzo Prandi e il moderno edificio di vetro che ospitava le sedi della Italiana Oli e Risi e della Calcestruzzi. Con Gardini e Sama ci spostavamo a piedi per le vie della città da un ufficio all’altro. Nel week end cercavo spesso di rientrare a casa, in Piemonte. Viaggiavo tra Ravenna e il lago d’Orta a passo di lumaca con la mia vecchia Renault 4 bianca che raggiungeva appena i 90 all’ora e il lunedì mattina ripartivo alla volta della Romagna prima che albeggiasse, per poter arrivare in tempo in ufficio. Quando Gardini venne a sapere di questi miei faticosi spostamenti mi fece affidare una più confortevole e veloce Mercedes aziendale.
Erano giorni febbrili, quelli del 1986. Gardini voleva convincere i Commissari europei a dar vita al progetto del bioetanolo, alcol da miscelare alla benzina ricavato dalle eccedenze cerealicole europee di quegli anni, che erano enormi e molto costose da mantenere. Ma aveva contro tutta la potente lobby dei petrolieri. Inoltre, Gardini voleva portare la soia in Italia: un altro progetto coraggioso. Da poco la Ferruzzi aveva preso il controllo del primo produttore di zucchero della Francia, la Béghin-Say, di cui Eridania deteneva già una importante partecipazione.
Una operazione difficilissima, quella di scalare un gruppo industriale francese, in cui però Gardini fu aiutato dallo straordinario lavoro di lobbying di un giovanissimo Sergio Cusani, che aveva rapporti consolidati col mondo saccarifero e finanziario transalpino. E ora, dopo quel successo, la Ferruzzi puntava a scalare la British Sugar, con l’appoggio dei bieticoltori inglesi ma con l’opposizione del governo britannico, che aveva più a cuore gli interessi coloniali dello zucchero di canna della Tate&Lyle. L’operazione British Sugar fu l’unica di quegli anni che Gardini non riuscì a portare a termine, forse per non aver tessuto lo stesso paziente lavoro diplomatico che caratterizzò la scalata vincente di Béghin-Say. La sconfitta di British Sugar fu però subito riscattata dall’introduzione della soia in Italia, che invece fu un enorme successo. Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Il ricordo di Gardini e lo sviluppo della Ferruzzi: “Era diventato l’interlocutore degli agricoltori italiani e francesi”. Marco Fortis su Il Riformista il 19 Luglio 2023
In quei giorni passavo ore con Gardini in ufficio o in giardino ad ascoltare le sue idee e i suoi progetti sull’agricoltura, sull’ambiente e sull’Europa, mentre egli, instancabile, tracciava appunti e schemi su fogli e agendine, e discutevamo su come poter trasferire questa narrativa alle istituzioni europee, al mondo politico e all’opinione pubblica.
Buttammo giù praticamente insieme il primo working paper del gruppo Ferruzzi, “Una nuova agricoltura per vivere meglio”, del settembre 1986, che fu tradotto anche in inglese e francese, e fu presentato poco dopo ad un convegno a Bruxelles e ai vertici della Commissione europea. Il secondo working paper, “La soia. Una coltura alternativa per l’agricoltura italiana”, fu pubblicato nel dicembre 1986. Va ricordato che il Gruppo Ferruzzi favorì lo sviluppo della coltivazione della soia in Italia rendendo il nostro Paese primo produttore europeo di questa importante leguminosa che permette di fissare l’azoto nel terreno senza l’impiego di fertilizzanti e che quindi favorì una vera e propria rivoluzione della rotazione agraria. Anche per questo motivo l’Università di Bologna avrebbe poi conferito a Gardini la Laurea Honoris Causa in Agraria.
A quei tempi si volava in continuazione con i Falcon aziendali partendo dall’aeroporto di Forlì, diretti un po’ ovunque, a New York, Bruxelles, Amsterdam, Londra, Parigi e Reims, in quest’ultimo caso ospiti di George Garinois, leader dei bieticoltori francesi, che dopo la scalata di Béhin-Say divenne amico di Gardini e lo invitava spesso a cena nella sua fattoria dove venivano cucinati gustosi polli allo spiedo. Intorno al camino acceso, Gardini e Garinois mi coinvolgevano in interminabili discussioni fino a notte inoltrata sull’agricoltura, sull’Europa, sulle monete. Ero affascinato da questi uomini che rappresentavano ai miei occhi il tipo di capitalismo che avevo sempre giudicato migliore, quello dell’economia reale, dei grandi progetti per lo sviluppo, in contrapposizione a quello finanziario e del facile arricchimento. Talvolta rientravamo in aereo direttamente in Italia alla mattina, appena in tempo per aprire l’ufficio. Nei viaggi più brevi tra Ravenna, Venezia e Milano ci si spostava invece con il grande elicottero verde della Ferruzzi.
Gardini era un uomo affascinante ed emanava un notevole carisma. Loquace con gli amici, era di poche parole in pubblico, spesso rispondeva a monosillabi, ma aveva improvvise battute fulminanti, come mostra anche una celebre intervista televisiva rilasciata ad Enzo Biagi. Nei suoi viaggi all’estero era spesso accompagnato dalla figlia Eleonora. Ricordo che un giorno a New York, a margine di un appuntamento d’affari, anziché seguire la segretaria che ci accompagnava, irrompemmo di proposito nella enorme sala di trading di una importante società di investimento con un centinaio di operatori sbalorditi ed ammutoliti che interruppero il loro lavoro per ammirare il passaggio di Raul e di Eleonora, elegantissima in un abito azzurro.
I Ferruzzi e i Gardini erano ovviamente persone molto benestanti e al centro della cronaca ma anche semplici e aperte. Per questa ragione erano molto amati e rispettati dai ravennati. Inoltre, sapevano mettere sempre a loro agio anche giovani collaboratori come me da poco entrati a far parte del loro mondo. Ricordo che, da poco assunto, in occasione di una fiera agricola vicino a Birmingham, nel pieno della scalata a British Sugar, trascorsi quasi un intero pomeriggio con Alessandra Ferruzzi, che mi raccontò la vita di suo padre e tanti aneddoti della sua famiglia.
Oltre che con Gardini collaboravo molto anche con Sama, a cui Raul affidò le Relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi. In quel periodo Carlo svolse un lavoro enorme per dare alla Ferruzzi una comunicazione di livello, fattore essenziale per far conoscere al mondo un gruppo fino a quel momento poco noto che però stava per entrare in Borsa, cosa che avvenne poco dopo con la holding Agricola Finanziaria. Un impegno, quello nella comunicazione, che poi valse a Sama anche la laurea ad honorem in sociologia da parte dell’Università di Urbino. Sama coordinò la prima campagna istituzionale della Ferruzzi con l’Agenzia Testa, con lo slogan “Ferruzzi Pianeta Terra”, e lavorò alla creazione del logo della Ferruzzi, con le sue tre foglioline verdi, ideato dalla Landor di San Francisco. Ricordo che in uno dei miei primi giorni di lavoro, raggiunsi direttamente in treno dal Piemonte Raul e Carlo a Torino presso l’Agenzia Testa per vedere l’evoluzione del progetto di immagine del Gruppo. C’era anche Alessandra Ferruzzi che Gardini coinvolgeva spesso nelle sue riflessioni strategiche perché riteneva molto preziosi i suoi pareri. Alessandra si era laureata con una tesi sul Chicago Board of Trade ed era molto competente sui temi dell’agricoltura e dell’agro-industria.
Sama fece anche realizzare da Fulvio Roiter uno splendido libro fotografico sulla Ferruzzi, le cui immagini sarebbero poi finite sui giornali e sulle riviste di tutto mondo a corredo delle interviste di Gardini, che andavano via via moltiplicandosi. Negli anni seguenti, assunto l’incarico di direttore delle relazioni esterne anche della Montedison, Sama ideò poi una delle campagne pubblicitarie più innovative di quell’epoca, consistente nella promozione di oggetti costruiti con le nuove plastiche biodegradabili del Gruppo, tra cui macchine fotografiche ed automobiline, distribuite in migliaia di esemplari con i numeri settimanali del periodico “Topolino”. Quei giocattoli, oltre trent’anni fa, furono i precursori degli odierni sacchetti ecologici della spesa in Mater-Bi. Nel 1990, Sama ed io avremmo poi lavorato insieme alla sponsorizzazione da parte della Ferruzzi del primo concerto dei Tre Tenori, José Carreras, Plácido Domingo e Luciano Pavarotti, che si esibirono in un memorabile concerto alle Terme di Caracalla, il 7 di luglio.
La Ferruzzi nella seconda metà degli anni ’80 era intanto diventata il più importante interlocutore diretto degli agricoltori italiani e francesi, ritirando la maggior parte dei loro raccolti di soia e barbabietola da zucchero, suscitando anche qualche gelosia tra le rappresentanze datoriali e sindacali italiane del settore. Memorabili furono le giornate della soia che la Ferruzzi organizzava presso la Torvis, una delle principali aziende agricole del Gruppo, oltre 4 mila ettari di terreni in provincia di Udine, con la partecipazione di migliaia di coltivatori e con in cielo le caratteristiche mongolfiere multicolori su cui spiccava il nuovo marchio del Gruppo. Nel corso di tali giornate venivano anche tenute importanti conferenze internazionali con la partecipazione di importanti personalità, tra cui il ministro dell’agricoltura Filippo Maria Pandolfi e il vicepresidente della Cee e commissario europeo all’agricoltura Frans Andriessen. In queste occasioni Gardini e Sama sovraintendevano personalmente tutta l’organizzazione degli eventi fino ai minimi particolari.
Quel mio dividermi tra l’Ufficio Studi e le relazioni esterne del Gruppo e tutti quei viaggi con Raul, Carlo e Alessandra Ferruzzi mi permisero di conoscere in breve tempo la immensa realtà della Ferruzzi, del suo know how, delle sue tecnologie, dei suoi siti produttivi e delle sue sedi nel mondo. In Italia Ferruzzi controllava Eridania, Italiana Olii e Risi e Carapelli; in Francia Béghin-Say, Lesieur e Ducros; in Spagna Koipe. La Ferruzzi aveva anche acquisito la divisione europea della statunitense Corn Product Corporation, che Gardini ridenominò Cerestar, così il Gruppo divenne il primo produttore europeo di amido e derivati con numerosi stabilimenti in diversi Paesi. Furono altresì comprate Central Soya negli Stati Uniti e Provimi, leader europea nei mangimi. La sede di Ferruzzi a Bruxelles divenne il più imponente ufficio di rappresentanza che un’impresa italiana avesse mai avuto nella capitale europea. Marco Fortis
Il terzo capitolo sulla scomparsa, 30 anni fa, dell'imprenditore. Raul Gardini e la scalata di Montedison che lo trasformò da “contadino” a “pirata” e “giocatore di poker”. Marco Fortis su Il Riformista il 20 Luglio 2023.
Arrivò poi, nel 1987, la conquista di Montedison. L’acquisizione avvenne in modo quasi casuale, senza una strategia preordinata. Gardini riuscì ad inserirsi nella lotta tra Mediobanca e Mario Schimberni, il presidente di Montedison che aveva trasformato la società di Foro Buonaparte in una public company e aveva sfidato Enrico Cuccia sulla Bi-Invest dei Bonomi e su Fondiaria. Rastrellando titoli sul mercato, poco a poco Gardini accrebbe la sua quota in Montedison, peraltro comprando a un prezzo elevato le azioni di cui nel frattempo era entrato in possesso Carlo De Benedetti, nonché quelle di Gianni Varasi e di altri azionisti minori.
Alla fine, spiazzando lo stesso Cuccia, Gardini prese il controllo del gruppo chimico, pur appesantendo significativamente l’indebitamento della Ferruzzi, probabilmente animato anche dalla volontà di riuscire in una impresa completamente sua e non legata solo allo sviluppo dell’impero agro-industriale costruito dal suocero Serafino Ferruzzi.
A seguito della irruente scalata di Montedison, la stampa italiana, che in precedenza aveva soprannominato Gardini “il contadino”, prese anche ad indicarlo come “il pirata”. Alcuni media lo paragonarono ad un giocatore di poker che, con una impresa finanziaria eccessivamente spericolata, rischiava di mettere a repentaglio il patrimonio di famigliari fin troppo acquiescenti. E che con quella mossa, rischiava di scontrarsi irrimediabilmente anche con lo stesso Cuccia.
Sta di fatto che Montedison costituì un’autentica svolta per la Ferruzzi. Con grandi potenzialità ma anche con rischi enormi. Gardini si fidò inizialmente di Schimberni ma poi ruppe con lui quando capì che questi stava ulteriormente indebitando Montedison portando avanti in proprio progetti non condivisi. E fece piazza pulita di molti dei suoi uomini, mantenendo in squadra solo un professionista come Giuseppe Garofano e promuovendo gradatamente Italo Trapasso alla guida delle materie plastiche. Inoltre, Gardini chiamò Rita Levi Montalcini a far parte del Cda di Montedison. Liberatosi di Schimberni, si riavvicinò anche a Mediobanca perché aveva bisogno di Via Filodrammatici per rimettere ordine nei conti appesantiti del Gruppo.
È stato spesso enfatizzato che l’acquisizione della Montedison da parte della Ferruzzi sarebbe stata finalizzata all’obiettivo di esplorare un possibile legame tra agroindustria e chimica, un ponte che avrebbe potuto permettere di realizzare la “chimica verde”, altrimenti detta bioeconomia: vale a dire plastiche biodegradabili ottenute dal mais, carburanti ricavati dalle materie prime agricole come l’etanolo o il biodiesel, nuovi materiali, componenti e inchiostri biodegradabili. Frontiere che indubbiamente Gardini ha “focalizzato” con 35-40 anni di anticipo e che sono oggi più che mai di straordinaria attualità, nell’era di Greta Thunberg, delle nuove sfide che ci attendono con gli obiettivi ambiziosi della transizione ecologica e nel pieno del nuovo disordine globale innescato dalla pandemia e dall’aggressione russa all’Ucraina. Uno scenario che ha riproposto ad un Europa non sempre capace di programmare il proprio futuro la rude realtà di nuove improvvise “scarsità”, dal gas alle materie prime.
In realtà, il Gruppo Ferruzzi avrebbe potuto benissimo sviluppare la bioeconomia anche senza la Montedison. La visione della “chimica verde” di Gardini e del Gruppo Ferruzzi, infatti, era antecedente la presa di controllo del gruppo di Foro Buonaparte. E dentro la stessa Ferruzzi c’erano tecnologie d’avanguardia, come quelle dell’amido di Cerestar, che avrebbero potuto essere autonomamente indirizzate verso la bioeconomia con importanti prospettive di innovazione.
Il vero valore aggiunto per il nostro Paese dell’acquisizione di Montedison da parte del Gruppo Ferruzzi era invece potenzialmente un altro. Quello, cioè, di dare finalmente un azionariato stabile e un disegno industriale coerente alla società di Foro Buonaparte, dopo tanti anni tormentati di invadenze politiche e finanziarie, e di proiettarla sempre di più su scala internazionale. L’Italia avrebbe così potuto disporre non di una ma di ben due grandi multinazionali per competere sui mercati globali in settori strategici: la Ferruzzi nell’alimentare e la Montedison nella chimica. Senza contare che il nostro Paese avrebbe potuto averne in futuro anche una terza, cioè la Edison.
Furono Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi a proporre a Gardini di ripristinare il vecchio marchio Edison e di ridenominare così le ex centrali elettriche di autoproduzione ex Edison ed ex Montecatini riunite nella Selm, che era in pieno sviluppo sotto la guida di un altro capace manager, Giancarlo Cimoli.
Invece Gardini, forse per eccessiva generosità verso il suo Paese, forse per troppa ambizione, si “incartò” nell’affare Enimont. Quando le massime istituzioni politiche italiane, i vertici dell’Eni e i manager chimici della stessa Montedison proposero a Gardini un progetto per mettere in comune le attività della chimica di base di Montedison e quelle di Enichem in unico gruppo industriale, cioè di creare quella che sarebbe poi diventata la futura joint venture Enimont, l’imprenditore ravennate fu molto combattuto sul da farsi.
Lo ricordo bene perché ne parlammo insieme tante volte in quelle settimane. Da un lato, infatti, Gardini vedeva la Montedison soprattutto proiettata nel mondo, esattamente come la Ferruzzi. Una Montedison tutta concentrata sulle sue società d’avanguardia come Himont (leader nel polipropilene), Ausimont (leader nel fluoro) ed Erbamont (leader negli antitumorali). Gardini avrebbe potuto vendere la chimica di base di Montedison che non gli interessava, quella dei fertilizzanti, delle fibre, della raffinazione, del pvc e del polistirene, rientrando così in parte anche dagli investimenti finanziari fatti per scalare Foro Bonaparte. Questa era pure l’idea degli eredi Ferruzzi e di Sama.
Ma, dall’altro lato, Gardini era anche un uomo attratto dalle sfide impossibili. I vertici dello Stato italiano, tra l’altro, lo invogliarono a creare l’Enimont promettendogli anche dei consistenti sgravi fiscali per favorire la fusione societaria e lo rassicurarono sul fatto che Enimont sarebbe stato un gruppo gestito con mentalità privata e senza intromissioni politiche. Perciò Gardini alla fine accettò e, senza saperlo, quello fu l’inizio del suo calvario personale così come di quello dei suoi parenti, che anche in quella partita rovente non gli fecero mai mancare il loro sostegno, mettendo seriamente a rischio il loro patrimonio.
La storia andò molto diversamente da come Gardini aveva immaginato. Infatti, nei mesi immediatamente successivi alla nascita di Enimont apparve subito evidente che la politica e i partiti, nonostante le promesse che gli erano state fatte, non intendevano mollare per nulla la presa sulla chimica di base, sugli appalti, sulle rendite clientelari e i relativi consensi collegati, intromettendosi di continuo negli affari interni di Enimont, incluse le nomine di alcuni manager. E, per di più, gli sgravi fiscali promessi alla Ferruzzi dai massimi vertici dello Stato italiano non decollavano, con continui rinvii politici dal carattere ricattatorio e stop and go del Parlamento sulla materia. L’Enimont, guidata da Lorenzo Necci e Sergio Cragnotti, era letteralmente impantanata e in quelle condizioni costituiva una emorragia che sul piano finanziario rischiava di dissanguare giorno dopo giorno la Ferruzzi-Montedison.
Gardini si sentì ingannato dalle istituzioni del suo Paese. E da uomo d’azione e di mercato quale era reagì cercando di scalare l’Enimont in modo ostile, con l’appoggio di investitori francesi, dando inizio ad una guerra all’ultimo sangue con lo Stato italiano. Il paradosso di queste dolorose vicende è che il gruppo Ferruzzi, così poco avvezzo ad avere a che fare con la politica italiana, alla fine fu coinvolto in quella che è stata definita la “madre di tutte le tangenti”. Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, l’acquisto a tutti i costi di Enimont, il fallimento e l’inchiesta Mani Pulite. Marco Fortis su Il Riformista il 21 Luglio 2023
Messo all’angolo, Gardini alla fine decise di vendere all’ENI la quota in Enimont e si dimise polemicamente da tutte le cariche che ricopriva in Italia, nominando il giovanissimo figlio Ivan presidente del Gruppo. Furono giorni molto difficili quelli, sia per lui sia per Ivan. Ricordo che spesso la domenica pomeriggio partivo da Linate e li raggiungevo a Roma nella sede della Ferruzzi-Montedison presso l’Ara Coeli, dove c’erano anche alcune stanze per dormire. Lì lavoravamo insieme a discorsi e progetti e poi dopo cena si discuteva a lungo di possibili nuove strategie. Ma il morale di entrambi era molto basso.
È un peccato che molti dei ricordi storici che riguardano Raul Gardini imprenditore si riducano, oggi, alla vicenda di Enimont e ai drammatici episodi che ne seguirono. In altri Paesi un gruppo come la Ferruzzi-Montedison sarebbe stato giudicato un patrimonio nazionale da difendere e da valorizzare. Gli Stati Uniti, ad esempio, normalmente fanno così. Tanti tycoon dell’odierna economia americana sono partiti da poco più che dei garages o tramite avventurose start up. Ma, grazie ad un ambiente istituzionale, politico, finanziario e fiscale favorevole, hanno potuto creare delle multinazionali che oggi dominano i mercati mondiali e le filiere dell’innovazione tecnologica. In Germania i grandi gruppi industriali storici dell’auto, dell’elettromeccanica, della chimica e della farmaceutica sono sempre stati considerati dei patrimoni nazionali strategici così come lo sono in Francia le grandi imprese del lusso o della microelettronica, quelle dell’energia, della farmaceutica, della cosmetica o dell’auto.
Con la successiva disintegrazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, si è perduta invece una fetta importante della storia e del potenziale di sviluppo economico del nostro Paese. Si sono disperse tutte le avanguardie della nostra chimica, che sin dai tempi della Montecatini era leader nel mondo, e aveva vinto anche un premio Nobel con Giulio Natta. E si è anche disperso lo straordinario patrimonio commerciale e agroindustriale creato in quarant’anni di lavoro in tutto il mondo dal fondatore della Ferruzzi, Serafino Ferruzzi, e poi da Gardini.
La vicenda giudiziaria su Enimont, che coinvolse il Gruppo Ferruzzi-Montedison in Mani Pulite e vide il triste epilogo prima del suicidio di Gabriele Cagliari (le cui lettere dal carcere sono una delle più drammatiche testimonianze di quegli anni) e poi di quello di Raul Gardini (un uomo che probabilmente si sentiva troppo libero e orgoglioso per poter passare anche una sola notte in prigione), portò alla perdita del gruppo Ferruzzi-Montedison stesso da parte della famiglia Ferruzzi e alla sua progressiva vendita a pezzi, una volta passato sotto il controllo di Mediobanca.
Come tutti gli uomini, Gardini ha anche commesso alcuni errori. E uno dei più gravi è certamente stato proprio quello di intestardirsi a voler conquistare Enimont a tutti i costi. Per di più in un Paese come l’Italia, stretto tra vecchi presunti “salotti buoni” della finanza che certamente non gli erano amici e un sistema politico “invadente” come pochi altri in economia. Tra l’altro, per guadagnare rapidamente somme di denaro da mettere sul piatto della bilancia dello scontro Enimont, in quei giorni Gardini si lanciò anche in una spericolata speculazione finanziaria sulla soia al Chicago Board of Trade, mal consigliato da alcuni nuovi traders francesi ed americani che lui stesso aveva promosso ai vertici del trading Ferruzzi, in discontinuità con gli uomini fidati della vecchia scuola di Serafino. L’operazione andò molto male, minò il prestigio della Ferruzzi negli USA e costò alle casse del Gruppo e della stessa famiglia Ferruzzi, secondo le cronache e i resoconti giudiziari dell’epoca, non meno di 300 milioni di dollari o forse di più (la cifra esatta non si è mai saputa).
Un altro errore di Gardini, forse dettato dall’esito frustrante della stessa vicenda Enimont, fu quello di voler costringere a tutti costi gli eredi Ferruzzi a mettere in pratica un passaggio generazionale anticipato che lui riteneva innovativo ma che, di fatto, avrebbe praticamente privato i figli di Serafino delle loro legittime quote azionarie di controllo. I cognati fino a quel momento non gli avevano mai fatto mancare il loro più totale appoggio, nemmeno nei momenti più difficili. Ma il suo irrigidimento su quel progetto di successione portò ad una rottura con Arturo, Franca e Alessandra Ferruzzi e con Carlo Sama, che nel frattempo aveva sposato quest’ultima. Ciò indebolì notevolmente il Gruppo e lo espose, nel pieno delle indagini della magistratura, all’attacco di Mediobanca che, di fatto, portò poi alla espropriazione della Ferruzzi-Montedison da parte di quest’ultima. Separandosi dai Ferruzzi, Gardini perse anche quella squadra di fedeli manager che avevano sempre lavorato con lui, da Picco a Ceroni, da Venturi a Trapasso e tanti altri, che decisero di rimanere nel Gruppo con gli eredi di Serafino, non riuscendo a comprendere le ragioni di quella separazione.
Invano, negli ultimi giorni prima dell’escalation di Mani Pulite, Carlo Sama, che era sempre rimasto in rapporti con Gardini, cercò con pragmatismo di progettare con Goldman Sachs un disegno di riunificazione dei gruppi Ferruzzi, Gardini e Cragnotti che avrebbe consentito di affrontare meglio le difficoltà che si stavano profilando all’orizzonte. Ma ormai era tardi e l’ondata di arresti del pool del tribunale di Milano era in arrivo.
Vale la pena di ricordare che il Gruppo Ferruzzi-Montedison era all’epoca più o meno indebitato come altre importanti realtà industriali italiane, cioè come Fiat o il Gruppo De Benedetti, ma a differenza di queste era largamente in utile ed estremamente solido dal punto di vista industriale. A maggior ragione, quello che è accaduto in seguito è semplicemente assurdo dal punto di vista dell’interesse nazionale. Infatti, il sistema politico-istituzionale-finanziario italiano ha colpevolmente assecondato la dissoluzione di un patrimonio industriale unico al mondo, quello del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che costituiva una delle poche realtà su scala globale che l’Italia abbia mai posseduto.
Benché avesse messo dei manager indubbiamente capaci a gestire le società ex-Ferruzzi-Montedison, come Enrico Bondi e Stefano Meloni, Mediobanca non sembrava avere un disegno industriale preciso per le realtà produttive di cui si era impossessata. Himont, leader mondiale nel polipropilene, fu venduta a gruppi stranieri. E, ironia della sorte, morto Enrico Cuccia nel giugno del 2000, la stessa Mediobanca che a suo tempo, approfittando dei giorni caotici di Mani Pulite, si era impadronita con un blitz dell’impero creato dai Ferruzzi e da Gardini, nell’estate del 2001 fu “scippata” della Ferruzzi-Montedison stessa, che nel frattempo era stata denominata Compart, con una OPA ostile guidata da Électricité de France e con il “tradimento” della vecchia e tradizionale alleata Fiat e di alcune banche italiane che appoggiarono quel colpo di mano contro via Filodrammatici.
Alla francese EdF, ovviamente, non interessava l’agro-industria dell’ex gruppo Ferruzzi, sicché successivamente Eridania Béghin-Say fu anch’essa venduta così come altre società chimiche residuali dell’ex Gruppo Montedison, mentre La Fondiaria sarebbe poi finita al Gruppo Ligresti. Ed è già tanto che EdF, un soggetto straniero, si sia poi dimostrata negli anni seguenti un azionista industriale valido per Edison, sostenendola sempre nei suoi investimenti in Italia e accompagnando i suoi manager fino ai successi recenti.
Ma il bilancio finale di tutte queste vicende per il nostro Paese è fallimentare. Perché con la fine di Ferruzzi e Montedison l’Italia ha perso per sempre la possibilità di essere protagonista in due settori strategici.
Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, la vela del Moro di Venezia e la Coppa America con l’amico Paul Cayard per dimenticare i tradimenti in politica. Marco Fortis su Il Riformista il 22 Luglio 2023
Negli ultimi anni della sua vita, le fatiche e le frustrazioni che Raul Gardini aveva accumulato in Italia furono temperate da una intensa attività di relazioni internazionali. Ma, soprattutto, i suoi giorni furono illuminati dai grandi successi nella vela del Moro di Venezia, con l’amico Paul Cayard al timone.
Sentendosi “tradito” dalla politica italiana e alla ricerca di nuovi stimoli, Gardini già prima del definitivo abbandono di Enimont si era sempre più concentrato sulle attività fuori dal nostro Paese, dove godeva di un grande prestigio. Fu chiamato da Michail Gorbačëv a progettare un immenso investimento agricolo ed agro-industriale in URSS nell’area di Stavropol. Sempre in quel periodo Gardini incontrò il presidente americano George Bush e numerosi ministri del governo statunitense. E tenne in America importanti conferenze, una delle quali all’Università di Harvard.
Uno dei riconoscimenti più significativi tributati a Gardini fuori dai nostri confini, fu senza dubbio l’invito che gli fece la Sorbona nel 1990 a tenere una conferenza nell’ambito delle iniziative della Cité della Réussite, onore riservato prima di lui solo ad un altro italiano, Gianni Agnelli. Allo scopo realizzammo anche il primo film di presentazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che fu proiettato prima della conferenza e che è ancora oggi possibile vedere su Yutube. Fu, quello, un momento molto importante, con la presenza di tutti i membri delle famiglie Gardini e Ferruzzi, inclusa la anziana vedova di Serafino, signora Elisa, nonché dei principali manager del Gruppo.
Intanto, nei cantieri della Montedison di Tencara si stavano costruendo le avveniristiche imbarcazioni del Moro di Venezia, per partecipare alla sfida di Coppa America. La passione di Gardini per il mare, parallela a quella per la caccia, era di vecchia data, così come l’amicizia con il suo marinaio di fiducia ed intimo amico, Angelo Vianello.
Gardini aveva già armato molte barche nella sua vita, a cominciare da “Naso Blu” e “Orca 43” fino a “Naif”, e partecipato a tante regate. Aveva anche avuto altri “Mori”, da giovane. Infatti, per fare un salto di qualità ed entrare nel mondo dei maxi, già a fine anni ’70 Raul e Arturo Ferruzzi avevano chiesto al giovane progettista German Frers di disegnare quella che sarebbe diventata una delle più belle barche a vela da regata del Novecento.
Costruito dai cantieri Carlini in legno, quel grande sloop con un solo albero si sarebbe chiamato Il Moro di Venezia. Fu un regalo di Serafino Ferruzzi ai suoi figli. Questi a loro volta regalarono poi Il Moro a Gardini in seguito. Era una imbarcazione ammirata ed invidiata anche dal re di Spagna Juan Carlos di Borbone, che frequentava abitualmente Raul a Palma di Maiorca. Lo stesso Moro sarebbe poi stato protagonista di un’avventurosa Fastnet durante una furiosa tempesta nel 1979, quando Gardini e il resto dell’equipaggio riuscirono a portare a casa la pelle solo grazie al coraggio e alla forza di Vianello, che rimase per ore legato al timone.
Quel Moro fu il precursore dei Mori successivi, dal Moro di Venezia III che conquistò nel 1989 il mondiale maxi con al timone Paul Cayard fino a quelli che in seguito infiammarono la sfida delle sfide: la Coppa America. Una spedizione che Gardini concepì sin dall’inizio non solo come una impresa sportiva, capitanata dalla Compagnia della Vela di Venezia, sempre con Cayard al timone, ma anche come una sfida tecnologica che avrebbe reso Montedison, con i suoi materiali avanzati impiegati nella realizzazione dello scafo, ancor più famosa nel mondo. Tant’è che Italo Trapasso, che era a capo della chimica del Gruppo, fu nominato da Gardini Vicepresidente del Sindacato de “Il Moro di Venezia”.
Il primo Moro di Coppa America fu varato nel marzo 1990 a Venezia. Fu un evento fastoso con tutta la città e centinaia di ospiti illustri presenti; un avvenimento di rilevanza mondiale, trasmesso in TV, la cui regia fu affidata a Franco Zeffirelli, con musiche di Ennio Morricone. Madrina del varo fu la figlia più giovane di Gardini, Maria Speranza.
In quei mesi, avevo aiutato Gardini a curare i dettagli e i decori dei Magazzini del Sale, a Venezia, allestiti appositamente per la sfida alla Coppa America. E insieme lavorammo anche al Libro ufficiale della sfida del Moro di Venezia, che conteneva i bozzetti del leone simbolo del Moro e aveva una copertina lucida rosso carminio con il leone in rilievo.
Una sera a Palazzo Dario, dove abitava quando stava a Venezia, feci ascoltare a Gardini la canzone “Listen to the Lion” del grande cantante irlandese Van Morrison. Musica e testo gli piacquero molto e Gardini decise di inserirne le parole, che parlavano dei viaggi per mare dei vichinghi verso l’America, subito all’inizio della pubblicazione. La stessa canzone divenne uno dei motivi musicali ufficiali del Moro, le cui imprese venivano trasmesse tutti i giorni da Tele Montecarlo, con commentatori tecnici d’eccezione come Cino Ricci, già protagonista della precedente sfida italiana in Coppa America di “Azzurra”.
Nel 1992 il Moro di Venezia vinse la Louis Vuitton Cup battendo la Nuova Zelanda e si guadagnò così il diritto a disputare la finale di Coppa America a San Diego contro gli americani. Timonato da Paul Cayard, Il Moro eliminò in semifinale Francia e Giappone e in finale sconfisse i neozelandesi, divenendo così la prima imbarcazione di un paese non anglofono a poter ambire alla coppa in 141 anni di storia del trofeo.
Nella sfida finale contro il defender, disputatasi sempre a San Diego, il Moro però fu sconfitto per 4-1 dall’imbarcazione americana del miliardario petroliere americano Bill Kock, “America Cube”, capitanata da Harry Buddy Melges. Fu una grande delusione ma era stata comunque una straordinaria avventura, che aveva fatto innamorare tutti gli italiani inchiodati davanti alla tv di uno sport come la vela e reso Gardini estremamente popolare.
La fase finale di quell’avventura era cominciata esattamente un anno prima, nell’estate del 1991, con il campionato mondiale degli scafi di Coppa America, disputatosi anch’esso a San Diego. Gardini volle che lo accompagnassi. Stavo in hotel a dormire ma vivevo praticamente tutto il resto della giornata con Raul a bordo del suo yacht. Per ingannare il tempo e anche per stemperare un po’ il nervosismo in attesa delle gare, scrivevamo appunti sui materiali avanzati e sulle tecnologie di Montedison impiegate sul Moro in vista della pubblicazione di un vero e proprio documento aziendale sull’argomento. Il marinaio Angelo talvolta preparava qualcosa da bere o da mangiare e si univa a noi, prendendoci in giro e dicendoci di smettere di lavorare.
Durante le regate salivano a bordo dello yacht d’appoggio diversi parenti ed ospiti e poi seguivamo tutti insieme con trepidazione le competizioni in mare aperto, con la nostra imbarcazione a motore ferma ma paurosamente ondeggiante nella marea lunga del Pacifico, mangiando di continuo banane per combattere il mal di mare e non sentire l’odore acre del carburante. Gardini di tanto in tanto prendeva un piccolo motoscafo e raggiungeva il Moro per trasferire a Cayard e compagni tutta la sua determinazione e il suo incoraggiamento.
Alla fine, il Moro vinse quel mondiale, dimostrandosi superiore come imbarcazione ed equipaggio a tutti gli altri contendenti. L’avvicinamento alla sfida di Coppa America era cominciato nel migliore dei modi. Ricordo molto bene Gardini e Cayard, durante la premiazione, raggianti, circondati da tutti i membri della squadra del Moro. E fu un’emozione da brivido quella sera, rientrando tardi in hotel, ascoltare sul lungomare di San Diego gli altoparlanti in festa che diffondevano ancora a tutto volume “Listen to the Lion”, con la voce di Van Morrison che ruggiva proprio come il nostro leone di Venezia. Marco Fortis
“Decido io”, Raul Gardini trent’anni dopo. Filippo Tabacchi su L'Identità il 22 Luglio 2023
“Decido io”, diceva e così fece anche quella mattina di trent’anni fa, alle 8:15 del mattino, quando una calda Milano aveva appena bevuto il caffè e stava ancora sonnecchiando. Si sparò alla tempia con la Walther PPK, la pistola di James Bond e in fondo lui un po’ Bond lo era stato, avventuriero e con una vita avventurosa, sempre impeccabile nel vestire, iconico sapendo di esserlo. Ma Bond non muore mai, Raul invece era morto per davvero. Il provinciale di Ravenna, Il Contadino, arrivato a Piazza Affari dopo scalate ostili, sempre all’ attacco, sempre davanti alle sue truppe, sempre in prima fila, sempre contro tutto e tutti anche quando non era così ma a lui serviva essere così, un carro armato, fermato da un colpo di 7.65 alla tempia, A Palazzo Belgioioso esattamente trenta, lunghissimi anni fa. Era già ricco, di una famiglia di campagna che aveva il proprio capitale nella terra emiliana, laboriosa e poco godereccia, senza i lussi che la borghesia contadina fatica appunto a concedersi . Ma lui voleva di più, non voleva tutto, non gli bastava tutto, ma sempre di più e non si trattava solo di quattrini. Entrò giovane nel Gruppo Ferruzzi, una creatura strana creata da suo suocero Serafino, un genio con lo sguardo furbissimo e i baffetti bianchi che era partito vendendo per i paesini oli e sementi con la bicicletta ed era diventato il leader più grosso gruppo agroalimentare italiano e uno dei players mondiali, arrivando a possedere terre ed impianti anche negli USA. Ma Raul volava di più, voleva essere il, numero uno tra i numeri uno, primus e basta senza inter pares. Morto Serafino nel 79 in un disastro aereo, le figlie e il figlio di Ferruzzi gli diedero le deleghe operative del gruppo e lui scateno una tempesta, che sconvolse il cosicdetto salotto buono della finanza italiana , che non lo digerì mai e di cui lui non si sentiva parte parte ma sapeva che si sarebbe dovuto sedere con quelli che lui considerava degli elefanti invecchiati in una savana chiusa da sempre. Cercò l’ alleanza con chi dava le carte , quel croupier e padrone del casinò che era il dominus di Via dei Filodrammatici ovvero Cuccia, vero padrone del capitalismo italiano, come l’ Innominato di manzoniana memoria il quale non rispondeva a nessuno tranne che a se stesso. L’ accordo ci fu, poi si ruppe rovinosamente ,poi lo ottenne ancora e alla fine il giocattolo si ruppe. Acquisì Standa, La Fondiaria, Il Messaggero, migliaia di immobili, investimenti miliardari nello sport, scalò la Montedison contro il parere di tutti e allora il Vecchio si arrabbiò davvero senza battere ciglio. Immaginò di creare il più grande colosso agro alimentare industriale del mondo, partecipando alla creazione dell’ Enimont, una joint venture con l’ Eni come socia al 40% ed il restante 20% flottante in Borsa, ma pensava già da mesi come accaparrarsi la maggioranza assoluta. Decido io, la chimica sono io, disse a Padova. Ma il colosso pubblico – privato aveva le fondamenta di argilla e i partiti non si sarebbero fatti sfilare la chimica da sotto il culo e comincio un’ altra guerra che lo portò alla rovina, era una battaglia persa in partenza e Raul pensava che pagando , a carissimo prezzo, l’ avrebbe portata a casa anche stavolta. Il gruppo era carico di debiti e quando in piena Tangentopoli, il procuratore Borrelli disse un giorno ” abbiamo acceso un faro su Mediobanca”, il salotto buono capì subito e qualcuno cominciò davvero a preoccuparsi. Il faro non illuminò mai quella direzione e spostò la sua luce accecante sull’ anello debole del capitalismo italiano, il Gruppo Ferruzzi, la sua obesità di quattrini spesi e quella voragine di debiti con le banche. La famiglia gli tolse le deleghe, lui ricevette una cifra mostruosa pari 505 miliardi cash per togliersi dalla palle: era diventato ricco oltre ogni immaginazione ma aveva perso. La sconfitta fu bruciante e non si riprese mai. Tentò di distruggere la sua creatura ma non ci riuscì e una pallottola trent’ anni fa mise fine a quel sogno proibito, alla vita di quell’ imperatore ravennate che era ad un passo dal diventare un Dio ma che cadde come Icaro, accecato non dal sole ma dalla sua stessa figura. Ci piace ricordarlo al timone del Moro di Venezia, il suo ultimo grande sogno, col suo berretto e i suoi abiti bianchi, quel miliardo di Winston fumate e spente e accese, una dietro l’ altra, quel sorriso da eterno ragazzo che ammaliò l’ Italia intera. La sua storia dovrebbe essere raccontata più approfonditamente, come forse, molto forse farà la docu fiction su Rai1 in onda stasera, ma il suo ricordo sarà impossibile da dimenticare, mai oblio ci sarà . Non abbiamo più visionari nel nostro paese ma solo personaggi che pensano a domattina e non ai prossimi dieci o venti anni. Amo il vento, diceva. Aveva ragione.
Personalmente sono dell’idea che la vita debba essere vissuta fino in fondo e non per finta, anche se talvolta c’è da farsi venire il mal di stomaco.»
Raul Gardini moriva trent’anni fa: nascita e crollo di un impero che ha cambiato Ravenna. L’impatto sull’economia, i palazzi del centro, il Pala De André, lo scudetto del Messaggero volley. La mattina del giorno di Sant’Apollinare del 1993 la notizia del suicidio dell’imprenditore. La nautica, una delle grandi passioni dell’imprenditore Raul. CARLO RAGGI il 23 luglio 2023 su ilrestodelcarlino.it.
"Non ti dimenticheremo", una promessa, un impegno, di più, un imperativo, vergato centinaio di volte nei quadernetti sui tavolini dentro San Francesco, molti con calligrafia incerta, semplice, a testimoniare come Raul fosse sentito come uno di loro anche dalle classi sociali che nulla avevano a che spartire con il potere economico.
Lo disse bene Cristina Muti: "Abbiamo perso uno di noi, un fratello di tutti". Perché in realtà Raul Gardini, per i ravennati doc, era rimasto ‘il contadino’ di sempre, che giocava a carte, andava a caccia, aveva la passione per le barche e la velocità.
Anche quando le sue imprese a livello internazionale riempivano ogni sera i telegiornali, ogni mattina i quotidiani. Quando quella mattina del giorno di Sant’ Apollinare di 30 anni fa si diffuse la notizia che si era tolto la vita, a Milano, moltissimi ravennati accorsero a Marina, davanti al Gran Hotel, luogo di abituale dimora estiva per Idina, la moglie. Solo poche ore prima si erano salutati a Milano e l’appuntamento era per l’indomani e invece poco dopo le 8 arrivò la tragica notizia. Una moltitudine silenziosa, addolorata, incredula, peraltro già scossa da mesi, da quando quotidianamente l’impero Ferruzzi stava precipitando dalle stelle della finanza e dell’economia mondiale alla polvere dei ribassi borsistici e dell’inchiesta giudiziaria.
Una testimonianza sincera di solidarietà, una moltitudine che si ampliò a dismisura alla domenica, alla camera ardente in San Francesco e nel pomeriggio di lunedì 26 luglio quando si svolsero i funerali. Una testimonianza che voleva essere anche un riconoscimento per i traguardi raggiunti da Gardini negli undici anni in cui era rimasto alla guida del Gruppo Ferruzzi (fino al novembre 1990) e che enormi ricadute positive avevano avuto sull’economia ravennate e, quindi, sull’occupazione per moltissime persone: a Ravenna i dipendenti del Gruppo raggiunsero quota milleduecento. Che inevitabilmente adesso temevano per il futuro. Ripercorriamo, allora, in questo trentennale da quel tragico sparo (indotto in Raul dall’inaccettabile consapevolezza di essere in un vicolo cieco per il fatto che gli era impedito di accedere ai documenti societari per la propria difesa), gli anni della costruzione dell’impero, i cui confini andavano dall’Europa agli Usa all’Argentina.
Un impero le cui fondamenta venivano da lontano, dagli anni del dopoguerra: Serafino Ferruzzi, senza conoscere una parola di inglese, divenne uno dei più importanti imprenditori del commercio mondiale dei cereali, con base a New Orleans, città che gli conferì anche la cittadinanza onoraria. E quando negli anni Sessanta accolse il giovane Raul, fidanzato con la giovanissima figlia Idina, nelle file di quell’impero, ben pochi a Ravenna ne conoscevano l’estensione, la portata finanziaria. Furono scoperte dopo la tragica morte di Serafino, la notte del 10 dicembre 1979 quando l’aereo su cui stava rientrando da Londra si schiantò contro un mulino alle porte di Forlì, cinque le vittime.
Fu allora che la famiglia Ferruzzi consegnò lo scettro del comando a Raul. Il quale rivoluzionò la gestione puntando, con non poco azzardo, sulle mirabolanti azioni finanziarie e acquisizioni societarie per poter raggiungere comunque gli obiettivi che aveva in testa, obiettivi diversificati, dalla produzione e trading dei cereali al calcestruzzo, dallo zucchero all’olio di semi, e poi la chimica con la grande scommessa sul bioetanolo, ricavato dalla soja, "il carburante verde del futuro".
Per quanto Serafino amasse restare nell’ombra, così non fu per le iniziative, spesso clamorose, del Gruppo Ferruzzi guidato da Gardini. Iniziative anche benefiche e locali, come nel 1982 il lancio di una sottoscrizione a livello cittadino per l’acquisito della prima Tac per l’ospedale di Ravenna: entrò in funzione nel novembre ‘83. Mese dopo mese i ravennati si accorgevano che il volto della città stava cambiando, a cominciare dal cantiere a palazzo Prandi, in via D’Azeglio, che Gardini acquistò e fece ristrutturare per farne residenza e luogo di rappresentanza, un palazzo sempre più frequentato da nomi illustri della borghesia imprenditoriale italiana dell’epoca, da Agnelli a De Benedetti, da Romiti a Cefis: eravamo alla fine degli anni 80, quando Gardini iniziò la scalata alla Montedison.
Via D’Azeglio venne presto occupata dalle grosse auto di rappresentanza, Mercedes grigie o nere con i vetri fumé e l’antenna del radiotelefono (a Ravenna a disposizione dei manager se ne contava una trentina) condotte da autisti guardiaspalle armati addestrati alle tecniche antisequestro (che sfrecciavano nelle corsie riservate a bus e mezzi di soccorso). E non mancava la Ferrari F 40 di Carlo Sama, il cognato di Raul che nel frattempo era andato ad abitare nell’edificio ristrutturato in angolo a via Pasolini davanti a palazzo Prandi. Un altro cantiere già era spuntato in via Guerrini per la costruzione del ‘palazzo di vetro’ dove trovò sede la Calcestruzzi guidata da Lorenzo Panzavolta e a inizio 1990 in via Diaz fu la volta della ristrutturazione del palazzo che aveva ospitato prima l’Upim poi la Rinascente e che divenne la sede della Ferfin (Ferruzzi Finanziaria, la holding) un Gruppo che valeva 25mila miliardi di lire.
In quel tempo Gardini trasferì la residenza a villa Monaldina, un casolare di campagna appena ristrutturato, sulla strada per Punta Marina e lì atterrava con l’elicottero. Nel 1987 Raul Gardini acquisì la maggioranza delle azioni di Montedison e con essa si ritrovò in tasca l’allora primo quotidiano di Roma, il Messaggero che, passati due anni, nel dicembre ‘89 sbarcò a Ravenna con una frotta di giornalisti e una redazione in via Salara vicina a quella del Carlino. Seguì l’apertura di altre tre redazioni in Romagna. Tutte le edicole furono monopolizzate dal nome ‘Messaggero’ e lo stesso nome comparve sulle magliette dei pallavolisti ravennati.
Gli appassionati di volley non potranno mai dimenticare lo scudetto del Messaggero Volley Ravenna conquistato il 30 maggio 1991 al ‘Pala Mauro de Andrè’ il Palazzo dello sport e delle arti voluto da Raul (e da Sama) e che porta il nome del figlio del manager della Ferruzzi (a capo di Eridania), Giuseppe, costruito fra il 1988 e il 1990. L’espansione del Gruppo Ferruzzi indusse le banche collegate alle attività finanziarie delle centinaia di società controllate ad aprire sedi a Ravenna. Questo significò altra occupazione con ulteriori ricadute per gli esercizi commerciali di qualità e per bar e ristoranti. L’apice fu raggiunto nel 1990 con la nascita di Enimont, matrimonio fra Montesidon ed Eni, la più grande impresa pubblico - privata sul fronte della chimica a livello italiano.
"La chimica sono io" disse Raul, ma poi dovette cedere ai ricatti dei politici e alle imposizioni della famiglia.
Vendette le azioni Enimont possedute dal Gruppo con un ritorno di 2.805 miliardi di lire, poi a novembre ‘90 le dimissioni dal Gruppo e il 30 giugno ‘91 il divorzio dalla famiglia.
Gli rimase l’impresa nella Vuitton Cup - Coppa America a maggio ‘92 a San Diego e la grande festa in piazza del Popolo. A gennaio ‘93 ecco il coinvolgimento del Gruppo in Tangentopoli con l’arresto di Panzavolta. A luglio, il colpo di pistola.
Nel giro di pochi mesi il Gruppo Ferruzzi fu commissariato e smembrato, tutte le società lasciarono Ravenna, così anche le banche, Il Messaggero chiuse la redazione. Il velo calò, definitivamente, sull’impero evaporato.
Dagospia sabato 22 luglio 2023."LA GARANZIA DI GARDINI PER LA SCALATA A MONTEDISON FU L’IMPERO DI SERAFINO FERRUZZI" – IL RACCONTO DI SERGIO CUSANI, CONSULENTE FINANZIARIO DI RAUL, CHE FINI’ IN CARCERE LO STESSO GIORNO (23 LUGLIO 1993) IN CUI IL CAPITANO D’IMPRESA DI RAVENNA SI SUICIDO’ – "QUANDO GARDINI DIVENTO’ L’AZIONISTA PIÙ IMPORTANTE DI MONTEDISON, CHIESERO ALLA BANCA DUEMILA MILIARDI DI LIRE. OVVIAMENTE LASCIANDO IN GARANZIA LE AZIONI MONTEDISON. PER QUALSIASI ALTRA PERSONA AVREBBERO CHIAMATO LA NEURODELIRI, IN QUEL CASO LE BANCHE SAPEVANO BENISSIMO CHE C’ERANO PIÙ DI 1.200 MILIARDI DI LIQUIDITÀ LASCIATI DA SERAFINO FERRUZZI ALL’ESTERO..."
Trent’anni fa Raul Gardini si toglieva la vita con un colpo di pistola nella sua casa di Milano. Era il 23 luglio del 1993, un venerdì. Il capitano d’industria sentiva che gli inquirenti stavano arrivando a lui e si suicidò il giorno dei funerali di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni a sua volta in carcere su richiesta dei magistrati di Mani Pulite. Anche Cagliari, disperato, aveva deciso di farla finita soffocandosi in cella.
Quel giorno finiva a San Vittore anche Sergio Cusani, il consulente finanziario che collaborava da anni con la famiglia Ferruzzi. Gardini aveva potuto portare a termine la scalata della Montedison grazie alle garanzie economiche che l’impero creato dal nulla da Serafino Ferruzzi gli aveva messo a disposizione. Il ruolo di questo grande imprenditore è stato fondamentale.
Perché partendo da Ravenna aveva costruito una realtà dalle fondamenta solidissime, un gigante di grande affidabilità economica. Ferruzzi fu tra i primi a costruire un sistema logistico e di trasporto privato per gestire in autonomia tutta la filiera delle sue attività industriali.
Estratto dell'articolo di Piero Fachin per “QN – Quotidiano Nazionale” sabato 22 luglio 2023.
"Accidenti: abbiamo il 14%", disse Raul Gardini. Era lunedì, il 6 ottobre del 1986, Gardini era insieme a Carlo Sama e parlava al telefono con Umberto Maiocchi, il responsabile Borsa della Banca di Suez Milano a cui aveva affidato il compito di comprare, senza definire né il prezzo né la quantità, le azioni del colosso chimico. Di fatto dava avvio alla scalata non programmata, non studiata, non preparata.
La telefonata, quella telefonata che tanto cambiò di molte storie personali e di un pezzo della storia d’Italia, partiva dall’ufficio di Milano di un giovane manager. Partiva dall’ufficio di Sergio Cusani, proprio quel Sergio Cusani: il dirigente destinato a diventare l’uomo simbolo di Mani Pulite, il principale imputato del processo per la maxi-tangente Enimont, quello che tenne testa ad Antonio Di Pietro e a tutto il pool, il consulente condannato a 5 anni e 10 mesi scontati a San Vittore fino all’affidamento in prova, alla piena libertà, alla completa riabilitazione. L’uomo a cui tutti riconoscono tenacia e coerenza. "Ho le mie colpe, e le colpe restano", disse una volta davanti a una platea di magistrati.
“Sta iniziando male - sostiene Cusani, con voce pacata ma decisa - perché io non voglio partire da questo. Io sono qui solo per ricordare Serafino Ferruzzi, uno dei più grandi imprenditori italiani". Perché senza di lui, senza Ferruzzi, nessuna cosa sarebbe andata come è andata: Gardini non avrebbe mai scalato Montedison e nemmeno Enimont sarebbe mai nata. Parla piano, Cusani. E misura le parole, una a una. Riannoda i pensieri, mette in fila i ricordi fino a commuoversi.
Serafino Ferruzzi, allora. Partiamo da lui, dall’imprenditore di Ravenna. Come vi siete conosciuti?
"Facevo apprendistato da Aldo Ravelli, uno dei più importanti commissionari della Borsa di Milano. Serafino veniva nello stabile dove lavoravo per incontrare un broker navale che aveva l’ufficio vicino a noi e che ci presentò Ferruzzi, che nessuno di noi conosceva".
Prima impressione?
"Bella. Una persona gentile. Garbata. Un bel sorriso. Quei due occhietti con uno sguardo al laser. Soprattutto, una persona curiosa di quello che avveniva nel mondo della finanza. Iniziai ad andare a trovarlo il mercoledì nel suo bugigattolo alla Borsa Merci di Milano, e a dargli la mia opinione sui mercati finanziari".
(...)
Il primo incarico?
"Mi chiama dal Brasile e mi dice: ‘Ho sorvolato (aveva un Bombardier Learjet transoceanico) in Veneto la Torviscosa, una tenuta di 4.500 ettari. I sentieri interpoderali dell’azienda sono asfaltati! Mai vista una cosa così in vita mia in tutto il mondo. Costa 42,5 miliardi di lire, se la rivendessi frazionata ne prenderei minimo 90. Ma non la venderei mai’".
Voleva comprarla?
"Ci sto arrivando: ‘Per domani mattina - mi disse - ti ho fissato un incontro con Enrico Cuccia a Mediobanca. Occupati tu della Torviscosa’. Io per tutta la notte studiai le carte che Ferruzzi mi aveva fatto avere, elaborai una scheda molto sintetica, una paginetta, con cui la mattina alle 11 mi presentai in banca.
Cuccia mi disse: cosa ha preparato per me? Io gli diedi la scheda. Lui commentò: bene, sintetica e chiara. Dica al dottor Ferruzzi che domani avrà a disposizione 42,5 miliardi. Ma lei domani mi farà avere tutta la documentazione alla base di questa scheda. Se ci sarà qualcosa che non corrisponde non dovrà più farsi vedere in questa banca, sarà il portiere a non farla entrare".
(...)
Chi era allora Ferruzzi per l’Italia?
"Uno sconosciuto. Anche se era ritenuto il maggior commerciante privato del mondo di prodotti cerealicoli. Alla borsa merci di Chicago quando entrava suonavano la campanella in segno di omaggio".
Commerciante o industriale?
"Allora commerciava. Ma la sua logica era industriale".
Cosa vuol dire, nel concreto?
"Oggi si esternalizza tutto. A quei tempi, Serafino invece aveva un progetto diverso, allora all’avanguardia. Puntava su logistica, trasporti, silos di stoccaggio. Negli Usa alla foce del Mississippi aveva una enorme struttura di silos, 170 chiatte da mille tonnellate per il trasporto fluviale. Aveva una sua flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico secco. Il più grande armatore privato d’Europa. Serafino voleva il totale controllo della filiera produttiva. Una visione quasi profetica: oggi, in un mondo di guerre e di tensioni, sta ritornando di grande attualità".
(...)
L’ultima volta che lo ha visto?
"Due giorni prima della morte, l’8 dicembre del 1979 a Roma. E per la prima volta con lui c’era il genero, Raul Gardini. Avevo invitato in Italia il più grande produttore di caffè del mondo, un brasiliano di origine turca: Atallà".
Quanto valeva l’impero di Ferruzzi alla sua morte?
"Le stime dicono tre, quattromila miliardi di lire in proprietà. E in più 1.200 miliardi in liquidità, soprattutto all’estero dato che le sue grandi operazioni di trader internazionale erano estero su estero".
Quando entrò in scena Gardini?
"A metà degli anni Ottanta la finanza italiana, e in particolare Mediobanca, premeva affinché il gruppo Ferruzzi – che aveva Gardini come leader assoluto nella gestione – entrasse nel cosiddetto ‘salotto buono’, con una partecipazione del 2 e 3% in Montedison. C’era pressione su Gardini, anche dai giornali. Ricorda i titoli?".
Li ricordi lei.
"Il Corsaro entra in Montedison. L’ora di Raul. Il pirata in azione. Insomma, lo tiravano da tutte le parti perché entrasse. Gardini venne a parlarne con me".
E lei che gli disse?
"Raul, se devi entrare, tu rappresenti il gruppo Ferruzzi. Il mio consiglio è di distinguerti per ciò che rappresenti. Prendi il 4, 5 per cento. Primus inter pares".
Come reagì?
"Mi fece una domanda: tu mi sai spiegare cosa c’è in Montedison? Fammi per favore una scheda, una fotografia della situazione. Io mi misi a lavorare due o tre giorni, gli feci una bella sintesi. Nella nota finale gli dissi: escluso il patrimonio immobiliare, comunque notevole, ha un valore molto superiore a quello di Borsa".
E arriviamo a quel lunedì del 1986, il 6 ottobre.
"Gardini venne da me verso le 11. Aveva appena dato incarico, un ordine aperto non circoscritto, di comprare azioni Montedison alla banca di Suez. Gli chiesi: che ordine hai dato, a che prezzo? Lui disse: ho detto di comprare tutto quello che viene. Poi alzò il telefono, e si mise a dire, con un mezzo sorriso che era anche un mezzo ghigno: "Accidenti". Gli chiesi: "Accidenti cosa?" E lui: "Abbiamo il 14%". Era diventato l’azionista più importante. E non penso assolutamente che i soci Ferruzzi ne fossero informati".
Fine della storia?
"Macché. Andava pagata l’operazione di acquisto. Subito mi attivai con Carlo Sama per fissare un incontro martedì mattina presto con Nerio Nesi, presidente della Banca nazionale del lavoro, con Raul Gardini e Carlo Sama. Chiesero alla banca duemila miliardi di lire. Ovviamente lasciando in garanzia le azioni Montedison".
Ma se la stessa garanzia l’avessimo proposta lei o io?
(Cusani sorride)
"Ci avrebbero cacciato o avrebbero chiamato la neurodeliri perché ci ritenevano pazzi. Ma in quel caso l’impegno era preso da Raul per il gruppo Ferruzzi. Cioè, il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stato la migliore garanzia per l’affare Montedison. Le banche sapevano benissimo quale fosse il patrimonio del Gruppo e che c’erano più di 1.200 miliardi di liquidità lasciati da Serafino Ferruzzi all’estero".
Estratto da Gente giovedì 27 luglio 2023.
Carlo Sama è stato per quasi due decenni al fianco di Raul Gardini, soprattutto in quegli anni 80 che hanno segnato la grande cavalcata del top manager della Ferruzzi, dalla conquista della Montedison alla scommessa di Enimont, dalla creazione di un grande gruppo industriale di portata internazionale alle sfide veliche in Coppa America con il Moro di Venezia. Gardini e Sama avevano sposato rispettivamente Idina e Alessandra, due delle figlie di Serafino Ferruzzi, il fondatore del gruppo (gli altri due figli erano Arturo e Franca).
Le loro strade si erano separate nei primi anni 90, quando ci fu la rottura tra Raul e Idina da una parte e il resto della famiglia dall’altro. Di lì a poco, nel 1993, Gardini, travolto dall’inchiesta Mani pulite, si suicidò. Ora una docufiction, andata in onda domenica scorsa su Rai1, ripercorre parte di questa storia. Ma con una serie di errori e omissioni che Sama stesso, come testimone privilegiato, ha voluto ricostruire per Gente nell’articolo che segue. (u.b.)
Estratti dell’articolo di Carlo Sama per Gente giovedì 27 luglio 2023.
Il docufilm su Raul Gardini è assai criticabile perché, anziché ricostruire la sua vera storia, fornisce di lui un’immagine quasi caricaturale. Il contrasto tra i dialoghi egocentrici, vanesi e logorroici del Raul Gardini fittizio inventato dalla sceneggiatura e le interviste contenute nello stesso docufilm al Gardini reale, uomo schivo e di poche parole, semplici ed efficaci, è abissale. Ne avranno avuta chiara evidenza sin da subito i telespettatori.
La sceneggiatura, inoltre, anziché esplorare le ragioni che hanno prima portato allo straordinario successo mondiale e poi alla crisi del Gruppo Ferruzzi-Montedison e al suicidio di Gardini, si appiattisce sotto forma di una squallida telenovela sui presunti contrasti tra Gardini e gli altri membri della famiglia Ferruzzi: una sceneggiatura che appare evidentemente ispirata esclusivamente dalle testimonianze e dal risentimento, una sorta di vera e propria regia, di ex manager minori espulsi dal Gruppo Ferruzzi nonché degli stessi eredi Gardini.
Nonostante il docufilm contenga alcune testimonianze di notevole valore personale e storico (Muti, Zeffirelli, Cayard, Fortis), esso si riduce perciò nella sua parte sceneggiata e recitata al rango di un mero strumento di gossip di quart’ordine e di vendetta mediatica contro Alessandra (e il sottoscritto, in quanto suo marito), Arturo e Franca Ferruzzi, rei, secondo il docufilm, di “aver tradito” Gardini. Cosa mai avvenuta nella realtà. (…)
Immediatamente all’inizio del docufilm appare un quadro con scritto “Chi ha tradito Raul?” che introduce uno dei temi chiave poi ripetutamente ripreso nel corso del filmato: Gardini sarebbe stato tradito dalla famiglia Ferruzzi, la quale, secondo la sceneggiatura, gli avrebbe fatto mancare il proprio appoggio nei momenti decisivi della sua vita di leader del Gruppo. Si tratta di un falso storico grave, perché la famiglia Ferruzzi non ha mai fatto venir meno il suo totale sostegno a Raul (…) Riguardo a Enimont, va subito detto che la decisione della vendita della quota di Enimont in possesso di Montedison fu presa dallo stesso Gardini in totale autonomia e comunicata solo in seguito agli altri membri della famiglia Ferruzzi.
In un solo caso Arturo Ferruzzi e le sorelle Alessandra e Franca hanno contestato Gardini: in occasione della sua inaccettabile proposta di redistribuzione immediata e totalmente arbitraria delle quote azionarie di controllo del Gruppo Ferruzzi-Montedison tra i figli di Arturo, Alessandra, Franca e Idina, cioè direttamente a favore delle terze generazioni, con grave pregiudizio patrimoniale per le seconde generazioni ancora viventi. È su questo unico aspetto controverso, sul quale Raul Gardini si impuntò in modo ostinato, che maturò la separazione tra la famiglia Gardini e gli altri figli di Serafino Ferruzzi.
(…)
Dal docufilm emerge una contrapposizione netta tra la figura di Gardini, presentato come un genio assoluto degli affari, dell’industria e della finanza, e gli altri membri della famiglia Ferruzzi, fatti passare in modo irriverente per persone senza alcuna competenza professionale e conoscenza del mondo del business, nonché come figure pavide o perennemente dubbiose sulle scelte di Raul. Ciò è estremamente lesivo dell’immagine dei membri della famiglia, in particolare di Alessandra e Arturo Ferruzzi, più volte protagonisti negativi, impacciati o ridicoli, di scene del docufilm. In questi casi, la sceneggiatura rappresenta una distorsione dei fatti storici, strumentale e priva di fondamento. (…)
In realtà, nella storia economica mondiale vi sono ben pochi casi in cui una famiglia (come quella dei Ferruzzi) ha messo a disposizione di un manager (come Gardini) un patrimonio così ingente dandogli pieni poteri su un lunghissimo arco temporale e sostenendolo sempre con coraggio anche in fasi complesse e finanziariamente sfidanti come la scalata di Montedison o le vicende di Enimont.
(…) È indubbio che Gardini sia stato un personaggio straordinario (…). È altrettanto indubbio, però, che Gardini aveva anche dei limiti, come tutti gli esseri umani, e che la sua opera come manager è anche costellata di alcuni errori decisivi che molto hanno pesato sul destino del Gruppo Ferruzzi e di cui il docufilm non parla affatto. Innanzitutto, dopo la scalata di Montedison, Gardini non si preoccupò minimamente di ridurre l’indebitamento della Ferruzzi. (…) Gardini non si rivelò, in Montedison, un amministratore e un ristrutturatore efficace come lo era stato in Ferruzzi, dove i suoi manager storici erano di ben altro livello e lo avevano sempre supportato con successo. Tuttavia, ciò premesso, curiosamente e in modo assolutamente ridicolo, in alcune scene conclusive del docufilm è invece Gardini a rinfacciare agli ex famigliari di Ferruzzi di non aver venduto degli asset non strategici in epoca successiva in modo da ridurre l’indebitamento!
(…)
In un’altra sequenza, di fronte all’opportunità di comprare o vendere la quota detenuta da Montedison in Enimont la sceneggiatura si immagina una riunione tra Gardini e i membri della famiglia Ferruzzi in cui questi ultimi vogliono vendere la quota e mettono in minoranza Raul che invece vorrebbe comprarla. Gardini si mostra adirato con i famigliari a cui rinfaccia che “era un rischio che si doveva correre”. Si tratta di una riunione in realtà mai avvenuta perché la decisione di uscire da Enimont fu presa direttamente da Gardini in totale autonomia e comunicata solo successivamente ai membri della famiglia. Non solo. A essi Gardini comunicò anche che intendeva dare le dimissioni da presidente del Gruppo e da tutte le cariche da egli ricoperte in Italia, in segno polemico verso il sistema politico italiano che lo aveva messo con le spalle al muro sulla vicenda Enimont. E i famigliari furono altresì informati che la presidenza del Gruppo sarebbe stata presa da suo figlio Ivan. (…)
Maturò in seguito anche la decisione di Gardini di redistribuire le quote di controllo del Gruppo Ferruzzi detenute dai quattro figli di Serafino ancora viventi direttamente ai loro figli, mantenendo Ivan Gardini nel ruolo di presidente della Ferruzzi. Si trattò di un piano forzato, una proposta di esproprio a dir poco rocambolesca, che non poteva evidentemente trovare d’accordo Arturo, Alessandra e Franca. L’ostinazione di Gardini nel portare avanti a tutti i costi questo assurdo piano, senza lasciare ai parenti alcuna alternativa, generò la rottura con gli altri membri della famiglia. (…)
Un’altra grave distorsione della storia è rappresentata da come si raccontano le vicende del Moro di Venezia. (…) Nel docufilm gli sceneggiatori cercano di dimostrare che se il Moro non è riuscito a vincere la finale di Coppa America è per colpa dei membri della famiglia Ferruzzi che non avrebbero concesso a Gardini ulteriori finanziamenti per costruire una imbarcazione tecnologicamente più avanzata e all’altezza della sfida finale. Vi è addirittura una sequenza del tutto inventata in cui Gardini incontra Arturo Ferruzzi per chiedergli altre somme di denaro da investire nel Moro ma Arturo gliele nega a male parole. La Montedison ha invece profuso ogni energia per sostenere l’avventura di Gardini nell’America’s Cup: 160 miliardi di lire solo di sponsorizzazione, oltre a decine di milioni di dollari direttamente dal patrimonio degli eredi Ferruzzi. (…)
Invece gli sceneggiatori del docufilm sono riusciti a creare un falso storico, totalmente assurdo, secondo il quale Gardini fu lasciato finanziariamente solo ad affrontare la finalissima.
(…) Appare quindi evidente una volta di più che la sceneggiatura del docufilm è principalmente imperniata su una denigrazione reiterata della famiglia Ferruzzi, che avrebbe costantemente “tradito” la fiducia di Gardini. (…)
Infine, anche nelle vicende finali di Enimont e dell’inchiesta giudiziaria a esse collegata, il docufilm non perde l’occasione per far passare Gardini come una “vittima” che non ha potuto difendersi dalle accuse dei magistrati perché “già fuori dal gruppo”. Come se non avesse presa lui stesso, prima della separazione dai famigliari, la decisione di vendere Enimont.
...evidentemente male informata lei stessa dal marito, dichiara in un passaggio del docufilm che io e Sergio Cusani non avevamo dato a Gardini la documentazione per potersi difendere, cosa totalmente falsa perché eravamo regolarmente in contatto e l’abbiamo sempre supportato, offrendogli perfino la totale disponibilità per la copertura delle sue spese legali da parte del Gruppo.
(…) In definitiva. Il docufilm ha perso la grande occasione per raccontare il Gardini “vero”, l’imprenditore, il sognatore, il velista, coi suoi successi e i suoi errori, dipingendolo invece come un vincitore mancato per colpa di una inesistente e costante congiura dei famigliari ai suoi danni. Il docufilm, cioè, è riuscito nella vergognosa impresa di dipingere Arturo, Alessandra, Franca Ferruzzi e il sottoscritto, come i principali responsabili di un destino conclusosi male, quello di Raul Gardini, che è invece sempre stato esclusivamente, nel bene e nel male, nelle sue mani. Carlo Sama
Estratto dell'articolo di Carlo Annese e Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera – Sette” lunedì 28 agosto 2023
Sotto il pergolato di un antico palazzo del centro di Ravenna si ritrovano Eleonora, Ivan e Maria Speranza, figli di Raul Gardini. È la loro storica casa di famiglia. Dall’altra parte della strada, dietro un anonimo portone in legno, spuntano Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi, marito e moglie, che un tempo abitavano qui stabilmente.
Gardini-Ferruzzi, la dynasty romagnola, due nomi celebri di una città che grazie a loro è stata per un ventennio capitale mondiale dell’agroindustria e pure della vela. Fra i dirimpettai c’è solo una striscia d’asfalto, via Massimo d’Azeglio, ma è come se ci fosse un muro invalicabile. Perché questi parenti stretti non si parlano proprio. E non da ieri: sono trent’anni.
Da quando cioè la mattina del 23 luglio del 1993 Raul Gardini decise con uno sparo di mettere la parola fine alla sua esistenza diventando per questa terra un po’ un mito. I Gardini videro delle responsabilità morali nei Ferruzzi per aver dato, due anni prima, il benservito al condottiero di mille battaglie che aveva fatto del loro gruppo industriale un impero di dimensioni mondiali.
E i Ferruzzi tacquero scuotendo la testa, come a dire, cari nipoti voi non sapete tutta la verità. Le famiglie rimasero ancorate alle loro posizioni, ciascuna con le proprie ragioni. Una fermezza assoluta. Nessun dialogo, nessun saluto, solo un interminabile silenzio.
Carlo Sama, a lungo braccio destro di Gardini, poi diventato suo cognato e infine amministratore delegato del gruppo dopo il siluramento del grande capo, vive oggi fra il Sudamerica, dove ha terre e allevamenti, Montecarlo, Formentera e Ravenna, la città che lo ripudia considerandolo un traditore.
(...)
Dottor Sama, qual è dunque la sua verità?
(...) «Gardini fu certamente il più audace e genuino di quei tempi. E, forse, il tentativo di realizzare imprese industriali di grandi dimensioni l’ha portato in seguito su terreni troppo infidi e dannosi per lui stesso e per il gruppo Ferruzzi, la cui stabilità fu messa gravemente a rischio».
(...) Dopo la rottura della famiglia con Raul e Idina avevamo scoperto che i conti del gruppo Ferruzzi Montedison non erano in ordine».
In che senso?
«C’era per esempio da sistemare la coda di una folle operazione internazionale speculativa sulla soia della fine degli Anni 80, che aveva prodotto per il nostro gruppo un’ingentissima perdita al Chicago Board of Trade, il più importante mercato di Borsa al mondo per le materie agricole.
Fu un’operazione decisa da Gardini e da lui affidata al dirigente del gruppo Ferruzzi Montedison di Parigi, Roland Gagliardini, con la facoltà incondizionata di operare. Praticamente gli fu data carta bianca. Questa operazione speculativa costò ufficialmente al gruppo 100 miliardi di lire».
Roberto Michetti, uno dei manager storici del gruppo, che rimase con Gardini fino alla fine, dice che «in realtà la perdita fu due tre volte superiore e la differenza finanziata con artifizi contabili». È così?
«Per noi era anche molto più alta. Denaro poi pagato attingendo in gran parte al patrimonio estero della famiglia Ferruzzi, l’eredità cioè lasciata da Serafino ai quattro figli dopo la sua tragica e prematura morte del 1979. Serafino operava in tutto il mondo ed era sicuramente l’imprenditore più globale che all’epoca ci fosse in Italia.
(...)
Oltre al buco di Chicago, quali altre irregolarità trovò nei conti?
«Ce n’erano diverse. In quel momento restava ancora da far fronte alla Coppa America di vela, sulla quale Gardini aveva puntato molto. In base agli accordi, doveva costare alla Montedison circa 200 milioni di dollari e invece costò molto di più. All’esborso ufficiale della Montedison bisogna aggiungere il denaro prelevato sempre dal patrimonio di famiglia dei fratelli.
Ma poi ci sarebbe da ricordare la vendita praticamente fittizia di Fondiaria e altro ancora. Tutte operazioni che avevano drammaticamente appesantito le due holding familiari che controllavano il gruppo Ferruzzi e prosciugato il patrimonio liquido lasciato in eredità ai propri figli da Serafino. È a questo punto che Berlini si inventò il sistema di “back to back” utilizzando i fondi della Montedison». (Si tratta di depositi in banca fatti a garanzia di finanziamenti da erogare a determinati beneficiari, ndr).
È il sistema utilizzato anche per pagare le tangenti ai politici?
«Già».
Di fronte a questa situazione lei cosa fece?
«Ho cercato di porre le basi per una radicale ristrutturazione del gruppo. (...)
Il progetto non fu mai realizzato, perché?
«Perché Mediobanca e i suoi alleati intervennero, dato che volevano ad ogni costo gestire la ristrutturazione del gruppo Ferruzzi, ma a modo loro. Nel giugno del 1993 decisero, quindi, con applicazione immediata, l’improvviso blocco di tutti i conti correnti, attivi e passivi, delle principali società del nostro gruppo. I fratelli Ferruzzi furono messi all’angolo e praticamente obbligati a firmare in esclusiva a Mediobanca il mandato di ristrutturazione del gruppo Ferruzzi.
Ma Mediobanca non ristrutturò nulla, il suo fu un piano di liquidazione del gruppo e un esproprio della famiglia Ferruzzi. Io mi impegnai così, insieme con mia moglie Alessandra Ferruzzi, per evitare il fallimento della Serafino Ferruzzi, già richiesto dalle banche, che avrebbe coinvolto e travolto non solo le famiglie dei fratelli Ferruzzi, ma anche la famiglia di Raul Gardini, che aveva preteso in pagamento della sua buonuscita e quella della moglie Idina Ferruzzi azionista con il 23% del gruppo Ferruzzi: 505 miliardi di lire.
Insomma, con grande fatica abbiamo impedito il fallimento della Serafino Ferruzzi, che sarebbe stato un disastro economico, finanziario, ma soprattutto un disonore indelebile per un gruppo che era stato il primo al mondo nelle produzioni di soia, nel polipropilene, nelle penicilline, leader in Europa nello zucchero, nell’amido, negli olii eccetera... 30 mila dipendenti».
(...)
Com’è nata la supertangente Enimont, la cosiddetta madre di tutte le tangenti?
«Fu una tangente anomala, perché pagata dal gruppo Ferruzzi non per intrecciare rapporti d’affari con la politica ma per non averne più dopo aver ceduto Enimont ai partiti. Fu una specie di liquidazione una tantum, decisa da Raul Gardini un pomeriggio a casa sua, a Milano.
A quell’incontro erano presenti il vicepresidente della Banca Commerciale Italiana e custode giudiziario delle azioni Enimont sotto sequestro, deciso dal giudice Curtò, risultato poi corrotto dall’Eni, e il presidente della stessa Banca Commerciale Italiana. Valutarono che al sistema politico servivano almeno 100 miliardi di lire per tutti i costi annessi e connessi, commissioni agli intermediari comprese.
L’obiettivo di Gardini, come disse lui stesso, era difendere il fatturato del Gruppo Ferruzzi Montedison, più di 30 mila miliardi di lire, rimasto alla famiglia Ferruzzi dopo la cessione di Enimont all’Eni. I rapporti con i rappresentanti della politica erano gestiti direttamente da lui in prima persona».
Lui gestiva e gli altri comunque eseguivano, compreso lei. Fra i misteri di Mani Pulite c’è la tangente pagata a Botteghe Oscure. Ce lo svela?
«Io ricordo la famosa cena all’hotel Hassler di Roma con i vertici del Partito comunista, per discutere il tema della defiscalizzazione degli apporti Montedison in Enimont. Avevamo avuto vari incontri con Andreotti, De Mita e gli altri. E a quella cena Raul e io incontrammo Occhetto e D’Alema. Era finalizzata a verificare che il partito mantenesse l’impegno di trasformare il decreto in legge e che la defiscalizzazione ne fosse parte integrante».
D’Alema disse che la cena fu in realtà un caffè e che non si parlò di soldi
«Berlini racconta che ha dato un miliardo di lire, consegnati da Gardini stesso a Botteghe Oscure. Io non so a chi li abbia poi portati. Ma certamente durante la cena emerse che se c’era un contributo da dare, Raul non si sarebbe sottratto».
La cena all’Hassler era propedeutica alla tangente?
«Uno più uno fa due. Questa operazione fu condotta personalmente da Gardini. A fare da tramite era stato comunque il manager Panzavolta, che aveva rapporti con quel partito».
Perché si è suicidato Raul Gardini?
«Raul quel giorno avrebbe dovuto essere arrestato, come successe a me. Sulle vicende relative alla gestione del gruppo Ferruzzi Montedison, lui non diceva niente a nessuno in famiglia. Tant’è che la moglie Idina, così mi raccontò dopo, apprese per la prima volta da Raul dello stato reale del gruppo solo il giorno prima. Era a Ravenna e lo raggiunse a Milano il 22 di luglio, dopo che erano state diffuse notizie sul primo interrogatorio dell’ingegner Giuseppe Garofano – presidente di Montedison, subentrato a Gardini – che pareva stesse scaricando le responsabilità della gestione finale di Enimont su Raul».
Idina apprese in quell’occasione delle tangenti?
«Anche delle tangenti. Dopo il suicidio Idina era venuta in viaggio con noi in Argentina, a Cuba, era spesso a casa mia a Roma. E poi siamo stati insieme in molte altre occasioni... Ricordo benissimo quando Raul ed io avevamo avuto una brevissima conversazione all’annuncio del suicidio in carcere a San Vittore, tre giorni prima di quello di Raul, dell’ingegner Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni. Mi disse: “È morto da eroe”. Il tono di voce tradiva una potente emozione per questo tragico e drammatico gesto».
Quale fu la reazione di Idina?
«Mi raccontò che rimase senza parole e lo accusò di aver creato un sistema di tensione con i suoi fratelli e la famiglia, di averla in un certo senso ingannata».
Gardini con il suo gesto ha voluto forse salvare la famiglia, dice l’avvocato De Luca che lo difendeva. In più era preoccupato perché lei e Sergio Cusani non gli davate i documenti per potersi difendere
«Non è vero. Ricordo che in un incontro con Raul proprio presso lo studio di De Luca, Raul mi chiese questi documenti che non aveva e io glieli feci consegnare immediatamente».
Forse lui intendeva documenti di dettaglio, per sapere quanto era stato pagato e a chi, non crede?
«Noi gli avevamo dato quello che avevamo».
È vero che nella primavera del 1993, dopo il clamoroso divorzio familiare, chiese a Gardini di tornare nel gruppo per cercare di rilanciarlo e gli offrì le dimissioni?
«Sì, è vero, ed era un progetto elaborato con Goldman Sachs. Si chiedeva a Gardini e a Sergio Cragnotti di entrare nel capitale sociale della holding di famiglia Serafino Ferruzzi con il loro patrimonio. Mi riferisco alle liquidazioni di entrambi che ammontavano più o meno a circa 700 miliardi di lire dell’epoca che avrebbero consentito una ricapitalizzazione a cascata del nostro sistema societario».
E lui?
«Raul si prese 24 ore di tempo per decidere e mi disse che il giorno dopo avrebbe dovuto incontrare Luigi Fausti, il nuovo presidente della Banca Commerciale. Attraverso Fausti voleva vedere Cuccia e Maranghi di Mediobanca, probabilmente per anticipare loro del suo ritorno nel gruppo Ferruzzi. Venni a sapere successivamente che Fausti disse chiaramente a Gardini che Cuccia e Maranghi non desideravano incontrarlo. Sono certo che questo fu un durissimo colpo per Gardini».
Sua moglie Alessandra, in una lettera pubblicata di recente, è stata molto dura con Raul. Scrive che non avrebbe potuto nulla senza suo padre Serafino. Non è un po’ eccessiva?
«Alessandra ha solo risposto al fuoco nemico, nel momento in cui si è detto che i Gardini erano più ricchi dei Ferruzzi che è falso... La verità è che alla fine Raul avrebbe voluto sostituirsi a Serafino. Guardi, c’è l’agendina sua personale che svela molti segreti. Il 7 ottobre 1990, scrive di suo pugno: “Decisione di chiudere, di essere Ferruzzi. Da ora in avanti per me e per i miei figli c’è solo da rimettere. Perché questo? Perché ora le cose si possono considerare come se fossero in ordine. Così come piaceva ai vecchi. Da questa posizione, per muovere verso un nuovo ordine ci vuole la gente e la voglia, e quindi l’età”.
Molto prima che si concludesse la joint-venture Enimont stava quindi già lavorando a un progetto di ripartizione del capitale per numero di figli e voleva trasformare il Gruppo Ferruzzi in Gruppo Gardini. Così Gardini avrebbe fatto dimenticare Serafino Ferruzzi».
Lei non ha mai avuto la tentazione di sostituirsi a Gardini?
«Mai».
Dopo trent’anni i Gardini e i Ferruzzi non si parlano ancora. E queste parole forse non aiutano. A quando la riconciliazione?
«È un mio grande desiderio. A questo punto, dopo tutto ciò che è accaduto di drammatico e doloroso, prego Dio che almeno i nostri figli – quelli di Alessandra e miei, di Arturo ed Emanuela, di Idina, di Raul, di Franca e Vittorio – che ormai sono tutti grandi e a loro volta sono diventati genitori, riescano finalmente a parlarsi tra di loro in modo franco, rispettoso, amorevole.
Anche per sapere e capire finalmente cosa sia davvero successo alla nostra famiglia e al nostro gruppo imprenditoriale creato dal loro nonno Serafino Ferruzzi. E aggiungo: carissimi ragazzi, è arrivato il momento di ricercare con coraggio la verità. Bisogna finirla con le velenose fandonie e i distruttivi rancori. È arrivato il momento che i cugini si ritrovino, si vogliano bene e tornino a essere uniti».
Carlo Sama: «Il suicidio di mio cognato Raul Gardini? Un sacrilegio. Ora coltivo soia in Sudamerica». La maxi tangente Enimont, la condanna, la nuova vita. «Raul era straordinario. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Era avanti su tutto», scrive Stefano Lorenzetto il 13 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". La sua nuova vita è costata a Carlo Sama un occhio della testa. Il destro. «In Paraguay ho avuto il distacco della retina mentre aprivo una strada nella tenuta di famiglia, dentro la più vasta foresta pluviale atlantica del pianeta posseduta da un privato. Sarebbe bastato farmela suturare là con il laser. Invece ho aspettato 20 giorni perché volevo ricoverarmi in una clinica europea. Risultato: 14 inutili interventi chirurgici fra Londra, Roma e Miami. Ed eccomi qua, orbo veggente come Gabriele D’Annunzio». Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato «la madre di tutte le tangenti» e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive fra Montecarlo e il Sudamerica. «Nel bosco mi sono costruito una casa di legno su un albero, a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito. Ho paura dei giaguari: quelli s’arrampicano». Eppure nella sua Ravenna lo considerano l’amico del giaguaro che tradì il proprio mentore, il cognato Raul Gardini. «Il passato è storia. Fa parte di noi. Pensi al povero Ubaldo Lay: bravo attore, ma alla fine tutti se lo ricordano solo come il tenente Sheridan con l’impermeabile». L’accusa gli pesa, e ancor più adesso, a 25 anni dal colpo di pistola alla testa con cui il 23 luglio 1993 l’arrembante magnate del gruppo Ferruzzi-Montedison si uccise nel Palazzo Belgioioso di Milano. «Tra la mia famiglia e Gardini, scelsi la mia famiglia». Cioè la moglie Alessandra Ferruzzi, che, come i fratelli Franca e Arturo, non condivideva la successione decisa da Raul, marito della sorella Idina, la primogenita del fondatore Serafino Ferruzzi. Era il 1991. Gardini fu liquidato con 505 miliardi di lire. «Quello che nessuno sa, è che l’anno dopo ritornammo a parlarci».
Chi fece il primo passo?
«Io. Ci vedemmo in Svizzera. Ruppi il ghiaccio con una battuta: Raul, non ci divertiamo più se non stiamo insieme».
Stare insieme per fare che cosa?
«Avevamo il monopolio mondiale del polipropilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E la Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti. Il principio era banale: rimettere tutto assieme. Dissi a Raul: facciamo un atto di compravendita della Ferruzzi per una lira, poi a bocce ferme sarai tu, da padre di famiglia, a valutarne il vero valore».
Come reagì?
«La proposta gli piacque molto. Ma non se ne fece nulla, perché commise un errore: cercò l’avallo di Mediobanca, cioè di Enrico Cuccia».
E che cosa accadde?
«Le azioni furono svalutate da 1.250 a 5 lire. La Ferruzzi fu oggetto di un trapianto d’organo, con le sue quote di mercato immesse in corpi malati. Sa di che parlo? Eravamo primi al mondo anche nelle proteine e nelle lecitine di soia, nelle penicilline; primi in Europa nello zucchero, negli amidi e derivati, nei semi oleosi, nei mangimi, negli oli di marca; primi in Italia nel calcestruzzo e nelle assicurazioni danni e secondi nell’elettricità».
Che uomo era Raul Gardini?
«Straordinario. Aveva una visione così chiara del mercato che si dimenticava dei tempi. Voleva che le cose fossero fatte per ieri. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Il mondo era il nostro giardino di casa. Fosse ancora vivo, oggi costringerebbe l’Italia a ridiscutere Maastricht, le quote, tutto».
Perché a 60 anni si uccise?
«Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari, 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: “È morto da eroe”. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa. Mi hanno raccontato un’orribile storia di guerra sui topi».
Quale storia?
«I soldati catturavano una dozzina di topi e li tenevano a digiuno in gabbia. L’unico che sopravviveva, dopo aver divorato gli altri, veniva liberato perché desse la caccia ai suoi simili nelle trincee».
Gli innocenti non temono il carcere.
«Efrem Campese, capo della sicurezza di Montedison, gli aveva parlato di dieci buste gialle con l’intestazione “F” e di un colonnello della Finanza chiamato da Roma per recapitarle. I destinatari potevano essere Fiat o Ferruzzi. Si figuri se Raul ebbe dubbi. L’avviso di garanzia equivaleva a una condanna».
Lei ebbe 146 imputazioni, mi pare.
«Più o meno. Assolto da tutte, a parte il finanziamento illecito ai partiti e l’inevitabile falso in bilancio».
Fu arrestato il giorno del suicidio.
«Sì. Mi trovavo a Lugano. Telefonai a Palazzo Belgioioso. Rispose Renata Cervotti, la segretaria di Raul. Lo stavano soccorrendo. Non morì subito».
Aleggiano misteri sulla tragedia?
«No, fu tutto lineare. Il comandante che affonda con la sua nave».
Fu dunque un gesto eroico?
«Rispetto la sua decisione e non esprimo giudizi. Sarebbe fargli torto».
È vero che la vedova ha abbracciato la vita religiosa?
«Idina è una donna meravigliosa, come lo era il marito. Oggi non sta bene. La storia dei Ferruzzi non la conosce nessuno. Sono l’unico a poter dire d’aver visto la luna e l’altra faccia della luna. Serafino era un genio, ha segnato il secolo scorso. Il giorno in cui arrivò alla Borsa di Chicago, si fermarono per rispetto le contrattazioni: era entrato Mister Soia, il trader che faceva il mercato».
Ma che bisogno aveva Enimont di versare tangenti ai partiti?
«Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. Non mi pareva un peccato. Magari una scemata. Ma la politica costa tanto, sa? Non trovo anormale aiutarla. Si doveva fare alla luce del sole».
Foraggiavate tutti?
«Nella migliore tradizione. Avevano stabilito le percentuali. I partiti dalle mani pulite? Qualcuno svolgeva il lavoro sporco anche per conto loro».
Severino Citaristi, tesoriere della Dc, mi raccontò di quando il segretario Arnaldo Forlani lo spedì da lei per ritirare una busta con dentro 2 miliardi e 850 milioni di lire in Cct, circostanza che poi mi fu confermata dallo stesso Forlani.
«In piazza del Gesù ci andai poche volte. E non chiesi mai nulla a Forlani».
Che mi dice della valigia con 1 miliardo di lire consegnata al Pci?
«Bisognerebbe poterlo chiedere a Raul. La portò lui alle Botteghe Oscure».
Centinaia di miliardi in Cct transitarono dallo Ior, la banca della Santa Sede.
«Sono assolutamente consapevole di questo. Ma non fui io a smistarli».
Però il vescovo Donato De Bonis, segretario dello Ior, celebrò le sue nozze nella parrocchia vaticana di Sant’Anna.
«Un caro amico. Aprì il fondo San Serafino per attività di beneficenza in onore del padre di mia moglie. Ogni anno ci versavo la mia gratifica natalizia».
Stefano Bartezzaghi, figlio del Bartezzaghi della «Settimana Enigmistica», la definì «vantaggiosamente inappariscente» e le imputò la «tendenza a strafare».
(Ride). «Giudichi lei. Ho interesse ad apparire sul Corriere della Sera?».
Di che cosa si occupa adesso?
«Mi sarebbe piaciuto cimentarmi nello sport, come mi aveva consigliato Bettino Craxi, magari alla presidenza del Coni. Invece sono rimasto fedele all’antico amore: la terra. Mi occupo di Agropeco, 12.000 ettari fra Paraguay e Brasile, vicino alle cascate dell’Iguazú, e di Las Cabezas, 18.000 ettari a Entre Rios, in Argentina. Produco dalla soia all’eucalipto. E allevo 12.000 capi di bestiame razza Hereford. Ho brevettato un mangime contenente il 5 per cento di stevia, un’erba dolcificante che funge da antibiotico naturale. In campagna rido da solo, come i matti».
Investe ancora nel nostro Paese?
«Beh, no, che domande! L’ultimo affare fu la cessione di un’immobile a Roma, diventato il J.K. Place luxury hotel».
Le restano l’Es Ram resort e il ristorante Chezz Gerdi, a Formentera. Tra gli ospiti, Veronica Lario con figli e nipoti, Piero Chiambretti, Paolo Bonolis, Raoul Bova.
«Chiuso il primo, venduto il secondo. Mai ospitato Bonolis. Però ci venivano Kate Moss e una figlia di Mick Jagger».
Silvio Berlusconi era suo amico.
«Lo è ancora, lo sarà sempre. Fu l’unico a telefonarmi il giorno dell’arresto. E pensare che avrebbe dovuto odiarmi: con Telemontecarlo gli fregavo la pubblicità».
Chi altro le è rimasto vicino?
«Luca Cordero di Montezemolo, Carlo Rossella, Luigi Bisignani. E Sergio Cusani. Il mese scorso si è fatto 400 chilometri, Milano-Bossolasco e ritorno, per stare mezz’ora con le stampelle al matrimonio di Francesco, il mio secondogenito».
Come vede l’Italia a trazione pentastellata-leghista?
«Tutto quello che porta al cambiamento, lo vedo bene. Pensi che Gardini già negli anni Ottanta voleva risolvere il problema degli immigrati. Fece predisporre da Marco Fortis, docente della Cattolica proveniente dalla Nomisma di Prodi, un progetto per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Dall’Africa non sarebbe più partito nessuno. Se solo avessimo potuto continuare...». (Si commuove). «Il lavoro era il nostro gioco, la nostra vacanza. È stato commesso un sacrilegio».
Secondo lei i partiti si finanziano ancora in modo illecito?
«Mi pare di sì. Ma non ho i riscontri».
Allora da che cosa lo deduce?
«Dall’odore».
Estratto dell'articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023.
I baffoni gli davano forza e fascino. Oggi, trent’anni dopo, fanno posto a una barbetta più sale che pepe di tre giorni. Ma la forza di Paul Cayard è oramai scritta nel libro mastro della vela: campione del mondo, coppe, trofei, encomi, un nome, una leggenda. Nel 1992 con il Moro di Venezia di Raul Gardini arrivò lì dove nessuna barca italiana era giunta prima di allora: la finalissima della Coppa America, l’Everest del mare, che si disputava in California nelle acque di San Diego. Furono i mesi in cui l’Italia, incollata alla tv a orari impossibili, si innamorò di lui, lo skipper americano voluto da Gardini alla guida delle regate ed eletto a super manager sportivo.
Dopo il trionfo, però, la tragedia: la mattina del 23 luglio del 1993, giorno in cui doveva essere arrestato, Gardini si puntò l’arma alla tempia e schiacciò il grilletto. Cayard era con lui a Milano nelle stanze di palazzo Belgioioso, teatro del suicidio. E rieccolo in Italia, fra queste barche oceaniche approdate a Genova per la tappa finale dell’Ocean Race, il giro del mondo a vela. Nei giorni in cui il dibattito sulla figura di Gardini è stato riacceso da eventi, incontri e un paio di libri (Solferino pubblica «Di vento e di terra», il romanzo vero di una vita di sfide), Cayard ha deciso di parlare del suicidio: «Per ricordare colui che è stato per me come un padre e un grande amico».
Partiamo dalla fine, da quel colpo di pistola...
«Uno choc totale, non ci potevo credere, quella settimana ero stato con lui fino a due giorni prima, proprio a palazzo Belgioioso. Raul aveva letto del suicidio di Gabriele Cagliari e mi diceva che era una strana cosa, con quel sacchetto di plastica nella testa. Era molto preoccupato. Non voleva finire in carcere anche lui, secondo me perché lì non si sentiva più padrone della sua vita e lui non sopportava l’idea che fossero gli altri a decidergli il destino».
In che senso è stato per lei un padre?
«Avevo 26 anni e non ero nessuno, ha creduto in me, mi ha aperto le porte di casa sua e mi ha aiutato molto. “Paolino — mi ha detto — tu vieni a vivere a Milano e io ti do tutto quello che ti serve”. E l’ha fatto, mi ha dato tutto, soprattutto la fiducia. Quando è morto avevo 33 anni e una professionalità tale che mi è bastata per il resto della vita».
Perché Gardini scelse proprio lei?
«Lui mi disse che a parlargli di me era stata Eleonora (primogenita di Raul, ndr ). Mi aveva visto vincere una regata in Sardegna, dove io ero in sostituzione. Raul ha voluto provarmi e ha deciso subito. Guarda questa foto — ci mostra una foto ingiallita — è quella della prima volta con lui sul Moro, questo sono io, questa è Eleonora di spalle, in bikini, eh, quello è Raul...».
Com’è nata l’idea della Coppa America?
«Siamo a San Francisco per il mondiale Maxi del 1988, nello stesso albergo. Vinciamo la prima regata e la mattina dopo, a colazione, c’era anche il suo amico marinaio Angelo Vianello, mi dice: “Paolino, dobbiamo fare la Coppa America”. Io ho detto: “Raul, questa è brutta idea”. “Perché?” “Costa un sacco di soldi, perdi molto tempo e vince uno solo”. Il secondo giorno, altra vittoria e altra colazione insieme. “Paolino, pensaci”.
Dopo ogni vittoria me lo ripeteva. Alla fine delle cinque regate, tutte vinte e vinto il Mondiale, è stato impossibile dirgli di no. Ci ha portati tutti in Argentina e ha parlato delle sue idee grandiose».
Il varo del Moro a Venezia con la regia di Zeffirelli, il cantiere Tencara con la tecnologia più avanzata e potente...non spendeva un po’ troppo?
«Potrebbe sembrare, sì, ma è vero anche che se tu dai l’impressione di essere vincente il gruppo è motivato e alla lunga questo ti ripaga delle spese, quel che è successo».
Pregi e difetti del grande capo?
«Era divertente, coraggioso, un grande motivatore, delegava molto e non avevi mai l’impressione che potesse dubitare di qualcuno, così tutti davano il massimo e si rimaneva uniti. Difetti? Non sapeva guidare, una volta siamo andati da Montezemolo a vedere una Ferrari, lui era al volante e passava dalla prima alla quarta e il contrario, la macchina strattonava e diceva: non ci sono più le Mercedes di una volta.
Capito? Altro difetto? Fumava troppo, anche in aereo. Ricordo un viaggio in cui mi sono svegliato tossendo per il suo fumo. “Sai cosa Paolino, dovresti iniziare anche tu, in modo che hai un filtro naturale”. E non scherzava».
(…)
Estratto dell'articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.
«Una curiosità: quanto fuma?» «Più che posso». Seduto su uno scalino della Madonna della Salute, sigaretta serrata fra i denti, mani impegnate ad allacciarsi le scarpe, Raul Gardini fissò l’occhio buono sul cronista e rise. Schiacciò la sigaretta e ne accese un’altra.
Faceva male ai polmoni? Chissenefrega. Era una sfida, una delle tante. Come la presentazione, quel giorno, a Venezia, in pompa magna, un caos di bandiere, gondole, ospiti di spicco, cestini di leccornie deluxe preparati dal consuocero Arrigo Cipriani, regia di Franco Zeffirelli, del bellissimo «Moro» col quale voleva andare a vincere la coppa America.
Sfida perduta. Come troppe altre di una vita conclusa la mattina di venerdì 23 luglio 1993, trent’anni fa, con un colpo alla tempia sparato con una pistola calibro 7,65 Walther Ppk, la stessa usata anni prima da Luigi Tenco. Scrisse il Corriere : «Lo aspettava il carcere. Ha preferito la morte».
Tre giorni prima si era ammazzato il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Una settimana prima, come ricordò nel suo editoriale Paolo Mieli, si era costituito dopo sei mesi di latitanza l’ex presidente della Montedison Giuseppe Garofano, «raccontando ai magistrati i segreti dell’avventura chimica del gruppo Ferruzzi, con tutti i dettagli sui passi più spericolati e gli illeciti più incredibili per accantonare fondi da far affluire in parte nelle proprie casse segrete e in parte in quelle dei partiti di governo». Partiti che Gardini pagava e disprezzava.
«Io ho questa mentalità: quando sono in Brasile mi sento brasiliano, in Argentina argentino, negli Usa americano ed europeo in Europa», confidò a Enzo Biagi poche settimane prima di andarsene. Ultimo sospiro: «Non ci sono innocenti. I peccati sono collettivi». «Come uomo aveva sei marce. Il guaio è che troppo spesso teneva la sesta in curva», spiegò a l’Unità il celebre fiscalista e consigliere Montedison Victor Uckmar. E aggiunse: «Non vorrei che qualcuno ora se la pigliasse coi giudici, dimenticando chi è il responsabile primo di queste cose. Alludo ad una classe politica...»
Trent’anni dopo, sul «Contadino» ribattezzato con quel nomignolo per l’appartenenza «alla razza terragna» da cui veniva anche se aveva passato la giovinezza «fra le pinete e le spiagge romagnole», esce un libro che ripercorre tutta l’irruenta avventura umana, economica, finanziaria, politica e marinara dell’imprenditore che alla morte del suocero
Serafino Ferruzzi, il re delle granaglie di cui aveva sposato la primogenita cattolicissima e riservatissima Idina, si ritrovò a 46 anni in pugno un’immensa ricchezza e in tre lustri scarsi, scommettendo spericolatamente su se stesso, le sue intuizioni, le sue ambizioni, riuscì a bruciare tutto. Compreso se stesso.
Si intitola Di vento e di terra. Raul Gardini, il romanzo vero di una vita di sfide , è firmato dal nostro Andrea Pasqualetto e Lucio Trevisan, è edito da Solferino e in 320 pagine racconta due storie parallele che si incrociano e confondono l’una nell’altra.
Quella dell’imprenditore di enorme successo iniziale che a un certo punto «addenta un’azienda dopo l’altra (agroalimentare, agrochimica, energia, costruzioni e impiantistica, farmaceutica, grande distribuzione, editoria…)
(...)
E quella del velista appassionato che si fissa su barche sempre più belle create da designer sempre più famosi con marinai sempre più competitivi rastrellati in giro per il pianeta senza rinunciare mai, però, ai consigli di un vecchio uomo di mare di Pellestrina, Angelo Vianello. «L’amico del silenzio, con il quale Raul sta bene anche tacendo». Quello cui chiede consiglio anche su cose che non hanno a che fare con la nautica, come l’improvvisa difficoltà del figlioletto Ivan colpito da un’inspiegabile difficoltà a camminare e in poche settimane rimesso in piedi. Quello che, «fiol de pescadori de laguna», si ritrovò una mattina presto davanti il re di Spagna Juan Carlos, curioso di salire a bordo per vedere il «Moro» e lo accolse così: «Siòr Re, ghe fasso un cafetin?»
(...)
Ma tutto intorno meritano d’esser raccontate tante storie che ricostruiscono un’epoca.
L’acquisto a Venezia del «maledetto» Palazzo Dario per sfidare le leggende della bellissima dimora marcata nei secoli da suicidi, omicidi, sventure, morti violente... Lo sfizio di impossessarsi dell’arte del vetro comprando larga parte delle vetrerie di Murano. L’audizione alla Camera nel 1986 in cui avvertì il Parlamento: «L’Italia deve diventare autonoma sul piano energetico, altrimenti rimarremo sempre un Paese dipendente da altri.
(...) Ci vuole il coinvolgimento diretto dello Stato. Quello di cui sto parlando è un sogno, ma è un sogno realizzabile: vedere l’Italia produttrice di energia verde, grazie all’etanolo. Inquina meno ed è altamente redditizio a livello di rendimento...» Parlava (anche) pro domo sua, dato che aveva enormi quantità di cereali giacenti? Sicuro. C’era però, oltre agli interessi aziendali, qualcosa di più. Che merita forse, tanti anni dopo, qualche riflessione.
Così come meriterebbe un romanzo a parte il carteggio, lettera dopo lettera, ora note, che ricostruisce lo sfascio della Famiglia. Con Alessandra, la più giovane dei figli del vecchio Serafino, che inizia con parole apparentemente amichevoli a contestare la leadership del cognato Raul. E lui che, dopo un crescendo di reciproche tensioni, passa affiancato da Idina alle minacce a tutti i cognati: «Se abbraccerete definitivamente le teorie di Alessandra contro di me ed Idina sarà una rottura definitiva che vi costerà molto, molto cara». Come sia finita si sa. Trent’anni dopo, in famiglia, non si parlano ancora.
Raul Gardini, il corsaro della Borsa: tra scalate e declivi pericolosi. Raul Gardini ha incarnato il sogno del capitalismo italiano, le sue epiche scalate di Borsa lo hanno portato in cima, prima della tempesta Mani Pulite. Tommaso Giacomelli il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Un trascinatore, un leader naturale e un uomo dalla visione illuminata. Raul Gardini non riusciva a fermarsi al presente, non metteva mai l'ancora, seguiva il flusso del mare, come quello del suo amato Adriatico, e si proiettava con energia instancabile verso obiettivi futuri, per i più imponderabili. Uno spirito da vero corsaro quello dell'imprenditore ravennate, classe 1933, che ebbe il suo momento di massimo fulgore negli anni '80, salendo agli onori della cronaca per le grandi scalate finanziarie dal sapore temerario, che lo proiettarono nelle stanze dei bottoni della politica italiana e tra il gotha degli industriali nostrani. Gardini era orgoglioso della sua origine romagnola, di essere nato in quella città che fu capitale dell'Impero romano d'Occidente prima e del Regno degli Ostrogoti poi, non dimenticando mai la bellezza delle cose semplici, dei profumi del mare e della terra, di quanto sia benefico il calore di una famiglia unita e l'importanza di una stretta di mano tra gentiluomini. Gardini ha vissuto la vita a modo suo, seguendo le sue regole, pagando a caro prezzo un orgoglio che lo ha spinto a togliersi la vita con un colpo di pistola la mattina del 23 luglio 1993, a Milano, nel suo appartamento di Palazzo Belgioioso. Nel mezzo, però, vale la pena raccontare la vicenda personale di un uomo che ha saputo stupire e scioccare, nel nome di un capitalismo rampante e senza freno come quello esploso in Italia nella seconda metà degli anni '80.
Alla guida della Ferruzzi
Nel 1948 Serafino Ferruzzi, romagnolo doc, fonda la sua azienda, la Ferruzzi, che in una prima fase commercializza legname e calce, poi diventa leader nel trattare le materie agricole. Negli anni '60 l'impresa ravennate si ritaglia spazio come primo importatore italiano di grano, soia, olio di semi e cemento, diventando uno dei principali operatori del settore in Europa e, di conseguenza, nel mondo. Raul Gardini nel 1957 sposa la figlia del patron della Ferruzzi, Idina, e quando il vecchio Serafino nel 1979 muore in un incidente aereo, la famiglia decide di affidare le deleghe operative del Gruppo proprio a Gardini. Quest'ultimo, a 46 anni, si ritrova investito del ruolo di capo di una realtà industriale, che lui guiderà a una vera rivoluzione d'assalto. Ravenna, dopo molti secoli, torna ad avere un imperatore, diverso da quelli del passato, ma animato dallo stesso spirito di conquista grazie a delle idee che hanno la forza di colpire il cuore delle persone. Lui è un visionario, ma concreto, non un sognatore, in più è animato dalla voglia di ottenere quello che desidera con un fare quasi da guascone. Alla gente piace, buca lo schermo e cattura le simpatie dei media. In breve tempo, Raul Gardini è un nome che fa strada all'interno della società italiana, arrivando ad avere una forte risonanza a livello nazionale. Tutti si accorgono di lui e nel frattempo il Gruppo Ferruzzi spicca il volo, passando dal trading all'industria, concentrando le proprie risorse nel business dello zucchero. Nel 1981 acquista la Eridania, prima azienda produttrice di idrato di carbonio in Italia, poi nel 1986 passa alla francese Béghin Say. A guidare Gardini in queste campagne finanziare c'è l'intuito e una capacità di prendere le decisioni in un breve lasso di tempo. In seguito alle numerose politiche di acquisizione, l'industriale ravennate capisce che ci sono tutte le carte in regola per entrare nell'alta finanza con un ruolo da protagonista assoluto.
La Borsa e il sogno di Raul Gardini
Dopo il lungo silenzio degli anni di piombo, nel 1985 l'Italia sembra essere rinata. Un'ondata di benessere cavalcato dal nascente rampantismo inebria gli italiani di una nuova euforia collettiva. L'arrivo dei fondi di investimento mobiliare fa quintuplicare gli incassi della Borsa, le quotazioni guadagnano il 20% a settimana e in un mese si ottengono qualcosa come 300 miliardi di lire. In questo scenario Raul Gardini mette la Ferruzzi finanziaria sul mercato, i soldi - dice lui - si trovano in Borsa e basta saperli prendere. Una scelta all'apparenza spregiudicata che si rivela quanto mai azzeccata, dato che in tre anni fa entrare nelle casse del Gruppo qualcosa come 3.000 miliardi di lire. Gli yuppies hanno un nuovo idolo da venerare, Milano diventa la capitale del sogno che passa attraverso le urla, gli strepitii e la frenesia imperante delle affollate sale di Piazza Affari. Il sogno nel cassetto di Gardini, però, è quello di riuscire a costituire un polo della chimica che si proponesse come baluardo dell'ecologia. Il suo più viscerale desiderio è quello di proporre sul mercato un carburante che avesse un legame con le materie agricole, il suo primo amore. A quel punto, il ravennate mette gli occhi sulla Montedison, grande gruppo industriale italiano attivo nella chimica e nell'agroalimentare.
La scalata a Montedison
Nel 1985 la Montedison è al centro di uno scontro molto violento tra gli azionisti, Gardini fiuta la situazione e intravede la possibilità di entrare in scena per diventare l'azionista di riferimento. Un'azione facile sulla carta, ma difficile da realizzare perché a guidare il gruppo industriale c'è un osso duro, Mario Schimberni. Quest'ultimo è un tipo riservato, enigmatico e impenetrabile, che non fuma e non beve, tanto che viene chiamato "l'uomo di ghiaccio". Schimberni è un manager di alto rango che ha come unico obiettivo quello di fare della Montedison la prima public company italiana. Nel frattempo Gemina, il salotto buono del capitalismo italiano, prende per la giacchetta Gardini cercando di spingerlo a tutti i costi a farne parte, ma lui non ne vuole sapere. Il ravennate è un romagnolo puro, un po' impulsivo, la partita per conquistare la Montedison la vuole giocare da solo. A lui la chimica serve per trasformare il prodotto agricolo e creare energia, per questo mettere le mani sulla quell'industria diventa di capitale importanza. Nessuno, però, immagina che il numero uno del Gruppo Ferruzzi ha in mente la più clamorosa operazione finanziaria del secondo dopoguerra.
La prima fase dell'assalto alla Montedison è rapida e si conclude quasi in un lampo: l'8 ottobre del 1986 Gardini convoca il suo agente di cambio e gli ordina di acquistare più azioni possibile della Montedison. In un paio d'ore la Ferruzzi sborsa 1.500 miliardi di lire; alla fine della giornata Gardini blocca l'OPA di Cuccia e De Benedetti, e ottiene il 10% del pacchetto azionario del Gruppo operante nella chimica. La seconda fase è intrisa di diplomazia, di tessitura di rapporti e di dolce seduzione verso quegli azionisti che possiedono pacchetti importanti della Montedison. L'11 marzo 1987 Gardini ha speso un complessivo di 2.000 miliardi di lire ma in cinque mesi ha ottenuto il 40% delle quote desiderate. A novembre dello stesso anno, Gardini si issa al comando della Montedison, subentrando a Schimberni non senza un'aspra disputa tra i due leader. In appena sette anni, il ravennate diventa il secondo industriale italiano, contro ogni pronostico.
Il fallimento di Enimont
Il progetto di Gardini è in continua evoluzione, un rincorrersi perpetuo di decisioni, vale a dire che ogni passo stimola il successivo. Quando si conquista un avamposto, bisogna andare avanti e procedere a passo spedito. Non c'è mai quiete nel suo spirito. Sul finire del 1987, Gardini è il presidente della Montedison ed è il leader privato della chimica in Italia. Alla sua porta bussa la controparte pubblica, l'ENI, che ha bisogno dell'appoggio del ravennate per sopravvivere e dar vita a un polo chimico in grado di competere coi grandi del settore. Gardini si convince che l'unione tra le due realtà si può fare, con l'obiettivo di entrare almeno nei primi dieci del mondo. In poco tempo nasce la Enimont, che alla Montedison costa la bellezza di 1.200 miliardi di lire di tasse. Una spesa enorme, ma la parte pubblica promette a Gardini delle garanzie sugli sgravi fiscali con dei decreti legge. L'accordo viene siglato alla maniera contadina, o dei sensali, tramite una stretta di mano tra il ravennate e Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio. A fine 1988 la Enimont conta 55.000 dipendenti e 16.000 miliardi di lire di fatturato, con il 40% delle quote a ENI, l'altro 40% a Montedison e il restante 20% destinato al mercato azionario. La nuova realtà pubblica-privata è il leader mondiale della chimica, ma per Gardini arriverà presto la beffa.
La politica capisce che sta per perdere un ufficio acquisti da 15.000 miliardi di lire all'anno, così in Parlamento il decreto legge aspettato da Gardini viene bocciato per due volte fino a decadere definitivamente. Poi, dopo la caduta del Governo De Mita e il ritorno di Andreotti, grande oppositore dei Ferruzzi fin dai tempi di Serafino, si mette una pietra tombale sulla questione. La politica si dimostra per Gardini il più inaffidabile degli interlocutori, inoltre, le divergenti vedute imprenditoriali tra le due realtà, porta alla rottura della joint venture con Gardini che si appella alla violazione degli impegni. Si arriva al "patto del cowboy", con la Montedison che ricopre il ruolo della parte che fa il prezzo e l'ENI di quella che compra. Dopo un iniziale tentativo di scalata da parte di Gardini alla Enimont, stoppata dal guidice Curtò con il congelamento provvisorio delle sue quote da parte del Tribunale di Milano, alla fine di novembre 1990 l'industriale ravennate abbassa la testa e vende il suo 40% all'ENI per 2.805 miliardi di lire.
Il Moro di Venezia e la caduta
Dopo il fallimento di Enimont, la famiglia Ferruzzi - stanca di inseguire le imprese spericolate - si dissocia da Raul Gardini, luquidandolo da tutti i suoi incarichi pagando una cifra di 503 miliardi di lire in contanti. L'ultima romantica impresa del ravennate è quella del Moro di Venezia, l'innovativa barca a vela che affidata al geniale skipper americano, Paul Cayard, vince la Louis Vuitton Cup del 1992 battendo in finale New Zeland per 4 a 3 dopo una rimonta insperata. La barca italiana arriva, dunque, negli Stati Uniti, nella baia di San Diego, per contendere l'America's Cup all'imbarcazione statunitense America³. Purtroppo la sfida terminerà 4 a 1 a favore dei padroni di casa, mentre per il Moro di Venezia rimane il sogno di aver spinto la vela italiana fino a toccare quasi il cielo, anche se il boccone da digerire è amaro.
I trionfi in mare vengono oscurati dalle nubi di tempesta che si abbatono a Milano con le indagini di "Mani Pulite". Uno dopo l'altro politici e manager ricevono avvisi di garanzia o mandati di cattura. È un effetto domino che non risparmia nessuno e travolge tutti. Il pool di magistrati milanesi punta alla Enimont, l'inchiesta viene incuriosita da una falso in bilancio, tra il 1990 e 1991, di 150 miliardi di lire che sarebbe servito a Gardini, e alla Montedison, per corrompere funzionari di governo e uscire indenne dalla chiusura della joint venture. Al ravennate questa cifra non torna e decide di collaborare con la giustizia. Scosso da un mondo che stava crollando sotto ai suoi piedi, e impotente di fronte al flusso degli eventi, Raul Gardini la mattina del 23 luglio 1993 si spara alla testa con un colpo di pistola. Una scelta drammatica e di impeto, un ultimo atto di volontà per un uomo che ha sempre imposto la sua decisione. Con lui si chiude la pagina italiana di rampantismo e capitalismo sfrenato, del sogno della Borsa, delle luci e del divertimento. La sua morte apre un capitolo più cupo e torbido che ha condizionato il proseguo degli anni '90 fino a segnare persino i giorni nostri.
Ricordando Craxi.
Il Politico.
La Famiglia.
Le Donne.
I Nemici.
Dagospia mercoledì 13 settembre 2023. Lettera di Stefania Craxi a Dagospia
Caro Dago,
ho letto sul Corriere della Sera la bella intervista a Gianni Cervetti, al quale faccio i miei migliori auguri per i suoi 90 anni. Il quotidiano, come è giusto che sia, mette in grande rilievo la notizia di un incontro segreto fra lo stesso Cervetti, Chiaromonte e Berlinguer, avvenuto nel 1975, nel corso del quale si decise di porre fine ai finanziamenti sovietici al Pci per evitare il condizionamento di Mosca sul partito. È una notizia, sicuramente.
A mio giudizio, però, la notizia più clamorosa è dovuta alla onestà di Cervetti (già autore di un’opera, “L’oro di Mosca”, fondamentale per comprendere le relazioni politiche ed economiche fra il Pci e l’Urss) nell’ammettere il condizionamento, logico, da interrompere, appunto, del Pci di Berlinguer da parte di una dittatura nemica dell’Italia e dell’Occidente.
Ti sembra, caro Dago, un fatto minore oppure un elemento fondamentale per capire la politica italiana di quegli anni e il corso della nostra democrazia anche negli anni a venire? Perché se vogliamo dire la verità storica, e sarebbe davvero ora, diciamola tutta. E con senso critico, e non solo celebrativo del ruolo del Pci e dello stesso Berlinguer. Perché sulla vicenda del rapporto fra i soldi e la politica, sul tema dei finanziamenti illeciti ai partiti e sulla “questione morale” si è riscritta la storia d’Italia e della politica, si sono deviati i percorsi e i corsi della politica e della democrazia.
? tutto in prescrizione o amnistiato, dal punto di vista penale, sono vicende chiuse nei Tribunali, ma aperte, apertissime, sul piano storico, politico, culturale, mediatico. Il racconto è quello di un Pci – poi Pds – lindo e morale, con Berlinguer, e di un Psi corrotto e immorale con Craxi. La storia vera, invece, è che Berlinguer e Craxi erano due persone oneste, tutte politiche, con i propri partiti impegnati a fare politica grazie alla passione e all’onestà di migliaia di militanti e dirigenti. Pur in un sistema sbagliato, quello del finanziamento illecito, ma condiviso, da tutti!
Botteghe Oscure prendeva soldi da Mosca, Cervetti dice fino al 1975, ma in realtà, sulla base di documentazione sovietica esaminata dallo storico Victor Zaslavsky, al Pci, dal 1973 al 1979, giunsero 32-33 milioni di dollari, in parallelo con entrate “straordinarie”, che arrivavano al 60% del bilancio. Erano finanziamenti illeciti.
Giorgio Amendola pose il problema nel corso di una direzione del Partito comunista, i cui verbali sono conservati presso l’Istituto Gramsci. In quell’occasione intervenne pure Armando Cossutta, per dire che «si è creato, in molte Federazioni, un sistema per introitare soldi che ci deve preoccupare».
Lo storico comunista Guido Crainz riporta in un suo libro la discussione avvenuta in una direzione del Pci del 1974, dove emerge la preoccupazione dei dirigenti per il doppio condizionamento subìto dal partito, per i soldi sovietici e per quelli, illeciti, che provengono dalle federazioni territoriali. Cossutta parla di imbarazzanti compromissioni, e di soldi che rimangono attaccati alle mani dei compagni.
Inoltre, c’è il prezioso libro di Valerio Riva, “I soldi di Mosca”, che analizza i condizionamenti subìti da Botteghe Oscure anche dopo i finanziamenti diretti dal “fondo di assistenza”, attraverso le attività di import export con società varie. E ricordo solo, come sigillo a quanto detto finora, che il Partito comunista votò in Parlamento le amnistie sul finanziamento illecito del 1983 e del 1989.
Mi fermo qui, lasciando da parte la storia più recente, dalla valigetta di Gardini alle quote degli appalti a favore delle cooperative rosse, perché non è mio intento accusare, rivangare, rinfocolare una guerra sanguinosa che i socialisti di Craxi hanno drammaticamente perso. Vorrei solo, ed era questa la grande ansia di mio padre, che la Storia venga scritta bene.
Craxi simbolo del decisionismo in politica: il suo primo governo fu un record. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 4 Agosto 2023
40 anni. Da che Bettino Craxi varò il suo primo Governo, primo governo a guida socialista e 42esimo della Repubblica, che allora aveva 37 anni. Che fosse una novità, lo si era capito da tempo, e lo si sarebbe capito anche guardando la durata del Craxi I: quasi tre anni, record per la prima repubblica, e se non sbaglio sul podio sommando la prima alla seconda repubblica.
Tre anni passati tutti a cercare di riformare l’Italia, secondo una logica votata allo sviluppo, all’ambizione politica di issare stabilmente l’Italia in alto, là dove dovrebbe stare una nazione che non si accontenti di piccoli obiettivi ma che voglia essere pienamente protagonista, e far fruttare le sue enormi potenzialità. Tre anni di governo dedicati a inseguire, leva fiscale in mano e borse col vento in poppa, un progresso declinato secondo la massima fordiana che il progresso è tale solo se lo è per tutti.
Con una maggioranza larga anche se composita (il Craxi I viene sorretto dal pentapartito Dc-Psi-Pli-Pri-Psdi) Craxi produce un attivismo sul proscenio internazionale, e una lotta all’inflazione domestica consumata attraverso la crescita che avrebbe portato l’Italia al quinto posto nella graduatoria dei paesi più industrializzati del mondo, avrebbe tagliato con un decreto (plastica dimostrazione di decisionismo politico, altra inclinazione nuova del suo personaggio) la scala mobile, che dell’inflazione sembrava ormai essere diventata causa, più che un possibile rimedio.
Avrebbe introdotto il redditometro e l’obbligo del registratore di cassa per migliorare l’efficienza redistributiva tramite la lotta all’evasione, riformato il Concordato con la Santa Sede del 29, e -se permettete- avrebbe aperto di fatto, con un decreto a sua difesa e contro alcune decisioni pretorie, la via della concorrenza al pioniere dell’informazione privata contro il monopolio del servizio pubblico radiotelevisivo: Silvio Berlusconi.
Craxi, che io probabilmente avrei votato, se avessi fatto in tempo, proprio per la visione di lungo periodo di cui era portatore ambizioso, pensava infine, e da prima di diventare premier, a come riformare una nazione, l’Italia, con una tendenza pronunciata al cambiamento là dove la borghesia produttiva ha respiro, e con la tendenza esattamente opposta nelle aree rurali, più conservatrici fino ad essere reazionarie,
Più volte aveva denunciato il deficit decisionale del sistema istituzionale italiano, l’eccesso del potere di veto che lo attraversava e il suo eccesso legislativo (“In Italia è necessaria una legge anche per regolare l’eviscerazione dei polli”), e avanzato l’idea di una riforma che portasse all’elezione diretta del Capo dello Stato.
Queste riforme di fatto non arrivarono a dama, ma divennero patrimonio politico di tutti nei decenni successivi, e se oggi la Presidenza del Consiglio ha una sua legge di funzionamento minimamente moderna è solo grazie ai presupposti che Craxi mise in piedi e che diedero alla luce poi, nell’88, della legge cardine di riforma dell’amministrazione pubblica: la celeberrima 400. 40 anni dall’affermazione di un ambizioso riformista, e non sentirli. Andrea Ruggieri
Il ricordo. Bettino Craxi e l’ultimo esecutivo autorevole della prima repubblica. Riccardo Nencini su Il Riformista il 4 Agosto 2023
Giovedì 4 agosto 1983: un’altra Italia, a cominciare dalla temperatura: minima 19, massima 27. Sulle spiagge imperversa ‘Vamos a la playa’ dei Righeira, al cinema ‘Tenebre’ di Dario Argento.
Un mese di trattative e Sandro Pertini conferisce a Craxi l’incarico di formare il governo. Le elezioni di giugno avevano segnato la sconfitta della DC (-7%) e una lieve flessione del PCI. La pregiudiziale democristiana verso un capo del governo che non provenisse dalle sue file, già rimossa con Spadolini, cade definitivamente.
Craxi sarà il primo presidente del Consiglio socialista in Italia, il suo un governo pentapartito di alto profilo formato da politici e tecnici. Craxi assume la guida del paese in un frangente delicato: alta inflazione, produzione industriale a singhiozzo, forte opposizione comunista, quadro politico internazionale in rapida trasformazione.
In Italia, due sinistre in conflitto, il nodo mai sciolto risalente al 1917, l’anno della rivoluzione. Gramsci e Turati. Craxi ha favorito l’approdo del PSI alla sponda riformista, il Pci di Berlinguer, che ha da poco regolato i conti con la casa madre sovietica, fallito il compromesso storico si è rinserrato nella difesa della sua identità proprio ora che il Paese è in viaggio, travolto da un cambiamento epocale.
Il terziario spodesta l’industria, si affacciano i primi cauti segni della rivoluzione tecnologica che esploderà a fine secolo, la piccola impresa traina l’Italia. I socialisti puntano alla società aperta, non ideologizzata, ‘meriti e bisogni’, e si avvalgono nelle pratiche di governo di prestigiosi intellettuali che interpretano le ragioni di un’Italia nuova.
La partita finale si gioca già nel febbraio 1984. Il 14 febbraio viene varato il decreto che taglia di tre punti la scala mobile e blocca prezzi e tariffe. Ci sono gli studi del professor Tarantelli dietro al decreto, verrà ucciso per questo dalle Brigate Rosse. Il 18 febbraio viene firmata la revisione dei Patti Lateranensi. Il 21 febbraio il Comitato Centrale del PCI dichiara guerra al decreto.
Due cieli. Due sinistre, due visioni, due strategie, un’aria mefitica. La rottura è così profonda che ricorda i giorni in cui nacque il primo centrosinistra. Non c’è pareggio, ciascuno gioca il tutto per tutto.
Il referendum segnerà la sconfitta netta del PCI e la vittoria dei riformisti. La prima volta. Un’impresa che aprirà al governo le porte di un convinto rispetto internazionale. A sancire il prestigio dell’Italia nel mondo arriveranno poi i fatti di Sigonella e l’ingresso nel G7.
Sarà, quel governo, l’ultimo esecutivo autorevole della prima repubblica. Le decisioni prese, un’arma a due tagli: la crescita italiana fino a diventare la quinta potenza mondiale, e probabilmente il seme che condurrà Craxi sulla via della fine. Io stavo dalla sua parte, ne ero orgoglioso. Riccardo Nencini
"Con Berlinguer dialettica accesa ma rispettosa". Minzolini ricorda Craxi: “Gli appostamenti in bagno per seguire le riunioni. Fu osteggiato dalla sinistra perché riformista”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Agosto 2023
Augusto Minzolini, oggi direttore del Giornale, al tempo era un giovane cronista politico. Si fece le ossa seguendo Craxi.
Com’era la situazione in quel 1983, quando fu chiamato Craxi al governo?
«Drammatica dal punto di vista delle casse dello Stato. Craxi si ritrova a gestire una fase molto difficile: se dovessi fare un paragone, il tasso di riformismo del governo Craxi fu simile a quello del primo governo Fanfani. Alcuni interventi di quel governo cambiarono addirittura il modo di vivere degli italiani».
La sua consacrazione?
«Il referendum che congelò la scala mobile, andando a incidere su quel meccanismo perverso dell’inflazione galoppante. Nessuno in quel momento aveva il coraggio di interromperlo. Craxi prese di petto la situazione, scommise tutto su un referendum contrapponendo l’approccio riformista a quello massimalista del PCI. Un duello vero e proprio. E vinse. La novità di avere per la prima volta un presidente del Consiglio socialista lo aiutò. Veniva visto come autentica novità, nei palazzi del potere romano. Laico, milanese, giovane, poco incline ai compromessi barocchi della vecchia politica. Si costruì presto una identità di grande autorevolezza».
Le riforme non sono mai facili, mai ben digeribili…
«Scherziamo? Quelle strutturali sono indigeste, all’inizio per molti, poi solo per qualcuno. I riformisti non possono piacere a tutti. Un esempio? Quando introdusse lo scontrino fiscale nei registratori di cassa. Una grande battaglia sulla quale molti avevano scommesso di veder passare il cadavere di Bettino. Si fece un monitoraggio dal quale risultava che il 65% dei commercianti presentava dichiarazioni fiscali ampiamente evasive. Erano tutti certi che toccare quella materia avrebbe portato alla fine dell’esperienza di Craxi. Invece lo rafforzò: con quel suo modo di fare asciutto, semplice e assertivo, si faceva capire da tutti e apprezzare da molte più persone di quel che dicevano i sondaggi».
Non dai comunisti. Berlinguer lo mise nel mirino.
«Ci fu sempre, tra loro, una dialettica accesa ma rispettosa. Berlinguer lo temeva, e con ragione. Aveva capito che la sinistra italiana stava cambiando, il consenso di Craxi cresceva anche a spese del Pci, la Cgil si divise più spesso di prima, anche sul referendum sulla scala mobile. Quando arriva un grande riformista, i conservatori di sinistra lo temono e lo osteggiano. Sempre. Si può guardare all’intera storia del centrosinistra italiano, fino a Renzi. Anche D’Alema in versione riformista a Palazzo Chigi fu osteggiato da un pezzo di sinistra. Chiedere a Velardi e Rondolino. Quando metti in discussione il vecchio modo di fare, sei un nemico, un traditore: diventi automaticamente estraneo alla sinistra vera. Almeno così dicono i suoi cantori. Peccato che gli elettori amino più spesso il nuovo del vecchio».
Quali furono le maggiori difficoltà di Craxi?
«Sul piano della politica estera, dove sembrò aver intuito che la fine dei due blocchi non era lontana. Appoggiò l’installazione degli euromissili, accelerando il collasso dell’ex impero sovietico, incapace di correre al riarmo. Creò una tensione con i movimenti pacifisti e con l’estrema sinistra che in parte rimane ancora oggi quella di allora. E poi la crisi di Sigonella con gli americani che creò tensione con gli atlantisti italiani. Ma se la Dc era con Reagan, l’allora ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, era con Craxi. E con lui era anche Arnaldo Forlani. E in quell’occasione si conquistó la Simpatia anche di un pezzo del PCI».
Quali episodi personali ricordi? La vicenda dei tuoi appostamenti, su cui si favoleggia?
«Ero un retroscenista parlamentare e seguivo tutte le riunioni del Psi. Nella loro sede, a via del Corso, quelle importanti erano a porte chiuse. Una volta mentre aspettavo andai al bagno (quello degli uomini era chiuso, entrai in quello delle donne) e per caso mi accorsi che c’era il condotto dell’aria condizionata che permetteva di ascoltare piuttosto bene quello che si diceva nel salone accanto, dov’era riunito Craxi».
E iniziasti così a scrivere i tuoi leggendari retroscena, ricchi di particolari…
«Sì. Ma non durò a lungo. Craxi mi fece seguire per capire come facevo a sapere tutti quei dettagli. Si devono essere accorti che entravo nel bagno delle donne: un giorno lo ritrovai ridotto di un terzo da un muro che avevano costruito per isolare l’acustica…».
Tuttavia lo ascoltava l’Italia. Ci fu un periodo di buona intesa, mi sembra.
«C’era la voglia di entrare in un’era nuova e di mettere in soffitta la vecchia politica. La Milano da bere come modello. Gli italiani che avevano recuperato potere d’acquisto e iniziavano a godersi un po’ più la vita. Craxi seppe interpretare quegli anni e invogliare gli italiani a crescere: con lui diventammo quinta potenza industriale».
Come dicevamo: il più alto tasso di riformismo al governo…
«E proprio perché molto riformista, avversato dai conservatori di sinistra».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Il primo governo socialista. Il Governo Craxi 40 anni dopo: l’intervista a Gennaro Acquaviva, protagonista di quell’epoca riformista. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Agosto 2023
Quarant’anni dall’inizio del governo Craxi I, il primo governo socialista e forse il più riformista di sempre. Ne parliamo con Gennaro Acquaviva che fu protagonista di quegli anni.
Agosto 1983, arriva il primo governo socialista. Che sapore aveva quella novità? «Guardi, dalle persone sul momento venne accolto con scarsa attenzione. Craxi non aveva vinto le elezioni del 1983. Aveva preso, sì, due punti in più di prima, ma era un giovane leader emergente e si trovò a beneficiare delle debolezze altrui: la Dc era molto divisa e finì per spianargli la strada. Il governo Spadolini (Pri) arrivato a Palazzo Chigi due anni prima aveva rotto il vincolo dell’esclusiva democristiana sul capo del governo. Si fece largo un po’ per sue capacità, innate e indiscutibili, e un po’ per quella combinazione tra caso e fato che spesso segna il destino dei grandi uomini».
Anche perché doveva togliere le castagne dal fuoco, il debito pubblico impediva di realizzare opere necessarie, teneva fermo il Paese. La Dc sperava di esporlo per bruciarlo, o perché almeno si scottasse lui al posto loro? «Governare nella prima metà degli anni Ottanta era diffcilissimo. L’Italia scricchiolava con opere pubbliche e infrastrutture inalterate dal governo Fanfani. Il debito pubblico correva, e l’in azione lo inseguiva. Allora Craxi dimostrò di che pasta era fatto. Promosse un referendum sulla scala mobile che fu incredibilmente vinto a dispetto di una propaganda populista portata avanti dal Pci e dalla Cgil. Le persone votarono come diceva Craxi, pur accettando di ricevere meno soldi in busta paga. Avevano capito il senso del referendum».
Un leader riformista che fa l’all-in in un referendum e vince. Ci vuole coraggio, oggi sarebbe difficile. «Non ci sono paragoni possibili. Quella volta l’elettorato si mostrò maturo, consapevole».
Lei, Acquaviva, che ruolo aveva all’epoca? «Ero nella segreteria del partito, proveniente da una formazione cattolica che nel 1972 era entrata nel PSI. Ero vicino ai Lombardiani, la corrente di sinistra della quale era a capo Claudio Signorile. Ero capo della segreteria di Craxi dal 1976. Per un fatto di equilibrio e certamente di stima personale, appena incaricato di formare il governo, Craxi mi telefonò e mi chiese di andare a lavorare con lui a Palazzo Chigi. Dissi subito di sì. Mi ritrovai ad essere il suo ltro, il suo interfaccia con il mondo come Capo della Segreteria del Presidente del consiglio. Eravamo in due ad averlo seguito: io e Giuliano Amato, che fece il suo sottosegretario».
La Dc iniziò a capire con chi aveva a che fare. E la staffetta con De Mita, era stata pattuita o no? Adesso può rivelarcelo. «Ci fu una interlocuzione, mai un contratto scritto. Si misero d’accordo sul fatto che sarebbe stato Craxi a iniziare il percorso di riforme che poi De Mita avrebbe dovuto portare a termine. Due anni e mezzo ciascuno in cui Craxi avrebbe dovuto spingere in salita e De Mita avrebbe incassato al traguardo. Poi intervennero novità».
Craxi divenne il Presidente del consiglio più riformista di sempre. «Craxi entrò in sintonia con un Paese che stava cambiando pelle. C’era un’aria frizzante, voglia di impresa, di libertà, di rinnovamento profondo. Le novità furono tante: l’azione amministrativa era in asse con un’Italia in evoluzione. Ci fu il taglio della scala mobile che fece di Bettino Craxi un leader autorevole. Ci furono scelte dirimenti in politica estera. Vennero introdotte misure che premiavano la competenza e il merito nelle scelte, no ad allora legate alle spartizioni tra partiti».
E poi c’è stato il Concordato Italia-Vaticano, al quale ha lavorato anche lei. «Una pagina di storia che ha riconciliato Stato e Chiesa in un dialogo rispettoso. E che ha riguardato anche le altre fedi religiose. Craxi, da laico, capiva bene lo spazio che dovevano avere tutte le confessioni».
Il momento più difficile? «La crisi di Sigonella. Craxi non volle darla vinta a Regan, fece schierare un battaglione di Carabinieri armati fino ai denti intorno ai marines americani che volevano farsi consegnare Abu Abbas, il dirottatore dell’Achille Lauro. Il braccio di ferro di Craxi ai danni degli americani gli costò la fiducia del piccolo Pri, piccolo ma importante alleato di governo. Fummo convocati io e Amato e rimanemmo due notti a Palazzo Chigi, a scrivere e riscrivere il discorso che Craxi avrebbe dovuto tenere alle Camere».
Cosa ricorda di personale di quell’esperienza, professore? «Ah, professore. Ecco: io non sono neanche laureato. Come Craxi. Allora, la politica era una ragione di vita che assorbiva tutto. Chi dirigeva le organizzazioni, lasciava spesso gli studi. E Antonio Ghirelli, il geniale napoletano che dirigeva L’Avanti, cosa fece quando andai a Palazzo Chigi? Prese a scrivermi tre lettere al giorno, che batteva a macchina. Tutte indirizzate, appositamente, al Professor Gennaro Acquaviva. Così tutti i commessi prima, i dirigenti poi, in ne i giornalisti iniziarono a chiamarmi Professore. Ricordo la passione, l’impegno, la competenza che circondavano Craxi. Un uomo che ha sacrificato tutto per un senso dello Stato e delle istituzioni che oggi non esiste più».
Oggi non vede eredi di Craxi? «Servono visione, capacità di immaginare il futuro. Un erede socialista, visto come hanno voluto chiudere la storia di quel partito, non c’è. Ci sono delle similitudini con un giovane leader riformista fiorentino che ha governato l’Italia quarant’anni dopo di lui. La determinazione, il coraggio e la fantasia politica sono tre doti che i due hanno in comune». Aldo Torchiaro
Stefania Craxi: «Papà depose i fiori dove fucilarono il Duce. A una sua amante strappai un orecchino». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023
La figlia di Bettino Craxi: «Il tesoro esisteva, ma era del partito. Lui non mi ha lasciato nulla»
Stefania Craxi, qual è il suo primo ricordo di papà?
«Agosto 1964, vacanze a Venegono, Varese. È nato mio fratello, nella nostra famiglia siciliana c’è molta frenesia per il figlio maschio; e mio nonno materno, che si chiamava Vittorio come l’altro nonno ed era pure lui socialista, capisce e mi porta a fare una passeggiata».
Suo padre non era milanese?
«Era nato a Milano, parlava dialetto milanese, sapeva tutte le canzoni popolari, oltre a tutte le canzoni politiche, da quelle anarchiche a quelle fasciste; ma era un siciliano».
Suo padre cantava le canzoni fasciste?
«Era un uomo di sinistra, a casa di suo papà si riuniva il Cln lombardo. Ma mi insegnava la Sagra di Giarabub, che oggi non sanno neppure questi di Fratelli d’Italia… La domenica andavamo a passeggiare sul lago di Como. Un giorno ci trovammo davanti al cancello contro cui fu fucilato il Duce. Il cartello diceva: fatto storico. Craxi si indignò: “Che ipocrisia, si vergognano di quello che hanno fatto!”. Così mi portò a comprare un mazzo di fiori e a deporli dove era morto Mussolini».
Con Almirante aveva un buon rapporto.
«Sognava che un fascista e un socialista andassero insieme a piazzale Loreto, dove si era consumata quella che riteneva un’infame barbarie, e rendessero omaggio sia alla memoria di Mussolini, sia a quella dei partigiani socialisti che lì erano stati fucilati».
La domenica da ragazza lei non usciva con i suoi amici?
«Solo quando capivo che Craxi non mi avrebbe portata con sé. Lo seguivo anche nelle campagne elettorali, che erano bellissime. La prima fu nel 1968. Avevo otto anni, giravo il quartiere — stavamo in via Foppa — con uno zainetto, a distribuire nelle cassette della posta i volantini con la scritta Craxi-Nenni-Gangi».
Che papà era?
«Molto fisico. Non abbiamo una sola foto insieme in cui non siamo abbracciati o per mano. Ma era un padre impossibile».
Perché?
«Era gelosissimo di me; come io lo ero di lui. Infatti sono uscita di casa a vent’anni e mi sono sposata a 23. Solo dopo la sua morte ho fatto pace con i suoi difetti. Comprese le fidanzate di troppo».
Si favoleggia di un suo scontro fisico con Anja Pieroni.
«Le strappai un orecchino e glielo gettai dalla finestra; l’altro lo conserva ancora».
E suo padre?
«Si arrabbiò moltissimo: “Voi due mi farete finire sui giornali!”. Lui era così: sfuriate terribili; ma non portava mai rancore, a nessuno».
E sua madre?
«Craxi è sempre piaciuto alle donne, sin da quando aveva vent’anni, aveva già perso i capelli e non contava nulla. Mamma è stata l’unica a saperselo tenere».
Non portava rancore neanche ai comunisti?
«Craxi non voleva distruggere i comunisti. Voleva farli evolvere, per costruire l’unità socialista. Si chiedeva: ma perché Berlinguer ce l’ha tanto con me? Perché non viene a fare un giro a Milano, a vedere come cambia il mondo?».
Berlinguer fu fischiato al congresso del Psi, e suo padre disse: «Io non l’ho fatto, ma solo perché non so fischiare».
«Era la lotta politica. E Craxi non era un tenero. Se diceva: in questo collegio va Amato, in questo Martelli, i socialisti di quel collegio non entravano in Parlamento. Ma era un lottatore leale. E la politica non era tv, come oggi; era vita e morte».
Dice a caso i nomi di Amato e Martelli?
«No. Quando esplosero i primi scandali, a Milano e a Torino, Craxi mandò Amato come commissario. Craxi fu condannato perché non poteva non sapere. Amato poteva non sapere? Ad Hammamet non l’abbiamo mai visto».
E Martelli come si è comportato?
«Male. De Michelis era uno che si faceva eleggere da sé. Martelli a Craxi doveva tutto».
Berlusconi?
«Anche lui ad Hammamet non venne mai. Lo vidi al funerale. Piangeva. Gli dissi: arrivi con sei anni di ritardo. Ma da quel giorno nella mia battaglia l’ho sempre avuto al mio fianco. La gente cambiava marciapiede per non salutarmi. Quando scoprivano chi ero non mi affittavano casa».
È sicura che Craxi non volesse distruggere il Pci?
«Occhetto venne alle 8 del mattino al Raphael, senza appuntamento, per scongiurarlo di non andare al voto anticipato, mentre loro stavano cambiando nome; e Craxi lo accontentò. Li fece entrare nell’Internazionale socialista. Lo ricambiarono con l’esilio e la morte».
Suo padre fu condannato.
«Craxi si assunse, lui solo, una responsabilità che avevano tutti, e che tutti gli altri negarono. Furono salvati i comunisti e i democristiani schierati con loro. Gli altri furono sommersi».
Quando siete andati ad Hammamet la prima volta?
«Nel 1966. Aveva tremila abitanti; ora sono 80 mila. Un paradiso per gli adulti; una noia mortale per noi. Non una giostra, non un gelato. Andavamo nei cinque alberghi a leggere i cartellini delle valigie, per vedere se era arrivata qualche famiglia italiana con un bambino con cui giocare. Ma nessuno portava i bambini in Tunisia».
Tranne lui.
«Impietosito, inventò una caccia al tesoro che durò tutto agosto. L’ultimo biglietto, firmato Axi, diceva: “Picchi picchi nicchi nicchi/ siete proprio dei bei micchi/ il tesoro è qui a due passi/ e voi siete a cercar sassi/ il tesor, milioni e rotti/ troverete in via Condotti”. Lo conservo ancora».
Via Condotti?
«Nella conduttura dell’acqua c’era uno scrigno pieno di monetine».
Il tesoro di Craxi esisteva davvero. Nelle banche.
«No. Esisteva il tesoro del Psi. Dopo la morte del tesoriere Balzamo, diedero a Craxi i conti intestati ai prestanome milanesi. Ma erano solo una parte delle riserve del partito. Qualcuno se le è tenute. Altre saranno rimaste alle banche. Lui non mi ha lasciato nulla. A Milano abitava in affitto. A Roma in albergo».
Al Raphael, di cui si diceva fosse suo.
«Era di Spartaco Vannoni, il suo migliore amico. Pansa salì da Craxi a intervistarlo, e scrisse che stava in una stanzetta piena di giornali».
Quando suo padre era presidente del Consiglio c’erano Reagan, Thatcher, Mitterrand, Kohl.
«Al G-5 di Tokyo Craxi vide Reagan che usciva dall’ascensore e lo bloccò per venti minuti, lo ricordo appoggiato al muro. Lo convinse ad ammettere l’Italia tra i Grandi della terra. Gli chiesi: papà tu non sai l’inglese, in quale lingua avete parlato? Avevano parlato in spagnolo».
Si racconta che la rovina di suo padre sia legata anche alla rottura con gli americani su Sigonella.
«Non è così. Craxi fece rispettare la legge italiana e il diritto internazionale, e Reagan lo capì. Tangentopoli fu un capitolo della guerra tra la finanza internazionale e la politica; e ha vinto la finanza. Craxi ne ha ricavato un romanzo, in cui il capo della finanza si chiama Koros. Provi a sostituire la prima consonante con una S…».
I partiti rubavano.
«Il Pci prendeva i soldi da Mosca. Dc e Psi dalle aziende controllate dallo Stato. Era un sistema illegale, certo. Con cui Craxi sosteneva anche le cause della libertà, Solidarnosc e l’opposizione cilena. In casa nostra giravano dissidenti sudamericani e la Vanoni, Cavallo Pazzo e Lucio Dalla. Era uno spettacolo vedere un omone come lui accanto a uno gnomo geniale come Lucio. Il giorno in cui Craxi morì, Dalla disse al concerto: “Oggi ho perso un amico”, e gli dedicò Milano».
Cavallo Pazzo?
«Mario Appignani, quello delle incursioni a Sanremo. Craxi ha sempre avuto una passione per gli irregolari. Stava morendo, e si preoccupava per la salute di Cavallo Pazzo, chiedeva se lo curavano bene».
Lui fu curato bene?
«Sapeva che in Tunisia sarebbe morto. Ma mi disse: in Italia torno da uomo libero, o non torno. Insistetti, e mi fece la peggiore sfuriata della vita: “Come ti permetti di mancare di rispetto ai medici tunisini?”».
Però lo operarono i medici italiani.
«Rigatti del San Raffaele, all’ospedale militare di Tunisi, con un infermiere che gli reggeva la lampada. Al risveglio, ancora scosso dall’anestesia, mi disse: “Il generale Garibaldi non è più qui con me”».
E lei?
«Gli risposi: no, il generale Garibaldi è qui. Craxi aggiunse: ho sognato che ero in piazza del Duomo a Milano. La nostalgia della patria era straziante. Poi mi prese da parte la dottoressa Melogli, la diabetologa, e mi avvisò: il tumore si è esteso, non c’è più nulla da fare. Non lo dissi a nessuno, per proteggere mia madre e mio fratello. Sopravvisse un solo mese».
Era proprio impossibile riportarlo in Italia?
«Tentai fino all’ultimo. Parlai con Giuliano Ferrara che era amico di D’Alema, allora presidente del Consiglio: l’idea era curarlo in Francia. Il giorno dopo uscì il comunicato del premier Jospin: Craxi in Francia non era gradito. Richiamai Ferrara e lo pregai di dire al suo amico che era un cialtrone».
È vero che il giorno della sua morte avete litigato?
«Litigavamo spessissimo, ma non quel giorno. Mia madre era a Parigi per analisi mediche. Eravamo soli lui e io. Pranzammo in cucina, gli dissi: stasera ti porto al ristorante. Lui rispose: va bene, ma ora vado a riposare. Lo trovai riverso nel letto. Urlai. Il medico non poté che constatarne la morte. Mio fratello diede l’annuncio. Fino alle 8 di sera ho risposto al telefono che suonava ininterrottamente. Minniti offrì i funerali di Stato; rifiutai. Alle 8 arrivò mio marito da Milano. Soltanto allora crollai».
Vorrebbe che il suo corpo tornasse in Italia?
«No. Aveva detto: voglio essere operato qui, morire qui, essere sepolto qui. Per fortuna la sua memoria è viva. Ogni tanto mi scrive un ragazzo e mi dice: sono craxiano. E sa qual è la cosa buffa?».
Quale?
«Sono tutti di destra. La sinistra, cui apparteneva, l’ha disconosciuto. Chi votava Psi vota centrodestra».
Perché lo chiama Craxi e non papà?
«Per mantenere un distacco emotivo. E perché non voglio fare l’orfana. Ce ne sono già troppi in Italia, e di solito abbracciano quelli che gli hanno ammazzato il padre».
Estratto da ilsussidiario.net venerdì 1 settembre 2023.
Nata a Genova il 27 aprile 1961, Moana Pozzi era figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, ma a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma dove iniziò la sua vita e poi la sua carriera fino a diventare la regina del porno. In mezzo tanti amori e amorazzi ma, soprattutto uno che fece molto discutere, la sua liaison con Craxi e ne La filosofia di Moana raccontava: “Cominciò a farmi un sacco di complimenti (…) Ero gratificata (…) Due giorni dopo mi telefonò… Uscimmo soli. Cenammo in albergo e finimmo in camera. Lo feci per il carisma, non per altro. Allora non era nemmeno presidente. A lui piacevano più i preliminari che la cosa in sé. Era in adorazione per le donne, ti copriva di attenzioni, si preoccupava”.
Tratto da La Filosofia di Moana - Bettino Craxi, identificato come “Il segretario di un partito di sinistra”.
“Un pomeriggio di dicembre del 1981, Antonella, una mia amica intrallazzona, mi telefonò tutta eccitata e mi disse: “Questa sera sono riuscita ad organizzare una cena con un politico importante, mettiti il vestito più provocante che hai… voglio che tu lo conosca perché se vuoi fare l’attrice ti può essere molto utile. Adora le ragazze vistose” – racconta Moana a proposito del rapporto con un politico italiano che sarà identificato come Bettino Craxi, anche sulle pagine di Repubblica.
Quella sera al ristorante mi sentivo nervosa e fuori luogo, a tavola io e Antonella eravamo le uniche donne in mezzo a dieci uomini che parlavano sempre di politica. Lui, il segretario di un partito di sinistra, continuava a guardarmi pieno di interesse e dopo cena mi invitò a bere qualcosa nell’albergo in cui viveva. Non facemmo l’amore come avrei voluto, ma si masturbò accarezzandomi. Poi mi disse che aveva troppi pensieri per riuscire a concentrarsi (come quasi sempre successe in seguito).
A quell’incontro ne seguirono molti altri. Ci vedevamo nel suo albergo, in qualche ristorante di moda o a casa di una sua amica editrice. Qualche volta dormivo con lui. La mattina mandava il suo segretario personale a comprarmi dei vestiti e scarpe perché io avevo solo l’abito da sera del giorno prima e non potevo uscire dall’albergo tutta luccicante!
Il politico era un uomo spiritoso e con lui mi divertivo. Una mattina ricevette nel suo studio un cardinale mentre io ero nella stanza accanto. I miei vestiti erano sparsi dappertutto e ridevo all’idea che il cardinale si sarebbe potuto accorgere di qualcosa. Quando lui mi chiamava al telefono presso il residence dove vivevo si presentava dicendomi: “Sono un ammiratore dell’hotel…” Credo che mi volesse bene e cercò di aiutarmi nel mio lavoro.
Mi fece fare un servizio fotografico per Playmen, poi mi presentò al direttore di Raidue che mi inserì come conduttrice, insieme a Bobby Solo, in un programma per ragazzi, Tip Tap Club.
A lui non piaceva che io desiderassi fare cinema, mi diceva che era un ambiente poco serio e che avrei dovuto puntare tutto sulla televisione. Mi chiedeva spesso come facessi a mantenermi a Roma. A me seccava dirgli che avevo degli amanti generosi e gli rispondevo che i miei genitori mi mandavano un mensile. Quando otto mesi dopo, per colpa del mio carattere bizzarro smettemmo di frequentarci, mi dispiacque. Infatti se all’inizio avevo pensato di trarre solo vantaggi dalla sua amicizia, poi mi ero affezionata alla sua gentilezza e alle sue attenzioni. Voto, 7 e mezzo”.
L’amica editrice del politico alla quale si riferisce Moana è quasi sicuramente Adelina Tattilo, editrice di Playmen – non a caso infatti Craxi riuscì a farle ottenere un photoshoot sulla rivista. Tattilo fu amica di Craxi ed oltre ad essere la fondatrice di Playmen, fu una figura chiave nell’editoria italiana del suo tempo. Negli anni ’90 fondò anche la rivista gay Adam.
Ania Pieroni, l’amante di Craxi: dal primo incontro alla fine della relazione. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2023
Ex attrice, ha riscosso un grande successo con la sua interpretazione in “Inferno” di Dario Argento, oggi è in tv con «Fracchia contro Dracula». Per molti anni è stata sotto i riflettori anche per essere stata una delle amanti del Segretario del Psi
Galeotto fu il circolo socialista
Aveva 23 anni e si trovava a Milano. Avrebbe dovuto sposarsi con il conte Roberto Gancia, ma poi l’incontro che le cambiò la vita: un’amica socialista le propose di andare insieme al Circolo Turati e lei ci andò. Era il 1980 e Ania Pieroni stava per incontrare Bettino Craxi. Giovane e promettente attrice, aveva già recitato in «Così come sei» di Alberto Lattuada (1978), «Mani di velluto» di Castellano e Pipolo (1979), ma soprattutto in «Inferno» di Dario Argento. «Ero ancora una borghesuccia pariolina, non seguivo la politica. Quando mi dissero che era Craxi, non sapevo fosse il segretario socialista». Parole raccolte da Bruno Vespa e inserite nel suo libro «L’amore e il potere: da Rachele a Veronica, un secolo di storia italiana». Da quel primo incontro è nata una relazione andata avanti per parecchi anni, tra chiacchiere e rivelazioni. Oggi Ania Pieroni ha 66 anni e vive una vita riservatissima. Ma ricostruiamo la sua figura, tra il cinema, la televisione e la relazione con Craxi che l’ha portata sotto i riflettori per molti anni.
Il padre la voleva diplomatica
Ania Pieroni nasce a Roma, il 28 febbraio 1957. La sua è una famiglia di rilievo nella società borghese romana: suo nonno paterno era stato il podestà di Pescara mentre suo padre era il Cavaliere di Malta. Lei frequenta scuole private cattoliche, elementari e medie. «Poi chiesi a mio padre di togliermi da quell’ambiente perché, nonostante fosse il mio, non mi apparteneva più» ha raccontato a Vespa. Così si iscrive al Torquato Tasso, dove consegue la maturità classica. Alla fine del percorso, però, è indecisa sul suo futuro. Suo padre le consiglia di intraprendere gli studi di scienze politiche, lei vorrebbe accontentarlo ma l’istinto le suggerisce di iniziare a recitare. «Andai con mio padre a iscrivermi all’Università: lui mi vedeva nella carriera diplomatica e, in fondo, aveva ragione. Poi con grande dolore e per motivi miei pratici, presi la strada del cinema, anche se io lì non c’entravo proprio niente e sicuramente non mi consideravo un’attrice. Il fatto è che volevo lavorare, volevo crescere subito, entrare nella vita».
Dal cinema alla tv (che le regalò Craxi)
Così inizia a muovere i primi passi tra provini e set, esordendo nel ’78 in «Così come sei». Il suo è un ruolo di secondo piano che però le apre diverse strade, fino al grande successo del film di Dario Argento. Nonostante la notorietà e le soddisfazioni, nel 1985 partecipa alla sua ultima pellicola «Fracchia contro Dracula» di Neri Parenti (oggi alle 11.35 su Cine 34), dove interpreta la contessina Oniria, bella vampira che si innamora dell’agente immobiliare Fracchia e che uccide il cacciatore di vampiri Kaspar. Poi mai più film. Fu l’ultima apparizione sul grande schermo, in seguito si dedicò completamente alla televisione. Questi sono anche i primi anni di relazione segreta con Bettino Craxi. Il segretario del Psi si dimostrò sempre attento ai bisogni della sua amante, tanto che prima le regalò una casa e un albergo, l’Ivanhoe. Poi le consegnò le chiavi di un’emittente privata, la GBR, che divenne la prima del Lazio. Ania Pieroni ne fu la direttrice dal 1985 al 1991. L’attività venne accusata di ricettazione per aver incassato fondi dal Partito Socialista, anche se in seguito venne assolta.
L’orecchino strappato durante una rissa con Stefania
Intanto il segretario del Psi era spostato già dal ’59 con Annamaria Moncini, dalla quale ha avuto due figli, Bobo e Stefania. «È stata una grande storia d’amore, nel rispetto dei ruoli, nell’amore e nella solidarietà - raccontava Ania Pieroni - Dieci anni passati insieme, tranne i pochi giorni di Ferragosto, nei quali io andavo in Sardegna da mia madre e lui in Tunisia. Ci chiamavamo sette, otto volte al giorno, come d’altronde faceva quando andava all’estero per lavoro». Eppure, non sono mancati i contrasti con la famiglia di Craxi. Sia l’ex attrice che la figlia del leader socialista, Stefania, hanno raccontato di essere arrivate allo scontro fisico durante una festa della Sacis, società Rai per la distribuzione cinematografica. A raccontarlo a Vespa è stata Stefania Craxi: «Le misi le mani addosso, strappandole un orecchino. Credo che Ania conservi ancora l’altro». E infatti è proprio così. I rapporti poi, piano piano, si sono riallacciati. «Un giorno mi ha telefonato a Roma – aveva spiegato Stefania - Apprezzai il fatto che si fosse sempre comportata in modo discreto, sempre rispettosa della mia famiglia e di mia mamma. La vidi sotto un’altra dimensione, ci incontrammo. Lei ha voluto bene a mio padre e mio padre a lei. È stata una parte importante della sua vita, perciò ho deciso di accoglierla».
Una storia senza lieto fine
«Chi mi ha voltato le spalle? Tutti quelli che hanno voltato le spalle a Craxi» aveva raccontato a Giovanni Terzi per «Il Tempo». La loro relazione si conclude appena prima di Tangentopoli, nel 1991. Ania Pieroni si innamora di Osman Mancini, giornalista che lavorava per GBR e che seguiva la politica. Le cose iniziano a precipitare anche per l’emittente televisiva, che accumula un deficit di oltre sei miliardi di lire. Nel libro «Infedeli. Grandi amori e grandi tradimenti del Novecento» di Laura Laurenzi si parla dei conti dell’azienda: «Nel ’95 la Guardia di Finanza rivelerà che con i fondi di Gbr Craxi pagava fra l’altro anche i fiori, soprattutto le peonie, per la Pieroni: che dovevano essere bianchi e molti. E preziosi». Un dettaglio smentito dall’ex attrice. Tra l’altro, su Tangentopoli ha raccontato: «Nella bufera ci rafforzammo: lui combatté come un leone, io dalle ingiurie ne uscii con onore» . Quando lo scandalo travolse Craxi e si rifugiò in Tunisia, Ania Pieroni continuò a sostenerlo e a fargli sentire la sua vicinanza.
Il presente di Ania Pieroni
Nel 2006 ha divorziata dal suo ultimo marito, l’imprenditore Gennaro Moccia. In questo periodo Dario Argento pare le abbia proposto di tornare a recitare nel film «La terza madre», uscito nel 2007. Ania Pieroni però ha rifiutato, preferendo tener chiusa la porta del cinema. Politicamente si è schierata quando ha sostenuto Silvio Berlusconi partecipando attivamente nelle manifestazioni elettorali di Forza Italia. Su di lei, per il resto, si sa poco. Sulla sua pagina Facebook condivide gli scatti con i suoi familiari e con i suoi amici. E nelle foto spesso c’è anche il suo cagnolino bianco. Trascorre molto tempo con la sua mamma, tra Roma e Sardegna. Nessun riferimento al cinema e a Craxi tantomeno.
MARGHERITA BONIVER: “Craxi fu un vero leader. Con lui l’Italia diventò la sesta potenza industriale”. Ivano Tolettini su L'Identità il 5 Maggio 2023
“Bettino Craxi va ricordato innanzitutto come un grande socialista, poi come un grande uomo di Stato e un grande patriota. Egli ha rinnovato profondamente il partito socialista per tutta la durata della sua segreteria, dal 1976 al 1993, che non ha subito stranamente scissioni, una malattia perdurante per tutto il Novecento. E sa perché? Per la sua bravura e carisma, perché era profondamente democratico”. Margherita Boniver, figura di primo piano dei socialisti al potere, più volte ministra (agli Esteri e al Turismo), parlamentare anche della Seconda Repubblica e sottosegretaria agli Esteri dal 2001 al 2006 nei governi Berlusconi II° e III°, tratteggia la figura politica più controversa della Prima Repubblica come il leader morto ad Hammamet il 19 gennaio 2000 a 66 anni non ancora compiuti, inseguito dagli ordini di cattura di Tangentopoli. Boniver, presidente della Fondazione Bettino Craxi, lo fa nel giorno in cui nella sala Koch del Senato presiede l’incontro su “Craxi: oltre la destra e la sinistra?”.
Ma il suo decisionismo, presidente, il craxismo, era inviso a parte dell’opinione pubblica.
È ridicolo quando veniva descritto come un autocrate, una figura quasi dittatoriale, perché il dibattito nel Psi era profondo, ricco di contenuti e variegato. I congressi erano reali, si di batteva sulle diverse tesi anche dall’opposizione interna e dalla base.
Parliamo di un mondo politico che è stato cancellato.
Non solo per i socialisti, che non esistono più, ma anche per quei i partiti che si potevano chiamare tali, perché oggi sono soprattutto sigle legate a un nome e basta.
Craxi ha guidato il Paese per quasi cinque anni, un’Italia che usciva dalla tragica stagione del terrorismo e che nel 1986-’87 diventava la sesta potenza economica mondiale, superando la Gran Bretagna.
Va considerato un grande statista perché ha governato un Paese ricchissimo di iniziative e di capacità, però povero di materie prime e con un sistema istituzionale complesso. Craxi seppe interpretare e guidare l’Italia degli anni Ottanta che diventava potenza industriale. Sul piano politico pensiamo al dibattito sulla riforma istituzionale, la battaglia per il referendum sulla scala mobile che vinse praticamente da solo. Prima ancora la straordinaria iniziativa per salvare la vita di Moro. L’inflazione quando Bettino va a palazzo Chigi era a doppia cifra e quando se ne va era sotto l’8%.
La sua strategia fu di liberarsi dalla tutela del Pci e della Dc.
Sì e fu possibile grazie anche alle capacità di una squadra, come si dice oggi, che oltre a Craxi aveva grandi nomi come Martelli, De Michelis, Amato e molti altri socialisti di indubbia capacità.
In politica estera con gli Stati Uniti, di cui eravamo fedeli alleati, costruì però un rapporto in cui ritagliò all’Italia uno spazio di autonomia. La notte di Sigonella è storia.
Gli Stati Uniti avevano torto e Craxi non indietreggiò. Reagì nell’interesse del nostro Paese, dimostrando ancora una volta che non è indispensabile essere una grande nazione per avere una grande politica estera.
Sono trascorsi 23 anni dalla morte e trenta dalla stagione di Mani Pulite che decretò la sua fine politica, quali errori commise?
Beh, un errore tecnico politico quello di non spingere per non andare alle elezioni anticipate del 1991. Ma avvenne perché si stava per firmare il Trattato di Maastricht, eravamo alla vigilia di un importante operazione economica che cambiava l’Unione Europea. Poi evidentemente aveva sottovalutato l’odio quasi personale che spingeva i comunisti nel cercare di mettergli i bastoni tra le ruote ogni secondo. Basti ricordare che cosa accadde quando nel 1981 l’Italia, anche con il sì dei socialisti che non erano ancora al governo, decise di installare i missili Cruise in risposta agli SS-20 sovietici. Sfilarono milioni di pacifisti, tra virgolette, che urlavano Craxi boia, insomma c’era una potenza di fuoco del Pci che ha rivelato poi tutta la sua capacità quando è iniziata la falsa rivoluzione di Tangentopoli.
Ma Craxi è rappresentato come il simbolo della corruzione della Prima Repubblica, di un sistema malato denudato da Mani Pulite.
Nel famoso discorso alla Camera del 1993 l’ha detto lui stesso, ma intendiamoci non fu un’ammissione di colpa, ma una constatazione. I partiti, i politici venivano finanziati con fondi extra dal 1945 in avanti perché c’era la Guerra Fredda. La politica è costosa. All’epoca c’erano le sedi di partito e le sezioni, i congressi veri periodici, le attività quotidiane, i giornali di partito in perenne perdita. Ma ne traeva beneficio la nostra democrazia, non dimentichiamolo.
Il falso in bilancio era la prassi.
Ma tutti i partiti erano finanziati in modo irregolare e anche illegale, ma c’era stata l’amnistia del 1989, invece si scatenò la furia contro Craxi. Diventò il capro espiatorio anche per fare fuori i partitiche avevano dominato la Prima Repubblica, ma in primis i socialisti. Poi, per carità, ci sono stati anche i ladri, ma quelli non fanno la storia, devono pagare per il male fatto. Però indicare Craxi come il colpevole di tutto, mettere in piedi la famosa teoria del non poteva non sapere applicata solo a lui, è stata una operazione di una violenza inimmaginabile. Ci fu un chiaro disegno politico giudiziario per eliminarlo e processare per dieci anni Andreotti come capo della mafia, ricordiamolo. Invece, in qualsiasi altra democrazia gli avrebbero intitolato scuole di politica, perché Craxi è sempre stato come socialista dalla parte giusta della storia, ma alla fine ha prevalso quell’altra parte della sinistra, che ha avuto torto proprio di fronte alla storia, finanziata dall’Unione Sovietica, cosa per cui non ha mai chiesto scusa una sola volta agli italiani.
LA FORCA DEL RAPHAEL - Dagospia il 30 aprile 2023. - 30 ANNI DOPO, LUCA JOSI (ALLORA SEGRETARIO DEI GIOVANI SOCIALISTI) SU "OGGI "RACCONTA LA DRAMMATICA SERA DELLE MONETINE TIRATE A CRAXI: “IO E IL FOTOGRAFO CICCONI ERAVAMO FERITI, MA LUI RIPETEVA: SORRIDETE” - BERLUSCONI, INTERVISTATO IN QUEI GIORNI SULLE ACCUSE RIVOLTE A CRAXI, SE LA CAVÒ CON UN DIPLOMATICO: “CI SARANNO I PROCESSI”. E BETTINO RISPOSE, PUNTANDO IL DITONE VERSO LA TV: ”E I PROSSIMI SARANNO I TUOI”
Estratto dell'articolo di Luca Josi per “Oggi” il 30 aprile 2023.
La storia, quando decide di farsi, mica ti avverte. E spesso, manco te ne accorgi; soprattutto se ci sei dentro. Così è stato per quel 30 aprile del 1993: la sera delle “monetine al Raphaël”.
Per anni, ben 30, ho letto racconti e testimonianze di quell’evento. Alcune precise e attente – tra tutte 30 aprile 1993 di Filippo Facci – e altre decisamente liriche e romanzate o semplicemente cialtrone. Come faccio a sostenerlo? Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio; seduto alla sinistra di Craxi. Perché? Ero il segretario dei Giovani Socialisti; avevo 26 anni e oggi sono, probabilmente, il più giovane fossile vivente della “Prima Repubblica”.
(...)
Il clima non era dei migliori. Gianfranco Funari, nel 1992, su Italia Uno, faceva spot dal tono "Vai avanti Di Pietro!" - poi verrà con me ad Hammamet, ricredutosi su quella stagione, per incontrare Craxi e ancora, negli anni successivi il più diffuso settimanale del tempo, TV Sorrisi e Canzoni, usciva con la copertina dedicata all’idolatria del magistrato di Montenero di Bisaccia (11 luglio 1992: Di Pietro facci sognare; 12 febbraio 1994: Di Pietro Bis).
Silvio Berlusconi, editore del settimanale, intervistato in quei giorni sulle accuse rivolte a Craxi, se la cavò con un diplomatico «Ci saranno i processi», frase alla quale Craxi rispose, puntando il ditone verso il televisore di fronte a noi: «E i prossimi saranno i tuoi!» (in realtà gli voleva molto bene, ma non serviva Nostradamus per capire che sarebbe andata a finire proprio così).
Tangentopoli nasce per fatti consumatisi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della “Prima Repubblica”). Con questo artificio, il finanziamento veniva definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti: oltre 4 mila arresti, 42 suicidi, 25 mila avvisi di garanzia, 1.069 parlamentari e uomini politici coinvolti. Questa è stata Tangentopoli. Non una guerra. Ma nemmeno una bella pace.
Per questo Craxi, unico dei leader della politica italiana, andò a fissare alcuni concetti nel luogo deputato: alla Camera. In realtà lo fece in più appuntamenti tra il ’92 e quel ’93. Disse cose laceranti per i partiti che «hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale». Attenzione non è il “tutti colpevoli, nessun colpevole”. No, è il tutti colpevoli e basta.
Incassò un silenzio assordante. Sarebbe bastato che si fosse alzato uno dei presenti per fare, che so, una pernacchietta. Niente. Tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico. Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. Per questo, in politica, chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere. O faccia leggi per scongiurare questo ricatto. E così, trent’anni dopo, ci ritroviamo tra contenziosi per scontrini, leader politici consulenti di sceicchi e combattive brigate per la difesa dell’indennità non riversata al partito.
Ma se vi rileggete o ascoltate gli interventi di Craxi e poi li confrontate con quelli dei leader che sono seguiti, il sentimento più naturale da cui sarete pervasi è lo sconforto. Craxi, va riconosciuto, era assai odiato. Sarà per quella “x” sparata in mezzo al cognome, sarà per l’altezza e “quel suo guardarti dall’alto in basso” (ma se era più di un metro e novanta che avrebbe dovuto fare? Accucciarsi?), sarà per quella vocazione a decidere in un Paese notoriamente indeciso a tutto, ma così era.
E c’è una parte di quelle sue denunce, dentro il Parlamento, che produsse mutismi ancora più rumorosi (o per chi è suggestionabile, inquietanti). Leggete qui cosa dirà, sempre in Parlamento, nel 1993, sui fatti più clamorosi di quei mesi: «Chi sono i criminali che hanno messo le bombe di fronte ai monumenti d’arte, basiliche, luoghi storici e che probabilmente tenteranno di metterne ancora? Chi sono gli assassini che hanno provocato stragi di cittadini innocenti e di servitori dello Stato? (…) C’è una strategia, una tempistica, degli obiettivi che vengono perseguiti con una violenta determinazione. Ritengo che, non da oggi, agisca nella crisi italiana una “mano invisibile”, che punta a esasperare tutti i fattori di rottura e per ottenere questo scopo non esita a ricorrere al classico metodo criminale del terrorismo. Terrorismo mercenario e professionista, non terrorismo ideologico».
Ma di che parlava quest’uomo, tutt’altro che suggestionabile, già presidente del Consiglio e incaricato per l’Onu per le politiche del debito? Il clima rimosso e mai esplorato di trent’anni fa annotava decine di strani furti in case di parlamentari, ministri e leader politici. Il 3 gennaio del 1990 venivano rubate al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, le pistole di ordinanza dalla sua auto. Seguiranno sue denunce alla Commissioni stragi il 9 gennaio del 1991 («Vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno») e una sua circolare, “Riservata”, ai Prefetti, datata 16 marzo 1992 in merito a un piano per «destabilizzare l’Italia».
È incredibile che di quegli anni, per esempio, sia stato dimenticato il blackout di Palazzo Chigi seguito, immediatamente dopo, alle bombe di via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma nella notte tra martedì 27 luglio e mercoledì 28. Il Palazzo del Governo non venne isolato per un guasto della centralina interna, ma per un blackout indotto dall’esterno. Torniamo alla vigilia di quel 30 aprile. Si votava l’autorizzazione a processare. Craxi e noi sapevamo che saremmo stati sconfitti (io ero seduto sulle tribune della Camera, alle sue spalle, non essendo parlamentare). Ma la votazione andò diversamente. I miracoli sono una cosa seria, e non si scomodano certo per vicende così mondane. Accadde solamente che diverse forze politiche, che avrebbero voluto gridare allo scandalo, votarono nel segreto dell’urna per salvare Craxi in aula. E poi scannarlo in piazza. E così andò.
Siamo al 30 aprile. Con Craxi dividevamo un ufficio in via Boezio (il partito, come l’intera classe politica, si stava “onestizzando” e quindi non c’era più spazio in via del Corso per lui, e il sottoscritto, nella sede del Psi). L’ufficio verrà soprannominato dalla stampa “il covo di via Boezio” in ragione dei segretissimi dossier lì contenuti: per la maggior parte le cartelline dei miei articoli ritagliati (in verità molto ordinati). Si trovava nel palazzo accanto allo stabile in cui vivevano l’ex presidente Francesco Cossiga e l’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli, in via Quirino Visconti; sotto di noi, uno dei primi centri massaggi dalle prospettive equivoche (una volta, fuori Roma, vidi la notizia sul Televideo: «S’incendia l’ufficio di Craxi», ma in realtà, fortunatamente, era il centro massaggi, probabilmente in ragione dell’escandescenza di qualche focoso cliente). Quella mattina Serenella Carloni, la storica segretaria di Bettino, mi aveva confermato che lui non si sarebbe affacciato da noi.
Craxi decise quel giorno di non lasciare l’albergo. Viveva al Raphaël, di proprietà del suo fraterno amico, Spartaco Vannoni, ex comunista, mancato qualche anno prima. La sua stanza era un monolocale in cui tutto sembrava arredato con la cura dello studio di Geppetto nella balena di Collodi: libri, cimeli garibaldini, carte, quotidiani, riviste e poi ancora libri (e se cercavate gli anni Ottanta trovavate quelli del secolo precedente). Arredamento: ordinario disordinato.
Il Raphaël si affaccia su Largo Febo; Febo, probabilmente, sta per Apollo, dio adottato da Augusto come difensore delle tecniche, scienze, bellezza e della luce. E qui il mito diventa strabico: Largo Febo è stretto e buio. Si trova a pochi metri da Piazza Navona, ma non la vede (un po' come stare al Louvre, a qualche metro dalla Gioconda, e avere la vista sui bagni).
A spanne misurerà, a vantarsi, 200 metri quadri. Per ospitare coloro che giurano, in una sorta di proiezione isterica collettiva, di essersi ritrovati quella sera in quel luogo, a urlare o semplicemente a guardare, sarebbe servita una piazza un poco più grande di piazza Tienanmen.
La facciata dell'albergo è la quinta scenica di questo teatrino e il nome rimanda, forse, a Raffaello che ha affrescato l'arco della cappella Chigi a Santa Maria della Pace alle sue spalle. Intanto il tormentone, quotidiano, della mia risposta alla prima telefonata di Craxi: «Cosa bolle in pentola?» «Noi», quel giorno suonava meno ironico.
La stampa strillava allo scandalo e alcuni quotidiani erano usciti in formato manganello etico (il giornale che, ripiegato più volte, offriva per tutta la lunghezza la scritta "Vergogna!" a caratteri cubitali, maiuscoli e in grassetto). L'unico appuntamento della giornata era l'intervista in diretta, in prima serata, con Giuliano Ferrara (presso gli studi di Canale 5).
Di ora in ora, le forze dell'ordine modificavano il loro assetto con alternanza di corpi e mezzi; all'interno del Raphael molti i poliziotti; quelli in borghese si riconoscevano dal tintinnio delle manette appese alla cintura. Perché le manette? Per l'intera giornata feci la spola tra via Boezio e il Raphaël per incontrare quegli amici e collaboratori ancora storditi dall'imprevista notizia del giorno prima; in realtà ero furibondo per non essere riuscito ad armare un manipolo sufficiente a reagire a quel clima (il mio spirito cristiano si ferma a porgere la seconda guancia; oltre si può reagire).
Mi muovevo con la mia "moto blu': un Peugeot Metropolis di terza mano, appunto blu, privo di diversi elementi funzionali e decorativi, così da renderlo, almeno fino al 1997, resistente al furto. Il rumore di quelle ore si era apparecchiato attraverso numerose giornate di silenzi; silenzi a pranzo, silenzi a cena. Non c'era nessuno, perché lui non voleva più vedere nessuno e perché molti avevano paura a farsi vedere con lui. Meno male che qualcuno veniva a trovarci nelle nostre case e nei nostri uffici. Solo che avveniva quando noi non c'eravamo.
Craxi, la sua famiglia e il sottoscritto ricevemmo in quel periodo, in quelle abitazioni, 11 perquisizioni vestite da furti. Forse era per toglierci qualcosa, forse era per mettercelo. Ma almeno ci tenevano vivi regalandoci un po' di attenzione. Il Pds aveva deciso di organizzare a Piazza Navona, per il pomeriggio inoltrato, la manifestazione del suo popolo, così da urlare la sua indignazione e poi farla confluire nella piazzetta alle spalle.
Per l'intera mattinata, le agenzie, radio e telegiornali avevano soffiato sul clima di rivolta nel Paese: fax, proteste, mancavano le processioni, ma il Paese "civile" stava reagendo (Gianfranco Fini, per esempio, annunciò iniziative esemplari e il Secolo d'Italia pubblicò il numero del Quirinale, così che i cittadini «potessero far pervenire alla Presidenza della Repubblica il loro sdegno»).
A Roma si dice che «l'inventore della forca ci mori impiccato», conseguenza del «c'è sempre un puro più puro che ti epura», ma la predestinazione di zona era incline alla tipologia di spettacolo: Mastro Titta, il boia di Roma, esercitava la sua apprezzata professione qualche via più a nord mentre poco più a sud fu arso vivo Giordano Bruno e un po' più a sud ovest fu squartato Cola di Rienzo. Insomma, quando Craxi, in Tunisia, mi ripeteva «in fondo, nella lotta politica, morire nel proprio letto è un privilegio», penso focalizzasse questi esercizi della creatività umana.
Verso le otto della sera mi avverte che sta per scendere. Mi allontano dal poliziotto che mi marcava per invitarmi a suggerire a Craxi un'uscita sul retro (decisamente allarmati per il disastro tattico che aveva consentito il crearsi di quell'assembramento di fronte all'albergo). Sceso nella hall, tutto si consumò velocemente. Craxi rivolse delle premurose scuse agli ospiti dello hotel, involontari spettatori di quel disordine, e quando il poliziotto mi pregò con gli occhi di anticipare la proposta di dipartita tattica, fu facile anticiparlo: «Glielo dica lei».
Non credo che Craxi abbia nemmeno ascoltato l'invito. Continuò a marciare verso la porta principale e, controllato che ci fossimo tutti, sibilò: «Andiamo!». "Tutti" eravamo tre: Nicola Mansi, il fido "Orso biondo", la gigantesca ombra, autista e guardia del corpo, di Craxi; Umberto Cicconi, suo fotografo, una faccia da Hollywood pronta a farsi esplodere per Craxi, e il sottoscritto. E quindi andammo incontro all'onda. E la sera diventò giorno di flash. E non fu un disegno mediatico. Infatti, il giorno dopo nessun quotidiano racconterà quel fatto in prima pagina e quelle immagini, ripetute all'inverosimile, saranno il frutto della casuale presenza di una troupe (idem per quei pochi scatti fotografici rimasti).
L'auto blindata, una Thema, un cassone inguidabile e impacciato, veniva battuta da caschi e da ogni tipo di oggetto disponibile alla calca umana che usava la macchina come un tamburo. Nonostante la palese assurdità dell'accerchiamento - in quella stagione di bombe e attentati - non celebrai il rito scaramantico che si compiva a ogni entrata in auto: girare la mezzaluna interna alla carrozzeria blindata per infilare la canna della mia Colt Calibro 38.
Avevo 26 anni, appunto, ma giravo armato - con regolare licenza - dopo la terza visita alla mia abitazione nella quale mi era stato lasciato un proiettile sulla scrivania; io da quel giorno ricambiai i sopralluoghi indesiderati preparando una selezione di carte che volevo i miei interlocutori approfondissero, insieme a un bicchiere d'acqua e un cioccolatino. Lassativo.
Sul lunotto di quell'auto guardavamo intanto i volti stravolti da una ferocia e da un'eccitazione invasata. Capivamo che si stava consumando un rito espiatorio: il problema è che il capro eravamo noi. Quindi, in quella sera illuminata a forca, la macchina avanzò lentamente; sia Umberto che il sottoscritto eravamo stati feriti da qualche oggetto, ma l'imperativo che Craxi ripeteva, controllato e senza tradire emozione, era: sorridete.
Non era un gesto provocatorio, ma ultima arma che ti rimane quando sei circondato dai fumi dell'irrazionale: ridergli addosso. L'inverno della politica stava sfumando, lasciando spazio alla primavera dell'antipolitica. Ovvero, la politica di qualcun altro.
La stagione ci riportò al clima di terrore mussoliniano. 30 aprile 1993: quelle monetine squadriste spianarono la strada al golpe. Biagio Marzo su Il Riformista il 30 Aprile 2023
Il 30 aprile 1993 è una data da non dimenticare. Non soltanto per i socialisti, ma per la democrazia italiana, che d’allora in poi non fu più quella costruita dai Costituenti, dopo la caduta del fascismo. Non è un paradosso, ma gli eventi che si susseguirono da quel famigerato giorno, resta nella memoria in modo incancellabile, perché da lì fu spazzata la Prima repubblica e la sua classe dirigente e chi si salvò, sono soltanto delle mosche bianche.
Fu consumata una aggressione squadrista di matrice abbastanza eterodossa di fascisti ed ex comunisti, con il lancio di monetine al leader del Psi e già presidente del Consiglio, Bettino Craxi. Un episodio mai verificatosi nella storia d’Italia, che è passato in sordina. Diciamo trascurato dai più, dai mass media scritti e parlati, perché compromessi, se non fosse stato messo alla luce a tutto tondo dal libro di Filippo Facci: 30 Aprile 1993 Bettino Craxi L’ultimo giorno della Repubblica e la fine della politica. Infinitamente grati all’autore per aver ricostruito momento per momento quel tragico episodio che, di certo, non fa onore e prestigio alla Repubblica italiana.
Naturalmente non fu una “folla”, sull’onda dello spontaneismo, quella che si trovò di fronte all’Hotel Raphael per “linciare” Bettino Craxi. Fu tutto organizzato dalla a alla z dal Pds – ex Partito Comunista Italiano – guidato da Achille Occhetto. Non a caso, in quel tardo pomeriggio, questi tenne un comizio a Piazza Navona a due passi dall’albergo in cui il leader socialista alloggiava e dal Movimento Sociale Italiano, con a capo Gianfranco Fini, di cui non diciamo nulla se non che è fuori dalla politica per ragioni giudiziarie.
Gli avvenimenti di quei giorni furono tali che i due partiti in questione presero come “capo espiatorio” il leader socialista, sottoposto a un accanimento giudiziario da parte del pool Mani pulite, per finanziamento illegale dei partiti, poi trasformato in corso d’opera in corruzione e concussione. Non bastava il finanziamento illecito, bisogna caricare l’indagato di colpe maggiori, per rendere più credibili le inchieste e per simboleggiarlo come il “mostro” della politica italiana. Che si aggiunga a ciò, che tutta la politica italiana veniva finanziata illegalmente e non parliamo del Partito Comunista italiano finanziato dall’Urss: straniero e nemico. Salvato dalla legge approvata nel 1989 sui finanziamenti irregolari. Secondo Valerio Riva il Pci ha ricevuto dai 850 ai 1100 milioni di lire da Mosca.
Prendendo a pretesto le inchieste su Craxi e i socialisti e i partiti del pentapartito, Pds e Msi si mossero, fiancheggiati dalla stampa in mano ad editori come Agnelli (i vertici Fiat in testa con Cesare Romiti furono coinvolti nelle inchieste ) e De Benedetti (di seguito arrestato e miracolosamente rilasciato)e supportati dalla loro stampa di partito (Pds) e quella che si definiva “indipendente” (gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi faceva il “giustizialista”fino a quando il Cav non scese in politica con Forza Italia e provò anche lui l”emozione” dell’avviso di garanzia), per capovolgere il quadro politico democratico a loro favore.
Insomma, il circo mediatico giudiziario si mosse come una flotta con la nave ammiraglia, il Corriere della Sera al fianco gli incrociatori: Repubblica, l’Unità e La Stampa. Fuori di dubbio che il “luogo a procedere” agli ex comunisti e ai missini fu dato dalle inchieste di Mani pulite che, alla distanza, sono uscite fuori alcune verità che non hanno nulla a che fare con la giurisdizione, come il trucco che il gip, Italo Ghitti, tutte le inchieste di Mani pulite l’aveva lui e lui solo. Non è tutto. Il vice procuratore D’Ambrosio non ebbe il fair play di non presentarsi nelle liste dei Ds, come prima di lui, Di Pietro, candidato da D’Alema nel collegio del Mugello come senatore. C’è dell’altro. Il pm Gherardo Colombo aveva proposto che i politici che avessero confessato i loro reati al Pool dovessero lasciare la politica: nel caso che fossero parlamentari si sarebbero dovuti dimettere per poterla farla franca.
La piega che prese tutta la vicenda di Tangentopoli era più da Stato etico che da Stato di diritto. Mani pulite faceva le sue “fortune” sull’utilizzo al massimo, a gogo, della custodia cautelare, un modo come un altro di tenere in carcere l’indagato per farlo parlare. Ovvero accusare un politico, innanzitutto, o un imprenditore. Era il metodo Di Pietro omaggiato e ossequiato e persino definito – copyright di Giorgio Bocca – l’ “eroe dei nostri tempi”.
Craxi si trovò, in quel pomeriggio del 30 aprile di quell’annus horribilis, in un certo senso in quel clima assurdo già vissuto – ironia della vita politica italiana – all’inizio dell’avvento del fascismo quando le squadracce assaltavano e bruciavano la redazione dell’Avanti! e non solo. Basti citare l’affaire Matteotti e i casi dei fratelli Rosselli e di Gobetti per raccontare di quel clima criminogeno fascista. Non vogliamo fare paragoni ma il 30 aprile i virus fasciocomunisti c’erano.
Sembra assurdo, ma non siamo troppo lontani da quegli avvenimenti allora mussoliniani e poi “dipietreschi” – a sua insaputa- del popolo che scendeva a protestare davanti alla Procura di Milano o inviava i fax. Dopo un decennio, il Procuratore capo di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli confessò, con onestà intellettuale, che il Pool aveva distrutto la classe dirigente della Prima repubblica, per trovarsi di fronte a una inesistente, per non dire peggiore.
Intanto continua sui socialisti e su Craxi soprattutto la damnatio memoriae mentre in Italia tutto passa in cavalleria e un avviso di garanzia è diventato quasi una inezia, una pinzillacchera, per dirla con Totò. Mentre prima era uno spergiuro e una infamia, una sorta di lettera scarlatta per chi lo avesse ricevuto. I tempi cambiano, ma non migliorano.
I vinti della storia sono stati e sono inquilini di Palazzo Chigi, avendo usato la via giudiziaria al potere. Per dirla tutta, Meloni non c’entra nulla con le vicende passate, ma i suoi antichi amici di partito sì, perché le fecero da battistrada.
Togliatti, ministro di Grazia e giudtizia, per pacificare l’Italia usò la legge sulla amnistia, con i suoi pro e suoi contro, ma fu un passo decisivo per pacificare il Paese e non per farlo sprofondare ancora di più nella guerra civile. Non si tratta di questo, la mia è solo una reminiscenza storica, ma almeno a Craxi vogliate chiedere scusa. E dedicargli una targa proprio laddove subì quell’aggressione squadrista che spazzò via un’intera storia politica.
Biagio Marzo
Oggi è uno statista...Il delitto Craxi, la storia della morte politica di Bettino: 30 anni dopo tutti si stracciano le vesti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Aprile 2023
Ora si stracciano le vesti. Tutti, i politici di allora e di oggi, gli ex cronisti giudiziari di Milano che brindarono alla sua prima informazione di garanzia, e anche qualche ex pm della procura che gliela aveva inviata. Oggi Bettino Craxi è uno statista, e ha impiegato trent’anni a diventarlo. Ma statista lo era allora, quando era vivo e forte, prima di diventare il “cinghialone”, inseguito da torme di cani feroci che istigarono cittadini spesso inconsapevoli ad assalirlo fino a mettergli i denti nel collo e ucciderlo. Politicamente, giudiziariamente, fisicamente. È stato un delitto, inutile cercare di addolcire con le parole quel che gli hanno fatto, fino a farlo morire esule. Si, esule, come gli antifascisti.
La famosa sera delle monetine, quella che non ha più padri né madri né sostenitori o simpatizzanti, è stata quella del 30 aprile 1993. Domani saranno passati esattamente trent’anni. È stata la sera in cui i compagni non disdegnarono di manifestare insieme agli ex fascisti del Msi né gli uomini di Almirante di accompagnarsi ai comunisti. Nessuno li fermò, né il segretario del Pds Achille Occhetto, che aveva appena terminato un comizio in piazza Navona, a due passi dalla residenza del segretario socialista all’hotel Raphael, e neanche le forze dell’ordine.
Tutti assetati di sangue e di ghigliottine, uniti nel gridare “eccolo eccolo!” per indicarlo al boia e alla gogna, e poi assalirlo fisicamente con ogni oggetto contundente fosse a portata di mano. Bettino rimase sconvolto, più che impaurito. E commentò di aver provato per la prima volta sul proprio corpo che cosa fosse lo squadrismo. Dopo, non sarà più Presidente del consiglio e neanche deputato, e neanche alcunché. Esule. Quella sera fu la certificazione della sua morte politica. Che era avvenuta un anno prima, insieme a quella di Francesco Cossiga, il presidente della repubblica prima voluto e poi ripudiato e combattuto dalla sinistra. E, quasi negli stessi giorni, insieme agli assassinii di Falcone e Borsellino. Il maledetto 1992.
Così si racconta Bettino Craxi: “Parlare ad alta voce e ripetere le proprie idee fino a sfiancarsi. Unire delle forze e tenerle unite. Guardare alto. È il solo modo per difendere la propria libertà e la propria indipendenza”. È il 1992 e dopo le elezioni politiche lui ritiene giusto il proprio ritorno a Palazzo Chigi. Crede di avere un accordo in tasca, ma non sarà così. Soffia un venticello. E a lui non resterà che lasciare, a futura memoria, due discorsi. Che saranno memorabili. Il primo ancora in attacco, il secondo in difesa. Ci crede ancora il 3 luglio del 1992, il leader del Psi, pur mentre sta votando la fiducia a colui che ha preso il suo posto, Giuliano Amato. Ci crede, e lancia due grandi temi come programma di governo: la modernizzazione e la moralizzazione della vita pubblica. Non tanto la ”questione morale” berlingueriana, quanto un processo di trasformazione, “che deve essere affrontato con serietà e rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche”.
Propone un cambiamento di rotta. È il più lucido nel capire che i partiti con il finanziamento illecito hanno tirato troppo la corda. Non viene ascoltato. Un anno dopo è troppo tardi. Se il disegno di Bettino, di modernizzazione e moralizzazione avesse quel giorno, e in quelli che seguirono, trovato udienza, Craxi sarebbe stato il salvatore della democrazia, simbolo del Bene. Invece fu il Male, e si arrivò a quel tragico 29 aprile del 1993 e a quel che ne seguì, con la serata delle monetine.
Ma quel 3 luglio del 1992 lui ci credeva. Non era uomo da sfumature, e non ne usò. Aveva alle spalle giorni che non avevano nulla di normale, per quel che accadeva nel mondo della politica e soprattutto nel Paese. Gli eventi si susseguivano a ritmi vorticosi. Una cronologia impressionante, ritmata da due parole che, a partire da quei giorni, non ci abbandoneranno più: giustizia e ingiustizia. Il Presidente Francesco Cossiga, l’unico a non farsi intimorire dal sindacato delle toghe, fino a minacciare di mandare i carabinieri a quel Csm che pure lui stesso presiedeva, abbandonato e colpito dall’apertura di un procedimento di messa in stato d’accusa aperto dallo stesso partito, il Pci-Pds, che lo aveva fatto eleggere alla prima carica dello Stato. Il Comitato parlamentare per le accuse in seguito aveva ritenuto infondato il procedimento. Ma dopo che lui era stato costretto alle dimissioni, il 28 aprile.
“Dopo” diventerà un’altra parola chiave di quegli anni. I riconoscimenti postumi, in seguito ad assoluzioni e suicidi. Date vorticose, segnate dalle informazioni di garanzia che saranno lo spartiacque della politica e delle tragedie successive. I primi personaggi di rilievo nazionale a ricevere l’avviso del pool saranno i due ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, ormai parlamentari. E siamo al primo maggio. Ma subito dopo i magistrati milanesi arriveranno all’amministratore della Dc Severino Citaristi e al segretario del Pri Antonio Del Pennino, e poi persino a Giorgio La Malfa, che voleva fare il “partito degli onesti”. L’inchiesta di Milano è entrata mani e piedi nel Palazzo. Non ci sono più fatti locali, e neanche posizioni individuali. Si comincia a processare “il sistema”. La storia, possiamo dire oggi. Ma intanto un altro soggetto si manifesterà all’orizzonte, con tutta la sua forza maledetta. Alle bombe giudiziarie quel giorno si sovrapposero quelle vere.
Il 23 maggio nella strage di Capaci viene ucciso Giovanni Falcone, magistrato di sinistra poco amato dalla sinistra, uno dei pochi favorevoli a quella riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che il Paese sta ancora aspettando, trent’anni dopo. Due giorni dopo il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro come Presidente della repubblica. È cambiato tutto, e anche la mafia ha detto la sua. Falcone non piaceva alla sinistra del Pds perché si era “venduto”, andando a dirigere gli affari penali negli uffici del guardasigilli socialista Claudio Martelli. Ma per motivi ben più seri, le sue grandi capacità investigative, non piaceva neanche a Cosa Nostra. E intanto lo stesso ministro Martelli si era dimesso dopo una telefonata in cui il procuratore di Milano Saverio Borrelli gli preannunciava l’arrivo di un’informazione di garanzia. Accerchiamenti concentrici. In questo clima da caccia grossa cominciavano a sentirsi i brividi dei primi suicidi. Siamo già a tre, in quei giorni, mentre il procuratore aggiunto di Milano, Gerardo D’Ambrosio, forse non presagendo la slavina che verrà e travolgerà così tante vite, si lascerà andare a un commento imperdonabile anche da chi gli era stato amico: “A volte si muore anche di vergogna”.
Quello fu il clima in cui prese la parola Bettino Craxi. Fu l’unico lungimirante, ma non fu capito. O forse era tale e tanta la fame di invidia e di vendetta, la voglia di spartirsi le spoglie dei partiti che in effetti, a partire dal 1994 e dall’irruzione nella politica di Silvio Berlusconi, sparirono dalla scena politica, da rendere miope un’intera classe politica. Sarebbe cambiato tutto, se avessero ascoltato Bettino Craxi. Si sarebbe persino potuti arrivare a un accordo con la magistratura, non come lo volevano Borrelli e Colombo, con i leader di partito in ginocchio a chiedere perdono e lasciare la politica. Ma con una vera campagna di modernizzazione e moralizzazione.
Per la moralità, che è il contrario del moralismo e del giustizialismo. Craxi sfidò il Parlamento e i partiti ad ammettere che i loro bilanci erano falsi o falsificati. Ma nessuno fiatò, pensavano tutti di salvarsi. E quando un anno dopo, ormai sulla difensiva, sarà lui a essere “salvato” dalla Camera, che boccerà quattro delle sei richieste di autorizzazioni a procedere, non potrà che porgere il petto alle baionette che si scaglieranno su di lui sotto forma di monetine. E la prima conseguenza, verso la fine del 1993, sarà quel colossale assalto alla democrazia che sarà l’abolizione dell’immunità parlamentare, l’unico fondamentale contrappeso voluto dai padri costituenti perché non fossimo destinati a subire la repubblica giudiziaria che, da allora, non è mai tramontata. Inascoltato Craxi, umiliato Cossiga, ucciso Falcone, assaltato da faldoni giudiziari e baiardi vari Berlusconi. La stagione delle monetine sembra non finire mai, come i rotoloni della pubblicità.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Trent’anni fa le monetine contro Craxi all’hotel Raphaël: la notte in cui morì la Prima Repubblica. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.
Il 30 aprile 1993 la folla attacca il leader Psi sotto quella che era la sua casa. Le testimonianze del pm di Mani Pulite Colombo e quella di Occhetto: «Quella sera nacque il populismo». L’unico fotografo che immortalò la scena: «Uscì a testa alta, mi colpì»
30 aprile 1993: Bettino Craxi esce dall’hotel Raphaël, a Roma, bersagliato dalle monetine lanciate dalla folla riunita in largo Febo. È l’unica fotografia esistente di quegli attimi: fu scattata dal fotoreporter Luciano Del Castillo
30 aprile 1993, è l’imbrunire. Sarebbe una di quelle fantastiche serate di primavera, che solo a Roma... Ma si trasforma nella notte in cui morì la Prima Repubblica (e forse furono gettati i semi del populismo). Largo Febo, fazzoletto di pietre incastonato tra i vicoli di piazza Navona, si trasforma in un’arena. Sotto all’hotel Raphaël, la casa di Bettino Craxi, almeno 200 persone attendono inferocite lo storico leader del Psi senza nemmeno sapere se lui sia o meno dentro all’albergo. Il clima è rovente: l’Italia, appena un anno prima, è stata prima colpita al cuore dalle stragi mafiose che uccidono i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E a ruota arriva Mani Pulite, l’inchiesta del pool di Milano, che spazzerà via un’intera classe politica, permeata dalla corruzione.
Sono giorni di clamorose proteste di piazza, che culminano simbolicamente in quei pochi attimi durante cui Craxi, diventato emblema del malcostume politico, viene bersagliato dal lancio di monetine, accompagnato da insulti di ogni tipo. Sono passati 30 anni da quella notte, che ripercorriamo con l’aiuto di alcuni protagonisti: Bobo Craxi, figlio di Bettino (qui l’intervista su Di Pietro) ; Gherardo Colombo, pm che indagò su Tangentopoli; Achille Occhetto, ai tempi segretario del Pds, partito che quella sera riunì migliaia di persone in piazza Navona; e Luciano Del Castillo, il reporter che riuscì a scattare l’unica foto del tentato linciaggio sotto al Raphaël.
La cronaca. A Montecitorio (con voto segreto), la sera prima del redde rationem in largo Febo, erano state respinte quattro delle sei autorizzazioni a procedere per corruzione e ricettazione che la magistratura aveva richiesto contro Craxi, che era stato costretto dallo scandalo a dimettersi da segretario del Psi. Il Pds organizza una grande manifestazione in piazza Navona. Ci sono migliaia di persone. Un gruppo di queste ha l’idea di spostarsi di appena 300 metri, sotto al Raphaël. La protesta diventa però inaspettatamente bipartisan, perché oltre ai pidiessini si ritrovano anche leghisti e diversi sostenitori del Msi, animati da Teodoro Buontempo, che arriva trafelato dalla Camera con due sacchettini zeppi di monete da 50 e 100 lire: lungo il percorso si era fermato da un tabaccaio per cambiare una banconota da 10 mila lire (qui il racconto di Delio Andreoli, all’epoca militante romano del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’allora Msi). Quelle monetine vengono distribuite a tutti i presenti. E chi rimane senza sventola banconote da mille lire, gridando: «Bettino vuoi pure queste?».
Poi, d’un colpo, la situazione degenera. «Eccolo, eccolo!». Così non appena Craxi esce dalla porta partono i cori e a ruota una pioggia di oggetti: sigarette, sassi, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Solo un ampio cordone di poliziotti in assetto antisomossa riesce a preservare l’incolumità di Craxi. Questa sequenza viene ripresa solo da due telecamere di Rai e Tg4. Vista la virulenza delle diverse proteste in atto, in un primo momento quelle immagini restano in secondo piano: solo dopo se ne comprenderà il valore di crocevia della politica italiana. Quella scena, infatti, non mise fine soltanto alla carriera di Craxi come uomo politico, ma simbolicamente sancì anche il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
L’ex pm Gherardo Colombo era uno dei pilastri del pool Mani Pulite, che aveva individuato con i suoi colleghi un vero e proprio sistema della corruzione in Italia, strettamente legato al finanziamento illecito dei partiti. Chiediamo che sensazione gli fa rivedere il video delle monetine 30 anni dopo. «A me fa lo stesso effetto di allora: io credo che sia sempre necessario rispettare le persone— spiega Colombo al Corriere —. In quell’occasione fu violata la dignità dell’onorevole Craxi: quelle immagini mi colpiscono negativamente, non si dovrebbero mettere le persone alla berlina». Rifarebbe qualcosa in maniera diversa? «Chissà, forse avrei dovuto insistere sull’idea che avevo espresso in una intervista nel luglio 1992: resto convinto che il sistema della corruzione si sarebbe dovuto risolvere attraverso un provvedimento legislativo che prevedesse che non sarebbe andato in prigione chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato illecitamente e si fosse allontanato per un periodo ragionevole dalla vita politica. Non fu fatto e il sistema nel suo complesso non è emerso». L’ex pm del pool ricorda poi di non aver mai parlato con Craxi: «non credo di averne mai avuto occasione né nel corso delle indagini e dei processi, né in altre circostanze». E infine Colombo non crede si possa distinguere tra Prima e Seconda Repubblica: «Perché finisca una Repubblica e ne inizi un’altra è necessario che intervengano modifiche a livello costituzionale nell’organizzazione dello Stato, così come avvenuto in Francia. In Italia non è successo, per cui non capisco perché si faccia una distinzione tra Prima e Seconda Repubblica».
Achille Occhetto, all’epoca segretario del Pds e in forte contrasto con Craxi, poco prima aveva tenuto il comizio in piazza Navona. La rabbia della piazza, dopo che con scrutinio segreto la Camera aveva respinto le autorizzazioni a procedere contro Craxi, era quasi fuori controllo e parte di quei manifestanti si ritrovarono poi sotto al Raphaël assieme ai nemici missini.«Ci tengo però a precisare che quella cosa fu organizzata dal Msi — ricorda Occhetto —. Io fui subito contrario, perché fu una roba sommaria, una reazione inaccettabile. Con Craxi c’erano profonde divisioni, ma quelle immagini mi colpirono molto: umanamente e politicamente. Fu un esempio di barbarie innescata dal furore giustizialista: quella notte, senza dubbio, fu aperta la via per il populismo». Ha mai parlato con Craxi dopo quella sera? «Ci parlai prima, tante volte. Dopo l’assalto con le monetine non ci siamo più sentiti. Oggi gli direi esattamente le stesse cose: fu una barbarie inaccettabile».
Dal fronte Msi c’è la testimonianza di Francesco Storace, che ai tempi era il capo ufficio stampa di Gianfranco Fini, segretario del partito: «Non mi risulta affatto che quella protesta sotto al Raphaël fosse stata organizzata da qualcuno dei nostri — spiega Storace —. Ho zero ricordi di quella sera, ma le immagini del lancio di monetine sono una cosa orrenda».
Di quella drammatica notte, oltre ai due video in presa diretta, rimane a testimonianza un’unica foto, scattata in maniera assai fortunosa da Luciano Del Castillo, arrampicatosi sul terrapieno di un cantiere. «Avevo 32 anni, ero un free lance. Erano altri tempi: c’erano le pellicole da sviluppare in tempo per i giornali e c’erano i flash: quando si scaricavano eri fregato — ricorda il fotoreporter —. Quel giorno uscii all’alba con la speranza di beccare la foto giusta: a Roma c’erano proteste ovunque. A un certo punto mi stacco da tutti in piazza Navona e vado in largo Febo: “Ma non è che Craxi è dentro al Raphaël?”, mi chiedo. L’intuizione fu giusta. Ma era sera, il flash era quasi scarico: dovevo scattare solo a colpo sicuro. Così mi arrampicai non so dove e sperai. Ero l’unico fotografo, ma ebbi la certezza di avercela fatta solo quando sviluppai le foto a tarda notte». La tensione era forte: «Qualcosa arrivò addosso pure a me — conclude Del Castillo —. Capii che il re era caduto. Di quei momenti ricordo l’orgoglio di quest’uomo che uscì a testa alta da quella che era casa sua. Poteva scappare dal retro, ma credo che volle dare una lezione a tutti. Nella fotografia si vede benissimo. Tutti, attorno a Craxi si coprivano, mentre lui era a testa alta».
Trenta aprile 1993. Dalla pioggia di monetine a quella dei garofani, l’hotel Raphael 30 anni dopo l’aggressione subita da Craxi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 29 Aprile 2023
Trenta aprile 1993, trenta aprile 2023. Dalla pioggia delle monetine a quella dei garofani. Per la prima volta, dopo trent’anni, la rabbia e l’indignazione della comunità socialista e riformista hanno preso il posto alla rassegnazione. Un centinaio di attivisti e militanti delle diverse associazioni, fondazioni, partiti e realtà culturali che si richiamano alla tradizione del Psi si è dato appuntamento a Roma davanti all’hotel Raphael, in Largo Febo. Una manifestazione spontanea nata in rete, trasversale, di chi non si è arreso allora al golpe giudiziario.
E di chi vuole rivendicare oggi come allora di essere stato dalla parte del garantismo e della democrazia, contro le forche e le picche. Per non far passare l’ignobile aggressione subita da Bettino Craxi mentre usciva dalla sua residenza romana come l’atto ultimativo del Tribunale del Popolo. A trent’anni dal lancio delle monetine che colpirono con la figura di Craxi, l’intero corpo della Prima repubblica, sono stati centinaia i garofani rossi deposti a terra, sul selciato di quel Rafael che aveva fatto da proscenio per una tragedia prima politica e poi umana.
“Tirano di tutto, bottiglie, accendini… persino monetine!”, gridava chi si era trovato a improvvisare una scomposta telecronaca in diretta Rai. La caccia all’uomo iniziata nelle Procure terminava, come era stato deciso e voluto, in piazza, con la sfida alla democrazia della pancia invelenita, disinformata, aizzata dei fan del pool. Ieri un piccolo gesto riparatorio è stato compiuto. Un altro è atteso. Davanti a Bobo Craxi, il figlio dello statista socialista che dopo quell’episodio si risolse di riparare in Tunisia, i manifestanti hanno reso note le loro ragioni e certificato il loro impegno. Hanno chiesto al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e all’Assessore alla Cultura, Miguel Gotor, di permettere l’esposizione in Largo Febo di una targa che ricordi quella brutta pagina di storia: “Qui il Segretario del PSI e Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, venne aggredito da provò a cambiare la politica con le inchieste giudiziarie”. Nei vocabolari si chiama golpe, ma pare che chiamarlo così non stia bene.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Storia riveduta e scorretta del signor Bettino Craxi (e di questi nostri anni). Pierluigi Battista su Panorama il 30 Aprile 2023
Da Panorama del 25 novembre 1999
Bettino Craxi è nato a Milano il 24 febbraio 1934. Sposato con Anna, ha due figli, Stefania e Vittorio (detto Bobo). Diventa segretario del Psi il 14 luglio 1976 (la svolta dell' hotel Midas), succedendo a Francesco De Martino. Resta alla guida del Psi fino al 1993. Il 15 dicembre 1992 riceve il suo primo avviso di garanzia. Nel 1994 lascia l'Italia e da allora vive nella sua villa di Hammamet, in Tunisia. Ha due condanne definitive: una per le tangenti sulla metropolitana milanese (4 anni), l'altra per Eni-Sai (5 anni e sei mesi). A quasi sette anni dall' inizio di Mani Pulite, il nome di Bettino Craxi, lungi dall'essere consegnato ai libri di storia, scatena ancora baruffe interminabili e spacca in due l'opinione pubblica. Si trattasse soltanto di un caso politico tra gli altri, lo psicodramma non avrebbe senso e giustificazione. Ma se la semplice eventualità di un ritorno in Italia di Craxi anima lo spettacolo mediocre di furie giustizialiste residuali ma pur sempre incontenibili e di reazioni smodate al limite della paranoia politica, vuol dire che il caso Craxi appartiene piuttosto alla sfera della psicopatologia di una collettività che in passato ha evocato un Orco su cui scaricare le sue angosce più profonde, ma che dal fantasma di quell' Orco è destinata a essere inseguita fino a che la storia non prenderà il posto della leggenda nera e della mitologia demonizzante.
Sì, l' Orco. Negli anni del furore Craxi era, a tutti gli effetti, un orco cattivo, personificazione di ogni male e di ogni turpitudine morale prima ancora che politica. Sulle colonne dell' Indipendente di cui era direttore, Vittorio Feltri ritagliò su Craxi la figura del "Cinghialone" (più tardi Feltri ammetterà che il Cinghialone si era trasformato nel "caprone espiatorio" sul quale scaraventare ogni genere di colpa). L'Espresso diretto da Claudio Rinaldi affidò alla matita di Sebastian Kruger, definito come "il re della caricatura canagliesca", il compito di dipingere una copertina del settimanale in cui veniva raffigurato un Craxi mostruoso, torvo, repellente, marchiato da un titolo che sottolineasse l'identità non più umana dell' Orco terrorizzante: "Bestiale". L'Orco, il Cinghiale, la Bestia. Sin da quando era apparso sul proscenio della vita politica nazionale, Bettino Craxi aveva ispirato odii profondi e avversioni incontrollabili e a nessun democristiano, nemmeno al culmine della guerra fredda, era mai capitato, come invece capitò al leader socialista, di essere eletto a oggetto di ostilità feroce in una Festa dell' Unità, nei cui stand gastronomici spiccava la ghiotta specialità della "trippa alla Bettino". Del resto a nessun leader socialista era capitato di essere bollato come "un pericolo per la democrazia" da un leader comunista: ma proprio questo aveva detto di Craxi Enrico Berlinguer. Il fatto è che nel ventre molle della cultura di matrice comunista il "craxismo" non era più socialismo, il Psi non era più il Psi perché una banda di alieni, secondo quella nuova mitologia, si era impossessata di un simbolo glorioso per farne un covo di malaffare. Nella sua versione più sofisticata, questa teoria dell' invasione veniva chiamata "mutazione genetica". Ed era questo bubbone tumorale che doveva essere reciso ed estirpato. Il caso Craxi divenne appunto questo: un gigantesco rito collettivo di espulsione delle cellule maligne che si diceva avessero invaso e colonizzato il corpaccione dell' Italia. Nessun altro protagonista di Tangentopoli divenne bersaglio di animosità tanto diffuse. Bruno Vespa racconta nel suo recente Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia che "alle cinque del pomeriggio di giovedì 17 dicembre 1992" una piccola folla "aspettò che Craxi arrivasse alla sede del partito in via del Corso. "Scemo", "Buffone", "Ladro", "In galera". Sul leader socialista, che fino a quel momento era stato uno degli uomini più potenti d' Europa, piovvero insulti, fischi, monetine. Riuscì a entrare in ufficio grazie alla scorta della polizia". Qualcosa di analogo esplose nei giorni attorno al 29 aprile, quando la Camera (allora non usava la retorica del rispetto delle prerogative parlamentari e l'organo della sovranità popolare democraticamente eletto veniva chiamato comunemente "Parlamento degli inquisiti": non dei "condannati", ma semplicemente degli "inquisiti") negò l' autorizzazione a procedere contro l' oramai ex segretario del Psi. Le cronache raccontano che l'orchestra di Santa Cecilia interruppe le prove della Grande Messa in do minore di Mozart per esprimere "amarezza e delusione per la votazione della Camera". Cortei di studenti sciamarono per le strade di Roma e di Milano, Ugo Intini venne riconosciuto, circondato e fatto oggetto di insulti: "Lo salva l' intervento della polizia" si legge sui giornali. La sera del voto alla Camera, un manipolo di partecipanti a un comizio di Achille Occhetto in piazza Navona raggiunse il vicino Hotel Raphaël, "tana" dei craxiani, aspettò l' uscita del Cinghialone e tra slogan irridenti e feroci scagliò davanti alle telecamere monetine e banconote all' indirizzo dell' Orco: "Ruba anche queste". I commenti del giorno dopo usciranno a lutto. Per Eugenio Scalfari si trattava nientemeno che del "giorno più grave della nostra storia repubblicana, dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro": motivo sufficiente per auspicare la cacciata definitiva di una "marmaglia che ancora ingombra e ammorba le istituzioni". Sempre sulla Repubblica si lesse che non si vede l' ora di "disfarsi di queste bande di approfittatori e di avventurieri". Giorgio Bocca scriveva che "Bettino Craxi ha usato lo Stato come un suo possedimento personale". Ci voleva il castigo esemplare, la punizione inflessibile.
Quando, due anni dopo quei fatti, Paolo Rossi intonerà in una trasmissione di Piero Chiambretti i versi di una canzone in cui si ingiungeva a tutti gli uomini dell' ancien regime di raggiungere il loro Al Capone "ad Hammamet", il pubblico esplose, catturato da un vortice turbinoso di autoesaltazione in cui con le mani e con i piedi si batteva il ritmo con soddisfazione selvaggia: "A Hammamet, a Hammamet". Non c'entrava il profilo penalmente specifico delle accuse rivolte a Bettino Craxi dalla procura milanese. Non era in questione l' entità e la concretezza "misurabile" delle malversazioni eventualmente commesse dal leader socialista, dal suo entourage e dai dirigenti, funzionari e amministratori di un partito coinvolto, a volte di più, a volte di meno, a volte come gli altri partiti, nel sistema delle tangenti e delle mazzette. C'entrava un odio politico tutto particolare e tutto rivolto contro il "craxismo". Giulio Andreotti, per esempio, accusato di essere "organico" alla criminalità mafiosa, venne trascinato in una vicenda giudiziaria dai contorni decisamente più gravi di quelle incentrate su ruberie e malaffare: l'essere coinvolto in storie di omicidi e di stragi non è forse più grave che essere implicati nel ladrocinio del pubblico denaro? Certo, ma mai Andreotti, anche quando le sentenze assolutrici dei tribunali erano ben lontane, è stato fatto bersaglio di un' avversione così esplicita e rivendicata. Andreotti poteva essere temuto, eventualmente ritenuto responsabile di un uso abnorme e aberrante della ragion di Stato, dipinto come Belzebù e come genio del Male. Ma si trattava di sentimenti che scaturivano dal riconoscimento della natura politica, seppure criminalmente politica, delle sue azioni. Con Craxi, no. Con Craxi non si intravedeva più un fine cui subordinare mezzi discutibili, ma uno scenario infernale in cui il mezzo aveva divorato il fine e in cui l' arricchimento personale era diventato criterio e misura di ogni cosa, segno di una degenerazione nell' amoralità più sconcertante, di una scivolata nell' edonismo più arrembante, volgare, greve, cafone, esibizionista. Il "craxismo" diventava la cifra dei "gaudenti" anni Ottanta e il suo ripudio apparve come una cerimonia di purificazione che doveva espellere la tentazione del passato. Perciò Mani pulite ha rappresentato una versione simbolica di Piazzale Loreto dove, attraverso l'abbattimento dell' idolo e l' umiliazione del suo cadavere, doveva realizzarsi il lavacro nazionale, il ritorno nell' innocenza violata, l'attribuzione della Colpa all'uomo cattivo e ai suoi sodali. Mai Severino Citaristi e Primo Greganti sono stati fatti oggetto di dileggio e di furore. Craxi sì. L' elaborazione della differenza tra soldi finiti nelle casse del partito e soldi usati per l' arricchimento personale e per condurre una vita da nababbi metteva nell' ombra il problema dell' origine illecita dei finanziamenti e convogliava l' attenzione nazionale sull' uso che di quei soldi veniva fatto. La questione politica del sistema delle tangenti diventava la questione morale della destinazione dei soldi e del motivo (nobile o ignobile) per cui l' illecito era stato commesso. Per questo il ritorno di Craxi fa paura, crea incubi, appare come un pericolo troppo grande. Per questo negli anni del Grande terrore l'opinione pubblica sembrava talmente poco disposta ad accettare ragioni che non fossero quelle dell' emotività e della pulsione punitiva da non reagire nemmeno di fronte a macroscopiche distorsioni della verità e del buon senso. Quando in un libro di testo si arrivò a paragonare Craxi a Hitler, la cosa apparve come una manifestazione di ingenuo folclore e non come la spia di una malattia della memoria e della percezione storica delle vicende dell' Italia repubblicana. E non ci furono soverchie reazioni nemmeno quando un pubblico ministero come Paolo Ielo arrivò a definire Craxi, e non in una taverna ma in un' aula del tribunale, "criminale matricolato". Francesco Rutelli, candidato sindaco a Roma, nel 1993 di certo non arretrò inorridito di fronte ai voti in arrivo da molti eredi della Dc, ma quando venne a sapere che Craxi si era pubblicamente espresso per la sua elezione, si mise a tuonare come un ex libertario di matrice radicale non avrebbe mai dovuto fare: "Vorrei vedere Craxi prendere il rancio nelle patrie galere". In quel clima vennero di buon grado accettati persino i sarcasmi grossolani sullo stato di salute di un uomo che non stava granché bene e la stampa nazionale non fiatò quando il popolaresco Antonio Di Pietro infieriva sul "foruncolone" che stava molestando non solo la vita di Bettino Craxi ad Hammamet ma anche la vita di una nazione al tempo ancora china al cospetto del grande inquisitore in versione campagnola. Un Paese in cui fioccavano le abiure del craxismo recitate dai craxiani di più stretta osservanza e le riabilitazioni dei craxiani che avessero accettato il rito di sottomissione ai nuovi potenti. La Prima repubblica morì in questo groviglio di bugie e di demonizzazioni. Rileggere quella storia è, più che un optional, l' unico modo per guarire dai disturbi di una memoria scomoda. Estratto dell’articolo di Raffaele Marmo da “Il Resto del Carlino" il 29 aprile 2023.
Che cosa è stata la serata delle monetine contro Bettino Craxi al Raphael il 30 aprile di trenta anni fa?
"Rispondo con le parole di Craxi – scandisce Stefania Craxi -. Una barbarie, un evento squadrista. Dico un evento squadrista non a caso, che continua a produrre i suoi contraccolpi".
Nel senso?
"In questi giorni è tornata di attualità una polemica sterile tra Fascismo e Antifascismo. Io non credo che il pericolo che corre la democrazia sia il ritorno del Fascismo, ma che la delegittimazione dell’avversario politico, delle idee e delle posizioni altrui porti alla violenza, quella vissuta in altre epoche".
L’episodio fu uno spartiacque tra le due Repubbliche.
"Nell’immaginario collettivo segna la fine della Prima Repubblica ma anche del primato della politica, e al contempo schiude le porte a una crisi di sistema. Dà la stura all’antipolitica e allo scontro perdurante con una parte della magistratura".
Da dove nasceva quell’attacco a suo padre?
"Scaturiva dall’aria mefitica di Tangentopoli, da quel moralismo militante, come io chiamo il giustizialismo, che la sinistra inoculò nel sistema politico e nella società italiana. Ma, in realtà, la caccia al “cinghialone“ era cominciata molti anni prima".
Si riferisce alla guerra a Craxi fatta dal Pci?
"Certo. Ricordo che bruciavano la sua effigie e che alle feste dell’Unità mangiavano la trippa alla Bettino. Adesso cominciano ad emergere anche scritti che indicano come già negli anni ‘70 cercarono di creare il mostro Craxi. Del resto, il braccio destro di Enrico Berlinguer, Tonino Tatò, disse che era un capobanda. Dunque, quelle monetine erano figlie del clima infame del momento, ma la demonizzazione veniva da lontano".
Chi c’era davanti al Raphael quella sera di primavera?
"Era un drappello di militanti inferociti e aizzati, che arrivavano dal comizio di Occhetto di piazza Navona, con qualche missino. Si disse, anche in ambienti giudiziari, che le monetine erano una sentenza emessa dal tribunale del popolo a cui i magistrati non avrebbero potuto che uniformarsi e fare eco, il che rende bene l’idea dei processi sommari del tempo".
Occhetto dice oggi: "Quelle immagini mi colpirono umanamente e politicamente. Fu un esempio di barbarie innescata dal furore giustizialista".
"Non ricordo che Occhetto rimase contrariato e che fece queste valutazioni. Lo dice ora solo perché sente l’aria. Non si può difendere l’indifendibile".
Che cosa ricorda di quella sera? Come la visse?
"Ero in attesa della mia terza bimba che non a caso si chiama Benedetta. Era una gravidanza difficile. Ero allettata a Milano. Quella scena terribile la vidi in televisione, al Tg3. La prima reazione emotiva fu il dispiacere per non essere lì con mio padre. Lui mi chiamò, prima di andare all’Istruttoria di Giuliano Ferrara, che gli chiese: ma lei ha avuto paura? E lui: paura no, ho avuto vergogna. Per loro. Mi chiamò anche dopo e mi trovò scossa. Mi disse: non piangere. E in quel “non piangere“ c’era tutto Craxi, tutto quello che io avevo percepito fin da bambina".
Certo è che quella vicenda fu uno dei momenti di svolta di Tangentopoli.
"Il grande scontro che sottintende a quella brutta pagina di storia è quello tra il potere economico-finanziario e la politica che avvenne in tutto il mondo occidentale, da noi con particolare violenza. E a sostegno di quella falsa rivoluzione mediatico-giudiziaria fu alzato dai giornali che appartenevano ai grandi gruppi finanziari il vento dell’antipolitica. Un vento sollevato da chi non poteva certo fare la morale".
Si riferisce al Pci-Pds.
"Vorrei ricordare che il Pci nell’arco della prima Repubblica prendeva ordini e soldi da una potenza militare nemica del nostro Paese. Per di più, i comunisti partecipavano anche al finanziamento illegale della politica, che è parte della Guerra Fredda, e che per le forze legate all’Occidente è stato necessario per tenere questo Paese dalla parte del mondo libero. Se vogliono parlare di lotta al malaffare, dopo trenta anni ci si dovrebbe domandare come mai le inchieste colpirono in maniera mirata e selezionata alcune parti politiche mentre altre non sono state perseguite. L’onestà di quest’ultimi, come la loro attitudine agli affari, l’abbiamo vista in questi ultimi decenni".
(..)
Pd e grillini restano giustizialisti o, come dice lei, moralisti militanti?
"I grillini sono e sono stati i figli dei lanciatori di monetine del Raphael. Dal Pd mi pare purtroppo che si siano levate ben poche voci, anche il 25 aprile, per dire che bisogna finirla con un clima da guerra civile perdurante. Serve avviare una fase di pacificazione nazionale che passa anche da un’operazione verità sul biennio ’92-’94".
Bobo Craxi: «Quella notte mio padre Bettino mi chiamò: c’erano gli squadristi sotto casa. Di Pietro? Non porto rancore». di Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.
Il figlio del leader Psi e l’assalto con le monetine al Raphaël: «Sono passati 30 anni: fu un atto di viltà». E sull’ex pm cita Dylan: «La vanità se l’è mangiato vivo. Però è partito con dignità»
Bobo Craxi con il padre Bettino, nel 1990, al voto per le Comunali a Milano
«Contro mio padre fu un atto di viltà. Che non si ripeta più: anche quest’anno saremo sotto al Raphaël, per ricordarlo». Trent’anni dopo il lancio delle monetine, quelle immagini sono ancora ben impresse negli occhi e nella testa di Bobo Craxi (ai tempi 28enne e consigliere comunale uscente a Milano), figlio del defunto leader del Psi.
Cosa si ricorda della notte in cui cadde la Prima Repubblica?
«La mattina 29 aprile, il giorno prima del linciaggio sotto al Raphaël, quando la Camera doveva votare le autorizzazioni a procedere, mio papà mi chiamò: “Due cose le dirò, poi facciano quello che vogliono...”, questo mi disse. Erano parole del fatalista qual era: il pool Mani pulite aveva di fatto le redini dell’Italia. Pochi mesi prima, il nostro deputato Sergio Moroni si era suicidato dopo aver ricevuto un avviso di garanzia: era un clima irrespirabile».
E la sera delle monetine?
«Mio padre mi telefonò a notte, dopo l’intervista a L’Istruttoria con Giuliano Ferrara: “Bobo, tu non hai idea cosa è successo: sono venuti in duecento sotto l’hotel, sotto casa mia, mi hanno tirato di tutto: ho visto lo squadrismo”. Non era mica come oggi, che ci sono i video viralizzati su social e WhattsApp: quelle immagini non le avevo viste e non mi resi conto subito della gravità della situazione».
Ha mai visto Craxi piangere in quella fase drammatica?
«Ma si figuri, impossibile. Mio padre era addolorato, ma di indole era indomito. Il vero dramma di quei mesi era che non dovevamo più difenderci solo politicamente e a livello giudiziario: era a rischio l’incolumità fisica di tutta la nostra famiglia. Vivevamo braccati, a Milano ricevevo telefonate e lettere anonime».
I rapporti umani con suo padre com’erano?
«Le cose sgradevoli non gliele raccontavo per evitargli dispiacere. Erano rimaste poche persone attorno a lui: Luca Josi e Umberto Cicconi, il suo fotografo personale e Nicola Mansi il suo fidato autista. Tra i dirigenti politici non era sparito solo Biagio Marzo. Martelli? Con Claudio ci fu un riavvicinamento in seguito: nel gruppo dirigente ognuno aveva i suoi problemi giudiziari da gestire. Giorgio Benvenuto, il segretario che succedette a Craxi, mise fuori dagli organismi del partito chiunque avesse ricevuto un avviso di garanzia. Questa era di fatto la linea del pool».
Qualcuno difese Craxi dopo quell’assalto in largo Febo?
«Aveva fissato un appuntamento con Francois Mitterrand, io lo accompagnai. Dopo quell’aprile drammatico, mio padre per un periodo stette in Francia, per proteggersi.Il presidente per un periodo fu fraterno con mio padre, poi il 1° maggio del 1993 dovette affrontare il suicidio di Pierre Bérégovoy, ex primo ministro e compagno di partito, anch’esso a seguito di un’indagine giudiziaria».
Crede che oggi ci sia un partito che più di altri rappresenta quel popolo politicamente trasversale che lanciò le monetine?
«Il linciaggio sotto casa di un leader democratico non era mai successo in tutta Europa. E ci fu una doppia saldatura: l’antisocialismo della sinistra di estrazione comunista con quello della destra reazionaria e fascista. Quella piazza aveva nomi cognomi e mandanti: non aggiungo altro».
E con Antonio Di Pietro, con cui si ritrovò pure al governo (lui ministro e lei sottosegretario), si è mai chiarito in tutti questi anni?
«Mai avuto rancori con Di Pietro. E come dice una canzone di Dylan tradotta da De Gregori: “La vanità se l’è mangiato vivo. Però è partito con dignità”».
Estratto dell'articolo di Paola Sacchi per startmag.it il 23 gennaio 2023.
[…] Stavolta a Hammamet per le iniziative della Fondazione Craxi, istituita in memoria del padre dalla senatrice di FI, presidente della commissione Esteri e Difesa di Palazzo Madama, accanto a Stefania, a Bobo Craxi, alla famiglia dell’ex premier e leader del Psi per il ventitreesimo anniversario della sua morte a 65 anni in Tunisia, non c’è solo Forza Italia, rappresentata dai vertici parlamentari e di governo, con i capigruppo di Senato e Camera, Licia Ronzulli, che legge il messaggio di Berlusconi, e Alessandro Cattaneo, il deputato Alessandro Battilocchio e Maria Tripodi, sottosegretario agli Esteri, il cui titolare Antonio Tajani aveva già omaggiato Craxi in visita ufficiale dal presidente tunisino Saied.
In Tunisia sono giunte anche le delegazioni ufficiali della Lega di Matteo Salvini, con il vicecapogruppo al Senato Nino Germanà e il deputato Anastasio Carrà. Parole nette quelle di Germanà, numero due del capogruppo Massiliano Romeo in Senato: “Craxi è stato una grande figura politica che ha segnato una parte importante della storia politica del nostro Paese. È stato ingiustamente criticato e condannato. Ecco, io penso che la cosa peggiore che si possa fare a un politico come lui è quella di averlo accusato di corruzione, perché in politica un’accusa del genere equivale a quella di un omicidio”. Parole che richiamano quelle già pronunciate per primo da Tajani. […]
Ad Hammamet c’è anche Ettore Rosato, per Italia Viva […] Rosato sottolinea con chiarezza il discorso di Craxi, “un grande riformista”, che denunciò il problema del finanziamento illegale alla politica, “nel silenzio di tutti, mentre tutti sapevano, opposizioni di allora comprese”. […]
Accanto a Stefania al cimitero cristiano il sindaco di Hammamet, Moez Mrad, e Hamida Guembri, l’inseparabile assistente tunisino di Craxi, che compare anche nel film “Hammamet”. Stefania sottolinea che “anche quest’anno, poi, la politica italiana ha celebrato la figura dello Statista che ha dedicato la vita al suo Paese”. […] La presenza di Rosato di Iv fa oggettivamente risaltare ancora di più, ancora una volta l’assenza del Pd, ad eccezione di alcune presenze ma solo a titolo individuale tre anni fa per il ventennale. La Craxi è sferzante sulla crisi del Pd: “Magari potrebbero chiedersi se non aver fatto mai i conti con Craxi e con la loro storia non li abbia portati a questo punto”.
Craxi, uomo di sinistra adottato dalla destra. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.
Caro Aldo leggo sul Corriere «Un uomo che ha profondamente segnato la storia politica del nostro Paese, rivendicandone e difendendone la grandezza e la sovranità» questa dichiarazione di Salvini a 23 anni dalla scomparsa del presidente Craxi. E trasalisco a pensare alla campagna infame cui è stato sottoposto Craxi senza rispetto umano per la persona e i familiari. Ora si può anche cambiare idea, ma allora si deve avere il coraggio di chiedere scusa per il male fatto soprattutto al Paese con scorciatoie populiste indecorose e contrarie alla politica, allo sviluppo culturale e umano rivolto al bene comune. Lei Craxi come lo ricorderebbe? Franco Sarto
Caro Franco, E’ curioso in effetti che Bettino Craxi, uomo di sinistra, sia stato adottato dalla destra. Compresa la Lega, che quando Craxi era vivo fu sua fiera avversaria. Anche se i veri, grandi nemici di Craxi furono i comunisti. Incasellarlo è difficile. Era presidenzialista, si batté contro la scala mobile e per le tv private. Ed era filoarabo, terzomondista, capace di dire no agli Stati Uniti. Non ho raccontato l’ascesa di Craxi, ma la sua caduta. Per descrivere Hammamet, la corte in esilio, la malattia, la morte, i funerali, non basterebbe un libro. L’uomo — come riconobbe un altro suo avversario storico, Eugenio Scalfari — ebbe la grandezza della fine. Mentre tutti pensavano e scrivevano che stesse trattando il rientro in Italia con il governo D’Alema e con la procura di Milano, lui diceva al telefono al cognato Pillitteri (e le nostre fonti dentro casa Craxi riferivano a Gianni Pennacchi, inviato del Giornale, e a me): «Io in Italia non rientro, preferisco essere operato qui in Tunisia, morire qui, essere sepolto qui». E così accadde. La figura di Craxi non può essere giudicata né compresa fuori dal contesto della Prima Repubblica: la Repubblica dei partiti, dei loro meriti, delle loro malversazioni. Da leader del Psi, Craxi era colpevole né più né meno di altri segretari di partito, finanziati oltre che dalle imprese pubbliche e private da potenze straniere, a volte ostili all’Italia. Craxi di suo aggiunse una spregiudicatezza personale che pagò a caro prezzo. Si espose molto; anche per questo la sua caduta fu più rovinosa di altre. Additare in lui l’antesignano di Berlusconi è riduttivo; semmai pensava Berlusconi come una propria pedina, e rimase stupefatto quando vide che Forza Italia alle Europee 1994 raggiunse il 30% («Noi per uno zero virgola in più mettevamo la bandiera al balcone di via del Corso, e questo in pochi mesi…»). Fu portato in chiesa su un furgone. È sepolto sotto le mura della medina di Hammamet, nel piccolo cimitero cristiano, accanto a un bambino che, è scritto sulla lapide, «visse tra due crepuscoli».
"Ad Hammamet la sinistra ha perso un'opportunità". Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, è rammaricata che nessun esponente del centrosinistra abbia presenziato alla commemorazione per suo padre, a eccezione di Ettore Rosato. "La verità è che hanno smarrito l’anima e l’identità". Francesco Curridori il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.
«Un’altra occasione è stata persa per fare i conti con Bettino Craxi che per questa sinistra significa fare i conti con se stessa e con la storia di “Mani Pulite” che rimane il suo atto fondativo». Ne è convinta la figlia Stefania, senatrice di Forza Italia, molto rammaricata per il fatto che, ad eccezione del renziano Ettore Rosato, nessun altro esponente del centrosinistra abbia presenziato alla commemorazione per suo padre.
Come si spiega questa assenza del Pd?
«La verità è che hanno smarrito l’anima e l’identità, fin da quando Craxi li invitò a diventare riformisti e, invece, hanno scelto la via giudiziaria al potere. Hanno alzato il vento dell’antipolitica e ne sono rimasti imprigionati».
Il Pd, però, ha un’identità che si richiama a Berlinguer e Moro...
«È un compromesso storico in formato bonsai, anche se ora la cultura popolare è di fatto sparita. Basti guardare i candidati delle primarie. Sono i figli di una cultura che ha combattuto Craxi per tutta la vita, avevano un progetto politico che mio padre riteneva conservatore e a cui ha contrapposto una modernizzazione del Paese e un riformismo adeguato ai tempi. In pratica, ha lanciato loro un guanto di sfida e non gli hanno mai perdonato di avere vinto la battaglia della storia».
Ma, allora, perché a sinistra vanno ancora a rimorchio del M5S?
«Non possono fare altrimenti. Sono subalterni culturalmente e ora anche politicamente, si stanno impiccando al moralismo e al giustizialismo che hanno sbandierato. Ad ogni modo, il problema è loro, non mio. Non hanno la forza di affrontare il tema Craxi e, quando lo fanno, si arrampicano sugli specchi. Non potendo più non riconoscere i suoi meriti, dicono che Craxi è stato uno statista, però ci sono le sentenze. Ma non esiste un Craxi buono e uno cattivo».
Si spieghi meglio...
«Non si può scindere il giudizio. Se mio padre è uno statista, e per questa ragione gli hanno finanche offerto i funerali di Stato, non puoi sostenere la tesi di Mani pulite, non puoi non fare i conti con la barbarie di quella stagione, non puoi difendere sentenze per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo. Craxi è stato condannato perché “non poteva non sapere”, si è usata come prova impropria il suo discorso verità alla Camera».
Il centrosinistra, però, sembrava aver assunto posizioni più garantiste...
«Un garantismo alla bisogna, a corrente alternata! Guardiamo al Qatargate. Se è vero quello che rivela l’avvocato di Eva Kaili, gli imputati vengono sottoposti ad una specie di “tortura”. E i nostri sinistri cosa dicono? Nulla. E sa perché? Perché hanno la coda di paglia e perché la loro base non lo capirebbe».
Cosa pensa degli attacchi che al ministro Nordio?
«Sono vergognosi. Nordio è un grande magistrato e un pezzo importante della sinistra sta portando avanti un vero e proprio linciaggio, come fecero all’epoca con il ministro Mancuso, un grande garantista che costrinsero alle dimissioni. Ecco, spero che nel centrodestra non gli facciano mancare il giusto sostegno. Sulla giustizia il governo si gioca molto, se non tutto».
Non c’è speranza per la sinistra?
«Si sono impiccati al loro stesso giustizialismo e moralismo, lo stesso di Berlinguer, che prendeva soldi da una potenza militare nemica dell’Occidente...».
Secondo lei, non cambierà nulla sia che vinca Bonaccini sia che vinca la Schlein?
«Il Pd non uscirà dal tunnel, a prescindere da chi raccolga il testimone. Si stanno consegnando ai pentastellati, l’adagio guida è “pas d’ennemis à gauche”. Servirebbe una nuova prospettiva culturale, invece che un nuovismo senza novità».
L’elogio di Salvini: «Craxi ha segnato la storia». In cento ad Hammamet. Giuseppe Alberto Falci e Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.
Il segretario della Lega ricorda il leader socialista: «Un uomo che ha profondamente segnato la storia del Paese». Rosato (Iv): «Bisogna rompere un muro di ipocrisia»
«Un uomo che ha profondamente segnato la storia politica del nostro Paese, rivendicandone e difendendone la grandezza e la sovranità». A 23 anni dalla sua scomparsa, Bettino Craxi riceve un omaggio da parte di Matteo Salvini che qualcuno troverà sorprendente vista la forte contrapposizione riservata dalla Lega al leader socialista in vita, quando in Parlamento veniva mostrato il cappio agli indagati di Mani Pulite. Ma l’omaggio del vicepremier non è isolato, perché parole elogiative arrivano anche dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo: «Bettino Craxi merita un posto di rilievo nella storia del nostro Paese. Ricordiamo sì l’avversario ma, soprattutto, l’uomo di grande spessore politico che ha avuto sempre a cuore le sorti dell’Italia».
Per Silvio Berlusconi, invece, il ricordo oltre che per l’amico di antica data è per una figura che «non perde di attualità» e che acquisisce con il tempo il «profilo di un grande protagonista della storia del nostro Paese; gli anni del suo esilio vanno ricordati come monito sugli effetti perversi dell’uso politico della giustizia». Un centinaio di esponenti politici l’omaggio a Craxi lo ha portato di persona, ieri, recandosi ad Hammamet. Tra loro, molti parlamentari di centrodestra, tra cui i capigruppo di FI Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo, i deputati forzisti Maria Tripodi, Alessandro Battilocchio, e i colleghi leghisti Nino Germanà e Anastasio Carrà.
Per il deputato renziano Ettore Rosato era la prima volta in Tunisia. «Vengo da una storia diversa, da quella della Dc e dei popolari, alleati e avversari dei socialisti. Ma non si può non riconoscere lo straordinario contributo dato al Paese da quella tradizione e da Bettino Craxi. Sentivo giusto venire, anche per rompere un muro di ipocrisia». Secondo il presidente di Italia viva è necessario riflettere sulla vicenda craxiana per trarne una lezione. «Sono state tante le carriere politiche costruite sul giustizialismo, a destra e a sinistra, raccontando una presunta superiorità morale garantita dalla candidatura di pubblici ministeri o dall’esibizione di cappi» (con una stoccata proprio alla Lega). Per Rosato, che considera Craxi e Matteo Renzi «due riformisti» con «caratteri da protagonisti», è ora di ricomporre una frattura: «Sono in tanti che hanno riconosciuto le forzature e le storture di quegli anni, spero che altri troppo silenziosi lo facciano. Oggi l’Italia ma anche l’Europa ha bisogno di formare una classe politica appassionata e preparata, che non viva di slogan e populismo, capace di interpretare il futuro con fondamenta ancorate anche nelle grandi tradizioni popolari e riformiste che hanno costruito la Repubblica».
A chi è andato ad Hammamet va il ringraziamento di Stefania Craxi: «Ogni volta è un’emozione vederli nel piccolo cimitero cristiano ai piedi della Medina, accanto ai tanti tunisini presenti, che non hanno mai dimenticato “monsieur le Président”».
"Craxi grande statista. Il suo esilio è monito sugli effetti perversi della giustizia politica". L'ex premier ricorda il leader socialista e amico a 23 anni dalla morte: "Una figura che non perde attualità. Ho fondato Forza Italia nel '94 per dare cittadinanza ai valori del riformismo". Silvio Berlusconi il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Nell'anniversario della scomparsa del mio amico Bettino Craxi, voglio ancora una volta unirmi con profonda commozione al ricordo dei familiari, degli amici, dei compagni di lotte politiche, di quanti lo conobbero e poterono apprezzarne le grandi qualità intellettuali, politiche ed umane.
A 23 anni dalla scomparsa del leader dei Socialisti italiani, la figura di Bettino Craxi non perde di attualità e al tempo stesso si delinea con sempre maggiore chiarezza il suo profilo di grande protagonista della storia del nostro Paese.
Il dramma degli ultimi anni della sua vita, gli anni dell'esilio, va ricordato come monito sugli effetti perversi dell'uso politico della giustizia.
Ma la statura di Bettino Craxi non è solo quella di una vittima. È anche e prima di tutto quella di uno statista che ha cambiato la storia del nostro Paese ed ha anticipato processi storici tuttora in corso.
Sottraendo il socialismo italiano al disegno egemone del Pci, ancora legato all'Unione Sovietica, ha fatto nascere un'area riformista di sicuro profilo democratico e occidentale, che nel nostro Paese era sempre stata molto debole. Rompendo l'innaturale alleanza consociativa del «compromesso storico» ha salvaguardato e rafforzato la democrazia nel nostro Paese. Ponendo per primo l'esigenza di profonde riforme istituzionali ha colto prima degli altri i segnali di crisi di un sistema istituzionale bloccato che stava perdendo non solo di efficienza ma anche di rappresentatività dell'opinione pubblica.
Sono stato molto amico di Bettino Craxi e ho sempre rivendicato quest'amicizia, anche negli anni del linciaggio mediatico nei suoi confronti. Ho condiviso con lui la necessità di un cambiamento, di una modernizzazione del nostro Paese che in quella stagione Bettino Craxi ha saputo incarnare con più forza di ogni altro leader politico.
Non sempre ne ho condiviso tutte le scelte politiche, ma ho sempre riconosciuto in ogni suo atto, persino nei suoi errori, il respiro dello statista.
Ho fondato Forza Italia nel 1994 proprio per dare una cittadinanza ai valori del riformismo socialista, come a quelli del liberalismo storico e del cattolicesimo democratico, nella convinzione che l'inchiesta Mani Pulite rischiasse di spazzare via, insieme con antiche ed illustri forze politiche, anche la rappresentanza delle idee migliori della storia del nostro Paese, quello sulle quali si è ricostruita la nazione dopo la catastrofe della Seconda Guerra mondiale.
Soprattutto, nella convinzione che fosse in pericolo la libertà come principio fondante delle istituzioni democratiche.
Quella libertà che per Bettino equivaleva alla sua stessa vita, come è scritto sulla sua tomba nel piccolo, suggestivo cimitero cristiano sotto le mura di Hammamet.
Ed è proprio pensando a quella bellissima frase, «la mia libertà equivale alla mia vita» che va il mio pensiero commosso nel ricordare il mio amico Bettino. Il suo esempio di uomo libero, di statista innamorato del suo Paese, per me e per noi rimarrà un modello di costante ispirazione.
23 ANNI DOPO. Craxi, parla Daniela Mazzucca: «Quel discorso lo isolò». Quando il leader Psi sfidò la Camera. Prima e unica donna sindaco di Bari: «Una tomba di una semplicità infinita, adorna di garofani rossi. Una tomba interrata, come fosse un qualsiasi signore tunisino. Sulla lapide un libro scolpito con una delle frasi più belle di Bettino: la mia libertà equivale alla mia vita». Carmela Formicola su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Gennaio 2023
Pioveva il giorno che visitò la tomba, ad Hammamet. Era il 2010, un giorno plumbeo, nulla dei cieli azzurri patinati della Tunisia, un giorno triste. Lo ricorda così Daniela Mazzucca, storica esponente del Partito socialista italiano (prima - e unica - donna sindaco di Bari). «Una tomba di una semplicità infinita, adorna di garofani rossi. Una tomba interrata, come fosse un qualsiasi signore tunisino. Sulla lapide un libro scolpito con una delle frasi più belle di Bettino: la mia libertà equivale alla mia vita».
Non dunque un sepolcro sfarzoso, come si narrò, nulla dell’uomo padrone di un favoloso tesoro...
«Nulla del genere, nulla di quell’aneddotica, di quella campagna feroce che ha continuato ad accompagnare Bettino»
Si commosse, quel giorno di pioggia del 2010?
«Mi commosse l’omaggio che la comunità tunisina continuava a tributargli, portando piccoli vasi di fiori sulla tomba, parlando di lui come l’uomo che aveva portato nel Paese la libertà e il benessere. Tutta la vita si era battuto per la libertà. Aveva sostenuto, anche economicamente, i movimenti per la libertà, penso alla Grecia, ad alcuni paesi del Sud America, alla Palestina, sebbene non approvasse la lotta armata dell’Olp».
La libertà che, se fosse rimasto in Italia, gli sarebbe stata tolta...
«Credo che infatti sia stato spinto ad andare via dalle persone a lui più vicine, quelli che lo conoscevano bene. Sapevano che sarebbe stato come chiudere un leone in una gabbia»...
Bettino Craxi, 23 anni fa moriva il simbolo della Prima Repubblica. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 19 Gennaio 2023
È stato il simbolo di una stagione della politica che poteri forti volevano spazzare via. Si chiamava prima repubblica, che ha accompagnato la vita del nostro paese dal dopoguerra sino ai primi anni del ’90. Furono anni in cui la politica aveva il primato sul governo delle vicende del paese. Furono gli anni in cui furono costruiti due boom economici (anni ’60 e anni ’80). Fu una lunga stagione che vide la realizzazione di grandi riforme nel mondo del lavoro, (Statuto dei lavoratori), nel campo del progresso sociale (Piano casa, case popolari), sul terreno dei diritti civili, (divorzio, aborto).
Il paese era in costante crescita, le differenze tra le fasce sociali si erano assottigliate, i cittadini erano liberi. Era una politica che governava la grande finanza e non le permetteva di spadroneggiare ovunque, tra la gente o sulle istituzioni. Il prestigio internazionale dell’Italia era altissimo e all’estero incutevamo rispetto e non suscitavamo irridenti risate. Le imprese crescevano, ma non a danno dei lavoratori. La popolazione era evoluta e i livelli culturali alti. La sanità funzionava e i giudici facevano solo i giudici.
Le infrastrutture si realizzavano e non c’erano pezzi dell’Italia che si sentivano abbandonati. Poi tutto finì. Quella politica, della prima repubblica, doveva morire. La grande finanza pretendeva il controllo delle istituzioni, i giudici pretendevano di fare di tutto e mettere le mani su tutto. Fu la dichiarazione di guerra e come in tutte le guerre, abbattere i simboli, colpire i capi, significava la resa degli eserciti. Ma non di tutti. Qualcuno fu risparmiato, non fu toccato, ma non perchè non era coinvolto, solo perchè era un complice.
Quello che vediamo oggi, il paragone con quello che fu distrutto, ci fa solo rimpiangere il passato. L’Italia è ferma da 30 anni, non solo non cresce ma regredisce, è la grande battaglia per “l’honestà” è fallita miseramente. Allora si trattava di finanziamenti irregolari oggi si ruba per comprare i vibratori o i preservativi. La dignità delle istituzioni è sotto le scarpe, la qualità della politica è da stato delle banane, il livello della società fa solo passi indietro. La finanza, grande o piccola spadroneggia e l‘Europa ci umilia. Ed oggi guardando indietro finalmente capiamo che quella Italia era una grande Italia e che quelli che la guidavano erano grandi statisti.
Estratto dell'articolo di Fabrizio Cicchitto per Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2023.
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Paradossalmente le cose si complicarono anche per il Psi di Craxi quando crollò il comunismo in Urss e nei Paesi dell’Est europeo. Le cose si complicarono per due ragioni di fondo: per un verso, venuto meno il pericolo comunista, i cosiddetti poteri economici forti in Italia (fondamentalmente la Fiat, Cuccia, De Benedetti) ritirarono la loro delega ai tradizionali partiti di governo (la Dc, Psi, partiti laici) e fecero partire dai loro giornali la tematica dell’antipolitica e dell’antipartitocrazia.
Per altro verso ci fu la scelta del nuovo gruppo dirigente del Pci-Pds, (i cosiddetti ragazzi di Berlinguer: Occhetto, D’Alema, Veltroni) che scartò la proposta dei miglioristi di dar vita con il Psi a un grande partito riformista e socialdemocratico e mirò, invece, a prendere il posto del Psi nell’area di governo puntando le carte sulla sua distruzione. L’occasione fu costituita quando decollò la tematica sul finanziamento irregolare dei partiti, la cosiddetta Tangentopoli.
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il pool di Mani Pulite seguì la linea dei due pesi e delle due misure, colpì in modo durissimo tutto il Psi, i parti ti laici e il centrodestra della Dc e invece letteralmente salvò il nucleo ristretto del gruppo dirigente del Pds e quello della sinistra Dc. In questo quadro, Craxi fu trattato come una sorta di nemico pubblico numero uno, il cinghialone da braccare e da sbranare, forzando anche molte norme del Codice di procedura penale, a partire dal segreto istruttorio. Non a caso allora il cosiddetto circo mediatico e giudiziario si fondò su tre pool fra loro comunicanti: il pool dei pm, il pool dei direttori dei quattro principali giornali (Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità) e il pool dei cronisti giudiziari.
Qualora la metodologia adottata contro Craxi fosse stata seguita negli anni Quaranta-Settanta, De Gasperi, Fanfani, Moro, Bisaglia, Piccoli, Donat-Cattin, per un verso e sull’altro versante Togliatti, Longo, Secchia, Amendola e tutti i segretari amministrativi del Pci, si sarebbero trovati negli stessi guai in cui si ritrovò Craxi. L’attuale deserto dei tartari per quello che riguarda la qualità del sistema politico italiano è derivato per larga parte da questa violenta operazione mediatico-giudiziaria tenuta negli anni ’92-’94 di cui Bettino Craxi è stato la principale vittima.
"Lezione di Bettino attuale". E Forza Italia ricorda Craxi. Francesco Boezi il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Ieri è stato il ventitreesimo anniversario della morte di Bettino Craxi. All'evento in Tunisia sono attese più di cento persone dall’Italia per ricordare una delle figure centrali della storia politica del nostro Paese
Ieri è stato il ventitreesimo anniversario della morte di Bettino Craxi e in molti si preparano all’evento commemorativo - quello organizzato dalla Fondazione - che si terrà sabato prossimo, in Tunisia. «Caro Bettino, a distanza di ventitré anni sono ancora qua - ha esordito su Facebook Stefania Craxi (nella foto), figlia dello storico leader socialista e senatrice di Forza Italia - , ad Hammamet, in quella terra tunisina che ti ha accolto e amato, per abbracciarti e ricordarti, come uomo di Stato, come politico, come padre. È un ordine non casuale, che mi hai insegnato fin da piccola, avendo il privilegio di respirare al tuo fianco il fiato lungo della Storia. Anche quest'anno - ha aggiunto - saremo in tanti a stringerci a te, non siamo più soli come in quel pomeriggio del 19 gennaio 2000».
E in effetti sono attese più di cento persone dall’Italia per ricordare una delle figure centrali della storia politica del nostro Paese. Ma i partecipanti non proverranno soltanto dal Belpaese. Per quanto riguarda il contesto parlamentare italiano: sono attesi non solo i capigruppo degli azzurri alla Camera e al Senato Alessandro Cattaneo e Licia Ronzulli, ma anche quelli della Lega, quelli d’Italia viva e di altre formazioni politiche. Prenderanno parte alla cerimonia pure molti giovani, che certo non possono essere definiti «reduci del socialismo».
«Ho provato lungo il corso di questi anni - ha continuato Stefania Craxi via social, nella sua missiva - a portare avanti quella che chiamavi 'l'operazione verità', e benché il traguardo non sia stato ancora definitivamente tagliato, voglio che tu sappia che siamo molto vicini, che non desisto, che non mi arrendo. Molto, se non tutto, è cambiato. E cambierà ancora. Perché la verità, la giustizia, hanno sì i loro tempi, ma anche una loro forza inarrestabile. Ciao, Papà».
Il ricordo dell'ex leader socialista. Noi figli della rivoluzione di Craxi. Enzo Maraio su Il Riformista il 18 Gennaio 2023
C’è una Italia che cambierà per sempre e una politica che morirà definitivamente. C’è un intero Paese che sarà vittima e nello stesso tempo complice. Il mondo non è stato affatto cambiato. Ma i politici di una volta, quelli insultati sotto una pioggia di monetine, non ci sono più. Sono stati sconfitti dalla mancanza di coraggio di tutti gli altri uomini politici: dai loro silenzi (che erano assenso), dalla loro complicità. Che, nel salvarsi, hanno determinato la debacle, aprendo una crepa dalla quale poi è entrato di tutto e non è uscito nulla. Se non quello che si doveva mettere via.
Bettino Craxi ebbe il coraggio di dire di sè, e degli altri, in quello storico discorso del 3 luglio 1992 che “se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”. Basterebbero queste poche parole a far capire, a chiunque, anche a un bambino, come trent’anni fa nella sacralità dell’Aula di Montecitorio un politico – leader di una delle principali forze di governo del Paese – si autodenunciava e denunciava il sistema: “Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.
Ventitre anni fa moriva un gigante della politica italiana. Moriva lontano dalla sua terra. Io avevo 22 anni e stavo terminando i miei studi in giurisprudenza. Seguivo quelle vicende con la passione politica ereditata dalla mia famiglia, ma anche con la sete che può avere uno studente di legge alla fine del suo percorso di laurea. Un anno dopo la morte di Bettino vengo eletto segretario provinciale dei Giovani Socialisti della mia città. Quando Craxi pronunciò quel discorso alla Camera io avevo 14 anni. Sono un giovane socialista cresciuto sotto l’ala protettiva del grande pantheon del mio partito, ma sono uno di quei tantissimi giovani che allora come oggi crede fortemente nell’autonomia socialista, nel riformismo e nella possibilità di rappresentare anche i ceti sociali più innovativi. Anche io, e come me tanti, con Bettino Craxi abbiamo vissuto a pieno quella stagione di ammodernamento della politica, quella che arrivò molti anni prima delle politiche socialdemocratiche tedesche e dei laburisti inglesi.
In Italia, da quel momento in poi, non ci sarà mai più una spinta così moderna, innovativa. Un Paese orgoglioso della sua storia, della sua bellezza, della sua genia, e tutto ciò con uno sguardo sempre attento agli ultimi. Mantenendo uno stato sociale forte, pronto a intervenire e accompagnare la crescita in maniera orizzontale. Siamo tutti figli di quella grande rivoluzione, che non tutta la sinistra seppe fare e capire. Peccato. Grazie Bettino.
Enzo Maraio
Scritti e pensieri da Hammamet. Scritto inedito di Craxi: “Ho speso tutta la mia vita politica per l’Unità socialista”. L'Avanti su Il Riformista il 18 Gennaio 2023
Pubblichiamo scritti e pensieri inediti, che Bettino Craxi, ad Hammamet, scrisse a metà degli anni ’90. Archivio Bobo Craxi.
Hammamet – (…) Feci lo sforzo in piena convinzione, di avviare a sciogliere il nodo che noi tutti, socialisti e comunisti, avevamo ereditato dalla storia del movimento socialista e dalle sue divisioni e con il quale, per tutta la mia vita politica, io stesso mi sono trovato alle prese. Mi riproposi in termini nuovi questa questione, subito dopo la caduta del Muro di Berlino. Sull’Avanti! già nel 1990, infatti scrivevo: “La grande politica si fa assai meglio con i grandi processi di unità, che non con le divisioni e le scissioni (…). Non una generica unità della sinistra, nella cornice di inconcludenti proposte di alternativismi confusi, ma l’Unità Socialista, perché da essa possa nascere una grande forza socialista, democratica, europea ed internazionalista. Di fronte alla crisi verticale della ideologia e dei sistemi comunisti, noi avevamo subito assunto una linea aperta, costruttiva, consapevole del nostro ruolo e del nostro dovere storico. Abbiamo lanciato la parola d’ordine dell’Unità socialista che è ad un tempo un programma politico ed una prospettiva d’avvenire. L’Unità socialista, l’unità dei socialisti provenienti da esperienze e tradizioni diverse, è la prospettiva per la quale continueremo a lavorare. (…)”
In un discorso alla camera del 18 aprile 1991, ripetevo questa mia convinzione: “Noi continueremo a lavorare nel Paese, in un dialogo aperto con forze di ispirazione socialista, democratica, laica, ecologista, per delineare una prospettiva d’avvenire imperniata innanzitutto su di una concentrazione di forze progressiste raccolte sotto l’insegna dell’Unità socialista” (…) un problema della storia, una questione attuale, una prospettiva d’avvenire. Parlando a Livorno nel settembre del 1991 dichiaravo: “Qui a Livorno si consumava sotto la pressione di Mosca la divisione del Psi. Ora si è aperta la possibilità di superare quella divisione, di chiudere un capitolo della storia, di aprirne uno nuovo nel segno del socialismo democratico. E’ ciò che ci proponiamo di fare. E’ ciò che ci auguriamo di riuscire a fare. (…) Viviamo in tempi di cambiamenti straordinari che sollecitano cambiamenti straordinari. Il formarsi di una grande forza riformista non potrebbe che fortificare il sistema democratico ed imprimere un nuovo impulso al rinnovamento ed al progresso della società italiana”.
(…) Non si trattava di una impostazione né arrogante, né craxista, né degenerata, né equivoca, e neppure una pretesa di egemonia. Qualcuno potrà semmai dire, viste le cose come poi sono andate, che era un’idea astratta, il frutto di una beata illusione. Quello che è successo dopo non tutti lo sanno con esattezza, mentre sarebbe bene che tutti lo sapessero ed io, per parte mia, cercherò di contribuire ancora alla migliore comprensione dei fatti e delle responsabilità. (…)
L'anniversario della scomparsa. Craxi ebbe la “colpa” di vedere in anticipo la crisi italiana ed europea. Ugo Intini su Il Riformista il 18 Gennaio 2023
Più i fatti e i concetti sono chiari, più è facile riassumerli. E’ pertanto possibile raccontare in poche righe a un giovane che non ha vissuto gli anni ‘70 e ‘80 cosa Craxi ha realizzato. E cosa ha capito e suggerito troppo presto, purtroppo, per i suoi tempi.
Alla fine degli anni ‘70, Mosca stava per vincere la terza guerra mondiale (fredda) tra Est e Ovest. Aveva infatti da tempo una schiacciante superiorità nelle armi convenzionali e aveva appena dispiegati i missili SS-20 a più testate nucleari contro l’Europa occidentale. Se non si fosse riequilibrata la potenza atomica, l’Europa, intimidita, sarebbe stata separata dagli Stati Uniti e relegata a un destino di neutralità obbligata come la Finlandia. Si programmò di rispondere piazzando i missili Pershing e Cruise. Se l’Italia non lo avesse fatto, l’Europa non lo avrebbe fatto. Ma senza la ferma volontà di Craxi (contro i comunisti, i cattolici pacifisti, la Repubblica, la Fiat e l’industria pubblica) l’Italia si sarebbe tirata indietro. Ancora oggi, a Washington, riconoscono che senza il piccolo PSI l’intero Occidente avrebbe perso la guerra fredda.
Un gruppo di amici e compagni (tali da decenni) si capiva con uno sguardo e aveva gli stessi ideali. Creò le basi per l’Unione Europea: Craxi, Mitterrand in Francia, Brandt e Schmidt in Germania, Felipe Gonzales in Spagna, Soares in Portogallo. Craxi poi era il leader naturale per gli spagnoli e i portoghesi, cresciuti in esilio a Roma, dove si erano formati sull’Avanti! e Mondoperaio. Questo gruppo di amici e compagni sognava un’Europa alleata degli Stati Uniti certo ma autonoma, perché non sempre gli interessi europei coincidono con quelli americani. E questo andrebbe oggi ricordato ai neofiti acritici dell’atlantismo (ex comunisti ed ex fascisti).
All’inizio degli anni ‘80, la cosiddetta scala mobile adeguava automaticamente ai salari una inflazione di quasi il 20% e appiattiva le retribuzioni perché la parte prodotta da questi automatismi era quasi uguale alla parte legata alle diverse funzioni dei lavoratori. Nel 1984, Craxi presidente del Consiglio tagliò la scala mobile, Berlinguer lo sfidò promuovendo un referendum per ripristinarla. E Craxi, smentendo molte previsioni, lo vinse (contro la furibonda campagna del PCI e della maggioranza comunista della CGIL, ma anche contro La Repubblica e la parte dell’establishment rimasta orfana del compromesso storico). L’inflazione scese dal 17 al 4% e il PIL salì, tra il 1984 il 1990, del 21,4%.
Neppure Bertinotti, quando fu al governo negli anni ‘90, chiese di ripristinare la sciagurata scala mobile. Il referendum fu infatti in verità soprattutto una battaglia politica: la vittoria socialista cancellò il diritto di veto che di fatto i comunisti e la Cgil da loro guidata avevano sulle grandi scelte economiche. Lo statalismo, l’egemonia culturale comunista, lo strapotere dei cattolici di sinistra alla Rai, considerava un tabù il monopolio pubblico televisivo. Oggi, con decine di canali liberi, il monopolio sarebbe impensabile. Ma fu Craxi a creare il pluralismo radiotelevisivo e su questo rischiò il posto di capo del governo.
Vanno ricordate poi le sue intuizioni e le sue battaglie politiche. Nel 1977, chiese al PCI di abbandonare il marxismo leninismo trasformandosi in un moderno partito socialdemocratico. Berlinguer ribadì la fedeltà alla “ricca lezione di Marx e di Lenin” e scagliò il suo anatema. “La socialdemocrazia non è rivoluzionaria, perché persegue una politica riformistica sempre all’interno del sistema capitalistico”. Alla fine degli anni ’80, Craxi, primo tra i socialisti europei, teorizzò (anche nel ricordo di Carlo Rosselli) il “liberalsocialismo“, che concilia libero mercato e giustizia sociale. Nel 1979, chiese una “grande riforma“ delle istituzioni prima che fosse troppo tardi e che le istituzioni stesse, a cominciare da quella parlamentare, fossero non riformate ma delegittimate o distrutte (come avvenne a partire dalla rivoluzione giudiziaria del 1993).
Chiese che la magistratura ritornasse al pieno rispetto della legge e smettesse di fare politica. Oggi lo hanno capito tutti, ma prima ancora di Craxi lo aveva capito Nenni, che nel 1973 scriveva della magistratura. “L’abbiamo voluta indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti”. Proprio il continuo peggioramento di questa anomalia italiana consentì alla parte più politicizzata della magistratura, nel 1993, di liquidare il sistema democratico dei partiti. Sarebbe semplicistico vedere la causa soltanto in questa liquidazione. Ma certo nel 1990 l’Italia aveva un PIL all’incirca simile, ad esempio, a quello di Francia e Gran Bretagna. Nel 2019 (prima della pandemia) eravamo indietro del 35% rispetto alla Francia e del 40% rispetto alla Gran Bretagna. Craxi voleva un bipolarismo dove il PSI fosse alleato con un PCI finalmente modernizzato. Il PCI ha preferito cavalcare Mani Pulite e vederlo cancellato dalla scena politica.
Oggi i suoi discendenti rimpiangono la moralità di Berlinguer di fronte alle poche centinaia di migliaia di dollari dati dai lobbisti di Qatar e Marocco ai parlamentari europei. Ma Qatar e Marocco non sono certo una minaccia. L’URSS era invece il nostro nemico mortale e ha dato per decenni al PCI di Berlinguer centinaia di milioni di dollari. Il che, forse, ha costituito una “questione morale“ (e di lealtà istituzionale) ben più grave. Craxi era l’allievo di Nenni, cresciuto nel suo mito. Se, come ho fatto, si può riassumere in poche righe ciò che ha realizzato e intuito, i socialisti lo possono ricordare altrettanto brevemente ricorrendo alle parole di Remigio Paone (il più grande uomo di teatro del ‘900 e un vecchio socialista). Paone diceva a Nenni. “Sei riuscito dove non era riuscito Turati: a portare i socialisti al governo”. A Craxi avrebbe detto. ”Sei riuscito dove non erano riusciti Turati e Nenni: a portare i socialisti a capo del governo”. Ugo Intini