Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Reya Sunshine.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SETTIMA PARTE
· Quentin Tarantino.
Tarantino: «Mia madre non mi ha mai sostenuto, promisi a me stesso che non le avrei mai dato neanche un centesimo». Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 9 settembre 2022.
Realizzare i propri sogni costa fatica e duro lavoro. Il supporto della famiglia può essere fondamentale per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. C’è poi chi ce l’ha fatta anche senza il sostegno dei genitori, come il regista di Pulp Fiction, Quentin Tarantino. In un’intervista rilasciata a Brian Koppelman nel podcast «The Moment», Tarantino ha dichiarato di non essere mai stato appoggiato dalla madre e di aver agito di conseguenza: «Non era contenta delle difficoltà scolastiche e si lamentava con me. Mi rimproverava perché detestava che non fossi portato per la scuola. Ricordo che un giorno, con tono sarcastico, nel mezzo di una delle sue filippiche, mi disse “Oh e comunque questa tua carriera da scrittore, con tanto di segno delle virgolette fatto con le dita, finisce qui”. In quell’occasione promisi a me stesso che, una volta raggiunto il successo, non le avrei mai dato un centesimo». Irremovibile. «Un proposito che ho rispettato - ha raccontato il regista - perché bisogna sempre ricordare che le parole hanno delle conseguenze, soprattutto quelle pronunciate a un bambino: il sarcasmo di un genitore può essere davvero pericoloso e difficile da digerire».
L’infanzia di Quentin Tarantino
La madre del regista lo ha avuto da giovanissima, aveva infatti solo 16 anni. Lei ha sempre lavorato come infermiera mentre il padre era un musicista e attore di origini italiane. Prima che Quentin Tarantino nascesse, il padre lasciò sua madre e lei dovette occuparsi di suo figlio prima da sola e poi con l’aiuto del nuovo marito. Quentin e sua madre hanno sempre avuto scontri e visioni opposte su quel futuro che stava cercando di costruirsi. «Invece di seguire le lezioni creavo storie e buttavo giù sceneggiati» ha raccontato il regista , che ha scritto la sua prima sceneggiatura a 12 anni. A 15 anni invece ha lasciato la scuola per lavorare come uscere in un cinema. La sua carriera è iniziata dal basso, ora guadagna milioni con il lavoro che ama. Sua madre ha 75 anni: «L’ho aiutata solo una volta, per una situazione complicata con il fisco, ma non le ho comprato una casa».
Raf: «Al primo appuntamento mia moglie mi diede buca. Le stavo antipatico, credeva fossi un montato». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
Il cantautore: «Non mi arrabbio quasi mai, ma quando succede mi incavolo sul serio, niente self control. Con Umberto Tozzi tour e vacanze, anche la settimana bianca»
La madre di tutte le figuracce per un timido cronico.
«Finisce il concerto, si spengono le luci, due rapidi passi in avanti e prendo in pieno una grossa cassa speaker di cui mi ero dimenticato. Dopo un triplo salto carpiato con avvitamento, con la chitarra al collo, mi ritrovo a pelle d’orso sul palco proprio mentre qualcuno, sentito il tonfo, riaccende i riflettori. Mi rialzo imbarazzatissimo. Intorno a me ridono tutti, musicisti, tecnici e spettatori. E dalla prima fila, passata l’apprensione, sghignazza pure Fabrizio Frizzi che non mancava mai a una mia data, ma scappava sempre subito via, senza passare dal camerino. E ogni volta che lo invitavo — “Stavolta sei mio ospite però” — mi rispondeva che aveva già comprato i biglietti un mese prima». Cosa resta di quegli anni Ottanta (favolosi, edonisti, chiassosi) glielo chiediamo qui sotto, ma di certo ci è rimasto lui: Raf (Raffaele Riefoli), 63 anni (eh già, non sembra), praticamente inossidabile da quando (nel 1984) faceva ballare l’universo mondo con il suo «Oh oh oh /oh oh oh/ you take my self/you take my self control».
Sempre stato così introverso?
«Sì. E sono migliorato, eh. Da ragazzino invece ero un disastro. Mi vergognavo, con guance e orecchie paonazze, non riuscivo a parlare, farfugliavo, dicevo sempre la cosa sbagliata».
Povera stella, succede.
«Non mi aiutava avere un padre molto severo, però a quei tempi lo erano tutti. Bastava un niente e volava lo scappellotto. A casa, a me e mio fratello, ci faceva filare. Non voleva che giocassi a pallone, se per caso mi beccava in strada in piena partitella erano guai».
Papà Antonio, operaio specializzato, lavorava alle saline di Margherita di Savoia.
«Ricordo le montagne bianche di sale e i tramonti tinti di rosso».
L’accento pugliese non si sente per niente.
«Perché me ne sono andato a Firenze a 17 anni. E poi ho vissuto a Londra, a Milano, ora metà a Roma e metà a Miami. Quando mi arrabbio però riesce fuori, con la e aperta e la o chiusa».
E si arrabbia spesso?
«Quasi mai, ma quando succede mi incavolo sul serio, niente self control».
Cosa o chi le sventola il panno rosso davanti agli occhi?
«Le ingiustizie, le falsità, i tradimenti. Non mi chieda di chi, non glielo dico manco sotto tortura».
A 9 anni restò folgorato dai Beatles.
«Vidi un loro film sulla Rai, c’erano sì e no due canali. Decisi che volevo diventare come loro».
E quindi?
«Presi lezioni di piano dalla vicina, di chitarra da mio cugino. A 13 anni con la prima band suonavamo rock progressivo, i Jethro Tull, I King Crimson, ma anche il liscio a matrimoni e cene danzanti. Portavo i capelli lunghi e mi scambiavano per una ragazzina».
A Firenze ci andò seguendo il primo amore.
«Sabrina. Ma a quei tempi “fidanzata” era una parola da vecchi. Durò meno di sei mesi. Intanto però, con Ghigo Renzulli, futuro Litfiba, fondammo i Cafè Caracas, da una vecchia insegna di un bar appesa nella casa del Quattrocento in cui vivevo».
Mamma Luigia le spediva il famoso «pacco da giù» con salumi, friselle e verdure sott’olio?
«All’inizio no, perché i miei non erano per niente d’accordo con la mia scelta. Mi mandava qualche soldo di nascosto. Con il tempo sono arrivati pure i barattoli».
Si erano rassegnati a un figlio un po’ così.
«Gli arrivavano le voci più assurde, si erano convinti che fossi un matto debosciato dedito all’alcol e alle droghe, capirai, al massimo qualche canna. La prima volta che mi hanno visto in tv, presentato come una star internazionale, sono rimasti esterrefatti: mamma piangeva, papà restò impietrito».
A Londra, per poter suonare, faceva il cameriere.
«Nemmeno quello, perché non parlavo bene l’inglese. Ero fermo a «the cat is on the table» e delle ordinazioni non capivo niente. Perciò mi confinarono in cucina, caricavo e scaricavo la lavapiatti. Poi, diventato più bravino, ho fatto il commesso in un negozio di abbigliamento».
Però «Self Control» la scrisse in inglese.
«E dopo chiesi al mio amico Steve Piccolo di rileggere il testo, onde evitare strafalcioni. Cambiò giusto due cosine e firmò la canzone con me e Giancarlo Bigazzi. Quando compongo un pezzo, anche oggi che canto in italiano, lo butto giù in un inglese maccheronico, giusto per catturare il suono».
Tipo Celentano con Prisencolinensinainciusol.
«Esatto. Mi trovo meglio, poi lo riscrivo».
Fu un singolo che, con la cover di Laura Branigan, vendette 20 milioni di copie. Eppure lei non era contento: «Mi sentivo il fratello povero dei Duran Duran», confessò.
«Non volevo diventare un personaggio della dance più commerciale, andare in tv e cantare in playback, mi metteva ansia».
«Non avevo più amici, tutti mi guardavano in maniera strana», ha raccontato.
«Ero scontroso, scorbutico, perché mi sentivo fuori posto. E mi ritrovai più solo. Quando hai successo, sono gli altri che spesso ti vedono diverso. “Ora che è famoso non è più uno di noi”, pensano. E tu non sai mai se la gentilezza di una persona nei tuoi confronti è reale o falsa».
Con «Si può dare di più» (1987) ha vinto Sanremo per interposta persona: la scrisse lei, ma al Festival, in trio con Gianni Morandi e Umberto Tozzi ci andò Enrico Ruggeri.
«Ero legato da un contratto, non sono riuscito a liberarmi in tempo. E poi ero ancora a disagio a cantare in italiano. Pure quella l’avevo scritta in inglese, si intitolava qualcosa tipo «Celebration of my heart», nel mio solito inglese approssimativo. E no, non mi sono pentito, dopo pochi mesi è cambiato tutto: io e Umberto siamo andati all’Eurofestival con Gente di mare».
Terzi classificati. E amici da sempre e per sempre.
«Ci conoscevamo dai tempi di Firenze, quando lavoravo con Bigazzi come producer. Per dieci anni a Roma siamo stati vicini di casa, facevamo le vacanze insieme. Come quando siamo andati in settimana bianca sulle Dolomiti e, dopo le discese, ci fermavamo a mangiare nei rifugi. Prima di tornare a valle sugli sci un po’ alticci… zigzagando in pista… più che altro rotolando».
D’amore e d’accordo anche in tour.
«Un tour lunghissimo, eppure lo rifarei cento volte, perché con Umberto mi diverto come un pazzo, ogni tanto ha la luna storta, capita, però è simpaticissimo. Con lui poi non scatta nessuna competizione sul palco se uno dei due ha cantato un pezzo in più, zero problemi, solo allegria».
Un difetto lo avrà.
«È ritardatario, perché è lentissimo. Per farsi la doccia ci mette una vita, anche a tavola mangia con somma calma, gli altri hanno finito e Umberto è ancora al primo. Lui, peraltro, mi rimprovera la stessa cosa, dice che il ritardatario sono io. E a volte è vero».
Pio e Amedeo in Emigratis si sono presentati nella sua nuova casa di Miami.
«Non c’ero, hanno corrotto mia figlia Bianca. Li vedevo dalla telecamera mentre frugavano negli armadi, mettevano i miei vestiti, mi aprivano il frigo lamentandosi che c’era poco da mangiare. Tremendi, ma sono amici, foggiani, conterranei».
Il pugliese che c’è in lei ritorna, anche se vive in Florida per gran parte del tempo.
«Le orecchiette con le cime di rapa non mancano mai, nemmeno a Miami».
Cucina lei?
«Solo quello, moglie e figli mi hanno soppiantato a fornelli, ho alzato bandiera bianca».
Gianluca Grignani su Instagram la chiama fratello.
«Non ci vediamo tanto, ma gli voglio bene, ha scritto canzoni bellissime».
Il suo gruppetto di amici-amici.
«Ogni estate a casa mia facciamo grandi cene con Corrado Guzzanti, Marco Marzocca, Lillo, Teo Mammucari, se magna, se beve e si sta insieme».
Sua moglie Gabriella Labate — miss «Sei la più bella del mondo» — l’ha conosciuta nel…
«…nell’87, credo».
Voi uomini con le date, si sa, non andate d’accordo.
«Ero a Saint Vincent, lei faceva parte del corpo di ballo. Aveva i capelli legati, un maglione con la cinta in vita, niente di speciale, eppure l’ho notata subito. Mi sembrava in effetti di averla già vista. Più tardi mi sono messo a provare da solo sul palco davanti alle sedie vuote. A un tratto arriva lei e si siede. Mi fissa. Mi cade la sigaretta. Mi cade lo spartito. Le stavo antipatico, credeva fossi un montato. Lì però ha capito che ero soltanto imbranato e timido, non str…. Dopo l’ho invitata a cena. “Se mi vuoi raggiungere…”».
Le ha dato buca.
«Perché ha finito tardi. Però avevo lasciato un biglietto per lei al proprietario del ristorante. “Ti ho aspettato finora, purtroppo non sei venuta. Questo è il mio numero, se ti va, chiamami”».
Ha funzionato?
«Mi ha telefonato qualche giorno dopo, ci siamo rivisti a Napoli e lì mi è venuto in mente dove l’avevo già vista: durante uno show tv, mentre cantavo, c’erano delle ballerine che scendevano da una scalinata e mi passavano accanto. Mi sorridevano tutte, tranne lei. Però da quella volta non ci siamo più lasciati. Gabriella mi ha insegnato a non avere paura di aprirmi con le persone. Cerco di copiare lei, così diretta e sincera».
Come potrei non chiederle cosa è restato di quegli anni Ottanta?
«La leggerezza, sdoganata dopo la lunga stagione dell’impegno. Si è finalmente capito che non è obbligatorio essere sempre seri e profondi. E che pure la banalità a volte ha il suo dannato perché».
Raf, storia dell’amore ultratrentennale con Gabriella Labate (che all’inizio lo trovava antipatico). Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.
Il cantautore - Raffaele Riefoli all’anagrafe - oggi compie 63 anni. È sposato dal 1996 con la showgirl, da cui ha avuto due figli
Il primo incontro dietro le quinte
«Ci siamo incontrati in una trasmissione, lui cantava, io ballavo. È stato un incontro vero, fatto di sguardi», ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair Gabriella Labate - che in passato ha lavorato in tv come showgirl, tra spettacoli del Bagaglino, Tg delle vacanze e Scherzi a parte - a proposito del primo incontro con Raf. Non è stato quel che si dice un colpo di fulmine: «Mi ha invitato a cena. All’inizio a me stava antipatico perché mi sembrava un altro tipo di persona, poi ho capito com’era davvero. Comunque a quella cena non ci sono andata, ho lavorato fino a tardi e all’epoca non c’era modo di avvisarlo. Quando sono arrivata al ristorante, che stava per chiudere, lui non c’era ma uno dei camerieri mi ha consegnato una sua lettera».
Vera magia
«Abbiamo superato Al Bano e Romina». Lo ha detto scherzando Gabriella Labate a proposito della sua lunga storia d’amore con Raf, che dura da più di 30 anni. Un’impresa rimanere insieme per così tanto tempo? «Non è difficile se c’è la vera magia - ha spiegato il cantautore, che proprio oggi compie 63 anni - . Io e Gabriella non siamo mai arrivati a dirci “ci lasciamo”. Ci sono discussioni sì, ma niente e nessuno può scalfire il nostro rapporto. Lo dico anche in “Come una favola”: “È un amore in cui non crede nessuno”. All’inizio tutti pensavano che fosse solo una delle mie avventure». Ecco come tutto è iniziato.
Il primo incontro dietro le quinte
«Ci siamo incontrati in una trasmissione, lui cantava, io ballavo. È stato un incontro vero, fatto di sguardi», ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair Gabriella Labate - che in passato ha lavorato in tv come showgirl, tra spettacoli del Bagaglino, Tg delle vacanze e Scherzi a parte - a proposito del primo incontro con Raf. Non è stato quel che si dice un colpo di fulmine: «Mi ha invitato a cena. All’inizio a me stava antipatico perché mi sembrava un altro tipo di persona, poi ho capito com’era davvero. Comunque a quella cena non ci sono andata, ho lavorato fino a tardi e all’epoca non c’era modo di avvisarlo. Quando sono arrivata al ristorante, che stava per chiudere, lui non c’era ma uno dei camerieri mi ha consegnato una sua lettera».
Le nozze nel 1996
Innamorati da oltre trent’anni quest’anno Raf e Gabriella Labate (che custodiscono il loro amore lontano dai riflettori) festeggiano 26 anni di matrimonio: sono infatti convolati a nozze nel 1996. La proposta è arrivata su una spiaggia, in riva al mare: «Eravamo in Giamaica per il video di “Il battito animale” e una sera mi ha detto: “Vuoi sposarmi? Hai tre secondi per rispondere”».
Due figli
Nel 1996 e nel 2000 Raf e Gabriella Labate hanno dato il benvenuto ai loro due figli, Bianca e Samuele. Per seguire la sua famiglia la showgirl ha deciso di lasciare (senza rimpianti) il mondo dello spettacolo. «Se sposi una donna che fa spettacolo e poi glielo proibisci sei un talebano - ha spiegato Raf -. Piuttosto non la sposi. Gabriella era stanca dell’ambiente e quando abbiamo avuto Bianca e Samuele ha preferito dedicarsi totalmente a loro».
Il segreto di un amore longevo
L’amore per Gabriella ha ispirato il cantautore nella composizione di molte canzoni. Su tutte «Sei la più bella del mondo»: «L’ho scritto per conquistare una ragazza, quella ragazza che da tanti anni è mia moglie, Gabriella», ha spiegato. Ma anche la showgirl si è cimentata come autrice, scrivendo con il suo compagno «Metamorfosi» e «Ogni piccola cosa di te». Il segreto di un amore così longevo? Vivere sempre l'uno accanto all’altra, anche e soprattutto nei momenti difficili (come quando, anni fa, la showgirl ha dovuto affrontare un grave problema di salute legato ad un intervento chirurgico). «Il segreto è non avere segreti - ha detto Gabriella, sempre a Vanity Fair -. Vivere quotidianamente ogni cosa. Sentire di avere il piacere di stare insieme ancora per molto. Se due persone smettono di essere felici, invece, fa male continuare».
Paola Italiano per “la Stampa” il 20 luglio 2022.
C'è stato un tempo in cui per capire quale musica avremmo ascoltato in Italia da lì a poco, bisognava guardare le classifiche inglesi e americane. Per la generazione del giovane Raffaele Riefoli il viaggio a Londra era allora una tappa obbligata dell'educazione underground del giovane alternativo, specie se ambiva a fare musica. In quel tempo, precisamente il 18 agosto 1984 entrava nella top ten inglese Laura Branigan con il pezzo Self Control.
E l'autore era lui, Raffaele Riefoli, nome d'arte Raf, che arrivava da Margherita di Savoia, allora provincia di Foggia si era trasferito a Firenze per studiare all'Istituto d'arte e quindi si era avventurato senza una lira in Inghilterra, al centro del mondo. In Italia Self Control sarebbe stato il terzo singolo più venduto del 1984 dietro Stevie Wonder e gli Wham!. A 62 anni, 63 a settembre, Raf sembra ancora un ragazzo, ma erano 7 anni che non usciva con un singolo, che è finalmente è arrivato e si intitola Cherie.
Che ha fatto in questi 7 anni?
«In realtà 5, quelli della pandemia vanno tolti: non avevo voglia di uscire con un progetto nuovo perché non avrei avuto la possibilità di portarlo dal vivo, cosa che oggi è fondamentale. Sarei dovuto uscire prima con un disco ma ho avuto un diverbio con la mia vecchia casa discografica perché volevano impormi la loro linea».
Cioè?
«Faccio questo mestiere da una vita e arrivare in sala dove tutti hanno fatto già tutto e io devo solo cantare e poi tornare a casa non mi piace».
In Cherie c'è un forte richiamo alle origini: la lingua inglese (in parte) e il groove disco-funky. Non è che quel che resta degli Anni 80 alla fine è proprio la musica? Kate Bush è tornata addirittura in classifica grazie alla serie Stranger Things.
«Miracoli di Netflix. Le canzoni del passato ritornano grazie alla serie tv, ma anche grazie ai social come TikTok. Da un lato è un bene, dall'altro la dice lunga su come oggi sia un problema fare musica: tutto quello che viene proposto attinge inevitabilmente al passato, non c'è nulla di veramente nuovo. E non imperversano solo gli 80, si sentono tantissimo gli anni 60, anche nei tormentoni estivi».
Anche negli Anni 80 però si era già visto e sentito molto.
«Ma io ricordo il giorno in cui vidi il film dei Beatles in bianco e nero sulla Rai, avevo 13 anni: quella fu la scintilla che mi fece dire voglio diventare come loro, perché erano degli extraterrestri, non si era mai visto nulla di simile».
Per questo andò in Inghilterra?
«Tutto partiva da lì, si andava a Londra per scoprire cosa succedeva. Io volevo sentirmi al centro della rivoluzione musicale che in quegli anni era la New Wave, la nuova musica rock».
Cosa era disposto a fare quel ragazzo per realizzare i suoi sogni?
«Ero, e mi sento ancora, un ingenuo ragazzo di provincia. Per giunta della provincia del Sud. In quegli anni senza web e in cui c'erano solo la radio e la tv (e la tv aveva per giunta pochi canali) voleva dire essere distanti dal mondo. Io e i miei amici guardavamo i tramonti e sognavamo l'America. Ma era come dire oggi andiamo su Marte, a differenza dei miei figli (Bianca e Samuele, 26 e 22 anni, ndr) che in America ci sono stati decine di volte. A Londra ero un ragazzo che voleva conquistare il mondo, anche se non me ne rendevo conto: ma se non fosse stato così non avrei mai avuto la forza di andare avanti, era una vita di stenti, facevo il cameriere e altri mille lavori».
I lavori che secondo alcuni i giovani oggi non vogliano più fare: sono bimbi viziati?
«È cambiato il mondo, non si può accusare una generazione. Oggi è tutto diverso. Io vengo da una famiglia di operai e per i miei le vacanze non erano un diritto, se le sono concesse quando noi figli siamo diventati grandi. Erano comunque felici, ma questo non vuol dire che oggi i ragazzi siano viziati: semplicemente chiedono quello che ritengono gli sia dovuto, non si può pensare che rinuncino alla loro gioventù per meno del minimo sindacale, perché poi di questo parliamo».
Si offende se la chiamano boomer?
«No, ma credo che le definizioni lascino il tempo trovano e io cerco di sfuggire alle etichette.La mia carta d'identità mi mette tra i boomer: quali altri specifiche ha il boomer?».
Vediamo: che rapporto ha con i social?
«Sono nato in un'epoca in cui l'ostentazione del superfluo era quasi un sacrilegio, cosa che invece sui social viene fatta con grande naturalezza. A me imbarazza. Non sarei un bravo TikToker. Ho i profili social perché oggi se fai musica sono una parte importante, ma se non fosse per questo forse non li avrei. Questo è boomer?».
Per niente, in realtà. Passiamo al rapporto con le novità: la musica dei i giovani le piace o «voi» eravate meglio?
«Io sono aperto a tutte le novità. Ascolto volentieri la musica che ascoltano i miei figli e non è scontato: quando avevo 20 anni i miei inorridivano a sentire quello che piaceva a me».
E chi le piace?
«Ci sono tanti artisti bravi, anche se nell'offerta illimitata dello streaming è tutto da vedere chi riuscirà a resistere nel tempo. In Italia Tha Supreme è sicuramente un fenomeno, notevoli anche artisti più pop, come Blanco o Madame. Il talento dei Måneskinè evidente a tutti, anche se mi permetto di dire che da loro prima o poi io mi aspetto che facciano qualcosa di diverso da un pezzo rock costruito su un riff di chitarra, ma una canzone, magari anche più pop: come hanno fatto a un certo punto i Rolling Stones».
A proposito di pop. Lei ha firmato molti successi con Umberto Tozzi che ha spesso lamentato un atteggiamento snob da parte della critica, lui che è l'italiano che ha venduto più dischi al mondo. Vale anche per lei?
«Questo atteggiamento c'era soprattutto da parte dei colleghi: negli anni 80 erano veramente terribili, vigeva il luogo comune per cui la musica leggera era sinonimo di povertà, quando in realtà scrivere canzoni pop di successo è complicatissimo, lo hanno ammesso gli stessi cantautori osannati dalla critica. Penso che a Umberto qualcosa sia stato tolto, ma lui veniva dopo il '68, un'epoca in cui si pretendeva l'impegno a ogni costo. Io sono arrivato un po' dopo, quando le cose stavano cambiando».
Come è nata la vostra amicizia?
«A farci conoscere è stato Giancarlo Bigazzi a Firenze, io facevo il lavoro dietro le quinte, quello che oggi si chiama producer. Poi siamo diventati vicini di casa a Roma per un decennio. L'amicizia resiste anche se oggi lui vive a Monaco, io per gran parte del tempo negli Stati Uniti».
Quelli che sognava da ragazzo guardando i tramonti. Ora lo ha scoperto: come si sta in America?
«Vivo in Florida dove la qualità della vita è molto buona, e sono in una condizione di privilegio, non devo alzarmi tutte le mattine per andare a lavorare. Ma sono un grande osservatore e mi pare che gli americani negli Stati Uniti vivano un periodo di grande confusione determinato da una scena politico sociale estremamente complicata. Ora Trump minaccia di presentarsi alle elezioni e questo aumenta il conflitto sociale: e mi mette ansia vedere che oggi l'America è come una polveriera che può esplodere da un momento all'altro».
Mattia Pagliarulo per Dagospia il 2 aprile 2022.
Ve la ricordate Bambola Ramona? Sicuramente si! Giunonica, prosperosa, fiorente, rigogliosa e procace. Queste le principali caratteristiche per cui la maggior parte degli italiani ricordano la biondissima Ramona Chorleau, meglio conosciuta con il nome d’arte di Bambola Ramona, colei che con abiti succinti e movenze sensuali ha incantato il pubblico maschile nelle seconde serate di Italia Uno all’interno del programma “Cronache Marziane” durante la stagione tv 2004/2005.
Dopo il successo improvviso ed inaspettato raggiunto nel programma sono seguite altre partecipazioni sul piccolo schermo come concorrente di reality show, ospite in diversi salotti tv e come protagonista di calendari ad alto tasso erotico. Da circa otto anni a questa parte della bellissima ragazza rumena “colpevole” di aver turbato molte notti insonni del pubblico maschile nei primi anni duemila si sono perse le tracce. Oggi la incontriamo e vi sveliamo che fine ha fatto.
D. Da bomba sexy tra TV e calendari ad un lavoro normale, in quale ruolo ti trovi meglio?
R. Dipende...ho cambiato totalmente e radicalmente vita, ho 39 anni e mi sento ancora una donna sexy e piacente. Qualsiasi lavoro che ho svolto nella mia vita l’ho sempre fatto con passione, amore e tanto cuore. La vita è fatta di tappe, le cose si evolvono e cambiano. Sono stati anni difficili non lo nascondo, il successo è svanito e io mi sono dovuta reinventare e ripartire da zero, imparando ad accontentarmi.
Io non ho sempre fatto la showgirl, il mondo della spettacolo è stata solo una parentesi della mia vita; prima di approdare in televisione ero un’assistente alla poltrona di uno studio dentistico, sono stata scoperta dal mio storico agente Edoardo Artom che ha fatto di tutto per convincermi a lanciarmi.
D. Oggi lavori presso un noto ospedale di Torino e sei mamma di due gemelline. Sei soddisfatta di questa tua seconda vita?
R. Si sono molto soddisfatta di questa mia seconda vita. Lavoro presso l’ospedale Molinette di Torino e gestisco le consegne in tutti gli altri ospedali della città, in poche parole mi occupo di logistica all’interno del ramo sanitario.
D. Da parecchi anni non appari più in televisione, ti piacerebbe tornare a lavorare nel mondo dello spettacolo?
R. Non appaio in tv esattamente da otto anni, l’ultima ospitata televisiva l’ho fatta da Barbara d’Urso pochi mesi dopo essere diventata mamma. Si, devo ammettere che mi piacerebbe molto tornare a lavorare in televisione ma con un altro tipo di percorso professionale rispetto al passato, non ho più ne l’età ne la voglia di fare la valletta...
D. Hai mai ricevuto richieste strane da parte dei tuoi fans?
R. Di richieste ne ho ricevute svariate! Alcuni volevano sposarmi, altri avrebbero voluto fare dei figli con me senza nemmeno conoscermi, altri semplicemente sognavano di fare l’amore con me...sono cose che non mi hanno mai dato fastidio: con eleganza e il giusto tatto, si può dire quasi tutto.
D. Ti riconoscono ancora quando vai alle poste, al supermercato o al ristorante?
R. Molto meno rispetto al mio momento d’oro, ma ancora oggi in tanti mi ricordano e mi riconoscono.
D. Hai stregato i telespettatori di Cronache Marziane una quindicina di anni fa con il tuo sorriso smagliante, i tuoi occhi color ghiaccio e le tue curve pericolose, che ricordi hai degli anni del successo ?
R. Avevo un’altra età e vivevo tutto in maniera veloce, spensierata e senza dare l’importanza giusta alle cose che accadevano, ero svampita. Ma posso dire che quel successo l’ho vissuto a pieno e l’ho assaporato.
D. Qualche anno fa hai deciso di ridurre il seno, come mai?
R. Era un seno veramente enorme, ed era diventato ingombrante! Avevo un seno presidenziale che mi limitava in tutto, nei movimenti, nello sport, e stava iniziando a crearmi problemi alla schiena e di conseguenza alla postura. Quindi ho deciso nel 2007 di sottopormi a quest’operazione di riduzione e passare da una sesta ad una quarta, e posso dire di aver fatto la scelta giusta!
D. La Talpa, Cronache Marziane, Campioni per sempre...quale trasmissione ti è rimasta nel cuore?
R. Tutte le ho nel cuore, ma se devo scegliere ti dico Cronache Marziane, la trasmissione che mi ha consacrato! Ringrazierò sempre Fabio Canino che ha creduto in me e mi ha dato tanta forza: ero molto timida e non abituata alle telecamere.
D. Dopo il parto a seguito di gravi complicazioni hai rischiato di morire. Che ricordi hai di quel momento terribile?
R. La gravidanza era andata benissimo ed il parto anche. Qualche giorno dopo mi sono svegliata in un lago di sangue e per un’ora mi sono trovata ad un passo dalla morte. Ho chiamato l’ambulanza, avevo avuto un’ emorragia molto forte in cui ho perso più di cinque litri di sangue! Per fortuna qualcuno dall’alto mi ha protetta e mi sono salvata…
· Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 2 maggio 2022.
Raoul Bova […]
[…] Sono trent' anni dall'esordio con Mutande pazze.
È stata la mia prima parte parlata, dopo una serie di comparsate.
Ruolo?
Barman, e davanti avevo Eva Grimaldi.
E su quel set ha pensato...
E che pensavo? Ero timido e impacciato, con la Grimaldi che mi seduceva mentre stavo dietro al bancone; (sorride) come impatto è stato abbastanza forte.
[…] Paola Cortellesi ha dichiarato al Fatto: "Non mi sono mai goduta le scene d'amore, neanche quella con Bova".
(Ride, molto) Con Paola è stata una tragedia: siamo talmente amici che ci veniva da ridere; a volte ti ritrovi a girare scene con persone che conosci così bene da non riuscire a mettere il giusto distacco.
[…] Ha mai sentito l'invidia maschile?
No, anzi. Sono un uomo al quale si può presentare la propria fidanzata o moglie.
[…] E com' è Madonna?
Non ho mai raccontato le mie relazioni, neanche agli amici.
Se non parla con gli amici, figuriamoci con i giornalisti.
Ho sempre rispettato la mia parte intima.
Gli altri l'hanno rispettata?
(Sospira) Quando sei un personaggio pubblico resta poca intimità, quella poca ho cercato di salvaguardarla; (pausa) a chi ha provato ad attaccarla ho risposto con il silenzio.
[…] È mai stato scambiato per un collega?
[…] Al massimo si sono confusi per un film; (ride) una volta uno mi ha fermato, riempito di complimenti, io ringraziavo, fino a quando ha concluso: "Nella fiction della Uno bianca sei stato fenomenale". Peccato che fosse Kim (Rossi Stuart, ndr).
[…] Le sue colleghe la paragonano a Gassmann e Argentero, ma su di lei aggiungono che è troppo buono...
Per questo gli uomini mi sono amici: non sono mai stato il bello e dannato, quello che ispira... cose... (attimi di sospensione)
Vuol dire "sesso"?
Eh, esatto. Sono bello e amico.
La Guerritore si è lamentata: sul set de La lupa, nelle scene di sesso, Gabriele Lavia non era geloso.
No, anzi, mi spingeva ad andare oltre, mi tranquillizzava quando io ero terrorizzato.
Stavano insieme...
E da regista urlava: "È una scena, devi farlo!". E io: "Va bene, mi impegnerò".
[…] La Wertmuller urlava sul set?
Diciamo che era focosa. Ma sapeva ottenere il massimo.
Giulio De Santis per roma.corriere.it il 18 gennaio 2022.
«T’ammazzo». Così Raoul Bova si è scagliato contro un automobilista che, durante un parcheggio davanti al mercato di via Amiterno, quartiere San Giovanni, ha quasi investito la fidanzata dell’attore 50enne. Manovra azzardata che ha scatenato la furia di Bova arrivato a picchiare l’autista, Matteo Vincenzo Cartolano, 42 anni.
L’aggressione, come ricostruita dalla procura, risale al 27 aprile del 2019 e ora l’attore è sotto processo con l’accusa di violenza privata, minacce e lesioni. Pure Cartolano - oltre a essere parte offesa per le percosse subite da Bova - è imputato con l’accusa di violenza privata, ma per la manovra che ha scatenato l’ira di Bova, difeso dall’avvocato Alessandro Di Giovanni.
Erano circa le 13 del 27 luglio di due anni fa. Bova è appena uscito dal ristorante «I Vitelloni», dove ha mangiato insieme alla sorella Tiziana Bova, 59 anni, e alla fidanzata Rocio Morales Munoz, 31 anni. Stanno per salire in macchina per andare a L’Aquila. All’improvviso spunta un’auto, una Ford Fiesta, che con una manovra incauta si infila in un parcheggio sfiorando la fidanzata di Bova, costituitasi parte civile nel processo.
L’attore, secondo l’accusa, perde la testa. Prima urla a Cartolano: «Ma hai visto cos’hai fatto?». E poi aggiunge «Ti sistemo», «T’ammazzo». Cartolano non si scusa, anzi replica, gli dice che è un avvocato con un tono arrogante e Bova, secondo l’accusa ormai furente, lo tira fuori dalla macchina. Gli molla un pugno sulla spalla per il quale a Cartolano - difeso dall’avvocato Giuseppe Belcastro - sarà diagnosticata la guarigione in 5 giorni.
Raoul Bova a processo, fece a botte con avvocato che stava per investire la compagna. Andrea Ossino su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.
L'attore siede al banco degli imputati con l'accusa di lesioni e minacce. L'automobilista deve rispondere, invece, di violenza privata per aver effettuato “una manovra azzardata che aveva messo in pericolo l’incolumità fisica di Rocio Munoz Morales”. Una questione di viabilità si è trasformata in un’aggressione, con Raoul Bova costretto ad accomodarsi nel banco riservato agli imputati, in un’aula del tribunale romano di piazzale Clodio. In realtà anche la controparte, l’avvocato Matteo Vincenzo Cartolano, è finito a processo, accusato di violenza privata per aver effettuato “una manovra azzardata che aveva messo in pericolo l’incolumità fisica di Rocio Munoz Morales”, la compagna dell’attore.
Rocío Muñoz Morales, ritratto beauty della madrina della Mostra del Cinema di Venezia. Profondi occhi nocciola, capelli castani e fascino mediterraneo. Sarà Rocío Muñoz Morales, con la sua bellezza da diva, a condurre la serata di apertura e chiusura della 79° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. MALVINA BERTI su Iodonna.it 31 Agosto 2022.
Occhi nocciola profondi, lunghi capelli castani e un’innato fascino naturale: a condurre la 79° Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia sarà Rocío Muñoz Morales, ex modella, attrice e classe 1988.
L’attenzione è già puntata su di lei: per il quinto anno consecutivo sarà Armani Beauty lo sponsor ufficiale della kermesse, rafforzando inoltre il rapporto con Venezia con il Premio degli Spettatori – Armani beauty, Orizzonti Extra.
Nata a Madrid, fidanzata con Raul Bova dal 2013 e con un passato da modella, Rocío Muñoz Morales porta una ventata di aria fresca sul red carpet della Laguna di Venezia, dove condurrà le serate di apertura e chiusura in veste di madrina.
Tipico esempio di bellezza ispanica, non è insolito vederla con look decisamente acqua e sapone, preferendo durante le occasioni speciali un make up neutro e minimale.
Solitamente i suoi make up puntano su una base viso impeccabili e focus sugli occhi, che possono essere truccati con ombretti nei toni del marrone e del bronzo, perfetti per rendere ancora più profonde le sue iridi quasi nere.
Anche per quanto riguarda le labbra, la futura Madrina del Festival di Venezia non ama esagerare, optando quasi sempre per un elegantissimo nude look con balsami labbra idratanti, rossetti leggermente rosati e gloss brillanti. E indossando solo raramente il rossetto rosso.
Passione skincare, la routine di bellezza con creme e acqua micellare
In svariate interviste Rocío Muñoz Morales ha dichiarato che non può fare a meno dell’acqua micellare, primo step per la detersione e must have indispensabile per rimuovere le tracce di trucco post riprese televisive.
Dopo la pulizia del viso – semplice ma profonda – applica una crema idratante e nutriente, sia sul viso che sul collo. Punto che viene spesso tralasciato ma che può mostrare precoci segni di invecchiamento.
Tra i suoi prodotti preferiti le creme del brand La Mer, perché idratano a lungo senza rendere la pelle appiccicosa, conferiscono un finish leggermente luminoso e fanno apparire immediatamente l’incarnato più giovane e fresco.
Rocío Muñoz Morales: l’haircare routine per capelli a prova di set
Da sempre appassionata di tagli medi, tra long bob e caschetti scalati, solo recentemente ha fatto crescere i capelli che adesso superano leggermente le spalle.
Declinati in una colorazione castano scuro intenso, la sua chioma è spesso soggetta a cambi di colore e acconciature, a causa di esigenze di copione. Per mantenerli luminosi e sani si affida a prodotti ricostituenti, come shampoo, maschere e fiale protettive.
Non solo, dopo lo “stress da set” non possono mancare delle attenzioni extra, fondamentali per nutrire in profondità i capelli, con gocce e spray da applicare sulla chioma umida e prima dello styling, in modo da essere sigillate al loro interno e garantire un’idratazione estrema e a lunga durata. A prova dei vari cambi look in Laguna. iO Donna
Rocío Muñoz Morales: «La passione è la molla potente che userò a Venezia». CRISTINA LACAVA su Iodonna.it il 30 Luglio 2022.
Da madrina della Mostra del Cinema di Venezia farà leva sul «cuore che batte nella direzione giusta» e che aiuta a compiere scelte importanti. Come ha fatto lei, quando ha deciso di vivere in Italia, nove anni fa, lasciando la sua Spagna. Qui, nel Paese che continua «a scegliere ogni giorno», è diventata una donna completa, una madre e un'attrice più matura. Un equilibrio che tiene, grazie a fondamenta solide.
Alla fine di una giornata di shooting in preparazione della 79a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove sarà la madrina, Rocío Muňoz Morales, 34 anni, è ancora piena di energie, perfettamente truccata, e non si risparmia. Inizia l’intervista in macchina in videochiamata, poi continua seduta sui gradini di casa dove l’aspettano le figlie Luna, sei anni, e Alma, tre.
A un certo punto fa capolino il compagno Raoul Bova, 50, in jeans e berretto, che saluta cordialmente e si infila nel portone. Rocío è entusiasta dell’opportunità di Venezia che, dice, arriva al momento giusto, dal punto di vista professionale. Ha appena finito di girare Una gran voglia di vivere, dal romanzo di Fabio Volo, e sta iniziando a scrivere il secondo libro. Vuole vivere i giorni della Mostra pienamente, senza stress, puntando sull’empatia. Amare è un modo di vivere, sostiene, e permette di affrontare più facilmente ogni difficoltà.
Condurrà le cerimonie di apertura e chiusura della 79a Mostra Internazionale del Cinema, che si svolgerà dal 31 agosto al 10 settembre. Felice?
Felicissima! Tutto è cominciato per caso, quando a fine 2021 sono stata chiamata dal Museo Nazionale del Cinema a Torino per leggere una lettera di Monica Vitti, in occasione del 90° compleanno, pochi mesi prima della sua scomparsa. Dopo qualche tempo mi ha chiamato il direttore Alberto Barbera.
Ha creduto in me, gli sono grata. Sul palco cercherò di trasmettere la mia grande passione per il cinema. Merito di mio padre, che ha sempre vissuto attraverso i film le storie che non poteva vivere direttamente; era il suo modo per sognare e superare la realtà quotidiana. Mi ha insegnato a guardare oltre, ad avere una visione aperta del mondo e a interessarmi delle vite degli altri anche attraverso le emozioni del grande schermo. La passione è una molla potente, è un modo di concepire la vita che la rende ricca, piena, e permette di superare i momenti duri.
Lei ne ha avuti?
Sì, ma ero giovane e vulnerabile. La vita poi mi ha portato ad allontanarmi dalla Spagna: sono venuta in Italia nel 2011 per girare Immaturi – Il viaggio e mi sono trasferita nel 2013. Non che non abbia avuto difficoltà anche in Italia, ma nel frattempo sono cresciuta, ho incontrato le persone giuste e le ho riconosciute. Rinnovo la scelta ogni giorno: questo è il mio posto e il cielo che guardo. Quando, nel 2015, ho presentato Sanremo al fianco di Carlo Conti, la mia performance non è stata perfetta. Ma in quel momento andava bene così, l’inconsapevolezza mi ha premiato. Oggi ho raggiunto una maggiore maturità professionale, ed ecco la proposta di Venezia. Mi sento pronta.
Andrà da sola, o con la famiglia?
Ci sto pensando. Ho sempre cercato di mantenere la mia identità e la mia indipendenza, tenendo separate la sfera personale e lavorativa. Anna Foglietta, madrina nel 2020, mi ha dato un consiglio: nei giorni della kermesse è meglio “avere qualcuno che ti tenga ancorata a terra”. Ci penserò. Sento molto la responsabilità, sarò il volto e la voce, il cuore che batte nella direzione giusta.
Julianne Moore sarà presidente della giuria. Che ne pensa?
La stimo tantissimo, è una donna che ha fatto molto per il cinema e io credo nella forza delle donne e nella loro capacità di collaborare. Lo dico per esperienza personale: ho due sorelle, entrambe hanno figlie femmine, come me. Conosco la complicità, non la competitività tra donne.
Ha appena finito di girare Una gran voglia di vivere, il film tratto dal romanzo di Fabio Volo. A lei cosa dà gran voglia di vivere?
Vedere sorridere le persone che amo. So stare da sola: ho imparato a fare pace con la solitudine in tournée, e ogni tanto ho bisogno di ascoltare il mio respiro. Ma per natura sono una persona sociale. Quando sto con gli altri, con chi amo, mi sento completa. Se sono su un set faccio i salti mortali per stare con le bambine, attraverso l’Italia per cenare a casa, dormo quattro ore e riparto.
Un difficile equilibrio. Come fa?
Bisogna essere onesti con se stessi e con i propri sentimenti. Se questi sentimenti – per gli affetti, per il lavoro – sono limpidi e puri, se costituiscono fondamenta solide, nulla li smuove. La purezza è verità, è un valore antico che non passa mai di moda.
Sa guardarsi dentro con lucidità. L’aiuta qualcuno?
Tutte le settimane vado dalla mia meravigliosa psicologa, e tutti i giorni faccio meditazione. Per un attore è indispensabile conoscersi, ma lo consiglierei a tutti. Proprio perché i sentimenti vanno vissuti fino in fondo, a volte bisogna riuscire a guardarli da fuori. Può essere un lavoro doloroso ma è indispensabile.
Su Instagram – dove ha più di 600mila follower – ha messo di recente immagini molto gioiose con la famiglia, al mare. Dov’eravate?
In Calabria, terra di Raoul. Ci è successa una cosa molto divertente: a noi quattro piace ballare insieme, è una passione che ci unisce. Il sabato sera eravamo in albergo e ci siamo imbucati in un matrimonio, con le ciabatte e il cane, a ballare il Tuca Tuca. Finché ci hanno riconosciuti…
Il cane era Petra? Le ha dedicato un post molto affettuoso.
Sì. Ero andata in un canile a fare volontariato, portando a spasso i nostri amici a quattro zampe, insieme a mia figlia Luna.Tra lei e Petra è stato subito amore a prima vista,e non si sono più lasciate.
Che farà ad agosto, in attesa di Venezia?
Raoul sarà su un set, e io vorrei prendermi del tempo per stare con le bambine in campagna, dove abbiamo l’orto, le galline, gli alberi da frutta. Sto lavorando al mio secondo libro, dopo che il primo, Un posto tutto mio, pubblicato da Sonzogno, ha avuto un successo inaspettato. Anche in questo parlerò del trovare se stessi, ma nella coppia.
E lei pensa di aver trovato se stessa nella coppia?
Sì, assolutamente.
IO Donna
Rocio Munoz Morales e Bova: «Soffrivo se mi davano della raccomandata. La lite con l’automobilista? Ha difeso la sua donna». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.
L’attrice si racconta in occasione dell’uscita di «Tre sorelle» di Vanzina.
A Tre sorelle e una massaggiatrice povera, venuta dal niente, interpretata da Rocío Muñoz Morales, la compagna di Raoul Bova. Nel film, Serena Autieri e Giulia Bevilacqua hanno i matrimoni in frantumi, anche la terza sorella, Chiara Francini, non se la passa bene. Vanno in vacanza al Circeo per ritrovare serenità, con massaggiatrice al seguito. E’ il film di Enrico Vanzina, dal 27 gennaio su Prime Video.
La sua massaggiatrice dice: «Gli uomini più sono figli di puta e più ci casco».
«Arriva a Roma dal Venezuela, parla un po’ in romanesco e un po’ in spagnolo, viene da una situazione umile e in questo mi somiglia. Sono del Sud della Spagna, i miei genitori non ebbero la possibilità di studiare ed erano fissati con me. Da loro ho imparato il sacrificio, il valore delle cose. Ho provato a cavarmela facendo di tutto, davo lezioni di matematica e di danza in posti lontanissimi».
La passione per il ballo?
«A una gara mi vide il coreografo di Bailando con estrellas, edizione spagnola del programma con Milly Carlucci, e mi prese come insegnante. Tre anni fa in Spagna quel programma l’ho condotto. Ma non amo concorsi e pagelle. Viviamo tutti troppo nel giudizio di qualunque cosa».
L’arrivo in Italia?
«Paolo Genovese cercava una ragazza spagnola per Immaturi -Il viaggio. Avevo 23 anni. Ci fu un altro film in Spagna che non mi piaceva, così decisi di trasferirmi a Roma. Non parlavo l’italiano, non conoscevo nessuno, presi una casetta su Internet, iniziai a lavorare nelle case famiglia per le suore, le aiutavo nei pranzi per i poveri e facevo provini. Carlo Conti mi vide a Un passo dal cielo 3 e mi propose di fare la valletta a Sanremo con Emma e Arisa. Chiesi consiglio a Raoul con cui avevo cominciato la storia, mi disse: fai quello che vuoi, io ci penserei, sappi che Sanremo ti lancia o ti distrugge per sempre (ora non vedo l’ora di vedere Massimo Ranieri, mio caro amico). La vissi con leggerezza pensando di fare la sagra di paese, non avevo capito la grandezza della situazione, per me fu una svolta ma in quei giorni facevo il conto alla rovescia alla fine. E poi le critiche preventive…».
Per essere la fidanzata di Raoul Bova?
«Sì, cosa ci fa questa, la solita raccomandata che sta con l’uomo separato, famoso e con i soldi, i 17 anni di differenza (io ne ho 33), cose così. Ho condotto Le Iene mi sono tolta qualche sassolino sui pregiudizi: le donne spagnole calienti? Io, per niente. Pensare che mi sono sempre fatta in quattro per essere indipendente. Ma è passato, la gente ha imparato a conoscermi e mi arriva tanto affetto…Con Raoul condivido l’amore per le cose semplici, ci piace starcene a casa a vedere un film».
Dovevate essere prudenti?
«Rispettosi. C’era la sua separazione di mezzo. Era un personaggio pubblico, aveva già due figli. C’è sempre stato riguardo per loro e per i loro bisogni, mai forzato le cose».
Raoul ha un guaio giudiziario per averla difesa con «veemenza» da un automobilista che nel 2019 la stava investendo in auto.
«La questione è in mano agli avvocati, posso solo dire che Raoul ha provato a difendere la sua donna. Se siamo simili? Abbiamo anche i nostri difetti, lui a volte è egoista e un po’ geloso; io troppo esigente, e tendo a ripetere le stesse cose tante volte».
Vi sposerete?
«Le nostre anime lo sono già, abbiamo stravolto le nostre vite, lui ha creato una famiglia da capo, non è una esigenza ma vedremo, non mi piace programmare le cose».
E’ vero che è attratta da ruoli in cui è brutta?
«Sono alta, magra, cerco ruoli lontani da me. Non voglio essere solo bella. Ora nel thriller horror They Talk ho le occhiaie e le ciocche bianche, e l’8 febbraio debutto a teatro a Roma in Fiori d’acciaio (il film con Julia Roberts) dove porto le ballerine».
A 17 anni era corista per Julio Iglesias.
«Riempiva gli stadi, con lui ho visto il mondo. Era protettivo, paterno, ogni giorno chiamava i miei genitori: vostra figlia sta bene».
Paola Pellai per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.
Una volta Raul Cremona disse: «Quando i giochi non riescono sono un comico, quando le battute non fanno ridere sono un mago». La verità è che i suoi giochi e le sue battute ci accompagnano dal secolo scorso e continuano a guardare al futuro con stupore e creatività. Milanese doc, Raul ha appreso l'arte di conquistare la gente dal papà e dal nonno, imbonitori sulle piazze della città.
In mezzo a tante apparizioni in tv e in attesa di vederlo protagonista al Masters of Magic World Tour nel maggio 2023 a Torino, Cremona sta lavorando al suo prossimo spettacolo teatrale, Il mago de Milan. «Il titolo - ci racconta - è nato per strada. Stavo passeggiando quando una signora dice al suo bimbo: "Tel chì el mago de Milan". Detto, fatto».
Anche lei ha iniziato da bambino con la classica scatola dei giochi magici?
«Certo, me la regalò nel 1967 per Natale nonna Giuditta. Era una scatola tutta nera, con un cilindro e delle carte riprodotte sulla confezione. Prodotta dall'Arco Falc, non aveva un nome ma tre versioni contraddistinte da un numero. Potevi scegliere la scatola 1, la 2 o la 3, come le buste di Mike Bongiorno. Mi sono subito innamorato del suo contenuto e ho iniziato a fare magie ai miei amici».
Da bambino sognava di fare il mago?
«Da piccolo ho diviso le mie passioni tra ping pong, calcio e illusionismo. Ho persino tentato una baby carriera da portiere, giocando in squadre locali, fino agli juniores. Ma ho abbandonato perché non avevo il fisico per fare il calciatore professionista e la concorrenza non mi avrebbe permesso di sfondare. A 17 anni entrai nel Clam, il circolo di arte magica di Milano, di cui sono ancora presidente, e iniziai a frequentare i congressi nazionali, capendo che la mia passione poteva diventare il mio avvenire».
Lei è stato il pioniere del cabaret magico...
«Ho messo a segno una mutazione genetica. Ho dimostrato che un mago può essere anche un attore comico meglio di chi lo fa per professione. Ho portato un nuovo linguaggio e un nuovo atteggiamento. Ho tolto i luccichini all'abito e ho smesso di far parlare i maghi in maniera laccata. Ho eliminato la distanza tra me e il pubblico, ho invaso il suo territorio. Ci sono entrato con spontaneità ed ironia. Non ho fatto altro che usare i vecchi giochi di prestigio, come gli anelli cinesi o i fazzoletti che cambiano colore, con un approccio diverso».
Anche ai maghi possono capitare magie: a lei successe a Fantastico nel 1990...
«Incontrai il mio idolo Jerry Lewis mentre lavoravo nel varietà condotto da Raffaella Carrà. Da piccolo andavo nel cinema di terza visione vicino a casa a divorarmi i film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Totò e Jerry Lewis. Jerry era speciale, mi colpiva per la capacità con cui si muoveva dinoccolato e così bello che Marilyn Monroe lo inserì tra i 10 uomini più sexy al mondo.
Lui spaccava la regola di chi identificava l'attore comico in una sorta di guitto. A lui mi ero ispirato per uno dei miei personaggi, Jerry Manipolini, ad inizio carriera. Ricordo la mia emozione quel giorno. Tra gli ospiti c'era anche Alberto Sordi che mi negò un autografo. Decisi di rifarmi con Jerry, il cui camerino era accanto al mio.
Aspettai che uscisse per sorprenderlo con un gioco di prestigio e lui ne fece un altro a me. Poi Raffaella, a sorpresa, mi fece il grande regalo di presentarmi a lui in diretta: ci avvolgemmo in un abbraccio indimenticabile. Lo sa?».
Mi dica.
«In questo mestiere, al di là della carriera, del successo e dei soldi, quello che più ti resta dentro sono i ricordi. Nel mio cuore c'è un posto speciale per l'adorabile Raffaella, il geniale Jerry, l'affetto di Ric e Gian, l'emozione di Johnny Dorelli quando cantavo le sue canzoni...».
Ha lasciato il segno in trasmissioni storiche come Zelig e Mai dire gol. Perché è così difficile fare buona televisione?
«Perché il Varietà con la V maiuscola è praticamente morto. Oggi ci sono 6 mila canali televisivi ed altrettanti palinsesti da riempire. Non c'è più il tempo né la voglia di creare varietà di qualità, la programmazione è diventata molto più invasiva e con un desiderio necroforo di smontare ogni volta che si può l'artista: smette di essere il mago, l'attore o il cantante per prestarsi al gioco richiesto, dandosi in pasto a scherzi o a reality capaci di resuscitare stelle cadenti. È la tv del prezzolismo, quella che per tenerti a galla ti fa fare un po' di tutto. Alla larga da me».
Quanti "no" ha detto?
«Praticamente a tutti i reality. A 20 anni chiesi al più grande giocoliere al mondo un consiglio e lui mi disse: "Ricordati che quello che fai all'inizio è quello che farai quando sarai grande". Quindi è inutile che mi contattiate con proposte strane, io voglio fare solo il mago. Il mago e basta. Ecco perché mi sono trovato benissimo a Only Fun-Comico Show, sul Nove, condotto da Elettra Lamborghini e i PanPers. Ho fatto esclusivamente il mago divertente, con piena libertà di azione e ideazione».
Lei ha il volto da angioletto ma al cinema le assegnano sempre ruoli da carogna.
«Forse perché non corrispondo al classico cliché del comico sgraziato, grasso e brutto. E così licenzio Checco Zalone in Cado dalle nubi, urlo "Che tu possa vivere tutti gli anni che dimostri" ad Angela Finocchiaro in Ci vuole un gran fisico, picchio Valerio Mastandrea ne La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati e in Area Paradiso di Diego Abatantuono porto a mangiare fino a farli scoppiare un gruppo di anziani...».
A quale dei suoi personaggi è più legato?
«Il mago Oronzo che nel 1997 grazie a Mai dire gol mi ha fatto compiere il grande salto in fatto di popolarità. Un mago dissacrante con la canottiera sporca. Ma la verità è che il grande amore per quello che faccio non mi fa mai accontentare. Io sono la non voglia di fare sempre le stesse cose. Non mi fermo mai. È stato così anche agli inizi. Negli storici locali milanesi facevo ogni genere di mago: quello gay, l'imbranato, il cafone...».
Raul Cremona (66 anni) si avvicina all'illusionismo grazie al "Clam", un circolo d'arte magica di cui oggi è presidente. Dopo una lunga gavetta come prestigiatore e dopo aver vinto vari premi e riconoscimenti, approda al cabaret nella Milano del Derby degli anni '80. La grande fama arriva grazie a "Mai dire gol" e "Zelig".
Sposato, ha due figli: Giordano Cremona, in arte Kremont, dj producer membro del duo Merk & Kremont, e Leonardo, baritono Quale magia le ha cambiato la vita?
«Incontrare mia moglie che mi ha dato 2 figli straordinari: è la più grande magia che un uomo può mettere a segno. I miei figli non lo ammetteranno mai ma entrambi sono stati contagiati dal mio spirito artistico. Giordano, in arte Kremont (del duo Merk&Kremont, ndr) è un produttore di successo: Rovazzi, Benji e Fede, Sangiovanni, ora Mahmood... Invece Leonardo è un baritono con due lauree da 110 e lode, un diploma al conservatorio e un amore viscerale per Giuseppe Verdi».
Della sua vita privata si sa poco. Mai un gossip, uno scandalo.
«Sono sempre stato un po' timido ed introspettivo. Non mi interessa sollevare clamore o pettegolezzi. Le mie magie devono fare notizia, del resto non me ne frega nulla. Il tempo non lo butto via, ho già troppe cose a cui pensare. Per esempio il pianoforte...».
Silvano, il mago di Milano, utilizza la parola magica Sim Sala Min.... Ogni riferimento al sindaco Sala è puramente casuale? (Risata stratosferica, ndr)
«Sì, è casuale. Non ci avevo mai pensato e una volta sono pure salito sul palco con il sindaco. Avrà pensato che lo prendessi in giro. È una variante della più famosa Sim Sala Bim e si rifà al modo di dire tipicamente milanese di dare del salamino al bambino che aveva commesso un errore o una marachella. Silvan mi ha fatto notare che molto prima di me l'espressione l'utilizzava già Jacovitti nei suoi fumetti».
"Il mio viaggio swing nella musica italiana per riscoprire le radici". Antonio Lodetti l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'artista pubblica un album di cover per raccontare il suo suono "senza genere".
È un viaggiatore di suoni partito dal jazz per poi navigare in mille diversi rivoli musicali che spaziano dalla classica al pop. Ha vinto la sezione Giovani al Festival di Sanremo (dove è tornato più volte da big) e ha suonato alla Scala. Raphael Gualazzi è un pianista jazz che non si lascia etichettare e anche questa volta viaggia verso un sound policromo e universale con Il bar del Sole, il suo primo disco di cover arricchito da ospiti come i Funk Off e Margherita Vicario e con la produzione di Vittorio Cosma, già con la Pfm e con storici artisti internazionali, nonché spalla di uno storico concerto di Miles Davis.
Bar del Sole non è un titolo casuale.
«No, è il Caffè del Sole di Urbino dove ho iniziato la mia attività. Era un bar raccolto, intimo, fuori dal tempo, un luogo famigliare. A 17 anni mi chiesero se volevo suonare il piano nel locale e chiaramente le prime volte non c'era nessuno. Io suonavo stride piano, lo stile di New Orleans degli anni Venti, e pian piano qualcosa si mosse. Ogni volta veniva sempre più gente che si assiepava anche fuori all'aperto. Fu il mio battesimo del fuoco».
Un omaggio alle radici quindi.
«Sì, anche perché il locale ora ha cambiato sede. Lì, tra una colazione e un'altra, ho scritto anche qualcuno dei miei primi brani. Era un posto storico frequentato anche dai professori del Conservatorio e da tanta gente e ciascuno, ogni volta che partiva per un viaggio, portava un sole di ceramica da appendere alle pareti. Ce n'erano da tutto il mondo: dal Nicaragua al Sudafrica».
Quindi questo fu il suo battesimo.
«Sì, a parte le piccole rock band che tutti i ragazzi provavano a mettere in piedi, ma io a 14 anni sono entrato in Conservatorio e poi mi ha preso il demone del jazz».
Chi sono i suoi artisti di riferimento?
«Prima di tutto Fats Waller. Poi Erroll Garner, anche se era più un jazzista che un pianista stride. Ma da ragazzo ascoltavo molto anche la musica italiana: Cocciante, Guccini... Quindi mescolando tutte queste influenze è venuta fuori la mia musica, che non vuole essere un genere».
Ossia?
«C'è una apertura totale verso gli altri generi che però non tradisce l'espressività originale delle canzoni».
Per questo si è dedicato alle cover?
«Ho fatto un percorso di indagine della musica. Volevo imparare dalla tradizione attraverso brani che sono patrimonio culturale della canzone italiana».
Per esempio?
«Il mondo di Jimmy Fontana. Una melodia meravigliosa per una canzone senza tempo. La versione originale è strepitosa».
Tutti brani italiani, con una citazione per Vinícius de Moraes e Toquinho.
«Su testo di Sergio Bardotti, qui c'è la splendida voce di Margherita Vicario in Senza paura, un brano che incita a non avere paura nel fare le proprie scelte e a non chiudersi verso le altre persone. È una canzone che ha una filosofia molto sudamericana sul non avere paura».
Come le sono venuti in mente i Giganti e l'era beat?
«L'ho detto, ho mescolato i generi, così dal beat sono passato allo swing di Sergio Caputo che è un jazzman formidabile».
E poi c'è Battiato.
«Un fenomeno. Cerco un centro di gravità permanente è un brano storico. Purtroppo non ho conosciuto Battiato ma la sua musica mi ha molto segnato».
I suoi pianisti italiani preferiti?
«Stefano Bollani, Dado Moroni e Luca Filastro; è poco conosciuto ma suona lo stride come pochi altri e abbiamo fatto anche parecchie cose insieme».
Progetti?
«Poco tempo fa ho suonato con un violinista un'aria di Mendelssohn alla Scala e a ottobre suonerò ancora classica al Conservatorio di Milano».
Red Canzian: «Ho cure per un altro anno e mezzo, mi hanno aperto di nuovo il torace. Patty Pravo? Era molto bella, forse ero bellino anch’io». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.
Il cantante: «A 16 anni partecipai al Festival di Conegliano che era presentato da Baudo. Quel giorno capii che volevo fare il musicista e che dovevo anche cambiare look»
Il primo ricordo da bambino di Red Canzian?
«Mamma che apriva la finestra e cantava “aprite le finestre ai nuovi sogni, bambine belle, innamorate. E forse il più bel sogno che sognate, sarà domani la felicità”. E quando compravamo il libricino dei testi delle canzoni di Sanremo: le arie erano così facili... “Penso che un giorno così non torni mai più... Volare, oh, oh!”, ti rimanevano in testa, cantavamo come due pazzi».
Dunque i suoi genitori non ostacolarono la vocazione da musicista?
«Papà era un minatore rientrato in Italia da Marcinelle prima del disastro e diventato camionista. Aveva la terza elementare, ma era una grande conoscitore di musica lirica, s’infilava nei loggioni a teatro appena poteva. È stato il mio primo fan, caricava lui gli strumenti nella Fiat 1100 quando facevo le prime serate».
Lei si diplomò geometra, s’iscrisse a Psicologia, quando ha sentito che poteva vivere solo di musica?
«A 16 anni, al Festival Stroppolo d’oro di Conegliano Veneto. Presentava Pippo Baudo. Vinsi. Quella sera, ho capito due cose: la prima, che dal palco mi dovevano tirare giù con le cannonate; la seconda, che dovevo cambiare look, sembravo il figlio segreto di Vittorio Sgarbi, tutto occhiali, un brutto anatroccolo».
Cinque anni dopo, nel 1973, pantaloni a zampa e capelloni, si univa ai Pooh orfani di Riccardo Fogli. Inizia una storia lunga 43 anni, fatta di 80 milioni di dischi venduti. Ricordi memorabili?
«Slegati dalle cose eclatanti. Ricordo di quando a Sofia c’era il comunismo, i supermercati erano vuoti, se bucavi una gomma dovevi comprarla al mercato nero, le spie controllavano cosa ci dicevamo in camera e un ragazzo che mi accompagnò in farmacia fu arrestato perché era vietato parlare con gli stranieri. Lì, un pomeriggio, sotto la neve, in due ore, vendemmo tutti i 24 mila biglietti del concerto. Ricordo di quando vedemmo una casetta nei Balcani che sembrava un quadro naif di Ivan Generalic, ci panificavano e c’era la fila di donne. Scendemmo a prendere il pane, coi capelli lunghi, i vestiti strani: ci guardavano come se fossimo Ufo. Ho ricordi splendidi di Montserrat alle Antille, dove stemmo a casa di George Martin, il produttore dei Beatles, e facemmo amicizia con Sting e la moglie».
Come fu vincere Sanremo 1990?
«Uomini Soli era un pezzo che aveva il Dna da evergreen: dio delle città e dell’immensità, se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi… Cantammo con Dee Dee Bridgewater: una meraviglia. L’ultimo giorno — si votava col Totip — alle tre, avevamo vinto; alle cinque, avevano vinto Mietta e Amedeo Minghi col Trottolino amoroso; alle sei, Toto Cutugno... Non si capiva niente. In hotel, quando ci dissero che avevamo vinto noi, il nostro arrangiatore Emanuele Russinengo fece un salto sul letto e lo sfondò».
Vi siete sciolti nel 2016 con l’addio di Stefano D’Orazio, che due anni fa è morto di Covid. Senza di lui, i Pooh non si riuniranno più?
«Le cose belle devono avere un inizio e una fine. Ma con Dodi e Roby faremo un evento per il decennale della morte del nostro paroliere Valerio Negrini, e resta un’amicizia di quelle che non hai bisogno di appuntamenti per vederti».
Fino a ieri, al Lirico di Milano, è andato in scena il musical «Casanova Operapop», che ha scritto e prodotto. Perché Casanova?
«Iniziai 12 anni fa e mi arenai alla terza canzone perché la trama era ripetitiva: Casanova era raccontato solo come un libertino impenitente, ma io ero convinto che uno non può diventare così famoso solo perché ama le donne. Poi, nel 2018, il libro La sonata dei cuori infranti di Matteo Strukul mi aprì uno squarcio totale: trovai un Casanova filosofo, cabalista, poeta, agente segreto, desiderato in tutte le corti d’Europa. Figlio di un’attricetta, s’intrufolava di nascosto al Teatro Malibran, soffriva di non essere parte dell’aristocrazia. Venezia era in quegli anni la città di Canaletto, Tiepolo, Goldoni e di ebanisti eccezionali. Così, lui partì portando in giro la bellezza italiana. Ho scoperto, e quindi raccontato con Strukul, di fughe, duelli, di un intrigo ordito dall’impero austriaco ai danni di Venezia per annetterla, di Casanova che tenta di sventarlo rapendo una contessa, e che s’innamora di una ragazza di 19 anni e, per amore, cambia».
Lei crebbe in uno splendido palazzo nobiliare veneto. La accomunano a Casanova le origini umili ma a contatto con il bello?
«Villa Borghesan era stata donata al Comune di Quinto di Treviso e messa a disposizione delle famiglie povere. Vivevamo in quattro in una camera e cucina, ma sono cresciuto guardando affreschi meravigliosi con cavalli bianchi e San Giorgio che uccide il drago, e calpestando pavimenti in terrazzo veneziano, circondato da un parco dove ho imparato a riconoscere il tarassaco e il cedro del Libano. Certo, quando penso all’infanzia, vedo le sculture di Canova, non una brutta periferia urbana. Vedo i cancelli con le pigne scolpite nel marmo, i giardini sul fiume Sile, dove poi ho comprato una casa antica... Quella bellezza l’ho sempre cercata e, ora, l’ho messa nel musical. Ho passato la pandemia a filmare Venezia deserta: le immagini, che io stesso ho ripulito da antenne, barche di plastica e fili della luce, sono diventate la cornice immersiva dello spettacolo. Sono stato fra i primi a usare Photoshop, già per copertine e video dei Pooh».
Da ragazzo, molti la consideravano «il bello dei Pooh» e aveva fama di Casanova anche lei.
«Potrei dire che ho scritto un musical sul mio predecessore e mettermi a ridere, ma sono cose che racconti a vent’anni, non a 71. Però, mi sono sempre riconosciuto nel rispetto per le donne di Casanova. Infatti, ho sempre conservato bei rapporti con le mie ex, che le abbia amate per un anno o per un’ora».
Elenco non esaustivo: Marcella Bella, Patty Pravo, Loredana Bertè, Mia Martini, Serena Grandi.
«Non vorrà che parli di loro?».
Solo il necessario.
«Sono stati passaggi di vita ed eravamo ragazzi: avrò avuto l’ultima avventura a 25 anni. E non erano storie droga e rock ‘n roll: sono stato sempre un romanticone».
Converrà che suona diabolico stare con Patty Pravo dopo che Riccardo Fogli se n’era andato dai Pooh per Patty Pravo.
«Fu un caso, lei era molto bella, forse ero bellino anch’io. Ma fu solo il bellissimo e breve incontro di due giovani. Siamo rimasti amici, la chiamo Santa Nicoletta da Venezia, perché portando via Riccardo, mi aprì la via verso i Pooh» .
E come conquistò le sorelle Bertè e Martini?
«…Si frequentavano. Ma furono storie diverse, una più fisica, l’altra più intellettuale».
Negli Anni ’90, nascono le cosiddette «canzoni di Canzian», tutti successi ispirati dalla sua seconda moglie Beatrice Niederwieser: «Stare senza di te», «Tu dove sei», «Cercando di te», «Io ti aspetterò»... Che amore è il vostro?
«Dal primo momento in cui l’ho vista, mi sono sentito come investito da un camion. Ma lei era incinta e sposata, io ero sposato. Per dieci anni, ci siamo frequentati in coppia, coi rispettivi consorti. Per me, sono stati anni di attesa. Io ti aspetterò parla di quella fase, dice: sarai, vedrai, sarai la mia donna prima o poi».
E quando lo diventò?
«Finalmente, il 19 ottobre 1992 arrivò a casa da me, a Treviso, con suo figlio Philipp. Anche lei aveva capito che era impossibile non stare insieme. Lì è nata Stare senza di te. Stefano D’Orazio scrisse in modo esatto quello che succede quando ti separi: gli amici che si dividono, l’impossibilità da parte tua di fare una scelta diversa… La cosa meravigliosa è che il papà di Philipp è rimasto il mio più caro amico e che ho ottimi rapporti con Delia, la mia prima moglie. E Philipp e mia figlia Chiara si considerano fratelli da sempre. Ora, tutta la famiglia è coinvolta nel musical».
Sua moglie è coproduttore e i ragazzi?
«Bea è incredibile, è multitasking, segue tutto, cura l’amministrazione, l’organizzazione… Senza di lei, Casanova non esisterebbe. Philipp, che è un batterista e musicista pazzesco e ha studiato e lavorato coi più grandi, ha fatto tutti gli arrangiamenti. Chiara ha cantato i provini per insegnare agli attori le parti. Gli inglesi che pianificano Casanova in Corea, Giappone, Cina e Taiwan, l’hanno voluta come aiuto regista. È in grado pure di sostituire quattro attrici».
Lei come sta dopo il ricovero di gennaio? Al Corriere, aveva detto di aver temuto di morire.
«Molto bene. In estate, ho fatto 35 concerti, ma ho cure per un altro anno e mezzo. Nel 2015, mi era scoppiata l’aorta; nel 2018, ho avuto un tumore al polmone: quelle erano vere malattie, stavolta è stata sfiga… Mi è entrata una scheggia di legno in una mano e ho preso un’infezione da stafilococco aureo. Sono caduto per terra il giorno che iniziavano le prove di Casanova, non riuscivo a stare in piedi, ci ho messo un’ora per arrivare al divano e chiamare i soccorsi. Intanto, avevo febbre e visioni psichedeliche come se fossi drogato. Mi hanno aperto di nuovo il torace, stavo andando in setticemia. Sono finito in rianimazione e, rispetto alle altre operazioni da cui mi ero svegliato lucido, stavo malissimo, vedevo fiori rossi scendere da pareti bianche. Vedevo il parlottare preoccupato dei medici e mi dicevo: rimango così per tutta la vita».
Come si è infilato la scheggia nella mano?
«Costruivo una cornice per il musical nella falegnameria di casa. Sono patito di bricolage. Ovviamente, non ho fatto tutto io. Alla base del musical, c’è un enorme ricerca storica: le scarpe del ‘700 sono state fatte dai ragazzi del Politecnico calzaturiero del Brenta dopo un lungo studio; i costumi da Stefano Nicolao, che ha lavorato per tanti film da Oscar. Questo spettacolo, con protagonista Gian Marco Schiaretti, è un kolossal: 30 cambi di scena, 120 costumi... Crearlo è stato come fare un viaggio bellissimo, ci ho lavorato 16 anche 18 ore al giorno».
La paura di morire l’ha cambiata?
«Sono solo ancora più concentrato ad apprezzare il bello piuttosto che dissipare il tempo».
La grave infezione cardiaca. Red Canzian, la malattia e il ricovero del bassista dei Pooh: “Per la prima volta da un mese respiro l’aria pulita”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Red Canzian si è concesso una passeggiata per la prima volta a un mese dal ricovero in Ospedale. L’ha raccontato lo stesso bassista dei Pooh in un video postato sulla sua pagina Facebook. “Ciao a tutti è passato esattamente un mese dal giorno del mio ricovero e oggi per la prima volta sono uscito per respirare l’aria vera, quella buona e pura che mi mancava tanto”, ha detto l’artista.
Il video è stato girato nel giardino dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso dove Canzian dovrà restare ancora tre o quattro mesi. Il bassista è visibilmente affaticato dalla lunga degenza e dall’operazione al cuore: è stato ricoverato per una grave infezione cardiaca. “La cura antibiotica è ancora lunga e dovrò restare qui ancora per tre o quattro settimane. Quello che ho avuto è stato molto brutto, per cui ci sentiremo solo ogni tanto. Faccio fatica a fare dei video o mettere dei post sui social. Ma sappiate che a oggi sto bene, respiro, sono venuto qua con le mie gambe e tornerò in camera con le mie gambe. Vi abbraccio tutti, mi mancate”.
Al Corriere della Sera Canzian aveva raccontato in un’intervista di aver avuto tanta paura, di essersi accorto subito che si trattava di qualcosa di grave. “Mi dicono che dovrò stare qui ancora almeno quattro settimane per una cura antibiotica e fisioterapia. Il chirurgo ha fatto pulizia sul cuore e dintorni e sembra che me la caverò. La cosa è esplosa senza alcuna avvisaglia. Una mattina non riuscivo ad alzarmi da letto. Ho provato a camminare e sono caduto. Una cosa orribile“.
L’infezione che ha colpito il bassista a inizio gennaio l’aveva portato a un ricovero urgente. Ha rischiato la setticemia. La situazione adesso sembra stabile ma lo spavento è stato grande anche per i problemi di cui aveva sofferto in passato Canzian: una dissezione all’aorta e un tumore dal quale è guarito.
I Pooh hanno affrontato mesi di grande dolore: prima per la morte dello storico batterista Stefano D’Orazio e poi per la morte di Paola Toeschi, moglie del chitarrista Dodi Battaglia. “Il dolore per alla perdita di Stefano non passa – aveva raccontato Canzian nella stessa intervista – Anche quando litigavamo c’era sempre una forma di rispetto. Mi manca il suo sorriso. Lui era in grado di cambiare in meglio una giornata”.
Il bassista è legato sentimentalmente alla moglie Beatricee Niederwiser, dalla quale ha avuto un figlio. La primogenita Chiara invece era nata dal matrimonio con la prima moglie Delia Gualtiero.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Red Canzian e la malattia: «Nessuna avvisaglia, ma una mattina non riuscivo ad alzarmi dal letto. Ho avuto paura di morire». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2022.
Il bassista dei Pooh racconta la sua malattia e spiega come sta: l’intervista dall’ospedale dopo il malore di qualche giorno fa
La voce di Red Canzian è flebile ma ferma. È all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, operato per un’infezione cardiaca qualche settimana fa dal professor Giuseppe Minniti. È notte. Red Canzian è ancora sveglio. Aspetta la telefonata dell’amico e sodale Roby Facchinetti che è andato a Bergamo a vedere l’opera pop su Casanova scritta ideata e prodotta dal’ex cantante e bassista di Pooh con la moglie Beatrice Niederwieser. Già, i Pooh. Il loro anno orribile è cominciato con l’improvvisa morte del batterista Stefano D’orazio mancato l’anno scorso. A settembre è morta per un tumore al cervello Paola Toeschi, moglie del chitarrista Dodi Battaglia. Aveva 51 anni.
«Mi dicono che dovrò stare qui ancora almeno quattro settimane per una cura antibiotica e fisioterapia. Il chirurgo ha fatto pulizia sul cuore e dintorni e sembra che me la caverò. La cosa è esplosa senza alcuna avvisaglia. Una mattina non riuscivo ad alzarmi da letto. Ho provato a camminare e sono caduto. Una cosa orribile».
A cosa sta pensando in questi giorni?
«Mi sono chiesto: ma che altro può succedere? E la vita vissuta mi passa davanti. Penso a mio padre Giovanni che dall’aldilà mi sta dando una grossa mano costringendo tutto il paradiso a pregare per me. Fu lui a comperarmi a rate per 5 mila lire la prima chitarra quando avevo 13 anni».
E si è subito trovato bene con quello strumento?
«Sì. A quell’età volevamo imitare Harrison o Lennon. Al mio arrivo per rimpiazzare Riccardo Fogli, Facchinetti, Battaglia e D’Orazio giravano con quattro fari, due seicento multipla ai lati del palco. Io gli feci spendere 27 milioni di lire del 1963 per un impianto luci come si deve. Guadagnavamo 600 mila lire a spettacolo da dividere in quattro. Mi presero per matto. Ma poi capirono e mi ringraziarono».
Nonostante fosse l’ultimo arrivato lei era un po’ il front man della band?
«Sono cose che si decidono sul campo quando si capiscono le attitudini. Io comperai gli studi del Castello di Carimate prima e gli studi Sugar poi».
Lei ha avuto una vita sentimentale intensa.
«Due matrimoni, il primo con la cantante Delia Gualtiero che mi ha dato una figlia meravigliosa, Chiara, e il secondo con Beatrice, che è il mio punto di riferimento, facciamo e condividiamo tutto, compresa la produzione di Casanova. Bea inoltre, ha portato “in dote“ un ragazzo splendido e un musicista sensibile, Phil».
Però è stato molto corteggiato.
«Io non sono il tipo da una botta e via. Ho avuto delle storie anche brevi ma belle. Con tutte le ex c’è stato affetto e poi amicizia. Siamo in ottimi rapporti. Anche per questo ho voluto inventare un musical per riscattare la figura di Casanova».
Cosa le dà conforto in questi tempi difficili?
«La solidarietà e le telefonate dei colleghi, le premure di chi mi cura. L’essere vivo e lucido. Ma il dolore per alla perdita di Stefano non passa. Anche quando litigavamo c’era sempre una forma di rispetto. Mi manca il suo sorriso. Lui era in grado di cambiare in meglio una giornata».
Il momento più bello della storia dei Pooh?
«Quando abbiamo vinto nel ‘90 il Festival di Sanremo. No, anzi: quando nel giro di due anni passammo dalle balere agli stadi».
Come è cambiato il mondo della musica leggera?
«Non si studia più la musica».
Ha avuto paura?
«Tanta. Ho capito subito che avevo un problema grave. Ho capito che potevo anche morire. E adesso faccio già piani per il futuro. Come andare in teatro a vedere il mio Casanova. Costosissimo. Per fortuna sono interventi amici e sponsor. Renzo Rosso ci ha regalato chilometri di stoffa per i costumi. Gli industriali delle cucine e la Federlegno ci hanno regalato il legno per il palco e le scene. Al Politecnico calzaturiero del Brenta gli alunni hanno disegnato e costruito le scarpe dell’epoca».
Seguirà Sanremo?
«Assolutamente si. Questo festival sarà una festa. Amadeus è uno in gamba che la musica l’ascolta».
Prega?
«Si. Tanti mantra a cominciare dal rosario... Siamo troppo perfetti per esser solo carne».
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 2 gennaio 2021. “Mi sono preso un virus creato in laboratorio. Questo me l’hanno detto i miei amici medici, quelli giusti”. Non lo nomina mai, anche se i sintomi sembrano proprio quelli del Covid.
Li ha elencati lo stesso Red Ronnie in un vocale diffuso sul suo canale Telegram per tranquillizzare i fan: “Tra tutti i casini che ho avuto, tra abbassamento di difese immunitarie ecc ecc, mi son preso un virus creato in laboratorio. Questo me l’hanno detto i miei amici medici, quelli giusti.
Sono seguitissimo e quindi piano piano mi riprendo. Non ho voglia di fare nulla. Quando riesco ad andare al computer e lavorare un po’, dopo devo andare di nuovo sul letto a fare una pennichellina. Non ho appetito, mangio praticamente solo spremute di arancio e cose del genere. Mi curo con l’omeopatia. Ed è stata parecchio tosta”.
Dall’inizio della pandemia, il giornalista musicale è uno dei personaggi del mondo dello spettacolo che più si è esposto criticamente verso l’interpretazione della scienza sulla pericolosità del Coronavirus e alle misure per contenerne la diffusione: da quando amplificò un video di Cristiano Aresu in Giappone che magnificava le proprietà miracolose di Avigan (un farmaco approvato per il trattamento di nuovi ceppi di influenza, ma non per quello del Covid-19) a quando si rifiutò di mostrare il Green Pass per entrare al Museo di Messina (definito “'Skif-Pass”) fino alle tante perplessità sollevate sui vaccini nelle dirette sui canali social (“Il coronavirus? Un esperimento mediatico per distruggere l’Italia”) e al sostegno a vari gruppi no vax velati o conclamati, tanto che persino l’amico storico Vasco Rossi fu costretto a dissociarsi dalle sue dichiarazioni pubbliche: “Innanzitutto, voglio dire che mi dissocio da tutte le cose che Red Ronnie dice in giro, nelle televisioni varie.
Io mi dissocio completamente, non sono d'accordo su niente”.
Da qualche giorno, il giornalista aveva disdetto ogni impegno relativo alle trasmissioni condotte online e fatto sapere che non si sentiva bene. Quando poi è tornato in video è apparso molto sofferente. Nel messaggio di fine anno che ha pubblicato, nonostante tutto, è tornato ad avanzare dubbi sulle politiche sanitarie: “Quando è iniziato il 2021 eravamo pieni di voglia di riprenderci la vita, non ce l’hanno permesso.
Ciò che è accaduto è ben oltre tutte le nostre più brutte aspettative. Ogni oltre ragionevole pensiero. Siamo ancora qui, acciaccati, destabilizzati, smarriti, questo anno finisce in maniera strana.
Ci hanno addirittura tolto il Natale, l’ultimo dell’anno, hanno cancellato i concerti in piazza, tutto. Le persone debbono vivere nella paura – ha continuato, alludendo a una sorta di complotto -, abbassando le proprie difese immunitarie. E siccome la musica, l’amore, l’abbraccio, l’incontrarsi e sorridersi fanno alzare le difese immunitarie li hanno eliminati. Dobbiamo essere preda dello sconforto”.
Anche in questo caso, nessun accenno al Covid. Ma a chi gli ha chiesto “come ti sei curato Red” lui ha risposto: “Ho ancora i postumi di un virus. Non è un mistero, non mi avete visto per dieci giorni”. E poi ha aggiunto di essere tartassato da chiamate, mail e messaggi di persone in cerca di un medico “di quelli giusti” perché “non si fidano di andare in ospedale e fanno bene”. Una sfiducia nella scienza ribadita anche in seguito: “Ormai per capire se un medico è bravo bisogna vedere tra quelli sospesi.
Se è stato radiato ancora di più”. Un’altra persona è tornata a preoccuparsi per lui, chiedendogli quali medicine abbia utilizzato, ma il giornalista ha precisato: “Mi sono curato con l’omeopatia, la vitamina C e tutti i prodotti naturali”.
A un certo punto, in un altro messaggio, un utente avanza un’ipotesi ardita: “Quando hai fatto l’incidente ho pensato a un tentato omicidio” (riferendosi a un incidente in auto sulla A24) e lui ha rincarato la dose: “Hai pensato bene… non è il caso, ma hai pensato bene”.
Infine, ha lanciato un monito per uscire da quello che considera tutto un inganno dell’informazione mainstream: “Dovete spegnere la televisione, non leggere i giornali, non ascoltare la radio. Mantenete le comunicazioni dirette tra voi con Whatsapp, Telegram e Signal”.
Gian Paolo Serino per Dagospia il 3 gennaio 2021. Red Ronnie il complottista Covid, quello che durante una diretta fa intuire che il proprio recente incidente stradale è “anomalo” visto da quando è iniziata la pandemia la combatte come “un virus mediatico”. Red Ronnie fermamente “no vax” non dimentica, però, di cancellare – più che il virus- la propria storia personale quando incitava a picchiare fascisti e poliziotti.
Dall’inveire contro i fascisti e a gridare in diretta radio contro “la polizia che ha rotto le palle” a opinionista televisivo “Red Ronnie”, nome d’arte di Gabriele Ansaloni, rinnega il proprio passato tanto che nel suo sito ?redronnie.it ha rimosso qualsiasi riferimento alla sua militanza su “Radio Alice” che nel 1977 lanciò moltissimi artisti ma che era anche in prima linea nelle sommosse che contribuirono a diversi morti “caduti” negli anni di piombo.
Il 12 Marzo 1977 i manifestanti - perlopiù del Movimento Studentesco - si scontrarono con le forze dell'ordine, a seguito dell'uccisione dello studente Francesco Lorusso.
A condurre la trasmissione in presa diretta dal balcone della casa del disegnatore Bonvi è Red Ronnie che commenta “Non rispondete alle provocazioni dei soliti fascisti stronzi. La cosa interessantissima è che la gente sta cambiando opinione. Mentre ieri il popolo diceva basta con questi estremisti che sfasciano le vetrine, oggi dice basta con questa polizia che rompe le palle" (come si può leggere, tra gli altri, anche nel saggio “Autori molti compagni, bologna marzo 1977 ...fatti nostri...” edito da Giorgio Bertani Editore, da pagina 73 a pagina 75).
Secondo Red Ronnie “la polizia rompe le palle”. Dopo trasmissioni come “Roxy Bar” su Videomusic - dove comunque aveva il coraggio di ospitare in prima serata musicisti classici, rock band emergenti e vietare le pubblicità di alcolici- è passato fare di tutto pur di avere visibilità.
Lo vediamo sulle televisioni private passare da una arena all’altra alzando sempre il dito, neanche medio come farebbe un rocker ma il dirimi come un compagno delle scuole elementari che non ti vuol far copiare i compiti.
Red Ronnie è passato da un modo di fare televisione rivoluzionario - con apprezzato situazionismo nel riprendere gli artisti con una telecamera come fosse un colloquio privato- a essere triturato dalla tele-visione.
Come ha triturato i suoi “amici” rockstar: più che rispettarlo lo temono perché Red Ronnie ha decine e decine di ore di registrazioni senza “filtri” che riempierebbero la vita di guai anche alla rockstar più seguita di Italia...Ronnie è consapevole del suo “potere” di compagno di merende che filma mentre uno è ubriaco e magari esagera con idee che sotto alcool test non direbbe mai.
Red Ronnie, che ha cercato di diventare il Carlo Massarini del popolo sognando “Mr Fantasy” senza fantasia, non riesce a sfondare le porte della percezione nel mondo digitale dove si e confinato. Le sue dirette Facebook e Twitter - dove parla mediamente per un’ora- hanno poche migliaia di visualizzazioni.
Sarà ancora colpa del manganello fascista o della “Polizia che ha rotto le palle”?
Chiediamo alle stesse associazioni e ai sindacati di polizia, che ogni giorno rischiano la vita per difenderci, di intervenire.
Perché quelle parole, anche se Red Ronnie le ha tolte, compresa ogni collaborazione con “Radio Alice rimangono sempre scolpite contro “La polizia che ha rotto che ha rotto le palle”. Le può cancellare dal suo sito e da internet ma non dai libri e dalle pagine più brutte della radio-televisione italiana.
Barbara Costa per Dagospia il 18 Dicembre 2022.
“Con te, mi tocco e vengo 8 volte di seguito, te lo giuro!”: quale complimento migliore per una spogliarellista? E pole dancer, ma ha iniziato da ballerina esotica, e oggi fa pure porno, e lo sai che “la gente ti giudica in modo diverso dopo che hai preso un caz*o davanti a una telecamera”?!? E sì che lei nei video ne prende, di peni, ma pure di f*ghe, e ci dà da sé con fortunatissimi dildo. Lei è Reya Sunshine, pole dancer in ogni poro della sua pelle sudata e ricoperta, sera dopo sera, dai suoi spettatori, di dollari!
Parliamo di Reya perché la vedremo su un palco, diverso, per lei inedito, la notte del 7 gennaio, alla cerimonia degli Oscar del Porno 2023: lei li presenterà, lei li consegnerà, in tandem con una pornostar (gli Oscar sono finanziati da "MyFreeCams", sito di hot camming che dispone una sua vedette come co-presentatrice), e pornostar che quest’anno è la lato B diva – e laureanda in legge! – Abella Danger.
E se della Danger più d’una volta vi ho parlato, stavolta occhi e sessi dritti su Reya, 32enne di Los Angeles, una laurea in Psicologia, e a casa col papà fino a poco tempo fa. È stato il padre il primo a puntare su curve e doti di Reya, tanto da installarle… un palo da dance in camera da letto! Reya ha scoperto il palo tardi, a 26 anni.
La pole dance non è soltanto tra i suoi lavori il principale (c’è il porno, c’è pure la cam), ma è una scelta di vita, e uno stile di libertà. Ehi, ma… tra le ballerine, si fa sesso? “Sì, perché no? Si fa tra chi si piace e vuole, nelle stanze sul retro!”. E lezioni di vita dall’essere pole dancer? “Mai giudicare dai risultati a breve termine, e… rimbocca bene il filo del tuo tampax!”.
Reya centra la verità quando afferma che ogni cosa che in 6 anni ha fatto e guadagnato, “è frutto del mio c*lo!”. E si riferisce alle sue risonanti natiche ma di più al fatto che è ascesa da sé. Reya ha puntato su di sé e subito al massimo, mai mettendo in dubbio questa ingiusta ma manifesta realtà: le donne che lavorano nel sesso – siano prostitute, o attrici porno, lap dancer… – prendono a pugni le resistenze morali e moralistiche della società. Non si torna più indietro. Sia che il tuo desiderio sia fare la lap dancer, sia che tu voglia scatenarti nel porno.
È in ogni caso una tua scelta, sicché mai lagnarsi dello stigma che si riceve: “Ti penti di non avere fatto, non di averci provato, e magari riuscito!”: così la pensa Reya, che nella lap dance ha trovato la sua realizzazione, e il porno è stato il passo successivo, e ponderato. Ponderato fin troppo, e non per quanto riguarda il sesso lesbico e le scene da solista assai gradite dai fan (che su IG sono 3,1 milioni), bensì nell’alternare ad essi la presenza di un pene vero.
Reya non ha ancora fatto doppie e più penetrazioni, riscontra già impegnativo gestirsi con un uomo, e sono stati i suoi partner di scena a ben istruirla su quadri e pose da performare. I suoi porno sommano ottime views, e più scene sono a rilascio (2 fisse al mese sul suo OnlyFans, e solo quel che concerne il porno home-made. I porno girati sui set sono al momento 15).
Reya è lanciatissima e presa in una rivincita della donna nel sesso, col sesso, in una sfida per lei non abbastanza in progressione. In troppi ostentano aperture mentali di cui Reya strappa i veli ipocriti. Perché una pol dancer, e di più, una attrice porno, sacrifica l’altrui vergogna. Configura fantasie per cui tantissimi morirebbero piuttosto che palesarle. Per queste persone una pol dancer, e più, una attrice porno, è un capo espiatorio per il loro senso di colpa e le loro repressioni: “In molti ci vedono esseri disgustosi e senza valore, e tra questi, in tanti sono bei fruitori di pornografia. Siamo il sacco da boxe per problemi sessuali profondi!”.
Reya n’è consapevole, e lo riproduce mirabilmente e con convinzione. Volteggiando al palo. Sc*pando decisa, e apertamente. Tra chi la vede c’è chi l’ama, la vitupera, la vorrebbe, la schernisce, e alcuni non vorrebbero lei: vorrebbero "essere" lei. Reya cattura con l’audacia dei suoi spettacoli. Nella ribellione implicita in ciò che fa. In ogni suo gesto, studiato, ogni movenza, studiata. In un legante intrico di tempi e schemi.
Reya Sunshine è padrona di fermenti e orgasmi di chi, sotto al palco, o attraverso uno schermo, se la mangia con gli occhi (e poi, nello scudo di casa sua, non sta con le mani in mano…!). Alla fine, è solamente un gioco. Sì, è un gioco, intollerabilmente seduttivo… e le regole le stabilisce Reya. Le redini, le tiene Reya. È lei che ti sferza. Reya è pronta. Ogni volta. È lì per te. Reya si dimena, e per te che la guardi. Chi è il vero oggetto sessuale tra i due?
· Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Cochi Ponzoni: «Quando con Renato Pozzetto ci inventammo l'Ufficio Facce alla pasticceria Gattullo». Paolo Robaudi su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.
Che fine ha fatto Cochi della mitica coppia «Cochi e Renato»? «Qualcuno credeva che fossi morto, in realtà per vent'anni ho fatto teatro. La nostra comicità nata dalla strada»
Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, o meglio, «Cochi e Renato»: una coppia milanese che negli anni Settanta ha rivoluzionato il modo di intendere la comicità. Con Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Walter Valdi e pochi altri hanno dato voce allo spirito della Milano di quegli anni, in bilico fra passato e modernità, l’ultimo istante del grande artigianato che diventava fabbrica, i modi di dire in dialetto dietro i quali si celava un mondo. Come «te set un rusanivul», «sei uno spinginuvole»: quindi «un perditempo», ma al tempo stesso «un sognatore», in senso dispregiativo, perché a Milano «se fan semper andà i man», vietato starsene con le mani in mano. La loro era una comicità prima di tutto intelligente, come le loro canzoni, spiritose e leggere ma sempre con un risvolto profondo e un filo di malinconia.
Cochi e Renato studenti all'Istituto Cattaneo, uno ragioniere, l’altro geometra: com’è andata?
Feci ragioneria per motivi pratici: mio padre non stava bene e mia madre, per questioni pratiche, mi indirizzò verso ragioneria, anche se io non ero assolutamente portato, semmai avrei dovuto fare il classico. Al diploma contrabbandai la traduzione di tedesco, la mia lingua preferita, con il compito di ragioneria, materia per me ignota. Dato che con le lingue mi arrangiavo finii a lavorare a Linate, al check-in, per un paio d’anni, finché il passatempo di recitare divenne un vero lavoro di attore, nel 1964, al Cab 64.
Com’è nata la coppia Cochi e Renato?
I nostri punti di riferimento erano le osterie. Allora a Milano erano gli unici locali: osterie e trani, le frequentavamo già da quando eravamo ragazzini, ancora studenti al Cattaneo. C’era “L’Osteria dell’Oca d’Oro” in via Lentasio, dove Piero Manzoni esponeva i suoi quadri, e poi il mitico “Bar Jamaica” di Brera, frequentato da artisti e scrittori come Lucio Fontana, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi. Un altro bel locale era “Pino la Parete”. E poi la storica pasticceria “Gattullo”, dove con Renato Pozzetto, Enzo Jannacci, Beppe Viola Toffolo e diversi altri ci inventammo il famoso “Ufficio facce”. Funzionava così: piantavamo gli occhi addosso a ogni nuovo avventore del locale e tra noi giocavamo a indovinare chi fosse, cosa facesse, quale squadra tifasse. Molte delle nostre scenette sono nate così, tra quei tavoli. Andavamo alla ricerca dei personaggi strani, gente stralunata, ce n’erano parecchi una volta, gente da bar.
Come avete iniziato a lavorare nei locali?
Tutto è nato dalla casualità e dagli incontri che si facevano in questi locali. Di fianco all’“Oca d’Oro” c’era una galleria d’arte, “La Muffola”, che prendeva il nome dal forno per la ceramica. Era di Tinin e Velia Mantegazza. Noi magari andavamo a cantare in osteria per divertirci e loro si univano, c’erano anche Maria Monti e Dario Fo, noi all’epoca non sapevamo neanche chi fossero, eravamo dei ragazzini. Ad un certo punto il Mantegazza ci chiese di cantare quando c’erano i vernissage, per intrattenere i visitatori. Cantavamo canzoni popolari, canzoni di protesta e canzoni anarchiche. Erano anni magnifici, Milano ribolliva di spazi culturali. A un certo punto Tinin e Velia decisero di prendere il sottoscala di un bar in via Santa Sofia e farci il “Cab 64”: ci siamo messi insieme e da lì è nata tutta la nostra storia.
Insieme con chi?
All’epoca si usava fare le cooperative, oltre a me e Renato c’erano Velia e Tinin Mantegazza, Lino Toffolo, Bruno Lauzi, Felice Andreasi. Spesso venivano Jannacci e Gaber, con la sua fidanzata dell’epoca Ombretta Colli. Lei cantava a io la accompagnavo la chitarra, fu Gaber a insegnarmi a suonare meglio. Jannacci si innamorò di noi, mentre noi di lui eravamo già innamorati. Così nacque la nostra splendida amicizia, eravamo come fratelli. Nel 1965 Jannacci portò anche noi al “Derby”, dove nacque il “Gruppo Motore”. Eravamo sempre noi: io e Renato, Andreasi, Toffolo, Lauzi e Jannacci, il nostro era un lavoro di squadra. Li iniziammo a essere conosciuti, prima a livello cittadino per poi arrivare in televisione. E lì arrivò il successo, soprattutto tra i giovani. Successo grandissimo e per noi completamente inaspettato.
Come nasce la vostra comicità surreale e leggera?
Era il nostro modo congenito di scherzare, la nostra maniera di affrontare la realtà per farla diventare divertente. Eravamo spontanei, non c’era nessuno studio dietro: era il modo con cui si scherzava tra di noi. Quando poi siamo arrivati alla televisione tutta l’Italia ripeteva le nostre battute, la nostra comicità divenne popolare. Noi non ce l’aspettavamo, volevamo solo far ridere la gente, regalare un’ora di divertimento, magari dopo una giornata di duro lavoro.
E l’esperienza nel cinema?
Ho lavorato con Lattuada, Dino Risi, Sordi e Monicelli. Ho fatto tantissime cose, alcune anche con Renato, come “Sturmtruppen”. La mia prima esperienza di cinema fu in “Cuore di Cane” di Alberto Lattuada, accanto a con Max Von Sydow. Io Max andavo a vederlo nei cineforum da ragazzino, nei film di Bergman: incredibile ritrovarmelo di fronte in carne e ossa. Ero un po’ intimorito, invece mi mie subito a mio agio: una persona eccezionale, di una gentilezza e simpatia incredibile.
I vostri famosi tormentoni come sono nati?
Non erano assolutamente pensati per diventare degli slogan, si rifacevano sempre al nostro modo di scherzare. Fortunatamente poi sono rimasti nella memoria collettiva di un’epoca. Per esempio la frase “Bene, bravo, sette più” era una battuta assolutamente surreale, anche se ovviamente sottolineava un disagio. Renato era il maestro povero e io l’allievo ricco. Durante quello sketch, Renato mi faceva delle domande assolutamente improbabili. Alla tredicesima puntata, uno scambio di battute fece arrabbiare addirittura il ministero dell’Istruzione. Il maestro Renato diceva: “Prendete una banconota da cinquantamila lire, dal portafoglio dei vostri genitori, fotocopiatela, mettete la copia nel portafoglio dei genitori e portate al maestro l’originale”. Io, allievo ricco, domandavo: “Come faccio?” e lui rispondeva: “Fatevi aiutare dai vostri genitori”. E qui passammo dei guai. Bisogna tener presente che quando iniziammo a fare televisione era il 1968, c’erano solo due canali e ci guardavano in trenta milioni di italiani. In pratica l’Italia allora si fermava per il comandante Straker della serie “Ufo”, per “Jeux sans frontières” e per noi.
La domanda di Paolo Rossi nel ’92: dove sei sparito per vent’anni?
Non mi vedevano più in tv e c’era addirittura chi pensava che fossi morto. Invece per vent’anni ho fatto tantissimo teatro di prosa, facevo tournée teatrali di sei mesi in giro per l’Italia. Renato faceva cinema e io teatro. Qualche settimana fa abbiamo fatto una rimpatriata al Bar Jamaica con Paolo Rossi, Ricky Gianco e Uliano Lucas, per registrare un servizio televisivo sulla Milano di quegli anni là. Ci conosciamo da sempre: Paolo Rossi era il ragazzino che lavorava con Dario Fo e Franca Rame. Con Ricky Gianco siamo cresciuti insieme, con Pietruccio dei Dik Dik eravamo compagni di giochi. Io abitavo in via Foppa, Ricky in via Stendhal. Pietruccio era il mio compagno di banco a scuola. Anche Lallo, il cantante dei Dik Dik, abitava in via Foppa. Un gruppo di bambini, artisti in erba. Noi abbiamo avuto la fortuna, in quella stagione, di poterci esprimere in tutta libertà. Eravamo figli della strada, niente scuole di recitazione o di musica. La nostra palestra è stato il cabaret, abbiamo imparato rapportandoci con il pubblico direttamente, senza rete.
Cosa pensa della Milano di oggi?
Mi piace moltissimo. Ci sono locali, come lo “Spirit de Milan”, “La balera dell’Ortica” e i circoli Arci, che mi riportano allo spirito del passato. C’è di nuovo un’atmosfera che mi sembra ricca di fermento. Milano la trovo una città rinata, una città in divenire.
Renato Pozzetto: «Con Jannacci in barca ma navigavamo soltanto all’Idroscalo». Michela Proietti su Il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2022.
«Io e Cochi? Ci rivogliono in teatro. Il celebre «taac» lo sentii da uno scommettitore di cavalli».
«Al Bar Gattullo, dove passavo i pomeriggi da ragazzo con i miei amici, avevamo creato un ufficio-facce, per decidere chi poteva far parte della comitiva». Molto prima che arrivasse Facebook, Renato Pozzetto, aveva inventato con il suo gruppo una commissione immaginaria, per selezionare i nuovi amici da ammettere al bar di Porta Lodovica, a Milano. Che venivano quasi tutti respinti: «Quando qualcuno non aveva i tempi del nostro umorismo o semplicemente tifava la squadra di calcio sbagliata, la battuta ricorrente era: “Ma questo è passato dall’ufficio facce?». La cultura da bar, della battuta veloce, il riscontro immediato della risata: o scoppiava subito o mai più, nessuno sconto dalla platea implacabile del tavolino. Una palestra che ha fatto di Renato Pozzetto, nato 82 anni fa sotto il segno del Cancro, uno dei più grandi cabarettisti e attori comici italiani, con oltre 70 titoli e solo uno, sul finale, drammatico, insieme a Pupi Avati. «Con Pupi avevamo litigato, quando ha avuto il coraggio di farsi risentire per farmi leggere il copione ero ancora nero... poi ho iniziato a sfogliarlo e mi sono commosso. E ho detto di sì».
E ha fatto bene. Per la sua interpretazione in «Lei mi parla ancora» è stato candidato al David di Donatello.
«Avevo perso mia moglie da poco, non volevo che realtà e finzione si mischiassero. Ci siamo riusciti».
Perché avevate litigato con Pupi Avati?
«Una stupidaggine, aveva preso le difese di una persona che più tardi ha deluso anche lui. Mi offesi perché scrisse un biglietto in cui attaccava anche la mia carriera, alcune mie scelte».
Un ruolo drammatico dopo 70 titoli comici. È stato difficile non fare il mattatore?
«Il mio è stato sempre un umorismo sottile, alla milanese. Non sono nato battutaro, quella del cabaret era una scuola del surreale. Io e Cochi Ponzoni abbiamo passato la vita a ridere come matti dei nostri nonsense».
Con Cochi vi siete conosciuti da piccoli.
«Siamo nati tutti e due a Milano nello stesso quartiere e tutti e due, fatalmente, siamo stati sfollati durante la guerra a Gemonio. Nel 1942 una bomba ha beccato in pieno il palazzo dove abitavo e sono rimasto senza casa. A Cochi sua mamma aveva comperato una chitarra, suonavamo le canzoni che sentivamo alla radio».
Fino alla prima media è stato un laghèe.
«Poi siamo tornati a Milano, in un alloggio del Comune: si chiamavano case minime ed erano abbastanza disumane, piccoli nuclei vitali in mezzo a cortili enormi. Poi ci siamo trasferiti dove c’era il capolinea del tram 3, nel quartiere Baia Del Re. C’era gente che si guadagnava onestamente lo stipendio, come mio padre, ma anche la malavita. Ho giocato con figli di gente complicata».
Il bar.
«Ci trovavi di tutto. Una volta arrivò un pittore che ci presentò Piero Manzoni: iniziammo a frequentarlo, un genio purtroppo sregolato nel bere. Ci incontravamo spesso all’osteria L’Oca d’oro, dove artisti e pittori di Milano erano di casa. Il proprietario amava la nostra ironia e anche i frequentatori apprezzavano: Lucio Fontana ci diceva in milanese “voi due dovreste andare a Sanremo” e poi aggiungeva: “Ghe pensi mi”».
E vi ha davvero aiutati?
«No, però una sera invitò Cochi — che lo aveva riaccompagnato a casa — a salire per bere un ultimo bicchiere e regalargli un quadro. Cochi incredibilmente non ha accettato l’invito e quindi niente quadro. Sono sempre stato invidiosetto di questa proposta fatta a Cochi e non a me. Sarei salito di corsa».
La svolta.
«Agostino-Tinin Mantegazza e sua moglie Velia aprirono una galleria d’arte notturna frequentata da Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Poco dopo Tinin e Velia inaugurarono in un sottoscala il Cab 64: noi lì cantavamo le nostre canzoni milanesi. Cochi aveva pensato di fare un brano intitolato “A me mi piace il mare” e diceva: “A me mi piace il mare, tanto, effettivamente... in occasione dell’estate, nonostante la stagione, ho comperato un canotto e un ombrellone, sono sempre in giro in spiaggia, qui le spese vanno su, ho bisogno di vederti, sì ma torna presto che non vivo più”. E tra una strofa e l’altra io spiegavo al pubblico cosa fosse il mare. Nasceva così la nostra vena surreale, la gente veniva a vederci, la voce girava».
Il Derby.
«Un successo incredibile, la gente prenotava il Capodanno da un anno all’altro, c’era così tanta folla che era stata creata una scala che si alzava e si abbassava dopo la porta d’ingresso, per cui quando la scala saliva l’entrata non esisteva più. Era frequentato dalla gente della televisione: per noi arrivarono le prime trasmissioni».
Enzo Jannacci.
«Il nostro più grande sostenitore, che diventò anche il mio medico di base. Nacque un’amicizia fortissima, nonostante lui fosse notoriamente Schizzo...».
Cosa significava Schizzo?
«Un tipo nervoso, imprevedibile. Grazie al Derby arrivò la Rai, con Canzonissima che faceva 20 milioni di ascolti e poi anche il cinema. Mi ritrovai a firmare tre contratti cinematografici e per festeggiare andai a mangiare l’aragosta. Ebbi una intossicazione e Enzo dopo avermi fatto una puntura se ne andò via ridendo con un matto nel corridoio. Non ho mai capito cosa volessero dire quelle risate».
Altre stranezze?
«Enzo amava le barche e finalmente se ne comperò una di 7 metri. Mi invitò a provarla: credevo mi portasse al mare, invece aveva decisa di tenerla all’Idroscalo. Ci ritrovammo in mezzo all’acqua, soli, con un freddo glaciale».
Un po’ come il freddo implacabile della cascina de «Il Ragazzo di Campagna».
«Il successo cinematografico più grande, nato senza aspettative, quasi preso sottogamba: con Castellano & Pipolo ci siamo messi a scrivere con l’idea di non dover fare un film da botteghino natalizio».
Fotografò con anticipo la bolla immobiliare milanese: monolocali a prezzi stellari.
«C’era anche lì un po’ di biografico: io e Cochi, dopo Canzonissima, avevamo cominciato a lavorare fuori Regione. Quando tornavamo dagli spettacoli e trovavamo nebbia in autostrada ci fermavamo in qualche hotel che aveva stanze del genere “taac”».
Come nacque il famoso «taac»?
«Lo diceva sempre un ragazzo simpaticissimo che frequentava il Derby, grosso scommettitore di cavalli: quando vinceva o le cose andavano per il verso giusto, lui diceva “taac”».
Un milanese a Roma: come si trovava?
«Non ho mai trascorso un giorno di vacanza o un weekend a Roma. Mia moglie non aveva mai accettato di trasferirsi e io facevo il pendolare, sempre con l’incognita della nebbia che non ti faceva atterrare».
Sua moglie non era gelosa di Roma?
«Non ne aveva motivi, si sentiva più a casa a Milano. Mi chiese solo una volta di fare una foto con Adriano Celentano e forse ce l’ho ancora, ma non la guardo perché mi intristisce».
I suoi amici dell’ambiente artistico?
«Paolo Villaggio, che incontravo anche per mare tra la Sardegna e la Corsica. Avevo la casa a La Maddalena, lui a Bonifacio, una casa stretta e lunga affacciata sulla falesia: ci parlavamo dalla barca al balcone, perché la roccia faceva da cassa armonica. Poi Renato Della Valle e Marcello Mastroianni».
Di cosa è fatta la milanesità?
«Puntualità, rigore, un certo attaccamento alla famiglia. Noi fratelli Pozzetto con i primi soldi abbiamo comprato la casa ai genitori».
Oggi come le sembra Milano?
«La frequento poco, mi piace ancora l’idea di viaggiare con Cochi per lavoro, scegliere l’albergo, il ristorante dove mangiare, farci una foto con la gente. Soprattutto quando sono i bambini a chiedermela, perché i miei film continuano ad andare in onda ed è come se fossi uno zio che rompe le palle tutti i giorni».
Con Cochi vi vedete ancora?
«Giovedì prossimo andremo a vedere la prima di Sister Act al Teatro Nazionale. E il Teatro Lirico di Milano ci ha cercati per ricomporre il duo e farci recitare nel suo nobile palco riaperto dopo 20 anni di restauro».
L’umorismo alla milanese.
«Raffinato, ma la nostra è una fabbrica di umorismo che è stata abbandonata. Oggi parlano sempre della morosa, del tradimento, noi discutevamo della gallina...».
Chi sono i comici oggi?
«Non li seguo molto perché hanno un umorismo che faccio fatica a seguire, ma sicuramente è colpa mia. Mi ricordano quel cliente del Derby, con 1.200 dipendenti, che a fine spettacolo mi disse: “Io non ho riso, perché? Eppure non sono un pirla, do lavoro a un sacco di gente”. Ecco, anche io penso di non essere un pirla, ma non li capisco. Un po’ come non capisco i rapper».
Nessuno la fa ridere?
«Checco Zalone: non lo conosco bene, ma è un umorista vero e ha talento, suona e canta».
Qualcuno che l’ha colpita recentemente?
«Stefano Bollani nelle sue purtroppo veloci apparizioni televisive».
La comicità femminile.
«Tra tutte preferisco la Littizzetto, soprattutto fisicamente. Riguardo alle altre... preferisco Totò».
A quali progetti sta lavorando?
«Ho una trattoria a Laveno Mombello, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, si chiama Locanda Pozzetto, ha nove camere che guardano tutte l’acqua e un ristorante che vola alto. In più mi sono messo a fare il vino con quattro amici, il Liseiret».
E il surreale dove è finito?
«Sto scrivendo un libro, un volume in episodi, alcuni veri, altri verosimili: mi aiuta Giorgio Terruzzi, che è un giornalista bravo e colto. Io non so usare il computer, battere a macchina e neppure leggere il mio corsivo: lui mi ha preso per mano e insieme stiamo facendo qualcosa di bello e surreale».
Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 6 ottobre 2022.
Peccato per chi non c'era, tra quei fortunati 100 mila: perché, fra il 23 settembre e il 1° ottobre al Circo Massimo di Roma è accaduto qualcosa che chiamare "sei concerti di Renato Zero in nove giorni" è riduttivo.
Questo folle e geniale cantante-performer, uno dei pochi rimasti, ne ha combinate di tutti i colori. E non solo per i sette cambi d'abito: spolverino nero con bavero e bombetta bianchi, cinque abbinamenti giacca-pantalone-bombetta ocra e giallo, verde scuro e chiaro, blu e celeste, arancione e rosso, lilla e cipria (tipo regina Elisabetta II), spolverino bianco con bavero e bombetta neri.
Alla vigilia è inciampato per strada mentre fuggiva da un selfomane che s' è rifatto postando il video, e lui ha inscenato un'altra caduta con quattro amici intitolando il filmato Le cascate del Niagara: storia di un inopportuno selfista in cerca di Gloria (che è già sposata!). Al quinto concerto è ricascato sul palco, per recuperare il microfono scivolato in un ballo sfrenato (72 anni compiuti quel giorno) e, seduto all'indiana, ha intonato gli ultimi acuti di Vivo.
Domenica 25 è rientrato all'una di notte, dopo tre ore e mezza di performance, nell'hotel dove s' era trasferito per concentrarsi. E ha scoperto che era il quartier generale dei Fratelli d'Italia in festa per le elezioni. L'auto è stata presa d'assalto da meloniani urlanti e cronisti, fotografi e cameramen in attesa della leader. Lui, quando è riuscito a scendere dopo un lungo slalom fra la folla, è sbottato: "Ma che è questo, un regime? Votate la merda che siete!". Ed è finito alla gogna sui giornali e i siti di destra, nella lista degli "artisti rosiconi" e ovviamente comunisti.
Eppure quello sfogo aveva ben poco di partitico ("Mi sono ribellato alla volgarità, pareva la vittoria dello scudetto, non delle elezioni"), anche se lui alla fine ne era felice, vedi mai che qualcuno scambiasse il suo look total black per un salto sul carro dei vincitori: "Si devono ricordare che io sono il nipote del filosofo marxista Mario Tronti!".
Al concerto numero cinque, quello interrotto poco dopo la metà dal nubifragio la sera del suo compleanno, le Iene lo attendevano alle tre di notte per stuzzicarlo fuori dalla trattoria, dove aveva bissato lo show con barzellette e stornelli per amici e parenti. Lui s' è coperto il volto, è rientrato nel locale, s'è fatto prestare il nastro adesivo, s' è incerottato le labbra ed è uscito così, suonando i pifferi di montagna che erano partiti per suonarlo. Poi, l'indomani, ha concesso il bis sul palco: lui e i 23 ballerini con le bocche tappate, alle spalle il testo e le note di "Vergognatevi voi" e alla fine via i bavagli e un grido: "Libertà!".
Nei sei concerti, sempre di 210-220 minuti, Zero ha estratto dal repertorio (quasi 600 brani in 55 anni di carriera) una settantina di perle: 40 a sera fra integrali e medley, in parte diverse da una data all'altra. Chicche mai cantate live negli ultimi venti trent' anni, come L'evento, Tu che sei mio fratello, La rete d'oro, Il caos, Chiedi di più, Lei. Bandiere mai ammainate e riarrangiate per l'orchestra di 50 elementi diretta da Adriano Pennino con Danilo Madonia al pianoforte: La favola mia, Vivo, Spiagge, Niente trucco stasera, A braccia aperte, Voyeur, Magari, Cercami, Amico, Più su, I migliori anni, Il cielo.
Il trittico Triangolo-Mi vendo-Madame, affidato a versioni dance remixate e ricantate coi soli ballerini in scena. Standing ovation per la straziante interpretazione di Qualcuno mi renda l'anima, denuncia della pedofilia scritta a 22 anni, e per quelle rockettare di Morire qui, Resisti, Fortuna e Rivoluzione che hanno scatenato le cinque generazioni di sorcini a ballare sotto il palco. E lui sopra, sempre più scatenato via via che scopriva di farcela ancora, dopo tre anni di fermo, con la voce di sempre e le gambe da ballerino.
A volte si è commosso, come la penultima sera, quando ha dovuto interrompere per la pioggia che inondava il palco e gli strumenti, trasformando lui e la sua bombetta verde in un quadro di Magritte, mentre la gente chiedeva di continuare anche senza orchestra ("Ma qui restamo tutti fulminati!").
O l'ultima, quando ha sfondato il record delle quattro ore per recuperare gli ospiti (fra cui Baglioni e Bollani) e i brani saltati il giorno prima. E alla fine ha annunciato che quello non era un punto d'arrivo, ma di partenza: "Ci rivedremo molto presto in giro per l'Italia". Un tour da febbraio nei palasport, dove non lo fermerà più nessuno. Neppure Giove Pluvio.
Da video.corriere.it il 23 Settembre 2022.
Renato Zero è diventato protagonista, suo malgrado, di una scena in stile «Paperissima». Il cantante dapprima viola il codice della strada, posteggiando il suo suv nero sulle strisce pedonali, e un momento dopo ruzzola a terra. La scenetta è stata filmata da un automobilista ed è finita in Rete, grazie al profilo Instagram di Welcome to favelas. Qualche internauta sulle prime ha pure avanzato dei dubbi: sicuri sia lui, non potrebbe essere un sosia? Altro piccolo giallo: in che zona di Roma si trovava?
La presenza di un “pollaio” - il bizzarro modo di delimitare con reti arancioni e penzolanti i cantieri stradali - due metri più in là “certifica” che si tratta della capitale. L’artista - in concerto al Circo Massimo il 23, 24, 25, 28 e 30 settembre e il primo ottobre - nel video indossava un iconico look total black: papalina, occhiali tondi e un paio di scarponcini dalla suola in gomma alta qualche centimetro. Forse è stato proprio il rialzo della calzatura a tradirlo visto che, al momento di salire sul marciapiede, Zero è inciampato, tendendo le braccia in avanti, finendo rovinosamente sull’asfalto. Il cantante si è subito rialzato, togliendosi la polvere da mani e pantaloni, e ha ringraziato il passante accorso a soccorrerlo.
Scatenati i commenti. Un utente di Instagram: «Il marciapiede nooo, non l’avevo consideratooo» parafrasando la celebre «Triangolo» del cantautore. Un secondo: «Ha i sorcini tra i piedi». E ancora: «Zero lividi!». Ed è intervenuta a dire la sua anche Asia Argento: «Ma poverino, c’ha le suole chiodate». (Maria Rosa Pavia)
Renato Zero abbraccia il suo pubblico: "Attraverso la mia musica ha trovato il conforto per rimanere a galla". Carlo Moretti su La Repubblica il 23 Settembre 2022.
Incontro con l'artista a poche ore dall'inizio del primo dei sei concerti al Circo Massimo, che celebrano la sua lunga e straordinaria carriera.
“Fare questo concerto dopo tre anni di stop è come riprendere gli studi dopo averli abbandonati e doversi imbattere in Omero. Il palcoscenico è una realtà molto impegnativa”. Con questa emozione Renato Zero si appresta a tenere il primo di sei concerti al Circo Massimo, l’ultimo la sera del primo ottobre quando il totale degli spettatori (circa 15 mila per sera) sarà arrivato a 98 mila. Molti gli ospiti e una scaletta di 32 brani per la serie di eventi intitolati Zerosettanta, con il quale l’artista romano intende celebrare 55 anni di carriera e, con due anni di ritardo causa covid, anche i suoi 70 anni che la sera del 30 settembre diventeranno, festeggiati sul palco, 72: “Per quelli che verranno solo una sera ho aggiunto brani immancabili e una serie di medley che raccontano meglio la mia carriera, del resto ho scritto per cinque cantautori ma io sono soltanto uno”.
Durante l’estate che si è appena conclusa, il Circo Massimo ha ospitato il carisma di Vasco, l’entusiasmo dei Maneskin, la carica di Ultimo. Ora con Renato Zero accoglie la storia della città, “ma è una città in cui abbiamo perso la piazza e il mercato”, sottolinea Zero, “dove il potere degli artigiani che rendevano il lavoro in bellezza è ormai scomparsi e questo è una grande piaga. Oggi sono a metà strada tra Roma Nord e Roma Sud e questo mi solleva da un razzismo velato ma evidentemente presente e mi dispiace che questa città ne soffra”.
Sa che il suo pubblico accoglie diverse generazioni: “Sono contento che ci siano posti comodi e a sedere, ci sono bambini, donne, anziani. Anche se il Circo Massimo è un po’ dispersivo, a Villa Borghese per i 60 anni ricevetti un bell’abbraccio, qui non si riesce”. Si sente il cantore degli ultimi: “Nei miei brani la solitudine o l’inquietudine fanno parte di un pentagramma necessario, come quello di De Gregori, Guccini, Dylan o Leonard Cohen. Non voglio avvicinarmi a quelle vette però ritengo che un bravo musicista e cantautore abbia il dovere di inserirsi nelle problematiche esistenziali, come ci ha insegnato il melodramma con la Traviata e tante altre opere. Il mio pubblico attraverso la mia musica ha trovato il conforto per rimanere a galla, non solo disimpegno ma canto di guerra, un’oratoria per avvicinarsi alla fede e a Dio, la musica è un companatico”.
Ci sarà un pensiero a Raffaella Carrà durante il concerto, a un anno dalla scomparsa? "No, non ci sarà perché non sono ancora convinto che Raffaella se ne sia andata. Le abito vicino all’Argentario e ad agosto sono stato 4 volte a cena a casa sua con Sergio Japino e Gianluca il suo assistente, abbiamo fatto insieme la pizza con il lievito madre e abbiamo data a quella casa l’assicurazione che Raffaella sa ancora ospitare ed è ancora in grado di ricevere gli amici. Quindi stasera non mi sembrava opportuno, invece ho un debito affettivo per Mimì e Gabriella Ferri e loro nelle prossime serate ci saranno in qualche modo”.
Ci sarà forse un riferimento a Bella Ciao? “Ci sono brani come Vecchio scarpone che li conosco a memoria ma non posso avere una memoria così lunga perché in quegli anni non ero neanche nato, il pappagallo deve essere istruito e poi è meglio non assomigliargli, al pappagallo”.
Che momento attraversa l’Italia? “Mazzini mi ha chiamato e mi ha detto che ha sbagliato tutto. Il fatto è che noi vogliamo la pace, un governo magari fatto di tre partiti com’era prima ma di gente che si rende conto che le loro questioni di simpatia o antipatia devono fare pari con le esigenze degli operai, degli studenti e dei malati. Questi menu ridondanti di promesse, tutte cose che sappiamo già in partenza saranno di là dall’essere attuate, perché non ci sono più soldi e tutto ciò che abbiamo lo abbiamo sacrificato sull’altare delle commissioni e delle tangenti. E le bollette non possono costare queste cifre folli: il problema non è solo della Russia ma di un salvadanaio che non è stato più rimpinguato e non c’è stata una moderazione nel consumo”. “Andiamo a votare come giocando una schedina e non conosciamo i nostri rappresentanti. Abbiamo avuto gli Almirante, i Nenni, i Togliatti, i Saragat, politici che si facevano conoscere nel bene e nel male, e la forza di quell’Italia consisteva nell’approccio che avevano con la gente, che andavano nelle case. Questi, dopo una poltrona e una legislatura e dopo aver disatteso le attese se ne vanno anche con la pensione. Lo trovo offensivo”.
"Al Circo Massimo festeggio (in ritardo) i miei settant'anni". A Roma quasi centomila persone per i suoi sei concerti: "I social spengono il dialogo". Paolo Giordano il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
Niente, non ce la fa. Anche due ore prima di salire sul palco per il debutto di Zerosettanta, ossia i sei spettacoli al Circo Massimo di Roma, Renato Zero non risparmia energie e parla a ruota libera. Del concerto. Di Roma. Dei social. Di Renato. E degli altri. Insomma, finisce la campagna elettorale e inizia la zerofollia, la celebrazione dei suoi settanta anni fatta alla sua maniera, ossia quando ne ha (quasi) settantadue. Dopotutto Renato Zero spesso è arrivato prima degli altri ma oggi continua anche dopo che molti altri hanno perso baldanza e si godono i successi o la vecchiaia. A modo suo, è unico e lo confermano i quasi centomila che in questi giorni lo festeggeranno al Circo Massimo (replica stasera, domani, il 28, il 30 e il primo ottobre). «Ho voluto strafare», spiega confermando che «cambierò la scaletta per riconoscenza ai molti che vedranno più di un concerto». Insomma, ogni serata sarà a sé stante o quasi perché «aggiungerò altri brani e farò dei medley per tracciare un percorso più ricco anche se ho dovuto lasciarne tanti fuori dalla scaletta». Fosse stato per lui, si sa, non ne avrebbe lasciato fuori nessuno.
Dopo cinquantacinque anni di carriera, quale Renato Zero sale sul palco?
«Un cantautore che spesso ha affondato il coltello nella piaga, cantando di solitudine, di nullatenenza e di altri problemi gravi. Nei secoli anche il melodramma ha lambito zone difficili dell'umano, ma ora è ancora popolare in tutto il mondo».
È stato necessario farlo?
«Per me era un pentagramma necessario, così come hanno fatto altri artisti come Guccini, Dylan, Cohen. Non mi paragono a loro ma credo che ci si debba muovere su questi argomenti».
Risultato?
«Beh la fiducia e la stima che ottengo ancora dal pubblico credo sia la risposta migliore».
Ci saranno omaggi durante i suoi concerti? A Raffaella Carrà, per esempio?
«No, a lei no, per me c'è ancora, è viva. Ad agosto ero all'Argentario a casa sua a cucinare la pizza con il lievito madre con Sergio Japino come se lei ci fosse ancora. Invece faremo omaggi a Mia Martini e a Gabriella Ferri, che sono sempre nel mio cuore».
Cos'ha pensato quando le elezioni sono state fissate proprio in questi giorni? Paura o divertimento?
«Non mi ha toccato assolutamente perché anche io sono stato votato per queste serate al Circo Massimo. Il pubblico ha espresso la propria preferenza».
Però che cosa si aspetta dalle urne?
«Noi vogliamo la pace e mi aspetto un governo magari anche composto da tre partiti diversi ma che sappiano combinare i propri ideali con le esigenze degli operai, dei malati e degli studenti. In ogni caso, forse era meglio che Draghi finisse il proprio mandato, così avremmo potuto prepararci meglio. Invece votiamo come se stessimo giocando la schedina del Totocalcio».
È accaduto altre volte in passato...
«In passato abbiamo avuto politici che si erano fatti conoscere, come Saragat e Nenni, Almirante e Togliatti. Ora ci sono parlamentari che dopo una poltrona (cioè un mandato, ndr) durante il quale magari hanno disatteso le speranze degli elettori, si prendono la pensione, mentre un operaio ci impiega tutta la vita».
Magari è anche un problema culturale.
«La cultura ha nutrito tutti, da Eduardo De Filippo a Tito Schipa, abbiamo un patrimonio enorme. Perché dobbiamo disattenderlo?».
C'è la musica.
«Che non deve essere un'alternativa ma il companatico».
Quale pubblico si ritrova davanti?
«Persone che attraverso me e le mie canzoni hanno trovato conforto per rimanere a galla».
Il 30 settembre compirà 72 anni.
«Nella mia vita forse ho trascurato Renato. Forse Renato aveva bisogno di prati verdi e di mari azzurri. Ma ho avuto sempre la sensazione che la musica mi facesse nuotare nei mari azzurri e correre sui parati verdi».
Com'è cambiato il mondo intorno a lei?
«Mi viene in mente che, quando ho lavorato con Federico Fellini a Cinecittà, intorno a lui c'era una atmosfera che oggi si fatica a ritrovare. Le comparse. Le persone che lo assistevano e magari al mattino gli preparavano la spremuta quando lui si fermava a dormire lì perché faceva tardi. Gente che adorava la vita e ti faceva sentire felice di incontrarla. Oggi non si respira più un'atmosfera del genere».
Allora lei era agli esordi. Oggi riempie il Circo Massimo per sei volte di seguito.
«Io non sono mai stato favorevole a questi gigantismi. Ma qui sono tutti in poltrona, seduti comodi davanti a una orchestra sinfonica diretta da Adriano Pennino, a 24 ballerini e 8 coristi. In certi momenti saremo in cento sul palco».
Un rito collettivo. Il contrario della solitudine social.
«Questi social hanno davvero soppiantato il dialogo umano, e dire che ce ne sarebbe tanto bisogno».
Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 26 agosto 2022.
Al culmine di una discografia sterminata, ogni album anche doppio era un successo sicuro, nell'estate '83 il "re dei Sorcini" si prende una piccola pausa, ma per non lasciare i fan a bocca asciutta pubblica un Qdisc di quattro pezzi (girava a 45 giri) che allora andava piuttosto di moda.
Una curiosità, all'interno della busta Renato "regala" un prendisole, oggetto must degli anni '80 che si metteva sul collo per attrarre i raggi solari sul viso, scopo tinta color mogano.
Un minidisco balneare con inediti pensati per la stagione estiva, di cui Spiagge è la hit destinata alla classifica. E siamo al ritorno dell'amorazzo estivo, «mille avventure che non finiranno se, per questi amori esisteranno nuove spiagge» e via di oggetti e personaggi culto, «di cocco e di granite, di muscoli e bikini, di straniere e di bagnini». Renato non si mette in costume da bagno, eppure è in gran forma, ricciolo nero, veste in stile biker e guida una potente Harley Davidson, insomma un po' Johnny Hallyday stavolta.
Renato Zero: «Da bimbo fui traumatizzato da un uomo che mi molestò». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
Il cantautore: a un mio concerto venne un solo spettatore. I pranzi in mensa con Lucio Battisti: «Il suo pensiero l’ho assimilato. La sua volontà di appartenersi l’ho sposata».
C’è un coccodrillo all’ingresso. Il plastico che ritrae Fonopoli, la cittadella della musica immaginata da Renato Zero negli anni 90 è in buona compagnia: cappelli di tutte le forme e colori, foto, quadri, un poster gigante del Monello di Chaplin con la scritta «Ciao nì», un muro di scatoloni. «Sto traslocando», dice il re dei Sorcini che a 72 anni (e 55 di carriera) si prepara a un’altra delle sue imprese. Dopo le provocazioni in boa e paillettes, la preghiera laica della sua Ave Maria, le esternazioni filosofiche di Zerovskij, la musica sacra di Atto di Fede, diventa gladiatore per conquistare a settembre l’antica arena romana del Circo Massimo con sei concerti (cinque già sold out). «Sono fra quelli che si complicano la vita, segno della Bilancia, che non concede prove d’appello, non è mai tollerante soprattutto sugli uomini, mentre con le donne è più accondiscendente. Questo è il treno che sarebbe dovuto passare nel 2020. Il pensiero di festeggiare settant’anni non è lo stesso di 800 giorni fa, bisogna rimescolare i numeri ed estrarre un palinsesto che tenga conto anche di quello che è successo nella mia vita in tutto questo tempo: ho inciso un triplo disco, poi è arrivato Atto di Fede, in compagnia di meravigliosi amici». Pausa. Squilla il telefono, le note sono quelle di Beat It.
Ha Michael Jackson nella suoneria?
«Mi mette un po’ di brio. Mi capita di ripescare belle ugole del passato come Sarah Vaughan, José Feliciano, abbiamo avuto una fortuna sfacciata nel nascere in un’epoca in cui è successa qualunque cosa, nel bene e nel male. Forse è per questo che oggi siamo un po’ rintronati».
In 72 anni ne avrà viste parecchie.
«Alla fine dei Sessanta ho anche aperto il concerto di Jimi Hendrix al Brancaccio. Ballavo insieme ad altri sette. Abbiamo allargato le braccia verso il fondo della scena ed è entrato questo riccioluto che mordeva le corde della chitarra senza prendere la scossa, non capivo come fosse possibile».
Come ricorda quegli anni?
«Più stavi in giro e più accadevano cose. Avevamo questa attitudine all’aggressione del marciapiede, della porta di un impresario, rispondevamo alla chiamata alle armi di musicisti che una volta cercavano un batterista, una volta un bassista. Le idee si mescolavano. Poi sono arrivati i computer e si è stravolto tutto. Qualcuno è convinto che mettersi davanti a un Pro Tools sia una vittoria. Io credo sia una sconfitta perché ti allontani dall’umano, dalla stanchezza fisica, mentale, dall’andare a cercare l’ispirazione».
Però oggi molti di questi artisti riempiono club e palazzetti a colpi di sold out.
«Fa un po’ meno effetto. Quando il sold out arriva gradualmente ti porta a credere che sia il frutto di tutto il tuo lavoro. Adesso la biglietteria si esaurisce perché la gente ha bisogno di incontrarsi, andare fuori. Il merito non è più solo dell’artista. Non sei più tu la pietra dello scandalo».
Ricorda il primo concerto tutto esaurito?
«No, ma ricordo quello con uno spettatore. Vigilia di Natale del ’73 al Folk Rosso. Il proprietario voleva rimborsargli il biglietto e mandarlo a casa. Mi imposi: “Ho lasciato la mia famiglia dicendo che sarei andato a lavorare”. Mi esibii per lui che tornò la sera dopo con 22 persone».
Il primo disco glielo produsse Gianni Boncompagni. Come andò?
«Era un ragazzino impertinente, invadente ma con una carica di vita mostruosa e con una disponibilità rara. Mi portò a fare un provino alla Rca con i pantaloni strappati e la mercanzia in bella mostra, coperta da una felpa, per una spaccata nella trasmissione Bandiera gialla. Dopo due settimane mi chiamò: “Devi venire a cantare”. Sembravo un rospo con la mia vocetta un po’ fastidiosa. Del disco furono vendute una trentina di copie, tanti sono i miei parenti che se le sono comprate».
Nel ’73 «No! Mamma, no!», album d’esordio. Con trucco e lustrini si scagliava contro conformismo e aborto, esaltando la fantasia.
«Quel disco annunciava che sarei stato uno dalle mille facce. La maschera era un elemento di greci e latini, la preferivano alla diplomazia, al falso istituzionale, perché dava vita a un gioco in cui si può mettere alla prova l’intuito. Quando vedo uno che non riesco a decifrare mi viene voglia di guardargli dentro per capirlo. Io dell’apparenza sono stato vittima ogni volta che mi volevano affibbiare un’etichetta solo perché guardavano la confezione. Il bisogno fa l’uomo ladro. Quando hai fame, di qualsiasi cosa, ti fai lucertola, pachiderma, scimmia. Amo i napoletani perché hanno firmato un patto con la vita: non sono gelatinosi, statici. Dovessi presentare un italiano all’estero manderei un napoletano».
L’anno dopo, in «Qualcuno mi renda l’anima» affronta il tema della pedofilia.
«La gente mi diceva: Perché parli dei pedofili se non ci sono? Spesso per scrivere le mie canzoni si accendono le foto della memoria. Un giorno mi trovavo a piazza Augusto Imperatore con la retina per le farfalle e il mio cane. Un signore con la patta sbottonata mi chiese: “perché non vieni qui a prendere le farfalline?” Immagini un bambino che assiste a una cosa del genere… Il Renato adulto porterebbe quel signore al commissariato».
Altre foto della memoria cui è legato?
«Quando ero piccolo abitavamo nel centro storico, via Ripetta. In casa tre zii scapoli, mia nonna Renata, le mie tre sorelle, mio padre, mia madre, io, il nostro pastore tedesco femmina che mi portava a spasso. Non era un appartamento grande ma c’eravamo accampati bene. D’inverno ci si faceva caldo uno con l’altro. Respiravamo Roma nella sua entità più profonda».
Dal centro vi siete trasferiti in periferia?
«Non avevamo il bagno in casa, ma sul ballatoio. E i signori che avevano messo gli occhi su questa Roma dalle grandi prospettive edilizie dissero a tutte le famiglie come la nostra: “Se andate in periferia c’avete pure il servizio dentro casa”. Appena ci siamo mossi hanno ristrutturato gli appartamenti del centro mettendoci otto bagni… a noi ne sarebbe bastato uno. Ma abbiamo lasciato una matrigna e abbiamo trovato una madre, la borgata».
Dopo il successo di «Mi vendo», fonda una sua etichetta. Perché?
«La mia libertà l’ho pretesa. Se sei padrone del tuo lavoro nessuno può pilotare il tuo pensiero e la tua personalità. Lucio Battisti diceva: se vuoi l’opera devi prendere l’opera, non il surrogato. La vedova Grazia Letizia difende questa posizione ed è l’unica che può tutelarlo. Lucio pranzava alla mensa della Rca, da solo, non amava fare comunella con i dirigenti. Ma ogni volta che mi vedeva mi invitava al suo tavolo. Si confidava. Il suo pensiero l’ho assimilato. La sua volontà di appartenersi l’ho sposata. Se prima stavo sulle palle ai discografici, a un certo punto ho smesso di sopportarli io».
Come affronta il palco?
«Fisicamente non seguo regole. Ma per uno come me che gioca a scopone scientifico, scopa, tresette almeno i polpastrelli sono esercitati — ride — La concentrazione è un’altra cosa. Quando stai lì il distacco dall’emozione è sempre complicato. Ogni volta che canti un brano ricordi il vecchio furgone che ti portava in giro, quando da solo caricavi gli strumenti. E poi ti chiedi se sei piaciuto, se il disco vende... ».
Nel suo pubblico bambini e anziani...
«Non hanno filtri, non usano il metro dello sgomento. E su di me ha funzionato perché erano gli anziani che portavano i giovani da me. Raffaella Carrà mi raccontò che un giorno a Bellaria la nonna le disse: “Raffaellina stasera mi devi portare a vedere Renato Zero”. Raffaella non era mai venuta a un mio concerto, mi conobbe grazie alla nonna. Abbiamo pure abitato vicini, sia a Roma che al mare. Per me è stato un bel vantaggio: era amica, collega ispiratrice. Quando facevo le trasmissioni insieme, lei e Japino mi chiedevano: “che vuoi fare?” Sapevano che io avevo già un coniglio fuori dal cilindro».
Con Raffaella e Corrado prese parte a Fantastico 3 in Rai. Come andò?
«Ho sempre avuto forti sospetti sulla Rai perché un’azienda che chiede il canone, si dice pubblica ma non lo dimostra. Volevano far vedere che erano avanti, comprendevano i cambiamenti, li favorivano. Pensarono a me per quel Fantastico come al bel funerale di un artista scomodo. Io, invece, volevo dimostrare che non era solo un gioco di colori, forme e provocazioni, ma c’era forse dell’altro nella mia presenza».
Non ha una grande opinione della tv?
«Ha perso identità, viene schiaffeggiata dall’approssimazione. Nel ’54 ne avevamo una. Marca Admiral. Uno scatolone con le manopole, che friggeva da mattina a sera perché non c’era quasi niente da guardare. Poi si accendeva e vedevi Giancarlo Cobelli che faceva il mimo, Pasolini, il maestro Alberto Manzi, i reportage di Mario Soldati in un Paese che sembrava essere il luogo delle favole, con tutta l’ignoranza di cui l’Italia era padrona ma con la forza di voler crescere perché c’era una nazione da ricostruire».
L’incontro inaspettato?
«Con Sophia Loren. Avevo festeggiato all’Argentario il compleanno di Trovajoli che si presentò a casa mia con una magnum di champagne. Poi a settembre ci ritrovammo a cena da lui per celebrarlo di nuovo. C’erano la moglie Maria Paola, Sophia e sua sorella, Gianni Battistoni e io. Quando sono arrivato ho visto Sophia e Armando in giardino, su una panca che bisbigliavano. Erano due amici che si stavano raccontando la vita. Una serata meravigliosa, abbiamo parlato del rincaro degli spinaci e dell’afa».
Com’è Renato Zero oggi?
«Non ho infilato pantofole e vestaglia, non ho mai accettato che l’altra piazza del letto fosse abitata. Però amo, non sono vedovo. Quando esco di casa sono a casa, parlo con la vecchietta, il ragazzino. Qualcuno adesso mi chiama pure maestro… sono stato promosso».
GIOVANNI DE STEFANO per rollingstone.it il 10 aprile 2022.
Mercoledì Renato Zero ha illustrato a Roma – e dunque, per dirla alla Renato Zero, al mondo – quali saranno le prossime due tappe della sua strada verso l’immortalità; una strada lunga cinquantacinque anni di carriera, quarantaquattro album e cinquecento canzoni. Con voce e piglio narrativo continuamente mutevoli, alternando toni da gladiatore che incita la folla a quelli da sacerdote che la confessa, l’artista ha presentato prima Atto di fede, un cofanetto letterario e musicale, edito da Tattica; poi Zerosettanta, un quadruplo concerto programmato in autunno.
Come luogo dell’appuntamento con i media, con riserbo da pontefice che non necessariamente ha dovuto operare una scelta di campo tra potere spirituale e temporale, Renato I (e unico) ha eletto l’esedra di Marco Aurelio ai Musei Capitolini e ha parlato da un piccolo trono in pelle nera, sovrastato solo dalla statua equestre dell’imperatore titolare della sala e dal cielo della Città Eterna, che trapelava dalla copertura trasparente opera di Carlo Aymonino.
Atto di fede esce oggi nelle librerie, nei negozi di dischi e nei loro corrispettivi online, ma non in formato digitale. È composto da un libro e da un doppio album a tema sacro. Non è un caso che Renato abbia rivolto le parole più dure del suo lungo intervento a due categorie: le piattaforme di streaming musicale e i musicisti qualunquisti. «Lo streaming è come se ti sposassi senza poter andare a letto col tuo coniuge. Solo la fisicità del CD, e prima ancora del vinile, è rappresentazione del possesso del lavoro dei musicisti». Più avanti: «Vorrei lasciare il mio scettro a ragazzi che innovano e che non rifanno sempre le stesse cose. E soprattutto che rompano le palle ai musicisti: fateli suonare, fateli circolare, non fermatevi ai plug-in».
Il tour de force di Atto di fede è un unicum nel panorama musicale contemporaneo, leggero o no. È un kolossal di quasi quaranta tracce, di cui diciannove sono arie o cori di un vero e proprio oratorio neanche tanto pop (hanno titoli come La parola è carità o Grazie Signore), intervallati da altrettanti recitativi, letti da attori come Luca Ward o Giuliana Lojodice e scritti da ospiti che Renato ha definito i suoi Apostoli della Comunicazione: in ordine alfabetico, Alessandro Baricco, Luca Bottura, Pietrangelo Buttafuco, Sergio Castellitto, Aldo Cazzullo, Lella Costa, Domenico De Masi, Oscar Farinetti, Antonio Gnoli, Don Antonio Mazzi, Clemente J. Mimun, Giovanni Soldini, Marco Travaglio, Mario Tronti, Walter Veltroni.
«Sono stato ballerino, attore, ho fatto il cabaret con Fellini, ho vissuto le notti di discoteche con l’Altromondo di Rimini. Ma oggi sono arrivato a un traguardo a cui ambivo da molto tempo: accarezzare Dio e fargli i complimenti per come mi ha gestito e ha mantenuto intatta la mia fede. Parola di Renato. Ci siamo dimenticati di Dio per parecchio tempo. Abbiamo lasciato che l’apatia e la stanchezza intellettuale ci allontanassero da lui».
L’ascolto delle tracce restituisce l’impressione di essere di fronte a una sorta di spettacolo mentale, avvolto da un’aura di forte misticismo a sfondo ecologico: un musical che va in scena nel profondo della coscienza del suo autore anche perché, tra tante comparsate, per quanto illustri, l’unico vero featuring è quello con Dio.
Il secondo progetto, se possibile ancora più ambizioso del primo, è rappresentato dai fasti renatiani programmati, al Circo Massimo, per quattro serate dal 26 al 30 settembre prossimi, che si concluderanno nella notte del suo settantaduesimo compleanno, arrotondato per ovvi motivi di Covid e di amor proprio, in Zerosettanta («Eh, settanta cucuzze non sono poche»).
Renato introduce il nuovo tema con la stessa solennità tributata all’altro: «Vi ringrazio di essere qui a nome della musica italiana e di noi artisti che rimpiangiamo il palcoscenico e la nostra sagrestia, che è il camerino». La voglia di tornare a esibirsi è tanta: «I miei sorci verranno da ogni parte d’Italia con le loro pagnottelle al prosciutto. Perché il 30 settembre veniva al mondo ‘sto capolavoro!». Spiega: «Per fortuna per me il pubblico è una presenza che non si distacca dall’incontro casuale, nelle strade, nel quotidiano. Quando dovrò prepararmi alla liturgia del concerto, però, che è più mistica, sono certo che mi consegnerò comunque vergine alle aspettative del pubblico, con emozioni e sensazioni nuove». Renato è inarrestabile: «Come ogni albero di Natale è diverso da tutti gli altri, il concerto del mio compleanno avrà una scaletta diversa per ciascuna sera, per permettere ai più ostinati di festeggiare con me ogni giorno».
Nel corso dell’incontro Renato riesce a compiere il miracolo di parlare di sé in terza persona ed esprimere emozioni relativamente umili, come quando chiama a sé Giacomo Voli e Lorenzo Licitra, i due giovanissimi ospiti musicali dell’album, che sono visibilmente pazzi di lui e anche un po’ in soggezione: «Allora, questo rapporto con Renato, com’è stato?».
Lo Zero conferenziere è uno Zero diversissimo dallo Zero televisivo, figurarsi da quello canoro. In assenza di musica l’evento è dominato dal puro linguaggio – e sono molte le occasioni per fermarsi a riflettere su come sia ricco di sfumature, nella sua relativa spontaneità, quello di Renato.
Nel contesto museale capitolino le scelte lessicali zeriane si deformano, con virate al limite del giornalistese, che però danno spesso adito a quasi altrettante licenze poetiche. «Vi devo presentare l’arrangiatore mio (Adriano Pennino, nda). Vieni Adrià, dillo con chi hai lavorato: Ornella Vanoni, Sal Da Vinci… Anzi no, fai prima a dire con chi non hai lavorato. Adrià, ci vuoi dire con chi non hai transitato?».
A volte l’intera estensione linguistica di Renato è compresa in un solo scambio coi tecnici. La prima richiesta è più formale: «Possiamo cortesemente attenuare il faro?». La seconda è già più decisa: «Lo potete spengere ‘sto cannone?». Alla terza è il Renato a cui nessuno può dire di no: «Ahò me lo levate sto mostro?».
Verso il finale di questo spettacolo prima dello spettacolo, in occasione delle domande dalla platea, Renato Zero si rilassa e comincia a virare ormai verso il format della stand up comedy, ma rigorosamente da seduto.
Gli chiedono come imposterà i concerti al Circo Massimo, rispetto alla tradizione che vi ha voluto ospitati nomi come i Pink Floyd o Bruce Springsteen. Lui non abbocca alla provocazione: «Mandatemi i link di questi concerti, in modo da evitare il rischio di rifare qualcosa di simile a loro. Se chiedeste di me ad Archimede Pitagorico vi direbbe: a noi inventori Renato Zero ci rompe i coglioni da una vita». La mascherina di Marco Travaglio, seduto in ultima fila, si gonfia come un otre dal ridere.
Alla domanda su quale sia il suo segreto per intercettare un pubblico così ampio dal punto di vista generazionale (per la precisione: «Quando mostriamo un tuo video agli adolescenti ci rispondono: miii, questo è meglio dei Måneskin!»), Renato unico ha una risposta prontissima: «Il giovane deve capire che crescere è un diritto ma anche un dovere».
Ma lo scambio più bello di tutti è questo: «Come ti vestirai Renato?». «L’ideale sarebbe la foglia di fico, perché ormai ho messo tutto».
Renato Zero fa il suo "Atto di Fede". Per la prima volta in concerto al Circo Massimo di Roma. Carlo Antini, Testi e musica le mie ascisse e ordinate, su Il Tempo il 07 aprile 2022.
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«Sarò un gladiatore al Circo Massimo». Seduto sotto la statua del Marco Aurelio in Campidoglio, Renato Zero annuncia i quattro grandi eventi romani in programma il 23, 24, 25 e 30 settembre. Con «ZeroSettanta» il Re dei sorcini festeggerà 70 anni, anche se con un ritardo di due anni a causa della pandemia. «Atto di Fede» è il nuovo lavoro discografico in forma di oratorio in uscita domani, in cui alterna canzoni e lettere affidate a filosofi, attori, giornalisti, sportivi, politici, religiosi e pensatori. Tra loro Castellitto, Veltroni, Buttafuoco, Lella Costa, Giovanni Soldini, don Antonio Mazzi, Mario Tronti, Clemente Mimun, Domenico De Masi, Luca Bottura, Marco Travaglio, Cazzullo, Farinetti e Alessandro Baricco.
Renato Zero, perché ha sentito la necessità di fare questo «Atto di Fede»?
«Sono arrivato a un traguardo al quale ambivo da tempo. Accarezzare Dio da vicino, fargli i complimenti per avermi gestito e aver lasciato intatta la mia Fede che è tanto utile quando ci si avvicina agli altri. La Fede è la chiave che ci permette di osare, andare oltre le nostre capacità e potenzialità. La Fede ci dà il coraggio di saltare per prevaricare il dubbio e il sospetto. Dobbiamo avere il coraggio di sentirci difettosi e inadeguati».
Oggi parlare di Fede suona come un atto di coraggio. Cosa manca alla nostra società?
«Dio non lo frequentiamo più, abbiamo lasciato che la stanchezza intellettuale ci impedisse di raggiungerlo. Eravamo ottimi cristiani anche prima di passare dal confessionale. Buoni dentro e pazienti al punto che, una volta raggiunto un risultato, per gustare tutto il suo effetto potevano trascorrere giorni e settimane. Il prete riusciva a conquistarsi tutta la famiglia senza ricorrere ai santini, alle benedizioni o alle promesse di un percorso immacolato. Oggi, invece, ci siamo ammalati di indifferenza ed è più facile giocare tre numeri al lotto».
Nel nuovo album vengono recitate le lettere scritte da quelli che lei ha definito i suoi «Apostoli della comunicazione». Com’è nata la collaborazione con loro?
«Nelle loro parole ci sono spunti talmente forti ed efficaci che rimettono in gioco la nostra voglia di cambiare. Le eccellenze ci fanno sentire tutelati. Per questo ho fatto un appello agli amici. Non mi sentivo di gestire da solo la filosofia di questo avvicinamento alla Fede. Ciascuno di loro è diverso dall’altro, li accomuna solo la poesia. Hanno tutti una grande sensibilità».
Come ha vissuto gli ultimi due anni tra lockdown e pandemia?
«Sono stato lontano dal palco ma vicino al marciapiede. E questo ha mantenuto il mio equilibrio. Per me è stato meno doloroso che per altri colleghi perché ho la capacità di andare a domicilio. I miei sorci li vado a cercare per strada: al Tuscolano, a Monteverde, alla Garbatella. In tutti i quartieri di Roma. Ho la facoltà di essere ovunque: non ho il dono dell’ubiquità ma ci sto lavorando. Mi piacerebbe essere lo zingaro che molti di voi conoscono. Ho curiosità di incontrarvi al mercato non per fare foto ma per portarvi nel cuore».
Come sta oggi la città di Roma?
«Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito straniero nella mia città. La politica è diventata davvero troppo invadente. A volte mi chiedo: perché non spostiamo il governo a Torino? Anche perdendo il titolo di capitale d’Italia, tanto Roma è già la capitale del mondo. Liberiamo la città e riconsegnamola ai romani. A Roma manca la voce dei romani».
Intanto a settembre quattro spettacoli al Circo Massimo per festeggiare il suo compleanno con «ZeroSettanta». Che show dobbiamo aspettarci?
«Sarà un concerto diverso tutte le sere, con alcuni degli ospiti del disco che saranno al mio fianco. Quanto agli abiti di scena, la foglia di fico sarebbe un’idea perché in carriera ho indossato davvero tutto. Quando mi preparo per un concerto è un atto mistico. Mi consegno a quel pubblico che si aspetta da me ogni volta emozioni nuove. Vorrei ritrovare tutti i miei fan con un abbraccio che promette un percorso nuovo. Stare insieme non sconfigge solo la solitudine ma crea anche quell’affiatamento che è tanto caro ai miei sorci. Ben venga questo settembre. Sul palco voglio portare anche gli amici, i personaggi che hanno condiviso il mio percorso artistico. Modificherò la playlist tutte le sere per permettere agli ostinati che hanno comprato quattro biglietti di vedere uno show sempre diverso. Ogni spettacolo avrà un copyright. Di Renato Zero ce n’è solo uno, tutti gli altri son nessuno. Con me ci sarà anche un’orchestra molto nutrita con archi, tamburi e una band con sonorità moderne. Riprendo il dialogo con la vita e con Renato per la stima che ho di me stesso».
In «Atto di Fede» lei ha chiamato a raccolta gli amici. Perché in Italia le collaborazioni artistiche sono così rare?
«Quello che manca è la regia. Oggi chi si alza per primo si veste, come diceva mia madre. Nessuno si prende le proprie responsabilità. Ci siamo addormentati e deleghiamo tutto agli altri».
Cosa pensa del conflitto in corso in Ucraina?
«La guerra vuole annientare le differenze, vuole che siamo tutti vittime o carnefici, non accetta l’individualità, annienta la libertà. Mi aspetto che la possibilità di riprendere il dialogo con il palco coincida con la ripresa della vita. Comunque c’era puzza di polvere da sparo anche prima dell’invasione russa. Perché il nostro pianeta non è mai stato tranquillo».
Non è la prima volta che la sua musica si intreccia alla spiritualità. Cosa ricorda di «Zerolandia»?
«L’esperienza di Zerolandia è sempre nel mio cuore. All’epoca la sua chiusura improvvisa è stata una violenza totale, quasi criminosa direi. Succede quando uno diventa troppo popolare e quindi scomodo. Anche Gigi Proietti è uno di quelli che ha pagato cara la sua voglia di aiutare gli altri. Se ricordate qualcuno gli tolse il Brancaccio. Noi abbiamo pianto un amico ma qualcuno si è tolto un peso».
Alcuni artisti cominciano a pubblicare i loro nuovi album solo in versione digitale. In futuro ha intenzione di farlo anche lei?
«Non concepisco sposarsi e non avere la moglie accanto a sé. Per questo sono uno che crede che la fisicità del cd e prima ancora del vinile sia una ricchezza. La loro presenza dà la sensazione di aver vissuto».
Cosa vuole dire ai giovani che si affacciano alla vita e al mestiere di musicista?
«Li esorto a incontrarsi di più e a non usare solo plug-in. La musica è soprattutto condivisione. Il mio scettro lo lascerò a chi fa arte cercando gli altri. Ci dev’essere più fermento. Fare solo il compitino a casa non va bene. I ragazzi devono avere maggiore consapevolezza che crescere è un loro diritto e dovere. Ai giovani dico soprattutto di fare un atto di fede in loro stessi».
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 7 aprile 2022.
Ma come, proprio lui che travestendosi e cantando Mi vendo sconvolgeva l'Italia cattolica degli Anni 70, ora pubblica un oratorio per accarezzare Dio da vicino? Già. È Renato Zero, bellezza. L'ultimo bizzarro progetto del 71enne cantautore romano è Atto di fede, doppio cd accompagnato da un libro che lo vede celebrare la sua fede cattolica.
Esce domani e comprende un totale di 37 tracce per 2 ore di durata, tra brani inediti di musica sacra incisi con la Budapest Art Orchestra e un coro di voci bianche, oltre a testi scritti da Alessandro Baricco, Sergio Castellitto («Quando mi ha chiamato per spiegarmi il progetto ho capito poco», confessa l'attore e regista), Don Antonio Mazzi e Clemente J. Mimun, recitati da Pino Insegno, Giuliana Lojodice e Luca Ward.
Molti dei pezzi che compongono il disco erano stati fatti ascoltare ad Andrea Bocelli, che però non figura tra gli ospiti (c'è invece il tenore Lorenzo Licitra, vincitore di X Factor nel 2017 poi sparito dai radar).
Seduto sotto la statua del Marco Aurelio in Campidoglio, ieri Zero ha annunciato anche il suo ritorno sui palchi dopo più di due anni: il 23, 24, 25 e 30 settembre si esibirà per la prima volta al Circo Massimo (biglietti in vendita dall'11 aprile). «Mi faccio gladiatore per conquistarmi ancora una volta l'applauso», dice il Re dei Sorcini.
Posti in piedi come i Rolling Stones (71.521 spettatori nel 2014) e Bruce Springsteen (57.730 biglietti venduti nel 2016) o a sedere come Laura Pausini (15 mila spettatori a sera per le due date del 2018)?
«Noi faremo una cosa ancora diversa. Di Renato ce n'è uno, tutti gli altri so' nessuno».
Cioè?
«Vorrei evitare commenti del tipo: Quella cosa l'ha fatta già Springsteen. Beato lui».
Però non ha risposto.
«Sarò originale come i miei costumi: porterò con me un'orchestra nutrita di musicisti in carne ed ossa, non macchine».
I Maneskin hanno annunciato di aver venduto 70 mila biglietti per il loro concerto del 9 luglio: nel suo caso saranno attesi 280 mila spettatori?
«Che c'entra? L'ultimo problema per me è il botteghino. Non sono come certi impresari che hanno lasciato per due anni le persone con il biglietto in mano. Il Circo Massimo rappresenta un premio alla mia romanità».
A cosa si riferisce?
«Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito straniero nella mia città. Quello che manca a Roma è la voce dei romani: a Trastevere ormai si parla inglese. Perché non spostiamo il governo a Torino? Anche perdendo il titolo di Capitale d'Italia. Che ce frega, Roma è già capitale del mondo. Liberiamo la città e riconsegniamola ai romani».
Quanto ha sofferto la lontananza dai palchi?
«Meno di altri colleghi, perché io ho la capacità di andare a domicilio: non aspetto che le persone vengano da me. Giro per la Garbatella, Monte Sacro, Borgata Gordiani. Al mercato quando i fan mi chiedono i selfie rispondo: Ma che ce fate co' ste foto? Portatemi nel cuore, piuttosto. Non ho il dono dell'ubiquità ma ci sto lavorando».
A proposito di divino. Questo disco come nasce?
«Volevo fare i complimenti a Dio per aver mantenuto la mia fede intatta in tutti questi anni». Che rapporto ha con la fede? «Strettissimo. Papà aveva due fratelli di cui uno, Pietro, faceva il prete: lo mandarono al confino, a Brondoleto di Castelraimondo, provincia di Macerata, accusandolo di aver nascosto dei partigiani.
Nel tendone di Zerolandia facevo concerti anche il giorno di Natale e interrompevo lo show a mezzanotte per far salire sul palco un sacerdote per la messa. Ancora oggi prima di cantare mi faccio il segno della croce: cerco protezione».
A cosa si è ispirato per i brani?
«Ai dolori del mondo. Quello che manca oggi è la regia. Nessuno si prende le proprie responsabilità: è la causa della puzza di polvere da sparo che c'è in tutto il mondo e c'era anche prima della guerra in Ucraina».
Nel disco ci sono quindici tra scrittori, filosofi, giornalisti: non avrà messo troppa carne al fuoco?
«No. Non volevo affrontare un progetto del genere in solitudine: avevo bisogno di apostoli della comunicazione. E poi basta con la settarietà: tutto collima e può essere applicabile».
La lezione di Renzo Arbore: la musica in televisione si tratta così. Gino Castaldo su La Repubblica il 14 Novembre 2022.
Su Rai5 insieme a Gegè Telesforo un esempio in venti puntate sull’amore per le canzoni
In un angolo sperduto e protetto del palinsesto televisivo, alle 19 e 30 su Rai5 a partire da martedì scorso, Renzo Arbore ha deciso di raccontarsi, o meglio di raccontare insieme a Gegé Telesforo, in “Appresso alla musica. In due si racconta meglio”, si chiama proprio così il programma, le sue passate meravigliose malefatte in chiave di musica, che sono tante, tantissime, e ci fanno ripensare ad alcune questioni di non secondaria importanza.
Arbore giustamente lo si esalta per le sue invenzioni radiofoniche e televisive, nemico giurato dell’ossessione degli indici d’ascolto tanto da inventare un titolo che recitava “meno siamo meglio stiamo”, frase che detta oggi in televisione farebbe aprire una voragine sotto l’incauto suggeritore per spedirlo nell’inferno della comunicazione con punizioni pesantissime.
Ma Arbore meriterebbe di essere esaltato anche per i suoi meriti squisitamente musicali. La sua è anche una lezione di come si tratta la musica in televisione. Guardiamoci queste venti puntate in cui Renzo e Gegè faranno rivedere ampi stralci di “D.O.C. – Musica e altro a denominazione d’origine controllata”, che era una striscia quotidiana del pomeriggio, che se ne stava lì tranquilla, senza strepiti e proclami di alcun genere, e dal 1987 al 1989, presentata da Monica Nannini e Gegè Telesforo con la regia di Pino Leoni, ha portato in televisione, dal vivo, e sottolineiamo dal vivo, il mondo della musica nella sua più alta e variegata espressione, per non parlare degli altri programmi arboriani in cui la musica era comunque fondamentale, tanto per ricordare che nei pressi di Arbore sono passati da Lucio Battisti a Solomon Burke, da Lucio Dalla a Pat Metheny, da Chet Baker a Pino Daniele e l’elenco potrebbe essere così lungo da assomigliare a quello del telefono. Tutto questo accadeva non solo per la bravura di Arbore, succedeva perché Arbore partiva dal più semplice degli assiomi: l’amore per la musica.
Gli artisti, italiani o stranieri che fossero, giovani o maturi, esordienti o star, si sono sentiti rispettati, amati, protetti e per lui erano disposti a tutto. È quello che si respirava nei suoi programmi: competenza e passione. Ovvio direte voi, e invece no, non è per niente ovvio, perché mai come in questi ultimi anni la musica è diventata protagonista quasi suo malgrado. Anni fa di canzoni in tv se ne vedevano poche, oggi se ne vedono troppe e soprattutto strumentalizzate e brutalizzate ai fini più disparati: trash, travestimenti, gare e corride di ogni genere, memorie, revival, carrambate. Per godere di un buon trattamento garantito dobbiamo aspettare tipi stravaganti come Fiorello o Bollani, e altre gloriose rarità, quando si decidono a fare programmi.
Approfittiamo allora di queste venti puntate di “Appresso alla musica”. Il professor Arbore è lì, a disposizione, col fido discepolo Gegè Telesforo, a dare elementari lezioni di comportamento, a spiegare come si fa, come si tratta la musica. Non è poi così difficile. Basta imparare a divertirsi.
Marco Castoro per leggo.it il 15 ottobre 2022.
Salve maestro, come sta? «Mi dai solo 5 minuti che sto seguendo il discorso di Ignazio La Russa al Senato, sta facendo un bel discorso». Renzo Arbore è nel pieno della sua seconda giovinezza. Quella che indossa gli abiti della maturità. Che ti fa venire tanta voglia di raccontare la vita vissuta, tra aneddoti, programmi, concerti e le originali collezioni che tutti apprezzano, dalla musica ai cibi provenienti da ogni parte del mondo custoditi nel suo gigantesco congelatore. È la stagione dei grandi ritorni per Arbore, dopo la tv riecco la radio…
«Siamo partiti con un nuovo programma per RaiCultura, in onda su Rai5 alle 22.40 e ora da lunedì 17 siamo anche su RaiRadio1 - in onda sempre dal lunedì al venerdì dall’una e mezzo di notte - grazie a Roberto Sergio e Andrea Vianello che hanno sposato il progetto. È un passaggio molto importante perché mi sono accorto che il disc jockey e il video jockey sono figure interscambiabili. Quello che raccontiamo io e Gegè Telesforo in trasmissione si presta benissimo a essere ascoltato».
Come sta andando “Appresso alla musica. In due si racconta meglio”?
«In parecchi stanno scoprendo questo programmino, un po’ carbonaro, che fa vedere i tesori straordinari delle teche e anche della mia collezione personale».
La radio è sempre giovane, più della tv, è più forte di prima, non la molla nessuno…
«Io ho festeggiato i 60 anni della radio nel 1984 con un programma che faceva 18 milioni di spettatori. Si chiamava “Cari amici e vicini lontani”. Vennero tutti, Sandra e Raimondo, Corrado, Franco e Ciccio, Monica Vitti, Alberto Sordi e tutti i protagonisti della radio. Adesso nel 2024 Radiorai compie 100 anni. Sarà un altro grande evento. Anche perché RadioRai è guidata molto bene».
È più moderna la radio che la tv…
«In questi ultimi anni la radio si è evoluta moltissimo, grazie al digitale, a internet. È modernissima. Oggi con la radiovisione si può anche vedere. La sua modernità è la sua agilità. La radio non disturba, la radio te la porti dietro, puoi ascoltarla, distrarti un attimo e riascoltarla. Insomma, è uno strumento molto molto vivace».
Però sono spariti i disc Jockey dalla radio?
«È l’unica cosa che rimprovero: l’assenza di disc jockey che spiegano e lanciano i dischi da ascoltare, che indirizzano il pubblico con le loro scelte personali. Come facevamo noi negli anni 70-80, quando i dischi venivano lanciati e se ne parlava tanto. Purtroppo, la figura del deejay è stata sostituita dalla playlist. E il pubblico resta senza una guida. In trasmissione io faccio ancora questo mestiere, in pratica scegliendo il repertorio di Doc e altri programmi, faccio il video jockey».
Circa 1600 concerti in giro per il mondo…
«L’orchestra più longeva del mondo. Dal 1991 al 2021 siamo andati in tour mondiali con la media di 70 concerti l’anno».
Anche a Mosca. Che ricordi ha della Piazza Rossa?
«Abbiamo fatto tre concerti a Mosca. Una volta a cantare Il Clarinetto, c’era ancora Gorbaciov. Una seconda di cui ho un ricordo bellissimo perché fu il primo concerto occidentale nella Piazza Rossa. Poi sono tornato nel 2015 per il concerto al Cremlino».
C’era Putin?
«Si, ma c’era aria di grande democrazia. Seimila posti disponibili, tutti occupati, nell’aula dove si faceva il congresso del partito comunista. Mi dispiace davvero molto che oggi non si respiri più quell’area salutare di democrazia».
C’è una ciliegina che vorrebbe mettere sulla torta?
«Spero di collaborare di nuovo con RadioRai. Potrei continuare questo programma, magari saccheggiando la mia collezione infinita di incontri musicali».
Michela Tamburrino per “La Stampa” il 10 ottobre 2022.
Il padre lo rimproverava: «Invece di studiare vai appresso alla musica!». Renzo Arbore, nonostante studi regolari e laurea, appresso alla musica c'è sempre stato. E a furia di starci appresso è diventato uno dei massimi conoscitori di pop, soul e jazz nonché cultore della canzone napoletana.
Passione generosa e lungimirante. Invece di tenere tutto per sé, ha regalato alle Teche Rai l'immenso materiale condiviso con il suo Channel Tv, fatto di concerti, testimonianze preziose. E così Arbore si consegna all'eternità. E da domani per Rai Cultura debutta su Rai 5 in seconda serata con il programma che non a caso si intitola: Appresso alla musica, in due si racconta meglio, secondo comandante il suo sodale Gegé Telesforo. Venti puntate dal lunedì al venerdì con i i materiali di repertorio rimasterizzati, di D.O.C., ideato e condotto con Monica Nannini e Telesforo in onda dall'87 all'89. «Ma regaliamo anche un repertorio inedito, di "memorabilia" irripetibili».
Arbore, di che cosa va più orgoglioso?
«Del lavoro. Sono conosciuto per Quelli della notte e Indietro tutta ma io ho inventato 25 format per la tv e per la radio, ho lanciato tanti talenti con L'altra domenica, ho lavorato con Corrado, Gigli, Luttazzi. Ci abbiamo messo due anni io e Telesforo per riorganizzare tutto il materiale. Orgoglio anche per la mia Orchestra Italiana. Abbiamo lavorato dal 1991 al 2021, sessanta concerti all'anno, in Italia e all'estero, l'orchestra più longeva del mondo».
Con chi ha avuto più feeling?
«Con Lucio Dalla si era stabilito un rapporto di amicizia, anche con Jannacci. Grande simpatia con Dee Dee Bridgewater, James Brown, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Solomon Burke, Rufus Thomas, Pat Metheny, Manhattan Transfer, Chet Baker, l'armonicista Toots Thielemans, Joe Cocker, Jimmy Smith...».
Il meglio della musica mondiale. Le manca tutto questo?
«Moltissimo».
Dai suoi programmi cult pare non sia passato un giorno...
«Già dagli inizi della mia carriera ho lavorato perché il mio repertorio sopravvivesse al 2050. Non sono mai andato dietro alla moda. Anche il pubblico presente nelle trasmissioni non ha età: jeans e camicia a quadri gli uomini e anche le donne con vestiti classici. Ho sempre rincorso l'evergreen, le mode non le ho neppure anticipate, non mi interessano».
Cosa vuole fare con questo programma?
«Recuperare ai giovani il repertorio brillante, un'operazione che investa il pop e il jazz che fa parte della nostra cultura. Non per nostalgia ma per andare avanti forti del passato».
Tra i ricordi più belli?
«Le improvvisate. Piero Angela al pianoforte con Dalla al clarinetto, Mina che venne a cantare accompagnata dal più grande flautista italiano, Gino Marinacci. James Brown che non aveva capito d'essere stato invitato per cantare due o tre canzoni ed era partito per un concerto intero e non sapevamo come fermarlo, un timidissimo Romano Mussolini».
È vera quella gaffe con Romano Mussolini?
«Sì, per dire quanto i jazzisti vivano fuori dal mondo. Un collega lo doveva incontrare a Milano e gli diede appuntamento a Piazzale Loreto. Lui si limitò a dire "Non mi sembra il caso"».
Lei era anche molto amico di Gigi Proietti. A casa della comune amica Marisa Laurito si suonava fino all'alba vero?
«Molto amici. Improvvisavamo cantando vecchie canzoni d'epoca, io napoletane, lui romane. Una gara di risate».
Benigni l'ha lanciato lei...
«Lui è sempre molto affettuoso con me, memore di tutto quello che abbiamo combinato per L'altra domenica».
Lo sa che lo sketch con Carlo Verdone garibaldino sopravvissuto e lei lo intervista ai giorni nostri era il preferito di un passato premier e di un passato pontefice?
«Ma pensa, non lo sapevo. Io pensavo fosse più famosa quella, sempre con Verdone, di Padre Severino al conclave».
La sua satira non è mai legata a l presente. Lo fa sempre per arrivare al 2050?
«Non mi piace fare satira del contingente. Forse non lo so fare. Non metto quasi mai richiami all'attualità, i miei personaggi sono inventati. Si fa per non invecchiare, l'ho imparato da Walter Chiari».
Oggi chi le piace?
«Ho visto con piacere quel Claudio Lauretta che mi imita, bravissimo. Mi piacciono Lillo e Greg. Il più vicino a me è certamente Fiorello per le sue improvvisazioni curiose. Ma si ride ancora con Frassica, il ricambio non c'è e lo stand up è un'altra cosa. Ora tengo d'occhio Stefano De Martino, sorridente, capace».
E tra le donne?
«Non vedo un'altra Raffaella Carrà».
Che televisione guarda?
«La fiction quando è buona e la tv della parola. Dunque ahimè, vedo i talk politici perché è televisione pura. E visto che il varietà non esiste più, vedo i talent, X Factor, Tu si que vales, Amici e Mara Venier per la conversazione sorridente. Lei me ne riconosce la paternità. Le ho sempre consigliato di non ingarellarsi con le urlatrici e trovare una formula gentile».
E adesso?
«Adesso sono stato insignito della massima onorificenza della Repubblica, Cavaliere di Gran Croce. Ho chiesto a Mattarella perché l'hanno data a me, lui mi ha risposto che è per tutta la mia attività. Ne sono felice, spero c'entri anche l'impegno per la Lega del filo d'Oro, per le persone sordocieche a cui sono vicino da anni. E poi Casa Arbore a Foggia, a Palazzo Dogana, un museo con tutte le mie collezioni di modernariato, la plastica, i gilet, le radio americane».
Che cosa le manca?
«La famiglia, non ho fatto a tempo. Mi sono distratto».
In compenso tanti amici.
«È tanti ne ho persi, De Crescenzo, Boncompagni, Marenco, Proietti. Mi difendo dalla malinconia lavorando».
Maria Elena Barnabi per Gente l'8 ottobre 2022.
L’uomo che ha portato la musica nera in Italia e la musica italiana all’estero, l’uomo che ha inventato format, scoperto talenti, cambiato la faccia della Tv e della radio, insomma, l’uomo che ha forgiato la cultura popolare del nostro Paese risponde al telefono con voce forte e chiara e la sua inconfondibile erre moscia. Renzo Arbore, 85 anni, ha da poco perso il fratello maggiore Alfonso, di 91 anni, ma di questa perdita non vuole parlarne. «Sono stati giorni dolorosissimi», dice soltanto. E noi rispettiamo il suo volere. E così cominciamo a parlare di musica e del nuovo programma che vede il suo ritorno in Tv dopo tanti anni.
Si chiama Appresso alla Musica (venti puntate dal 10 ottobre su Rai 5 in seconda serata) e Arbore lo conduce con il musicista Gegè Telesforo, suo storico sodale. Sarà un viaggio dentro apparizioni televisive di culto dagli anni Settanta ai Novanta, molte prese dal suo mitico programma Doc, altre provenienti dall’archivio privato di Arbore stesso. «“Stai sempre appresso alla musica anziché studiare”, diceva mio padre», racconta Arbore. «E così con questo titolo l’ho voluto omaggiare. Anche se comunque io la laurea in Legge la presi, ai tempi. Poi però non ne feci più niente».
Raccontaci le chicche che vedremo nel tuo programma.
«Il grande musicista jazz Miles Davis, che dopo vent’anni viene a cantare in uno show televisivo: prima aveva mandato una squadra di tecnici per verificare l’acustica degli studi. James Brown che improvvisa un concerto con Joe Cocker. Enzo Jannacci che canta Ho visto un re con Dario Fo».
Tutta gente che negli anni d’oro passava da casa tua a Roma e veniva alle tue mitiche feste.
«Ci siamo molto divertiti. Una sera, mentre suonavo il clarinetto, mi avvisarono che in giardino c’era Robert De Niro. E fu sempre a casa mia che debuttò Paolo Conte. Che tempi, che artisti».
Renzo, dicci la verità: la musica di oggi rispetto a quella di ieri...
«Quella di ieri aveva più qualità. I musicisti di allora, quelli che abbiamo messo nel programma, sono stati quasi tutti inventori di genere, di musica “sempre verde”, evergreen, che sarebbe sopravvissuta agli anni. Lucio Battisti, Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Enzo Jannacci, Dario Fo, Fabrizio De André... Hanno scritto pezzi che hanno rilanciato la canzone italiana nel mondo: basti pensare a Caruso di Lucio Dalla».
Ci sarà pure qualcuno di quelli di oggi che ti piace.
«Francesco Gabbani è bravo. Simone Cristicchi pure. Ma non voglio dire altro, che poi si creano gelosie».
Comprensibile: avere un tuo apprezzamento per un artista è importantissimo. Hai scoperto mille talenti, dal grande Mario Marenco a Nino Frassica. Come hai fatto?
«Scoprire il talento è una particolare qualità che ho. Riconosco le famose candeline negli occhi. Quando uno è in sintonia con te, del resto lo capisci subito. Con Nino Frassica a Quelli della notte andò così: scattò subito qualcosa tra di noi. In un secondo capii tutto. E anche con Mario. Per lui e per i suoi personaggi strampalati poi avevo un debole».
Come tutti del resto. Qual era il segreto delle tue trasmissioni di culto, da Alto gradimento in radio a L’altra Domenica in Tv?
«Io e Gianni Boncompagni facevamo programmi del sorriso, mai volgari. Avevamo deciso di evitare il cattivo gusto, non scherzavamo sulle malattie per esempio. Tenevamo conto del grande pubblico cui ci rivolgevamo».
Hai anche portato in Tv una band di uomini vestiti da donne. La domenica pomeriggio.
«Era il 1978 e Le Sorelle Bandiera furono il primo trio en travesti della televisione italiana. Avrebbero potuto dare scandalo, offendere i benpensanti e invece no: erano talmente graziosi, eleganti e non volgari che furono accettati anche dalle mamme che vestivano i loro figli a carnevale come loro».
Confermo. E tutti noi bambini degli anni Settanta cantavamo la loro Fatti più in là, sigla di L’altra domenica. Sai che hai influenzato ben più di una generazione?
«Mi fermano persone di ogni età, e mi dicono che sono cresciute ascoltandomi. La buona musica va avanti, piace. Il merito è dei genitori, dei nonni che hanno educato i ragazzi».
E tuo. Hai portato la musica italiana all’estero con L’Orchestra Italiana. Quanti concerti hai fatto?
«In trent’anni circa 1.600. Siamo stati in tutta Italia, che è il Paese più bello del mondo. E poi ovunque, dalla Cina al Sudamerica. Ricordo ancora il concerto del 1993 al Radio City Music Hall di New York, il tempio della musica americana. Due giorni prima ci aveva suonato Ray Charles».
Non eri mai a casa e non ti sei mai sposato, neppure con Mariangela Melato, il grande amore della tua vita. Siete stati insieme per anni, poi vi siete lasciati e quindi ritrovati fino alla sua scomparsa (avvenuta nel 2013). Sei uno scapolo convinto?
«Non ho mai deciso di non sposarmi. La vita è così, c’è stato un allontanamento e poi un momento di dolore. E così il matrimonio non c’è stato. Del resto sono stato ripagato con altre soddisfazioni di lavoro che forse, se fossi stato sposato, non avrei potuto ottenere».
E Mariangela?
«Con lei ho avuto questa storia importante, che è finita. E poi è ricominciata: l’ho assistita fino alla fine. Il codice di Mariangela Melato è rimasto nel mio cuore. Però queste sono cose intime».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
Con qualche giorno di ritardo (al primo spazio libero) festeggiamo anche noi i primi 85 anni di Renzo Arbore. L'ha già fatto la Rai con diversi appuntamenti, da Techetechete' a L'altra domenica essential. Cosa si può ancora dire di Arbore, uno dei rarissimi personaggi televisivi di cui tutti hanno tessuto l'elogio?
Forse avremmo dovuto insistere di più sul suo ruolo di talent scout (quando i talent non esistevano e bisognava avere doti non comuni di scout). Forse avremmo dovuto sottolineare con più forza la sua capacità di trarre dalle persone il meglio (dopo di lui solo Fiorello ha questa magica dote): uno dei suoi meriti più grandi, infatti, è stato quello di aver sempre ricreato nei suoi programmi (e nella sua orchestra) un clima amicale, di complicità: si ride, si scherza, ci si abbandona ai giochi di parola, ai doppi sensi, a un repertorio da teatro di varietà.
Il suo intuito e il suo fondamentale buon gusto gli hanno permesso di attraversare indenne ogni eccesso kitsch, producendo effetti ironici, generando maschere e tormentoni che sono dilagati fuori dei confini catodici per entrare nel linguaggio comune.
Lo abbiamo scritto tante volte ma è importante ripeterlo: l'originalità della sua proposta è sempre consistita nella contaminazione tra cliché forti e improvvisazione, fra generi diversi e una vivida tradizione del varietà, fra professionalità e dilettantismo (meglio, una professionalità che si compiace di essere dilettantesca, quasi goliardica).
Arbore ha fatto musica e tv sapendo che esse sono anche radio, cinema, teatro. I suoi programmi e i suoi concerti vivono ancora oggi di schegge che ruotano intorno alla sua garbata e calamitante presenza: giochi, parodie, sketch, personaggi non si assommano per annullarsi, ma si scontrano per accendersi. La jam-session è sempre stata la matrice delle sue trasmissioni, dove preparazione e improvvisazione si intrecciano e si sublimano.
Marianna Aprile per OGGI il 12 giugno 2022.
Se alla tv e allo spettacolo italiano togliete quel che ci ha messo Renzo Arbore diventano più grigi e poveri. E noi con loro. Alla vigilia di un compleanno importante (il 24 giugno saranno 85) e di un annuncio sofferto, abbiamo chiesto al più colorato degli showmen di contare i talenti scovati e lanciati in oltre 50 anni tra tv, cinema, radio e musica. «Circa 100, da Giorgio Bracardi e Mario Marenco di Alto Gradimento, con Gianni Boncompagni, a Ilaria D’Amico, a Rai International. Da un po’ mi sono fermato. Navigo molto cercandone di nuovi in Rete, ma umoristi cui devi solo alzare la palla perché la schiaccino, come Nino Frassica, non ne vedo. Mi spiace solo di non essere stato io a scovare Valerio Lundini».
Arbore e uomo di prime volte: «Pensavo sempre “se non lo ha fatto nessuno, lo faccio io”. Tra le primogeniture di cui vado più fiero c’è l’aver inventato “le donne parlanti” in una tv di vallette mute. All’epoca con Mariangela (Melato, ndr) frequentavo le femministe. Le vedevo protestare contro tutto e non capivo perché non andassero sotto la Rai a pretendere che le donne in tv avessero anche una voce.
All’Altra domenica volli quindi le inviate: Milly Carlucci, Silvia Annichiarico, Fiorella Gentile, Stella Pende, Irene Bignardi e Isabella Rossellini, da New York. Ero colpito dalla sua grazia e dal suo talento di giornalista. E poi c’erano le Sorelle Bandiera, primo gruppo en travesti quando era ancora impensabile un uomo vestito da donna».
Quindi la sua fu un’azione politica?
«Per carità. Ho fatto quel che ho fatto solo perchè sono nato a Foggia. Volevo sprovincializzarmi e, facendolo, ho sprovincializzato il pubblico. Volevo scoprire com’era il mondo e l’ho mostrato agli altri. Raccontavo lo Studio 54 e il CBGB, il locale di New York dove nacque il punk, mostravo i seni nudi del burlesque a Parigi, le gare tra brutti in Romagna. A chi lavorava con me ripetevo che l’obiettivo era razzolare nell’inconsueto. Avendo come molla la noia della provincia e come stile la “chiacchiera disutile” che a Foggia facevamo nei bar».
Che cos’e la chiacchiera disutile?
«Quella che indugia ore chiedendosi se sia meglio il mare o la montagna, che da musicisti si fa per decidere se sia più bella Tutti Frutti o Lucia. E la leggerezza, il superfluo, lo sfotto che nei bar arriva dopo la grappa. Nella mia tv, raggiunse l’apice in Quelli della notte, programma nato da una paura».
1985, giovane e di successo. Che cosa temeva?
«Di essere percepito come vecchio. Dopo il successo dell’Altra Domenica mi chiesero un programma sui 60 anni della radio. Feci le 5 puntate di Cari amici vicini e lontani, con picchi di 18 milioni di spettatori. Ospitai i piu grandi giornalisti e cantanti, feci rifare l’annuncio dell’armistizio da chi lo aveva fatto all’epoca. Pensai: “Ce l’ho fatta”, ma subito dopo iniziai a temere che mi si percepisse come uno con lo sguardo al passato, io che in radio facevo Per voi giovani. Andai da Giovanni Minoli e dissi: “Voglio fare un programma con facce mai viste”. E cosi fu Quelli della notte: 40 sconosciuti tra cui Stefano Palatresi, Antonio e Marcello, Nino Frassica, il Maestro Mazza, Gege Telesforo, Maurizio Ferrini, Riccardo Pazzaglia, Roberto D’Agostino, Dario Salvatori, Simona Marchini, Marisa Laurito. Un botto che mi mise addosso un timore più grande: quello del flop».
Ancora paura. Stavolta come l’ha esorcizzata?
«Facendo qualcosa di ancora diverso, Indietro tutta!, che lancio Francesco Paolantoni, le ragazze coccode col loro cacao Meravigliao, e lo sfotto sull’Auditel. Io con l’Auditel ce l’ho a morte».
Che cos’e che non le piace?
«Non sono mai stato comunista, ho sempre creduto nel mercato, da liberale. Ma i prodotti culturali non sono come gli altri, per la creatività dovrebbero valere altre leggi, non quella dei numeri. L’Auditel valuta la quantità non il valore di un’opera. Penalizza contenuti e creatività. E quello che in fondo ho teorizzato in Speciale per me, meno siamo meglio stiamo, che poi invece fece ascolti altissimi».
Rivendica le donne parlanti, ma in tv ha portato anche donne “decorative”. Una contraddizione?
«La conferma che non c’era niente di politico e che il solo obiettivo erano l’inconsueto e il disutile. Le cose utili le facevano già gli altri. Prenda Lory Del Santo. Io e De Crescenzo la notammo in un ristorante romano frequentato da craxiani e gente dello spettacolo. Ci sembro perfetta per fare la segretaria che distraeva i discorsi di noi due, prototipi di maschi italici, in Tagli, ritagli e Frattaglie, nel 1981. Con lo stesso spirito, pero, nel 1969 avevo messo in piedi il primo talk show, Speciale per voi, con uno studio pieno di ragazzi liberi di chiedere qualsiasi cosa a chiunque, da Luciano Salce a Paolo Poli, che parlava di omosessualità in una Rai per la quale neanche esisteva. Li lanciai Lucio Battisti, Cochi e Renato e Gabriella Ferri, che era stata la mia prima fidanzata romana».
Che coppia siete stati?
«Libera, beat, per 2 anni. Nel 1964 partii da Napoli verso Roma con la mia 500 targata Foggia. Arrivato in Piazza del Popolo, vidi Gassman, Manfredi... Scoprii che gli artisti si incontravano al Caffe Rosati, al pomeriggio. Scesi dalla macchina la Ferri urlo: “E tu chi sei? Annamo a balla”. La seguii in via Margutta, ci fidanzammo quella sera. Una donna straordinaria».
Non possiamo elencarne 100, ma un passaggio su Roberto Benigni e doveroso. Come lo scopri?
«A un festival a Fiuggi. Gli chiesi “che fai la domenica?” e lo convocai a casa mia chiedendogli di improvvisarsi critico cinematografico di film che non aveva visto. Fu perfetto, tutto improvvisato. Ecco, la mia fortuna più grande e stato aver iniziato come musicista jazz, dall’improvvisazione. In tv ho provato a fare il jazz della parola».
E poi c’è la relazione più lunga della sua vita, quella con L’Orchestra Italiana. «L’orchestra stabile più longeva della storia della musica: 30 anni, circa 1.800 concerti, 16 persone che dal 1991 hanno portato la musica napoletana, ai tempi percepita come obsoleta, ovunque. Il primo concerto occidentale nella Piazza Rossa ai tempi dell’Urss, la Cina, il Giappone, l’Australia, il Sud America grazie a quel fantastico pazzo di Adriano Aragozzini.
L’emozione più grande nel 1993 al Radio City Music Hall, il giorno dopo Ray Charles. Ero incredulo e felice. Era da quando ero ragazzino che andavo “appresso alla musica”, come diceva mio padre. Ora pero considero conclusa la mia missione con l’Orchestra, c’è l’età, ci sono stati i due anni fermi per la pandemia. Loro andranno avanti, si chiameranno Noi, la Nuova Orchestra Italiana».
Quindi sta per inventarsi qualcos’altro?
«Ho lanciato l’app Renzo Arbore Channel su cui pubblico video. A fine anno inauguro a Foggia Casa Arbore con tutte le mie collezioni di radio, oggetti in plastica, souvenir presi in giro per il mondo. E a ottobre, su Rai 5, con Gege Telesforo andrò in onda con 20 puntate di un programma nuovo. Che ovviamente si intitola Appresso alla musica. Mica smetto».
Renzo Arbore: «La guerra? Ricordo la fame, a cinque anni. Poi la tv: ho fatto parlare per primo le donne. Melato? Ci capivamo in silenzio». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2022.
Il conduttore si racconta a tutto tondo dopo la nomina a cavaliere di Gran Croce.
Renzo Arbore cavaliere di Gran Croce. Che impressione ti fa?
«Ho sorriso, quando il Quirinale mi ha chiamato, non me lo aspettavo. Poi ho chiesto: “Ma ho fatto qualcosa?”. Mi hanno risposto “No, perché sei Arbore”. Il Presidente mi ha spiegato che è per il mio lavoro e per l’ impegno nella solidarietà. Cavaliere di Gran Croce è una benemerenza che emoziona, è la più alta onorificenza per meriti civili. Io non so quali meriti abbia, ma mi fido del Presidente. Ho razzolato molto nello spettacolo italiano, non solo nella televisione. Ho fatto tutto: musica, radio, cinema, teatro e ora persino i social. Non devo aver fatto danni.»
Che opinione hai di Mattarella, al di là del fatto che ti ha nominato Cavaliere?
«E’ stato un grande presidente, silenzioso quanto equilibrato. All’inizio fu accolto senza grandi emozioni ma in sette anni si è conquistato consenso e simpatia. Un presidente riservatissimo, con una naturale timidezza, oggi amato da tutti. Penso di lui tutto il bene possibile. Ha conquistato anche gli scettici».
Facciamo un passo indietro. Raccontami Renzo bambino e la guerra.
«Della guerra io l’odore l’ho sentito, ricordo la fame di quei giorni. Ero sfollato a Chieti, ci fu un bombardamento nel Circolo degli Amici e nel ristorante Venturini, dove eravamo rifugiati in trentacinque. Avevo cinque anni, però ho capito cosa significava la parola guerra. Significava paura, fame, sangue, distruzione, abbandono della propria casa. L’arrivo degli americani è stato scioccante ma meraviglioso. E’ lì che mi sono innamorato di quel mondo. Un amore che non mi ha mai lasciato. Quando vedi andarsene via i nazisti armati di tutto punto, tutti mimetizzati, con i pugnali nei pantaloni, scuri, cupi, tetri e poi vedi arrivare le jeep degli americani con la musica, i piedi sui parafanghi, la cioccolata, le sigarette e i VDisc ti rendi conto della differenza tra dittatura e libertà».
Quale è la prima volta in cui hai suonato uno strumento musicale?
«La prima volta è stata una chitarra. Poi sono passato alla tromba. Ma quella che avevo comprato io era di seconda mano, per di più storta e non riusciva ad emettere dei suoni. Allora l’ho data ad un mio amico che aveva la passione per la tromba ma suonava il clarinetto, che mi ha prestato in cambio. E’ stato grazie a Franco, un trombettista di Foggia, che ho cominciato a strapazzare il clarinetto».
Cos’era la radio per te in quegli anni?
«Io ascoltavo Radio Bari, tanto che poi ad ‘Alto gradimento’ mi sono anche divertito a fare “Qui Radio Bari, ci avete chiamato?”. Ci si sintonizzava all’ora di pranzo la domenica, si mangiava quello che si poteva perché non c’era tanto e però si sentiva la radio. Poi ho cominciato a costruirmi la mia radio, a galena. Usavo le cuffie che avevano lasciato gli alleati e così ascoltavo stazioni incredibili, lontane nel mondo. I nostri invidiatissimi eroi della radio erano i fratelli Judica Cordiglia. Vivevano a Torino e sostenevano addirittura di aver registrato la voce di un astronauta sovietico che si diceva scomparso nello spazio all’insaputa del mondo. E’ rimasta una leggenda, per noi appassionati della radio».
Quanto di quello spirito c’è nella meravigliosa avventura dell’”Orchestra italiana”?
«Per me una delle ragioni della benemerenza è questa: io per trent’anni, dal ’91 al ’21, ho fatto vivere l’Orchestra italiana, la più longeva orchestra stabile mai esistita al mondo. Neanche Duke Ellington, nessuna orchestra è durata tanto. Abbiamo calcolato che facendo sessanta, settanta concerti all’anno, in tre decenni noi abbiamo fatto più di millecinquecento concerti. Dall’Australia all’Unione Sovietica, fino alla Russia di oggi. E poi il Nord America, Sud America, Cina, Giappone, Francia, Spagna, New York non ne parliamo. Però questa cosa è stata divorata dalla fama televisiva. Si ricorda spesso il primo grandissimo concerto a Radio City Music Hall nel ’93 quando abbiamo fatto sold out per giorni. Poi siamo andati in giro per il mondo, portando Italia, ma non faceva più tanto notizia. Ciò di cui siamo orgogliosi è aver fatto rivivere la grande canzone napoletana rispolverandola, riadattandola. Mai mortificandola nell’inseguimento di mode effimere e spesso volgari.»
Renzo quale è la più bella canzone italiana?
«La sigla dell’orchestra: “Era de maggio”. L’abbiamo proposta quando nessuno la conosceva, adesso tutti la cantano. Da bambino, a casa mia, dalle stanze che affacciavano sul retro ascoltavo i muratori cantare napoletano. Ma dall’altro lato dell’appartamento si sentivano gli americani nel palazzo di fronte, al Circolo ufficiali, che facevano le prove delle loro canzoni. Io ero in mezzo e assorbivo, come una spugna, queste due meravigliose suggestioni. La passione per le canzoni napoletane mi è tornata forte anche perché erano le musiche che cantavano quelli che noi chiamavamo i faticatori, cioè gli operai che stavano ricostruendo Foggia che fu bombardata severamente e che era tutta distrutta. I muratori ritiravano su la città cantando canzoni napoletane. Allora la canzone italiana quasi non c’era, si identificava con quella di Napoli».
Di ‘Alto gradimento’ quale è il personaggio al quale sei più affezionato?
«Il più scombiccherato era Anemo Carlone. Lo ricordo con particolare affetto perché quando Gianni Boncompagni stava poco bene io lo andavo a trovare, gli mettevo sempre Anemo Carlone e lui rideva, facendomi felice. Anemo Carlone era un barone della medicina. Solo l’elenco dei titoli faceva ridere: docente di brufomania, tutte cose così. Era la geniale follia di Mario Marenco, maestro del surreale. Ho un grande rimpianto per tutti gli amici di quella trasmissione che non ci sono più».
Quanto ti divertivi?
«Moltissimo, con Giorgio Bracardi coautore, con Marenco, era una festa andare a lavorare: ci divertivamo proprio. Non abbiamo fatto satira, che non ho mai amato particolarmente. Noi facevamo autentico cazzeggio, quello che adesso langue ovunque. Cazzeggio che io poi ho portato in televisione con “Quelli della notte”».
“Per voi giovani” è stato il ’68 alla radio? E tu come hai vissuto quel periodo?
«Per la verità il ’68 io lo raccontavo, soprattutto sul versante dei nuovi linguaggi e dell’emergere di una generazione. Ma lo guardavo con sospetto. Io ero liberale, ero liberale perché filo americano, allora si diceva a-comunista con l’alfa privativo. Non volevo dire anticomunista perché tutti i miei amici erano comunisti, compresi Gianni e Raffaella».
Di “Speciale per voi” quale è stata la puntata più difficile?
«Una nella quale avevo bevuto un po’ troppo per vincere la timidezza e sono stato sostituito da Villaggio che era lì. Il programma lo facevano i protagonisti e il pubblico che rivolgeva le domande. Interpretava lo spirito del tempo: la voglia di dibattere tutto. Pubblico e personaggi dialogavano o litigavano. Si ricordano gli scontri tra i ragazzi e Claudio Villa, Caterina Caselli, Don Backy. Era tutto vero, tutto sincero. Ma due anni dopo mi chiusero la trasmissione. Forse proprio per questo».
“L’altra domenica” cosa è stata dal punto di vista del linguaggio televisivo? Per me una autentica rottura degli schemi…
«Una vera rivoluzione, devo dire la verità. Il mio obiettivo era sempre quello di fare il contrario della televisione ammiraglia, di quella tradizionale. Quindi laddove c’era la grande orchestra io pigliavo Otto e Barnelli. Laddove c’erano le vallette mute io sceglievo delle ragazze cosiddette parlanti. Ed erano Isabella Rossellini, Stella Pende, Milly Carlucci, Mimma Nocelli, tante. Le ragazze parlanti allora in televisione erano solo due: Bianca Maria Piccinino che faceva la moda sul Tg1 ed Enza Sampò. Le altre erano vallette. Io pensavo: “Ma insomma tutte queste femministe non se la pigliano con la televisione che usa le donne solo come abbellimento?”. Laddove tutto era controllato e rigido io mettevo il telefono a disposizione del pubblico. Era la prima volta. Diciamo che le primogeniture dell’Altra domenica sono state tante: le Sorelle Bandiera, Benigni critico cinematografico, i “Gasad” , gruppi a sinistra dell’Altra domenica, con il Papa che giocava a tennis con Adriano Panatta e vinceva grazie all’aiuto dello Spirito Santo, che realizzavamo con Manuli e Nichetti. Poi il valletto Andy Luotto. Erano tutte primogeniture, erano tutte assolute novità».
Però era anche un programma pieno di informazioni, di stimoli.
«Infatti. Checchè se ne pensi non era cazzeggio puro. Sotto sotto facevo vedere spettacoli di italiani e stranieri attraverso Isabella Rossellini, Françoise Riviere, Michael Pergolani, per sprovincializzare un po’. Soprattutto me stesso, perché io venivo dalla provincia e avevo trascorso intere nottate in conversazioni sui turbamenti della moglie dell’avvocato. Avevo la presunzione di far vedere cose inconsuete. Avevamo uno slogan: “Razzolare nell’inconsueto”. Per la prima volta si vedevano in Rai delle feste gay, oppure le sagre paesane di cui non si parlava mai. Tutto ciò che era inconsueto veniva scelto, in “L’altra domenica”».
E a proposito di primogeniture, come ti è venuta invece l’idea di “Quelli della notte”?
«Nel 1984 Rai Uno mi affidò il compito di festeggiare i sessant’anni della radio e feci “Cari amici vicini e lontani”. Un programma preziosissimo. Bello da conservare perché è un programma di storia. C’è tutto il Gotha dello spettacolo italiano, perché tutti erano passati da Via Asiago. Vennero Ruggero Orlando, Alberto Sordi, Nunzio Filogamo, Silvio Gigli, Nilla Pizzi, il duo Fasano, Titta Arista, Pippo Barzizza. E poi Raimondo e Sandra, Corrado, Baudo, Boncompagni, tutti i protagonisti della radio della domenica mattina di Gran varietà. C’era Monica Vitti che cantava La paloma blanca, c’era Antonioni, c’erano Rame e Fo. Nel 2024 saranno i cento anni di Radio Rai e sarebbe bello rivedere “Cari amici vicini e lontani”. Con questo programma arrivammo a diciotto milioni di ascoltatori. Però era un programma retrò, non per giovani. Si basava sulla nostalgia, sulle vecchie canzoni».
E questo successo ti spaventava?
«Naturalmente! Mi dissi “E mo’, che faccio?”. Mi risposi: “Devo fare una cosa per ragazzi, totalmente diversa”. Sono stato sempre alla ricerca dell’uovo di Colombo, del nuovo, del ribaltamento. L’uovo di Colombo era allora fare un programma totalmente diverso con quaranta facce mai viste prima. Andai da Giovanni Minoli che sposò il progetto. Allora, attingendo alla mia agendina, chiamai a raccolta Gianni Mazza, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini e Maurizio Ferrini, poi il giovanissimo Frassica e tutti gli altri. “Quelli della notte”, che costruii con Ugo Porcelli, è stato un successo incredibile, entrò nel modo di parlare, cambiò anche la comicità in televisione. Ancora oggi, con l’Orchestra, quando canto “Ogni giorno la vita è una grande corrida’ c’è un coro che prosegue ‘Ma la notte no’. E’ un cult, anche per chi non l’ha vissuta. Furono mesi di successo folle. Tutti volevano qualcosa da me e da noi. Avremmo potuto fare chissà che cosa: soldi, imprese, cotillon…. Invece me ne andai in America per due mesi».
Scegliamo due di quella squadra fantastica: Pazzaglia e D’Agostino.
«Pazzaglia era l’umorista più forte che io ho conosciuto, insieme a Mario Marenco. Per me Pazzaglia è un grande maestro, non per niente ha scritto bellissime canzoni. Non soltanto “Meraviglioso” ma anche “Io mammeta e tu” o “Ah che bello o’ cafè, solo a Napoli lo sanno fa”. E’ un po’ dimenticato e mi dispiace. Ma Pazzaglia aveva un umorismo sottilissimo, forse fin troppo in anticipo sui tempi. Era tanto modesto quanto bravo».
E D’Agostino?
«Dago era già uno studioso del costume, faceva dei raid notturni per sapere quello che succedeva in città, nei locali. Ha avuto sempre grandissima curiosità per tutto quello che succedeva, per tutto quello che stava cambiando. “L’edonismo reaganiano” fotografava con nitidezza un passaggio del modo di vivere il proprio tempo».
Per fortuna ora molto del tuo lavoro è reperibile in rete.
«Io bazzico molto la rete. Ho un canale che si chiama RenzoArborechannel.tv. Ora c’è pure l’applicazione. Lì si trovano anche tutte le puntate di ‘Meno siamo meglio stiamo’, che sono bellissime. Guardati le ospitate di Benigni, Proietti, Banfi, di Jannacci che il giorno del mio compleanno mi fece piangere».
Tu ami il varietà, genere negletto dai maestri del sopracciglio alzato. Le tue improvvisazioni con Banfi e Mirabella in “Aspettando Sanremo” erano e sono esilaranti….
«Noi eravamo veramente incoscienti. Il varietà si fonda sempre sulla improvvisazione. Farlo in “Quelli della notte”, in un salotto di amici era già difficile ma improvvisare al Teatro delle Vittorie con un pubblico presente, grande, numeroso che vuole sentire le battute e ridere è da irresponsabili. Abbiamo potuto farlo perché c’era Lino che è un grande professionista e Mirabella, una persona di grande intelligenza che capì subito quello che doveva fare. Quel ruolo l’avevo pensato per Vittorio Gassman che dopo mi rimproverò per non averglielo proposto. Doveva essere il grande solone dell’accusa che si vanta dei titoli accademici e ha come assistenti due che si chiamano Smith Wesson. Mentre Banfi si chiamava Passalacqua. Puoi immaginare. E ci divertivamo tanto con un altro specifico del varietà: il gioco di parole e l’apologia del doppio senso».
Quanto ti dà fastidio il politicamente corretto?
«Obama, in una bellissima intervista da Fazio, ha detto “Tutti fanno quello che a loro conviene e non quello che è giusto”. Questo è ciò che mi dà più fastidio. Anche il politicamente corretto viene usato spesso solo perché conviene, non per convinzione. Ma, diciamoci la verità: tanto più in questi tempi caotici, anche essere politicamente scorretti è conveniente, garantisce visibilità, scambiata per successo. Quello che non si dice è che dietro tutto questo c’è solo l’ascolto, l’Auditel. La mia frase, non ripresa da nessuno, è “Auditel, Auditel quanti delitti si compiono in tuo nome”. E’ una frase irriverente, presa dalla mia cultura cattolica, apostolica, foggiana. Il successo commerciale una volta era addirittura una colpa, se un cantante vendeva troppi dischi veniva guardato con sospetto. Ora è il contrario. E’ la quantità che viene assunta come parametro della qualità. Se un programma fa ascolto vuol dire che è bello. Se magari cerca strade nuove, più difficili e queste non incontrano subito il gusto del pubblico allora è un fallimento. Non si trova mai un equilibrio. La cultura la si fa cercando di dare al pubblico più ampio le cose più belle».
“Quelli della notte” non faceva milioni di ascoltatori ma è rimasto nella storia del linguaggio e della cultura di massa e invece programmi con tredici milioni di ascoltatori non se li ricorda nessuno. Come spiegheresti ad un influencer questo paradosso?
«Vuoi sapere la verità? Io ho sempre pensato programmi, musica, persino film perché rimanessero nel tempo. La verità è che oggi si fanno i programmi per avere il successo del giorno dopo, quando alle dieci arrivano i dati dello share».
Quanto ti è pesata o ti pesa la pandemia?
«Moltissimo. Durante la prima pandemia ho riordinato molto della mia vita e di tutte le cose che ho in casa, raccolte in tanti anni. La Regione Puglia ha deciso di ospitare il mio modernariato e il materiale della mia attività in uno dei palazzi più importanti della mia città. Sarà Casa Arbore a Foggia, nel Palazzo della Dogana».
E invece la seconda pandemia ti ha sdraiato?
«La seconda pandemia mi ha praticamente immobilizzato a casa senza musica, senza orchestra, senza musicisti e quindi sto lottando. Mi pesa molto. Faccio la televisione da casa mia, faccio un programmino con Gegè Telesforo che andrà in onda dopo Sanremo per Rai 5. Si chiama “Appresso alla musica”. E’ la frase che diceva mio padre per rimproverarmi: “Invece di studiare tu vai appresso alla musica”».
Cosa speri per te e per l’Italia di qui in avanti?
«Spero che questa furiosa combattività che c’è, questo clima di odio, questo linguaggio violento, comincino a dissolversi. Spero ci sia il ritorno al volersi bene, all’apprezzare l’arte, la vita e gli altri. Spero in una Italia meno tesa».
Mariangela Melato, il tuo grande amore.
«Mariangela è il mio codice. Tuttora quando faccio delle cose o vedo in televisione cose che mi piacciono mi domando “Che ne avrebbe pensato Mariangela’”. E’ un codice, perché Mariangela oltre ad essere la grande attrice che sappiamo, era una donna divertente, colta, intelligente. Dava, delle cose e delle persone, dei giudizi silenziosi, perché non invidiava né parlava male di nessuno. Però noi due ci capivamo,sapevamo, ci guardavamo e io sapevo se una cosa lei l’approvava o no. In questo senso Mariangela era il mio codice».
Immaginiamo un momento di tristezza, in questi tempi cupi. Scegli un film che ti faccia ridere.
«Un film che mi fa sempre ridere è “I ragazzi irresistibili” con Walter Matthau e George Burns. Uno dei capisaldi del cinema comico perché dentro c’è tutto il mondo del varietà di una volta. I due vecchi attori si amano ma allo stesso tempo sono rivali. Però l’analisi del comico oggi va rivista. Ne parlavamo con Roberto Benigni. Ciò che un tempo non consideravamo abbastanza, come Franco e Ciccio, oggi ci sembra bellissimo. Una coppia così ci vorranno cento anni perché rinasca, comici davvero popolari. Ma non solo loro, anche Ric e Gian. E’ da rivedere il giudizio su alcuni dei protagonisti dello spettacolo degli anni passati. Oggi ce ne sono tanti altri. Lillo e Greg mi piacciono molto, fanno ridere senza fare facile satira. E poi Frassica, che continua la nostra tradizione. Cazzeggio puro, surreale e popolare».
Riccardo Chailly: «Mio padre le ha provate tutte per non farmi fare il direttore». Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.
Un fragoroso colpo di piatti. Riccardo Chailly bimbo sussulta, seduto nell’ultima fila dell’Auditorium del Foro Italico in Roma. Il suono lo travolge. Alla fine della prova della Prima sinfonia di Mahler, Riccardo sa che la musica sarà la sua vita. Qualche giorno dopo lo dice al padre, il compositore Luciano Chailly che lo aveva portato con sé in teatro. Cerca di dissuadere il figlio. Riccardo col tempo l’avrà vinta. Chailly oggi è tra i direttori d’orchestra più importanti al mondo. Tra i grandi interpreti mahleriani, di Verdi e Puccini. La sua filosofia di vita l’ha distillata proprio da Mahler: il valore del silenzio.
Possibile. Un direttore d’orchestra di fama mondiale che ai riflettori preferisce il silenzio «Il silenzio è una conquista e la mia è una solitudine costruttiva. Lo tenga presente. In una società così rumorosa il silenzio aiuta a riflettere. Una conquista faticosa, significa opporsi al sistema globale. Mi aiuta a concentrami nello studio. I silenzi sono parte integrante della musica, pensi alle cesure di Mahler. Se le comprendi affronti i grandi capolavori. Gli eventi della vita».
Chailly a Lucerna (Courtesy Marco Borggreve)
Ha dei luoghi dove «coltiva» questo suo silenzio solitario e costruttivo? «In Liguria, appena posso. Vi sono stato a giugno prima di andare a Orange la scorsa settimana con gli organici della Scala, e in vista del Festival di Lucerna che inaugurerò il 12 agosto prossimo. L’altra mia meta, i monti svizzeri».
Come li ha scoperti? «Li ha scovati mia moglie Gabriella. Si godono panorami unici: dalla nostra casa in pietra si vede il Golfo del Tigullio, mentre le vette dell’Engadina circondano il nostro chalet».
Chailly e gli organici scaligeri nel luglio 2022 al Festival di Orange
Solo silenzio e studio? Niente altro? «Se non sono concentrato su una partitura sono diventato bravissimo a godere del far nulla».
Quindi solo partiture? Altri ascolti, no? «Ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Da ragazzo amavo i Beatles e il blues americano. Ma anche figure come Paolo Conte e Gaber».
Ma la nomea di grande sportivo, a volte spericolato? Moto, cavallo, sci. Persino paracadute ascensionale trainato da un motoscafo. «Confermo. E col paracadute superavo i 50 metri di altezza. Sotto, il mare della Costa Azzurra. Sa cosa mi esaltava? Il vento nelle orecchie, immerso nel silenzio. Parentesi chiusa, però».
Dai silenzi ai suoni mitici: della Scala e dell’Orchestra del Festival di Lucerna, direttore musicale in carica di entrambe sino al 2025 e al 2026. La Scala, simbolo d’italianità. «Lo è sempre stata. Oggi in maniera imprescindibile. Vi ho debuttato nel 1978 con I Masnadieri di Verdi, avevo 25 anni e da cinque ero assistente di Claudio Abbado. Adesso ne ricopro lo stesso ruolo e porto avanti una tradizione. Il suono dell’orchestra scaligera è unico. Le continue incisioni discografiche confermano. Puccini e Verdi i capisaldi. Un successo i concerti scaligeri di cori verdiani nel giugno scorso, incisi live per Decca e proposti anche la scorsa settimana al Festival di Orange. Pubblico entusiasta».
Il melodramma, la voce del Paese. «La musica operistica italiana è andata oltre il concetto di melodramma. La Scala in tournée rappresenta la voce dell’Italia. Fa conoscere le radici della nostra cultura. Mai dimenticarlo».
Chailly e la Scala (Courtesy Scala/Brescia&Amisano)
A proposito di cori verdiani. Gli stessi del concerto con lo squillo del telefonino durante l’esecuzione alla Scala? Se ne è parlato molto. «È capitato. Il mio non è stato un gesto di stizza. Ho sospeso l’esecuzione per scrupolo, si era messo a rischio un suono ottimale. Fondamentale per la registrazione in corso. Testimoniava le eccellenze del teatro. Ci sono momenti unici da ricordare e lasciare alle generazioni future».
Sport spericolati Con il paracadute trainato dal motoscafo superavo i 50 metri di altezza. Che sensazione splendida il vento nelle orecchie mentre sei immerso nel silenzio
Chailly in Cina a Shanghai
Dal podio prontezza di spirito, ironia... «Quella sera ho voluto sdrammatizzare. Ma se non si ha il totale controllo dei nervi, meglio non salire sul podio. Aiuta nella concentrazione e ti dà la capacità di trasmettere la tua calma interiore all’orchestra che hai davanti».
Quindi, lei è paziente e con gran self control. «L’esatto contrario. Da sempre lotto con me stesso per l’autocontrollo. I miei musicisti lo sanno. Se ne accorgono dallo sguardo. Si immagini con la mascherina. Parlano forse prima le mie pupille del gesto della bacchetta».
Con la Filarmonica della Scala
Scala e Lucerna. Prima il Concertgebouw di Amsterdam e il Gewandhaus di Lipsia. Matrimoni artistici solidi. Come si fa? «Evitando la noia».
Intende quella del pubblico? «Nel rapporto con le orchestre. Mai annoiare i musicisti con il proprio repertorio. Tener vivo il rapporto. Uno scambio reciproco. Rifuggire il prevedibile. Equivarrebbe a burocrazia».
La figura del direttore d’orchestra spesso è vista un po’ come quella di un dittatore. «Curioso, la stessa iniziale. Un legame c’è. Dittatore? Forse un po’, ma democratico. Oggi tra i musicisti si è evoluto il rapporto democratico. Se una volta sul podio prevalesse l’aspetto dittatoriale, per il direttore sarebbe un immediato autogol».
Claudio Abbado e Chailly nel 1978 alla Scala alla prima de I Masnadieri di Verdi
Rapporti profondi, quelli con orchestre e teatri. Nella sua vita lo sono stati quelli con suo padre, con Claudio Abbado. E su tutti lo è quello con Gabriella, sua moglie. «Punto fermo nella mia vita. Imprescindibile. Considero il nostro rapporto un dono. Grazie a lei non mi sono mai sentito solo. Anche nei momenti di quella solitudine artistica legata all’impossibilità di realizzare un progetto».
Qui sotto una foto inedita dagli album privati della famiglia Chailly: un giovanissimo Riccardo Chailly mentre a letto studia una partitura, al suo fianco la moglie Gabriella autrice dello scatto, realizzato con le loro immagini riflesse nello specchio
Archivio Riccardo Chailly
Quello con suo padre Luciano un rapporto complesso, profondo, anche conflittuale. «Mio padre temeva facessi il musicista. Ne conosceva le infinite difficoltà. Compositore e direttore artistico di numerosi enti lirici compresa la Scala. Voleva evitarmi delusioni avute da tanti. Un continuo mettermi alla prova. Ho poi trovato la mia strada, il mio percorso di crescita. A mio padre è legato il mio primo ricordo musicale. Avevo pochi mesi. Di notte lo ascoltavo suonare. Componeva al pianoforte. Le melodie, benché il suo fosse un linguaggio contemporaneo non facile, attraversavano le pareti fino alla mia stanza».
Il self control Io mite e paziente? Sono l’esatto contrario: da sempre lotto con me stesso per l’autocontrollo. I miei musicisti lo sanno bene... ogni direttore è anche un po’ dittatore
Tra i lavori di suo padre la Missa Papae Pauli, scritta nel 1964 e dedicata a Paolo VI «Ero adolescente quando con mia mamma e le mie sorelle accompagnammo papà in Vaticano per essere ricevuti da Paolo VI. Un ricordo potente. Figura carica di magnetismo. La Missa un lavoro a cui mio padre teneva molto. L’ho diretta varie volte anche in Duomo con la Scala».
Partitura profonda. Come le Passioni di Bach. Un confronto con la spiritualità. Lei è credente? Quale significato ha la fede per lei? «La fede? Un atto di fiducia individuale. Dio è dentro di noi. Durante la pandemia mi ha toccato profondamente vedere papa Francesco solo, davanti a lui piazza San Pietro deserta. Un atto forte, simbolico. Se sono credente? Mi definisco un credente in ricerca. Le esperienze personali mi hanno aiutato nella ricerca in me stesso».
Riccardo Chailly (a destra) con il padre Luciano e la famiglia ricevuti da Paolo VI
In quali occasioni? «Diversi anni fa ho avuto un problema al cuore, subito risolto benché ricoverato d’urgenza. Da allora sono cambiato. Ho reagito immediatamente. Non volevo essere vittima di una situazione fuori dal mio controllo».
Come lo può essere la morte... «La musica mi ha sempre dato forza. La fiducia nel futuro. La sofferenza quando tocca l’uomo sul vivo lo costringe a riflettere. I miei problemi di salute mi hanno fatto capire l’importanza di saper scegliere i punti fermi della propria vita. I valori fondamentali della nostra quotidianità. Nulla è eterno. Una lezione che ci offre la natura. Impararla significa sapersi amministrare al meglio. Facendo fruttare ciò che ognuno di noi ha ricevuto. Una consapevolezza che mi aveva aiutato a superare la morte di mio padre».
Sono i 20 anni della sua scomparsa «Si è spento la Vigilia di Natale. Ero ad Amsterdam e non al suo fianco. Il giorno dopo dovevo dirigere in diretta il Concerto di Natale del Concertgebouw. L’ho affrontato. Poi mi sono chiuso in me stesso. A riflettere su vita, dolore, vuoto, perdita. La musica mi ha fatto reagire. Come poi mi è accaduto affrontando la malattia».
Chailly in Cina firma autografi ai fan alla fine di un concerto
Claudio Abbado, un mentore, poi un amico «Affetto e riconoscenza mi legano a Claudio. Lezioni di vita, gli anni passati con lui. Disponibile nei confronti di tutti. Il suo camerino sempre aperto. Pronto a dare consigli. L’esatto contrario della nostra società. Si vive come chiusi in spazi che non comunicano. Autonomi. Claudio invece condivideva cultura ed entusiasmo».
Ne è stato per anni l’assistente. «La mia una presenza quasi ossessiva per lui, sin da quando mi ha chiamato nel 1973. Sempre paziente e generoso. Uomo e artista eccezionale, schivo e riservato. Parlava solo attraverso la musica. E con le sue scelte. La mia stessa linea di pensiero e comportamento.
Nel 20220 con il Presidente della Repubblica Mattarella in Duomo a Milano
La Filarmonica, «creatura» abbadiana. «Sono stato orgoglioso a giugno di dirigere in piazza Duomo il concertone all’aperto della Filarmonica scaligera. Doppio anniversario e doppio traguardo: 40 anni dalla nascita della Filarmonica, voluta da Abbado sfidando preconcetti e provincialismi, della quale oggi sono direttore principale, e 10 anni dal primo concerto all’aperto, oggi simbolo della Milano contemporanea».
Le scelte. Come Abbado nel 1979, il 7 dicembre lei dirigerà di Musorgskij inaugurando la Scala. Un’opera russa oggi. Qualcuno avrebbe preferito un silenzio diplomatico «Opportuno? Boris è in programma da tre anni. Perché il silenzio, allora? Cosa si sarebbe detto se l’avessimo cancellato? Un danno per la cultura. La situazione internazionale è complessa. Le certezze nel futuro crollate. Destabilizzati i rapporti tra nazioni. Sovrapporre l’immagine politica alla conoscenza della grande cultura è impensabile. L’arte può solo creare conoscenza. Il silenzio è per riflettere, la musica per vivere».
Cocciante in Puglia: «I miei 50 anni di musica». Oggi l'artista al Foro Boario di Ostuni con l’Orchestra sinfonica «Saverio Mercadante»: io a metà tra la canzone e la composizione. Nicola Morisco su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Agosto 2022.
L’anno prossimo per lui saranno 50 anni di carriera artistica, gli stessi decenni che hanno fatto delle sue canzoni la colonna sonora delle nostre vite di molti di noi. Anni segnati da Poesia, Bella senz’anima (arrangiamento del premio Oscar Ennio Morricone e Franco Pisano), brano censurato per l’esplicita frase «e quando a letto lui ti chiederà di più» che non nasconde certo il lato hard dell’amore. Oppure Margherita, Quando finisce un amore e quella A mano a mano, canzone che ha vissuto due grandi momenti di successo: il primo dell’autore, l’altro del mai dimenticato Rino Gaetano. Ovviamente parliamo del 76enne cantautore e compositore Riccardo Cocciante che, nella sua lunga carriera, ha saputo districarsi con canzoni raffinate e di qualità per sé e per altri artisti, sperimentando progetti importanti come quello realizzato con il gruppo fusion progressive New Perigeo e il cantautore Rino Gaetano e, soprattutto, come compositore di straordinari musical di successo come Notre Dame de Paris.
In attesa dei festeggiamenti dei suoi 50 anni di carriera, Cocciante ha deciso di regalare ai suoi tanti ammiratori «Cocciante canta Cocciante», un mini tour preparatorio di quello che accadrà con il nuovo anno. Otto date esclusive che Cocciante ha voluto realizzare in altrettanti luoghi più belli della storia e dell’architettura del nostro Paese. Tra le otto tappe c’è anche il Foro Boario di Ostuni che oggi alle 21.30, ospiterà Cocciante con l’Orchestra sinfonica «Saverio Mercadante» diretta dal Maestro Leonardo de Amicis e con un repertorio che toccherà tutti i passaggi importanti della sua carriera.
Riccardo, in questo live è in scena un doppio Cocciante?
«Ormai mi presento con queste due carriere che ho in me: quello del compositore cantante e quello dell’autore impegnato nel raccontare storie come “Notre Dame de Paris” (dall’omonimo romanzo di Victor Hugo), “Il piccolo principe” (best seller di Antoine de Saint-Exupéry), oppure “Giulietta e Romeo”, con i testi in italiano di Pasquale Panella trasposizione del “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Questo concerto è anche un modo di vedersi allo specchio dopo qualche anno, ma anche provare a me stesso di essere all’altezza di poter essere sul palco per due ore a mezza di spettacolo. Non nascondo, inoltre, che rappresenta una preparazione ai live dell’anno prossimo, in cui festeggerò i miei 50anni di carriera in maniera più articolata».
Questi otto concerti, che preannunciano gli eventi dei suoi 50 anni di carriera, anno la particolarità di unire la bellezza delle sue composizioni, con quelle di otto delle bellezze del nostro Paese. Cos’è per lei la bellezza?
«In questo momento ci stiamo esibendo in luoghi che non vorrei definire solo storici, ma posti che vivono di un passato che riescono a comunicaci qualcosa, questo è molto importante. Spesso vedo dei concerti in cui è presente molta gente, però manca quella parte umana, quella componente artigianale che noi artisti dobbiamo avere sempre nel nostro mestiere. Invece, tutto diventa un grande business e si dimentica che tutto deve essere costruito con uno spirito da artigiano, non per fare successo. La mia carriera l’ho fatta così: non ho mai pensato di costruire una canzone di successo, ma una composizione composta con amore e onestà. Una di queste canzone, può avere anche la fortuna di essere quella che determina e descrive l’epoca nel quale è stata composta».
Il suo percorso artistico è stato intenso e variegato. Cosa le manca?
«Non so quello che mi aspetta, però sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante e autentico da esprimere. Il prossimo anno faremo uscire un nuovo disco di inediti, che manca da molto tempo, così come il musical “Giulietto e Romeo”. Poi, possono nascere delle nuove idee, sono sempre all’erta per capire se c’è qualcosa che posso dire».
Ritiene che la musica in questo periodo sia meno creativa?
«È un momento di transizione, di ricerca da parte dei giovani. Prima avevamo un’autostrada davanti a noi, oggi sono tutti sparpagliati e non c’è connessione tra un’artista e l’altro. Stare insieme vuol dire dividere delle idee, delle maniere diverse per esistere. Non vedo la musica completamente negativa, bisogna andare avanti e penso che prima o poi, molti giovani troveranno una loro e nuova dimensione».
Riccardo Cocciante: «Margherita? Non ci avrei scommesso. La canzone politica non mi è mai interessata». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.
Il cantautore torna a suonare dal vivo nelle piccole arene dopo 10 anni: «I mega-show? Preferisco un’esibizione ravvicinata»
Il brano su cui non avrebbe scommesso?
«Margherita. Perché è arrivata nel momento in cui la canzone politica era preponderante, il contrasto con la moda corrente era totale e io mi sentivo disarmato. All’epoca partecipavano tutti ai Festival dell’Unità, dove io non andavo; il discorso politico era potente, invadeva l’Italia. Io stesso ero perplesso sull’uscita di Margherita, ma poi si è inserita violentemente in uno spazio che evidentemente c’era».
Era l’epoca dei fascisti di qua e i comunisti di là, la canzone d’impegno non faceva per lei?
«Non ho mai voluto scrivere di politica per due ragioni. Primo perché la reputo passeggera, nei tempi e nei modi; dopo quattro anni tutto invecchia, la si pensa diversamente. E poi perché credo che la politica per noi artisti debba rimanere qualcosa che osserviamo, ma non diventare la bandiera di un’idea, di un partito, anche se tu le tue opinioni le hai. Ho sempre cercato di non essere dentro mode e pensieri, mi piace stare da parte, marginale o fuori, mai in una moda. Piuttosto cerco io diventare io la mia moda, il mio pianeta».
Chi era «Margherita»?
«Le mie canzoni sono al 99% allegorie, raccontano pensieri e stati d’animo. L’unica canzone diretta è quella dedicata a mio figlio David, Vivi la tua vita».
L’ultimo album è del 2005, negli ultimi dieci anni ha preferito dedicarsi al musical «Notre-Dame de Paris», Riccardo Cocciante ora ha deciso di tornare a esibirsi dal vivo con una serie di concerti in giro per l’Italia (il via il 19 luglio da Firenze, chiusura il 6 agosto a Ostuni). Come mai dieci anni di silenzio?
«Io ho due carriere, in questi anni quella di cantautore si è fermata per dare spazio a Notre-Dame che è nato in Francia e poi è stato tradotto in 8 lingue e si è diffuso nel mondo, in Paesi anche improbabili come la Corea, la Cina... Però è venuto il momento di ricreare un contatto con il pubblico in modo particolare, non con uno di quei mega-concerti che si fanno oggi, ma con un’esibizione ravvicinata, umana».
I mega-palchi non le piacciono?
«Ci vogliono anche i megaconcerti ma forse oggi si esagera... Penso ci sia bisogno di ritrovare il lato umano sul palcoscenico, di non essere attorniati da sequenze, programmazioni, videoistallazioni. Piuttosto una bella orchestra come quella diretta da Leonardo De Amicis che mi accompagna in queste tappe. Il contatto con il pubblico diventa intimo, le piccole arene storiche dove ci esibiremo hanno un’essenza, dentro c’è una vibrazione che riverbera sul pubblico».
Padre italiano, madre francese, lei è cresciuto in Vietnam fino a 11 anni.
«Quando sono arrivato a Roma ero spaesato, non conoscevo la lingua e il clima era diverso da Saigon: i tropici sono un’esplosione di odori, di colori e Roma mi sembrava una città grigia. Volevo conoscere la cultura musicale italiana e la tv mi ha aiutato molto: guardavo tutte le trasmissioni musicali, anche le più periferiche; così ho imparato che all’epoca l’italiano era più melodico mentre il francese più letterario. Io sono sempre in bilico tra queste due culture: sono il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi. Il mio modo di cantare è impressionista; l’estetica serve ma non è prioritaria».
Una sola presenza a Sanremo nel 1991, la vittoria con «Se stiamo insieme». E poi?
«Non amo ripetere due volte la stessa esperienza. Molti l’hanno presa male, ma non era una scelta “contro” Sanremo. Anche il giudice di The Voice l’ho fatto una sola volta. Perché per il nostro mestiere entrare in un ingranaggio rappresenta la morte della creatività. Diventi parte di un meccanismo dove vuoi piacere più agli altri che a te, invece penso che la composizione sia un fatto di egoismo: prima di tutto devi tu stesso provare amore per quello che fai».
La musica oggi in che direzione va?
«C’è troppo calcolo, per molti è qualcosa di meccanico e robottistico. Io invece ho voglia di genuinità. Il problema è che oggi si arriva troppo presto al successo, la gavetta è importantissima, perché stai male, soffri, ma ti arricchisce e non ti senti dio se diventi popolare. I successi più belli sono sempre quelli improbabili, quelli non calcolati. Nella mia carriera ne ho avuto diverse prove, non solo con Margherita. Bella senz’anima all’inizio ha stentato, poi il pubblico ha deciso che poteva essere un successo. Il tempo è un giudice pazzesco, cancella le cose opportunistiche e fa rimanere quelle vere, autentiche».
Con Mogol avete collaborato per tanti anni...
«In generale io cerco sempre di trovare me stesso nell’autore che mi sta vicino. Per scrivere in due bisogna trovare una comunione speciale, si creano momenti intensi, fortissimi. Mogol mi è profondamente caro, ma non è l’immagine dei suoi testi: ha un aspetto ruvido, del resto tutti gli artisti hanno le loro asperità. L’importante è quello che dice e quello che dice è bellissimo».
Con Mina vi siete incrociati due volte, per «Questione di feeling» e «Amore».
«Ci sentiamo ancora ogni tanto, mi dà i suoi pareri sulla cose che faccio e questo vuol dire che tra noi c’è un contatto vero, sincero».
(ANSA il 14 luglio 2022) - "Stamattina mi han fatto una biopsia, chissà che cos'ho. Mi han detto una lesione di tipo tumorale inside my head, ma non si sa ancora di che tipo e gravità. La prassi vuole che io aspetti una ventina di giorni e li aspetterò". Lo scrive in un post su Instagram dall'ospedale, dove si mostra in una foto con la testa fasciata ma in cui sorride, l'attore Riccardo Manera, protagonista di serie tv come "Il silenzio dell'acqua", "Immaturi" e "Volevo fare la rockstar ", assente da oltre un mese dai social.
"Non scrivo mai nulla, non sono mai stato in grado di farlo o forse ne ho sempre avuto paura. Ecco, quella paura, come tutte le altre (avevo una paura fottuta degli aghi e delle punture, per esempio), è sparita da un momento all'altro. Anche perché i pensieri sono ben altri. È un mese che convivo con questa cosa, non molti lo sapevano, ora forse per alleggerirmi un po' io, lo sto scrivendo qui. Almeno se si sa è perché l'ho detto io. È un mese e passa che son sparito dai social, penso sarà così per un po' e un motivo c'era, c'è. Questo post è per me. Perché nel caso avessi momenti di down so dove andare a guardare" dice Manera.
Nel post Manera mostra coraggio: "La battaglia è da combattere e si combatte!" e aggiunge: "Il karma, il destino o in qualsiasi modo vogliate chiamarlo è una cosa davvero strana: l'anno scorso ho girato il mio primo film da protagonista su questo argomento. Ho vissuto le stesse cose che sto vivendo ora ma per finta, clamoroso. Ho finito di girare un mese fa una serie con questo nemico dentro. Chissà come ho fatto. Non vi preoccupate, o almeno fatelo il giusto, io non mi arrendo, mai".
Riccardo Maria Manera, l'attore di 'Volevo essere una rockstar': "Ho una lesione di tipo tumorale nella testa". Il giovane attore affida a Instagram il messaggio sulle sue condizioni di salute. La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Riccardo Maria Manera, protagonista della serie Rai Volevo essere una rockstar, scrive su Instagram: "Ho una lesione di tipo tumorale nella testa" e posta la foto in ospedale dove gli è stato fatta una biopsia. "Non scrivo mai nulla, non sono mai stato in grado di farlo o forse ne ho sempre avuto paura. Ecco, quella paura, come tutte le altre (avevo una paura fottuta degli aghi e delle punture), è sparita da un momento all’altro. Anche perché i pensieri sono ben altri". Inizia così il messaggio con cui Riccardo Maria Manera ha spiegato il motivo di un'assenza social. "È un mese che convivo con questa cosa, non molti lo sapevano, ora forse per alleggerirmi un po’ io, lo sto scrivendo qui. Almeno se si sa è perché l’ho detto io". E aggiunge: "Un motivo c’era, c’è. Stamattina mi han fatto una biopsia, chissà che cos’ho. Mi han detto una lesione di tipo tumorale inside my head, ma non si sa ancora di che tipo e gravità. La prassi vuole che io aspetti una ventina di giorni e li aspetterò".
Ventisette anni, genovese, l'attore nella serie interpreta Eros, il fratello della protagonista Olivia (Valentina Bellè) che nella seconda stagione vive la sua tormentata storia d'amore con il fidanzato (Francesco Di Raimondo). Prima di questa esperienza Manera aveva partecipato ad alcuni film come La vita bella, Arrivano i prof, le fiction Vivi e lascia vivere, Il silenzio dell'acqua, ma è stata la serie Rai a dargli popolarità.
Candida Morvillo per corriere.it il 9 aprile 2022.
Il regista e sceneggiatore si racconta: iniziai reggendo il parasole a Catherine Deneuve. Porto al cinema storie di persone normali che nel quotidiano fanno cose orribili. Il suo ultimo film si intitola «Corro da te», con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone
Alla fine, Riccardo Milani mi dirà: «Faccio commedie per disperazione». Da dieci anni, sbanca i botteghini con film di culto, tipo Benvenuto presidente o Come un gatto in tangenziale e ora con Corro da te . Molti, scritti con la moglie Paola Cortellesi. E fa serie tv irriverenti e divertenti, campioni di ascolto come Tutti pazzi per amore. Cominciò da assistente volontario di Mario Monicelli e, come lui, sa far ridere di cose amare.
«Fare commedia per disperazione» non è un controsenso?
«Racconto l’Italia che non mi piace, con passione però, perché amo questo Paese. Al cinema amo sentire la gente ridere e quando si riesce a far ridere e anche a far alzare un po’ la testa si fa un’operazione importante. Da regista non ho mai avuto il piacere di appartenere a una cerchia ristretta di cineasti e intellettuali. Preferisco rivolgermi a un pubblico largo, raccontare a chi non la pensa come me, magari storie di persone normali che nel quotidiano fanno cose orribili».
Cose orribili di che tipo?
«In auto, ti fanno i fari per avvisare che c’è l’autovelox: segno di un Paese che si compatta contro la legge, come se c’è da evadere le tasse, saltare file, non denunciare le prepotenze».
Lei invece denuncia, interviene?
«Cerco di parlare con le persone, se si fermano, se non tirano fuori la spranga. Ho visto uno aprire il portabagagli, prendere una mazza da baseball e frantumare un parabrezza: è una scena vera, messa in Un gatto in tangenziale».
Nella disperazione, è ottimista o pessimista?
«Ho sempre la speranza che il Paese sia migliore di quello che racconto e a volte sono troppo ottimista. Ho avuto scontri con gli sceneggiatori. Per Scusate se esisto!, in cui Paola è un’architetta che si finge uomo per poter lavorare, dissi: non è che raccontiamo un Paese che non c’è più? Furio Andreotti, Giulia Calenda e Paola hanno dovuto convincermi, cifre alla mano, della disparità delle donne nel mondo del lavoro».
Dunque, il macho predatore Pierfrancesco Favino in «Corro da te» esiste ancora?
«Io quelli come lui non li frequento, il dubbio l’avevo. Poi, guardi le violenze subite dalle donne a Capodanno a Milano, vedi il branco fatto da giovani e capisci che il cinquantenne del film non è anacronistico».
Come nel film, è l’amore il motore del cambiamento?
«Favino conosce Miriam Leone, una ragazza in sedia a rotelle, che sa fare bene tante cose pur godendo di metà della sua condizione, e scatta l’ammirazione: per questo s’innamora».
Dentro c’è l’ultima interpretazione di Piera Degli Esposti, mancata l’agosto scorso.
«Insieme abbiamo lavorato tanto. Le feci ballare Beyonce in Tutti pazzi per amore. Ci volevamo bene, veniva sempre a Pescasseroli da Dacia Maraini, anche io ho casa lì. Le portavo le zucchine dell’orto, lei raccontava barzellette meravigliose. Negli ultimi tempi, aveva due tubicini al naso per l’ossigeno e mi fa: secondo te, posso fare l’attrice così? Le risposi: sei Piera degli Esposti, puoi fare quello che vuoi. Scrissi per lei, in Corro da te , il ruolo della nonna cinica che mette al muro Favino».
Si sta commuovendo.
«Le ho visto fare una cosa straordinaria. Poteva recitare solo seduta, coi suoi tubicini, ma c’è una scena in cui tutti ballano e, quando ho dato motore, lei all’improvviso si è alzata e ha ballato. Questo è avere mestiere e amare quel mestiere».
A lei come arriva la passione per il mestiere?
«Sono nato a Roma, in via Segesta, sopra il Cinema Airone. A due anni, mi affacciavo a una grata pericolosissima per sentire le voci dei film. Captavo dialoghi, urla di indiani e cowboy. I miei avevano lavori modesti, ma vicino a casa c’era la Scalera Film. Papà iniziò a fare la comparsa e a bazzicare l’ambiente come autista e tuttofare, poi diventò ispettore di produzione. Conobbe Alberto Sordi, portò a casa i dentoni finti di un suo film e portò me bambino a casa sua».
Il suo primo set?
«Lessi che Carlo Vanzina aveva iniziato come assistente volontario: pur essendo figlio del grande Steno, non era partito come aiuto regista. Allora andai a bussare al camper di Monicelli e mi proposi come assistente volontario. Dopo mesi, mi prese per Speriamo che sia femmina . Andai, lui non dava indicazioni su nulla, dovevi renderti utile in qualunque modo, portando il caffè, fermando il traffico, aiutando macchinisti, elettricisti».
Primo giorno di lavoro non pagato?
«Ressi il parasole sulla testa di Catherine Deneuve, era estate, mi squagliai perché faceva tanto caldo e perché stavo vicino a Deneuve. Avevo una visione del cinema artistica, teorica, invece sul set ho imparato che il cinema è artigianato. Andavo a casa di Suso Cecchi d’Amico a prendere le correzioni della sceneggiatura: per me era una divinità, ma lei, Monicelli, Piero De Bernardi, tutti grandissimi, stavano lì coi foglietti a dire “sta’ cosa funziona? Ma fa ridere? Fa ridere?”. La loro preoccupazione era questa».
Fra i suoi film, ce n’è soltanto uno drammatico, «Piano, solo», perché?
«Perché è la storia vera del tormento di un ragazzo, Luca Varchi, un musicista importante morto suicida. In adolescenza la fragilità è padrona, io me ne portavo dietro un po’. Verso i 16, 17 anni, frequentavo un centro sociale, aiutavamo le periferie. Uno di noi era morto, fu un dolore che faceva pensare anche al suicidio. Il male di vivere ci ha attraversato molto in quegli anni. Un contributo doloroso è stato il terrorismo».
Quanto l’ha vissuto da vicino?
«Ero attivo politicamente, siamo intorno al ‘76 o ’77, anni in cui, a furia di andare a sinistra, il purismo portava distorsioni pesanti. La strada del dialogo era la meno percorsa e forse la più utile. Mi addolorava vedere quanta responsabilità ci si è presi a non combattere la violenza dall’interno, a non dire a chi uccideva che diventava un assassino. È una stagione che ricordo con grande senso di inadeguatezza».
Quando, per esempio, avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto?
«A un corteo, alcuni si staccarono per spaccare le vetrine di un’armeria e prendere i fucili. Ero piccolo ed era tutto più grande di me. Ma una cosa spero di non aver perso: la spinta a capire quali siano le cose giuste e a non girare la testa».
Il suo primo grande successo è «Benvenuto presidente» con Claudio Bisio, dove riesce a far ridere della malapolitica.
«Anche lì, ero incerto sul tema: c’era già il soggetto e mi faceva soffrire che fosse centrato sull’idea che il Parlamento fosse una fogna e che chiunque sarebbe stato meglio di un politico, anche un pescatore eletto presidente della Repubblica perché tutti votano per sfregio Giuseppe Garibaldi e un Giuseppe Garibaldi esiste davvero».
Era il 2013, l’anno in cui i 5 Stelle entrano in Parlamento per aprirlo «come una scatoletta di tonno».
«Era lo stesso Parlamento nato dalla lotta partigiana, per il quale persone avevano combattuto ed erano morte. Ma è importante il discorso finale di Claudio Bisio, quando si rivolge a chi accusa i politici, ma poi evade le tasse, paga in nero...».
Prossimi film?
«Ho finito di girare un remake dal francese Triomphe, protagonista Antonio Albanese, e sto ultimando un docufilm sul gigante Gigi Riva, ci ho messo vent’anni a farmi dire di sì. Mi appassiona la storia di un uomo che ha detto no alle leggi del mercato. Lo volevano la Juve, l’Inter, tutti, e lui ha sempre giocato nel Cagliari».
Il gatto in tangenziale come nasce?
«Il primo fidanzatino di una delle tre mie figlie era proprio di Bastogi e io ho reagito come reagirà Antonio Albanese nel film: ho seguito l’autobus su cui saliva mia figlia, sono andato a conoscere la famiglia. Anche loro si chiedevano che ci facesse lì la figlia di un regista. Poi, ho usata la casa del ragazzo come set del film».
Che le periferie le entrassero in casa doveva capitare proprio a lei che aveva lottato per le periferie?
«Quel film è una confessione di ipocrisia. Come padre, ho messo in campo il peggio di me».
Ha due figlie grandi e una, di nove anni, avuta con Paola Cortellesi. Che padre è?
«Non lo so, uno che cerca di dare l’esempio».
Il primo incontro con Paola?
«Per Il posto dell’anima volevo una protagonista forte, che parte dal paesino per cercare lavoro. Era un film più drammatico di altri e mi serviva uno sguardo anche malinconico. L’avevo vista fare cose divertenti in tv, ma sentivo in lei qualcosa di amaro. L’ho voluta incontrare».
Sua moglie la racconta in modo diverso.
«In effetti, la vidi a casa di Gianni Morandi, faceva le prove di uno spettacolo in giardino. Aveva i sandali, arrivò sudata, coi piedi sporchi di terra. Finge di arrabbiarsi se lo racconto».
Quindi, quando vi guardate con occhi nuovi?
«Mesi dopo il set. Capendo che ci accomunavano lo stesso distacco per le cose, lo stesso amore per la commedia un po’ amara e il fatto di non uscire mai, non essere mondani. Ci siamo trovati su cose semplici».
Quasi vent’anni insieme e sette film. Paola ha detto: «Quando scriviamo una sceneggiatura, siamo a un passo dal divorzio perché litighiamo pure sulle virgole».
«Un po’ è vero. Gli altri due sceneggiatori dicono che sembriamo Casa Vianello».
E la vostra vita di cose semplici com’è fatta?
«Stiamo molto a casa, andiamo molto al cinema e a Pescasseroli. Io sto bene nella natura. Mi piace cercare di avvistare orsi, lupi, cervi».
Scorgere un orso nel bosco è il suo momento perfetto?
«Lo è anche vedere gli esseri umani felici, quando hanno una loro identità e non sono solo schiacciati da quella di consumatori. Questo mi dà un’idea di libertà».
Riccardo Scamarcio compie 43 anni: dalla produzione di olio alle storie d’amore. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.
L’attore è tra i più amati nel panorama italiano e internazionale. Ha recitato anche con Bradley Cooper per il quale ha cucinato una cacio e pepe
Gli esordi
Riccardo Scamarcio compie il 13 novembre 43 anni: è uno degli attori italiani, tra i più giovani, che vanta un palma res di film e partecipazioni anche internazionali. Scamarcio ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ma non ha mai conseguire il diploma. Debutta nel mondo dello spettacolo nel 2001 con la miniserie TV “Ama il tuo nemico 2” ma nel 2004 è protagonista del film Tre metri sopra il cielo, tratto dal romanzo omonimo di Federico Moccia e diretto da Luca Lucini. L’interpretazione di Step nel film gli fa guadagnare molta notorietà.
Con Bradley Cooper
Ha cucinato una cacio e pepe per Bradley Cooper: nel film "Il sapore del successo", il giovane attore italiano, che interpretava la parte di un cuoco, ha davvero cucinato per l'attore statunitense,
Vita privata
Riccardo Scamarcio, dopo una lunga storia con Valeria Golino, ha iniziato a frequentare prima Angharad Wood, che nel 2020 ha dato alla luce Emily, la loro figlia. E poi Benedetta Porcaroli, che poi ha lasciato per tornare con Angharad Wood
L’olio
Scamarcio, nato a Trani, ha un forte legame con la sua terra: in Puglia si dedica alla produzione di vini biologici e olio
Doppiatore
È anche un doppiatore: ha dato la voce a Dag, protagonista principale del film di animazione "I primitivi" uscito nel 2018.
Cravatte
Quando è impegnato su un set, Scamarcio ha una passione smodata per i dettagli estetici. La moda è arte e un’eccellenza italiana e, dal suo punto di vista, i costumi fanno l’attore e il personaggio. Un’attenzione smodata per ogni dettaglio, come ad esempio le cravatte, anche se poi ammette di non farne uso nella vita reale.
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.
«Nessuno nella mia famiglia ha fatto l'agricoltore, per me è una scelta di vita, mi piace definirmi zappattore . Produco vino e olio biologici, ormai la mia è una piccolissima realtà consolidata. È anche un modo per capire dove va il mondo: se vuoi fare la rivoluzione devi partire dalla terra».
Non stupisce che Riccardo Scamarcio abbia accettato di buon grado di interpretare Elio De Angelis, in Alla vita, diretto da Stephane Freiss con Lou De Laage, prodotto da Ba.Be e Indiana, in sala dal 16 giugno con Vision. Un gallerista che inizia a occuparsi dell'azienda agricola dopo la morte del padre. «Ci unisce il legame con la terra. Nel suo caso, un rapporto quotidiano. Ha ereditato la proprietà di famiglia e si trova a mandarla avanti tenendo fede al suo senso dell'onore. Ha questo cliente, il signor Zelnik, capofamiglia di una famiglia ebrea ultra-ortodossa di Aix-Le-Bains che ogni estate passa un periodo da loro e per cui produce cedri kosher».
Elio è andato via e tornato. Anche lei da ragazzo è partito, andò a Roma per studiare al Centro sperimentale.
«Non avevo come lui bisogno di rompere, c'era in me un po' di ribellione da ragazzo ma, se avessi potuto, avrei fatto l'attore già a Andria. Ora sto bene, vivo tra Roma e Puglia».
Cosa la spinge a accettare un ruolo?
«Sono scelte con variabili senza un obiettivo preciso. Mi interessano gli interlocutori, in questo caso i produttori che mi hanno presentato Stephan. Certo, mi è piaciuto il copione. È un film che si muove in punta di piedi su cose delicate: rapporti familiari, l'incomunicabilità e anche impossibilità di Esther, il personaggio di Lou, di scegliere la propria vita».
E il dogmatismo religioso.
«Ne parla in modo intelligente. Sono molto osservanti di regole oggi considerate obsolete. Ma racconta anche il senso di altre, come quelle della cucina kosher che può sembrare follia ma risponde a una logica. Il film si muove su un piano di critica costruttiva a dinamiche punitive ma con attenzione ai valori della cultura di un popolo».
Parla anche di paternità. È cambiato il suo modo di vederla da quando è nata sua figlia?
«Sono diventato padre al cinema già da diversi anni, per esempio nel film bellissimo La prima luce di Vincenzo Marra. Diciamo che mi sono allenato».
Che padre è?
«Un po' instupidito, mi squaglio. La vita ci insegna che il tempo è il bene più prezioso, con il passare degli anni capisci perché tuo padre ti diceva certe cose».
Da produttore come sceglie i progetti?
«Provo a fare dei film che abbiano un imprinting un po' politico, che mettano in luce aspetti culturali della nostra penisola. Che facciano sognare e emozionare e lancino riflessioni. Il cinema per me è luogo di evasione e libertà».
Ha prodotto, oltre che interpretato con Benedetta Porcaroli, «L'ombra del giorno» di Piccioni.
«Un film classico, ne sono orgoglioso come attore e produttore. L'ho preso in corso d'opera. Ambientato tra il 1938 e il 1940, tra leggi razziali e l'escalation verso la Seconda guerra mondiale, mentre con superficialità molti pensavano fossero solo scaramucce. Vedendo la guerra ora, penso alla lungimiranza di Piccioni di riportare l'attenzione su un periodo cruciale».
Attore, sceneggiatore, produttore. E regista?
«No. Ce ne sono tanti, non ne serve un altro. Ho pensato che fosse meglio imparare la lingua della burocrazia per aiutare altri a girare».
Per esempio Mordini. Ora è sul set di «2 win».
«Io e Stefano ci conosciamo bene, c'è sintonia, grande fiducia. Fare film è impresa difficile. Ora si parla di algoritmi, è sbagliato: servono persone che condividono un'avventura e un sogno. Giriamo in inglese, è basato sui Mondiali di rally del 1983, io sono Cesare Florio e nel cast c'è Daniel Brühl, è Roland Gumpert dell'Audi».
Quando vedremo «L'ombra di Caravaggio» di Placido?
«Non si sa ancora. Una grande storia. Hanno cercato di osteggiare un artista con un talento pazzesco, un innovatore per tecniche e capacità di comunicare. Ha fatto diventare santi e madonne le persone normali, straccioni, prostitute. Lo vedo come Elvis Presley, Freddy Mercury: una star che non ha paura di esprimere ciò che pensa. Un talento così assoluto che pure i suoi detrattori se ne innamorano».
Vent' anni fa il suo esordio con «La meglio gioventù».
«Un'esperienza magnifica, molto formativa, a proposito di rapporti umani. Mi ha dato l'imprinting. Ricordo il primo giorno, il mio primo su un set cinematografico, in Toscana con Lo Cascio, Gifuni, io ancora a scuola. Alla fine mi sono trovato a giocare a pallone con Marco Tullio Giordana e gli attori. Poi grigliata. Ho detto: questo è il paradiso».
I due nel film ‘L’ombra del giorno’ sono innamorati, come nella vita reale. Chi è la fidanzata di Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli e l’amore scattato sul set: “È bellissimo, ma sono fatti nostri”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
Per settimane si è chiacchierato sulle cronache rosa di una loro possibile unione e alla fine era tutto vero. Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli sono fidanzati. I due attori lo hanno dichiarato apertamente in una lunga intervista a D di Repubblica in cui hanno posato per le foto insieme per al prima volta. “Non voglio commentare la legittima curiosità verso qualcosa di bellissimo come l’amore. E il motivo è una questione di principio, cioè che sono fatti nostri”, ha detto Scamarcio che ha sempre preferito mantenere il riserbo sulle sue storie d’amore.
I due attori si sono conosciuti nel 2020, sul set delle riprese di “La scuola cattolica” dove nel cast c’era anche Valeria Golino, l’ex di Riccardo. In realtà da quello che raccontano le cronache la relazione sarebbe cominciata sul set di “L’ombra del giorno”, il film in uscita nelle sale il 24 febbraio. Nel film i due sono innamorati, proprio come nella vita reale.
Per vivere la loro storia d’amore i due hanno dovuto lasciare i rispettivi partner. Scamarcio si è separato da Angharad Wood dalla quale è nata Emily, mentre Benedetta ha dovuto dire addio al regista Michele Alhaiquee. Scamarcio inverte la rotta: dopo le relazioni con due donne più grandi di lui, ora sceglie Benedetta di 18 anni più giovane. E anche per Porcaroli è stato lo stesso: era notoriamente fidanzata con Michele Alhaique, attore romano 18 anni in più di lei, esattamente come Scamarcio.
Scamarcio ha messo fine al matrimonio con Angharad Wood, manager e avvocatessa di origini londinesi, è nata nel 1974 e ha 6 anni in più di Scamarcio. Da lei ha avuto la sua prima figlia, Emily, durante l’estate 2020.
L’attore si è lasciato alle spalle la relazione con Valeria Golino durata 12 anni. Scamarcio e Golino non hanno mai parlato pubblicamente dei motivi della loro storia ma dalle successive interviste è trapelata una certa amarezza. “Una fortissima delusione sentimentale, la più grande della mia vita. D’altra parte più c’è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze”, aveva detto l’attrice in un’intervista a F.
Classe 1998, Benedetta Porcaroli è un’attrice italiana diventata famosa grazie al ruolo dell’adolescente Chiara nella serie tv Netflix Baby. L’esordio televisivo è però avvenuto nel 2015, nella fiction Rai Tutto può succedere. Da allora la carriera di Benedetta ha spiccato il volo e l’attrice nata e cresciuta a Roma si è data da fare tra cinema e televisione. Ha recitato in numerosi film quali: Perfetti sconosciuti, Sconnessi, Quanto Basta, Una vita spericolata, Tutte le mie notti.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Ricky Gianco: «Mi feci spiegare da Lennon come scriveva le canzoni. Tenco? Il suo non fu suicidio». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2022.
Il cantante e compositore, 79 anni: le barzellette con Jannacci prima che morisse. I rapporti con Mina, Gino Paoli, Gaber e Celentano
«L’errore più grande della mia vita? Aver rifiutato di fare da supporter ai Beatles in Italia». Parola di Ricky Gianco. «Correva l’anno 1964. L’impresario italiano Leo Wachter mi aveva chiamato per suonare durante il loro tour. Così fu organizzato un incontro fra me e i Beatles all’Astoria Theatre. Vidi lo spettacolo e decisi che non avrei fatto il supporter. Decisione molto stupida. Lo spettacolo era troppo bello. Una regia alla Hitchcock. Una tensione espressiva inimitabile. Fra il primo e il secondo tempo a sipario chiuso riapparivano travestiti con abiti medioevali. Si lasciavano desiderare. Poi atterravano da un elicottero di legno, buttavano giù una scaletta. Sbarcavano prima il capitano, poi il pilota, lo steward, le hostess. Alla fine loro, che rientravano vestiti da Beatles... Io piangevo dall’emozione. Sono stato stupido, tremendamente stupido. Durante l’incontro — ricorda Gianco — chiesi a Lennon se lui e Paul componevano assieme o se accadeva che uno scrivesse da solo, salvo confrontarsi in tempi successivi. Lennon, che era arguto, mi disse: “No, sempre assieme. Però può succedere che io scriva un pezzo qui a Abbey Road mentre Paul è in bagno... (pausa)... a Liverpool”. Un modo elegante per dire che creavano non sempre assieme e che erano simbiotici fino a un certo punto».
Gianco, 79 anni, icona del rock italiano.
«No, no. Invecchio e basta, ma non sono un’icona. Ho scritto e collaborato con tanti colleghi ma se mi guardo allo specchio non vedo nessuna icona. Però faccio parte della storia della musica italiana . Non mi sono mai preso troppo sul serio. Mai prigioniero delle luci della ribalta».
A che età ha cominciato a comporre?
«A 17 anni. A 11 anni ho cantato in pubblico. A Varazze vinsi un concorso per dilettanti. Dirigeva Don Marino Barreto, un grande. A 16 anni la prima incisione discografica».
Lei è nato a Lodi.
«Sì, per caso. La mamma era sfollata a Casalpusterlengo da Milano bombardata. Così andò all’ospedale di Lodi. Abito a Milano quasi accanto alla sede del Corriere. Sono sposato dal ‘77 con Gabriella, detta Gabi. Una delle mie fortune. Lavorava da Lorenz in via Monte Napoleone».
Celentano?
«È il terzo evento della mia vita. A 16 anni i primi dischi, a 17 Gianfranco Reverberi scopre il sottoscritto Ricky Sanna grazie alla canzone “Ciao ti dirò”. E mi presenta alla Ricordi. Li conosco artisti chiamati “genovesi” sebbene non tutti fossero di Genova. Bindi, Paoli e Gaber erano i più conosciuti. Poi c’eravamo noi, gli sfigati, ovvero Tenco, Endrigo, Jannacci ed io. Io avevo 17 anni ed ero la mascotte del gruppo. A 18 anni l’incontro con Adriano Celentano. Mi sente cantare all’Alcione (o allo Smeraldo). “Oe tu sei forte mi dice... Come ti chiami? Ricky? Peccato che non hai la erre”. Già, era un grave problema. Non mettevo la lingua correttamente fra i denti. Ne parlai con mia madre che mi mandò a lezione di dizione. E nel giro di qualche mese, mettendoci molto impegno, la erre riapparve. Tempo dopo incontro Celentano che mi dice subito “ma tu sei quello che non aveva la erre, come hai fatto?”. E io mentii. “Ho un papà ricco e me l’ha comprata lui”. A questo punto Celentano mi parlò del Clan e il primo disco fu il mio Vedrai che passerà e Non c’è pietà (cover di Unchain my heart portata al successo da Ray Charles nel ‘61) che inaugurò questa etichetta discografica anomala».
I suoi rapporti con i colleghi?
«Con Paoli grande intesa fin dall’inizio. Era il mio fratello maggiore e lo è ancora. Io ero un fanatico del rock and roll ma anche di tutto il resto, a cominciare dall’opera lirica. La radio non trasmetteva rock e dischi non venivano importati. Così alla sera andavo al Castello Sforzesco con una radiolina portatile e ascoltavo in onde medie Radio Lussemburgo. Io le canzoni le ho imparate così, senza uno straccio di spartito o di testo. Avrei voluto cantare in duetto e con un testo italiano un brano degli Everly Brothers. Chiesi a Gino di scrivermi una versione italiana. Ma lui faceva orecchie da mercante. Finché non scoprì che il brano originale era francese, Je t’appartiens di Gilbert Becaud. A questo punto l’incredulo del rock cedette. Il titolo italiano era “Come un bambino”. E la cantammo insieme ma per ragioni contrattuali Paoli non figurava. Era firmato “Ricky e un altro”. In quel gruppo l’unico che amava il rock oltre a me era Luigi Tenco».
Che rapporti aveva con lui?
«Lui non era quello che appariva. Le descrizioni che lo riguardavano erano spesso fuorvianti. Lui non si vendeva, era simpatico, allegro. Non era un introverso... giocava forse a fare il James Dean».
La sua tragica fine?
«Non credo al suicidio di Tenco... Forse un gioco strano. Che spiegherebbe il messaggio. La calligrafia è sua ma il testo è troppo stupido. E lui non era stupido».
Torniamo all’apprendistato su Radio Luxembourg.
«Quando ascoltai Stand by me rimasi folgorato. Poi scoprii che in un negozio di Lugano si trovavano i dischi originali importati dall’America. Così lo comprai e registrai una versione italiana. Celentano la sentì e disse: “La registro io e venderò almeno un milione di copie”. Già e io? “Tu farai il seguito. Se la gente vuol sapere come va a finire la storia dovrà comprare anche il disco cantato da te”. Insomma Pregherò e Tu vedrai diventano due successi. Primo esempio di disco a puntate. Adriano era machiavellico. Come un film: primo tempo Pregherò, secondo tempo Tu vedrai».
Jannacci?
«I primi dischi per la Ricordi li ho fatti con lui che era un bravissimo pianista. A un certo punto mettemmo su una orchestrina. Firmammo un contratto di un mese alla Villa Romana di Alassio. Io alla chitarra, Enzo al piano e altri fra cui uno zio di Fabio Concato. Jannacci era imprevedibile anche per se stesso. In scena scattavano dei meccanismi incredibili. Lui era formidabile. Poco prima che morisse ci siamo raccontati delle barzellette. Io non capivo le sue perché lui mangiava le parole. Sono contento che gli abbiano dedicato un rifugio per i senzatetto».
E Gaber?
«L’ho frequentato poco, aveva già una sua vita e anche famiglia. Tutti ci trovavamo in Galleria del Corso. Lui no. Mi venne presentato in una sala di registrazione nella zona di Piazza Piola. Gentile. Dopo pochi minuti dalla presentazione duettiamo con Ready Teddy, un classico cantato da Little Richard. Allora Giorgio era ancora un rockettaro. Poi si è spostato al pop con brani come Non arrossire. Non aveva ancora imboccato la strada teatrale con Luporini. A proposito di rock: quando scrissi Sei rimasta sola pensavo a Fats Domino, a un ballabile invece è diventata una specie di coro degli alpini. Niente da fare. Noi abbiamo il melodramma nel sangue. Infatti quando l’ho registrata a Los Angeles con i Toto è diventato uno slow rock».
Bindi?
«L’ho conosciuto che avevo 17 anni. Sempre gentile. Arrivava da Genova su un’auto guidata da un autista che lui presentava come un cugino. Una volta accompagnai Bindi in una gioielleria. Comperò un anello e spese quasi 2 milioni del ‘63. Tempo dopo notai che l’autista aveva quell’anello al dito. Raccontai l’episodio a mia madre. Con freddezza disse: «Non ti interessare della cosa, non sono affari tuoi. Pensa ad altro. La mamma aveva capito. Io no”».
Com’era il Cantagiro?
«Bella esperienza. Celentano nella tappa di Siena finse una caduta e si fece sostituire da me. E io, a sorpresa, vinsi la tappa. Ci fu una specie di rivolta di Teddy Reno, Claudio Villa e Luciano Tajoli. Sconfitti da un pivellino».
È ancora in contatto con Celentano?
«Sono riuscito a sentirlo un paio di anni fa... ma è difficile. Lui e la Mori vivono chiusi anche per gli amici storici».
Come vive il tempo che passa?
«I 100 metri non li fai più. Siamo in mezzo a un cambiamento drammatico, troppo veloce. Dalle candele alla lampadina, dai piccioni viaggiatori al telefono. È mancato il tempo per assimilare. Il mondo ora non mi piace e non mi interessa perché comanda l’economia. Io ho due figli acquisiti e cinque nipoti. Sono contento che, diversamente da loro, non vedrò certe cose».
È mai andato in crisi?
«Alla fine degli anni Sessanta non volevo più scrivere. La storia aveva messo troppa carne al fuoco, c’erano Bob Dylan, le rivolte in California, il Vietnam mentre io componevo canzoni d’amore con Gian Pieretti e mi permettevo di spaziare nel rock jazz col gruppo Albero Motore. Soprattutto, davo la voce alla versione italiana di Braccio di ferro. Poi è nata l’etichetta l’Ultima spiaggia. Ho ritrovato la voglia di scrivere e cantare e ho avuto la fortuna di conoscere Gianfranco Manfredi».
Vi beccaste una denuncia per vilipendio alla religione nello spettacolo «1992: Zombie di tutto il mondo unitevi a Nervi».
«No. Fummo censurati a un festival di Democrazia Proletaria. Da loro non me lo sarei mai aspettato».
Rapporti con Mina?
«Mina è un genio musicale. Non è solo brava di voce. Intuisce subito le possibilità di un brano. Avevo scritto una canzone con Manfredi intitolata Io non ci credo. Nelle sue mani è diventata Un cucchiaino di zucchero nel thè. Senza inciso. Capisce a pelle che le regole ogni tanto vanno violate».
Un consiglio ai giovani?
«Studiarsi bene la storia del secolo scorso. Viviamo una quasi democrazia. Ma questa non ci è stata regalata. I nostri nonni non vivevano liberi come noi oggi. È molto facile perdere la democrazia. E poi consiglio loro di fare quel che desiderano. Anche se non rende, dà piacere».
Ricky Gianco, le chiacchiere al bar di Brera: «Luigi Tenco era fantastico. Celentano un accentratore, ma geniale». Paolo Robaudi su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
Una vita per la musica: «Ho iniziato a cantare che avevo undici anni, a sedici ho fatto le prime registrazioni». L’incontro con i Beatles: «Paul era estroverso e simpatico, John taciturno e introverso»
Ricky Gianco a Brera è di casa. Seduto al tavolino di un bar di via San Marco, quasi di fronte a dove c’era lo storico locale Macondo, è un pozzo senza fondo di memorie. Salta da un aneddoto all’altro, si confessa amabilmente, e intanto saluta i conoscenti a passeggio con il cane. «La politica non esiste più, una volta questa città era piena di manifesti di comizi pubblici, oggi c’è solo la televisione. Per esempio, qui in via Castelfidardo c’è un barettino frequentato da studenti del Parini, sono ragazzi simpatici, alla sera tutti parlano ma nessuno ascolta».
«Ho iniziato a cantare che avevo undici anni - racconta -. Ascoltavo Radio Luxembourg, così ho conosciuto il rock and roll, quando qui da noi nessuno lo conosceva. Mi arricchivo di suoni ascoltando questa radio. A sedici anni ho fatto le prime registrazioni. Oggi è tutto un altro mondo, non si vendono più dischi. Allora era una ricerca continua per trovare un luogo dove suonare, noi volevamo solo suonare. Milano l’ho conosciuta che ero già un giovanotto. Cantine, scuole, appartamenti, qualsiasi spazio andava bene. All’epoca vivevo in zona via California, largo La Foppa. Suonavo con tre ragazzi che poi sono diventati i Dik Dik. In seguito poi c’è stato il periodo del Clan, con Celentano. Milano cresceva intorno a noi, ma non avevamo il tempo di rendercene conto, presi come eravamo dal fare musica».
Il legame con Milano è fortissimo: «Quando ho iniziato a viaggiare nel mondo, andando in America a registrare con i Toto, oppure viaggiando in India e in Nepal, mi sono reso conto di come le vie di Milano, come via Manzoni, via San Marco o anche una periferia, appartengano alla mia immaginazione. Come vere visioni. Dopo un po’ mi mancano».
L’altra città del cuore per Ricky Gianco è Genova: «Lì ho conosciuto Gaber, Paoli, Endrigo, Tenco, Jannacci. Tutti quanti eravamo prodotti da Nanni Ricordi. Erano i primi anni ‘60, ai tempi la domenica sera suonavo in un locale a Genova dove alcune volte veniva anche Tenco a farmi compagnia, Luigi era fantastico. Poi prendevo il treno delle cinque di mattina, per arrivare a Milano e andare a scuola. Perché i miei, in famiglia, volevano che prendessi il diploma. Tenco, mi ha insegnato a giocare “ai tocchi”, un vecchio gioco genovese, nel quale conta capire la psicologia dell’altro».
Dalla musica all’impegno politico: «A quel punto iniziai a suonare nei locali di Milano, come il “Pipes”, con Jannacci e Tenco e a produrre “I Quelli”, che saranno poi la PFM. Insomma erano begli anni. Ho iniziato scrivendo canzoni d’amore, la più famosa è stata “Pugni Chiusi”, cantata da Demetrio Stratos, quando faceva parte dei “Ribelli”. Erano gli anni ‘60, ad un certo punto iniziai frequentando locali con Endrigo e Tenco, loro erano più grandi e avevano già idee politiche precise: fu così che mi feci una certa cultura politica, in casa mia non se ne parlava. E poi erano gli anni di Bob Dylan, dei movimenti di Berkeley, del Vietnam, dei Beatles e di tante altre cose piene di nuove suggestioni».
La carriera procede: «Sono passato dal registrare i primi dischi su registratori a due piste a quelli a quattro con gli arrangiamenti di Jannacci». Ricky Gianco entra a far parte del Clan di Celentano: «Il primo artista attento a tutto. Anche i suoi vestiti, apparentemente incoerenti, erano studiati già allora nei particolari: un vero genio, accentratore, ma un genio».
Negli anni Sessanta l’incontro con i Beatles: «Paul era estroverso e simpatico, John taciturno e introverso». Poi con i Toto in America nel ’91 «Registrai con loro “È Rock & Roll”, un album che celebra la musica italiana degli anni ’50 e ‘60».
Tanti momenti per un’unica vita. «Mi chiedi perché oggi non ci sono più tutti questi talenti? È il consumo, la velocità, con cui tutto passa e va, non resta nulla. Io so per certo che tra cento anni ascolteranno i Beatles, come oggi si fa con Mozart. Oggi siamo tutti prigionieri in un mondo di password».
Barbara Costa per Dagospia il 28 agosto 2022.
“Ricky ha il caz*o perfetto per l’anale, adoro sentirlo tutto nelle mie viscere!”. E lo dice la pornostar "bianca" Gia Derza, e su un pene "nero", e non l’hanno social crocifissa, sicché… finalmente! Fine delle paturnie razziste!!! A quanto pare nel porno non è più tragedia, torto, sopruso, offesa, infilare un pene nero in un ano scuro all’interno ma non nero all’esterno, e chiamarlo interracial! Ma poi lo è mai stato??? Per caso la sigla IR, Interracial Porn, è stata bannata dai siti? Quando? A me non è parso…
Eppure un anno fa, ve lo ricordate, il casino scoppiato pure nel porno per le proteste di Black Lives Matter! Sarà per la delusione, sarà per il magna magna vergognoso in cui sono stati scoperti certi leader della protesta nera, fatto sta che attori e attrici afro del porno si erano accodati alla ribellione, sfogando – per lo più sui social – la loro ira per le ingiustizie che soffrivano.
Ci hanno guadagnato qualcosa? Nel porno sì. E in soldi. Infatti alcuni neri performer hanno fatto neri i loro agenti, sp*ttanando sui media e sui social, il loro fare paghe diverse – cioè inferiori – in base al colore della pelle. Sp*ttanamento riuscito alla grande, paghe diverse abolite, e allora, e oggi, nel porno, come se la passano, i non bianchi? Facciamocelo dire da Ricky Johnson, sogno proibito delle fruitrici porno e di ogni etnia e nazionalità.
Ricky Johnson, Best Maschio per le utenti Pornhub 2022. Ricky Johnson è, tra le altre cose, sotto contratto Brazzers, contratto a parecchi zeri, quindi Ricky, quando sono divampate le agitazioni nere, con chi sui social se l’è presa per primo? Ma con Brazzers, che postava sostegno al nero George Floyd ammazzato dal bianco poliziotto. Ricky ha twittato Brazzers quale ipocrita, e Brazzers… come ha reagito? Mica si è offeso, no, no, Brazzers vola alto, altissimo, e non ha cacciato via Ricky a pedate: la partnership va avanti, e progredisce.
Perché rinunciare a scene porno che vanno a gonfie vele? Su, amici come prima, scurdammoce 'o passato, in money we trust! Inoltre Ricky da un po’ ha lanciato il suo nuovo sito, si chiama "Ricky’s Room", ed è la stanza in cui le donne lui le dirige e se le sc*pa, davanti, e dietro, e di ogni colore questo c*lo sia. Ovviamente più le prende a 90 e più "Ricky’s Room" acchiappa views di occhi femminei a grappoli. Più Ricky le sbatte e ci gode e la fa urlare di onorevole soddisfazione, più le donne che guardano il porno questo porno se lo salvano tra i preferiti.
Ricky non rende l’atto romantico, lui lo rende cocente. Le donne lo guardano perché si immedesimano subito nella donna "amata" da Ricky. Sognano di essere lei, e si bagnano e si toccano. E vengono. È facile. E mooolto rilassante. I porno della "Ricky’s Room" sono girati "in notturna", a luci non assenti ma soffuse. Ogni spunto è volto a indurre le spettatrici a "spiare" quella stanza, a fantasticare di entrare in quel letto per esser loro le protagoniste di quel che accade. Per le appassionate, nella "Ricky’s Room" non mancano incontri a tre, e a quattro.
Donne fan del porno e di Ricky Johnson, preparate i fazzoletti, e stavolta non per rinfrescarvi tra le gambe: Ricky ha annunciato che tra due anni smetterà di fare il porno attore! Pessima notizia ne convengo, e spero si muovano petizioni online, raccolta firme e appelli e telefonate da governi e cancellerie internazionali e no, per fargli posticipare la penica pensione. Nel porno è solamente uno spreco ritirarsi a 32 anni!
Ricky e il suo pene di 26 cm sono in porno attività dal 2016: lui ha mollato l’università – studiava medicina, voleva diventare cardiochirurgo – per buttarsi anima e pene nel porno, e eguagliare i porno idoli che vedeva sul web, fin da adolescente, quando rubava la carta di credito di nonna per scaricarsi video porno e dare la colpa ai cugini grandi quando gli ammanchi sul conto venivano individuati.
Ma poi, cari genitori, siate fantasiosi sui codici parental control che inserite: il piccolo Ricky ci ha messo niente a capire che quello deciso in famiglia era il classico 1111, e sbloccarlo, e guardare di nascosto i canali XXX… e non vi lascio senza avervi detto questo: Ricky Johnson, agli inizi, nel porno, ha subìto razzismo, ma dai neri! Sissignori: lo "accusavano" di non essere abbastanza nero, di essere troppo chiaro, un "negro-bianco". Il razzismo dei neri contro i neri c’è, esiste, da sempre, in America, dove ha una sua storia che è una gran brutta storia, e non solo in America, e pure nel porno che altro non è che specchio sociale, tanto nel bene, tanto nel male.
Chiara Beretta per vanityfair.it l'8 settembre 2022.
Ricky Martin ha citato in giudizio per 20 milioni il nipote che lo aveva accusato di molestie sessuali e che aveva poi ritrattato completamente la sua versione in Tribunale. Il caso era dunque stato archiviato, ma per il cantante, 50 anni, la questione non è chiusa. Da qui la decisione di intentare la causa milionaria per estorsione, perseguimento doloso, abuso di diritti e danni.
I fatti risalgono all'estate. A fine giugno, il 21enne Dennis Yadiel Sanchez - figlio di Vanessa, sorella del cantante - aveva accusato il celebre zio di molestie e incesto. Nello specifico, Sanchez aveva dichiarato di avere avuto una relazione di 7 mesi con Martin, conclusasi due mesi prima delle pubbliche accuse. Stando alla sua versione, lo zio non avrebbe accettato la decisione di chiudere il rapporto e avrebbe iniziato a tormentarlo chiamandolo ripetutamente e cercando di incontrarlo.
Martin, che aveva ricevuto un ordine restrittivo con il divieto di contattare il nipote, aveva immediatamente respinto le accuse. Il suo avvocato Marty Singer, un nome molto noto a Hollywood e che già in passato sia era occupato di casi di molestie e abusi, aveva dichiarato che Ricky Martin non era mai stato coinvolto in nessuna relazione sessuale o romantica con il nipote e aveva fatto riferimento a «profonde sfide legate alla salute mentale» del 21enne. Pochi giorni dopo, in Tribunale, Sanchez aveva ritirato tutte le accuse e il caso era stato archiviato. «La verità prevale», aveva commentato su Instagram il cantante, che dal 2017 è sposato con Jwan Josef, artista siriano-svedese.
Come riportato da People, Ricky Martin ha intentato la causa contro il nipote mercoledì 7 settembre. Nella denuncia si legge che le accuse di Sanchez sarebbero nate dopo che il cantante non lo aveva seguito sui social media, non aveva risposto ai suoi numerosi messaggi e aveva «ignorato» le sue richieste di creare una pagina social per i figli di Martin. Il nipote, sempre stando a quanto riportato, avrebbe poi pubblicato il numero di telefono dello zio, costringendolo a cambiarlo.
Nella documentazione citata da People e altre fonti si legge che il nipote avrebbe «minacciato» Martin dicendo che, «a meno di non venire risarcito economicamente, continuerà la sua campagna per assassinare la sua reputazione e integrità, attraverso accuse false e maliziose». Ricky Martin a causa di questa vicenda avrebbe perso contratti multimilionari, dal momento che alcuni progetti artistici «presenti e futuri» sono stati ritirati.
Ricky Martin accusato di violenza domestica: rischia 50 anni di carcere. La difesa: «Tutto falso». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.
Il legale della star ha rigettato ogni addebito. A difendere l’artista anche il fratello: «Nostro nipote soffre di disturbi mentali».
«Sono accuse false e anche disgustose»: così Marty Singer, avvocato di Ricky Martin, ha etichettato le accuse mosse nei giorni scorsi dal nipote della star portoricana, Dennis Yadiel Sanchez. Il 21enne, figlio della sorellastra della star Vanessa, ha dichiarato di aver avuto una storia clandestina di sette mesi con Martin, terminata un paio di mesi fa e di aver subito violenze domestiche (perché il cantante, non avendo accettato la fine del legame, avrebbe cominciato ad aggirarsi attorno a casa del nipote e a riempirlo di telefonate e messaggi, portandolo a sporgere denuncia per stalking). «La persona che ha fatto questa affermazione sta attraversando profonde sfide legate alla salute mentale - ha dichiarato Singer a Variety e TMZ -. Ovviamente Ricky Martin non è mai stato coinvolto in alcun tipo di relazione sessuale o romantica con suo nipote. Speriamo tutti che quest’uomo riceva l’aiuto di cui ha urgente bisogno. Ma soprattutto non vediamo l’ora che un giudice possa esaminare i fatti e quindi archiviare il caso».
L’udienza - per il riesame dell’ordinanza restrittiva emessa nei confronti di Martin - si terrà il 21 luglio. Se si andrà a processo in caso di condanna la star rischia fino a 50 anni di reclusione (la pena massima prevista dalla legge portoricana per i reati di cui Martin è accusato). Nel frattempo anche il fratello della popstar, Eric, ha preso le sue difese: «Se qualcuno ha visto il mio caro nipote che manca da tempo dalla famiglia, questo è un messaggio per lui - ha detto in una diretta Facebook -. La sua famiglia lo ama, che abbia problemi mentali è un altro discorso, abbiamo combattuto per tutta la vita con questo problema. Sono stanco di tacere».
Ricky Martin rischia il carcere: "Relazione con il figlio di sua sorella". Novella Toloni il 10 Luglio 2022 su Il Giornale.
Dopo la denuncia per stalking e l'ordine di restrizione, i media sudamericani hanno ipotizzato che l'accusatore sia il nipote del cantante, 21 anni, con il quale Ricky avrebbe avuto una relazione segreta durata sette mesi.
Si complica la posizione di Ricky Martin dopo la denuncia per violenza domestica, che è stata sporta contro di lui da un ex fidanzato. L'identità dell'accusatore era stata tenuta segreta, ma secondo quanto riferito dai media sudamericani, l'ex del cantante portoricano sarebbe Dennis Yaddiel Sánchez Martin, cioè il figlio di Vanessa Martin, sorella della popstar. Se la notizia venisse confermata e la relazione tra zio e nipote anche, Martin rischierebbe fino a 50 anni di carcere per la relazione incestuosa.
A Porto Rico, dove Ricky Martin vive e dove è stata sporta la denuncia contro di lui per stalking e violenza domestica, la legge è molto severa nei casi di incesto e se la frequentazione venisse provata in tribunale - dove il prossimo 21 luglio si terrà la prima udienza - la posizione di Ricky Martin si complicherebbe notevolmente. La vicenda è cominciata una settimana fa quando un uomo si è presentato presso il tribunale di Dorado, cittadina portoricana, per denunciare il cantante. Lo sconosciuto ha dichiarato di avere avuto una relazione segreta - visto che il cantante ufficialmente è sposato - di circa sette mesi. La relazione sarebbe però naufragata, ma secondo l'accusatore l'artista non avrebbe accettato la fine della storia e lo avrebbe seguito, aspettato sotto casa e chiamato in più occasioni. Così l'ex ha deciso di denunciare, convincendo il giudice a emettere un ordine restrittivo nei confronti di Ricky Martin.
Telefonate e appostamenti sotto casa dell'ex. Ricky Martin accusato di violenza domestica
La popstar si è detta certa di potersi difendere davanti ai giudici "con la responsabilità che mi caratterizza", ma intanto i nuovi dettagli emersi sulla vicenda rendono il tutto ancora più delicato. I siti sudamericani si dicono certi che l'ex che lo ha denunciato sia il figlio di sua sorella, Dennis, anche se inizialmente si pensava che a denunciarlo fosse stato un parente del marito, Jwan Yosef. TvAtzeca.com riporta inoltre che il nipote di Martin, che ha 21 anni, avrebbe addirittura dichiarato che lo zio abusa di alcol e droga e avrebbe consumato rapporti sessuali con lui. Poche ore fa il fratello della popstar, Eric Martin, avrebbe involontariamente confermato la notizia, che sia proprio il nipote a avere denunciato Ricky Martin, ma ha difeso con forza il fratello. "Amo mio nipote nell'anima e la sua famiglia lo ama nell'anima, ma Dennis ha problemi mentali. Abbiamo lottato per tutta la vita con questo problema", ha scritto il fratello del cantante su Facebook. E ora c'è chi pensa che potrebbe essere proprio questa la linea difensiva della popstar portoricana.
Elisabetta Murina per fanpage.it il 21 luglio 2022
Il nipote di Ricky Martin, Dennis Yadiel Sanchez, ha ritirato le accuse nei confronti dello zio. A riportarlo il sito americano TMZ, al termine dell'udienza che si è svolta oggi, 21 luglio, presso il tribunale di Puerto Rico.
La star, che è apparsa in collegamento via Zoom, era stata accusata dal 21enne di aver avuto con lui una relazione sessuale durata circa 7 mesi e di averlo poi molestato. Secondo il sito americano, il giudice avrebbe respinto l'ordinanza restrittiva emessa nei confronti della star.
Il team legale del cantante ha fatto sapere a TMZ: "Proprio come avevamo previsto, l'ordine di protezione non è stato esteso dal tribunale".
Il post di Ricky Martin dopo l'udienza
Subito dopo l'udienza, nella quale il 21enne ha ritirato le accuse, Ricky Martin ha pubblicato un post su Instagram spiegando cosa è successo nell'aula del tribunale e scrivendo poi: "La verità ha prevalso".
Martin ha sempre negato di aver molestato Dennis Sanchez. "Come abbiamo anticipato, l'ordine restrittivo temporaneo non è stato esteso dalla Corte. L'accusatore ha confermato in tribunale di aver preso da solo la decisione di ritirare le accuse, senza nessuna influenza esterna o pressione", ha raccontato la star sui social.
Le accuse nei confronti di Rick Martin
La vicenda che ha coinvolto Ricky Martin è iniziata con le accuse mosse nei suoi confronti da Dennis Sanchez, figlio adottivo di Vanessa Martin, sorella dell'artista. Il 21enne sostiene di essere stato vittima di violenza domestica e di aver vissuto con lo zio una relazione (consensuale) durata 7 mesi e conclusasi ormai due anni fa.
Il giovane sostiene che Martin lo avrebbe ripetutamente chiamato, per poi tentare di incontrarlo presentandosi fuori dalla sua abitazione, non accettando la fine della loro relazione. Dennis avrebbe inoltre riferito il presunto consumo di stupefacenti, sostanze che avrebbero alterato l’umore dello zio rendendolo incline a perdere il controllo.
Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 20 maggio 2022.
«Il rock non è avere le chitarre distorte, ma è un modo di vivere». Ricky Portera ha sempre vissuto con questo spirito: un po’ folle e un po’ nomade, un po’ incazzato e un po’ gigione. Da vero romagnolo, il fascino femminile ha segnato le sue scelte, persino quelle politiche. Infatti, ci ha raccontato di aver «preso botte sia a sinistra che a destra» visto che si spostava da uno schieramento all’altro «in base a dove c’era una ragazza che mi piaceva».
Fedele al “partito della gnocca” direbbe Vasco Rossi, che lui conosce da quando era bambino: «Se è tornato a cantare è anche grazie a me, quando ha visto le belle donne che venivano nei nostri camerini».
Nel frattempo è diventato uno dei chitarristi più noti del panorama musicale italiano: a 11 anni accompagnava già una band negli strip club del modenese («vederle nude mi ha mandato all’ospedale») e a 12 era considerato un enfant prodige.
Poi la fondazione degli Stadio e la simbiosi umana e artistica con Lucio Dalla, con il quale ha lavorato 33 anni lasciando il segno nelle sue canzoni più famose, e ha poi continuato un po’ con tutti quelli che volevano impreziosire con un assolo unico i loro brani: da Finardi alla Bertè, da Ron a Venditti, fino a Freak Antoni, Marco Masini, Paola Turci, Alice e Anna Tatangelo. Senza dimenticare quattro album solisti di cui, però, «non si è accorto nessuno per varie sfighe».
Ci incontriamo al matrimonio di un suo amico, dove ha fissato l’appuntamento per questa intervista, e capisco subito che nonostante i 68 anni l’atteggiamento è ancora quello del rocker di razza. Il cameriere ci porta i caffè e lui lo chiede «corretto Jack Daniel’s».
E anche se il cappello da cowboy ha lasciato il posto a un berretto da baseball, gli anelli enormi che indossa e i tatuaggi che dalle mani risalgono sugli avambracci sono la testimonianza di un passato che è difficile da cancellare. In disparte rispetto ai festeggiati, per quasi due ore parlerà di tutto: da quando la mamma gli spaccò in testa una chitarra per fargliela suonare, ai suoi riferimenti musicali: «Steve Vai dal vivo l’ho sopportato per dieci minuti».
Naturalmente del rapporto fortissimo e altrettanto conflittuale con Dalla, al quale non risparmiava niente da vivo e neanche da morto: «Ci sono persone che traducono il potere in denaro, altre in potere sugli uomini. Hanno quella libidine lì e Lucio ce l’aveva».
Ma dopo «essere stato estromesso senza neanche avvisarmi», gli scriverà una mail dolcissima che ancora gli mette la pelle d’oca: «Sarai sempre il mio chitarrista (se non ti chiamano prima gli AC/DC) anche in paradiso».
Ancora: la mancanza di stima per Francesco De Gregori («non è un grande uomo»), i Måneskin e Achille Lauro «cloni del passato», i soldi guadagnati e quasi tutti sperperati («sono uno dei più famosi e uno dei più poveri»).
La conversione al buddismo che lo fa sentire in pace, ma non gli evita qualche incazzatura («sono buddista ma non sono fesso»). Ma il pensiero della fine, nonostante la reincarnazione (o proprio grazie ad essa), non lo spaventa: «Se potessi decidere come morire vorrei fare un frontale con un camion in Lamborghini a 260 all’ora. In alternativa ho la mia pistola Glock, nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo».
Ricky, qual è stato tuo primo approccio con la musica?
A 4 anni. Avevo il desiderio di suonare la batteria, mi ispirava quello strumento. Sono figlio di un maresciallo dei carabinieri, quindi per la Befana chiedevo sempre una batteria in regalo. Allora con i tamburi di carta.
Una sera i miei andarono a ballare a Vignola, regno delle ciliegie, e c’era una band con la batteria vera. Sono impazzito! Ho insistito con mia madre per chiedere al batterista di farmela provare e incredibilmente, dopo averci provato, portai un tempo. Tanto che il batterista chiese a mia madre: “Ma studia?”.
Non avevo mai preso lezioni, così la mamma chiamò un insegnante di sax, che fortunatamente dopo tre lezioni non venne più, e qualche tempo dopo, con i miei cugini, andai a studiare canto. Dopo un anno sempre mia madre mi disse: «Impara anche la chitarra, così quando torniamo a Messina in spiaggia puoi suonarla».
È lì che è scattato qualcosa?
Non ancora, non mi piaceva, mi faceva venire le vesciche alle dita. Poi un giorno che dovevo preparare una lezione, e invece leggevo dei fumetti, la mamma mi passò dietro, prese la chitarra, per fortuna una Eko cartonata, e me la spaccò tra capo e collo. Lì è successo qualcosa. È diventata una fissazione. Sono arrivato a dormirci con la chitarra.
Padre maresciallo, mamma che ti spacca una chitarra in testa. Per reazione non potevi che diventare un rocker.
Lei suonava la fisarmonica e aveva delle reminiscenze musicali, per cui voleva trasferirmele. Fatto sta che mi ritrovai già a 12 anni a essere uno dei chitarristi più famosi di Modena.
Ma già prima hai raccontato che, a 11 anni, accompagnavi gli strip-tease nei locali…
Non ero ancora il chitarrista che diventai in seguito, ma è vero. Quando mi beccavano dovevo andare a casa. È stato uno choc con tutte quelle donne, son finito dal medico. A quei tempi levavano solo il reggiseno, però si giravano verso la band e io, naturalmente, sbagliavo tutti gli stacchi. Ma per fortuna si vedeva solo il seno, sennò sarei già morto. Dopo ho iniziato con le band rock e anche da quelle esperienze è nata la mia versatilità con la chitarra.
Quali sono stati i tuoi riferimenti iniziali?
Ho cominciato a vedere i concerti a Modena dove c’era un locale che si chiamava Bob 2000, che è stato fra i precursori per le esibizioni delle rock band. Ricordo John Mayall o gli Uriah Heep. Il periodo era quello di Woodstock, Who, Jimi Hendrix e Led Zeppelin, che poi mi cambiarono la vita. Ma l’inizio è stato con le canzoni dei Beatles come Girl, Michelle o Strawberry Fields Forever. Poi mi sono catapultato in brani come Good Times Bad Times dei Led Zeppelin e in Foxy Lady di Hendrix.
Hai mai conosciuto qualcuno di questi artisti?
I miei miti di allora no. Ma tempo dopo ho fatto un po’ di serate con Ian Paice dei Deep Purple. Oppure ho conosciuto Bryan Adams, un cantante che amo tutt’ora. Suonare con loro diventa tutta un’altra cosa.
Spesso sei stato associato a Steve Vai.
Non sono mai stato un mitomane della chitarra e nella mia vita ho avuto tre chitarristi importanti: Jeff Beck, Jimi Hendrix e Eddie Van Halen, quest’ultimo l’ho conobbi in Germania e mi regalò un suo body. Forse mi associano a Steve Vai perché un periodo diventai endorser delle sue chitarre. L’ho anche conosciuto, sono andato a due concerti, ma ho retto pochissimo. Non sempre i miti rispecchiano quelle che sono le tue esigenze emotive.
Come mai?
L’ho sentito prima dieci minuti e poi cinque minuti, poi il mito mi è caduto. Non perché non valga la pena di essere ascoltato, ma ci sono gli atleti che vanno alle olimpiadi e quelli che, pur con pari tecnica e bravura, vanno al circo. Uno ti vuole emozionare e uno ti vuole stupire. Siccome ho avuto un grande maestro come Lucio Dalla, lui mi ha insegnato che la musica è emozione, e comunicazione e non solo voler stupire. Così ho abbandonato tutta quella esagerazione tecnica. Però vedo che oggi sta un po’ tornando…
Sui social spopolano i chitarristi, anche giovanissimi, che suonano a velocità mostruose.
Li vedo anch’io, ma non servono a niente. Se ascolto Jeff Beck mi emoziona ancora. Come Jimi Hendrix in certe sue cose. Non in tutto perché, come altri, ha passato periodi di droga infiniti e quindi menate mentali incomprensibili. Ma quando sento i suoi pezzi migliori capisco che Dio esiste. A un concerto dei Pink Floyd a Modena, avevo mia figlia sulle spalle, e quando fecero Shine On You Crazy Diamond al il riff iniziale le ginocchia mi hanno ceduto. Per un periodo anch’io sono stato intrappolato nelle menate tecniche, poi ho abbandonato.
Oggi al matrimonio non ti esibisci per gli sposi?
Nooo, lasciami un po’ essere ospite senza dover ripagare con una suonata.
È un rischio che corri a ogni uscita pubblica…
Sempre… sempre… non va bene, perché anche il musicista ha bisogno di sentirsi normale.
Non ti chiederò cosa ne pensi del chitarrista che sta suonando in questo momento…
Oddio, no no. Io amo tutti, basta che non facciano cazzate. Per cazzate intendo il sapere quali sono i loro limiti e, nonostante questo, voler andare oltre. Io ho imparato cose fantastiche da tutti. Come da un ragazzino che aveva la chitarra in mano da tre mesi, quando facevo lezione. Bisogna avere l’umiltà di apprendere da chiunque. La mente aperta è la vittoria delle emozioni e della nostra professionalità.
Torniamo al tuo passato. Hai vissuto il mitico ‘68.
Quante botte che ho preso…
Come mai?
Perché di volta in volta andavo a simpatie in base a dov’era la ragazzina che mi piaceva. Una volta a sinistra, una a destra… Io avevo 14 anni, non avevo le idee chiare, ma non le avevano neanche i più grandi.
Un po’ presto anche per aver provato l’amore libero.
A 14 anni era una utopia. Però l’ho provato lo stesso, perché lo facevo da solo. Più libero di così.
Hai parlato di Jimi Hendrix e dei suoi eccessi. Per tanto tempo si è creduto che il rock e l’uso di droghe dovessero essere strettamente connessi. È un mondo che hai conosciuto?
Sì, ma è tutta una illusione. Lo posso dire perché anch’io ho avuto esperienze del genere e ho creduto di suonare in maniera eccellente, poi rivedendomi facevo schifo. Hai persino l’illusione di sapere cos’è la verità. Oggi dico abbasso le droghe e viva la mente lucida. Nella musica e nella vita è sempre meglio essere presenti a se stessi e capire come “servire” gli artisti con i quali collabori.
Andiamo passo passo. Sei stato uno dei fondatori degli Stadio. Cosa ricordi di quel periodo?
Quella band è stata il regalo che ci fece Lucio Dalla. Venivamo dal tour di Banana Republic dove noi musicisti fummo un po’ bistrattati. È stato un tour tutto rivolto al loro guadagno, sia dei due artisti principali che degli impresari. A volte aprivo la porta e vedevo tavoloni pieni di soldi, mentre a noi musicisti arrivava poco o niente. Non dico le cifre perché mi vergogno di aver accettato quel compromesso, anche se prima dovrebbero vergognarsi loro.
Ci torneremo. Ma è vero che sei stato tu a consigliare Gaetano Curreri a Lucio Dalla?
È vero, ma ancora prima Gaetano mi aveva fatto passare da Modena a Bologna. Nella band Cinque Lire gli serviva un chitarrista e chiamò me. E quando a Lucio servì un tastierista io gli consigliai lui. Abbiamo formato gli Stadio che era una strana band perché ci gravitava sempre Lucio e quindi non avevamo una grande personalità.
Quando ci proponevano qualcosa era sempre uno scambio con Lucio. Se pensi che Grande figlio di puttana ancora oggi la attribuiscono a Lucio, mentre ha scritto solo il testo, tra l’altro dedicandolo a me. Abbiamo fatto cose bellissime, però non avevamo una identità. Anche in tv doveva esserci sempre Lucio. Una volta al Festivalbar ci sono corsi dietro dei fan e intanto dicevano: «Ma chi sono? Ma chi sono?». Insomma, dopo un po’ ti cadono le braccia…
Nel 2016, tra l’altro c’eri anche tu benché solo per la serata delle cover, la vittoria di Sanremo è stata la vostra consacrazione come Stadio?
Non nascondiamocelo, perché in fondo io sono un falso umile. La figura carismatica degli Stadio ero io. Dopo anni che predicavo di staccarci da Lucio, quando me ne sono andato io, che ero considerato un accentratore, anche loro hanno lasciato Dalla. Non perché avessi qualcosa contro di lui, ma per guadagnare una nostra identità. Era importante. I Toto hanno lavorato con tutti, ma non dicevano il gruppo di Jackson o di altri.
Qual è stato il tuo momento migliore con gli Stadio?
Non l’ho mai avvertito, proprio a causa di quello che ti ho spiegato. Eravamo sempre gregari. Anche a Sanremo ci hanno presentato come il gruppo di Lucio Dalla.
Allora passiamo al tuo sodalizio con Dalla. Il primo incontro?
Venivo dalle sale da ballo. Avevo una band dissacrante che si chiamava Sua Maestà. Il nostro pubblico era composto da papponi, prostitute e ladri… e la canzone più dolce recitava così: “Ehi ehi alza la tua gonna, ehi ehi stuprare la mia donna”. Eravamo i preferiti di Vasco Rossi che faceva ancora il dj. Alle feste di Punto Radio ci invitava sempre. Venivo da quell’ambiente. Per un momento stavamo per diventare il gruppo di Renato Zero, poi non se ne è fatto più nulla.
A questo punto si avvicina un signore in giacca e cravatta che lo saluta e Portera riconosce una somiglianza: «Ma lei è Donald Trump». E lui: «Quando sono pettinato sì, quando mi spettino sono uguale a Boris Johnson…».
Eravamo rimasti al primo incontro con Dalla …
Mi chiamano dall’agenzia perché un certo Lucio Dalla sta cercando un chitarrista. E io: «Ma chi è?». Non lo conoscevo. Mi spiegarono che aveva fatto Sanremo con Bisogna saper perdere. Siccome ero un fan scatenato dei Rokes ed ero talmente in bolletta mi sono detto: ma sì, dai, faccio due-tre mesi e vado a guadagnare qualcosa. Alla fine siamo rimasti insieme 33 anni.
L’ho raggiunto in un locale vicino a Modena, il Due Stelle di Reggiolo. In quel periodo era con due musicisti, lui al piano, un bassista e un batterista. Mi vestii tutto fighetto, poi mi pentii perché mi trovai davanti uno in canottiera, tutto sudato e peloso. Esordii tutto educato: «Buonasera signor Lucio…». Lui rimase due minuti in silenzio, che se li calcoli son lunghi. Mi guardava con un sorriso sornione e intanto io pensavo: avrò fatto qualcosa che non va?
E poi?
Alla fine disse: «Abito in Via delle Fragole a Bologna. Domani alle tre vieni a casa mia che facciamo le prove». Un’ora scarsa e poi mi portò in garage, tirò fuori la sua Ducati Scrambler, mi caricò dietro e, con un freddo che non puoi immaginare perché eravamo sotto Natale, andammo in centro al Pavaglio, vicino a Piazza Maggiore, da Veronesi che è una famosa gioielleria dove ci siamo fatti il primo buco nell’orecchio. Io e lui. Bene, mi sono detto: questo sì che è rock and roll. Era il ’77, avevo 23 anni.
Anche con te era un gran raccontatore di balle, come è stato descritto da molti?
Lui era il più grande bugiardo che abbia mai conosciuto. Poi ho capito che per Lucio la vita era un film e lui ne era il regista. A tutti dava un soprannome e facevamo parte di una delle sue pellicole. Io ero soprannominato Zi perché ho la esse sibilante. Un giorno in macchina verso la Svizzera mi disse: «Ta, mi daresti una sigaretta?». «Sì, ma ta cosa vuol dire?». E lui: «Ta è il femminile di tu». Aveva queste trovate divertentissime, così come poteva essere orribili quando le usava al contrario.
Facci qualche esempio.
Lucio aveva una grande dote. Un giorno ti faceva sentire un Dio e un altro una merda spalmata sulla strada. Io sono sempre stato un ribelle e forse mi ha adorato per questo. Non gliene ho mai fatta passare una e ci siamo sempre scontrati. Ma molti che aveva intorno non erano così. Andavano in cerca solo della sua benevolenza e quindi facevano anche cose che non andavano fatte. È stata la ragione per la quale ho lasciato gli Stadio. Non sopporto il servilismo e il clientelismo.
Tutti i grandi hanno sia luci che ombre.
Ci sono persone che traducono il potere in denaro, altre in potere sugli uomini. Hanno quella libidine lì e Lucio ce l’aveva. Quella di far dire alle persone ciò che non pensano. Lui poteva uscirsene così: «Guardate fuori che piove». Non era vero, ma quelli intorno rispondevano: «Hai ragione Lucio, che brutta pioggia». Dopo qualche minuto gli girava che fuori c’era il sole: «Vado ad abbronzarmi un po’». E loro: «Sì sì Lucio, veniamo anche noi».
È un grande potere manipolatorio. Sui soldi non era particolarmente avido, ma sai com’è, servono sempre. Io sono convinto che chi ha i soldi è perché non li spende. Come mi disse una volta l’impresario di Lucio: «Più ne hai e più ne vuoi». A me non capita la stessa cosa, cioè meno ne ho e meno ne vorrei.
A questo punto torna “Trump” che si rivela essere un musicista. «Ricky, se vuoi dopo ti passo il CD della mia band se hai voglia di ascoltarlo». E Portera: «Moooolto volentieri…». Quando si allontana racconta qualche aneddoto curioso legato ai fan.
Ti capiterà spesso che ti vogliano far ascoltare qualcosa.
Spessissimo e a volte si sbagliano anche. Un giorno mi si avvicina uno e mi dice: «Ricky, meraviglioso l’assolo degli Angeli che hai fatto a San Siro con Vasco…». Ma chi è mai stato a San Siro con Vasco Rossi? Un’altra volta passa un ragazzo e fa alla sua ragazza: «Ti presento due miti della musica. Va da Solieri: “Lui è Ricky Portera”. Viene da me: “Lui è Maurizio Solieri”». O come in stazione a Roma che mi sono corsi dietro chiamandomi «Vascoooo». Sono scappato e forse loro sono ancora convinti che fossi lui…
Come con gli Stadio, anche da Lucio Dalla ti sei staccato per una decina di anni, per poi tornare. Come sono andate le cose in quel periodo?
Mi spiace non avere più le mail che ci siamo scambiati con Lucio. La prima volta me ne andai io, ma solo perché volevo staccarmi dagli Stadio. La seconda volta non era mia intenzione lasciarlo, invece mi hanno lasciato loro. La cosa peggiore è che non mi dissero niente. Lo ricordo come fosse ieri.
Ci siamo esibiti in un ultimo dell’anno a Firenze e dopo a Bologna. Era l’inaugurazione del Frecciarossa. Siccome avevo intuito che qualcosa non andava, quando nel tragitto in treno Lucio è andato in bagno lo aspettai fuori dalla porta. Quando uscì, si mise a guadare la coda del treno fuori dal finestrino e mi disse: «Bello eh?!». Nient’altro… Finii la serata, salutai tutti, poi a casa gli mandai una mail molto cattiva.
E lui come reagì?
Io per Lucio ho preso una molotov al Castello Sforzesco a Milano, è scoppiata di fianco a me. E ancora i sassi, le lattine, le bottiglie d’acqua piene. Sono stato molto cattivo nella mail perché tu accontenti, fra virgolette, il padrone, ma il padrone se vuol fare a meno di me deve almeno venirmelo a dire. Agli operai arriva la lettera di licenziamento, a me nulla. Lui mi rispose con una mail molto dolce, dove si levava la responsabilità dandola ad altri e alla fine aggiunge una frase che mi fa venire ancora la pelle d’oca: «Sarai sempre il mio chitarrista (se non ti chiamano prima gli AC/DC) anche in paradiso».
Poi non c’è più stato il tempo per riavvicinarvi…
Poco prima della morte di Lucio avevo fatto un concerto in Calabria. Ero andato a letto alle 6 e alle 8 mi squilla il telefono. “Dalla” leggo sul display. Anche lì sono stato stronzo, gli ho risposto: «Cosa vuoi?». E lui, con dolcezza: «Volevo ricordati che sei sempre il mio chitarrista». Ero ancora talmente incazzato che ho saputo rispondergli soltanto: «Va bene, me l’hai detto. Ciao».
E ho buttato giù. Da lì non ci siamo più sentiti. Ma prima del suo ultimo tour, avevo una serata in Sicilia. Quando andai a prendere l’aereo a Catania incontrai Gionata Colaprisca, il suo percussionista, che entusiasta mi disse: «Ricky, allora parti con noi?». Non ne sapevo nulla. «Ma come, c’è Lucio che da un mese continua a dire che deve chiamare Ricky per portarlo in tour». Sono partiti senza di me e non è più tornato.
Quando hai capito che Lucio era un genio?
Era un genio, sia nell’inventare sia nel carpire quello che gli potevi dare tu. Mi ha fatto fare delle cose che non sembravano avere un senso. Solo dopo ti rendevi conto che un senso lo avevano. È facile conoscere l’armonia, ma lui invece faceva cose senza logica musicale. Era un autodidatta totale.
E poi si appassionava alle mie follie. Se ascolti Anna e Marco, quando la abbiamo registrata scherzosamente a un certo punto feci A Remark You Made dei Weather Report. Quando canta “ma l’America è lontana…”. E Lucio: «Cazzo Ricky sei un genio». No Lucio, non si può mettere questa cosa, qui andiamo in galera. Ma se riascoltate la frase è quella, solo leggermente cambiata nell’ordine delle note.
Si rivolge al cameriere: «Scusi, qui si può fumare?», e ne riceve un no netto. Sbotta: «Chiedere è lecito, rispondere è… utopia».
Prima hai accennato al tour di Banana Republic, dove però al posto di Francesco De Gregori doveva esserci Lucio Battisti.
Sì, l’idea era Lucio & Lucio. Non so perché Battisti decise di non accettare. E non voleva accettare neanche De Gregori, perché veniva da un periodo complicato dopo il processo proletario che aveva subito, per cui aveva una paura fottuta di salire sul palco. Feci un tour con lui nel 1982 e, non so come mai, a Firenze per tre giorni ho dovuto schivare le lattine piene di sabbia che mi tirava il suo pubblico. Mi davano del fascista. Ed ero al fianco di uno che era l’emblema della sinistra, ma che dopo il processo proletario suonava a 20 milioni di lire a sera. Un po’ un controsenso.
Mi sembra di capire che con De Gregori non sei rimasto in buoni rapporti.
Assolutamente no. Nel libro mio libro Ci sono cose che non posso dire lo chiamo l’oscuro profeta. Spesso e volentieri l’uomo non corrisponde al grande artista. E lui non è un grande uomo. Intanto le persone che maltrattano gli animali per me sono da uccidere, e lui lo faceva. È facile prendere a pugni un bambino, ma non si deve fare. E poi il suo atteggiamento non mi piaceva, aveva sempre la guardia del corpo e diceva cose che non rispecchiavano la sua identità politica.
Ti riferisci a pensieri esposti in privato, non a dichiarazioni pubbliche, giusto?
Sì sì, certo. Quando parlavamo tra noi musicisti. Ma è lì che vedi l’uomo vero, non davanti al pubblico. È una persona che non mi piace e, soprattutto, quando è morto Lucio, Francesco ne parlava bene, ma invece non lo amava per niente. Io che lo conosco, De Gregori, lo vedevo quando parlava ed era tutto tirato in viso e mi è sembrato davvero fuori luogo.
Tanto per essere politicamente corretti…
Ma dai, non è che se uno se ne va bisogna per forza parlarne bene. Lucio era un genio musicale, ma nella vita come uomo aveva dei pregi e dei difetti, come tutti. È chiaro che il difetto da un uomo potente pesa di più che da uno qualsiasi. Se da un giorno all’altro ti diceva «non lavori più» non lavoravi più davvero. È il potere di cui ti parlavo prima. Noi siamo artisti, quindi persone che fanno gli attori ed eseguono un personaggio sul palco.
Ma se nel teatro o al cinema il personaggio può essere completamente diverso dall’uomo, nella musica ci vuole un minimo di coerenza, sennò dici delle bugie al pubblico. Spesso ho riscontrato che nei cantautori non c’è questa sincerità. E poi, soprattutto, sono persone umilissime da poveri e diventano degli stronzi bestiali quando iniziano ad avere i soldi. A me non piace questo atteggiamento, apprezzo la linearità. Io ero stronzo quando avevo i soldi e sono stronzo adesso che sono in bolletta.
In che modo si traduce la tua stronzaggine?
Prova a pensare a un ragazzino che già a 23-24 anni usciva sui giornali come il miglior chitarrista italiano. Ero giovane, bello, ricco. Avevo delle donne stupende, anche famose presentatrici e showgirl. Permetti che possa essere un po’ stronzo? C’è gente che lo è senza valere un cazzo. Poi sono diventato buddista e ho iniziato a capire che quello che fai di male ti torna indietro. Il mio karma addirittura mi anticipa, per cui mi punisce prima che io faccia del male.
Un altro grande artista che conosci bene è Vasco Rossi, vi siete conosciuti quando il successo per entrambi era lontano, cioè quando lui aveva 8 anni e tu 6. Cosa lo rende così speciale?
È un grande comunicatore e la comunicazione è importantissima. Vasco quando smise di cantare e aprì Punto Radio riusciva a parlare per ore e a incantare la gente. Se tu analizzi le sue canzoni sono tutte le storie che vive ognuno di noi. È questa la sua forza. Tutti si identificano nei suoi pezzi.
Tra l’altro è anche merito tuo se Vasco è tornato a cantare, no?
Una sera eravamo al Kiwi di Piumazzo, a Castelfranco Emilia. Io ero in concerto con i Sua Maestà, la band dissacrante con la quale portavamo in giro una storia che passava dal male al bene. E quando facevo il male, vestito da nazista, prendevo le ragazze per i capelli sotto il palco e le baciavo.
Una volta nei camerini Vasco sbottò: «Devo ricominciare a cantare, perché si tromba di più a fare i musicisti che i dj». Lui l’ha detto spesso che anche grazie a me ha ricominciato a fare il musicista, quando ha visto le file di belle ragazze che arrivavano nei camerini.
Oltre a Dalla hai collaborato con tantissimi, da Eugenio Finardi a Loredana Bertè, da Ron ad Antonello Venditti, fino a Freak Antoni, Marco Masini, Paola Turci, Alice e Anna Tatangelo. Chi ricordi con più piacere?
Sicuramente la collaborazione con Finardi. Per via di scene folli, una notte a Lagonegro siamo andati a caccia di un gallo per farlo fuori.
Ma come per farlo fuori?
Sai, noi andavamo a letto tardi, alle 6-7 del mattino, e lui cantava proprio in quegli orari e non ti fa dormire. Ma non lo hanno trovato, per fortuna, anche se non credo lo avrebbero ucciso davvero. Ma con Finardi era una vera rock and roll band. Andavamo negli hotel e si spaccava tutto. Siamo stati diffidati per un anno dal passare a Corigliano Calabro dopo aver fatto un sacco di danni.
Qual è lo stato di salute della scena musicale di oggi?
Perché c’è ancora una scena musicale? Io quando vedo Achille Lauro mi ricordo che già all’inizio degli anni ’70 suonavo in gonna e truccato da donna. Non mi racconta niente di nuovo, l’ho già vissuta appieno quel tipo di provocazione. Come i Måneskin, sono dei cloni del passato. È vero che i giovani non hanno mai visto quelle cose, per cui è giusto che si appassionino, ma vogliamo parlare di David Bowie, Peter Gabriel o Renato Zero? È l’ignoranza, quella buona, cioè la non conoscenza della storia, che gli permette di avere successo. Ma non stanno dicendo niente di nuovo.
Se oggi ti vestissi da nazista per andare sul palco, come facevi con la tua vecchia band, immagini le reazioni?
Scoppierebbe un casino. Ma dal nazista sexy diventato un angelo bianco. C’era una storia da raccontare, una logica dietro. Oggi in Achille Lauro una logica non la vedo.
E neanche nei Måneskin?
A loro direi soltanto alla signorina, Victoria, che fa la dissacrante dicendo parolacce, che non si fa rock così, magari dovrebbe prima migliorare il suono di basso, portarlo a essere un più strong, perché per ora è molto debole. Il rock non è avere le chitarre distorte, ma è un modo di vivere. Lemmy dei Motörhead non avrebbe mai potuto suonare jazz, probabilmente andava a casa e picchiava sua madre.
Una volta a un concerto un paio di ragazzini mi hanno chiesto un autografo e uno di loro mi disse: «Sai, noi facciamo hardcore…». Ed erano vestiti con delle camicine tutte stirate e dei maglioncini scollati a V, dei fighettini. Allora gli ho risposto: «Voi dovete andare a fare in culo, altro che fare hardcore». Pensano che la musica sia prendere uno strumento e interpretare un genere, è questa la vera tragedia. Non hanno capito che bisogna vivere rock. Mi rifiuto di sentire gli artisti di oggi perché ho già sentito di meglio 20-30 anni fa. Se proprio devo fare un nome attuale non posso che citare i Royal Blood, sono solo in due però mi fanno sballare.
Qualche tempo fa hai dichiarato: «Non voglio avere nulla a che fare con gli addetti ai lavori, perché vivono solamente di critiche e considerano la musica come qualcosa di asettico».
A me piace la musica a 360 gradi. C’è quella che ti emoziona e quella che non ti lascia niente. La musica non va vissuta con analisi. Non suono per i musicisti, ma per le sciampiste e le cassiere del supermarket. Non mi interessa nulla di chi calcola soltanto la velocità con cui esegui una scala o un fraseggio. È come per i pistoleri nel West: per quanto tu possa essere veloce, ci sarà sempre qualcuno più veloce di te. Quella non è la gente che mi dà godimento. Il più bel complimento me lo ha fatto un ragazzino che avrà avuto 15 anni: «Mi hai eccitato». È questo ciò che amo.
Chi sono oggi i migliori chitarristi italiani?
Ce ne sono tanti. Posso ricordare Luca Colombo, Ciro Manna, Matteo Mancuso. Ognuno ha le sue belle cose da dire. E poi Alberto Radius. Me lo ricordo quando andavo ad ascoltarlo sotto al palco dell’Altro Mondo di Rimini nel ’74.
C’erano sempre due attrazioni a sera, così potevi trovarti la Formula 3 da una parte e i Pooh dall’altra, i New Trolls da una parte e Ray Charles dall’altra. Ma quando suonava Radius non ho mai capito cosa facesse, ha un modo tutto suo di suonare. Dimeniticavo un altro mio riferimento. Se Nico Di Palo mi ha fatto scoprire la bestialità, Radius mi ha aperto la mente, perché è un intellettuale. Ha un suono soltanto suo, lo riconosci tra un milione. Come Maurizio Solieri, che per me è un grande autore.
Il tuo assolo migliore?
Quello di Ayrton, suonato in “buona la prima”. Ho i testimoni.
Hai pubblicato quattro album solisti. Di quale vai più fiero?
Quattro dischi solisti di cui non si è accorto nessuno. Ognuno ha avuto la sua parte di sfiga. Il primo aveva una produzione di delinquenti, il secondo una produzione che si è ingelosita dell’altra e mi ha bloccato l’album. Il terzo purtroppo non è stato promosso, visto che era con una etichetta piccolina. E il quarto con un ragazzo che, purtroppo, si è poi suicidato. Ma ad ogni disco ci sono assoli che fanno storia a sé.
Qual è il segreto, se esiste, dei tuoi assoli?
Devo ringraziare il mio primo maestro che mi ha insegnato tutti gli strumenti, come si faceva allora. E con la chitarra non mi dava le scale o le pentatoniche, ma i brani da suonare seguendo le melodie. La scala è consequenziale, la melodia no, per cui ti devi muovere di conseguenza. Per questo i miei “solo” sono cantabili, come quello di Anima o di L’ultima luna.
«Sono uno dei più famosi e uno dei più poveri». Sempre parole tue.
È vero, sono ancora in affitto. Quando ho guadagnato davvero tanti soldi li ho sputtanati. Però posso dire di aver provato tutto. A colazione negli hotel spendevo 100 mila lire al giorno negli anni ‘80. Guai se non c’erano la piscina e la lavanderia. Ho avuto tutte le auto più belle dei miei tempi, dalle Porsche alle Maserati. Negli anni d’oro facevo 80 serate l’anno e guadagnavo un milione e 200 mila lire a serata. Le auto me le pagava mio padre… io davo solo l’anticipo… Tutto il resto lo sputtanavo. Non è un motivo di vanto, ma per far capire quanto ero stupido. Avrei potuto investirli meglio. Ho una casetta in Sicilia, quindi so dove andrò a svernare. E il matrimonio…
Un errore?
Ho sempre detto che non mi sarei sposato, invece è successo quando avevo 35 anni. Il giorno stesso in cui ero all’altare volevo fuggire. Infatti, dopo quattro anni abbiamo divorziato.
Hai poi ammesso: «Sono stato un puttaniere».
Senza offendere le donne, ero io la puttana.
Hai fatto delle pazzie per le donne?
Ci vorrebbe una settimana per raccontarle tutte. Non credo mi succederà mai più di innamorarmi, ma quando lo sei puoi fare di tutto. Almeno, a me capitava così. Avevo 18 anni, la mia ragazza mi telefonò per dirmi che andava a ballare, allora salii sul palco di un concerto e dopo due pezzi li lasciai con il locale pieno. Sono arrivato nella sua discoteca come una furia, non l’ho trovata, così sono ripartito però mi si era agganciato il paraurti al cavo del lampione. Il paraurti dev’essere ancora la. O quando ho fatto sei serate di seguito al nord e poi, senza dormire, sono andato in Sicilia direttamente per raggiungere una donna. E la gelosia… mi appostavo sotto casa alle 4 del mattino e controllavo che non arrivasse nessun altro. Ero gelosissimo. Poi ci ripensi e ti senti uno stupido.
Politicamente sei di destra o sinistra?
Ma esistono ancora? Quando ero ragazzino io sì.
Hai detto di aver preso botte da sinistra e da destra.
A me i politici mi fanno incazzare perché quando li senti parlare nessuno può fare qualcosa. Ma chi dovrebbe farlo? C’è un grande menefreghismo da parte loro. Mattarella era da rieleggere a presidente della Repubblica per arrivare a fine mandato e prendere le pensioni, era così chiaro. Ma a noi basta che ci diano le partite di calcio e va tutto bene. Andiamo in piazza per i vaccini, ma non per riaprire i pozzi di gas. Inquinano? Ma lo fanno a cento chilometri da noi e lo andiamo anche a pagare.
La politica è finita quando sono morti Berlinguer e Almirante. Qualcosa è rimasto a galla con Craxi, poi si è chiuso tutto. Mi piacerebbe vedere oggi Luigi Di Maio di fronte a Putin. Non so se sono di sinistra o di destra, io andavo dove c’erano le ragazzine che mi piacevano. Se erano a sinistra andavo a sinistra, se erano a destra andavo a destra.
Il partito della gnocca, direbbe Vasco.
Sicuramente! Anche perché nei politici di oggi non vedo ideologia, una bella idea, un programma sensato. Si criticano l’un l’altro ma nessuno fa niente. Ogni tanto ne spunta fuori uno in tv e ti chiedi: ma chi è questo? Abbiamo come ministro della Sanità Roberto Speranza, quello del libro su “abbiamo sconfitto il virus” ed è ancora al suo posto. Se io vado in un locale e suono male non mi chiamano più, invece loro sono incollati a quelle poltrone e non si capisce perché. Ma spesso le più grandi anticipazioni sulla società del futuro vengono dai film, basta guardare quelli.
Che cosa hanno predetto i film sul futuro?
Hanno visto che ci saranno dei personaggi che prenderanno il potere, controllando alcuni settori chiave come armi, banche, sanità e tecnologia. Sono questi i padroni del mondo. E già lo sono. Chi fa politica oggi lo sa benissimo, per cui accumula adesso perché tra un po’ sarà palese che non conterà più nulla. Quella di oggi non è politica. Io che sono di origine siciliana la chiamo mafia, che quando c’è da prendere prende e quando c’è da dare sparisce. Sai cosa mi è successo durante la pandemia?
Stavo per chiedertelo. Come hai vissuto la pandemia con l’assenza di concerti?
Prima ti dico questa. Nel 2019 l’Inps mi scrive che mi ha dato 360 euro in più, solo che poi doveva valutare i miei redditi. Nel 2020, senza concerti, me li ha chiesti indietro. E nel 2021 ho perso 40 serate, significa 50 mila euro circa. Allora quanti soldi avrebbero dovuto darmi per quello che non ho guadagnato? Un po’ con la Siae e un po’ con l’Imaie mi sono salvato, ma se non avessi avuto questi adesso l’intervista me l’avresti fatta sotto un ponte davanti a una stufetta. Qualche politico si è chiesto «ma tu che non fai il tuo lavoro mangi?». Però le bollette le mandavano comunque.
Perché hai scelto di diventare buddista?
All’inizio per curiosità. Nel 1989 collaboravo con un bassista, meglio non fare nomi. Mi stupiva perché lo chiamavo per chiedergli qualsiasi cosa e mi diceva sempre grazie. Che cazzo avrà da ringraziarmi sempre, mi chiedevo. Un giorno ne abbiamo parlato e mi ha spiegato che si era fatto tutte le droghe possibili, poi ne era uscito, non grazie alla comunità, ma grazie al buddismo. Ho iniziato un po’ alla leggera, dopo qualche anno ho cominciato a percepire un senso di pace. Sono diventato meno stronzo ma, soprattutto, mi ha fatto capire la responsabilità di non fare del male a nessuno perché il male ritorna. Non mi faccio illusioni, ma ora ho una quiete interiore che prima non avevo, scattavo per tutto, sentivo dentro un subbuglio interiore.
L’ultima volta che ti sei incazzato?
L’altro giorno all’Autogrill. Abbiamo preso due panini e due bottigliette d’acqua e ci hanno chiesto 18 euro. «Glielo scaldo?», ha detto la signorina. Sì, ma senza il prosciutto crudo. Solo il pane. Invece ha scaldato tutto insieme. Il prosciutto è diventato bianco, il pane era della settimana prima. Allora sono andato alla cassa e gli ho detto: «Siete dei delinquenti!» e gliel’ho buttato nel cestino.
Allora anche i buddisti si incazzano…
Ci mancherebbe! Sennò sarei una ameba. Non mi incazzo più come prima se mi guardi storto, ma non sono uno che porge l’altra guancia. Sì, te la porgo dopo averti dato quattro manate. Un conto è essere buddisti e un conto è essere fessi. La stessa cosa mi era successa con Lucio Dalla negli anni ’80. Mangiamo in un ristorante, due spaghetti al pomodoro e due Coca Cola e ci chiedono 30 mila lire. E Lucio: «Posso fare una telefonata?». Era l’una di notte. Il ristoratore: «A quest’ora?». E lui: «Sì, perché voglio chiamare i carabinieri». Alla fine ci ha fatto pagare 15 mila lire.
Quindi credi nella reincarnazione.
Assolutamente sì. Anche se io sarò un caprone… presumo.
Ci hai mai pensato a come vorresti morire?
Guarda, a me piace correre in macchina, quindi se potessi decidere vorrei fare un frontale con un camion. Ma in maniera importante, con una Lamborghini a 260 all’ora. Mi devo schiantare e non deve rimanere niente. Perché ho il terrore di soffrire, di passare anni a letto a causa di malattie e operazioni. Voglio schiantarmi, questo sarebbe il mio desiderio.
In alternativa, ho la mia pistola Glock e nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo. Mio padre mi ha insegnato: «Un uomo deve vivere finché riesce a camminare sulle sue gambe e a non rompere i coglioni a nessuno, dopo deve morire». Sono d’accordo con lui. Non vorrei mai pesare sulle mie due figlie.
DAGONEWS il 4 luglio 2022.
La più giovane donna miliardaria (che si è fatta da sola) degli Stati Uniti non è cresciuta in un grattacielo di Manhattan o sulle colline di Hollywood. Lei è Rihanna, la cantante 34enne che ha fatto fortuna grazie alla musica e alle iniziative imprenditoriali finendo, per il terzo anno consecutivo, nella classifica delle “self-made women” di Forbes.
Si è classificata al 21° posto in assoluto ed è l'unica miliardaria della lista sotto i 40 anni. Parte del patrimonio netto di 1,4 miliardi di dollari proviene dalla sua carriera musicale di successo, ma la maggior parte proviene dalle sue tre società: Fenty Beauty, Fenty Skin e Savage X Fenty.
A marzo per Bloomberg la Savage X Fenty, di cui Rihanna possiede il 30%, poteva essere valutata a 3 miliardi di dollari. La cantante possiede anche metà di Fenty Beauty, che ha registrato 550 milioni di dollari di entrate nel 2020. L'altra metà dell'azienda è di proprietà del conglomerato francese di moda di lusso LVMH.
Forbes: Rihanna è la più giovane miliardaria degli Usa. Non grazie alla musica, ma al suo brand beauty. Giulia Mattioli su La Repubblica il 6 luglio 2022.
L’annuale classifica di Forbes che individua le donne self-made più ricche degli USA evidenzia il nuovo primato di Rihanna: è lei la più giovane miliardaria del Paese e l’unica under 40 ad entrare ufficialmente nel circuito delle billionaires, non in veste di cantante ma di imprenditrice, grazie al suo brand di bellezza inclusiva Fenty Beauty
A 34 anni, Rihanna è la più giovane miliardaria degli Stati Uniti, nonché l’unica under 40 a far parte del prestigioso circolo delle billionaires of America. I dati dell’annuale classifica di Forbes dedicata alle self-made women (ovvero donne che si sono ‘fatte da sole’, imprenditrici, CEO, personalità dello spettacolo) parlano chiaro: la pop star e imprenditrice sta scalando la classifica con passi da gigante, spodestando le colleghe non tanto grazie alla musica, quanto al successo della sua linea di cosmetici, Fenty Beauty, una vera miniera d’oro.
Ringo: «I Maneskin? Terrificanti. La mia ex Elenoire Casalegno? Siamo amici, non capisco le separazioni burrascose alla Totti-Blasi». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022.
Dj Ringo si confessa a tutto tondo, tra donne, motori. E gusti musicali
Chi la chiama ancora Rocco?
«L’ultima volta è stata mia nonna, ormai più nessuno mi chiama così, l’altra sera però ero con Rocco Siffredi, chiamavano lui e mi giravo io. Ci siamo divertiti, abbiamo fatto un lavoro insieme».
Un film porno con lui?
«No, quello no. Anche se me l’ha chiesto mille volte, mi ha proposto di fare Rocco e i suoi fratelli versione hard. Mi divertirei molto, ma vedo già tre donne che mi guardano e ho il terrore: mia madre, la mia ragazza Rachele e mia figlia. Non me la sento di affrontarle».
Rocco Maurizio Anaclerio è per tutti Dj Ringo. Dopo la stagione delle discoteche, ha iniziato a fare il conduttore radiofonico. Da tempo è direttore creativo di Virgin Radio dove continua a condurre Revolver, il suo marchio di fabbrica, il suo programma dedicato al rock. Capelli eternamente ossigenati, è figlio degli anni 80 e della Milano da bere: discoteche e modelle, divertimento e serate, tanto lusso e pochi pensieri.
«Ho speso gran parte dei miei soldi per alcool, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato» diceva George Best. Lei è il George Best della radio?
«I miei amici mi prendono ancora in giro».
È vero che ha buttato via l’equivalente di 10 milioni di euro?
«Sicuramente miliardi e miliardi di lire, guadagnavo tanto e spendevo tanto. Macchine, moto, viaggi: pagavo tutto agli altri perché non volevo andare in giro da solo. Porsche e Ferrari. Moto. Le sfasciavo e le cambiavo. E i soldi volavano via. Ma non mi pento».
La spesa più folle?
«Dieci giorni alle Bahamas, i miei amici non avevano una lira, pagai per 12 persone, fidanzate comprese, hotel, ristoranti, divertimento. Tutto incluso. Oggi potrei avere qualche casa o appartamento in più... Ho sperperato, ma per divertirmi».
La più grande trasgressione?
«Potrei scrivere un’enciclopedia. Però non sono mai stato affascinato dalle droghe e non bevo perché sono allergico all’etanolo. Sono sempre stato attratto dal sesso e dalle donne, da un’orgia, qualcosa di viscerale... poi è arrivato l’Aids a rovinare tutto. Vivevo di notte, era fantastico: amici veri, pochi soldi, divertimento puro, che finiva sempre con qualche ragazza, o nei motel o al parco. Gli anni 80 erano bellissimi, mi sono divertito come un matto: ho conosciuto Keith Haring; Fiorucci mi ha presentato una cantante che doveva vestire: era Madonna; ho chiacchierato con Andy Warhol. Mi avevano anche proposto di comprare un suo quadro per 40 milioni di lire. Non lo presi e mi mangio ancora le mani: varrebbe più di un milione di euro».
Macchina o moto? Cosa preferisce?
«La moto è come una ventenne, la macchina come una milf; sono due modi diversi di approcciare l’altro sesso, entrambi molto interessanti. La moto mi dà più emozioni perché è più rischiosa, la macchina è più sicura e protetta».
Che adolescenza è stata la sua?
«Forte. Negli anni ‘70 vivevo in zona Porta Venezia a Milano, erano gli anni della lotta, turbolenti, destra contro sinistra, fumogeni, sparatorie. Era una zona di manifestazioni e mi trovavo sempre in mezzo, ogni volta era un’avventura, si menavano sempre. Ma ho comunque dei bei ricordi».
Che studente è stato?
«Ho ripetuto la terza media perché feci a botte in classe e fui espulso».
Cosa era successo?
«Un compagno mi aveva rubato il krapfen che mi aveva dato mia madre e se lo stava mangiando, gli ho spaccato la faccia. Sono stato espulso nonostante la classe avesse testimoniato a mio favore».
Beh non si può menare...
«Era grosso tre volte me, ripetente, era il bullo della classe, rubava a tutti. Li ho vendicati. Diciamo che sono stato espulso per fallo di reazione».
Dopo le medie?
«Mi sono fermato lì perché volevo comprarmi il motorino da solo. Lavoravo in un centro di bellezza, facevo il garzone, portavo il caffè alla contessa, passavo i bigodini al mio capo, raccontavo alle clienti di 80 anni tante scemenze e mi facevo dare la mancia. Avevo il Ciao, ci si divertiva con poco, con 1.500 lire a settimana mi pagavo la miscela e offrivo la pizza agli amici. Ho anche iniziato a suonare in una cover band dei Beatles, la batteria come Ringo Starr. Da lì mi hanno dato il soprannome Ringo».
L’ha mai incontrato Ringo Starr?
«È stato un incontro meraviglioso, era un cerchio che si chiudeva e lui è stato molto simpatico, gli ho detto che mi chiamavano così in suo onore e mi ha risposto che gli dovevo un sacco di royalties».
Dopo il parrucchiere?
«Andai a Londra nel 1978, mi feci la cresta e fui chiamato per il militare. Mi sono rasato da solo prima di andarci, era meglio».
I primi concerti?
«Scavalcavamo. Il primo scavalcamento importante fu al concerto di Bennato a San Siro, quando l’ho incontrato gliel’ho raccontato. Poi dopo qualche giorno stessa scena per Bob Marley».
Nel 2003 ha partecipato alla prima edizione dell’«Isola dei Famosi».
«Ci sono stato solo 4 giorni, ero stato operato alla cistifellea e mi fece infezione».
Pagavano bene?
«Macché. Non ho preso una lira perché se abbandonavi non venivi pagato. All’epoca era davvero un programma sperimentale, mi sarebbe piaciuto farlo. Oggi è diventato un programma trash. Mi offrono sempre i reality, ma non posso andare: mi giocherei l’immagine di Virgin, la mia radio».
Cosa rappresenta la radio per lei?
«Virgin è casa. Ero a 105 e il mio sogno era fare il primo network rock. Boom. L’abbiamo fatto davvero e sono passati 15 anni. Non saprei cosa altro fare, è il mio mondo. Oltre non c’è nulla, al massimo potrei tornare indietro come il gambero. Noi siamo un punto di riferimento per chi ama questo tipo di musica. Il panorama attuale pop mainstream invece non fa al caso mio, pieno di trapper, di poser , gente in posa. Posso dirlo? Il panorama attuale mi fa cagare. Ho sentito Viola di Fedez e Salmo, non si offendano, ma è terrificante. Poteva farla Orietta Berti. Se questi sono i giovani che fanno musica...».
E i Maneskin?
«Terrificanti».
Anche loro?
«Sì, sono un surrogato di un prodotto di marketing, non hanno nulla di vero, nemmeno il reggicalze. Mi dispiace e sono pronto a ricredermi... Per fare rock ‘n’ roll c’è una cosa molto importante: non puoi essere un poser . La risposta è Iggy Pop. Mi aspetto un pezzo vero».
Nemmeno «Zitti e Buoni»?
«L’hanno presentata a Sanremo. Capisce dove è l’errore? Un gruppo rock non dovrebbe essere al Festival di Sanremo. Vede quella foto? Ci sono quattro star che sono nell’olimpo: James Dean, Elvis, Humphrey Bogart, uno dei più fighi di tutti, Marilyn Monroe l’icona. Il rock ha leggi ben precise, integraliste, devi rispettarle. Uscire da un talent come X Factor non è rock».
Anche la sua vita privata è molto rock. Un debole per le pallavoliste: prima la campionessa del mondo Francesca Piccinini; ora Rachele Sangiuliano, altra campionessa.
«Mi piacciono le donne atletiche, forse perché da giovane facevo atletica. Sono sempre stato fidanzato con belle donne, facendo il dj era facile; infatti in tanti hanno sfruttato la mia amicizia perché ero quello che portava le belle ragazze».
Come vi siete lasciati con Elenoire Casalegno?
«Siamo amici, è la madre di mia figlia, come potrei parlarne male? Mi spiace quando vedo separazioni burrascose, come ora Totti e Ilary, rimango basito. Non riuscirei a fare questa guerra pubblica».
Vostra figlia si chiama Swami, chi ha scelto il nome?
«Elenoire. A me in caso sarebbe toccato il nome del maschio: William, sia per mio cugino che avevo perso da piccolo e a cui ero molto legato, sia per William Wallace, Braveheart, una gran bella figura, così anarchico e combattivo».
Francesca Piccinini?
«Tra le mie ex non ho mai avuto nemiche, come mi sono messo insieme con il sorriso, da giocherellone, altrettanto ho fatto quando mi sono lasciato. Quando vedo che sta arrivando il momento in cui non ci si capisce più mi fermo prima dello scontro. Preferisco evitare la battaglia, chiamatemi paraculo o fortunato. Trovo assurdo farla finire in guerra, se è stato amore; in questo sono un romantico anni 50».
Sarà anche romantico, ma sembra anche molto volubile. Fedele o traditore?
«Molto fedele. Adesso. Prima mai. È difficile essere fedeli con le donne italiane, ce ne sono di bellissime, ho viaggiato molto, ma come le italiane non ce ne sono: belle, sexy, curate. D’estate al semaforo rischi sempre un incidente. Ma l’età passa e arrivi a un punto della vita che non ti vai a cercare guai. Io ho sempre avuto il diavoletto e l’angioletto sulle spalle, sai che litigate che si sono fatti».
La testa a posto?
«Mai. Rachele mi ha fatto diventare un filo più pragmatico, ma lei stessa dice che le piaccio per come mi ha conosciuto. Adesso ho qualche problema con Equitalia, ho fatto disastri senza metterli a posto ed è arrivato il conto».
Andrà al Paradiso o all’Inferno?
«Sono un tipo da Purgatorio. Per quanto sono buono potrei andare in Paradiso; ma se guardiamo i comandamenti li trasgredisco praticamente tutti, quindi Inferno. Andrò davanti a Lui e farò come con Equitalia, chiederò una rateizzazione dei peccati».
Rita Dalla Chiesa contro le donne di sinistra: "Atteggiamento tribale, perché attaccano la Meloni". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022
Lei, suo malgrado, di insulti se ne intende, avendone subiti di pesanti e ignominiosi relativamente alla figura di suo papà, il generale Carlo Alberto. E così Rita Dalla Chiesa, conduttrice tv e donna libera, può ben giudicare quanti e quante si permettono di offendere la Meloni, "colpevole" di non adeguarsi al pensiero di sinistra.
Dalla Chiesa, i carabinieri hanno eseguito una perquisizione domiciliare a carico di una persona che scriveva commenti pieni di odio nei confronti suoi e di suo padre. Perché tale accanimento contro un uomo simbolo della lotta alla mafia, 40 anni dopo la morte?
«È un accanimento che nasce spesso da frustrazioni. Ma in questo caso si aggiungeva la vigliacchiera di attaccare persone scomparse: l'individuo in questione se l'è presa contro mio padre, mia cognata e mio genero, dicendo frasi terribili come "un terrone di meno", "una terrona in meno". Penso che alla base ci sia idiozia, ma non vorrei che gli odiatori fossero persone vicine al mondo mafioso. E, in ogni caso, quando attaccano i tuoi affetti più intimi, bisogna sempre denunciare».
In questi giorni un'altra donna è stata bersagliata di insulti e accuse false sui social e in tv, cioè la Meloni. Come mai ad attaccarla sono perlopiù donne, dalla Boldrini alla Lucarelli fino alla filosofa Rosi Braidotti?
«Innanzitutto della Meloni la sinistra ha paura. Le cattiverie nei suoi confronti sono gratuite ma hanno anche una motivazione politica: la verità è che temono la sua crescita elettorale. Detto questo, andare sul personale è da vigliacchi.
Quanto alle donne, è l'ennesima dimostrazione che non sono capaci di fare squadra, di avere solidarietà di genere».
Dietro questi attacchi c'è solo odio ideologico o anche antropologico?
«Le donne di sinistra attaccano Giorgia perché vogliono far credere che una donna, se di destra, sia di serie B. Lo fanno sempre: ogni volta che in un talk show parla una donna che non segue il pensiero unico, le altre di sinistra fanno un sorrisetto di denigrazione per delegittimarla a priori. È un atteggiamento tribale che si somma allo snobismo, cioè alla convinzione infondata delle donne di sinistra di essere superiori».
Dietro questo apparente disprezzo non si cela piuttosto l'invidia, visto che la Meloni è oggi la politica più amata dagli italiani?
«Certo, sono ferocemente invidiose perché ora la Meloni riscuote la maggioranza dei consensi. E allora la presentano come un pericolo, dandole della fascista che non è».
Come commenta le parole dell'attrice Kasia Smutniak che definisce la Meloni «stupida, idiota, disumana»?
«Guardi, se io dicessi le stesse cose di una donna di sinistra, magari della Boldrini, smetterei di vivere: mi massacrerebbero sui social, non verrei più invitata ai programmi tv, verrei inondata da tonnellate di spazzatura. Guarda caso, nessuna donna di sinistra ha condannato queste parole: dove sono le donne che difendono le altre donne? In compenso, queste offese possono sortire l'effetto contrario: cioè attirare solidarietà e voti per la Meloni e far perdere credibilità alle donne che la attaccano».
Lei ha fatto un endorsement per la leader di Fdi definendola «una donna forte, coerente». È stata attaccata per queste frasi?
«Certo, anche io per la gente sono diventata omofoba, razzista... Roba ridicola. Hanno detto poi che parlavo a sostegno di Giorgia perché speravo di condurre una trasmissione. Invece è successo il contrario: sicuramente assumere certe po«Sicuramente non avrei potuto fare peggio della Raggi.... Ma non mi sono pentita. Semmai ho sbagliato a non accettare quando Berlusconi mi propose di candidarmi al Senato: lì avrei capito meglio i meccanismi della politica».
Come mai da 15 anni Roma viene amministrata in modo disastroso?
«Guardi, io respiro solo quando vado a Milano. A Roma, quando scendo in stazione, mi sembra di essere a Tunisi: c'è una kasbah, composta anche dagli stessi romani...».
Lei aveva appoggiato i referendum sulla giustizia. Perché hanno fallito?
«Erano quesiti complicati, c'è stata poca informazione, e poi le toghe hanno contribuito a fare in modo che la gente non andasse a votare».
Lei che ha condotto un programma ambientato in un tribunale tv, Forum, cosa farebbe per migliorare la giustizia?
«Vorrei che la politica non entrasse più nelle scelte dei giudici. Ma adotterei anche il modello Forum, coinvolgendo una giuria popolare nelle decisioni: il cittadino così non si sentirebbe escluso dalla giustizia. Magari al prossimo referendum inseriamo questo quesito... (sorride, ndr)».
Rita Rusic: «Capii che Vittorio Cecchi Gori voleva annientarmi. Il mio fidanzato? Ha 32 anni». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.
L’ex produttrice oggi vive a Miami: «Da bimba fui profuga, mi cresimò Paolo VI». «Dal divorzio ho preso zero, neanche una casa». «Non ho mai nascosto di essere attratta dal sesso, lo trovo bello, giocoso. Ho portato io in Italia Sex and the city. Il mio fisico? Cerco di non arrendermi agli anni»
Negli anni ’90, era la produttrice cinematografica che rendeva oro tutto ciò che toccava, tipo Leonardo Pieraccioni, tipo Vincenzo Salemme, Giorgio Panariello. Era l’epoca dei tappeti rossi, dei jet privati, della notte degli Oscar con Il Postino di Massimo Troisi. Poi, arrivarono il divorzio da Vittorio Cecchi Gori, breve oblio, foto perenni a Miami Beach, in bikini, accanto a giovani belli e palestrati.
Che vita fa oggi Rita Rusic?
«A Miami, non sono stata solo in spiaggia: ho preso la laurea in regia alla New York Film Academy, tutti i giorni in aula con studenti di vent’anni. La prima lezione era: quali sono gli elementi più importanti di un film? Primo, la storia. Secondo, la storia. Terzo, la storia. Insomma, io che ho prodotto 150 film, tra firmati e non firmati, sono ripartita dalle basi».
Se la sua vita fosse un film, quale sarebbe la prima scena?
«Saremmo sulla collina di Kastellir, piccolissimo paese dell’Istria, il mare in lontananza. Con mia mamma che mi ha appena partorito e mi mostra ai paesani, tenendo me in braccio, mia sorella per mano. Poi, si avvicina la picchiatella del paese e le dice: questa bimba andrà lontano, non starà qua, diventerà famosa».
Cosa facevano i suoi a Kastellir?
«Si erano sposati giovanissimi, mamma si occupava di noi figlie, papà suonava sassofono e clarinetto, insegnava musica, faceva un po’ di teatro e, per sopravvivere, sculture di marmo. Ma chi vuole che comprasse sculture a Kastellir? Per cui, scolpiva lapidi da morto».
Immagino non ricordi di quando, profuga a quattro anni, partiste per l’Italia.
«Ho chiara l’immagine di mamma e papà che ci dicono di non parlarne con nessuno e di tutti noi che partiamo, con due valigie di cartone e le nonne vedove che ci accompagnano alla corriera per Trieste e piangono».
Si ricorda anche del campo profughi?
«San Saba era stato un campo di concentramento, ci misero in una stanza coi materassi per terra ancora sporchi di sangue. Io dissi: non ci dormirò mai. Ma di recente, la figlia dell’uomo che ci accompagnò lì, mi ha raccontato che mia sorella continuava a dire “è tutto brutto” e che io continuavo a risponderle: sì, ma indietro non dobbiamo tornare».
Col senno di poi, perché lo diceva?
«Passando per Trieste, avevo visto per la prima volta una città. A me che venivo da un posto con due alberi e due frasche, parve il futuro. Avevo già il desiderio di andare sempre avanti».
Dopo il campo profughi?
«Otto anni di collegio dalle suore a Roma. Poi la famiglia si è riunita a Busto Arsizio, dove ci hanno assegnato una casetta per rifugiati. Avevo 14 anni, Busto mi andava stretta e m’inventai una scuola che era a Milano: odontotecnico. In quel 1974, a scuola, c’erano quelli di Autonomia Operaia e quelli delle bande armate. La mattina, qualche compagno mi diceva: hai visto il tuo amico? E mimava i polsi con le manette».
E lei non rischiò mai di darsi all’eversione?
«Sono nata troppo povera per non capire che era pericoloso».
Dopo, arrivano la moda, le sfilate. Quando ha capito che la bellezza poteva darle un potere?
«Già in collegio: piacqui così tanto alla moglie del direttore che mi prese sotto la sua ala. Mi fece fare la cresima con Paolo VI, mi portava sacchi in pannolenci pieni di regali».
Il brutto del collegio?
«Fare le scale per andare a letto. Ci facevano cantare “quando è l’ora di fare la nanna, i bravi bambini lasciano i giochi e vanno da mamma”. Come fai a farla cantare a dei bimbi con la mamma lontana?».
La moda, il cinema, sono stati una fuga, un sogno o che altro?
«Un sogno. Lessi che tali Miranda e Nicole cercavano modelle. Essendo donne, pensai non ci fosse pericolo e mi presentai. Mi offrirono un provino per la sigla di Discoring. Fu imbarazzantissimo: c’erano Donna Summer e Renato Zero, un tizio mi disse: mettiti lì e balla. Dico: ma senza musica? E lui: la musica è nella tua testa. Ballai e mi presero».
Arriva prima l’incontro col cinema o con Vittorio Cecchi Gori?
«Facevo la modella, studiavo Medicina, andavo sempre in un ristorante dove andava anche l’assistente di Adriano Celentano. E lì iniziarono a girare Asso , con Celentano e Edwige Fenech, e conobbi Vittorio, che m’invitò subito a un festival a Buenos Aires. Non andai».
Lui le piacque?
«Come bellezza, no, ma era simpatico, mi faceva ridere, ed era un po’ infantile, anche se aveva 18 anni più di me. E mi lusingava che fosse produttore e mi avesse scelta per corteggiarmi».
Quando interpretò Uraia in Attila Flagello di Dio eravate già fidanzati?
«Sì, ma fui presa non perché mi proposi, ma perché Eleonora Giorgi strappò il contratto, Castellano e Pipolo non trovavano un’altra attrice, nel film erano tutti mezzi nudi e dopo settembre non si sarebbe più potuto girare. Dissero a Vittorio “proviniamo Rita”. Lui non voleva, ma l’inverno incalzava. Mi trovai sul set con un bikini di pelo. Ero felice, ma mi sentivo inadeguata. Infatti, dopo, mi misi a studiare recitazione».
Girò una manciata di film, poi lasciò. Perché?
«A Vittorio non piaceva che facessi l’attrice, ma neanche che andassi all’università, in palestra... Ho fatto tre anni di accademia drammatica e studiato inglese, spagnolo, fatto palestra, tutto a casa. Lui era molto possessivo, io molto giovane e abbastanza stupida: mi sentivo gratificata dalla sua gelosia. Molto presto, ho iniziato ad andare in ufficio con lui, non volevo stare a casa e volevo capire cosa fa un produttore. Alcuni interlocutori erano imbarazzati dalla mia presenza, ma Vittorio era fermissimo. Diceva: se parli con me, parli anche con lei».
Vi sposaste in due anni.
«Andando in chiesa, volevo scappare: avevo paura di non trovarlo dentro».
Quand’è che suo suocero dice «quella mio figlio se lo mette in saccoccia»?
«Secondo me, non l’ha mai detto».
Nei 18 anni in cui è stata la signora Cecchi Gori, non ha mai dato un’intervista, eppure, negli anni ’90 esplode una «Rusic Mania», è la scopritrice di talenti, arrivano premi, copertine.
«Forse la crisi con Vittorio inizia quando, ricevendoci, l’ambasciatore francese disse: l’allieva che supera il maestro. Capii subito che era la fine. I litigi cominciarono dopo la cover di Lady Ciclone, su Sette . Lui iniziò a soffrire il mio successo, come se togliesse qualcosa a lui. Era come dire: è brava la moglie, non lui. Non era vero. Forse come produttore ero più brava io, mi piaceva lavorare col regista, gli sceneggiatori... Ma come imprenditore lui aveva più visione. Io non vedevo competizione, ma compensazione. Lui, invece, iniziò a considerarmi una nemica, non più la donna che eravamo partiti con due film all’anno ed eravamo arrivati a farne 60. Ormai avevamo la Fiorentina, Tmc, case ovunque, aerei privati, andavamo su barche da un miliardo di lire al mese. Era una dimensione non normale e anche le tensioni erano fuori dall’ordinario».
Ricordi sfolgoranti da produttrice?
«Il Leone d’argento a Venezia per il mio primo film, Il toro , di Carlo Mazzacurati. Iniziai col cinema d’autore, con film che vincevano premi, ma non facevano soldi. La scuola di Daniele Luchetti, che vinse il David e incassò, fu la soddisfazione maggiore. E poi ci sono i comici che ho fatto esordire come attori, autori e registi: Pieraccioni, Panariello, Salemme, Albanese».
Suo marito quanto credeva nei nomi nuovi?
«Diceva: lascia perdere quei bischeri, occupati di Paolo Villaggio e Alberto Sordi. E io: me ne occupo, ma i nuovi li dobbiamo trovare».
La separazione fu rissosa e con interventi dei carabinieri.
«Fu orribile. Ricordo quando lessi nello sguardo di Vittorio che per lui non contavo più niente. Sentii che mi voleva annientata».
Ricominciare come fu?
«Lui non volle che lavorassimo insieme. E andai via senza un euro. Ero abituata a autista e guardie del corpo. Oggi mi sembra ridicolo, ma avevo paura a uscire di casa da sola. Il mio numero, il più ambito del cinema italiano, per un anno e mezzo, non ha mai squillato».
Perché andò via senza un euro?
«Ho preso zero e neanche una casa ed è stata un’offesa per tutte le donne che hanno passato anni con un uomo, facendo, lavorando, dimostrando. L’altra vergona è che ci ho messo 17 anni e mezzo divorziare, una violenza terribile. E il divorzio è arrivato quando non c’era più niente: Vittorio era stato arrestato e le società erano fallite. I miei figli non hanno neanche un garage che arrivi dal padre».
Com’è potuto crollare un impero?
«Me lo chiedo anch’io. Valeva quattromila miliardi di lire: se lo fai apposta, non ci riesci».
Oggi, come si mantiene?
«Ho aperto a Miami, con una socia, un concept store sofisticato e di successo, si chiama Violet & Grace lavoriamo ad altre aperture, Roma inclusa. E negli ultimi anni ho raccolto storie da produrre per cinema e serie. Presto prevedo di raccogliere i frutti».
Nel 2008, ha pubblicato con Mondadori «Jet Sex», un «diario erotico sentimentale». Quanto c’era di vero fra sesso su voli privati e infedeltà con i calciatori?
«È come per lo scrittore di gialli, che non è un assassino, ma un potenziale assassino. Io non ho mai nascosto di essere attratta dal sesso, lo trovo bello, giocoso. Sono io che portai in Italia Sex and the city , su Tmc».
Quanti fidanzati giovani ha avuto?
«Qualcuno. Ora sto con un ragazzo di 32 anni, trenta meno di me. È un bellissimo viaggio perché è a termine, il che lo rende intenso».
Come fa ad avere ancora un fisico così tonico?
«È un impegno. Mi alleno, mangio sano. Non mi voglio arrendere: è orribile, ma è così. Mi chiedo sempre: quanti anni buoni ancora ho?».
ANDREA SCARPA per il Messaggero il 7 agosto 2022.
«Un road trip», un viaggio in macchina. Rita Rusic le sue vacanze le chiama così. Arrivata oggi a Malaga, in aereo, da domani se ne andrà a spasso per una decina di giorni per il sud della Spagna e il Portogallo. E da settembre la produttrice cinematografica, 62 anni, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, due figli di 32 e 30, è pronta a tornare in pista con nuovi progetti per il cinema e la tv.
Con chi va?
«Con il mio compagno (il modello Cristiano Di Luzio, 32 anni, ndr)».
Lo stesso con cui pochi mesi fa ha partecipato a Pechino Express? Quello delle battute sul toy boy e via dicendo?
«Esatto. Delle chiacchiere, ovviamente, me ne frego. Abbiamo ancora voglia di stare insieme, divertirci, emozionarci. Quando non ci sarà più tutto questo, non ci saremo neanche noi come coppia. Abbiamo noleggiato un'auto per fermarci dove ci pare. Potrebbe anche diventare un'estate da ricordare».
Altre estati memorabili quali sono state?
«Mi viene in mente quella del 1999, in barca in Sardegna, quando da direttore artistico di Telemontecarlo 2 - la tv che avevamo appena acquistato - mi misi a vedere le videocassette di decine di serie. Rimasi fulminata da Sex and the city, che acquistai subito.
Quella del 1997 sul set del film La vita è bella di Benigni, o del 1996 quando decisi di produrre Il ciclone di Pieraccioni. E poi mi ricordo anche la prima estate da separata, nel 2000, a Sabaudia. Fu una scelta dolorosa per tutti, a cominciare dai bambini. Per me fu anche la perdita di tutto il resto».
Che intende dire?
«In pochi giorni fui tagliata fuori da ogni affare del Gruppo Cecchi Gori. In azienda non mi fecero entrare neanche per prendere le mie cose. Il telefono, che prima squillava senza sosta, si ammutolì. Sparirono tutti. Vittorio mi aveva fatto il vuoto intorno».
È vero che lei propose a suo marito di continuare a lavorare insieme?
«Sì. Gli dissi la verità: Insieme valiamo per tre, da soli mezzo.
Siamo troppo fragili e facilmente attaccabili. Non mi ascoltò e mi fece la guerra. Ormai con la testa, e i vizi, era andato».
Quali vizi? La cocaina?
«I vizi».
Lei oggi quanto vale?
«Adesso, dopo tutto quello che è successo in questi anni, il mio valore è uno».
Oggi a che punto si trova?
«Ho tantissima voglia di fare. Sono rientrata in Italia, dopo aver passato dieci anni a Miami, quando è scoppiato il Covid, e per il cinema è iniziata una crisi epocale: la gente non va più nelle sale e si sono imposte le piattaforme. Con loro non c'è confronto».
Nelle sale non ci crede più?
«Spero si rimetta in moto tutto, ma la vedo malissimo».
Per far ripartire il sistema non si potrebbe tagliare il costo del biglietto?
«Forse. Ma si riuscirebbe a guadagnare e a stare in piedi lo stesso?
Queste sono decisioni da prendere con la politica, non da soli».
Lei come si sta organizzando per tornare a produrre?
«Sto cercando nuove storie, due le ho già trovate, e nuovi artisti, anche comici. E poi mi sto concentrando su artisti già noti in Italia che hanno i numeri per sfondare all'estero, un po' come feci con Roberto Benigni. La mia sfida oggi è questa».
Ci mette i suoi soldi o, da ex milionaria, si allea con qualcuno?
«Dipende. Non essendo ricca, visto che ho divorziato a zero lire, più di tanto non potrei».
Non ha guadagnato tantissimo?
«Non io. Oggi a Roma vivo in affitto. Detto questo, per i progetti giusti i soldi si trovano. In finanza, per esempio. Lo Stato, però, deve aiutare il cinema».
Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, presentando la nuova edizione, dal 31 agosto al 10 settembre, ha detto che quest' anno trovare film italiani di qualità, nonostante se ne siano girati tanti con le sovvenzioni statali, è stato difficilissimo. Che ne pensa?
«Che bisogna selezionare meglio i progetti da aiutare».
Il suo segreto per il successo di un film qual è?
«Sempre lo stesso: una buona storia. Originale, coraggiosa, folle. E ci vuole anche la generosità per dare spazio ai giovani. Bisogna rischiare, solo così arriveranno grandi sorprese e il pubblico tornerà nelle sale».
Per scegliere come si regola?
«Leggo i copioni e divento cattivissima. Devo emozionarmi».
La storia della sua vita - dal campo profughi istriani a oggi - ha mai pensato di raccontarla?
«Spesso. Ha tutto per essere un gran film, ma per i miei figli non sarebbe tanto divertente. Questo mi ha frenato».
Oggi che cosa fanno?
«Vittoria vive e lavora a Miami, Mario a Roma. Lui si sta avvicinando al mondo del cinema».
Sta dicendo che una nuova generazione di Cecchi Gori è pronta a tornare in pista?
«Sì. C'è il desiderio di misurarsi. C'è un Cecchi Gori che vuole andare avanti, forse due». Anche sua figlia?
«Fra poco si saprà tutto. Di sicuro hanno i numeri per poter fare tanto e bene. Li ho cresciuti a pane e cinema».
La cazzata della vita qual è stata?
«Non saprei. Non sono il tipo da o la va o la spacca, ho sempre pensato e ripensato a quello che facevo, e raramente mi sono buttata».
Quando l'ha fatto?
«Io non ho vissuto l'adolescenza, così me la sono ripresa più avanti, a 40 anni. A quell'età a Miami ho fatto quello che volevo».
Tipo?
«Ero passata da un fidanzato a un marito, cosa avevo vissuto e capito? Ho fatto i miei esperimenti. Stavo fuori tutte le notti, ballavo sul cubo fino all'alba, rientravo alle sette... Me la sono follemente spassata».
Sul profilo Instagram pubblica suoi video molto sensuali: non teme il ridicolo?
«No. Perché un po' mi ci sento, ridicola, e la cosa mi fa ridere. Sono pur sempre una donna slava e il bon ton non mi appartiene. Non vengo da una famiglia sofisticata, non ho studiato nei grandi collegi... Arrivo da un altro mondo, dove ho dovuto sgomitare e darmi da fare subito. Su Instagram metto cavolate da sfacciata, quale sono oggi, in contrasto con la ragazzina spaventata che ero. Mi piace giocare. Sono una donna libera».
Nel 1995 lei produsse il film di Giuseppe Tornatore L'uomo delle stelle, poi candidato all'Oscar. È vero che riuscì a convincere Carlo Verdone a recitare il ruolo del protagonista, poi interpretato da Sergio Castellitto?
«Sì. Ero convinta che quel ruolo avrebbe dato tanto alla sua carriera. Carlo, però, all'ultimo momento si rifiutò. Succede. Ed è inutile pensarci».
Non ha rimpianti?
«Tanti. Avrei voluto studiare Lettere e filosofia non Medicina, che non ho mai finito. Ho recuperato nel 2017 iscrivendomi a un corso di Cinema all'università di Miami. E poi avrei voluto avere la giusta maturità per parlare in maniera più profonda con i grandi maestri che ho incontrato: Fellini, Scola, Zeffirelli... Oggi quante domande avrei per loro. All'epoca invece ero troppo impegnata a raggiungere risultati».
Vittorio Cecchi Gori, il suo ex marito, come sta?
«È partito per le vacanze con una leggera insufficienza respiratoria, ma sta bene. La notte dorme con l'ossigeno, ma è felice come un bimbo. E anch' io. È una bella sorpresa. Il peggio sembra passato». E per lei, il meglio deve ancora venire?
«Sempre. E ogni volta che mi viene il dubbio, tiro su la testa e guardo avanti».
Dagospia il 22 aprile 2022. COMUNICATO STAMPA.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Interviste fatte con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci e ombre delle sue ospiti.
La Fagnani a tu per tu con Rita Rusic. Un ritratto a tutto tondo della produttrice cinematografica, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, dal quale si è separata dopo un tormentato e doloroso divorzio che ha affossato la sua carriera, tanto è vero che alcuni attori e registi con cui lei lavorava si sono dileguati. La Rusic ci tiene a precisare che: “Non è che alcuni sono spariti e altri no, sono spariti tutti”.
La Fagnani chiede allora di Roberto Benigni:” L’ha delusa?” la Rusic senza mezzi termini: “Assolutamente sì! Ho prodotto la vita è bella, ho sempre avuto un bellissimo rapporto con Nicoletta e Roberto, e quando sono andata agli Oscar e ho chiesto un posto in sala e mi è stato detto che non c’era. Ci sono rimasta male”.
Un’intervista a 360 gradi, durante la quale la Rusic ripercorre la sua vita, ricordando l’infanzia difficile, gli inizi come attrice e il famoso matrimonio con Vittorio Cecchi Gori, con il quale ha dato vita anche a un ménage professionale, diventando, infatti, un acclamata produttrice. Matrimonio, tuttavia conclusosi in tribunale con strascichi legali. La Rusic, poi, spiega i motivi che la legano al suo attuale fidanzato, Cristiano Di Luzio, 30 anni più giovane di lei.
E, infine, sollecitata dalle domande della Fagnani, confessa il suo particolare rapporto con il sesso, vitale e curioso fin da quando era ragazzina, dando vita a un divertente botta e risposta con la giornalista. Fagnani:” Lei ha detto: sono slava, mi piace il sesso, ho gusti forti, ma forti in che senso?”. Rusic: “Il sesso è stato per me molto attrattivo, fin da quando ero piccola piccola, una bambina, guardavo le figure...”.
La Fagnani la interrompe per precisare:” Mi scusi, che guardava da ragazzina?” Rusic: “Quando tornavo a casa dal collegio, il figlio del portiere mi dava dei giornalini...” Fagnani:” Porno?” Rusic divertita: “No porno no, però mi dava quei giornalini disegnati e io sentivo tutto un caldo...”.
Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 9 marzo 2022.
Prima di Pechino Express, dice ridendo, «il mio motto era: prima delle 11 non incontro manco il Papa». Dopo aver dormito per terra, sui tappeti, in mezzo agli animali, qualcosa è cambiato anche per Rita Rusic, 61 anni, storica produttrice (una cinquantina di film con l'ex marito Vittorio Cecchi Gori, sette da sola) e concorrente del programma di Sky con il fidanzato Cristiano Di Luzio, modello 32enne di Anzio.
Quella lungo la Rotta dei Sultani tra Turchia, Uzbekistan, Giordania ed Emirati Arabi è stata «un'esperienza positiva», dice, che le ha insegnato molto. Anche a rispondere alle interviste prima delle 11: «Sì, ma non ero sicura che sarei stata viva a quest' ora».
Cosa ha scoperto del Medio Oriente?
«Che cresciamo con convinzioni sbagliate. Abbiamo viaggiato in paesi islamici e abbiamo incontrato una cultura diversa dalla nostra, ma accogliente. Gente anche povera che ci ha aperto la porta di casa. A un certo punto mi sono vergognata di come siamo».
Quando?
«C'era una signora gentilissima, anziana, che la notte si alzava per metterci i legnetti nella stufa, pensando che non fossimo abituati a certe temperature. Quando sono andata via le ho regalato un mio anello e lei si è messa a piangere. Mi ricordava mia nonna».
Ha mai avuto paura?
«Quando abbiamo rischiato di essere travolti da un camion. Ma quello poteva succedere anche a Roma».
Ha indossato il velo?
«Sì, se vado a casa d'altri, mi adeguo. A Roma lo vivo come una cosa orribile, come un simbolo di inferiorità, là mi è sembrato persino comodo. Ti protegge e ti fa sentire libera di non dover essere perfetta».
E con Di Luzio? Siete ancora insieme?
«Sì e siamo più uniti di prima. Certo, delle liti assurde».
Per esempio?
«A un certo punto dovevamo trovarci un posto dove dormire, ma lui si rifiutava. Sosteneva di non essere abituato a chiedere un letto. Allora gli ho fatto notare che con me, invece, non aveva avuto problemi a chiederlo: avevamo cenato una sola volta insieme, e già si offriva di accompagnarmi a Milano. Si è offeso».
La differenza d'età?
«Dicevo a tutti che era mio marito. E gli facevo portare due zaini, pure il mio. Non vorrei che mi perdesse tonicità».
Cosa non rifarebbe del viaggio?
«Il primo giorno volevo cavare gli occhi al mio agente. Dopo mezz' ora ero già su un cavallo che girava su se stesso tipo giostra. Il terrore. Non andavo a cavallo da quando ho fatto Attila, flagello di Dio (nel 1982, ndr)».
Se facessero un remake di Attila?
«Solo col pelliccione addosso, chi ci rientra in quei bikini? Però le commedie mi piacerebbe farle».
Da produttrice?
«Sì, sto cercando storie, anche tra i libri. Spero solo di non essermi rincoglionita».
Ha scoperto Pieraccioni: il suo fiuto che le dice?
«Che sui social ci sono persone geniali, talenti. Non faccio i nomi altrimenti me li fregano. Ma è lì che bisogna cercare: 20, 22, 25 anni al massimo. Giovanissimi».
Vale ancora la pena fare cinema?
«La gente ha perso l'abitudine alla sala, non la voglia di vedere i film».
Ha finito di scontare la separazione da Cecchi Gori?
«Nel 1999 ero nel consiglio dei David di Donatello, tra le 11 persone più importanti del cinema, nel 2000 ero nessuno. Dopo la separazione mi hanno levato pure il voto: Rondi (Gian Luigi, decano della critica, ndr) diceva che non avevo i requisiti. E al David votavano anche gli impiegati di banca. Adesso, dopo 22 anni, la presidente (Piera De Tassis, ndr) mi ha finalmente restituito il voto».
I requisiti li ha?
«Figuriamoci. All'inizio della carriera mi lamentavo perché per tre anni ho fatto solo cinema d'autore, vincevo tutto, anche il David, ma non riuscivo a incassare. Dicevo: devo smetterla, altrimenti faccio fallire la Cecchi Gori. Poi ci ha pensato qualcun altro».
Con Cecchi Gori si sente?
«Sì. Gli voglio bene».
Da allora ha capito come far durare una coppia?
«Il segreto è l'ironia. L'unico problema di Cristiano è che mi fa venire le rughe a forza di ridere. Abbiamo voglia di stare insieme e non ci obbliga nessuno. Un giorno penso che fuggirà. Mi farò un pianterello, poi passa. Io vado avanti. Come una guerriera».
Roberta Beta, il dramma dell'ex Gf: senza lavoro. E suo figlio... cosa le è successo. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 15 luglio 2022.
“Mi sento persa”, un vero grido d'allarme quello di Roberta Beta, ex concorrente del Grande Fratello, che adesso si racconta al settimanale Nuovo di Riccardo Signoretti. A quanto pare la Beta sta vivendo un momento molto difficile. Ma cosa è accaduto? La 56enne racconta di non lavorare da circa un anno. Infatti, è sparita dalla tv. Da tempo non la si vede da Barbara D'Urso. Come mai? Mistero.
Al settimanale Nuovo rivela di essere disoccupata e che deve fare i conti con la lontananza del figlio. Che si chiama Filippo ed ha 20 anni. E' nato da una storia d’amore piuttosto breve, Roberta l'ha cresciuto da sola. Adesso Filippo si è trasferito a Milano per studiare Giurisprudenza. “Lui è sempre stato la mia priorità. Per amor suo ho detto tanti no e per lui ho sacrificato la mia carriera. È arrivato in un momento in cui ero lanciata come un razzo, ma non ho rimpianti e rifarei tutto”, racconta al settimanale.
Il suo Grande Fratello è andato in onda nel 2000. Prima, storica, edizione. Un programma che nessuno sapeva cosa fosse. Poi, dopo quell'esperienza, la Beta è riuscita a trovare spazio in tv come opinionista e inviata. Ma piccole e sporadiche collaborazioni. Nulla di più. “Da sei anni non faccio più radio ma quando la gente mi vede presentare un libro di un amico o un evento benefico chiede perché non mi vengano date nuove opportunità. E questo è davvero frustrante”, svela la Beta. “Se nessuno mi dà un’opportunità vorrà dire che me la creerò da sola. Ho già in mente una trasmissione e poi con il mio agente stiamo portando avanti vari progetti tv. Incrocio le dita”.
Quella foto di Roberto Bolle a 10 anni: unico ballerino fra 6 tutù rosa. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.
Lo scatto della fotografa Lella Beretta postato su Facebook: la futura étoile insieme alle piccole danzatrici all’Accademia di Vercelli nell’85.
Roberto Bolle sulle mezze punte in posa per una foto di gruppo. Unico ballerino tra tante bimbe in tutù rosa. È un Bolle che muove i suoi primi passi quello immortalato dalla fotografa vercellese Lella Beretta che ha pubblicato l’immagine sui social.
La foto è stata scattata nel 1985 all’Accademia di Vercelli, proprio quella dove Roberto Bolle, ballerino di fama internazionale, ha mosso i suoi primi passi nel mondo della danza. «È stato uno dei primi lavori realizzati per Pilar Sampietro: ho sempre adorato il mondo magico della danza, con i suoi tutù e le movenze aggraziate. Bolle, che era uno dei pochi bambini che danzava, finiva in tutte le mie fotografie. Era un bambino bellissimo, aggraziato, elegante. Si vedeva già il suo talento».
Roberto Bolle è stato allievo di Pilar Sampietro, famosa ballerina di origine spagnola che proprio a Vercelli aveva fondato negli anni settanta l’Accademia di Danza a Vercelli, tra i 9 e gli 11 anni. Originario di Casale Monferrato e cresciuto a Torino Vercellese, il timido ma già portato per la danza fin da bambino, Roberto Bolle ogni giorno studiava con impegno a Vercelli. Tanto che chi lo vedeva ballare, anche per la prima volta, scorgeva in lui un talento naturale. Così, sotto lo scatto, sono in molti a raccontare le emozioni vissute da quelle sei bambine che nella foto lavoravano con lui alla sbarra.
Tra queste anche la mamma di Simona Pomati, piccola ballerina al fianco di Bolle. «Aveva talento e si vedeva già da bambino. Oggi sono ancora orgogliosa che mia figlia abbia frequentato l’ Accademia di Danza con un insegnante come la Signora Pilar Sampietro». Una vera emozione per la fotografa Lella Beretta: «Io iniziavo a fotografare la Danza e lui iniziava a dimostrare il suo Talento - dice orgogliosa-. Vale la pena ricordare questo mio scatto perché lui è Roberto Bolle».
Valeria Morini per fanpage.it il 27 agosto 2022.
Impossibile dimenticare le sue televendite scatenate: Roberto Da Crema, detto il Baffo o Baffo da Crema o Principe della notte, negli anni 80 e 90 è stato un volto popolarissimo della televisione, per l'esuberanza smodata (e caratterizzata dall'inconfondibile respiro affannoso) con cui cercava di vendere prodotti ai telespettatori. Che fine ha fatto, ora che è sostanzialmente lontano dalla televisione (anche se a maggio è apparso sui Rete 4 a Dalla parte degli animali e fino a qualche anno fa era opinionista di Barbara D'Urso)?
Roberto Da Crema fa il pescatore
L'ex imbonitore milanese, 68 anni, si è trasferito a Lampedusa insieme alla moglie Raffaella. Come ha spiegato in un'intervista rilasciata a Nuovo Tv, va a pescare in barca tutte le mattine alle 6 e frequenta il mercato, dove gli isolani lo vedono spesso dietro il banco del pesce, a vendere i prodotti: "Quando i pescatori hanno visto la mia grande passione hanno cominciato a invitarmi sui loro pescherecci. E adesso, ogni tanto, vendo il pesce dietro al banco del mercato. Lo faccio per puro divertimento".
In realtà si tratta infatti di un hobby, più che di un lavoro: Roberto Da Crema regala i pesci alla pescheria, in cambio di alcune informazioni sui posti migliori in cui andare a pesca. I suoi introiti derivano da un'azienda a Milano di stock e cambio merci, gestita dai figli Morris e Valentina: "Adesso anche io sono un loro dipendente per cui mi danno il mio stipendio".
Non è escluso un suo ritorno in televisione: dopo l'esperienza nel reality La fattoria nel 2004 (dove fu espulso per una bestemmia) al Baffo non dispiacerebbe fare l'Isola dei Famosi, anche per mostrare le sue eccellenti doti di pescatore.
3 curiosità su Roberto Da Crema
1 – Ha fatto anche l'attore: il Baffo ha recitato in due film, il comico Chiavi in mano (1996) di Mariano Laurenti e Per caso (1999) di Giuseppe Conti (dedicato alla sua vita, in cui interpreta se stesso), oltre che nella serie Nebbia in Valpadana con Cochi e Renato (2000) e in un episodio di Camera Café (2008). Più di recente, ha offerto un cameo nella serie parodia Romolo + Giuly: La guerra mondiale italiana (2018).
2- Non si è fatto mancare neppure una breve parentesi musicale: nel 1995 ha inciso un EP di musica dance dal titolo "Vendo (Parola di Baffo)".
3- Durante la stagione calcistica 2008/09 ha fatto l'addetto alle pubbliche relazioni per il Sondrio Calcio, squadra che all'epoca era in Eccellenza.
Dagopsia il 19 giugno 2022. Da Off Topic – Radio 24
“Nella mia carriera ho venduto anche delle croste. Mi arriva uno stendino dall’America, una specie di polipo dove mettevi mutande e fazzoletti. Faceva cagare. Il problema è che non stava in piedi”. Roberto Da Crema, il re delle televendite, a ruota libera a Off Topic su Radio 24. “Non sono molto forbito, esterno con gestualità e sentimento.
Sono veemente tutto il giorno e quando mi incazzo divento calmo. Ho fatto la terza media e quando sono ospitato dalla Bocconi e alla Sapienza per parlare di gestualità e opera di convincimento spiego le cose con veemenza. Una volta in Bocconi mi hanno chiesto di promuovere un libro senza però parlare del titolo, della copertina, dei contenuti, del prezzo. E cosa ho fatto? Per istinto ho preso il libro, l’ho buttato a terra, ci sono salito sopra e ho detto “il libro ti fa crescere”. Il pubblico è impazzito”.
“Ho capito che il mio modo di comunicare era efficace perché ho venduto nei mercati, mia mamma vendeva maglieria, e la gente mi diceva che ero un fenomeno, mi dicevano che nelle tv commerciali che stavano nascendo avrei spaccato tutto. Ci credevo, sudavo ed esternavo e la gente mi guardava aspettando che crepassi con quest’asma. Poi non sono crepato e ho girato mezza Europa e l’America. Ho guadagnato un po’ anche perché non bevo e non mi drogo. Invece la gente dice sempre “cazzo, chissà questo qua quanto pippa” e invece non fumo neanche le sigarette”.
Poi Roberto ricorda quando la sua carriera ha incrociato l’universo Mediaset. “Un giorno Mike Bongiorno, di fronte a quelli di Publitalia, mi dice “venga qua a vendere con me” e loro non potevano dire di no a Mike Bongiorno che mi chiamava in video. Figuratevi io, il contadino nazional popolare con trent’anni alle spalle di tv minchia, si trova al fianco di Mike, un maestro. Ho colto la palla al balzo e facevamo una televendita io e una lui. Mike si divertiva ma le televendite con lui prendevano tipo 850 chiamate, lo stesso prodotto con me 1300 chiamate. Vengo chiamato ai piani superiori di Publitalia e mi dicono “Baffo, ci guardi in faccia, lei è un personaggio ma è successo questa cosa ma… non è successo niente. Ci siamo capiti?”. Alla fine mi hanno dato un pacchetto di telepromozioni a parte dicendomi che se usciva questa cosa che vendevo più di Mike erano rovinati”. “Mastrota? Quando mi vede mi ringrazia ma gli dico che è troppo automatico e meccanico, vorrei vedere in lui un po’ di sudore. Gli consiglio di non leggere il gobbo perché i gobbi portano fortuna ma non vanno letti”.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Il Baffo ti intontisce con un vocione baritonale asmatico che da quarant' anni è il suo marchio di fabbrica. Però è lui a lasciarti in debito di ossigeno, travolgendoti con ricordi, aneddoti, dietro le quinte verosimili o veri, per certo gustosi.
Non a caso Roberto Baffo, al secolo Roberto Da Crema, altrimenti detto il «Maradona delle televendite», è l'uomo che ha venduto (a blocchi di 7 per 99 mila lire) quasi due milioni di «Watch» cinesi, «ispirati Swatch», finiti - giura - anche tra le mani di insospettabili come Ezio Greggio e Loredana Bertè. «Il bello era che ne potevi cambiare uno al giorno», gigioneggia per telefono da Lampedusa, in pausa tra una battuta di pesca mattutina che ha prodotto una cernia e un barracuda, e una pomeridiana per ricciole. In Sicilia trascorre sei mesi l'anno: «Faccio due settimane qui e 10 giorni a Pioltello. Al mare mi vengono a trovare a turno gli amici, i miei 4 nipoti, mia moglie Raffaella».
Quale oggetto ha venduto di più?
«I Watch che scimmiottavano gli Swatch: un milione e 750 mila pezzi. Li comprarono pure Ezio Greggio e Loredana Bertè, che da me ordinava le pentole».
Altri clienti «illustri»?
«Sandra Mondaini e Raimondo Vianello presero i giubbotti in ecopelle con la striscia di lana al centro per i loro filippini».
Quello che toccava diventava sempre oro?
«No. Dopo il caso dei Watch, un'azienda americana mi chiese di vendere gli orologi Beverly Hills: un fiasco. Ma un conto è se vendi l'orologio inventato e lo fai pagare poco, un altro è se utilizzi una griffe; la signora Teresa a casa non capisce».
In America vinse l'Oscar delle televendite.
«Andai al Madison Square Garden con un amico con cui pescavo le carpe sul Ticino.
Dovevo spiegare la differenza tra gli orologi normali e quelli subacquei, in platea c'erano anche gli psicologi. Non sapevo una parola di inglese. Mentre alle mie spalle mandavano un video sul mio stile di vendita, trovai vicino a me un'ampolla di vetro con dei pesciolini rossi. Allora la presi sotto braccio e ci infilai dentro un orologio. Finito il video lo tirai fuori e lo sbattei sul tavolo: " Water resistant !" gridai. Ovazione. Tornai in Italia con un assegno da ventimila dollari in tasca. Era il 1992».
La invitavano negli atenei.
«Raccontavo di quando la Philips mi aveva fatto andare a Eindhoven per liberarsi di una serie di articoli in magazzino: una bistecchiera elettrica, un tritacarne, lo spremiagrumi, cose così. Io noto in un angolino il coltello elettrico, una roba che in Italia ne vendi mille pezzi l'anno se va bene, loro avevano in quantità esagerata.
Rovesciai la promozione: se voi comprate tutti e cinque gli elettrodomestici che potete trovare ovunque, vi arriva a casa questo coltello elettrico che avete sempre sognato! Ho venduto 80 mila confezioni: la Philips non ne aveva abbastanza. All'università un libro spiegava quello che avevo fatto senza saperlo».
A Cielito lindo, su Rai 3, provò a vendere l'Aeroporto di Linate. C'era un numero in sovrimpressione: davvero qualcuno chiamò?
«Era collegato al centralino delle mie televendite: chiamò il mondo, non avevano capito che era uno scherzo».
Cosa diavolo erano i forni ovalizzati con i baffi?
«Un'azienda non riusciva a vendere un forno per la pizza con il cassetto. Ma che roba è quel porta scarpe?, dissi. Chiamai mia sorella con le sue mani da contadina e glielo feci riempire di salamelle, patate, verdure, apriva e chiudeva, toglieva e infornava. Ne vendetti 350 mila. Dopo lo comprò l'Ariete».
L'oggetto più inutile?
«Lo stendino a forma di ombrello: si apriva con questi tentacoli orrendi dove potevi appendere fino a tre lavatrici. La biancheria cadeva da tutte le parti».
Marchi inventati?
«Il sarto Severgnini. Mi avevano dato uno stock di camicie di cotone. Le vendetti dicendo che erano della grande sartoria artigianale Severgnini. Mai esistita. Un successo».
Su «Dagospia» abbiamo riascoltato la sua intervista a Radio24 in cui racconta che televendeva di più di Mike Bongiorno.
«Per non dirlo in giro mi diedero un pacchetto di 12 televendite in una bella fascia, che valeva 400 milioni di vecchie lire».
Televenditore si nasce o si diventa?
«Mia madre vendeva abiti al mercato, mio padre l'Omino bianco. Una volta gli si allagò la cantina con tutte le scatole del detersivo. Io riempii sacchetti di plastica con il prodotto che si poteva salvare e mi inventai il 3 per 2».
Quanti anni aveva?
«Sette-otto».
Oggi ne ha 69: non va in pensione?
«Io? Ora ho cambiato il paradigma. Non dico più: "Guarda che bello, te lo mando a casa". Ma: "Guarda che bello, vieni a trovarmi nei miei magazzini". Si accede solo con la tessera: ritiro i cambi merce e rivendo a prezzi ribassato».
· Roberto De Simone.
Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 12 settembre 2022.
«Roberto De Simone. Un genio ignorato dai più». A dirlo nei giorni scorsi è stato il grande Riccardo Muti, sparando ad alzo zero contro le istituzioni di Napoli e non solo, colpevoli d'ingratitudine e di ignoranza nei confronti di un personaggio che il mondo ci invidia.
«Musicista, compositore, regista immenso, vive in un isolamento che è un atto spregevole», non usa mezze misure il direttore della Chicago Symphony Orchestra.
Non si può che dargli ragione. Visto che De Simone, fondatore della Nuova Compagnia di Canto Popolare, è un artista di fama mondiale.
I suoi spettacoli sono ormai entrati nella mitologia del teatro italiano. Uno per tutti, La gatta cenerentola, che dal debutto, avvenuto il 26 luglio 1976 al Festival dei due mondi di Spoleto, ha girato il mondo per venticinque anni. In un Paese meno sciamannato e volubile del nostro sarebbe sempre in cartellone. Come succede a Broadway con West Side Story, My Fair Lady, Jesus Christ Superstar, A Chorus Line, alcuni dei quali hanno avuto qualcosa come settemila repliche e in certi casi vanno ancora in scena. In questa opera-fiaba gli aspetti più profondamente locali della cultura napoletana venivano resi universalmente comunicabili, tradotti in linguaggi alti e internazionali. Non a caso lo spettacolo è considerato un classico.
Come le commedie di Eduardo. E in certe università americane è materia di studio. Perché metteva a tacere il rumore fastidioso della napoletaneria più ruffiana. Per discendere verso le sorgenti poetiche di Partenope, verso quella profondità che fa della città una regione dell'anima che, come tale, appartiene al mondo.
E adesso il Maestro, alle soglie dei novant' anni, vive in un vergognoso dimenticatoio. E per il suo immenso patrimonio, fatto di libri, testimonianze, oggetti d'arte non si trova nemmeno un posto.
Speriamo che la politica e la cultura provino almeno un po' di vergogna.
· Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Robertino: «Anche Totò si commuoveva con le mie canzoni all’osteria. In Scandinavia superai Elvis». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2022.
Il cantante era uno dei cantanti più famosi e pagati degli anni Sessanta. «All’estero mi trovavo le fan nella stanza dell’hotel».
«A cinque anni già cantavo nelle trattorie per raggranellare qualche spicciolo, perché a casa non c’era una lira, ero il quinto di otto figli — io, Eugenio, Sergio, Anna, Enrico, Lucia, Angela e Sandro, più Armando morto di polmonite, era bellissimo, mamma Cesira ci ha pianto tanto — stretti in due stanze al Quadraro, sulla Tuscolana. Papà Orlando faceva lo stuccatore, decorava colonne e capitelli e guadagnava 30 mila lire alla settimana finché non si è ammalato, però in dieci non bastavano mai, perciò dopo la scuola — quando ci andavo — mi incamminavo verso Cinecittà, più o meno un chilometro, fino all’osteria “Da Giggetto”, ci trovavo sempre un sacco di artisti famosi, Totò, Vittorio Gassman, Tiberio Murgia, Capannelle, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Marisa Allasio. E giravo tra i tavolini. “Signore bello, che canzone volete sentire?”».
Robertino, nome d’arte di Roberto Loreti, 75 anni
E ci scappava la mancetta.
«Amedeo Nazzari era innamorato della mia voce d’angelo. Gassman era un po’ atteggione. Totò ogni tanto mi allungava pure cinquantamila lire. “ Guagliò, tengo la gola chiusa e non mi scende giù il boccone”, mi confessò una volta, commosso. Aldo Fabrizi invece restava sempre con la faccia china sul piatto della trippa, gli piaceva ascoltare “Signora Fortuna”, però non mi ha mai dato un soldo. “Mettete a sede, che voi magnà? Giggé, portaje du’ fettuccine” e io mica facevo i complimenti, capirai, a casa il pollo lo vedevo sì e no una volta a settimana, la mattina a colazione c’era l’orzo con una fetta di pane, che se non mi spicciavo me la rubava qualche mio fratello».
E anche dopo, quando Roberto Loreti, 2 mogli, 3 figli — in arte solo e per sempre Robertino pure adesso che ne ha 75 (e non molla, a ottobre «se la gamba offesa mi regge ancora» partirà per gli Usa con Bobby Solo e Iva Zanicchi) — da bimbo prodigio vestito da cherubino che cantava per Papa Giovanni XXIII («Sua Santità mi fece una carezza e io mi chinai a baciargli l’anello, mai vista un’ametista così grossa») e per il presidente francese Charles De Gaulle («Un sellerone alto, sempre con il cappello in testa, sul palco accanto a Claudia Cardinale tremavo, avevo fatto la doccia gelata e mi si era abbassata la voce»,) a 15 anni diventerà uno dei cantanti più famosi e pagati degli anni Sessanta, collezionista di dischi d’oro dall’Italia all’Islanda, dal Belgio all’Australia e alla Siberia («Quando Gronchi andò in visita in Russia, Kruscev, quello che sbatteva la scarpa all’Onu, si complimentò con “la patria di Michelangelo, Raffaello e Robertino”, ha capito, sì?»), acclamato «Golden boy» alla Carnegie Hall di New York, eletto «Señor Simpatia» in Messico, il baby divo che riceveva 10 mila lettere al giorno, era rimasto un ragazzetto semplice: «Tutti i soldi li davo a mamma».
Un bambino così piccolo in giro da solo?
«Ero parecchio sveglio. Al pomeriggio andavo al cinema Folgore a scrocco, perché due miei fratelli più grandi vendevano gelati, mostaccioli e caramelle all’intervallo. Gli portavo le pagnotelle e poi restavo seduto fino all’ultimo spettacolo, mi addormentavo e loro mi riportavano a casa in spalla. La sera, se capitava, facevo qualche serenata, e quando tornavo con cinquemila lire in tasca papà era contentissimo, altro che preoccupato».
E bravo Robertino.
«Poi un giorno per strada, sarà stato il 1953, mi ferma un tizio di Cinecittà, lo chiamavano Camomilla, cercava comparse. Ero caruccio, con due occhi scuri che parlavano. “ A’ regazzì, ndo vai? Hai voglia di fare un film? Ti vanno bene 30 mila lire al giorno per dieci giorni?” Come no, di corsa. Così ho avuto una particina in Anna con Silvana Mangano ed ero il figlio piccolo di Peppone-Gino Cervi ne Il ritorno di don Camillo, ho ancora la foto di me in braccio a Fernandel».
La vera passione però era la musica.
«Presi qualche lezione dal tenore Tito Schipa e da Beniamino Gigli, gratis eh, perché non potevo pagare, anzi, mi davano loro i soldi per comprarmi un cappuccino col maritozzo e il biglietto del tram per la via Flaminia, andata e ritorno, perché quando rientravo a casa era tardi e non era rimasto più niente in tavola. Quando a un concorso alla radio per nuovi talenti — mi ci portò Enzo Tortora, che signore — vinsi una spilletta d’oro, dopo tre giorni mamma se l’andò a impegnare al Monte di Pietà».
A 13 anni fu scoperto da Volmer Sorensen, produttore e pianista danese.
«Mi esibivo al Caffè Grand’Italia di piazza Esedra, il venerdì e il sabato arrivava Totò, elegante come un principe, sempre accompagnato da Odoardo Spadaro, e mi chiedeva di cantargli “Malafemmena”, “Io te vurria vasà” e “Marechiaro”. Mamma veniva a sentirmi con le mie sorelle, però restavano fuori, dietro la siepe, perché lì anche una granita costava ottocento lire, e con quelle ci mangiavamo tre giorni. Quando si presentò questo signore straniero, non sapevo chi fosse, invece suonava con Louis Armstrong, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Sasha Distel. “Tra due mesi ti porto con me a Copenaghen”. “E dov’è? In America?”».
Alla fine ci andò, accompagnato da papà.
«Mi invitarono alla tv danese, in un programma trasmesso pure in Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Russia e Groenlandia. Un successone. Il primo 45 giri vendette 300 mila copie in due settimane solo in Danimarca, l’ellepì 28 milioni in tutta Europa. In Scandinavia ero primo in classifica, Elvis decimo. Il mio francobollo è al museo di San Pietroburgo, la mia voce andò in orbita con lo Sputnik».
Nel 1964, rientrato in Italia, va al Festival di Sanremo con «Un bacio piccolissimo».
«Con le labbra tue di zucchero… Eh, quasi non mi volevano ammettere in gara perché non avevo nemmeno 17 anni. “Che faccio, torno a casa?”. Arrivai quinto, vinse Gigliola Cinquetti con “Non ho l’età”, pure più piccola di me, ma superai il milione e 700 mila dischi venduti. Ci tornai nel 1965 con “Mia cara” e nel 1969 con “Le belle donne”, in coppia con Rocky Roberts».
Con Claudio Villa (rima baciata: «Te faccio schizzà fori la tonsilla») facevate a gara di stornelli romaneschi.
«Un amicone, giocavamo a carte, una volta gli vinsi nove scope di fila. “Oggi ti mando in bianco”, promisi. Non vide un punto. E perse 900 mila lire, tanto mica puntavamo soldi veri».
A Little Tony soffiò una conquista.
«Eravamo al Cantagiro, vicino Rimini, aveva messo gli occhi su una maestra di una colonia estiva, perciò aveva organizzato un’uscita a sei, lui, io, un altro ragazzo e due amiche di lei. Però finì che la prescelta si prese una cotta per me e Tony beh, rosicò. Era buono, un po’ se la tirava… Mica era colpa mia se piacevo… ero bellino, magro, atletico, facevo pugilato, scherma, judo».
Cantava: «Era la donna mia ed ora non c’è più, io l’ho mandata via, poi l’hai presa tu” e “il suo amore non sarà più mio, penserò a quel bacio prima dell’addio”, ma in amore non le andava poi male...».
«Ah no, in Scandinavia le ragazze me le ritrovavo in camera, alcune mi toccava cacciarle… che glielo dico a fa’. Lì c’era l’usanza di lasciare le scarpe fuori dalla camera, in hotel, per farle lucidare, me le rubavano le ammiratrici. Quante ne avrei da raccontare, purtroppo non ho più tanta memoria, mannaggia all’ictus del 2016, mi è rimasta una gamba più corta, cammino col bastone e ogni tanto mi confondo… Ecco, sì, a Sanremo una cantante americana allora molto famosa, Timi Yuro, mi agguantò e mi buttò in una siepe. Una ballerina francese mi chiuse in camera con lei e lanciò la chiave dalla finestra. Io però ero un romantico, per andarci a letto dovevo provare almeno un po’ di sentimento».
Flirt con qualche collega?
«Beh, al Festival ho conosciuto Orietta Berti che era giovanissima, molto caruccia, voleva che la accompagnassi a cena… mi batteva i pezzi… ma per me era un’amica. Nilla Pizzi mi bussava alla porta e Carla Boni mi sussurrava: “Sai, ho una certa esperienza”, ho finto di non capire».
Ha dato buca pure ad Alberto Sordi.
«Mi mandò a chiamare, voleva che andassi a trovarlo a casa sua, ma avevo un appuntamento con una ragazza… Con Marcello Mastroianni invece passai un pomeriggio a chiacchierare. Mi raccontò che ogni volta che andava a Mosca gli dicevano sempre: “Ah, sei italiano come Robertino!”. Mi regalò una stilografica con il pennino d’oro: “Ti auguro di firmarci centinaia di autografi”».
Era vicino di casa di Sophia Loren.
«Comprai una villa a Marino a duecento metri dalla sua. La incrociavo ogni tanto. Passava in Rolls Royce, la salutavo, non ricambiava. Più simpatica Ursula Andress, abita qui a Zagarolo come me. Ci chiacchiero spesso. “Eh… non mi facevi dormire la notte”, le ho confidato. Mo’ basta invece, per certe cose non ho più fantasia».
Ha avuto più successo all’estero che in Italia.
«Qui per lavorare dovevi accettare dei compromessi… delle proposte… appena sentivo una mano sul ginocchio partivano certe pizze... Oppure qualche produttore mi chiedeva soldi per lanciare un disco, no grazie, addio».
In Russia è un idolo, come Albano, Toto Cutugno e i Ricchi e Poveri.
«Sono arrivato prima io. Ho conosciuto Eltsin, brindava alle mie canzoni con la vodka. Gorbaciov si estasiò per “Santa Lucia”, Putin invece l’ho solo intravisto, impettito, non guarda in faccia nessuno, mi ha dato una botta con la spalla, passando, che quasi mi faceva cascare. Avrei voluto sfidarlo a judo, sono cintura nera».
Meglio di no.
«Eh. Comunque ho fatto concerti anche in Moldavia, Ucraina, Lettonia, Lituania, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, purtroppo mi sono dovuto fermare che la salute se n’è andata. L’anno scorso poi ho perso mio figlio Francesco, aveva due tumori, era tanto bravo, dolce, un tesoro, l’ho portato dai migliori professori, non c’è stato niente da fare, è il mio grande dolore. Ora mi scusi, devo andare, alle sei di ogni pomeriggio recito il Rosario, l’ho giurato a mamma».
Alessandro Penna per “Oggi” il 31 marzo 2022. «Uno dei miei ultimi concerti l’ho fatto a Kharkiv, nell’aprile 2016, in quella piazza grande come dieci piazze nostre. C’erano migliaia di giovani con le fiamme degli accendini. Chissà quanti di quei regazzetti mi avrà fatto fuori, Putin! E quelle ragazze, con 32 perle in bocca… Non ci posso pensare, me piagne er core ».
A Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino, 75 anni, piangono anche gli occhi quando parla dell’Ucraina. A Kiev è una star da più di mezzo secolo. «E anche a Mosca, se è per questo. E in Daghestan, Bielorussia, Kazakistan, Georgia, Armenia, Kirghizistan, Lituania, Estonia, Moldavia», aggiunge in una filastrocca che per lui è nostalgia e per Putin un piano militare.
Una fama insondata – solo il regista e scrittore emiliano Marco Raffaini ci ha scritto sopra un libro (uscito, per ora, in russo) – e insondabile, visto che si stima abbia venduto quasi 60 milioni di album solamente nell’ex Unione Sovietica. In Italia, Loreti ebbe una celebrità istantanea e illusoria. A 17 anni conquistò Sanremo con Un bacio piccolissimo. Poi, il declino, la scomparsa. Colpa di un “no”.
E merito di un “sì”. Il “no” Robertino lo oppose «a un critico influentissimo, che stava in tutte le giurie di tutti i concorsi, da Canzonissima in giù: voleva stare con me e non era il mio sport». Il “sì” lo appoggiò all’offerta di Vilmar Sorensen, pianista e produttore danese. «Mi vide al Caffè Grand’Italia, in piazza Esedra, a Roma.
Avevo 13 anni e una voce che fermava il traffico. Pensi che Totò mi dava una mancia di 50 mila lire, quasi venti volte il mio ingaggio settimanale, perché gli cantassi la sua Malafemmina e Marechiare. Vilmar mi offrì di seguirlo a Copenhagen, ci andai con mio padre». Risultato: show televisivi, tournée lunghe mesi in tutta la Scandinavia, l’ammirazione sconfinata di De Gaulle («Mi chiamava “le nouveau Caruso”»), unmito bambino che si espande ovunque, nei teatri più prestigiosi (anche a New York: Carnegie Hall, Madison Square Garden), tranne che da noi.
In Unione Sovietica come ci arrivò?
«Come in un romanzo di spie. Tramite un baratto, al confine tra Russia e Finlandia, lungo la cortina di ferro: i soldati finlandesi erano rimasti senza sigarette, le chiesero ai colleghi russi e in cambio diedero un disco mio, che poi venne copiato e dilagò dappertutto. In Finlandia, ero un mito: con Mamma, O sole mio e Spazzacamino ero primo, secondo e terzo in classifica. Dietro di me: Nat King Cole e Charles Aznavour. Elvis Presley all’epoca cantava It’s now or never: decimo».
Come scoprì di essere famoso in Urss?
«Molto più tardi, sul letto di una clinica romana dove mi portarono quando, posando sugli sci per una rivista norvegese, caddi e quasi mi ruppi l’osso sacro. Arrivavano centinaia di lettere, e molte erano in cirillico. Ragazze, soldati, professoroni che si offrivano di operarmi a Mosca. Laggiù, mi dicevano, avrò venduto 58 milioni di dischi. Non ho visto una lira, lì non esistevano i diritti».
La storiografia ufficiale vuole che la passione dei russi per i nostri cantanti sia iniziata nel 1984, quando Gorbaciov permise che si trasmettesse Sanremo.
«La verità è che a far da apripista ai vari Toto Cotugno, Ricchi e Poveri e Al Bano è stato Robertino. Li ho ‘mbriacati bene bene di musica italiana, i russi, ma nessuno me l’ha mai riconosciuto. Sa cosa disse Kruscev al nostro presidente Gronchi? “Lei viene dalla patria di Michelangelo, Leonardo, Raffaello e… Robertino”».
E Gronchi?
«Non sapeva chi fossi. Come Mastroianni, che nel 1993 mi volle incontrare e mi disse: “Ogni volta che vado a Mosca, appena sentono che sono italiano, gridano: “Come Robertino!”. Era malato, mi confidò: “A Robbertì, sento il fiato della morte sul collo” ( morì tre anni dopo, ndr)».
E lei quando andò a cantare a Mosca?
«Nel 1989. Il primo politico che conobbi fu Boris Eltsin. Quello era un Presidente! Certo, beveva un po’, chi lo può negare... Però era un uomo dolce, con un sorriso meraviglioso e aperto. Mica come Putin».
L’ha conosciuto, Putin?
«Ci siamo incrociati più volte, stava sempre rigido. Mi veniva da dirgli: “E rilassate, a Vladimir!”. Un giorno mi fecero una intervista alla radio e lo sfidai: “Perché non ci incontriamo su una materassina di judo, io e te? Solo due round”. Sono cintura nera 6° dan. Ero forte, ora mi vede malconcio perché il 21 giugno del 2016, due giorni dopo il mio rientro da una tournée in Russia, Ucraina e Kazakhistan, ho avuto un ictus».
Che ricordi ha dell’Ucraina?
«Dolcissimi. Anche i russi sono bravi, però vivono come suonano: sempre un po’ marziali. Gli ucraini hanno un cuore infinito. Mi ricordo quando cantai Granada all’Opera di Odessa, in smoking, con un’orchestra di 180 elementi: il pubblicomigliore delmondo. Prego tutti i giorni, per loro. Posso fare una promessa?».
Certo.
«Ora sono fuori allenamento, mi muovo a fatica, ma la voce mia non si è spenta. In Russia, finché c’è Putin, non canterò. In Ucraina, appena arriva la pace, ci vado di corsa, pure se ho il bastone. Anche solo per portare dei fiori in quella piazza grande come dieci piazze nostre, come si chiama… Ah sì, Svobody: piazza della Libertà».
Domenico Basso per corriere.it l'11 aprile 2022.
Dopo 59 anni vissuti nell’«onorata società» romana Bobby Solo, (al secolo Roberto Satti) ha deciso tornare sui suoi passi. Oggi si divide tra Pordenone, dove vive con la moglie, e Badia Polesine. Genitori triestini, una nonna di Pola e l’altra di un paesino vicino a Capodistria, da 15 anni ha deciso di riavvicinarsi alle terre dei suoi avi e anche a quel Veneto che lo accoglie sempre a braccia aperte.
Con lui ci sono sempre anche 14 chitarre e 6 amplificatori, quanto basta per vivere bene e suonare rock, blues, country, jazz oltre alle vecchie canzoni che ama rivisitare dando vita ad un repertorio completamente nuovo. «Due anni fa, prima del Covid — racconta il cantante, 77 anni — sono stato in sei locali dove c’erano solo ragazzi di 20-25 anni che hanno apprezzato molto il mio tributo a Johnny Cash e poi mi hanno chiesto di cantare “Una lacrima sul viso” che ho riproposto con accordi più raffinati, tipo musica jazz».
Bobby Solo è vero che il suo nome d’arte è nato per un malinteso?
«Mio padre era del 1906 e amava solo la musica di Wagner, Beethoven, Verdi e Puccini e si vergognava di me. Lui diffidò la casa discografica di allora, la Ricordi, dicendo che io ero minorenne e che non avrebbero dovuto usare il cognome Saffi perché non voleva che all’Alitalia, dove lui lavorava come dirigente, venisse a sapere che io facevo il cantante.
Cosi il direttore artistico ha trasformato Roberto in Bobby. La segretaria ha poi chiesto: “Bobby cosa?” e la risposta fu: “Solo Bobby”. Lei che di nome faceva Stelvia, fraintese e così diventai Bobby Solo».
Ma come ha iniziato a fare il cantante?
«A 14 anni mi innamorai di Betsy Mc Gurn, figlia di un giornalista. Un amore platonico, senza nemmeno un bacio. Abitavamo nello stesso palazzo ed io ero innamorato della sua coda di cavallo biondo platino.
Lei mi parlava di Elvis Presley cosi mi feci mandare dei dischi da mia sorella a cui chiesi informazioni anche su questo cantante. Ho poi iniziato a pettinarmi come lui per fare colpo su Betsy. Mia mamma mi regalò una chitarra e ho cominciato a strimpellare chiedendo aiuto ad un falegname che c’era sotto casa che mi insegnò qualche accordo.
Mia madre era amica di uno sceneggiatore della Rai, Giuseppe Patroni Griffi, e così riuscii ad avere un’audizione un po’ come accade oggi con X Factor. Io ci andai e con molta timidezza cantai un brano di Elvis. Quando terminai, il gruppo di persone che mi aveva ascoltato per giudicarmi mi disse: “Signor Satti continui ad andare a scuola perché lei non farà mai il cantante, lei è negato per farlo”».
Lei come prese questa bocciatura?
«Scoppiai a piangere e il maestro Mario Gangi, leggendario chitarrista che suonava con Fausto Cigliano, mi fece una carezza e mi disse di non badare a quei vecchi tromboni che mi avevano giudicato. Mi rassicurò dicendo che sentiva che io avevo qualcosa che poteva portarmi al successo e quindi non dovevo mollare. E questo mi ha aiutato molto ad andare avanti».
Ma è vero che all’inizio qualcuno le diceva che aveva la voce da eunuco?
«La mia casa discografica non mi amava, mi diceva di non imitare Elvis ma piuttosto Celentano. Dicevano che avevo i bassi di Frankenstein e il falsetto di un eunuco della Cappella sistina. Non volevano mandarmi a Sanremo».
Ma alla fine al Festival ci è andato e più volte, portando a casa anche due vittorie.
«A volere che io andassi a Sanremo è stato il padre di Mogol, Mariano Rapetti. Era l’unico che credeva in me e fu lui a mettermi in contatto con il figlio. La casa discografica invece riteneva che mandarmi a Sanremo fosse una perdita di tempo».
Ma com’è nata «Una lacrima sul viso»?
«Il padre di Mogol mi chiese se avevo una canzone nel cassetto. Ed io ce l’avevo. L’avevo composta in cucina su un tavolino di marmo mentre mia madre preparava il pranzo. Lui ne senti un pezzo e mi disse che il testo era banale ma la musica non era male. Ci avrebbe pensato il figlio a sistemarla.
Incontro Mogol pochi giorni dopo quando dovevamo andare in sala di incisione. Non aveva avuto il tempo di scrivere la canzone ma la compose al volo dettandomi le parole. Una lacrima sul viso è nata in 20 minuti dentro ad una R4 color grigio topo».
Con questa canzone poi lei è andato a Sanremo nel 1964. Emozionato su quel palco?
«Avevo 19 anni ed ero emozionatissimo perché mi trovavo al fianco di mostri sacri come Paul Anka, Frankie Laine e Bobby Rydell che erano grandi uomini di scena. Spaventatissimo non sono riuscito a cantare e sono stato salvato dal direttore artistico che mi ha fatto cantare in playback. Ma per questo sono stato squalificato e non ho partecipato alla gara. Nella notte, però, dopo la mia esibizione arrivarono alla casa discografica Ricordi 300mila ordini per il 45 giri di “Una lacrima sul viso”. E molti cambiarono idea su di me».
Poi nel 1965 arriva la vittoria del Festival con «Se piangi, se ridi». Anche qui Bobby Solo però fini sotto i riflettori per essersi messo il mascara. Cosa successe?
«Io avevo visto Elvis Presley fare come Tony Curtis cioè mettersi del mascara sugli occhi per esaltarli. Cosi anch’io prima di entrare sul palco decisi di farlo e chiesi aiuto a due ragazze che lavoravano nella profumeria di fronte al casinò. Forse esagerarono un po’ e quando ho iniziato a cantare il mascara si è sciolto lungo una guancia. Un regista implacabile ha colto l’attimo e mi ha fatto un primo piano.
Da lì nacquero varie voci sulle mie tendenze sessuali tanto che sul mio pulmino qualcuno arrivo a scrivere col rossetto “Signorina Bobby Solo” Ma tutto questo non mi irritò perché sono sostenitore del fatto che bene o male è importante che se ne parli».
Alla proclamazione del vincitore di quel Festival lei ha rischiato di risultare assente. Ci racconti cosa era successo.
«Dopo aver cantato sono andato a mangiare una grigliata di pesce con l’arrangiatore Gianni Marchetti. Quando siamo al caffè arrivano due uomini della Rai che mi danno del pazzo perché ho vinto il Festival e sono lì a mangiare e non sul palco. Tutti mi stavano aspettando. Sono andato a rimettermi lo smoking e sono tornato in teatro dove c’era Mike Bongiorno ad aspettarmi».
Una vittoria l’ha condivisa con Iva Zanicchi. Con «Zingara» avete conquistato Sanremo. Ma lei ci tornerà all’Ariston?
«Non vado al Festival dal 2003 quando ci andai con Little Tony, un caro amico che mi manca tantissimo. Sanremo è sempre una buona occasione e sarei felice di tornare con una mia canzone. Io non ho fatto nessuna richiesta per andarci ma ho visto che i miei coetanei come Gianni Morandi, Donatella Rettore, Massimo Ranieri e Iva Zanicchi hanno fatto audience.
Quindi forse nei corridoi della Rai potrebbe aleggiare il desiderio di avere ancora dei personaggi di quel periodo. E di quel periodo chi è rimasto: Edoardo Vianello, Fausto Leali, Rita Pavone e Bobby Solo. Quindi se vogliono potrebbero contattarmi e se lo fanno andrò con piacere».
Quindi non sarà lei a proporsi?
«No, sennò sembra che vada a chiedere l’elemosina. Se uno ti vuole ti cerca».
A proposito di canzoni lei è uscito da poco con un nuovo disco. Che brano è?
«Ho fatto una canzone insieme a Carlo Zannetti che parla della pandemia e della guerra e si chiama “All in Better Times”. È un inno alla speranza che tutto vado a finire bene. È una canzone stile Beatles e mi piace molto».
L’attività dei concerti sta per ripartire?
«Ne ho alcuni in programma: il 30 aprile a Viareggio, l’1 maggio a Pescara, il 6 maggio a Milano. Il 27 maggio invece mi ha chiamato il mio caro amico Jerry Calà per andare a cantare sul lago di Garda, in un locale sulla spiaggia che si chiama Sestino Beach».
Ultimamente Bobby Solo è stato anche ospite fisso a Domenica In. È stata una esperienza gratificante?
«Mara per me è una santa. La devo ricoprire di fiori perché mi ha voluto con lei per 5 puntate e da qui mi sono arrivate molte richieste di serate e continuano ad arrivarmene. Da lei ho cantato dal vivo e il pubblico ha gradito».
Lei ha un figlio di 9 anni, farà il cantante da grande o la sua generazione pensa piuttosto a fare l’influencer?
«Rayan adora la pizza e voleva fare il pizzaiolo ma adesso ha cambiato idea anche se non ha grandi pretese. Io però l’ho visto a 5 anni giocare con i Lego ed aveva una grande abilità nel costruire i grattacieli. Mah, forse diventerà un ingegnere».
A proposito di ragazzini. Ma è vero che lei da piccolo era un teppistello?
«Lo ammetto. A 14 anni con gli amici andavamo a rubare le motociclette degli innamorati che andavano a passeggiare a Villa Glori a Roma. Poi le smontavamo e i pezzi li vendevamo a Porta Portese. Per questo siamo stati arrestati ma non siamo stati portati in carcere. Poi con un altro amico durante le Olimpiadi di Roma del 1960 siamo andati a rubare i portafogli nello spogliatoio delle nuotatrici. Ma ci hanno scoperto e ci hanno arrestato e mio padre poi mi ha messo in castigo per un mese».
Se domani qualcuno decidesse di fermare la musica per sempre. Lei oggi che canzone canterebbe per l’ultima volta?
Bobby Solo si mette a cantare «Non c’è più niente da fare, non mi fanno cantare…» e poi aggiunge: «Spero che non accada mai, la musica è la mia vita, la mia corrente vitale».
Roberto Vecchioni story: due matrimoni, quattro figli, 5 segreti su di lui. di Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
Il cantautore, vincitore di Sanremo nel 2011 con «Chiamami ancora amore», si è sposato due volte ed è nonno di quattro nipoti.
Il primo matrimonio
Nel corso della sua carriera Roberto Vecchioni ha cantato molte volte l’amore, in «Chiamami ancora amore» - brano con cui ha vinto Sanremo nel 2011 - e non solo. Per quanto riguarda la sua vita privata invece si è sposato per la prima volta nel 1973, con la psicoterapeuta Irene Bozzi. A lei ha dedicato la canzone del suo primo Festival, «L’uomo che si giocava il cielo a dadi». Dall’unione nel 1975 è nata la figlia Francesca, ma nel giro di pochi anni qualcosa nel rapporto si è incrinato.
Il tradimento scoperto a Firenze
«Eravamo a Firenze - ha raccontato Vecchioni al Corriere -, e la mia ex moglie mi lasciò da solo per raggiungere il suo amante in albergo. Lo intuii, glielo chiesi. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, pensai che era stato tutto finto. Con il tempo ho capito che l’amore non finisce mai. È soltanto incarnato da un altro volto». In seguito alla scoperta del tradimento la coppia si è separata, ma l’affetto - nel tempo - è rimasto. «Un amore vero non finisce mai del tutto - diceva nel 2011 Bozzi al settimanale Oggi -. Piuttosto si trasforma in affetto. E per questo, se Roberto adesso è felice, ne sono contenta. È stato l’uomo più importante della mia vita, il padre di mia figlia e voglio solo il suo bene».
L’amore con Daria
Nel 1981, qualche tempo dopo il divorzio, Roberto Vecchioni ha incontrato la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, Daria Colombo, con cui sta ancora oggi. Nel 2011 le ha fatto un’intensa dichiarazione d’amore dal palco dell’Ariston: «Non mi sono mai sentito solo, perché da trent’anni un filo mi lega a te».
Figli (e nipoti)
Dal matrimonio con Daria sono nati altri tre figli: Carolina, Arrigo ed Edoardo. Francesca nel 2012 ha reso Roberto Vecchioni nonno: «Ho accompagnato Francesca tre volte ad Amsterdam per la fecondazione assistita - ha raccontato il cantautore al Corriere -. Alla fine sono arrivate due gemelline che oggi hanno 9 anni. So che lei l’ha fatto per me, perché voleva farmi diventare nonno». Anche Carolina ha avuto due figlie. Che nonno è Roberto Vecchioni? «Per tutte e quattro, sono un nonno che gioca tanto».
Il coming out di Francesca
Nell’intervista rilasciata al Corriere pochi giorni fa Roberto Vecchioni ha parlato del momento in cui sua figlia Francesca ha fatto coming out: «Francesca aveva 15 anni quando venne da me impaurita sussurrando “Papà ti devo dire una cosa”. Le chiesi: “Che c’è? Sei drogata? Ti sei innamorata di un assassino? No? Allora vaf..., mi hai fatto prendere un colpo”. L’ho sempre saputo, e non ci ho mai badato. Trent’anni fa, sono stato un anticipatore. Credo che l’amore sia universale e ciascuno possa fare le sue scelte». Francesca Vecchioni nel 2012 è apparsa sulla copertina del settimanale Oggi con la sua compagna di allora, Alessandra Brogno, e le loro due gemelline Nina e Cloe nate tramite fecondazione eterologa. In seguito ha fondato l’associazione no profit Diversity e si batte per i diritti delle coppie gay: «Al pronto soccorso, quando mi si sono rotte le acque, non volevano far passare Alessandra - ricordava al Corriere nel 2019 -. Siamo entrate di forza. Poi, erano le quattro del mattino, è arrivato il nostro ginecologo e le ha permesso di rimanere. Funziona così: puoi buttare giù la porta, ma qualcuno ti deve aiutare a restare dentro. È fondamentale che la società ti dia una mano, perciò ogni opera di sensibilizzazione è preziosa».
Estratto dell’articolo di Caterina Ruggi D’Aragona per corriere.it il 27 aprile 2022.
«E se non potrai correre/ e nemmeno camminare/ ti insegnerò a volare». È un inno alla vita, sempre e comunque, anche di fronte alle avversità, la canzone che Roberto Vecchioni e Francesco Guccini dedicano ad Alex Zanardi, con una citazione di Kavafis: «Se partirai per Itaca ti aspetta un lungo viaggio…». In effetti, il viaggio di Odisseo è il riferimento letterario supremo di «Infinito», ultimo album di Roberto Vecchioni, a cui è dedicata la sua tournée «L’Infinito, parole e musica», che giovedì (ore 21.15) si ferma al Politeama Pratese.
È felice di tornare a Prato?
«Tanto! Mi lega a Prato il ricordo di uno dei simposi più belli della mia vita: una baldoria colossale! Avevo tra i 30 e i 40 anni: dopo il concerto in un campo sportivo, mi fermai con gli operai di una laneria in un postaccio (forse una cantina) tutta la notte a cantare, chiacchierare, scherzare... Facemmo l’alba a raccontarci barzellette, sciocchezze e cose della vita. Mi colpì la grande spiritosaggine dei toscani, la capacità di ridicolizzare le cose tragiche, di infierire in modo ironico, a volte sconcio, sempre con grande intelligenza».
A Firenze, invece, ha un ricordo amaro, raccontato nella canzone «Due giornate fiorentine»…
«In verità ero sulle colline intorno a Scandicci con la mia prima moglie, quando ho scoperto il suo tradimento. E il matrimonio è finito. Lo sfondo troppo bello strideva con il mio dolore, perciò scappai via. Ma Firenze non ha colpe; è simbolo dell’umanità, perché da lì inizia l’Italia, e mi ispira solo pensieri positivi».
[…] Come ha vissuto gli ultimi due anni?
«Con un grande magone. La gente non può immaginare cosa sia per un artista la mancanza del palcoscenico. Non è come un operaio senza officina o un avvocato senza studio. Perché solo quando sale sul palco l’artista è pienamente se stesso».
[…] La beffa è che per la canzone «Voglio una donna» fu accusato di anti-femminismo…
«Non fu capita la mia provocazione. Dicevo “Voglio una donna con la gonna” per celebrare la donna nella sua femminilità, invitandola a non rinunciare alla differenza con il maschio. Io non parlerei mai di parità di genere, ma di parità tra i generi».
Come ha vissuto l’omosessualità della sua primogenita?
«Francesca aveva 15 anni quando venne da me impaurita sussurrando “Papà ti devo dire una cosa”. Le chiesi: “Che c’è? Sei drogata? Ti sei innamorata di un assassino? No? Allora vaf..., mi hai fatto prendere un colpo”. L’ho sempre saputo, e non ci ho mai badato. Trent’anni fa, sono stato un anticipatore. Credo che l’amore sia universale e ciascuno possa fare le sue scelte. Ho accompagnato Francesca tre volte ad Amsterdam per la fecondazione assistita; alla fine sono arrivate due gemelline che oggi hanno 9 anni. So che lei l’ha fatto per me, perché voleva farmi diventare nonno. Poi anche Carolina ha avuto due figlie. Per tutte e quattro, sono un nonno che gioca tanto»
Francesca ha subito discriminazioni?
«Sicuramente; ma è un bulldozer. Oltre a occuparsi di pr e scrivere saggi, ha fondato e presiede l’associazione Diversity, che nella kermesse di maggio radunerà pensatori, intellettuali e attori. A 18 anni scelse di venire a vivere a Milano per l’università; siamo rimasti sempre “pappa e ciccia”.
Anche Edoardo (l’ultimo figlio, avuto dopo Carolina e Arrigo dall’attuale moglie, Daria Colombo, mentre Francesca è nata dal primo matrimonio) mi somiglia tanto. L’unico piccolo dramma dei miei figli è il senso imitativo del padre. Si sentono artisti, un po’ fuori dal mondo, con velleità letterarie. Forse è colpa mia: li ho fatti sognare troppo, di realtà ne ho data poca. Ma è di realtà che c’è bisogno per confrontarsi con la vita, con le persone, con il lavoro». […]
Silvia Francia per “La Stampa” il 26 febbraio 2022.
A quasi ottant’anni, un nuovo debutto «fa rumore». Roberto Vecchioni lo ammette senza pudore: «Sono molto più emozionato per questo debutto teatrale che quando uscì il mio primo disco! Mi sento come un ragazzino di quindici anni».
A regalare quest’iniezione di vitalità al cantautore milanese è, appunto, il teatro di prosa, che per la prima volta lo tira in ballo. Complice una delle sue opere di narrativa, «Il mercante di luce», uscito nel 2014 per Einaudi e prossimo a diventare uno spettacolo, nell’allestimento firmato dalla regista Ivana Ferri e interpretato da Ettore Bassi assieme al musicista Massimo Germini, storico collaboratore di Vecchioni. Il debutto è per lunedì al Carignano di Torino.
Ci sarà anche lei, Roberto, per l’occasione?
«Non me lo perderei mai. Non esagero quando dico che il primo disco pubblicato non mi fece così tanta impressione come questa sortita teatrale di un mio romanzo. All’epoca, ero nel mondo della musica già da diversi anni, mentre il teatro, che pure amo molto, l’ho frequentato solo da spettatore.
L’idea che un testo tratto da un mio romanzo vada in scena mi rende felice come un ragazzino, anche se ho 79 anni suonati. Per altro, con il Tangram di Torino che mette in scena questo titolo, ho già lavorato altre volte e considero la regista Ivana Ferri molto in gamba: il mio libro non era facile da ridurre teatralmente, ma lei ha fatto un gran lavoro».
Che genere di storia si racconta? Quanto è autobiografica?
«È la vicenda di un padre, che guarda caso fa l’insegnante di greco e latino. Un uomo, però, per molti versi fallito.
Lui ha un figlio malato di progeria (ovvero di invecchiamento precoce, ndr.) e decide di trascorrere con lui gli ultimi giorni che restano al ragazzo. E si industria per mostrargli quanto la vita, nonostante tutto, sia bella e per fargli conoscere un po’ di quell’esistenza che il giovane purtroppo non potrà mai sperimentare».
Oltre che padre di quattro figli, lei è un professore: ora docente allo Iulm di Venezia, dove insegna Attualità dell’antico mondo classico, ma per anni ha lavorato nei licei. Cosa pensa dei ragazzi che sono recentemente e a più riprese scesi in piazza per protestare contro le morti di loro coetanei che facevano l’alternanza scuola/lavoro, ma pure contro la nuova maturità?
«Nel primo caso credo che gli studenti avessero tutte ragioni per manifestare. Non sono degli sprovveduti ma, al contrario, dimostrano di sapere bene quali sono le condizioni di lavoro nel mondo che li aspetta dopo la scuola.
In merito alla maturità, invece, i giovani sbagliano e i professori dovrebbero far loro capire le ragioni: la maturità è un rito di passaggio che va affrontato, una battaglia che bisogna superare per la propria formazione a livello personale».
Restando in tema, cosa pensa della polemica sulla studentessa che è stata duramente redarguita da un’insegnate perché si è presentata a scuola con la pancia scoperta?
«Io non sono affatto un reazionario, anzi, ma credo che a scuola si debba andare vestiti decorosamente. Come si va in teatro o in chiesa. Sono luoghi che hanno sacralità e andrebbero scritti con l’ iniziale maiuscola.
La scuola è è uno strumento formativo che la società offre ai ragazzi perché possano diventare cittadini più consapevoli e più liberi e quindi va onorato. Non si può andare in aula mezzi nudi. Quanto all’altra polemica di questi giorni, quella sui bagni “neutri”, invece, non vedo il problema di pensare a toilette uniche per maschi e femmine, senza distinzioni di sesso».
Il suo collega Francesco Guccini, intervistato dalla Stampa giorni fa sul festival di Sanremo, se ne è dissociato, dicendo: «Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel c. per cantare». Lei, che ha vinto il Festival nel 2011 con «Chiamami ancora amore», che ne pensa?
«La battuta è divertente ed è tipica di Guccini. A me, però, il festival è piaciuto tantissimo. Io sono un appassionato di storia della canzone e penso che le canzoni rispecchino l’epoca e il mondo in cui vengono scritte.
Poi, certo, oggi va di moda anche farsi notare, eccedere, ma la cosa non mi scandalizza affatto, se quello che si canta mi piace. Uno può anche cantare con una piuma nel sedere, per dirla con Guccini, ma se canta l’Aida, mi sta bene!».
Dopo il Covid la guerra in Ucraina, cosa pensa di questo travagliato periodo storico?
«Durante la pandemia e i lockdown ho attraversato fasi diverse, culminate con un periodo in cui avevo così tanto tempo libero che non facevo più nulla se non i videogames e me ne vergognavo, specie nei confronti di mia moglie che, in quel frangente almeno, avrei potuto aiutare a sbrigare mille incombenze, dalla banca al commercialista.
Ero come paralizzato, non avevo voglia di fare nulla, specie per quanto riguardava il lavoro. Mi sono dedicato un po’ allo studio della chimica, materia che mi appassiona, e ad approfondire pittura, scultura e architettura.
La sola cosa che sono riuscito a portare a termine, sul fronte lavorativo, è stato un romanzo, “Lezioni di volo e di atterraggio”, uscito da Einaudi e andato molto bene, nonostante il periodo. Ora che la morsa del Covid sembra allentarsi, è scoppiata la guerra in Ucraina.
La guerra è, d’altronde, insita nella storia dell’uomo che, come i classici ci insegnano è figlio di Eros e Caos, è luce e ombra, portato in alto dal cavallo bianco di platonica memoria e scaraventato a terra da quello nero.
In questo frangente, spero e credo che prevalga la ragionevolezza, almeno da una delle parti. Qualcuno perderà un po’ la faccia, ma sarà il male minore».
E sulla situazione politica italiana?
«Non seguo molto la politica perché, a parte la sensibilità personale che mi porta sempre a sinistra, fatico a capirla.
Se guardo a destra, poi, da sempre vedo il baratro. Ma posso dire senza incertezze di essere contento che, in un momento del genere, sia Draghi a pensare all’Italia».
Cos’ha in programma per il prossimo futuro?
«Sto scrivendo un nuovo romanzo per Einaudi, con protagonista il mondo delle donne. Un modo concreto per appoggiare la causa dell’uguaglianza fra esseri umani. Per i miei 80 anni, poi, uscirà un disco con molti pezzi inediti e poco conosciuti, ma anche brani di altri, da Modugno a De Gregori, da Endrigo ai Ricchi e Poveri».
Robbie Williams: «Ho sofferto di malattie mentali e mi sono spesso sentito oppresso dalla fama». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 2 Ottobre 2022.
L‘ex Take That festeggia i 25 anni di carriera solista e il 20 gennaio prossimo dà il via al suo tour proprio dall’Italia: «Posso farmi i complimenti per questo traguardo»
«È stupefacente, pazzo, molto bello, sciocco, sbalorditivo che mi sia successo tutto questo». Robbie Williams scandisce lentamente le parole per raccontare come si senta a celebrare i 25 anni di carriera solista. È difficile capire quando scherza e quando è serio, quando è eccentrico e quando fragile, ma anche via Zoom, disteso in un letto a Parigi, torso nudo coperto in parte da un lenzuolo bianco, l’ex Take That ha uno sguardo magnetico che spesso si apre in una risata: ripercorre il quarto di secolo che l’ha visto assurgere fra i grandi del pop, ma anche combattere con eccessi, depressione e problemi mentali.
Giunto a questo traguardo può farsi i complimenti?
«Direi di sì, più di quanto abbia mai fatto. È bello essere in un momento della mia vita in cui posso prendermi del tempo per respirare e dirmi “beh, che cavolo: ben fatto”».
Il tour europeo del 25ennale partirà dall’Italia, con una data a Bologna il 20 gennaio 2023: che concerto vedremo?
«Sarà come sono stati tutti i miei show in passato, ma mi piace pensare di essere molto più bravo di quando ho iniziato, quindi mi vedrete al mio meglio».
Il suo nuovo album «XXV» è stato il 14esimo a raggiungere il numero uno nel Regno Unito, un record che la avvicina a Elvis o i Beatles: che sensazione prova?
«La sensazione è che in questo momento non mi devo preoccupare di essere irrilevante e quindi è un’ottima cosa. Direi che in questo periodo è bello essere me».
Eppure il singolo «Lost» è negativo, parla di comportamenti al limite, dell’aver perso il proprio posto nella vita.
«Sì, ma si riferisce a un periodo lontano, fra il 1995 e il 2000. Il testo è autobiografico, ma parla di un tempo e di un luogo in cui mi trovavo anni fa».
Si è mai sentito perso in questi 25 anni?
«Mi sono sentito perso per la maggior parte del tempo e i miei pensieri sono stati perlopiù “tutto questo è troppo opprimente. Perché mi sento così? Come faccio a smettere? Dove mi trovo? Madre aiutami”. Direi che mi sono sentito così per 20 di questi 25 anni».
E come se ne viene fuori?
«Non c’è un modo, quindi ho imparato a conviverci. Il problema principale è stato ritrovarsi ad avere una malattia mentale all’interno di un’industria come quella musicale che a sua volta ti provoca problemi mentali (ride). Se avessi fatto il falegname, avrei comunque avuto problemi mentali, ma probabilmente quel settore non è così intenso come passare la vita sotto i riflettori».
Prima che solista, è stato nei Take That, da quando aveva 16 anni. È più dura stare in un gruppo o da soli?
«È più dura far parte di un gruppo perché bisogna tenere in considerazione i sentimenti e i pensieri degli altri. La cosa bella, però, è che si condivide il successo e ciò fa sì che tu non ti senta solo: vai sul palco e sai che la persona accanto a te sa esattamente come ti senti. Essere un artista solista, invece, può portare parecchia solitudine. Però mi piacciono entrambe le possibilità».
Ha un ricordo indelebile degli inizi?
«Il miglior ricordo è il momento in cui ho scoperto che avrei fatto parte dei Take That e mi sono detto “oddio diventerò famoso”. Non c’è mai più stato un momento in cui mi sia sentito meglio. Poi sono diventato famoso ed è stato una grande m... perché il pensiero di essere famosi è molto più liberatorio, affascinante e inebriante dell’esserlo in sé».
Rispetto a 25 anni fa, il pop è preso più seriamente?
«Non so se venga preso più seriamente, ma so che è giudicato in maniera meno negativa. La gente non dice più “questa musica fa schifo”, mentre anni fa spesso diceva “questa roba non dovrebbe esistere, quella band non dovrebbe avere tutto quel successo, quel cantante non vale nulla”. Credo che oggi la gente sia meno cattiva, certo lo è online, lì è proprio feroce, un vero inferno, ma nel mondo della musica, ad esempio nelle radio, nei giornali, in tv o fra i commentatori, sono tutti più gentili che mai».
Qual è stato il miglior momento fin qui?
«Non so dove ero o quando è stato che mi sono sentito alle stelle, ma so che è successo, so che molte persone hanno scelto di dirmi che ho fatto un buon lavoro e ancora scelgono di dirmelo, amandomi quando sono sul palco, e ciò fa sentire molto potenti, è bellissimo. Molte persone hanno scelto invece di dirmi che mi odiano e disprezzano tutto ciò che rappresento, il che non fa sentire particolarmente bene. Ma mi piace pensare che il primo aspetto possa prevalere sull’altro, se io lo voglio».
Cosa desidera per i prossimi 25 anni?
«Riuscire a raggiungere altri obiettivi, sforzarmi per realizzare i miei sogni e impegnarmi per cercare di renderli un successo».
Rocco Papaleo: "A marzo il mio nuovo film. Meloni? Spero faccia bene". L'attore lucano Rocco Papaleo tornerà protagonista in sala a marzo con il suo quarto film da regista: la nostra intervista. Massimo Balsamo il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.
A marzo tornerà al cinema con il suo quarto film da regista - "Scordato" - ma Rocco Papaleo non si ferma mai. L'attore lucano è stato protagonista alla IV edizione del Festival del Cinema di Potenza “Visioni Verticali – Ambiente e Territori” tra masterclass, incontri con il pubblico e il documentario "Sentieri di ferro" di Luca Curto. Di questo e di molto altro ha parlato ai nostri microfoni.
"Sentieri di ferro" è un viaggio emozionante lungo una ex ferrovia del Sud Italia che è stata riconvertita in una greenway dopo essere stata abbandonata negli anni ’80. Una storia che può diventare un punto di riferimento...
"Sicuramente sì, se pensiamo a tutto ciò che è stato costruito in passato e oggi risulta obsoleto. Il documentario vuole dimostrare come grandi opere del passato ormai inutilizzabili possono cambiare destinazione e diventare anzi una sorta di connessione con l'ambiente e con la natura. Ambiente che era stato dolcemente violentato, diciamo così...".
C'è grande entusiasmo per l'apertura a Potenza del CeSAM, il Centro Sperimentale delle Arti Mediterranee. Una bella novità per chi sogna di fare il suo mestiere...
"Secondo la mia percezione, è una cosa a dir poco entusiasmante rispetto al nostro territorio. La nostra regione non aveva un riferimento del genere. Tutti noi anziani ci siamo dovuti spostare per seguire il nostro sogno di recitare. È entusiasmante, eccezionale. Spero che possa mantenere le promesse e che possa agevolare un processo culturale in Basilicata".
Cinema, tv, teatro, anche Sanremo: c'è ancora un sogno da realizzare?
"Ho realizzato anche cose che non avevo sognato, in un certo senso è come se avessi già superato i sogni che avevo da ragazzo. Ma c'è sempre qualcosa che ti spinge a migliorare. Se volessi fare un po' lo snob naturista, direi che sogno di crescere un orto (ride, ndr). Uno dei miei sogni è quello di lavorare nel mio territorio".
Ha invece dei rimpianti?
"Chi non ne ha di rimpianti? Mi sforzo di ignorarli. Analizzando la mia storia, devo dire che sono andato oltre le mie aspettative. Mi sembrerebbe disonesto rimpiangere qualcosa".
Cosa ne pensa di questo clima politicamente corretto? Ha mai avuto dei problemi?
"Stranamente non mi è capitato, nonostante in alcuni film mi sia capitato di oltrepassare il limite. Anzi, quando ho oltrepassato il limite, le battute colorite sono dei diventate dei cult (ride, ndr). I comici dovrebbero avere una licenza per essere scorretti. Ciò che facciamo appartiene ai personaggi che interpretiamo...".
Lei è fortunato allora, molti suoi colleghi devono fare i conti con la gogna social...
"Da questo punto di vista è capitato anche a me. Dopo il Festival di Sanremo, fui testimonial dell'Eni per una campagna sull'abbassamento della benzina. Mi sembrava una cosa etica, si parlava di una facilitazione per la gente, non era sicuramente uno spot per le trivellazioni. Ma nella mia regione, la Basilicata, fui un po' tacciato di insensibilità e attaccato. È vero, c'è sempre il rischio di ricevere critiche - anche pesanti - per qualsiasi cosa".
Interpellato sul tema, lei da uomo di sinistra ha dichiarato che la Meloni le piace "un pochino". Coraggioso per un artista in Italia...
"Io sono un uomo di sinistra che ha avuto piacere a vedere una donna diventare primo ministro. Lei era anche l'unica donna leader al G20. Non posso che apprezzare una cosa del genere. È stata eletta democraticamente e spero che faccia bene. Poi, bene bene non credo che possa fare, perché ha idee che sono contrarie alle mie. La mia è una speranza: io sono di sinistra ma non posso augurarmi che le cose vadano male. Non voglio fare ragionamenti con i paraocchi".
Nessuno la può accusare di simpatie nei confronti della destra, anche perché ha ribadito di sperare in una vittoria della sinistra tra cinque anni...
"Io spero che la sinistra prenda coscienza della sconfitta. Spero che capisca i perché di questa sconfitta. La sinistra è incosistente, per questo motivo ha vinto la destra. Il mio è un invito a impegnarsi e compattarsi".
A marzo uscirà "Scordato", il suo ultimo film. Ha detto che è il suo film migliore...
"Il titolo è un gioco di parole sul protagonista che è un accordatore ed è effettivamente ‘scordato’. Lo confermo, dal mio punto di vista è il mio film migliore. Spero di essere cresciuto come autore, come regista. Poi pubblico e critica valuteranno. Io, come altri, vivo sotto la dolce condanna dell'opera prima riuscita bene. 'Basilicata Coast to Coast' ha avuto grande successo e si rimane sempre ancorati lì".
Normale che sia così...
"Io sono anche un cantautore. Nel '79 scrissi una canzone che se suonata nei miei spettacoli copre tutto il resto. È una cazzata, una canzoncina molto orecchiabile e simpatica, che azzera tutto il resto, anche brani migliori. Lo accetto, va bene così".
Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 20 Novembre 2022.
Rocco Papaleo la sua terra non l'ha mai davvero lasciata. Si è trasferito a Roma per studiare e lavorare, per un quinquennio è vissuto a Torino, ma dalla Basilicata il suo cuore non se n'è mai andato. Quando il festival potentino Visioni Verticali l'ha chiamato come ospite, lui ha detto sì e mentre c'era ha anche inaugurato il Centro Sperimentale delle Arti Mediterranee, la prima scuola di recitazione della Basilicata, diretta da Marcello Foti. «È ciò di cui questa regione aveva bisogno - commenta -. All'epoca me ne andai via perché di occasioni non ce n'erano, ora spero che questa scuola regali ai ragazzi la possibilità di fermarsi qui più a lungo».
Lei ha un figlio di 24 anni. Parla per esperienza?
«Nicola fa lo scenografo e penso spesso al mondo che troverà lui e spero sarà migliore, ecologico, senza guerre. Per me ormai è fatta, non ho più grandissime ambizioni. A marzo ho in uscita il mio nuovo film, Scordato, in cui sarò un accordatore di pianoforti. Ci sarà la musica, senza non ci so stare».
È vero che Veronesi la scoprì mentre cantava?
«Sì, ero a una festa su una terrazza e stavo suonando la mia canzoncina Torna a casa foca quando Giovanni Veronesi mi notò. Mi combinò un appuntamento con lui al residence Prati, dove Leonardo Pieraccioni abitava. Appena entro, mi allunga una sceneggiatura e mi dice: "Vai a casa a leggerla e dammi una risposta". Io replico: "Non è che ho tutti questi copioni che mi aspettano. Questo ho e questo faccio". Era I laureati. Non gli sarò mai abbastanza grato».
Lei era già divertente a scuola?
«Ero un perdigiorno ma simpatico, quello che faceva ridere tutti. All'università, se il professore di Fisica 2 sentiva che l'attenzione generale calava, mi faceva una domanda. Era una sorta di convenzione tra noi. Sapeva che avrei detto una cazzata, alleggerendo la noia ».
Quindi la recitazione era nel suo destino?
«In realtà mai avrei pensato di fare l'attore. Ci sono arrivato grazie a numerosi colpi di fortuna, il primo nell'84. Una mia amica fraterna mi iscrisse a una scuola di recitazione senza dirmelo. La retta mensile costava 100 mila lire, insostenibile per me. Ebbi però la fortuna di essere arruolato dalla direttrice nel suo spettacolo, il che mi dava il diritto di frequentare gratis. Così riuscii a finirla».
Del suo esordio cinematografico, «Il male oscuro» di Monicelli, che cosa ricorda?
«Che lui non lo vidi mai. Venni preso dall'aiuto regista per la parte di uno che gridava nella tromba delle scale, solo che la scena era girata in casa. Dentro c'erano Monicelli e Giancarlo Giannini ma io nemmeno salii. Arrivai sotto, cacciai un urlo e me ne andai».
Cosa rappresenta per lei la Lucania?
«Mia madre, che se n'è andata quattro anni fa. Le ero molto legato. Quand'era viva era l'anello di congiunzione tra me e la mia terra, era le mie origini. Da quando non c'è più tutto qui mi parla di lei, tornarci è come rincontrarla».
Per questo ha scelto di ambientarci la sua prima regia, Basilicata Coast to Coast?
«Sì, ma a quel film ci sono arrivato per vie tortuose. Nel 2000 avevo diretto un corto per Cecchi Gori, che poi mi scritturò per girare la mia opera prima. Purtroppo ebbe l'indelicatezza di fallire. Lo reputai un segno del destino e per dieci anni tornai a fare solo l'attore. Furono le mie amiche Betta Olmi e Giovanna Mezzogiorno a insistere perché ci riprovassi. Scrissi la storia di quattro Don Chisciotte che attraversano la regione a piedi, un soggetto che non interessava a nessuno. Finché la Eagle si impietosì e decise di produrlo, insieme a Ipotesi Cinema e Paco».
Quando si rese conto che era diventato un successo?
«Subito. All'epoca non sapevo che in base al risultato del primo giorno i distributori sono in grado di calcolare l'incasso finale con una precisione del 90%. Quel 9 aprile 2010 pioveva e le sale si riempirono. Il responsabile della Eagle mi chiamò: "Possiamo brindare"».
Ha mai visto il remake sudcoreano del suo film?
«L'hanno fatto? Manco lo sapevo».
Per Si vive una volta sola Verdone disse che aveva scelto lei perché è un poeta. Lusingato?
«Lo ringrazio. Carlo è sempre stato un mio idolo, lo trovo irresistibile. Gli volevo bene prima ancora di conoscerlo. Nelle scene con lui ho dovuto fare sforzi enormi per non ridere. È rarissimo che un mattatore assegni a un altro il ruolo più divertente del film, lui invece l'ha fatto. L'ho trovato un gesto di grande generosità».
Guarda le serie in streaming?
«Sì, ma trovo le piattaforme confusionarie. Finisco per passare le serate a guardare pezzettini di questo e di quello, anziché qualcosa di compiuto».
Che ne pensa del governo?
«L'altra sera alla trasmissione di Maria Latella ho detto che Giorgia Meloni un po' mi piace. E parlo da granitico elettore di sinistra. Su molte cose la pensa diversamente da me, ma mi sembra una persona fondamentalmente onesta. Non credo sia lei il problema, quanto le persone intorno che deve accontentare».
Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 27 settembre 2022.
«Rocco Siffredi è come Marilyn Monroe, ha da un lato un elemento di conservazione e dall'altro qualcosa di eccedente», dice Francesca Manieri, che ha ideato e scritto la sceneggiatura di Supersex, la storia di Rocco Siffredi, o meglio di come è diventato il re del porno, e di un contesto sociale che riguarda tutti noi.
Avevano paura sia lui che lei.
«Ma la serie non ha paura, è coraggiosa. C'è un'enorme possibilità di raccontare il maschile».
Quel maschile lì. Di uno abituato a denudarsi in pubblico, a maneggiare e dominare il proprio corpo, a offrirsi senza limiti. Ha messo a nudo l'anima e si è sentito intimorito: «La nostra è una storia intima che ha accolto con stupore. Ho trovato una generosità che viene dalla dimestichezza con cui si espone. Non volevo fare una storia sul porno ma su ciò che il porno rappresenta».
Con Alessandro Borghi («lavora sul corpo e conosce Rocco»), sono sette puntate su Netflix nel 2023. Set tra Roma e Parigi. Francesca Manieri è una donna colta di, 43 anni, è laureata in Filosofia, è femminista, parla di 24 centimetri e cita Hegel. E' interessante capire la prospettiva di una donna «militante» rispetto a un uomo che forse ama le donne, o forse no.
Chi è Rocco?
«Un ragazzo sentimentale che sognava di lasciare l'Abruzzo e ha pagato un prezzo umano alto, conciliando con fatica l'arcaico della provincia e l'incontro con le città e si domanda: "Potrò amare ed essere amato?» La strana «coppia». Quando lo spirito incontra la carne.
Ha incontrato Rocco?
«Sì, mi mandava messaggi con ricordi, aneddoti. Ho letto la sua autobiografia, ho visto materiale filmico. È un racconto di formazione perché si deve raccontare come si costruisce il maschile per decostruirlo».
Francesca è partita da un'immagine che aveva visto di Rocco solo in uno stand pornografico che maneggia il calco del suo fallo, cade e lui si inchina in modo goffo a prenderlo. Lei, la scrittrice filosofa, vede in quell'immagine «la mercificazione della carne, la crisi fallica dell'Occidente.
Quella di Rocco è una parabola contemporanea. Ma in quell'immagine c'era anche un personaggio, una crisi, un cuore caldo perché va bene la filosofia, ma poi raccontiamo una storia avvincente, tormentata, un viaggio maschile come C'era una volta in America , ma visto da una donna».
Col suo grande membro, «oggetto di merchandising, ha contribuito alla trasformazione di un'epoca», avvolta dal Me Too, dalla consapevolezza, dalle ipocrisie del politically correct . «La rivoluzione sessuale di Rocco doveva portare a una maggiore libertà e invece ha finito per soffocarla, rimpicciolirla. È la storia di un pornostar attraverso le sue varie età che si fanno crisi esistenziale».
Il nudo?
«Essendo al centro la sessualità Ma i nudi sono in relazione con i sentimenti, snodi narrativi».
Supersex è la rivista «sconcia» che il 13 enne Rocco trovava su una strada statale, gettata dai camionisti.
«Parto dallo stigma sulla masturbazione, che in religione era la pastorale del confessionale, lo Stato la normava in termini negativi. Poi è diventata formazione digitale sessuale, è il cambio di un'epoca, un'idea di controllo delle masse, di potere».
Nella serie c'è Moana Pozzi.
«Le donne hanno una funzione narrante e di coro, Jasmine Trinca ha invece il ruolo dell'archetipo femminile con cui Rocco si confronta».
Francesca, ma quale taglio ha scelto?
«La crisi del rapporto tra maschile e femminile, lo iato tra sessualità e affettività che ci riguarda tutti. Da bambino cerca lo sguardo femminile, non lo trova, e avrà sempre la pretesa di saper guardare le donne, tiene il contatto visivo con loro, poi capisce l'ambiguità e la violenza e solo alla fine ha la capacità di accogliere il punto di vista della donna su di sé. È una possibilità di liberazione. Ci mette 7 puntate e 350 minuti per dire ti amo».
Rocco ama le donne?
«Il problema non è se ama le donne, il problema è cosa noi chiamiamo amore».
Ha detto per tre volte che smetteva, ed è ancora lì.
«È il suo demone, è un personaggio tragico, è abitato dalla necessità di farlo, è una cosa scritta nella sua carne. Marilyn poteva smettere di essere Marilyn?».
Rocco Siffredi, "non imitate quello che faccio nei miei film": rischio a luci rosse? L'avvertimento dell'attore. Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.
"Non imitatemi nei miei film, magari prendete solo qualche spunto": Rocco Siffredi, ospite di una cena a Villa Piccinetti sul colle Ardizio tra Pesaro e Fano, ha parlato della sua carriera ma ha anche lanciato questo monito. L'attore porno ha invitato i ragazzi a non fare quello che fa lui sul set senza però specificarne le ragioni. C'è forse qualche rischio? O era solo un modo divertente di rivolgersi alla platea?
L'attore, che ha sdoganato la filmografia hard, ha parlato anche di sé e della sua carriera dicendo di essere pronto per andare in pensione, ma a una condizione: "Vorrei andarci, ma aspetto che qualcuno prenda il mio posto". Il 58enne, poi, come riporta il Corriere Adriatico, ha confessato un segreto del suo lavoro: "Si chiama passione, le donne vi perdonano tutto purché ci mettiate sincerità e impegno. Non serve il Viagra, non contano le dimensioni. Serve solo avere molta sicurezza ed essere generosi verso le donne, ricordatevelo. Le donne le potete toccare con le mani solo quando c’è il rapporto, altrimenti mai".
A una domanda sui momenti più belli della sua vita, invece, Siffredi ha risposto: "Quando ho conosciuto mia moglie e alla nascita dei miei figli. Loro mi hanno dato la forza per andare avanti in questo lavoro. È grazie a mia moglie che ho ottenuto forza in tutti questi anni. Ho avuto al mio fianco una donna molto intelligente che non ha mai cercato di cambiarmi. Lo dico alle donne: non cercate mai di cambiare l’uomo che avete perché lo perderete e purtroppo questo vale anche al contrario".
Thomas Delbianco per corriereadriatico.it il 2 aprile 2022.
«Il segreto del mio lavoro? Passione e impegno. Siate generosi verso le donne, vi perdoneranno tutti. E non usate mai violenza nei loro confronti. La pensione? Vorrei andarci, aspetto che qualcuno prenda il mio posto».
Rocco Siffredi show venerdì sera a Villa Piccinetti sul colle Ardizio tra Pesaro e Fano. L’attore porno, icona internazionale del settore della filmografia hard e sdoganatore dello stesso, ha partecipato alla cena da sold out, poi proseguita con la musica, accolto con un’acclamazione al suo arrivo.
L’attore, 58 anni, da 38 anni davanti alle telecamere a luci rosse, come ha ricordato lui stesso, si è concesso ai fan, scattando foto e selfie con tutti. E ha parlato al microfono davanti al pubblico.
Ci sono state domande dai presenti rivolte a Rocco. A chi gli ha chiesto quali siano stati i momenti più importanti della sua vita, Siffredi non ha avuto alcun dubbio: «Quando ho conosciuto mia moglie (Rosa Caracciolo, ndr) e alla nascita dei miei figli (Lorenzo e Leonardo, ndr). Loro mi hanno dato la forza per andare avanti in questo lavoro.
È grazie a mia moglie che ho ottenuto forza in tutti questi anni. Ho avuto al mio fianco una donna molto intelligente che non ha mai cercato di cambiarmi. Lo dico alle donne: non cercate mai di cambiare l’uomo che avete perché lo perderete e purtroppo questo vale anche al contrario».
Poi Rocco ha anche invitato coloro che vorrebbero entrare a far parte del suo mondo lavorativo, a fare un provino per la sua “Siffredi Hard Academy”: «Questa sera (venerdì, ndr) a Villa Piccinetti c’è anche la nuova generazione, devi venire alla mia accademia - ha detto rivolgendosi ad un ragazzo presente in sala - vorrei anche andare in pensione, prima o poi. Aspetto qualcuno di voi che mi mandi in pensione. Ragazzi che c’è di più bello delle donne. Rispetto anche chi ama gli uomini».
E ancora: «Un segreto del mio lavoro? Si chiama passione, le donne vi perdonano tutto purché ci mettiate sincerità e impegno. Non servono Viagra, non contano le dimensioni. Serve solo avere molta sicurezza ed essere generosi verso le donne, ricordatevelo. Le donne le potete toccare con le mani solo quando c’è il rapporto, altrimenti mai. Non imitatemi nei miei film - conclude infine con un monito - magari prendete solo qualche spunto».
Dal profilo Instagram di Rocco Siffredi il 21 gennaio 2022.
Ragazzi colgo con immenso piacere la notizia che finalmente la Politica non è più quella cosa noiosa e triste a cui eravamo abituati, pertanto alla luce delle nuove aperture al mondo del Porno, del quale come sapete sono un affermato esponente, fatte dal Movimento 5 Stelle: candido ufficialmente la mia candidatura al ruolo di Presidente della Repubblica. In fondo è risaputo che ho fatto più bene al paese io che tutta la politica messa assieme.
Massimo Murianni per "Novella 2000" il 25 gennaio 2022.
La prima tornata di votazioni, ieri, è andata a vuoto, senza sorprese. Altrettanto si prevede per oggi. Le probabilità che il prossimo Presidente della Repubblica sia davvero Rocco Siffredi continuano a essere praticamente nulle. Però l’autocandidatura del più famoso pornoattore al mondo alla più alta carica dello Stato italiano ha fatto un po’ divertire e un po’ riflettere.
Rocco, come le è venuto in mente di proporsi come Presidente della Repubblica?
«L’idea mi è venuta dopo l’incidente del video porno fatto partire durante un convegno in Senato organizzato da una parlamentare dei 5 Stelle. L’ho interpretato come un’apertura della politica al mio mondo professionale».
Già sette anni fa qualche buontempone l’aveva votata...
«Sì, ho preso un voto. Ma non avevo ancora 50 anni e non mi avrebbero potuto eleggere. Ora ne ho 57, sono pronto».
C’è da dire che le spara grosse. Sua moglie ha già preparato le valigie per trasferirvi al Quirinale?
«Quando Rosza ha visto il video in cui mi sono candidato, ha detto: “Sono pronta a fare la First lady”. E sono convinto che lei sarebbe davvero perfetta. Io invece dovrei rivedere un po’ il mio modo di esprimermi, ma poi ci sono!».
Solo quello?
«Se gli italiani potessero votare qualcuno che davvero amano, credo che avrei delle chance. Da 35 anni mi dedico con passione ai poveri uomini che si trovavo in momenti di solitudine, magari anche un po’ tristi e li aiuto concretamente. E ultimamente anche alle donne che iniziano ad apprezzare il mio lavoro. In fondo è risaputo che ho fatto più bene al Paese io che tutta la politica messa assieme».
Di certo sarebbe un politico di cui si conosce tutto: non nasconde niente.
«Credo di essere stato tra i primi in Italia a togliere la maschera. Quando ho iniziato a fare il mio mestiere, mi vergognavo di quello che potevano pensare gli altri. Ma poi ho deciso di vivere la mia vita con sincerità, anche a costo di non piacere a tutti. Meglio essere sinceri e non piacere a tutti, che fingere per cercare consenso».
La sincerità è dunque il suo punto di forza e il suo programma politico.
«La sincerità è un valore che viene riconosciuto, e sarebbe il motivo per cui potrei anche essere votato, se ci fossero le elezioni dirette del Presidente. Io non ho scheletri nell’armadio, tutti mi conoscono per quello che sono. Non so quanti politici possono vantare la stessa trasparenza».
Rocco for President?
«Almeno Cavaliere del lavoro».
Ottavio Cappellani per mowmag.com il 12 novembre 2022.
No, minchia, è tornato, l’incubo della Sicilia del Sud-Est: Mick Jagger. Ha appena postato nel suo profilo Instagram una foto in cui raccoglie le arance, con la dicitura tipo “relax in Sicily” e un’altra al parco archeologico di Siracusa.
Adesso, Signor Meloni, non ne possiamo più di questi extracomunitari che vengono a rubare il lavoro ai siciliani. E poi prende anche per il culo: relax? Adesso, io sono atlantista col superturbo e ritengo che la Sicilia debba rientrare nella giurisdizione americana: petrolio, casino’, libera vendita delle armi, bordelli, altro che crisi del mezzogiorno, però però un po’ di reciprocità ci vorrebbe, signor Meloni: ma lei lo sa per andare in America quante rotture di coglioni ci sono? Vieni in vacanza? Vieni per lavorare? Fammi vedere il contratto. Etc. Etc.
E invece arriva un extracomunitario come Mike Jagger e può tranquillo raccogliere le arance come se niente fosse? Adesso: io capisco i siciliani che sono dei provinciali baluba che sperano che Mike Jagger dia loro una collana di perline e una sveglia da collo e che sono tutti esaltati ogni volta che viene un uippis, come se la Sicilia avesse bisogno dei uippis contemporanei per avere prestigio.
Ma vabbé, se sono arricchiti volgari ignoranti non possiamo farci niente. Ma il lavoro vogliamo tutelarlo? Mick Jagger arriva qui, raccoglie gli agrumi, e non c’è neanche un ministrone ai legumi e all’identità culoinaria che indaga.
Voglio dire: può anche essere che Mick Jagger sia caduto in mano al caporalato, che venga sfruttato. Insomma indaghiamo.
P.s. Torna praticamente ogni settimana da due anni. Qui la gente sta iniziando a chiedersi: “ma chi è che si scopa Mick Jagger” che non riesce a stare lontano dalla Val di Noto? Perché le cose sono tre: o viene a rubare il lavoro ai siciliani, o è entrato in un torbido giro di sfruttamento dei braccianti, o si scopa qualcuno.
Barbara Costa per Dagospia l'1 novembre 2022.
“Mick Jagger? Posso schiacciarlo semplicemente con una parola”: però questa parola Anita Pallenberg mai l’ha detta o meglio, solo una volta le è scappato un “io li conosco e lo so: Brian andava a letto con Mick, ma Mick è innamorato di Keith, e forse di Mick lo è un po’ pure Keith, e Keith è l’uomo che Mick vorrebbe essere, e non può”. Scherzava…? Dimmi tu se non è stato uno spreco che Anita Pallenberg, musa dei Rolling Stones, sui Rolling Stones un libro mai l’abbia voluto scrivere.
Leale fino alla fine. Anita non lo sa ma di libri su di lei e sulle donne che hanno "fatto" gli Stones se ne pubblicano tuttora, come "Parachute Women", di Elizabeth Winder (Hachette ed.), che, con Anita, si accentra sulle figure di altre tre donne, rotolanti coi Rolling Stones negli anni '60 e '70: Marianne Faithfull, Bianca Jagger e Marsha Hunt. Se in barba a sei decenni queste femmine restano oggetto di fascino e curiosità inesauribili, la spiegazione sta qui: se vuoi un mito in vita essere e in eterno splendere, la vita te la devi vivere e non raccontartela né raccontare. Vivi secondo la tua testa, e fregatene del comune fare e sentire. Mai dare spiegazioni!!! Solo così mandi al diavolo ogni schiavitù.
Se in Italia abbiamo poche e tenui icone dannate e perciò tentanti nella loro esistenza fuorilegge, e fuggiasca, una vita che puoi biasimare, ma che nel profondo vorresti tua, pur un giorno solo, una notte… è perché male in passato s’è applicata (e nel presente così conformista? ma neppure a pensarci!) la legge del "The End" morrisoniano (sofocliano) “f*tti tua madre, uccidi tuo padre”, che, lo rammento ai distratti, non sta nell’incesto né nel parricidio, ma nel far tabula rasa di ogni precetto genitoriale.
La vita devi vivertela tu, godertela tu, sbatterci il muso tu! Come hanno fatto queste 4 donne qui, che non hanno conosciuto altra legge se non seguire ciò che ardevano respirare. E sperimentare. Anche distruggendosi. E fondamentalmente nel sesso.
E a una come Anita Pallenberg ogni pur attinente definizione sta stretta: come tratteggiare una romana, altera, un cervello attivo, parlante 5 lingue e infuso di sapere, pulsante, libresco e di vita, e una che ha avuto come primo amore Mario Schifano? L’abisso che separa Anita Pallenberg dalle bambolette attuali che (auto) passano per star, sta nella personalità e identitaria e lavorativa che Anita ha veemente preservato pure accanto a mostri sacri come gli Stones.
Se Anita era modella di primo piano, e attrice di film d’autore e, lo riconosce lo stesso Keith Richards “un uragano di esperienze e cultura, me la facevo sotto quando mi contestava quel poco che le balbettavo”, è insultante delinearla compagna di Brian poi di Keith e con intermezzo di Mick.
Sono stati gli Stones a guadagnarci con Anita, e tu leggi qui: "Angie" non è dedicata a Angela, la figlia di Keith e Anita, nooo!!! Angie è Anita, Angie si legge "Anita-I-Need-Ya". E Anita è la paura in "Gimme Shelter", la paura che Anita lasci Keith per Mick: quando Keith la scrive, Anita è con Jagger sul set a girare "Performance". E pure "You Can’t Always Get What You Want" è Anita, è Mick che non può averla dopo il film, è Anita che gli dice no, ferendolo nell’orgoglio.
Quando gli Stones partivano in tournée infinite, e a sfrenarsi con le groupie, Anita sapeva consolarsi prima di tutto con Marianne Faithfull, fidanzata di Mick, libidinosa e decadente, eroinomane inguaiata prima e peggio di Anita e una, Marianne, nella musica e nel cinema riuscita a sfondare con la faccia tosta di passare per vergine quando a 18 anni era sposata e madre, e una, Marianne, a letto con Keith che se ne moriva per quei suoi seni polposi, e una, Marianne, che ha sostituito Mick pure con Mario Schifano, l’ex di Anita (non so se è vero che Mick l’abbia gonfiato di botte).
Si racconta che un giorno Mick trovò a letto Anita e Marianne e finendo in malo modo scacciato dalle due seccate perché col suo pisello proprio non desideravano continuare… Se Anita solo una volta ha fatto sesso con un altro a letto con Keith e però con un Keith dissipato nei sonni dell’alcool, è per avere messo l’eroina davanti a sé e ai loro partner (e a Keith quando dall’ero ne esce) che prima Marianne poi Anita son state lasciate al loro demone.
Il posto di Marianne è stato preso da Bianca Pérez-Mora Macias, una nicaraguense vantante nobili natali ma figlia d’un bottegaio. E Anita – che con Keith convive senza fede al dito per risoluto stile sentimentale 13 anni, ci fa 3 figli, l’ultimo morto in culla a pochi mesi per cause rimaste oscure – la puzza sotto al naso di Bianca mai l’ha sopportata. E non solo per gelosia verso Mick, ma pure perché Bianca si ergeva a 'sto cavolo su Keith e la sua legge sotto i piedi e i suoi coltelli e pistole e virile e androgino coi vestiti e i trucchi di Anita… e con che diritto?
Tutti lo sapevano, che Mick aveva impalmato Bianca dacché incinta ma che Mick nel frattempo era diventato padre di un’altra bambina. E quando l’aveva messa incinta, quest’altra donna, Marsha Hunt (la sua "Brown Sugar", colei che consolava Jagger se stufo delle solfe di Bianca, ma pure colei che per far da Jagger riconoscere la figlia si affiderà allo stesso avvocato di Bianca in causa di divorzio milionario da Jagger…) se non mentre ingravidava pure Bianca?
Ha detto Anita Pallenberg: “Dove puoi andare dopo che sei stata innamorata di Keith Richards? Che altro c’è?”. Ma sì che c’è. Sul letto di Keith. Nel colpo di pistola che Scott Cantrell, 17enne toy boy di Anita, si spara in bocca. E con la pistola di Keith. È la roulette russa, baby. Ma è stato un incidente. Davvero. E i libri –e questo della Winder compreso – che descrivono Anita strega di magia nera, nera autrice di sortilegi… dicono il vero? Chissà. Ma più di un pusher di Keith, e molesto a Anita, ha fatto una brutta fine, crepando in (destinati? malefici?) incidenti navali e stradali.
L'elisir di lunga vita dei Rolling Stones. Paolo Giordano il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.
Mick Jagger scatenato in un San Siro strapieno: "Milano più calda del quinto girone dell'Inferno".
Poi uno si chiede perché. Mick Jagger scorrazza sul palco di San Siro, una roba di 55 metri con una passerella che arriva al cuore della platea, e si muove come se non fosse appena uscito dal Covid e non stesse per compiere 79 anni, dicesi 79. Sta cantando l'iniziale Street fighting man, dietro di lui Ron Wood, sempre più scheletrico, e Keith Richards, con il solito orrendo berretto (stavolta giallo) sulla fronte, ruminano accordi mentre Steve Jordan, che ha la tremenda responsabilità di essere al posto di Charlie Watts morto l'anno scorso, picchia come un ossesso sui tamburi. «Questo è il primo tour europeo senza Charlie, che ci manca tantissimo», dice sir Mick in italiano. Il concerto dei Rolling Stones è l'ultimo grande rituale che arriva dagli anni Settanta, la testimonianza di un tempo musicale che loro e pochissimi altri tengono vivo suonando le stesse canzoni di allora. Eppure nel pubblico non ci sono solo nostalgici o sopravvissuti ai bei tempi che furono, anzi. Ci sono giovani nati ben dopo Start me up del 1981, che qui arriva tra i boati a due terzi del concerto quando «Milano è più calda del quinto girone dell'Inferno» come conferma Mick Jagger in un italiano migliore di tanti speaker in prima serata che manco conoscono Dante.
Il palco ha i colori rossogialloneri del Rock'n'roll circus (disco dal vivo registrato nel '68) e naturalmente gode di due megaschermi perché mica è facile seguire questo ossesso quasi 79enne avanti e indietro sulla passerella, e poi intercettare i suoi cambi d'abito e farsi divertire dalla nonchalance con la quale si cambia la giacca gettandola per terra (raccolta in tempo reale dallo staff). «55 anni fa abbiamo fatto il nostro primo concerto in Italia: grazie di essere ancora qui con noi» dice come se fossero passate due estati.
Poi però uno continua a chiedersi perché.
Le smorfie del padre di tutte le rockstar sono le stesse di sempre, le ha usate anche nel video che confermava il loro ritorno sul palco dopo la «pausa Covid» e ci mancherebbe: questo giro di concerti si chiama «Sixty Tour» perché celebra i sessant'anni da quel primo concerto al Marquee Club di Londra. Non può esserci una Paint it black senza che lui la annunci con le sue movenze, né può iniziare Midnight rambler senza qualche gemito di quelli che oggi li copiano tutti ma lui è stato il primo.
Insomma, balla neppure fosse un ragazzino e, a un certo punto, è scattato sulla passarella come un centometrista. Cantando senza fiatone. Mai vista una cosa del genere.
In poche parole, va in scena, in questa serata incandescente e bagnuzzata dalla pioggerella umida, una sorta di liturgia rock della quale si conoscono tutte le fasi ma ogni volta è come fosse la prima, persino stasera, persino mentre tutti pensano che questa sarà l'ultima perché come faranno questi a suonare ancora negli stadi a ottant'anni. E lo spirito di Charlie Watts aleggia sospeso mentre il suo volto spunta ogni tanto sugli schermi, garbatamente come era garbato lui, il vero metronomo dei Rolling Stones. Non c'è, e si sente perché la batteria è molto rock ma ben poco jazz. Dopotutto You can't always get what you want, non puoi sempre avere ciò che vuoi, anche se basta sentire come il coro di San Siro accompagna questo brano per capire un'altra volta che ci sono ritornelli davvero «social», cioè capaci di far cantare tutti ovunque. Ovazioni del pubblico.
Però uno continua a chiedersi perché i Rolling Stones siano ancora in giro dopo sei decenni e non abbiano ancora voglia di «andare a letto presto» come scrisse Proust citato da Noodles di C'era una volta in America. Di certo non è una questione di soldi, visto che le rispettive dichiarazioni dei redditi sembrano il bilancio di una multinazionale. Tanto meno è bisogno di celebrità, dato che gli Stones sono «worldwide famous», famosi in tutto il mondo. Forse c'è bisogno di attendere i bis, dopo due ore, e vedere come Mick Jagger aggredisce Gimme Shelter (con una corista nettamente inferiore alla leggendaria Lisa Fischer) o come ripete per l'ennesima volta Satisfaction che chiude il concerto. Allora si capisce che gli Stones vanno ancora avanti semplicemente perché sanno stare solo qui, sul palco con i riflettori accesi su di un tempo che sta passando per sempre.
Prefazione di Chuck Leavell a “La grande storia dei Rolling Stones” (scritto da Ivy Araf e Andra Pagano, ed. Hoepli), pubblicata da “il Giornale” il 20 giugno 2022.
Era il 1966, avevo 13 anni e, dopo aver imparato i primi rudimenti del pianoforte da mia madre e qualche accordo sulla chitarra da mio cugino, avevo formato la mia prima band, i Misfitz. Tutti i venerdì sera ci esibivamo all'ostello della YMCA di Tuscaloosa, in Alabama, la cittadina dove vivevo. E proprio lì, per la prima volta, ho suonato un brano dei Rolling Stones, The Last Time.
Probabilmente ne avrò ascoltati altri in radio, ma ricordo distintamente che quel pezzo fu il mio battesimo stonesiano. Ma rammento anche le discussioni, e le litigate, tra chi preferiva i Beatles e chi i Rolling Stones. Questi ultimi, anche qui in America, avevano quell'immagine da bad boy che la famosa frase del loro manager Andrew Loog Oldham («Fareste uscire vostra figlia con uno degli Stones?») aveva contribuito a creare. Al contrario, i Beatles erano considerati i bravi ragazzi innocenti, carini e per bene.
Ma più canzoni dei Rolling Stones uscivano e venivano trasmesse in radio e più crescevano la loro importanza e la loro influenza. Direi che dai primissimi anni Settanta cominciarono a essere super rispettati sia come autori che come interpreti. E, una volta che i Beatles si sciolsero, diventarono la più importante rock band inglese negli States. In quegli stessi anni, io suonavo nella Allman Brothers Band, uno dei gruppi preferiti di Bill Graham, il grande promoter americano di concerti rock. E, grazie a ciò, io e lui diventammo amici tanto che, nel momento in cui gli Allman Brothers decisero di fare una pausa, Graham organizzò diversi show della mia band, i Sea Level.
Quando poi, nel 1981, Bill diventò tour director degli Stones, sapendo che loro erano alla ricerca di nuovi musicisti da inserire, suggerì il mio nome. Mi recai così agli studi Long View Farm, a North Brookfield, Massachusetts, dove stavano facendo le prove per l'imminente tour americano. Il provino andò molto bene e, in quei tre giorni, feci amicizia con Ian Stewart. Stavo per prendere quel posto vacante quando, come si sa, venne scelto Ian McLagan.
Poi, a metà del tour, gli Stones decisero di fare un concerto non annunciato al Fox Theater di Atlanta. E fu allora che Stu mi chiamò per invitarmi a salire sul palco con loro: era il 24 ottobre 1981. Alla fine della tournée americana, ricevetti un'altra telefonata da Ian Stewart: la band avrebbe dovuto fare una serie di concerti in Europa nell'estate del 1982 e... mi voleva! Da quel momento, non avrei più lasciato i Rolling Stones.
Ricordo che mi trovai subito bene con loro, sia dal punto di vista musicale che da quello dei rapporti umani: mi fecero sentire a mio agio e furono tutti molto collaborativi. E se il mio legame d'amicizia con Stu ne uscì rafforzato e mi fu facile andare d'accordo con Bobby Keys (eravamo entrambi del Sud degli States), ricordo con grande piacere straordinarie serate a jammare in camera di Keith.
Dopo quella tournée, gli Stones non salirono sul palco per sette anni, ma mi invitarono a suonare in studio per un paio di album, Undercover e Dirty Work. Anche Jagger mi chiese di collaborare al suo album solista She's The Boss. Insomma, in un modo o nell'altro, siamo sempre rimasti in contatto. Nel corso degli anni, il mio ruolo si è evoluto sino a farmi diventare direttore musicale. Significa che sono io a occuparmi degli arrangiamenti e a ricordare a tutti le parti nei vari brani.
Ho annotato ogni dettaglio in due quaderni dove ho scritto a mano spartiti, appunti e quant' altro serve per poter ricordare tutto. Le canzoni, 200 circa, sono state catalogate in ordine alfabetico. Mi porto questi bloc-notes con me durante le prove, in caso dovessero servirci; per me sono davvero qualcosa di prezioso e li tengo da conto. Il mio compito è però anche quello di far sì che i ragazzi possano cantare e suonare esattamente come vogliono, oltre a creare coesione artistica e personale nel gruppo. Lavorare con i Rolling Stones è impegnativo, ma gratificante.
E anche se, a differenza degli Allman Brothers, c'è molto meno spazio per improvvisazioni e assolo, credo che il mio ruolo con la band di Mick e Keith, che sono grandi professionisti e hanno una solidissima etica del lavoro, sia più rilevante rispetto a quello che avevo con gli Allman. In 40 anni, penso di aver suonato oltre 1000 concerti con gli Stones e ne ricordo pochissimi di mediocri: anzi, direi che la maggior parte siano stati persino superiori alle nostre stesse aspettative.
Sono orgoglioso di aver sempre dato anima, cuore e passione in ogni singolo show. Non poteva essere altrimenti per rispetto di una band che ha saputo superare momenti durissimi e si è sempre saputa rialzare. «Non mollare mai, a prescindere da tutto e da tutti» sembra essere il loro motto.
La scomparsa di Charlie Watts è stata l'ultimo, tremendo colpo basso. Mi è ancora difficile persino parlarne, perché a lui mi hanno unito tante cose e ho migliaia di ricordi, artistici e personali. È sempre stato gentile, rispettoso e abbiamo trascorso ore e ore a conversare su questioni che ci stavano a cuore: gli sarò sempre grato per la sua amicizia. Charlie è stato il batterista perfetto per gli Stones, naturalmente elegante in ogni suo intervento. Ci manca moltissimo, ma, come ci ha detto qualche tempo prima di andarsene, voleva che continuassimo anche senza di lui per festeggiare il sessantesimo anniversario della band... già, 60 anni di Rolling Stones, non è incredibile?
Dario Salvatori per Dagospia il 22 marzo 2022.
Nei giorni scorsi molti siti e ancor di più i quotidiani hanno annunciato il prossimo concerto italiano dei Rolling Stones previsto il 21 giugno a San Siro, omaggiando i “Sixty” del gruppo.
La data storica riportata, ovvero 12 luglio (qualcun altro ha scritto il 2 luglio) 1962, è errata. Quel giorno gli Stones debuttarono al “Marquee”, in piena Oxford Street, partendo per il loro primo “never ending tour” di oltre sessanta date fino al 31 dicembre, anche se soltanto a Londra.
Ma non erano ancora i veri Stones, quelli che tutti avrebbero amato. C’era Brian Jones, il vero fondatore del gruppo, all’epoca leader, c’erano Mick Jagger e Keith Richard, il primo ventenne, gli altri due diciannovenni.
C’era Ian Stewart, pianista, fratello maggiore, in seguito cacciato dallo stilosissimo manager del gruppo, Andy Loog Oldham, che lo riteneva vecchio, brutto e mal vestito. La sezione ritmica cambiava spesso: Dick Taylor al contrabbasso acustico e Tony Chapman alla batteria.
Per il debutto al “Flamingo”, in Wardour Street, arrivarono Ricky Fenson al basso e Carlo Little dagli Screaming Lord Sutch, gruppo discretamente noto. Intanto Brian, Mick e Keith vanno ad abitare insieme ad Edith Grove, 16 sterline a settimana e solo una lampadina in tutto l’appartamento.
Brian vorrebbe ingaggiare Charlie Watts, in quel periodo il batterista più quotato nel giro londinese. Mick e Keith sono sbalorditi dal basso e dall’amplificatore di Bill, al punto di farlo entrare nel gruppo per la sua potenza sonora.
Bill Perkins lascia il 14 dicembre i Cliftons, il suo gruppo, non proprio una formazione di blues e di rhythm and blues. Inizia a provare con i nuovi compagni finché non debutta l’11 gennaio 1963 al “Ricky Tick” a Windsor. Bill è l’unico ad essere sposato (a differenza di Brian Jones che ha diciannove anni, cinque figli e non è sposato).
Carlo Massarini per lastampa.it il 25 aprile 2022.
A volte ritornano. Un modo di dire che ben si applica al rock, dove decine di band date ormai per disperse, evaporate, scatafasciate senza pietà si sono rifatte vive, a volte anni o decenni dalla loro ultima incarnazione. Nel caso dei Rolling Stones, ritornano sempre.
Sempre è l’essenza dell’immortalità. E gli Stones, lo sanno i fan della prima generazione e ancora meglio quelli recenti (generalmente i figli, o meglio i nipoti di quelli che li hanno amati fin dall’inizio) sono immortali.
Non nella memoria, come si dice sempre con un po’ di retorica dell’arte. No no, sono proprio immortali. Come altro definire una band che festeggia quest’anno i suoi 60 anni di ininterrotta dominanza sul mondo del rock’n’nroll, che ha perso pezzi ed anime lungo la strada ritornando sempre su un palco, da quelli spogli degli Anni ’60 a quelli faraonici di adesso, customizzati per ogni tour da qualche prestigioso designer di palco per rendere viva l’esperienza anche a chi si siede a 100 metri da quegli omini che come formichine corrono e si muovono e laboriosamente e rumorosamente si guadagnano il pane?
Gli Stones sono immortali tanto quanto lo è il r’n’r (e, credetemi, lo è: è questione di fede): 60 anni da quegli esordi nei piccoli club di blues e jazz della periferia londinese, una trentina di album (sempre più radi dagli Anni ’90, l’energia è ormai tutta nelle performance, come dargli torto?) di cui quelli a fine Anni ’60-inizio 70 – l’età dell’oro – fra i più sanguigni e densi ed estatici mai prodotti sul pianeta Terra, ma non ce n’è uno che non abbia qualche brano di una playlist ideale.
Altrettanti album dal vivo, non parliamo delle compilation e dei (pochi) progetti solisti. Tanto materiale su dvd, come i concerti in tutto il loro eccitante splendore: Shine a Light, girato da Scorsese con telecamere messe ovunque sul palco, e quello del tour sudamericano, Olè Olè Olè, con i mega concerti a Rio e Cuba sono imperdibili.
Una serie di rockumentaries nei quali ormai raccontare esplicitamente tutto – vizi e virtù, in egual e gigantesca misura – di cui Crossfire Hurricane è il mio preferito: intimo e geniale, loro non si vedono mai, solo le voci che commentano le immagini della loro storia. Duecentoquaranta milioni di dischi venduti, e io ho fatto la mia parte. Il loro nome ufficioso è quello della «più grande r’n’r band del mondo», anche se ogni tanto qualcuno viene a contenderlo: «Ogni notte “the greatest r’n’r band in the world” è una band diversa», ha detto generosamente Keith di recente, ma secondo me è solo una sorta di bugia a fin di bene.
E, con tutto quello che è successo in mezzo, è persino ancora attiva la rivalità con i Beatles, che regalarono loro il loro primo hit I Wanna Be Your Man (anche se con un commento sarcastico, chissà se vero, tipo «era una canzone che avevamo scritto per Ringo»). Sono stati amici dietro le quinte, anche perché il territorio di conquista – fama a parte – era oggettivamente diverso: blues e rock per i londinesi, mentre i ragazzi del Nord hanno creato musica con una dose di fantasia e sperimentazione a 360°.
Recentemente McCartney ha detto: «Non son sicuro che dovrei dirlo, ma gli Stones sono una cover band di blues... Credo che noi abbiamo gettato una rete un po’ più ampia». Con il suo British humour Mick nel concerto di Los Angeles ha replicato: «Oh, poi faremo delle cover di blues e Paul ci verrà a dare una mano». Le due colonne del tempio, papà e mamma, lo yang e lo yin, il grezzo e il patinato, l’infinito e oltre: che tristezza non ci fossero mai stati a contendersi il ruolo del più grande.
Gli Stones hanno perso un anno fa Charlie Watts, un tuffo al cuore per i fan e sicuramente per loro, quando avevano già deciso che per motivi medici Steve Jordan avrebbe fatto il supplente per un tour per poi restituirgli il posto. Lo aveva detto Charlie stesso a Keith, molti anni prima: «Se ci fosse mai un altro con cui lavorare, il vostro uomo è Steve», la cui esperienza con Keith torna indietro fino agli Anni ’80.
Dicono che ora la ritmica, in coppia un altro maestro come Darryl Jones al basso, è ancora più potente. Certo, lo stile di Charlie, che del suo background di jazzista convertito aveva portato in scena la rilassatezza di quello che sa che non deve picchiare mai (sui tamburi), mancherà. Lui che, non ci si crede, sembrava quello più sobrio e scevro dalla vita spericolata, è stato il primo ad andarsene.
Non saranno più in quattro a stringersi a coorte quando alla fine faranno la passerella trionfale, ma c’è un omaggio per lui: generalmente al terzo pezzo – qualunque sia, le scalette cambiano – e la sua immagine nei quattro ledwall giganteschi farà scendere lucciconi a più di un presente.
Per il resto, non abbiate neanche un attimo di dubbio, accendete il vostro piccolo mutuo e sciamate verso San Siro: le rughe come canyon di Mick (uno dei più grandi cantanti di tutti i tempi, ricordiamocelo) e il suo miracoloso muoversi senza sosta a 78 anni, la gioia di Ron del vivere con gli amici una giovinezza infinita, quelle pennate sulla seicorde che Keith fa in totale e lasciva rilassatezza fanno parte della Storia, incredibile che l’Unesco non le abbia ancora dichiarate patrimonio dell’umanità. E non chiedetevi perchè siano ancora là sopra, a suonare per due ore: «È quello che faccio», risponderà ridendo Keef.
Non è solo rock’n’roll, è mitologia contemporanea. E ci piace ancora da matti.
(ANSA il 14 luglio 2022) - Si apre uno spiraglio nel processo americano al regista Roman Polanski per lo stupro di una tredicenne, 45 anni fa. George Gascon, procuratore di Los Angeles, ha annunciato che il suo ufficio non si oppone più alla rivelazione di un documento che potrebbe gettare nuova luce sul caso e portare a un suo riesame.
Si tratta della trascrizione della testimonianza dell'allora viceprocuratore Roger Gunson, secondo cui il giudice dell'epoca Laurence Rittenband si accanì contro il regista premio Oscar per 'Il pianista'.
Quest'ultimo al processo si dichiarò colpevole concordando una pena minima ma, quando seppe che il giudice aveva confidato ad alcuni amici che avrebbe ignorato l'ammissione di colpevolezza condannandolo a 50 anni, fuggì in Francia - dove come cittadino francese era protetto dall'estradizione - e non rimise mai più piede negli Stati Uniti per evitare il rischio di essere arrestato, processato e condannato.
A chiedere a lungo il rilascio del documento erano stati Polansky e Samantha Geimer, la vittima dello stupro. Ora il giudice Gascon ha deciso di renderlo pubblico, "dopo attenta considerazione del desiderio della vittima, delle circostanze uniche e straordinarie che portarono alla testimonianza di Gunson e del mio impegno per la trasparenza e la responsabilità di tutti nel sistema giudiziario". Negli ultimi anni Polanski, che ha ammesso la sua attrazione per le teenager, è stato accusato da almeno altre cinque donne di aggressione sessuale quando erano minorenni, una a soli 10 anni.
(ANSA il 15 luglio 2022) - La testimonianza chiave di Roger Gunson, procuratore nel processo per stupro contro Roman Polanski, sarà pubblicata quaranta anni dopo la condanna. Lo ha deciso un tribunale della California. Il regista di 'Chinatown' e 'Rosemary's Baby' è stato arrestato nel 1977 dopo che la tredicenne Samantha Gailey lo accusò di averla drogata e stuprata. Polanski all'epoca decise di patteggiare ammettendo di aver avuto un rapporto sessuale con una minorenne, ma poi fuggì in Francia quando apprese che il giudice voleva riconsiderare il caso e infliggergli una pena più pesante.
Il regista disse allora di essere stato fuorviato dal sistema legale e da allora ha chiesto che fosse pubblicata la testimonianza dell'ex vice procuratore distrettuale Gunson, il primo che gestì il suo caso. Gailey ha pubblicamente perdonato Polanski nel 1997, accusando la stampa e il sistema giudiziario di averle inflitto un trattamento peggiore del crimine originale. Da allora altre donne hanno accusato Polanski, ora 88 anni, di crimini sessuali. Accuse che lui ha sempre negato.
Stefano Montefiori per corriere.it il 17 ottobre 2022.
Polemiche in Francia dopo l’apparizione, domenica sera nel programma tv «Sept à huit», di Emmanuelle Seigner , 56 anni, l’attrice di molti film tra i quali Frantic, Luna di Fiele e L’ufficiale e la spia, nonché moglie del regista Roman Polanski, 89enne. Seigner si è lanciata in una difesa appassionata del marito.
In questi anni lei gli è sempre stata vicino ma, nella trasmissione di domenica sera ha usato argomenti che le valgono ora molte critiche. La prima accusa contro Polanski risale al 1977, quando fu accusato di aver drogato e violentato Samantha Gailey, allora tredicenne, a Los Angeles. Il regista è stato condannato e ha trascorso 42 giorni in carcere prima di lasciare gli Stati Uniti, quando un giudice sembrava sul punto di rinnegare l’accordo e condannarlo a diversi anni di prigione.
«A 13 anni si è giovani, certo, ma quella era un’epoca molto permissiva», dice Emmanuelle Seigner. «Il rapporto con l’età è cambiato molto. All’epoca, la lolita veniva elogiata e celebrata. Io ho iniziato la mia carriera di modella a 14 anni, non è stata una storia che mi ha sconvolto». Seigner poi sottolinea i buoni rapporti che hanno oggi Polanski e la sua vittima. «Si scambiano e-mail. Lei non sopporta più questo status di vittima. Per questo motivo chiede l’archiviazione del procedimento».
Ma ci sono molte altre donne che accusano il regista, obietta l’intervistatrice. Emmanuelle Seigner risponde che «quando ho conosciuto mio marito, tutte le donne volevano andare a letto con lui, tutte le ragazze giovani volevano andare a letto con lui, era una cosa assurda, pazzesca. Aveva 52 anni, ne dimostrava 30, era un grande regista; quindi, era molto attraente e non credo che avesse bisogno di violentare qualcuno».
Secondo l’attrice, ora il regista è visto come un paria e questo ha avuto ripercussioni sulla sua carriera: «È terribile perché non può fare un film, agli attori viene consigliato di non recitare nei suoi film. Io stessa sono sulla lista nera in Francia. L’uomo con cui vivo non è affatto la persona di cui ho sentito parlare, è un ottimo marito e un ottimo padre».
Hélène Devynck, che ha appena scritto il libro «L’impunité» accusando il celebre anchor man Patrick Poivre d’Arvor di averla violentata, ha condannato con forza su Twitter l’intervento di Emmanuelle Seigner: «La presunzione irrefutabile del consenso. Il viale dell’impunità. Su Tf1, come sempre». Tf1 è la rete dove per anni Patrick Poivre d’Arvor ha condotto il telegiornale più seguito di Francia.
Oltre a Samantha Gailey, sono molte le donne che accusano Roman Polanski per fatti caduti in prescrizione: nell’agosto 2017 «Robin» lo ha accusato di violenza sessuale quando aveva 16 anni, nel 1973. Nel settembre 2017 Renate Langer, ex attrice, ha presentato una nuova denuncia per stupro, sostenendo di essere stata aggredita nel 1972 a Gstaad, in Svizzera, quando aveva 15 anni.
Nell’ottobre 2017, anche un’artista americana, Marianne Barnard, ha accusato il regista di averla aggredita nel 1975, quando aveva 10 anni. E nel novembre 2019, anche una donna francese, Valentine Monnier, lo ha accusato di averla violentata nel 1975 in Svizzera quando aveva 18 anni. In precedenza, nel 2010, l’attrice Charlotte Lewis aveva dichiarato di essere stata abusata sessualmente dal regista nel suo appartamento di Parigi all’inizio degli anni ‘80, quando aveva 16 anni.
Un altro passaggio criticato dell’intervista è quando Emmanuelle Seigner sembra evocare le persecuzioni antisemite a proposito del marito, ricordando le proteste alla cerimonia dei Caesar, gli Oscar del cinema francese, quando Polanski venne premiato per la regia di L’ufficiale e la spia. «Fuori della sala le militanti femministe manifestavano e i poliziotti hanno usato i gas lacrimogeni. Alcune hanno gridato “Non siamo noi che dovete gasare, ma Polanski”. Vorrei ricordare comunque che la madre di Roman è morta incinta nelle camere a gas di Auschwitz. Dunque, non so se abbiamo bisogno di queste militanti femministe».
Lady Polansky e la difesa insostenibile dello stupro. Valeria Braghieri su Il Giornale il 18 ottobre 2022.
Si amano, adesso persino più di prima. Si ammirano, sono complici e hanno lo stesso umorismo dark. Quando si sono conosciuti, nel 1985, lei aveva diciannove anni che, a suo avviso, corrispondono ai trenta di oggi (lui trentatre in più). È convinta che un tempo la Francia fosse molto più libera di oggi. Oggi che il polically correct ha finito con l'appiattire la vita. Tutte queste premesse, affidate al Corriere della Sera, in un'intervista in cui confessava anche di avere una passione per la «burrata e Padre Pio», e nella quale si definiva una donna noiosa che non ha mai sedotto nessuno, sono importanti per raccontare l'attrice Emmanuelle Seigner (cinquantaseienne), moglie del regista Roman Polanski (ottantanovenne), e per spiegare la sperticata, impopolare difesa in favore del marito nella quale si è lanciata. L'intervento al programma francese Sept à huit, ha scatenato infinite critiche.
L'argomento era sempre quello dal quale la coppia cerca di prendere le distanze ormai da anni. E che inevitabilmente ritorna: l'accusa di stupro a Los Angeles del 1977 che raggiunse Polanski quando fu accusato di aver drogato e violentato Samantha Gailey, allora tredicenne. Colpisce sempre una donna che decide di stare accanto al proprio uomo dopo un'accusa così infamante. Se poi, l'accusa infamante coinvolge una tredicenne, la decisione appare del tutto infrequentabile. Eppure Seigner non ha dubbi: «Poteva distruggerci invece ha rinsaldato la nostra unione. Quando ho conosciuto mio marito, tutte le donne volevano andare a letto con lui, tutte le ragazze giovani. Aveva cinquantadue anni, ne dimostrava trenta, era un grande regista; quindi, era molto attraente e non credo che avesse bisogno di violentare qualcuno».
Lo tsunami si è scatenato quando l'intervistatrice le ha fatto notare che la vittima aveva solo tredici anni e lei ha risposto: «A 13 anni si è giovani, certo, ma quella era un'epoca molto permissiva. Il rapporto con l'età è cambiato molto. All'epoca, la lolita veniva elogiata e celebrata». Ci sforziamo di comprendere la moglie, rinunciamo a capire la donna.
Roman Polanski potrebbe tornare libero, ecco la 'carta' che può salvarlo: “Il giudice tradì i patti”. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 19 Luglio 2022.
Nel 1977 il regista stuprò Samantha Geimer. Dalla condanna vive fuori dagli Usa per evitare l’arresto. Spunta la promessa (disattesa) di pena lieve. Si riapre il caso Polanski, o almeno così lui spera. Perché avendo trovato la prova che il giudice del suo abuso sessuale contro una minorenne gli aveva promesso la libertà, in cambio dell’ammissione di parte della colpa, gli avvocati sperano ora di ottenere una condanna in contumacia ai giorni già scontati in carcere. Non è sicuro che si arrivi a questo, perché l’attuale procuratore pretende che si presenti in tribunale a Los Angeles, e nel clima del movimento #MeToo sarà comunque difficile far accettare la liberazione di un potente regista che aveva avuto un rapporto con un’aspirante attrice tredicenne.
"Ora incastrerò Polanski". Nell'audio di 45 anni fa l'accanimento del giudice. Francesco De Remigis su Il Giornale il 20 luglio 2022.
Una magistratura subdola, se non impazzita, protagonista nell'affaire Polanski in cui l'unica vittima era stata la 13enne Samantha (Geimer) Gailey, torna a far parlare di sé. Perché nel processo americano al regista, risalente a 45 anni fa, niente sembra davvero essere andato per il verso giusto. E più che le ombre sul cineasta, pronto allora a patteggiare ammettendo un rapporto sessuale con una minorenne, risparmiandosi l'accusa di stupro, sono le zone grigie sul comportamento del giudice istruttore Laurence J. Rittenband ad assumere i contorni dello scandalo: perché dopo i 42 giorni di Polanski superati in un carcere californiano con tanto di test psicologici, il giudice si era detto segretamente pronto a virare sull'accanimento giudiziario.
Ben più di una confidenza potrebbe ora cambiare le sorti del caso; o quanto meno l'idea che il cineasta di origini polacche aveva dato di sé fuggendo dagli States. E il motivo sta nella testimonianza resa nel 2010 dal vice procuratore Roger Gunson, che seguì il processo del '77, in cui accusava proprio il giudice istruttore (morto nel '93) di voler incastrare il regista. Tanto che ne chiese a più riprese la rimozione dal caso.
A verbale, Gunson parlò dell'intenzione del giudice di infrangere la promessa fatta a Polanski: accettare il patteggiamento. E condannarlo invece con l'inganno a una pena fino a 50 anni. La trascrizione dell'interrogatorio a cui nel 2010 si sottopose il viceprocuratore era stata secretata. Ma già emersa in parte in un documentario. Diventata pubblica il 13 luglio grazie al Freedom of Information Act, e su input di due giornalisti (Sam Wasson e William Rimple), lo sbobinato integrale dimostra quella malcelata intenzione di infierire sul regista nonostante l'accordo tra le parti. E che Polanski avesse dunque buone ragioni per fuggire in Francia alla vigilia della sentenza, in quanto tradito dal sistema giudiziario Usa.
Nel '78, annusata l'aria e nel dileggio collettivo, Polanski riparò infatti nella sua seconda patria, l'Esagono. E contro la toga mitomane alle prese con una star (accusata nel frattempo da almeno altre 5 donne di aggressione sessuale quando erano minorenni) vittima e carnefice si sono trovati dalla stessa parte. Anche la Gailey, come Polanski, chiede da tempo verità su certi colloqui off the record del giudice Laurence; pronto a far carta straccia del patteggiamento consigliato al regista. Una trappola, secondo l'avvocato di Polanski, Harnald Braun, che rinnoverà adesso la richiesta di far pronunciare la sentenza nei confronti del Premio Oscar senza che quest'ultimo debba rientrare negli Usa, dove teme ancora d'essere arrestato. Il processo in absentia è lungo. C'è l'ipotesi di collegamento di Polanski via Zoom. Braun ha chiesto però che sia un nuovo giudice ad occuparsi del caso. L'attuale, Sam Ohta, «è inutile, inaffidabile», ha detto a Variety, visto che per 12 anni si è opposto alla trascrizione-verità.
Il cineasta è ancora oggetto di un mandato d'arresto internazionale. E se da cittadino francese è protetto dall'estradizione, nel 2009 fu fermato al festival del film di Zurigo. Trascorse 77 giorni in carcere e 221 giorni agli arresti domiciliari a Gstaad, in Svizzera. Nel luglio 2010 le autorità elvetiche negarono l'estradizione revocandogli il braccialetto elettronico. Ora inizia un nuovo capitolo. Grazie a un’altra toga, George Gascon, nuovo procuratore di Los Angeles, che ha dato semaforo verde affinché la Corte d'appello rendesse pubblico il documento-choc: «Dopo attenta considerazione del desiderio della vittima, delle circostanze uniche che portarono alla testimonianza di Gunson e del mio impegno per la trasparenza nel sistema giudiziario».
(ANSA il 18 ottobre 2022) - Un giudice di New York ha archiviato parzialmente le accuse contro Kevin Spacey in un processo civile per molestie sessuali nei confronti di un uomo che all'epoca era minorenne.
I giurati dovranno adesso decidere solo se il due volte premio Oscar è responsabile per aver usato violenza nei confronti di Anthony Rapp, un altro attore, che all'epoca aveva appena 14 anni. Il giudice ha infatti dichiarato il non luogo a procedere per un' altra accusa, quella di avere intenzionalmente inflitto al ragazzo danni emotivi.
"E' essenzialmente un duplicato dell'altra accusa", ha spiegato il giudice. Rapp chiede a Spacey 40 milioni di dollari di danni. Oggi Spacey ha deposto in aula. Ha detto di non essersi dichiarato pubblicamente omosessuale per anni perchè traumatizzato dal padre Thomas Fowler, che era razzista e omofobo.
L'ufficiale e la spia: Roman Polanski non è una vittima. Erika Pomella il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'ufficiale e la spia è il film che ha riacceso la gogna mediatica contro Roman Polanski: nel raccontare la storia di un militare francese, il regista cerca forse di giustificare anche se stesso e il proprio crimine.
L'ufficiale e la spia è il film di Roman Polanski che andrà in onda questa sera alle 21.10 su Rai Movie. Tratto dal libro omonimo di Robert Harris, L'ufficiale e la spia, ricostruire un evento storico che ha caratterizzato la storia della Francia di fine Ottocento: il cosiddetto Affaire Dreyfus, che portò all'impegno politico numerosi intellettuali, come lo scrittore Emile Zola.
L'ufficiale e la spia, la trama
Alfred Dreyfus (Louis Garrel) è un ufficiale che viene accusato dall'esercito francese di alto tradimento: sarebbe infatti responsabile di aver intessuto comunicazioni che mettevano a rischio la sicurezza nazionale con uno stato ostile, la Germania. Senza una vera occasione di difendersi dalle accuse che gli vengono mosse, Alfred Dredyfus viene degradato e condonnato all'esilio nell'Isola del Diavolo, il terribile penitenziario della Guyana francese.
Un anno dopo Georges Picquart (Jean Dujardin), ex superiore di Dreyfus, viene messo a capo dei servizi segreti francesi. Ed è in questa posizione che le accuse contro Dreyfus cominciano ad apparirgli fragili: le prove sembrano in realtà suggerire un imbroglio da parte dell'esercito stesso. Dietro l'arresto di Dreyfus, infatti, ci sarebbe una forma di puro antisemitismo. Caratterizzato da un forte senso dell'onore e profondo amante della giustizia, il capitano Picquart continua a indagare sull'affaire Dreyfus, determinato a portare in superficie la verità. In questo viene aiutato anche dallo scrittore Emile Zola, che pubblica un articolo dal titolo J'accuse. La testardaggine di Picquart di svelare il mistero dell'affaire, però, lo renderà un bersaglio per tutti coloro che non vogliono che Dreyfus sia liberato. E ben presto il capitano dovrà guardarsi le spalle anche da quell'esercito che ha sempre servito con lealtà.
Polanski e Dreyfus sono entrambi vittime del sistema?
L'ufficiale e la spia ha avuto la sua prima mondiale al Festival di Venezia del 2019, a cui Roman Polanski non ha potuto partecipare perché, a causa della sua posizione legale con gli Stati Uniti, entrare in Italia avrebbe significato rischiare l'estradizione e, dunque, il carcere. Questo perché, come raccontato dall'Indipendent, nel 1977 Roman Polanski fece assumere champagne e metaqualone - un farmaco con proprietà sedative - a Samantha Gailey (ora Geimer), una bambina di tredici anni con cui poi fece sesso. L'accusa di stupro venne commutata con un patteggiamento che evitava alla ragazzina di dover andare in tribunale e permetteva a Polanski di affrontare una condanna per rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne, crimine considerato più "leggero".
Dopo aver saputo che il giudice non gli avrebbe concesso la condizionale, Polanski scappò, rifugiandosi in Francia, Paese che non prevede l'estradizione. E da allora il regista vive a Parigi, impossibilitato per la maggior parte del tempo a lasciare il Paese, senza correre il rischio di un arresto. Con un passato come questo - e un crimine che è stato ammesso dallo stesso Polanski, che accettò l'ammissione di colpevolezza - sarebbe stato lecito aspettarsi che il regista di origine polacco venisse messo al bando dal mondo del cinema. Polanski, invece, ha continuato ad avere una carriera piuttosto ricca, culminata proprio con la presentazione del suo film al Festival di Venezia, in piena epoca Me Too.
Un'ammissione al concorso che non è piaciuta all'allora presidente di giuria, la regista Lucrecia Martel che, secondo Cineblog, avrebbe commentato: "Io non separo l’uomo dall’opera. Quando ho saputo della presenza di Polanski, ho voluto indagare e consultare scrittori per farmi un’idea e ho visto che la vittima ha considerato il caso chiuso non negando i fatti, ma dicendo che in qualche modo il regista aveva pagato a sufficienza per il suo crimine. Se lei ritiene che in qualche modo la cosa sia chiusa, io non posso occuparmi della questione giudiziale ma posso semplicemente solidarizzare con la vittima. Non mi sarà facile affrontare il film e non voglio partecipare al gala perché rappresento donne nel mio Paese che sono vittime di questo tipo di abusi, per cui non mi sento di alzarmi e applaudire".
A fare scalpore era stata soprattutto la decisione della presidente di giuria di non presentarsi al galà di un film in competizione ancor prima di aver visionato la pellicola in esame. Più tardi la regista venne chiamata a fare qualche passo indietro, anche per la minaccia del produttore Luca Barbareschi di ritirare il film dalla competizione. A questo punto Lucrecia Martel ha affermato: "Non mi congratulerò con lui, ma credo che Polanski meriti una chance perché il suo film è una riflessione su un uomo che commette un errore. È un dialogo importante oggi, perciò credo che sia opportuno che se ne parli e il suo film sia presente al festival."
Questa dichiarazione di Lucrecia Martel ha aperto poi un'altra discussione che, stavolta, riguardava il film stesso. Nel prendere visione de L'ufficiale e la spia si ha come la sensazione che, per parafrasare l'Huffington Post, l'affaire Dreyfus sia, in realtà, l'affaire Polanski. Come il capitano spedito all'Isola del Diavolo, anche Roman Polanski è un uomo ebreo, che ha provato sulla propria pelle l'antisemitismo, e che è stato costretto dal suo governo a vivere come un esule. Tra i tanti livelli che il film offre, ce n'è uno in cui sembrerebbe che Polanski voglia, in qualche modo, vestire i panni della vittima, dell'uomo cacciato dal proprio Paese e costretto a vivere come un reietto, ad affrontare gogne mediatiche a ogni nuova opera presentata.
In un certo senso è emblematico il titolo originale dell'opera: J'accuse, come l'articolo scritto da Emile Zola per Dreyfus. Un'accusa portata dunque in primo piano, davanti al pubblico sempre più vasto dell'era dei social e delle condivisioni a ogni costo. Ma, a differenza di altri registi ritenuti problematici come Woody Allen, Roman Polanski non può in nessun modo nascondersi dietro la maschera della vittima perché, davanti alla legge, si è già dichiarato colpevole e, dunque, carnefice. Ecco perché Dreyfus e Polanski non sono due volti della stessa medaglia, non rappresentano l'uno la maschera dell'altro e paragonarli non solo sarebbe scorretto, ma permetterebbe a Polanski di giustificarsi per il crimine commesso e passare come un innocente perseguitato dalla giustizia. E in un'epoca tanto fitta di fake news come quella attuale bisognerebbe sempre stare attenti a manovrare la realtà e la percezione di essa.
Da libero.it il 7 novembre 2022.
Sembra che l'ex moglie di Al Bano abbia un problema di salute. La Power avrebbe dovuto partecipare ad un evento a Lecce, ma non era presente. “Ho un problema di salute”, ha raccontato sui social dove - in un video pubblicato su Instagram - ha affermato: “Il mio corpo in questo periodo mi sta dando del filo da torcere e purtroppo non mi rende agile come vorrei… Devo ammettere che non riesco proprio a camminare…”. La cantante ha chiesto scusa a tutti per la sua mancata presenza.
“Ho problemi di deambulazione”, ha continuato. “I miei problemi di deambulazione mi impediscono di muovermi. Passerà anche questa”. Tra Al Bano e la Power l'amore è finito da vent'anni. I due, infatti, sono divorziati e Carrisi si è ricostruito una vita con Loredana Lecciso (dalla quale ha avuto due figli, Jasmine e Bido). I due non sono sposati. Lo stesso Al Bano, tempo fa, aveva ribadito l'inutilità di un matrimonio perché "sposato mentalmente con Loredana". E solo pochi giorni fa, secondo un'indiscrezione del settimanale Nuovo diretto da Riccardo Signoretti, ci sarebbero ulteriori attriti tra la Power e la Lecciso. La prima, di recente, ha diffidato la Venier (che ha invitato in studio Loredana) e la Lecciso sembra che voglia capire se ci sono gli estremi per procedere legalmente.
Insomma, la compagna di Al Bano si sentirebbe oppressa dal comportamento della Power, che sarebbe sempre pronta a far scrivere dai suoi avvocati nei confronti di chi ospita la Lecciso. Sarà realmente così? Eppure, proprio la Lecciso tempo fa aveva proposto alla Power un incontro. La proposta è arrivata in studio dalla d'Urso. Ma la Power sembra che non abbia ancora risposto.
Da today.it il 4 giugno 2022.
Un'ospitata toccante ma allo stesso tempo sopra le righe quella di Romina Power a Oggi è un altro giorno. La cantante ha ripercorso alcuni dei momenti più significativi della sua vita, a partire dalla sua famiglia d'origine. Figlia di Tyrone Power e Linda Christian, due grandi divi di Hollywood, l'ex moglie di Al Bano ha vissuto situazioni decisamente singolari. Come quando con sua madre furono ospiti del Re di Giordania.
Ricordando quella vacanza ha svelato un aneddoto: "Ci ha accompagnato a vedere Petra, ci ha portato in un altro suo palazzo sul Mar Morto. Era tutto bellissimo e perfetto. Tutte le sere c'era la proiezione di un film nel suo teatro privato. Una sera non so come è venuto in mente a mia madre di mettergli l'lsd nel tè, senza dirgli niente. Poi siamo andati sulla spiaggia a guardare le stelle, stavamo tutti così".
Una rivelazione che ha suscitato ilarità in studio - dove era presente anche sua figlia Romina, tra gli ospiti fissi del programma in questa stagione - ma anche un certo imbarazzo, soprattutto da parte di Serena Bortone, che le ha chiesto: "Anche a voi aveva messo l'lsd?". Romina ha risposto con nonchalance: "No, noi l'avevamo preso prima per conto nostro". A quel punto è stato necessario l'intervento della conduttrice, un po' in difficoltà: "Le droghe fanno male. Erano altri tempi, ma non prendete droghe. Per carità".
Barbara Costa per Dagospia il 10 aprile 2022.
Da badante a pornostar! E che c’è di male? Ci credete che questo schianto accudiva gli anziani? Persone âgées e super fortunate, e lo scrivo col più grande riguardo, e in ogni modo lo schianto in questione precisa che non si occupava di loro “con competenze da infermiera, ma li portavo a spasso, o al bingo, alleviando la loro solitudine”. Lo racconta con la dolcezza che le è propria Romy Indy, 23 anni, mamma olandese e papà del Suriname, ultimo fenomeno del porno europeo e Oscar quale Nuova Pornostar non americana.
Se Romy ha fatto la badante, ha lavorato in un call center, e come cameriera, posando saltuariamente come modella, sono questi impieghi che ha tenuto per pochi mesi, poco capaci di garantirle i soldi sufficienti per pagarsi gli studi di legge. Romy li ha mollati mettendosi alla prova col porno olandese. La sua provocante e genuina bellezza l’ha ripagata: le sue scene hanno mercato, Romy è stata chiamata da più studios, e presa e gestita da una agenzia che conta (anche perché, nel porno di fascia alta, senza un agente coi controfiocchi, ma dove vuoi andare!?).
Tutto bello, veloce, facile? Diciamo che nel porno può succedere di fare il botto: la difficoltà quella vera sta nel saperti mantenere a livelli così alti. Il nome di Romy Indy ha fatto il boom grazie a "Una notte a Barcellona", lavoro a firma Dorcel. Cinque scene in cui Romy è la protagonista, cinque scene ovvero nove giorni in cui Romy ha pornato “dalle 4 del pomeriggio alle 4 del mattino”.
Una pornoattrice in ascesa trottola il suo corpo – che di dovere deve custodire in perfetta forma e mai stanco e mai domo e mai meno che spendente – su e giù per le capitali del porno europeo (Budapest, Praga, Barcellona, Parigi…), va ai Caraibi a girare “e dormi pochissimo, e solo lavoro!”, e conosce una marea di persone diverse, tutti adulti con cui interagire con mente professionale. Una pornoattrice in ascesa fa una vita impensata ma piena di responsabilità e impegni – che deve affrontare da sola – che una coetanea non porno non ha ragione di sobbarcarsi.
Una porno attrice in ascesa deve dotarsi di forza interiore sovrumana se ce la vuole fare in un settore comunemente valutato equivoco. Deve imparare a stare da sola. Fin da subito. Perché può contare solo su di sé: “Io su un set porno, davanti a regista e telecamere, ho una sicurezza che fuori non ho”, afferma Romy, “ma in questo ambiente, fin dal primo giorno, devi essere caparbia, e dire sì e no a ciò che vuoi fare”. Romy viene da una famiglia non ricca, è cresciuta a Amsterdam, non ha mai visto il Suriname come non ha mai visto suo padre fino ai 15 anni.
È stata tirata su da una madre giovanissima, e dalla nonna. Romy le ha immediatamente informate della sua scelta di fare porno usando il suo vero nome di battesimo, conscia come sia vano oggi celare alcunché. Difatti, appena le sue scene sono apparse in rete, i suoi social sono stati invasi di commenti di estranei e no. Se Romy dice che sua madre è dalla sua parte, dice pure che chi non accetta che lei abbia lasciato le “oneste e morali occupazioni precedenti” per il porno, può pensarlo ma tenersi i suoi giudizi per sé.
La social idiozia non alligna mica solo qui da noi, tanto è vero che chi prima se lo guarda, il porno, ecco poi cosa ha la faccia di social rimproverare alle donne che lo fanno, il porno: se tutto il mondo è paese, in Olanda ci sono moralizzatori che biasimano Romy e le dicono di “trovarsi un lavoro serio, sei troppo bella e intelligente per darti al porno” e, in una tal fiumana di amenità, poteva mancare chi la insulta a “negra”, accanto a chi le rinfaccia che “non rispetti i valori della tua etnia”…??? Ma, in realtà, chi di Romy è già porno infatuato è proprio la sua indipendenza dal "modello bianco" che loda e spinge: se del suo corpo si sbrodola per le sue gambe e per il suo visetto pulito (e il suo sodo lato b), ai fan piacciono i suoi capelli naturalmente ricci (e meglio se impiastrati di sperma) e non stirati, e nulla che avvicini Romy ai passati – e scaduti – diktat della bellezza bianca.
Ron e il nuovo disco «Sono un figlio»: «La musica mi ha salvato nei momenti bui e nei fallimenti di Sanremo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.
Il cantautore pubblica un nuovo album. I ricordi di 50 anni di carriera: «Ho iniziato a 16 anni, sono figlio degli italiani».
La voce si fa più raccolta, quasi da confessione, è al limite di rottura. Ron sta parlando dei suoi genitori alla presentazione del suo nuovo album «Sono un figlio», in uscita oggi. «Ho voluto raccontare la loro storia nella canzone che dà il titolo all’album. Me l’avevano raccontata e a 13 anni l’avevo scritta nel mio diario. A fine guerra, mio padre era in fuga dei tedeschi e si rifugiò in una cantina dove, il mattino dopo, mia madre lo trovò. Da lì è successo tutto. Ora che ho un nipotino piccolo mi pento di non aver avuto figli miei», dice il cantautore. Torna all’infanzia: «Ero un bambino apparentemente dolcissimo ma facevo cose allucinanti ai compagni di giochi. Una volta ne spinsi uno nella cisterna, era vuota, del gasolio. I suoi genitori non la presero bene». Non era un bullo. «Piuttosto, sono stato bullizzato. In quarta o quinta elementare c’erano dei ragazzotti che mi seguivano per prendermi a pedate. Soffrivo dentro, ma non dissi nulla. A fine scuola vennero a chiedermi scusa, però io le avevo prese...».
Il suo essere figlio non è da leggere solo in senso biologico. «Ho iniziato la mia carriera a 16 anni, mi sento anche figlio degli italiani: mi piace camminare per strada e incontrare le persone». Tanti gli incontri nel disco: la tromba di Paolo Fresu regala poesia ad «Astronave del cielo» , un duetto con Leo Gassmann su «Questo vento». «Il covid ci ha fatto male ma ci ha costretti a pensare chi siamo. All’inizio se passavo vicino al piano e alla chitarra scappavo, poi ho ascoltato musica nuova e mi è tornata la voglia. La musica mi ha sempre salvato». Non solo la sua, ma anche quella di altri. «Quando tornavo a casa da un Sanremo disastroso, come quello del 2017 in cui venni eliminato, mettevo su un disco e tornavo dritto in piedi». Al Festival c’è stato otto volte, una vittoria nel 1996 («Vorrei incontrati fra cent’anni» con Tosca), ma il ritorno non è nei piani «Non mi hanno invitato... Sarebbe il festival della canzone, quindi dovrebbero scegliere in funzione dei brani, invece mi sembra che sia tutto sui personaggi, su chi canta».
In «Melodramma pop» torna a sfogliare l’album dei ricordi e si rivede quindicenne con la chitarra in mano. L’anno dopo, ancora con nome Rosalino, ci fu il primo Sanremo con Nada. «Se riguardo ai filmati in bianco e nero dell’epoca, vedo un ragazzo pieno di energia e tenerezza, dimostravo meno della mia età. Incontrai i miei miti dietro il palco, vidi piangere una cantante famosa perché eliminata e non capivo il perché della tristezza». Era il 1970, il covid gli ha portato via la festa dei 50 anni di carriera: «Non l’ho potuta fare ma non ne sentivo la necessità. Sono stati anni fantastici e mi basta questo. E poi certe celebrazioni, come gli auguri di compleanno quando sei sul palco, mi fanno tristezza. Meglio guardare al futuro con un disco».
Una carriera di successi, difficile sceglierne uno solo: «Una non mia che però racconta la mia storia, non di Rosalino intendo, ma di chi ama viaggiare con la musica. È “Una città per cantare” in cui adattai in italiano il testo di “The Road” di Danny O’Keefe».
"Ora nelle canzoni ci sono tante parole ma poca musica". L'artista pubblica il disco "Sono un figlio": "Continuo a cercare storie da raccontare". Ferruccio Gattuso il 30 Settembre 2022 su Il Giornale.
«Sono un figlio: di mio padre e mia madre. Ma anche del pubblico. E degli italiani, che mi sono cambiati sotto gli occhi negli anni. Ed è per questo che adoro camminare per la strada: mi fa sentire libero e mi fa incontrare le persone. Mi piace imbattermi in loro, e capire cosa gli si muove dentro». Rosalino Cellamare in arte Ron, ad agosto prossimo settant'anni di cui cinquantatré buoni in carriera, è un cantautore sempre, anche quando deve raccontare il titolo del suo nuovo album Sono un figlio (Sony Music), in uscita oggi: la poesia gli cammina appresso e aspetta di farsi prendere per mano da lui. Con i suoi tredici brani inediti (ma uno, Quel fuoco, è una cover di Finneas O'Connell), Sono un figlio racconta un Ron che rimane fedele alla materia prima con cui ha sempre lavorato: la canzone. «E di questi tempi dice - di canzoni non se ne vedono troppe in giro».
Non le piace la scena musicale attuale?
«In Italia è esploso un mondo rap dove alcuni autori sono bravi a raccontare, ma è tutto nei testi. Mancano i brani. Dico la verità: non sento nulla che mi emozioni».
Come si scrive una canzone?
«Posso dire come faccio io: parto dalla musica. Arrivo al testo solo dopo aver dato a quella musica i suoni giusti. Prima vesto la musica nel modo più completo, e solo dopo penso al testo».
Questo disco, però è pieno di racconti.
«Certo, io resto un cantautore, le storie sono per me importanti».
Una di queste ci porta dritti ai suoi genitori: ne parla per la prima volta.
«In Sono un figlio parlo di papà Savino e mamma Maria e del loro amore. La loro storia partì con incontro imprevisto in piena guerra. Papà, inseguito dai tedeschi, scavalca un cancello e, stremato dalla fatica, si addormenta in una cantina. Mamma scende in quella cantina la mattina dopo e vede mio padre. Lo nascosero per tre mesi in casa».
Che tipo di figlio è stato?
«Con una doppia anima: apparentemente dolce, però facevo anche cose allucinanti, tipo buttare un compagno di giochi in una cisterna. Un po' teppista, dunque. Però sono anche stato bullizzato».
Quando nasce l'idea di questo album?
«In piena pandemia. Questo Covid ci ha fatto tanto male ma ci ha costretti a pensare: a cosa abbiamo fatto e a cosa vogliamo fare di noi. In quei giorni, a casa, sulle prime passavo vicino a pianoforte e chitarra e scappavo. Poi, lentamente, mi si è riacceso tutto. E mi sono messo a scrivere».
Anche dei gatti di casa.
Il brano I gatti, scritto con un giovane e compositore pieno di talento, Giulio Wilson, chiude l'album. Ho realizzato un video che è una dedica d'amore: i gatti sono creature speciali, extraterrestri».
In Questo vento duetta con Leo Gassmann: com'è nata la collaborazione?
«La mia carriera è costellata di collaborazioni. Non ho mai pensato, poi, che in un disco le canzoni debbano per forza essere tutte mie. Il brano cui sono più legato è Una città per cantare, una cover di Danny O' Keefe. Questo approccio ce l'ho anche all'interno delle mie canzoni: la strofa cantata da Leo in Questo vento è tutta sua. Leo mi colpì a Sanremo, mi dissi: caspita che bravo. Un giorno venne nel mio studio a Garlasco e mi fece sentire cose sue, ottime. Gli chiesi: ma da che pianeta vieni? Da un'ottima famiglia di certo, dove si respira cultura».
Ecco, Sanremo: otto festival per Ron. Ci tornerebbe?
«Da Sanremo sono tornato vincitore ma anche depresso. Oggi non ci penso. Dovrebbe essere il festival della canzone italiana, ma ci vedo solo personaggi. Le canzoni non ci sono».
Ron: «Prendevo fischi dal pubblico che voleva Dalla e De Gregori. I consigli di Manfredi sul set». Paolo Baldini su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.
Ron, mi dica di lei una cosa che nessuno conosce. «Che sono smemorato. La memoria è sempre stata il mio lato debole».
Racconti. «Da bambino prendevo le medicine per migliorare la concentrazione. E non riuscivo a mettermi in testa le poesie. Un incubo. Ore con mia madre a studiare. La mattina a scuola, tutto cancellato, tabula rasa. La maestra mi guardava negli occhi: “Rosalino ripeti Davanti San Guido!”. Quattro righe e calava il vuoto. Un altro incubo sono i testi delle canzoni durante i concerti. Sì, anche quelli di cui sono autore».
Come risolve? «Devo avere tutto scritto davanti a me. Una specie di “gobbo” a cui aggrapparmi in caso di necessità. Il racconto a braccio, a ruota libera mi viene facile, mi è congeniale. Ricordare, invece, è una fatica. Dovuta a una forma d’ansia: la paura di sbagliare. Infatti, sbaglio. Sono talmente distratto che non riesco a evitare gli errori anche se sto leggendo. Reinvento le parole, a volte. E talvolta miglioro il risultato finale. Sono fatto così, non so che fare...».
Lei che ragazzino era? «Non sono mai stato un ragazzino nel senso comune del termine. La mia carriera è iniziata troppo presto. Nel 1970 ero al Festival di Sanremo a cantare Pa’ diglielo a ma’. Non ho vissuto l’adolescenza e ho sempre lavorato con persone più grandi di me: Sergio Bardotti, Lucio Dalla, Gianfranco Baldazzi. All’inizio, ero in soggezione. Mi dicevo: abbi pazienza, Rosalino, un giorno sarai anche tu come loro».
Lei è un timido? «Sono un maturo signore di 68 anni che si conosce poco, coltiva dubbi e incertezze. E non sopporta di essere definito triste».
Torniamo al ragazzino di un tempo. «Timido sì, ma terribile. Sui 12-13 anni, facevo certi scherzi agli amici... Un po’ Pinocchio e un po’ Lucignolo. Stavo per ore sotto il letto. Immobile. Guardavo la rete, il materasso. Ero sereno. Pensavo. A scuola andavo malissimo. Un asino pazzesco. I miei genitori erano preoccupati per quel figlio un po’ stranetto. Così mi misero in collegio, a Saronno. Studiavo da geometra».
Che Italia ricorda? «Vengo dalla provincia: Garlasco, Pavia, dove vivo ancora oggi. Lì ho fatto elementari e medie. Sono nato in un cortile con tante case, famiglie, terrazzi, fiori. Tutti erano un po’ mio padre, un po’ mia madre, un po’ i miei fratelli. Non ci si sentiva mai soli. Un mondo semplice: si mangiavano le cose della terra, dell’orto. Papà era un commerciante di olio d’oliva. I Cellamare sono originari di Trani, in Puglia. Mio nonno venne al Nord, a Milano, a 18 anni. Mia nonna era una mondina, andava alla fabbrica del tabacco, lavorava sempre, aveva tre figli. Era contenta di quello che faceva, si accontentava. L’andavo a trovare quasi tutti i pomeriggi. Mi preparava il tè con le ciambelle di Pavia, i brassadè, una ricetta di oltre cent’anni fa. Ricordo i suoi racconti sulla guerra, anzi sulle due guerre. Se non ci fosse stata lei, non avrei scritto Attenti al lupo».
Si spieghi. «Andandola a trovare mi accorsi che la casa aveva una finestra più piccola. Mi sedetti al pianoforte e scrissi: C’è una casetta piccola così / Con tante finestrelle colorate / E una donnina piccola così / Con due occhi grandi per guardare. In origine la canzone si chiamava proprio La casetta. Mi piaceva ma la sentivo troppo personale. Decisi che non sarei stato io a cantarla. Pensavo a Dalla. O a Celentano: mi sembrava avesse la tenerezza giusta. Lucio venne da me mentre preparavo il mio album. Mi chiese: “La fai, Rosalino?”. “No”, risposi. “Allora la faccio io: con questa, vendiamo un milione di dischi”. Aggiunsi: “Sei matto, il solito sognatore!”. Aveva ragione lui. Di dischi ne abbiamo venduti ben di più».
La leggenda parla di un’insegnante che la mette sulla strada della musica, la professoressa Adele Bartoli, genovese, severissima. «Insegnava pianoforte e canto. Una donna d’altri tempi. Mio fratello prendeva lezioni. Io andavo con lui. Lei mi notò: fammi sentire qualcosa. Le devo una libertà espressiva impagabile: levava i difetti più vistosi, non gli elementi speciali, quelli che ti rendono unico. Mi dette l’occasione di fare i concorsi per voci nuove. Cantavo brani come 24 mila baci. Il più importante fu la Fiera della Canzone Italiana di Milano».
Fu così che arrivò, in un lampo, all’Rca. «Venne da me un certo dirigente. Volle conoscere i genitori. Mi fece un po’ di domande. Un anno dopo, la convocazione a Roma: c’era un cantautore che doveva farmi ascoltare un brano “molto adatto a me”. Presi il treno con papà. Arrivati, ci fecero attendere per ore. Nella sala d’aspetto, a un certo punto, entrò un tipo eccentrico, con una tutina stretta di leopardo. Si presentò a mio padre: ciao, Nì. Era Renato Zero. Non lo conoscevo: allora ascoltavo solo musica americana, Crosby Still & Nash, Cat Stevens, James Taylor. Papà mi guardò storto: voleva scappare. “Questa è una gabbia di matti”, mi disse».
Invece? «Di lì a poco, arrivò il cantautore. Era ingessato, aveva appena avuto un incidente con la moto sul Raccordo Anulare. Era Lucio Dalla. La canzone che aveva da propormi era Occhi di ragazza, davvero bellissima, che fu più tardi portata al successo da Gianni Morandi. Avrei dovuto cantarla a Sanremo in coppia con Sandie Shaw, la cantante scalza, ma le giurie la ritennero non idonea. Così ripiegai su Pa’ diglielo a ma’».
Possiamo dire che il destino si compì in quell’istante e nacque allora l’universo musicale delle grandi anime, di Joe Temerario, dei cuori viaggianti? «Eh eh eh. Un giorno molto tempo dopo venne da me Morandi, diventato un amico. Mi prese da parte e chiese: ma quella canzone di Lucio che dovevi cantare era Occhi di ragazza? Sai, lui m’aveva detto che l’aveva scritta per me».
Dalla era famoso per trasfigurare la realtà. «Diciamo pure che era un gran bugiardo. Nel senso buono, eh. Un ottimista che amava confezionare i suoi racconti, immergerli in una sorta di realtà aumentata. Inseguiva la bellezza, la narrazione fantastica. Gli piaceva rendere la vita più interessante di quello che era. Come Fellini. Ogni volta, uno show, un esercizio di creatività. Diceva di aver fatto un viaggio in treno con Totò in cui avevano riso senza fermarsi un istante, di aver incontrato gli ufo e di averne visto uno che avanzava verso di lui e poi, improvvisamente, aveva cambiato rotta».
Il momento peggiore della sua carriera? «I due anni di Covid sono stati un tormento. Passavo davanti al pianoforte e alla chitarra e scappavo via. Testi zero. Musiche pessime. Buttavo tutto. Ero giù di morale. Mi teneva vivo l’idea di tornare prima o poi a fare i concerti».
Parliamo degli Anni Settanta. «Ero appena salito in paradiso e arrivò il precipizio. Con Il gigante e la bambina avevo assaggiato il successo. Quello vero, improvviso, che fa girare la testa. Ed ecco gli Anni di piombo, l’epoca dell’impegno e dei cantautori. La cosiddetta musica leggera era considerata meno di un rottame. Vennero anni di buio totale. Mi misi a suonare per gli altri, non mi sentivo sminuito. Non ho mai pensato: io sono Ron e non posso accompagnare De Gregori o Venditti. Ma dentro di me mi chiedevo chi avesse spento la luce. Tornare indietro mi sembrava un fallimento».
Come ne uscì? «Grazie al tour Banana Republic con Dalla & De Gregori. Un evento che segnò l’inizio degli Anni Ottanta. Ogni sera, sold out. Prendevo tanti fischi. Tutti aspettavano Lucio e Francesco. Io proponevo I ragazzi italiani. Il pubblico non ne voleva sapere, la maggior parte mi aveva dimenticato. Ma io ero felice. Lì nacque il progetto Una città per cantare e io ripresi a pieno ritmo».
Ha molti amici nel mondo della canzone? «Tosca, ad esempio. Insieme abbiamo vinto a Sanremo nel 1996 con Vorrei incontrarti tra cent’anni. Ma qui vorrei ricordare un musicista che non c’è più, Ivan Graziani. Con lui e Goran Kuzminac feci un tour di successo e un Q-Disc subito dopo Una città per cantare. Fummo interrotti dal terremoto dell’Irpinia del 1982. Ivan era bravissimo, generoso. In compagnia, uno spasso. Parlava e faceva battute imitando la voce di Oreste Lionello, il doppiatore di Woody Allen. Musicalmente, eravamo due opposti. Eppure, tra noi si creò una chimica speciale: funzionò».
L’incontro più importante? «Con Jackson Browne, Lou Reed e Paul Anka negli Stati Uniti. Ero lì per ricaricare le pile. La Rai lo seppe e mi chiese delle interviste vip. Scelsi Lou Reed. Presi un appuntamento, aspettai una settimana. Quando entrai nella sede della Rca con la troupe la segretaria mi avvertì che Lou la sera prima aveva spaccato una bottiglia in testa a un tizio con cui aveva avuto da dire e che, quindi, si stava riprendendo. Ci spaventammo. Quando arrivò, I’m sorry, si mise a nostra disposizione. Mi raccontò della musica americana tutto quello che da piccolo avevo sognato».
Negli Anni Settanta ebbe anche una promettente parentesi con il cinema. Due titoli: «L’Agnese va a morire» di Giuliano Montaldo e «In nome del Papa Re» di Luigi Magni. «Il cinema mi ha aiutato in un periodo nero. Ma non ho mai pensato che potesse sostituire la musica. Ricordo i buoni consigli di Nino Manfredi sul set di In nome del Papa Re. Di fronte alle mie ingenuità d’attore mi suggeriva di recitare con gli occhi. Il debutto avvenne però con il licenzioso Lezioni private in cui interpretavo un ragazzino innamorato dell’insegnante di musica Carrol Baker, bellissima e molto materna».
Ron, lei ha appena celebrato cinquant’anni di carriera con l’antologia «Non abbiam bisogno di parole» (due doppi cd, 67 brani). In estate ha in programma un ampio tour con un’orchestra sinfonica e in settembre proporrà un album di inediti comprendente il singolo, uscito da poco, «Più di quanto ti ho amato». Che cosa chiede ancora alla musica? «Di non annoiarmi mai».
Ronn Moss: «Se votassi in Italia sceglierei Berlusconi». Giovanna Cavalli su Corriere della Sera il 7 maggio 2022.
Che ci fa Ronn Moss, eterno Ridge Forrester di 25 stagioni di , alla convention di Forza Italia del 20 e 21 maggio a Napoli? «Sarò lì per promuovere lo sviluppo e le bellezze della Puglia, dove ormai da tre anni ci siamo trasferiti io e mia moglie Devin», spiega l’attore californiano, freschi 70 anni, fascino brizzolato ma intatto, che ha casa a Fasano (Brindisi) e con il socio e produttore Tiziano Cavaliere ha investito fior di dollari nella masseria Paretano, resort di lusso a Monopoli. Ed è pure proprietario di vigneti: «Produco un Primitivo di Manduria». L’ha voluto e invitato Silvio Berlusconi, tramite i buoni uffici di tre fedeli azzurri, Mauro Dattis, coordinatore regionale, l’eurodeputato Fulvio Martusciello e la segretaria provinciale Laura De Mola.
Vi conoscevate gia lei e il leader di Forza Italia? «Non ancora. Lo conoscerò per la prima volta a questo evento».
Berlusconi pare sia entusiasta di ospitarla. «Anche io non vedo l’ora di incontrarlo di persona. E’ stato ed è l’italiano più influente degli ultimi trent’anni».
Voterebbe per lui, se potesse? «Se votassi in Italia, sceglierei certamente lui».
A chi ha dato la preferenza alle ultime elezioni americane? «Non ho potuto farlo, ero in Europa».
Ha mai pensato di scendere in politica? «Sì, ci ho pensato».
E se Berlusconi le offrisse una candidatura o un ruolo nel partito? «Non credo che il presidente abbia bisogno del mio aiuto, ma in ogni caso lo considererei un grande onore, farei tutto il possibile».
Lei è abituato al set, non a una tribuna politica. Ansia da platea? «Sono due cose molto diverse. Recitare è il mio lavoro, lo so fare molto bene. Parlare ad una convention politica è un’esperienza nuova, vedremo come andrà.»
L’Italia è la sua seconda casa. «Ho sempre amato il vostro Paese, da quando girai il mio primo film in Sicilia e a Roma, nel 1981. Adoro il cibo, naturalmente, l’arte e la Storia, ma soprattutto la gente, piena di vita, generosa, simpatica, legata alla famiglia. Io vi vedo così.»
Si è innamorato della Puglia. «Tutto è cominciato nel 2012, quando le riprese di “Beautiful” si erano trasferite proprio lì, è stato allora che questa bellissima terra mi ha preso il cuore. Stregati dall’atmosfera io e Devin abbiamo deciso di rinnovare le nostre promesse nuziali, con pochi invitati, soltanto alcuni cari amici italiani e americani. Una giornata indimenticabile. Da tre anni passiamo in Puglia la gran parte del tempo. L’atmosfera mi ricorda quella della California, dove sono cresciuto».
È anche produttore vinicolo. «E nel tempo libero che mi resta continuo a suonare con la mia band italiana, “The Men in Black”.»
A fine mese esce «Viaggio a sorpresa», film girato in terra pugliese con Lino Banfi, prodotto da Minerva Pictures. Siete diventati grandi amici. «Il mio primo progetto cinematografico dopo “Beautiful”. E’ stato un enorme piacere lavorare con Lino, un grandissimo professionista, una vera leggenda, spero che avremo altre occasioni. Sono molto orgoglioso di questo film, è come una cartolina illustrata per invogliare tutti a visitare la bellissima Puglia».
Ronn Moss: «I miei 70 anni in Puglia». Ridge di Beautiful oggi vive in una masseria a Fasano, imbottiglia vino e ha girato un film con Lino Banfi, con cui è diventato molto amico: «Per me l'Italia è una grande fonte di ispirazione creativa». FRANCESCA MARTINENGO su vanityfair.it il 7 marzo 2022.
Ronn Moss, il Ridge di Beautiful ha tagliato il traguardo dei settant’anni, festeggiandoli nella sua nuova masseria in Puglia, precisamente a Fasano, tra oliveti, cavalli, vigne e buon vino che produce lui stesso: come fanno altre star che hanno scelto l’Italia, da Sting a Mick Jagger. Racconta l’attore: «Mia moglie Devin ed io abbiamo preso casa qui in Puglia, con l’intenzione di passare qui almeno sei mesi l’anno». E ancora: «La Masseria Paretano per me è un nuovo inizio, fa parte del sogno di una casa che sia anche azienda agricola. Amo sentire la terra che fa crescere la vita intorno a me: olivi, viti, ortaggi, tutto ciò che questa terra genera. Il mio Ronn Moss Wine è coltivato a Manduria e qui a Fasano».
Ne è passato di tempo dai primi episodi di The Bold and The Beautiful (precisamente la puntata pilota andò in onda sull’americana CBS nel 1987). La soap fu un successo in tutto il mondo in tutto il mondo e rese celebre Moss, segnando un indubbio spartiacque nella sua carriera. Il suo personaggio/alter ego Ridge Forrester lo rese molto conosciuto anche qui in Italia e fu proprio durante le puntate girate in Puglia – con l’ennesimo matrimonio fra Brooke e Ridge - che l’attore si innamorò di questa zona d’Italia. Ma Ronn ha avuto (e ha) molte vite artistiche: intanto, nell’immediato futuro c’è un film in uscita con Lino Banfi, con cui è diventato molto amico. Ci confida: «Il film si chiama Surprise Trip, e parla di un americano che vive a New York e vuole cambiare vita. Così compra una casa in Puglia, e la sorpresa è che trova più di quanto si aspettasse. È stata una bella esperienza, mi è piaciuto molto lavorare con Lino. Siamo una strana coppia, in un certo senso. Ho un grande rispetto e ammirazione per la sua lunga carriera nel cinema, lui è un vero talento e professionista. È una persona molto vera, fedele a se stesso, di cuore. Per quanto strano sia, questo film ha finito per essere una specie di specchio della mia vita. La realtà che imita l'arte, o viceversa». Il film verrà distribuito da Minerva Pictures nei prossimi mesi.
Ma il vero fil rouge che attraversa da sempre la vita di Ronn Moss è la musica: nel 1977 con il gruppo The Player scala fino al numero uno la Top 100 Bilboard, il singolo è Baby Come Back. Una passione evergreen: per i prossimi mesi, anticipa: «Sto preparando un tour estivo con il mio produttore Tiziano Cavaliere e la mia band italiana The Men in Black. Ho iniziato a conoscere meglio gli artisti del vostro panorama musicale, e sto imparando lentamente alcune canzoni in italiano, il che non è facile!». Poi continua: «Ci sono alcune canzoni italiane che mi perseguitano melodicamente: le trovo assolutamente meravigliose». Aggiornatissimo su Sanremo, ha conosciuto anche il suo vicino di casa Al Bano: «Ci siamo incontrati un paio di volte e so quanto sia popolare in tutto il mondo. Ha fatto tantissimo per la canzone italiana».Moss ha trovato in Italia un ambiente particolarmente stimolante: «Sì, voglio continuare questo percorso creativo di film e musica: per me ora sono strettamente legati, anzi: sono sposati. E conclude: «Per me l'Italia è diventata una grande fonte di ispirazione creativa». Che dire? Oltre Beautiful, e oltre i settanta, c’è di più. Molto.
Ronn Moss con la moglie Devin
Ronn Moss e Devin Devin Renee Devasquez si sono sposati nel 2009. Devin è una scrittrice, giornalista e blogger. Dice Ron :«Ho perso il conto dei miei matrimoni in Beautiful (tredici, ndr). Per me, l'amore, la verità e l'onestà sono tutto. Non solo sono felicemente sposato con la mia fantastica moglie, Devin, ma ora ho anche una masseria progettata per far sì chel e altre coppie che si sposano vivano qui il loro giorno migliore».
Ron Moss e la musica
Non tutti lo sanno, ma negli anni '70 Moss è stato una vera e propria rockstar: on il suo gruppo, The Player, ha scalato le classifiche americane. Per i prossimi mesi estivi, Moss sta preparando un tour con la sua band italiana, The Men in Black.
Nella sua masseria a Fasano.
La Masseria Paretano è la nuova casa italiana di Ronn Moss, ma è anche azienda agricola e agriturismo per matrimoni. Dice l'attore: «sono stato molte volte in italia, a Roma, Milano, in Toscana, ben prima prima di Beautiful. Ma la mia prima volta in Puglia è stata quando la troupe di Beautiful ha girato qui, e mi sono innamorato di questa bellissima terra».
Produttore di vino
Ron Moss produce anche vino, con l'etichetta Ron Moss Wine: i territori vitati sono a Manduria e, appunto, a Fasano.
Con Lino Banfi
Ron Moss ha incontrato Lino Banfi sul set del film Surprise Trip: sono diventati molto amici. di Banfi Ronn dice: «Lino è un uomo di cuore, fedele a se stesso».
Moss sul set di Surprise Trip. Il film verrà distribuito da Minerva Pictures nei prossimi mesi.
Ron Moss ha 70 anni: «Non guardo più la tv e passo la maggior parte del mio tempo nella mia masseria in Puglia». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Il divo di Beautiful: «Non sento più i miei colleghi della soap. E un po’ mi dispiace».
Esiste un universo in cui tutto è possibile, in cui ogni relazione — suocera con genero, cognate con cognati, nipoti con zii — è lecita e dove perfino le resurrezioni sono contemplate. Anche il tempo, in Beautiful, è un concetto sospeso, con neonati che diventano adulti nel giro di qualche episodio e adulti che restano tali, senza mai invecchiare, anche per decenni. Per questo fa una discreta impressione sapere che oggi uno dei pionieri di quell’universo, Ronn Moss, l’iconico Ridge Forrester (ha interpretato quel ruolo per 25 anni, fino al 2012: senza di lui quella soap non sarebbe stata la stessa) compie 70 anni.
Che effetto le fa questa cifra tonda?
«Devo ammettere che, per quanto posso, cerco di vivere ogni giorno come se fosse il mio compleanno: sono sempre molto grato per tutto quello che mi succede e apprezzo ogni momento».
Lei sembra aver vissuto due vite: quella legata al suo personaggio più famoso e quella in cui ha iniziato a fare ciò che ama davvero. È così?
«In realtà vivevo due vite anche quando ero Ridge. Ogni giorno per me c’era la vita di Ridge e poi quella di Ronn. Ora posso passare più tempo a vivere la mia vita come voglio. Una vita bellissima, con amore, musica, film, amici, vino e la stupenda Puglia, che è ormai la mia seconda casa».
Ha appena comprato una masseria lì, dove organizzerà anche diversi eventi, compresi matrimoni... per futuri sposi poco scaramantici visti i suoi trascorsi sul set?
«Beh, diciamo che conosco l’argomento molto bene (Ridge nella soap è arrivato a quota 13 matrimoni, ndr.). Posso essere considerato a tutti gli effetti un super esperto, meglio di così...».
Perché il personaggio di Ridge è entrato così tanto nel cuore delle persone?
«Ho sempre lasciato che le persone che amavano “il mio” Ridge rispondessero a questa domanda da sole. Non spetta a me definire le esperienze degli altri. Personalmente, sono solo grato per aver potuto condividere tutto questo insieme a tanta gente e per così tanto tempo. Forse possiamo continuare questo rapporto attraverso diversi canali creativi ora. Sono fiducioso».
È rimasto in contatto con il resto del cast di «Beautiful»?
«No. Sfortunatamente non ho più visto né più parlato con nessuno. Credo dipenda dal fatto che abbiamo tutti vite diverse ora. Mi mancano molte delle persone di Beautiful perché all’epoca eravamo davvero una grande famiglia. Ma la vita accade quando siamo impegnati a fare altri progetti. Non ho nemmeno più visto la soap: non guardo affatto la tv, in effetti».
Se potesse tornare indietro cambierebbe qualcosa della sua carriera?
«Dipende, se potessi tornare indietro con la consapevolezza di oggi sì, assolutamente. Cercherei di prendere alcune decisioni diverse, cambiando quelle che non mi hanno portato sulla strada che avrei preferito. Ho imparato la lezione».
È molto amato anche per il suo aspetto. Quando si è delle icone è più complesso invecchiare?
«Non sono mai stato un tipo che passa la vita davanti allo specchio, a dire il vero. Nemmeno in passato. Prendo tutto così com’è, del resto diventiamo tutti un po’ più vecchi ogni giorno. Si spera però che sia anche un po’ più saggio. Il tempo lo dirà».
A breve tornerà a esibirsi in pubblico con la sua tournée. Cosa prova quando canta?
«È ogni volta un’esperienza unica. Ti permette di “vivere il momento” e per me questo è tutto. Quando riesco a condividere la vibrazione della musica con tante persone, esibendomi dal vivo, provo una sensazione straordinaria. Vedo il sorriso che porta sui volti di chi mi ascolta e non c’è niente di più bello».
E il cinema?
«A breve uscirà il mio nuovo film, Viaggio a sorpresa, che vede nel cast anche Lino Banfi. E poi sto ponendo le basi del prossimo: un western girato tra l’Italia, la Bulgaria e gli Stati Uniti».
Come festeggerà oggi?
«Festeggerò in Italia, con una bella festa nella mia masseria, dove ho invitato diversi amici per trascorrere la giornata assieme. Faremo anche una proiezione in anteprima del film».
Il regalo che vorrebbe?
«Sembra banale ma mai come oggi la pace nel mondo»
Rosanna Lambertucci: «Così ho reso la dieta un reality in tv. Mi manca Monica Vitti». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2022.
La conduttrice: «Ho avuto quattro aborti, Angelica è un dono. Andreotti? Mio confidente. “Più sani e più belli” è stata la prima forma di reality in tv»
Rosanna Lambertucci, 76 anni
Rosanna Lambertucci, ma che bella casa.
«Era di Alida Valli, ma venga, si affacci: guardi che bel giardino nel cuore dei Parioli».
Ricco, ma raccolto.
«Quando la casa venne comprata da Guido Alberti, proprietario del liquore Strega, con Maria Bellonci qui organizzarono le prime edizioni del premio».
Una casa piena di fotografie.
«Ho molti ricordi. Perché ho conosciuto migliaia e migliaia di persone».
Nel salotto di «Più sani e più belli», durato sedici anni in Rai, dal 1981 si sono alternati scienziati e personaggi di cinema e tv.
«Rita Levi Montalcini venne da me e per la prima volta si parlò seriamente di Alzheimer in tv. Lei disse che sarebbe stata la malattia del futuro e ora guardiamoci intorno: aveva ragione».
Venne anche Gigi Marzullo.
«Ipocondriaco. Molti di questi personaggi svelavano le loro fragilità nel programma più seguito degli anni Ottanta e Novanta, assieme alla Domenica Sportiva. Gigi raccontò con semplicità le sue paure, anche Simona Ventura lo fece».
Poi magari arrivava il luminare internazionale, in una specie di altalena scientifica?
«Be’, Christian Barnard nel mio salotto venne a raccontare il primo trapianto di cuore al mondo. Fu da me che gli italiani capirono davvero che cosa aveva fatto quell’uomo, perché lo spiegava con parole semplici, accessibili».
Umberto Veronesi era presenza ricorrente.
«Di più. Lei lo sa che io e il professor Veronesi abbiamo fatto la prima autopalpazione al seno in diretta televisiva? Non le nascondo che ero preoccupata: avremmo mostrato seni nudi nella fascia protetta, poteva scoppiare un putiferio, non le dico quanto quello spazio tv facesse gola. Ebbene, non accadde nulla. Tutto fu così professionale, rispettoso dei parametri scientifici e soprattutto rigoroso, che tutti ne parlarono come un grande esempio di invito alla prevenzione. Oggi se ne discute molto, ma non era così in quegli anni. Per Veronesi era un punto fermo».
Una delle tante foto in questa casa la ritrae con Giulio Andreotti. Perché?
«Mi vanto di averlo avuto nella mia trasmissione non per parlare di politica, ma per confessare il suo vero demone: la cefalea. Ne soffriva da decenni, era in cura dal professor Sicuteri a Firenze, non sapeva come uscirne. Quando arrivavano gli attacchi di mal di testa doveva isolarsi e per un politico come lui non era una cosa da poco. Mi confidava le sue paure, ci si frequentava».
Lei parla spesso di Monica Vitti come di una persona cara. Eravate legate?
«Ci si trovava a cena e sapesse come cantava bene. Posso dire una cosa a proposito di suo marito, Roberto Russo?».
Certo.
«Quando si misero insieme ricordo che ci fu una valanga di pettegolezzi: “ah, ma è più giovane di lei”, e così via. Bene, questo signore le è stato accanto per anni e anni e, credetemi, non è facile assistere un malato di Alzheimer in casa».
Queste foto ci parlano di lei come di una donna bellissima e ancora oggi in forma. Dica la verità: in quanti l’hanno corteggiata?
«Eh. Tanti».
Ma uno che ha davvero fatto pazzie per lei?
«A Parigi avevo conosciuto Alain Delon».
Ah.
«Ma ero sposata ancora con Alberto Amodei e nostra figlia Angelica era piccola».
Va bene, ma lui era sempre Alain Delon.
«Fu molto galante e mi promise che se fosse venuto a Roma ci saremmo incontrati. Feci una festa per il mio compleanno in un famoso hotel di Roma e lo invitai. Non solo venne alla festa ma prese anche una suite in quell’albergo. Mi fece gli auguri e mi invitò da lui per un aperitivo».
E lei?
«Ci andai, ma portai con me mia figlia».
No!
«Sì, ero una donna fedele. Mi ricordo che ci accolse avvolto in un accappatoio bianco, con dei piedi nudi bellissimi. Grande uomo».
Angelica, la sua unica figlia. Lei l’ha sempre definita come un «regalo della vita».
«Lo è stata. Perché vede, io ho avuto quattro aborti spontanei e due bambine nate e sopravvissute appena due giorni. La maternità per me è stata un cammino molto travagliato».
Rosanna, che cosa spinge una donna a riprovare a restare incinta quando ha già vissuto quattro aborti consecutivi?
«È difficile rispondere. Io non ho nulla contro l’interruzione di gravidanza, premetto. Però non avevo paura. Era come se avessi avuto una voce dentro di me che mi suggeriva di provare ancora. Pensi che io sono viva grazie a mio padre. O, meglio, grazie alla morte di mio padre. Tragico ma vero».
Racconti.
«Papà morì in un incidente stradale. Quando arrivò all’ospedale di Latina non si accorsero che aveva una emorragia interna. Ora, in una delle mie tante gravidanze finite male, fu questo pensiero a salvarmi, perché eravamo in vacanza non lontani da Latina e io mi svegliai di notte in un lago di sangue. Distacco della placenta. Mio marito voleva andare a Roma, ma io dissi: no, fermiamoci all’ospedale di Latina. Il ginecologo capì subito che mi stavo dissanguando e mi operarono d’urgenza. Non sarei arrivata a Roma».
Suo marito. Per lunghi anni un dirigente Rai. Vi siete conosciuti in televisione?
«Ci siamo visti in Rai ma poi ci siamo innamorati su un aereo per New York, viaggio aziendale. Al ritorno avevamo già deciso di sposarci. Ci siamo separati molti anni dopo, ma il legame è rimasto sempre vivo. Tanto è vero che quando Alberto è stato colpito da un’emorragia cerebrale che lo ha immobilizzato in buona parte del corpo, io ho lasciato tutto e mi sono dedicata a lui. Due anni terribili e bellissimi: insieme imparavamo di nuovo a mangiare e a camminare. Non è detto che le cose più importanti della vita siano sempre quelle felici. A volte anche il dolore diventa un ricordo prezioso».
E quella donna giovane e molto bella, sorridente in una foto un po’ ingiallita, chi è?
«È mia madre, andata in sposa a quindici anni e rimasta vedova a trentotto. Si risposò con Achille Gallucci, capo della Procura di Roma. Nacque grazie a lui la mia decisione di studiare legge e pochi sanno che io sono laureata in Giurisprudenza e che mai avrei pensato di condurre una trasmissione sul benessere».
La sua famiglia possedeva un grissinificio.
«Non solo. In tempi in cui non si parlava dei grassi saturi, loro avevano inventato un grissino che si chiamava Scrocchiarello e che, appunto, era privo di grassi. Non lo sapevo, ma sin da bambina mi stavo avvicinando al mondo della sana alimentazione».
Però lei ha trascorso lunghi anni praticamente reclusa in Rai, sempre in diretta, con ritmi di vita infernali.
«E infatti anche se in trasmissione si parlava delle diete e dell’alimentazione sana, io mangiavo malissimo. Mescolavo pizza e pane, patate e pasta. Oggi mangio di tutto ma separando i mondi animali o unendoli a quello vegetale. Una regola semplicissima, ma essenziale».
Lei ha fatto della dieta un «reality», vero?
«Possiamo dire la prima forma di reality in tv, perché i nostri specialisti seguivano un gruppo di persone che si sottoponevano a diete personalizzate in un percorso lungo, circa nove mesi, raccontando tutto in televisione. Ancora oggi c’è un signore, Luigi Baffo, che mi ringrazia perché ha perso 43 chili, mai ripresi».
Poi però l’idillio con la Rai si ruppe.
«Ci fu quella — dolorosissima per me — vicenda delle telepromozioni».
Eravamo nel 1996, Mani Pulite aveva rivoluzionato il Paese. Lei e molti altri personaggi televisivi veniste accusati di aver preso dei soldi in più per promuovere «meglio» certi prodotti. Tutto finì con patteggiamenti e addii.
«Ma pensi lei: dicevano che facendo la pubblicità di alcuni prodotti esibivamo sorrisi più smaglianti. Assurdo. Dissero che erano tangenti, ma ci rendiamo conto? In ogni caso, ne uscii del tutto, ma quella vicenda fu sconvolgente per me. Lasciai l’Italia, mi trasferii a Parigi. Avevo bisogno di cambiare paese, aria, persone».
E a Parigi che cosa fece?
«Studiai. La Francia era all’avanguardia sulle ricerche specifiche dell’alimentazione. Dalle infiammazioni fino allo studio sulle funzioni dell’intestino. Oggi sappiamo che lì c’è una specie di secondo cervello, perché se stiamo male, se viviamo sotto pressione o se abbiamo un problema psicologico, le cose si riverberano lì. La pancia gonfia non dipende, o non solo, da quello che mangiamo, ma da come lo mangiamo».
E oggi, che cosa fa Rosanna Lambertucci?
«Conduco una trasmissione sul circuito video di ItalPresse, in cui intervisto numerosi medici. Uso i social per tenermi in contatto con il pubblico. Continuo a scrivere i miei libri, ormai con Mondadori dal 1985. Vado in tv ma solo a parlare di quello che so. Vado volentieri al tavolo di Alberto Matano, per capirci, ma ho detto di no a Signorini, che mi avrebbe voluto al Grande Fratello Vip. Non ho tempo, devo tenermi aggiornata sulle ricerche che riguardano la salute».
Le piacerebbe riavere uno spazio suo in Rai?
«Sì ma mi creda: non è per “tornare e basta”. Vorrei mettere a frutto la mia esperienza come giornalista che da anni si occupa di questi temi. E comunque non per fare cose che non mi competono. Perché se tu sai condurre un programma di salute ma in tv ci vai per cantare, ci sarà sempre qualcuno più bravo di te a cantare. È facile, si chiama coerenza. Sennò io, donna e anche carina, come avrei conquistato una tale longevità televisiva parlando di scienza? E adesso, prima che lei vada, posso offrirle qualcosa?»
Un succo di frutta?
«Macché, prendiamoci una patatina fritta. Un peccato di gola ci vuole sempre».
Rosanna Vaudetti: «Ho intervistato Ungaretti e presentato una tigre. In tv manderei il mio avatar». Fabrizio Dividi su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.
Rosanna Vaudetti, 84 anni, ex annunciatrice Rai
La scelta di donare al museo della Rai l’abito del primo annuncio «a colori»: «L’ho visitato, è curato molto bene».
«Signore e signori, buon pomeriggio». Il 23 agosto 1972, Rosanna Vaudetti si presentava così, sorridente e misuratamente emozionata, lanciando il collegamento in Eurovisione con Monaco di Baviera per la cerimonia di apertura della ventesima Olimpiade. Poi precisava: «La trasmissione è diffusa a titolo sperimentale anche a colori, sul Secondo Canale, con il sistema Pal». E colore fu. Oggi, quel vestito colorato costellato da segni zodiacali e che per primo varcò i confini dell’etere, è stato donato dalla stessa Vaudetti al Museo della Radio e Televisione Rai diretto da Alberto Allegranza che, nell’occasione, ha annunciato che lo spazio di via Verdi rimarrà aperto per tutto il mese di agosto.
Rosanna Vaudetti, che effetto le fa l’esposizione in un museo?
«Strano vederlo tutto intero; pensi che quel giorno indossavo i pantaloni. Tanto mi avrebbero ripreso in mezzobusto, nessuno poteva saperlo».
Perché ha pensato di donarlo?
«Lo scorso inverno ero venuta in visita privata a Torino; ero curiosa di visitare il museo e ne rimasi colpita. Non solo per la passione con cui è stato concepito che si percepisce a ogni passo e per l’accoglienza che ho ricevuto al suo interno, ma perché ogni oggetto qui comunica una storia».
Cosa «comunica» il suo abito?
«Rappresenta la vitalità di quel momento storico, ma anche il cambiamento dei primi anni ‘70. E poi, è un po’ come riportarlo nella città da cui quell’annuncio fu trasmesso».
Ed è anche la città in cui lei visse per i primi anni della sua carriera?
«Certo, ma non solo. Mio padre era di Castaglione Torinese e sebbene io sia nata ad Ancona, tornammo spesso nella sua città. Mi ricordo l’entusiasmo con cui mi indicava i monti innevati che si scorgevano dalla collina».
Come mai cambiò città?
«Si era buttato nel cinema. “I Vaudetti” avevano molti terreni ereditati da suo padre che mori giovanissimo; peccato che li vendette per investire nella produzione torinese di un film mai andato a termine. Poi continuò come esercente a Bari dove teneva contatti anche con colleghi dell’Albania; erano gli anni ’20, la capitale del muto, evidentemente, cominciava a perdere il suo fascino».
Si può dire che quello che il cinema le ha tolto, glielo ha restituito la Tv?
«Mettiamola così. Avrei voluto diventare giornalista o attrice ma per fortuna mi trovai annunciatrice».
Fortuna?
«È stato un mestiere allegro che mi ha permesso di conoscere persone importanti, perfino papa Giovanni II, facendomi assaporare una specie di “divismo casalingo”. Per questo devo ringraziare Maria Luisa Boncompagni, una delle prime voci radiofoniche, che mi iscrisse di nascosto al concorso in Rai perché, mi diceva, “lascia perdere la radio, tu sei fatta per il piccolo schermo”».
Cosa ricorda dei suoi anni torinesi?
«Lavorai qui in Rai dal 1961 al 1965. C’erano pochi annunci all’epoca, così mi fecero presentare trasmissioni di ogni genere».
Per esempio?
«”L’amico libro”, una trasmissione per ragazzi scritta da Gianni Pollone. Tra le prime interviste della mia carriera ricordo un’ora trascorsa con Giuseppe Ungaretti che raccontava la sua infanzia ad Alessandria d’Egitto e spiegava ai ragazzi la sua poesia».
Dove viveva?
«Abitavo alla Pensione Moderna di via Pietro Micca 15. Dalla Rai percorrevo via Montebello, poi giravo a sinistra in via Po, fino a piazza Vittorio. Lì prendevo il tram, anche a tarda ora, sempre da sola».
Non c’erano colleghi che si offrissero di accompagnarla a casa?
«Inviti ne avevo, eccome. Ma cosa vuole, se avessi detto sì a uno, gli altri si sarebbero offesi. E poi all’epoca non era cosi strano aspettare da sola il tram di notte».
Forse perché le donne emancipate si sentivano più indipendenti?
«Mi creda, agli inizi degli anni ’60 le donne erano rispettate più di oggi. Qualche volta un’auto rallentava per affiancarti, ma se non ti giravi, tirava dritta senza troppa insistenza».
La riconoscevano per strada?
«Con gli anni sempre di più; grazie alla la mia notorietà cominciarono a chiamarmi per inaugurare feste ed eventi di ogni tipo. Un giorno presentai una tigre, un altro un pinguino appena nato in uno zoo che mi beccò in pieno viso».
Come si svolgeva il suo lavoro in studio?
«All’inizio pensavo che fosse sufficiente lavorare per pochi minuti al giorno ma ben presto mi resi conto che non era così. Tra un annuncio e l’altro c’erano stage di trucco per insegnarci a farlo da sole; al mattino si arrivava almeno un’ora prima per la “vestizione” e durante il giorno dovevamo studiare i testi, controllare le pronunce e stare sempre all’erta per voci fuori campo ed eventuali interruzioni o edizioni straordinarie».
In quelle giornate, com’erano i rapporti tra voi colleghe?
«Eravamo una piccola famiglia. Nei pochi momenti liberi c’era chi sferruzzava, chi leggeva e spesso si chiacchierava. Sono rimasta amica con Nicoletta Orsomando che è mancata solo un anno fa; con Maria Giovanna Elmi e Mariolina Cannuli ci sentiamo spesso, ma potrei citarle tutte, una per una».
Tra i personaggi che ha conosciuto, chi ricorda con più affetto?
«Ho lavorato praticamente con tutti i più grandi personaggi televisivi di sempre; come Baudo, Corrado e Bongiorno. Se proprio devo fare un nome, dico Enzo Tortora».
Perché proprio lui?
«Era un gran signore e conduceva la Domenica Sportiva diretta da Antonio Moretti, il regista che sposai nel 1965».
Un amore longevo e «televisivo». Come scoppiò la scintilla?
«Lo conobbi a Milano quando faceva la regia di un programma sull’arte. Ma Torino anche in questo caso fu “galeotta”».
Ancora Torino?
«Girava spesso dei caroselli; una sera, dopo aver lavorato a quello dell’Amaro Cora (amaro italiano prodotto dalla ditta Bosca di Canelli, ndr), mi chiese di sposarmi. Rifiutai perfino la proposta di Massimo Scaglione che mi voleva nella sua compagnia per una tournée all’estero. Non volevo rimandare di un solo giorno il mio matrimonio».
Tra i programmi che ha condotto, quale ricorda con più affetto?
«Giochi senza frontiere; lo spirito europeista di quella trasmissione era più sincero e diffuso di quello che si respira oggi. Un giorno facemmo 18 milioni di spettatori, un vero record».
Signora Vaudetti, veniamo a oggi. Possiamo chiederle se si è ripresa dalla brutta avventura di qualche settimana fa?
«Ho avuto un malore e mi sono risvegliata sott’acqua. Ne ho persino respirata un po’ ma è andata bene, anche grazie alla prontezza dei medici».
E se qualcuno le proponesse di tornare ad annunciare?
«Direi subito sì. Solo che in tv manderei il mio avatar».
Maurizio Costanzo per “Libero Quotidiano” il 10 dicembre 2022.
Fiorello sa cos' è la tv e, infatti, è difficile che sbagli un programma. Anche questa volta, con Viva Rai2!, in onda tutti i giorni alle 7.15 su Raidue, ha fatto centro. Non a caso, viene replicato anche verso l'una di notte su Raiuno. Fiorello non conosce regole, se non quelle suggerite dalla fantasia e dalla voglia di mischiare le carte.
È stato sempre così. Poi, siccome suppongo che sia pigro, mette sempre tempo in mezzo, tra un programma e l'altro. In questo Viva Rai2! c'è proprio l'anima di Fiorello nella sua voglia di far diventare uno sconosciuto un suo luogotenente, nel far cantare a quasi sconosciuti canzoni, nel far diventare vincente un qualcosa che, in altre mani, sarebbe stato perdente. Insomma, uno bravo.
Mi piace raccontare la prima volta che lo incontrai. Ero stato incaricato dalla società Valtur, che ha molti villaggi turistici, di fare un giro in Italia per vedere se c'erano intrattenitori da proporre a un pubblico nazionale e non solo ai villeggianti. Feci questo viaggio e, in uno dei cinque-sei villaggi che visitai, incontrai questo giovanotto che intratteneva in maniera originale e divertente il pubblico, sia sulla spiaggia come al momento del pasto.
Lo volli conoscere e prendemmo un appuntamento a Roma. Lui partecipò a qualche puntata del Costanzo Show, ottenendo sempre un ottimo successo. Poi, fece alcuni suoi spettacoli di Karaoke e io, chiamato da Canale 5 a fare Buona Domenica, lo misi nel cast. Fu un grande successo. Si può dire che, da quel momento, cominciò la straordinaria carriera di Rosario.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2022.
Dal dehors di via Asiago è andato in onda non un programma, non un morning show, non una strampalata rassegna stampa. No, è andato in onda un soffio di buonumore lungo 45 minuti, la cosa di cui più abbiamo bisogno in questo momento. Accompagnato da Fabrizio Biggio, («l'altro dei Soliti Idioti e tu sai che dai Soliti Idioti al solito cretino è un attimo») e da Mauro Casciari, «detto Bellosguardo», Rosario Fiorello ci accompagnerà ogni mattina, dalle 7.15 alle 8 su Rai2.
Potremmo segnalare la presenza di Amadeus, venuto a sostenere l'esordio dell'amico e ad annunciare che la «belva» Francesca Fagnani sarà l'altra co-conduttrice di Sanremo; potremmo segnalare l'inchiestina milanese di Gabriele Vagnato, tiktoker da 3,5 milioni di follower, su quanti guardano Rai2 (nessuno); potremmo citare la festante presenza della giudice di Ballando con le stelle Carolyn Smith (a riprova che di quel programma è l'unica presenza simpatica), ma non è molto importante la cronaca. Basta andare su Rai Play e abbandonarsi al flusso.
Ancora una volta, quello che davvero conta è l'atmosfera che Fiorello sa creare, la curiosità che appaga senza aver avuto bisogno di destarla, quel senso di vagabonda felicità che ti assale per la durata di Viva Rai2! : la felicità è fatta di attimi, essa transita, non la si possiede, al massimo la si coglie. Come ben sappiamo, in ciò che vediamo mettiamo il nostro proprio pensiero, per cui in verità non ci sarebbe bisogno di rifuggire da alcun programma: il nostro io cerca sempre di normalizzare l'insolito.
Con Fiorello è diverso perché è un sabotatore celeste dei nostri poveri convincimenti, è un'ilarità che ti scuote sin dalle prime battute, è il momento in cui la vista si annebbia un po' come succede nei desideri. Per questo, conviene lasciarsi andare, anche quando dall'«agenda Giorgia» spunta l'idea di «partecipare alle primarie del Pd».
Tiziana Cialdea per Novella 2000 il 6 dicembre 2022.
Al debutto non poteva mancare l’amico di sempre: Fiorello è partito col botto. Primo ospite d’onore di Viva Rai2!, in onda già dal 5 dicembre alle 7:15 su Rai 2, e anticipato da Aspettando Viva Rai2!, disponibile in streaming sulla piattaforma Raiplay, è stato Amadeus. «Neanche gliel’ho dovuto chiedere». Impegnato per sei mesi con la diretta dopo l’alba, Fiore ha escluso di raggiungerlo a Sanremo, per il Festival. «È impossibile fisicamente. Manderò il mio inviato Gabriele Vagnato, giovane tiktoker che da solo fa più numeri di Rai 2. Di Sanremo ne ho fatti due pieni e uno a metà: per chi fa il mio mestiere, fare tre Festival di fila strategicamente non si fa. Nessuno con il mio ruolo l’ha mai fatto. L’ho fatto io, solo io. E per amicizia».
Quindi, Rosario è concentrato su questa nuova avventura: «Sento il peso della responsabilità e non solo perché vado “sul servizio pubblico”. Questo è un programma delicato: va in diretta e commentiamo notizie. Io sono molto diretto e devo stare attento. Ma non voglio stare attento. Non sono un pericolo pubblico in termini di satira, sono altri i comici ficcanti. Io ficco poco». Inizialmente la rassegna stampa dell’artista siciliano era prevista su Rai 1.
E, interrogato sul “dirottamento” dal primo canale della Tv di Stato a Rai 2 Fiorello ha replicato: «Si dice che si chiude una porta e si apre un portone: non era preventivato. Però capisco i giornalisti del Tg 1: hanno difeso il proprio spazio. Poi c’è modo e modo di esporre le proprie ragioni. Per me è stato poco elegante il loro comunicato. Si poteva fare in altro modo: bastava una telefonata. Leggere, dalla sera alla mattina, quelle parole tra cui “sfregio” è stato brutto. Tutto qua. Per il resto io non ho nulla contro il Tg 1 e arrivare su Rai 2 è stato un attimo. Un passaggio semplice e indolore».
E ha aggiunto: «Rai 2 è sempre stata la rete dell’innovazione, da Quelli della notte a Quelli che il calcio. Non va sottovalutata. È sempre stata la rete giovane della Rai. E poi ho notato che su Rai 2 siamo tutti belli. Ci sono io, Stefano De Martino, Alessandro Cattelan... ma soprattutto Milo Infante! E tra le donne? Ilaria D’Amico, Simona Ventura, Paola Perego: possiamo andare a Milano Moda. A Rai 1 ci sono Amadeus, Carlo Conti: vuoi mettere? L’estetica conta!».
Qual è la differenza tra Viva Rai2! e Edicola Fiore, che andava in onda su Sky?
«L’idea di Edicola Fiore mi è venuta in mente nel 2010 quando ho scoperto lo smartphone: il primo modello di quella marca lì (Apple, n.d.r.). Ma io Edicola Fiore l’ho sempre fatta, anche prima. Perché mi sveglio la mattina, vado al bar e commento l’attualità. Con gli amici del bar.
Quando ho avuto il mio primo smartphone ho iniziato a postare i video di quei momenti: a quei tempi esisteva solo Facebook, che a me non è mai piaciuto particolarmente. Così usavo Youtube: per postare cinque minuti ci voleva un’ora, un’ora e mezza. Poi è arrivato Twitter. La mia “edicola” dunque è stato un programma esclusivamente social, almeno all’inizio. Poi è diventato uno spazio televisivo, su Sky. Ora la sfida è quella di vedere se quella cosa funziona anche su una rete generalista. Se non ha lo stesso effetto, e potrebbe essere, io e i miei collaboratori dobbiamo cercare una strada per farla funzionare. L’esperimento su Raiplay è stato buono, ma quello della Tv è un pubblico diverso: però ho sei mesi per correggere il tiro...».
Fiorello e la sveglia presto. Abitudine o maledizione?
«Alle cinque del mattino sono già in piedi. L’ho sempre fatto. Sono io che sveglio il mio condominio. E da una casa, la mia, passo a un’altra, quella di via Asiago, dove per quasi otto anni ho fatto Viva Radio2!, poi Viva Raiplay! e ho scelto di tornare perché ci sto bene».
Alla vigilia non ha nascosto di essere emozionato.
«Io vado al di là dell’emozione. Sono sempre terrorizzato: nei primi cinque minuti di uno spettacolo ho paura. Che poi, male che va, non succede niente. Ma da sempre mi accompagna questo stato d’animo, da quando facevo l’animatore nei villaggi, anzi da quando andavo a scuola e dovevo essere interrogato.
Ansia da prestazione e terrore per il giudizio mi fanno sempre compagnia. Con l’età sono migliorato, perché l’esperienza a qualcosa serve. Ma il timore c’è sempre. E proprio perché Aspettando Viva Rai2! ha avuto successo sono preoccupato che Viva Rai2! non vada altrettanto bene».
Ma perché il pubblico dovrebbe scegliere Viva Rai2! al posto di un altro programma?
«La mia è un’alternativa a quello che di solito c’è a quell’ora: c’è il Tg 1, c’è il Tg 5, che in quella fascia è fortissimo. Se il pubblico sceglierà noi magari le notizie le ascolterà dopo: da noi le notizie verranno commentate, a modo nostro. In questa avventura sono affiancato da Fabrizio Biggio che secondo me finora ha raccolto meno di quello che merita ed è un grandissimo artista e dopo questa esperienza avrà tante altre occasioni».
Questa nuova avventura televisiva l’ha riportata sui social. Che negli ultimi tempi aveva trascurato: perché?
«Per due anni ne sono stato a distanza. È stata una scelta ponderata perché mi ero reso conto che mi svegliavo con l’ansia di dover dire qualcosa. Di dire la mia su ogni argomento.
Quando usi i social e sei personaggio pubblico ti svegli la mattina e devi dare il buongiorno, se vai in un posto devi farlo vedere, così come quello che mangi. Quando mi sono fermato ho provato la stessa sensazione di quando ho smesso di fumare: mi sentivo sollevato. Perché il nostro ego ci porta a vedere i commenti, con la speranza di leggere complimenti. Ma esistono gli haters e i loro commenti fanno male, anche se non ci mettono la faccia.
Se leggo che a Pasqualino86 non piace il mio programma ci rimango male. Così, due anni senza per me sono stati una meraviglia. E anche adesso pubblico le mie clip, non quello che mangio o dove vado in vacanza. Quella è la mia vita lontana dai social. E non leggo i complimenti. Né gli altri commenti».
Fiorello sotterra Rai 1, disastro per la Maggioni: cos'è successo. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
La risposta alla protesta del Tg1 arriva dai dati Auditel. Dopo che la redazione si era scagliata contro Fiorello ("No al suo programma nei nostri spazi del mattino"), ecco che ci pensa Viva Rai 2 a sistemarli. Il programma dello showman ha infatti totalizzato ascolti da record, tanto da superare il tiggi del primo canale. Ascolti oltre le aspettative raggiunti grazie anche alla presenza di Amadeus con l'annuncio di Francesca Fagnani come co-conduttrice per una sera al Festival di Sanremo 2023.
Più nel dettaglio Viva Rai2! Glass Cam (durata 5 minuti) raccoglie 170.000 spettatori e il 4.69), a seguire – dalle 7.15 alle 8.01 – Viva Rai2! segna 683.000 spettatori con il 14.1 per cento. …E Viva il Videobox ha convinto 211.000 spettatori (4.02 per cento). Dall'altra parte gli ascolti del Tg1 sono ben più bassi. Eccoli: Rai1 TgUnoMattina Rassegna Stampa ha raccolto 245.000 spettatori con il 9.89 per cento.
Il TG1 delle 7 ha informato 360.000 spettatori e il 10.72. TgUnoMattina ha raccolto 492.000 spettatori con il 10.12 (in sostanza, dalle 7:13 alle 7:30: 352.000 – 8.13 per cento, dalle 7:32 alle 7:45: 387.000 – 7.88, dalle 7:46 alle 7:58: 436.000 – 8.34 per cento, dalle 8:36 alle 8:55: 714.000 – 14.11); all’interno il breve TG1 delle 7.30 segna 352.000 spettatori con il 7.52 per cento mentre il TG1 delle 8 ha informato 867.000 spettatori con il 16.46. Insomma, il telegiornale del mattino diretto da Monica Maggioni perde parecchio rispetto alla precedente settimana e si ferma al 12,5 per cento di share. Che sia l'effetto-Fiorello? Chissà...
Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022.
«Non dice bene a chi va su Rai2: chi la tocca muore...ma noi andiamo in una fascia che meglio di così non si poteva perché sta all'1%: se faccio il 2% significa il 100% in più; se faccio il 4% divento amministratore delegato della Rai».
Fiorello ironizza a modo suo alla vigilia della partenza di Viva Rai2! , il suo nuovo morning show («noi facciamo un mattin show», corregge lui) che dal 5 dicembre alle 7.15 diventa un appuntamento da ora di punta (solitamente della sveglia).
L'impianto è consolidato, un mix di preparazione e improvvisazione tra one man show, rassegna stampa, ospiti musicali e non, inviati sui generis, la satira morbida e benigna che è la cifra della sua televisione. Andrà avanti per sei mesi («siete sicuri che ho firmato per così tanto tempo?»), in totale 115 puntate («un numero che non raggiungo nemmeno sommando tutte quelle che ho fatto dall'inizio della mia carriera»).
Amadeus sarà l'ospite della prima puntata, ma non ci sarà uno scambio di cortesie per Sanremo 2023: «Chiariamolo subito: non ci sarò al 100%. Ho già partecipato a tre Festival di fila (due pieni più uno nella serata di apertura), un impegno che strategicamente per me non aveva senso, ma l'ho fatto in virtù dell'amicizia che mi lega ad Amadeus».
L'ansia da debutto però non lo abbandona mai: «Altro che emozionato, sono sempre terrorizzato. Ho sempre paura prima dell'inizio di uno spettacolo, anche se con il tempo sono un po' migliorato, ma la verità è che ho il terrore del giudizio delle persone: quando andavo a scuola per le interrogazioni, quando facevo l'animatore nei villaggi». In fondo è anche questo «terrore», insieme a una dose di narcisismo necessaria per chi fa il suo mestiere, che l'ha spinto a silenziare i social per due anni: «La mia è stata una scelta ponderata perché mi svegliavo con l'ansia di dover dire sempre qualcosa. Il nostro ego poi ci porta a guardare i commenti, ci piace leggere i complimenti ma poi stiamo male quando troviamo gli insulti. A un certo punto ho pensato che era il momento di smettere di rincorrere il futuro; la sensazione senza social è stata quella del sollievo di quando ho smesso di fumare».
Aveva fatto molto discutere il cambio di rete, da Rai1 a Rai2, su pressione dei giornalisti del Tg1, ma Fiorello non cerca nemici: «Lo spostamento non era previsto, ma a volte si chiude una porta e si apre un portone. Capisco pienamente i giornalisti del Tg1, hanno difeso un loro spazio.
Poi c'è modo e modo di dire le cose. L'aspetto meno carino è stato il comunicato, dire che la mia presenza era uno "sfregio" è stato poco elegante».
Un attimo e ritrova il gusto della battuta: «E poi Rai2 è la rete dei belli: ci siamo io, De Martino, Cattelan, Ilaria D'Amico, Paola Perego, su Rai1 invece ci sono le facce di Amadeus e Carlo Conti... è una questione anche estetica». Uno dei compagni di viaggio sarà Fabrizio Biggio: «Lo incontrai per caso in Rai, senza spiegargli niente lo chiamai in studio e feci una puntata con lui. Volevo vedere cosa avrebbe fatto all'impronta. E fu bravissimo. Quindi è stato naturale chiamarlo. Biggio ha raccolto meno di quello che merita, spero che questo programma lo aiuti a trovare una trasmissione tutta per lui. E poi ci raggiungerà anche Francesco Mandelli, ricomporranno I Soliti Idioti ma in altre vesti». Non solo loro.
La «quota giovani» ha il volto di Gabriele Vagnato, tiktoker da quasi quattro milioni di follower «Da solo fa il doppio di Rai2...». Fiorello diventa serio quando riflette su quanto accaduto a Ischia: «Quando avviene una tragedia diciamo sempre quanto ci dispiace, ma suona molto retorico. Forse gli italiani, tutti noi, ci siamo stufati di sentire sempre le stesse frasi. C'è un copione ormai, come se fosse scritto in un libro. Capitolo uno: si poteva evitare. Capitolo due: è colpa di... Le istituzioni si avvicendano e le situazioni non cambiano. Le decisioni non andrebbero prese dopo le disgrazie. Abbiamo capito che l'Italia va aggiustata, non rattoppata. E noi cittadini dobbiamo fare la nostra parte, seguendo sempre le regole».
Fiorello porterà nella mattina di Rai2 il suo intrattenimento acuto, la sua comicità leggera, perché «si può dire tutto, ma senza astio e senza cattiveria. Non guardiamo in faccia nessuno: destra, sinistra e centro. E non ci sottraiamo a nessuna polemica, anzi ci piacciono quando sono sane e costruttive, ma tutti noi che facciamo questo mestiere abbiamo una responsabilità. Siamo il Servizio Pubblico, saremo in diretta, e io dovrò stare attento ma non lo sarò, anche perché tutti conoscono il tipo di satira che faccio, sono altri i comici ficcanti. Io ficco poco...».
Michela Tamburrino per la Stampa il 16 novembre 2022.
Se non fosse troppo crudele come gioco di parole, si potrebbe dire che la Rai è nel pallone. Un pallone mondiale tanto è enorme il caos che l'attraversa. Ogni giorno ne capita una che quasi quasi si prova tenerezza per quest' Azienda picchiata come un punching ball.
Un fuoco di fila che quando diventa fuoco amico fa ancora più male. Non si sono ancora spenti gli echi del caso Montesano, che esplode l'affare Mondiali molto più complesso, economicamente molto più dannoso, strategicamente molto più sottile. La testa di serie Rai Rosario Fiorello, corteggiato da tempo e finalmente convinto al ritorno con un suo programma long time, lo stesso che salvò le sorti del Festival di Sanremo per due edizioni, ora nel suo «Aspettando Viva Rai2» in diretta Instagram e su Raiplay, continua a massacrare la Rai sollevando il problema dei Mondiali di Calcio trasmessi da un Paese, il Qatar, che fa «dei diritti umani uno zerbino da calpestare tutti i giorni». Logica conseguenza è l'invito a disertare le partite in diretta trasmesse dalla Rai. E in molti già giurano di essere disposti a spegnere la tv, peggio, a sintonizzarsi altrove. Lo fanno esponenti dei Cinque stelle, di Forza Italia e persino l'infettivologo Matteo Bassetti.
Ieri Fiorello, mostrando la pagina della «Stampa» ha preso in giro l'ad Fuortes, dicendo che era andato sotto casa sua in protesta e qualcuno gli aveva fatto trovare una testa di cavallo «di bronzo», mettendo insieme l'avvertimento mafioso stile «Padrino» e l'animale simbolo della Rai.
Ma perché sta accadendo tutto questo e perché nessuno si prende la briga di fermare lo tsunami di portata micidiale?
Perché, sostengono gli esegeti di cose Rai, le ragioni andrebbero ricercate in un passato non tanto remoto. Fiorello è uomo di cuore, di sentimento, ma - se stuzzicato - anche di risentimento. Soprattutto se la sua suscettibilità viene pungolata oltre misura. Così come si era messo al servizio della causa combattendo a mani nude contro un Teatro Ariston vuoto causa pandemia con il sodale Amadeus, allo stesso modo potrebbe aver vissuto come ingratitudine quell'alzata di scudi dei giornalisti del Tg1 che difendevano i loro spazi, ma di fatto ne causarono lo sfratto da Rai1.
Fiorello che riflette molto sulle cose e i piatti migliori ama mangiarli freddi, non reagì per la bagarre che lo vedeva al centro. Tacque e poi prese lo scomposto dietrofront e il passaggio a Rai2 con spirito anglosassone, anzi ringraziando per la nuova collocazione. Ora potrebbe aver iniziato a rispondere. A proposito di portate culinarie, si dice che Fiorello stia ancora all'antipasto e che continuerà nella sua presa di posizione ineccepibile, ma certamente imbarazzante per la Rai che non sa come regolarsi. Bloccare il suo uomo d'oro, lasciare che prosegua, o pregare che si senta soddisfatto così? Una decisione non è stata presa.
Anche perché, oltre alla pubblicità avversa, gli ascolti saranno risibili con l'Italia fuori gioco. E i temi civili che il Quatar considera niente, aggravati da dichiarazioni omofobe irricevibili, fanno sì che si tradisca il contratto di servizio. Una sconfitta strategica e culturale che potrebbe avere gravi conseguenze per una tv pubblica.
I diritti dei Mondiali erano stati comprati dall'Amministratore delegato Rai precedente all'attuale, Fabrizio Salini. Ancora si sperava nella qualificazione dell'Italia. La pratica fu gestita dal direttore dei diritti sportivi, Pier Francesco Forleo, compagno di Elisabetta, la figlia di Mara Venier. Poi la debacle della squadra italiana con Fuortes già subentrato. A questo punto, si poteva tentare una trattativa, spacchettare partite e diritti e venderli ad altri. Se mai questo è stato tentato, non è andato a buon fine.
Altro elemento dirimente è la collocazione delle partite che il Qatar ha imposto in inverno per motivi di clima casalingo.
Ma nessuno, allora, si è premurato di controllare che le partite coprissero il Prime Time. E infatti non lo coprono. Mentre in estate il palinsesto è più agile, ora si è in pieno periodo di garanzia, con la pubblicità che costa più cara ma con l'impossibilità di venderla al meglio perché il fuso orario impedisce appunto di soddisfare tutta la fascia di prima serata. Risultato: si scombussolano inutilmente sia il Day Time, sia il Prime Time. E pensare che Fiorello deve ancor andare in onda a pieno regime, dal 5 dicembre su Rai2 con «Viva Rai2». Se ne vedranno delle belle, questo è solo l'inizio.
Fiorello: «Io e la mia mamma vivi per miracolo. Susanna mi ha guarito». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Settembre 2022.
Lo showman: «Ha rischiato di morire di parto e io con lei. Da animatore in un villaggio presi in giro due anziani, ho giurato che non l’avrei fatto mai più»
«La felicità non è un sentimento assoluto, noi proviamo solo momenti di felicità, “felicità a tratti”, come cantava Tonino Carotone. Certo, se pensi alla carriera, alla riuscita nel lavoro, ai figli meravigliosi, pensi di aver raggiunto la felicità. Ma non è così. Una volta ho fatto un viaggio con mio padre, c’era un caldo afoso, torrido e lui ferma la macchina nei pressi di Acireale e mi dice (accento siciliano): “C’è troppo caldo, ora ci fermiamo e ci facciamo il bagno?” E io: “Ma non si può, non abbiamo il costume”. “Non ti preoccupare ce lo facciamo con le mutande”. Questa sorta di trasgressione mi fece impazzire, ero piccolo, lui mi teneva per mano mi faceva girare in acqua. Ecco, in quel momento ho provato la felicità. Qualcosa del genere ho provato quest’estate con mia figlia Angelica, perché è sempre difficile avere un dialogo con un’adolescente. Io e lei da soli in scooter, poi siamo andati a fare un bagno, guardandoci negli occhi. Se ci penso mi commuovo».
È inevitabile parlare di felicità con Rosario Tindaro Fiorello ; ne ha regalata tanta in tv. Da spettatori sappiano cos’è la felicità non tanto perché ne possediamo il concetto, ma perché a volte ne abbiamo sperimentato la condizione, anzi la conduzione, quella di Fiorello. Quei giri nell’acqua ritornano nelle sue parole, come un’onda della memoria. «Il ricordo più bello della mia infanzia, avrò avuto cinque o sei anni, è la Befana della Guardia di Finanza, ci andavo mano nella mano con mio padre. Ogni anno il comandante della compagnia offriva regali ai figli dei finanzieri: era molto eccitante, non ci dormivo la notte, anche perché erano regali che, all’epoca, non ci saremmo potuto permettere. Era il momento più felice dell’anno, più di Natale. Che poi i regali erano sempre gli stessi: mi sono beccato per tre anni di fila la roulette (sarei dovuto diventare un giocatore d’azzardo) e poi per altri due “L’allegro chirurgo”. Mio padre era l’artista di famiglia, era la nostra autoradio. Quando facevamo dei viaggi, e per viaggi s’intende Augusta-Letoianni, poco meno di 100 km, ma per noi era il Viaggio. Andavamo in vacanza nel paese natio di mio padre dove c’era la casetta della nonna e passavamo tutta l’estate là. Cantava tutte le canzoni di Modugno, deve aver influenzato Beppe. Lui cantava e mia madre gli ripeteva sempre “non camminare in mezzo, mettiti di lato”. Uno cantava, l’altra faceva da navigatore. Mia madre si chiama Rosaria come me: quando stavo per nascere ebbe una complicazione molto grave, i medici la davano per spacciata e io con lei. Miracolo, alla fine ci siamo salvati tutt’e due. Io mi sarei dovuto chiamare Raffaele, come mio nonno, a quel punto mio padre decise di chiamarmi come mia madre. Rosaria Galeano detta Sarina. Con mia mamma c’è un legane molto forte che scaturisce da questo evento. Sarina, che ora ha 87 anni, è la dedizione in persona, ha sempre fatto il suo lavoro quotidiano di madre con grandissimo amore. Per lei mandare fuori i figli pettinati e puliti era un punto d’onore, quello che ci mancava a livello economico non doveva intaccare la nostra dignità. Se io arrivavo con le scarpe infangate lei non le puliva, le faceva diventare nuove. Ancora oggi, tutte le mattine (lei ora vive a Roma), ci prendiamo il caffè assieme, discutiamo di cose, le si è sviluppato un notevole senso dell’umorismo, forse inconsapevole. Per esempio, io comincio ad avere piccoli problemi di memoria. Una mattina le dico “sai mamma comincio ad avere un problema, io non mi ricordo i nomi delle persone”. Pausa: “Ma almeno i cognomi te li ricordi?”. Il tutto con tempi comici perfetti. E poi è una grande cuoca, fa bene le cose semplici, specialità siciliane. “Mamma mi fai due sarde a beccafico”, ma c’è da impazzire dalla bontà. Da piccoli, l’evento era la pasta al forno domenicale. E poi pasta e fagioli, ma quello che noi figli amavamo di più era grattare il resto della pentola, il bruciacchiato che si attaccava sul fondo. C’è una cosa che mi è rimasta nel cuore: la prima volta che mio padre disse: “Hanno aperto una pizzeria” (imitazione del padre). Fino ad allora per noi la pizza era cosa che si faceva in campagna nelle teglie. Eravamo a Riposto, vicino a Catania, la pizzeria si chiamava “Gallo rosso”. Quando assaggiai per la prima volta la pizza dissi “da ora mangerò solo pizza”: ancora oggi è il mio piatto preferito: bianca, con la mozzarella e il prosciutto cotto, non patanegra».
Anche in un’intervista viene fuori l’unicità di Fiorello. Che consiste nel raccontare le cose normali con uno stato d’animo diverso e, soprattutto, nel saper trasmettere a chi lo ascolta questa nuova disposizione. È impossibile tradurre in parole i suoi racconti, perché alla parola scritta manca il suo ritmo, la sua gioiosità, le sue improvvisazioni. Se nomina una persona, subito la imita come se dentro di lui abitasse una moltitudine di personaggi. Sta per accennare al suo lavoro, ma il ricordo è ancora per suo padre.
«Il momento più triste della mia vita è stata la morte di mio padre, aveva solo 59 anni, io ora ne ho 62 pensavo di non farcela a superare i 59. Stava ballando con mia madre, si è assentato un attimo: “Sarina ho dimenticato le sigarette in macchina, torno subito”, e l’hanno trovato morto seduto sul sedile. Io ero all’inizio della mia carriera, a Sanremo con Radio Deejay (non so se l’ho mai detto ma la mia ritrosia per Sanremo nasce da questo evento), chiamavo casa e non mi rispondeva nessuno. Poi ho fatto un giro di parenti e mi dissero che mio padre stava male, di tornare subito (in realtà era già morto). Sono corso nella notte a Pila, in Val d’Aosta, a prendere mio fratello che lavorava lì e insieme siamo tornati in Sicilia per i funerali. Mi dispiace che mio padre non abbia visto nulla di quello che ho fatto, allora ero agli inizi. Il mare di Sanremo mi ricorda sempre le lacrime che quella sera ho versato per mio padre di cui avevo ancora tanto bisogno. Ho pensato pure di smetterla, di non tornare più a Milano, di finirla lì. La famiglia Certo, mi sarebbe piaciuto trasmettergli l’orgoglio per il mio lavoro, per quello che sono riuscito a fare. Da ragazzo pensavo: “Ma un giorno sarò in grado di badare a me stesso, di guadagnare per vivere? Che lavoro farò?”. Nella mia testa il mondo dello spettacolo non esisteva, volevo fare il calciatore. Sono stato molto orgoglioso della prima busta paga che ho preso quando ho cominciato a lavorare nei villaggi turistici: a fine mese mi pagavano, contratto a tempo indeterminato! Mi sono sentito realizzato solo quando sono riuscito a comprare la casa, una casa intestata a me, ad avere il tetto sopra la testa. Oggi però sono anche orgoglioso di essere riuscito a formare la mia famiglia: io, Susanna, Olivia e Angelica. Olivia è figlia del primo marito di Susanna, aveva già tre anni. Con Olivia ho cominciato a fare il padre e ci sono stati anche momenti di scontro. Lei mi diceva: tu non puoi sgridarmi, tu non sei il mio papà naturale. A me venne da risponderle: “Ricordati Olivia io non sono il tuo papà naturale, sono il tuo papà frizzante”. E con una battuta tutto si stemperava».
Se Rosario Tindaro fosse nato a Broadway staremmo qui a parlare di uno dei più grandi talenti dello show business. È capace di incrociare ambiti differenti (tv, radio, web, pubblicità…), è trasversale pur conservando sempre una propria identità, da vero mattatore della scena. Possiede un estro unico nel sollecitare l’attenzione degli spettatori, attraverso la battuta ma anche il corpo, la mimica, il canto, la parola. Conosce anche il valore della riconoscenza.
«Il miglior consiglio in campo professionale l’ho ricevuto da un capo villaggio, Enzo Ulivieri, quando lavoravo come animatore: “Tu non devi più lavorare al bar, tu devi fare l’animazione perché il tuo futuro è questo, tu questo non l’hai ancora capito” (imitazione di Ulivieri). Una sera, facendo dei giochi nell’anfiteatro, presi di mira due persone anziane, marito e moglie. Più li prendevo in giro, più la gente rideva. Ulivieri mi chiamò, io ero tutto contento “hai visto che bella serata?”. “Sì sì — rispose — ma ora prova a pensare se quelle due persone fossero state tuo padre e tua madre”, pausa. Io da quel giorno non mi sono più permesso di prendere in giro persone che non sono in grado di difendersi. Mi piace sempre ricordare Bibi Ballandi perché è la persona che mi ha traghettato dalla prima alla mia seconda vita artistica. C’era la finale del Festivalbar 2000, per via di alcuni guasti tecnici Vittorio Salvetti mi spedì sul palco dell’Arena di Verona. Mi trovo davanti 14.000 persone e per 40 minuti ho dovuto improvvisare. In prima fila c’era Bibi: “Ma tu fai quelle robe lì, perché non le fai in televisione. Vieni in Rai. Tranquillo ci penso io” (imitazione di Ballandi). E ci pensò davvero, tanto che alla prima puntata di “Stasera pago io” mi fece trovare come ospite Dustin Hoffman, il mio attore preferito. Entro nel camerino e vedo questo omino piccolo in un angolo, come se avessi visto Rain Man, mi guarda, mi fa un sorrido da Kramer contro Kramer, mi apre le braccia e mi fa “Fiorello”. Questi non sono come noi, questi si preparano, sapeva chi fossi, mi abbracciò, disse in italiano una serie di parolacce che aveva imparato dalla troupe del film Alfredo Alfredo con Stefania Sandrelli. Oggi non esiste più il divismo, è finita l’aura di Hollywood: gli attori li vediamo ogni giorno sui social, nella loro quotidianità. Poi devo molto a Giampiero Solari che mi ha convinto a fare teatro prima di preparare lo show televisivo: “Tu vai sul palco comincia a improvvisare, a raccontare quello che racconti a noi della tua vita”. Mi fece capire che quando racconti in pubblico delle cose poi ne vengono fuori delle altre. Era una specie di allenamento nei piccoli teatri delle Marche: “Prove tecniche di trasmissione con Fiorello”, non mettevamo neanche i manifesti ma solo semplici locandine. Con un minimo di talento ci devi nascere, poi le cose bisogna affinarle, ma la cosa più importante credo sia l’indole. Io sono sempre stato così, mi piaceva far divertire gli altri, a scuola, da militare».
Alla fine degli anni Ottanta, Bernardo Cherubini, fratello di Jovanotti, lo convince ad abbandonare la professione di eterno vacanziere e a trasferirsi in quel che restava della Milano da bere, promettendo un lavoro nella trasmissione del fratello a Radio Deejay. Fiorello comincia a sfruttare il suo talento vocale nella radio che stava diventando velocemente un punto di riferimento per i giovani, il loro mezzo di espressione privilegiato.
«Ho iniziato con le radio libere negli anni 70, Radio Marte Augusta, il nostro modello era Foxy John (ora è la voce di “Ballando con le stelle, imitazione di Foxy John). Poi Claudio Cecchetto a Milano mi affianca Toni Severo, Amadeus e infine Marco Baldini (“ho preso un toscano che secondo me con te è perfetto”). Il nostro modello era Alto Gradimento di Arbore. La radio è il mezzo che più mi stimola la fantasia, l’immaginazione è tutto, sia per chi la fa che per chi l’ascolta. Per questo non mi piace la radio in tv. Se dovessi dire però dove io rendo al cento per cento è il teatro, quando sono sul palco, non ho l’ossessione degli ascolti mattutini, senti la risata, senti la battuta che è andata a segno. E poi il teatro è la vera fucina per la tv. La quale è molto cambiata, sono cambiati i suoi ritmi: oggi devi accorciare i tempi di una gag altrimenti i giovani non ti seguono più. Il varietà non morto, ma bisogna trovare una nuova chiave di trasformazione. In passato, io, Panariello, Morandi ci abbiamo provato con l’one man show, adesso bisogna trovare un’altra chiave e spero di trovarla io per primo. Adesso va di moda lo spettacolo teatrale ripreso dalle telecamere, ma non mi convince. Va bene per il repertorio delle piattaforme ma per la prima serata dovresti smontare quello spettacolo e renderlo televisivo. A volte sono tentato di dire “ora smetto” però lo dico ormai da troppo tempo. Non sento più quella voglia di “esserci”, però se arriva l’idea mi sveglio... Quando Fabrizio Salini, l’ex dg della Rai, mi propose di lanciare Rai Play, ecco quella è stata un’idea, mi piaceva quell’idea. Adesso mi piacerebbe provarmi in un morning show (dalle 7 del mattino in poi, per me le 7 sono già mezzogiorno), ci stiamo annusando per vedere se su Raiuno si possa fare una cosa così in un orario deputato ad altre cose, il mattino ha l’oro in bocca, visto che ormai l’età ci costringe ad alzarci presto. È un’idea prostatica ma in Italia nessuno l’ha mai tentata».
Ancora la famiglia: più volte Fiorello ha confessato che dopo una vita movimentata da cameriere, dj, cantante e animatore, con Susanna ha conosciuto il cambiamento vero perché lei è la donna che ha portato in casa la stabilità (stanno insieme da 26 anni, contro le previsioni dei loro più cari amici). «Dopo il grandissimo successo del Karaoke, a Milano, non sono riuscito a sostenere il peso di una celebrità esagerata e improvvisa. Ero l’uomo più famoso d’Italia e non ho saputo gestire il peso di quel successo, facilissimo passare dall’altare alla polvere. Quando arrivai quinto al Festival di Sanremo del 1995, dove tutti mi davano per vincitore iniziò la discesa. Tra parentesi, devo dire che vinse Giorgia con la stupenda “E poi”. La festa era finita, dicevano che restavo un animatore da villaggi, feci anche un brutto programma tv “Non dimenticare lo spazzolino da denti”, arrivò puntale la depressione e.. il resto è storia. Susanna ha rimesso il treno sui binari. Ero andato a Roma perché Maurizio Costanzo (imitazione di Costanzo) mi aveva chiamato a “Buona domenica”. Una sera eravamo io, Giovanni Malagò e Max Biaggi, e Malagò ci propose di andare a casa di suoi amici per giocare a “Mercante in fiera”, era il periodo natalizio. Una delle amiche di Malagò era Susanna. Il presidente del Coni è stato Cupido, la freccia dell’amore». Dopo la radio, dopo, la televisione, dopo il teatro, arriva la Rete, arrivano i social media...
«Quando sono apparsi i social ho avuto una sorta di ubriacatura. Facebook non mi piaceva, insieme a Jovanotti e Nicola Savino ci buttammo su Twitter, da mattina a sera. “Il più grande spettacolo dopo il weekend” del 2011 era preceduto dal simbolo del cancelletto, l’hashtag, e Ballandi mi fa “ma perché quel segnetto prima del titolo?”. “Bibi, lascia perdere, è una cosa molto avanti, si usa fra i giovani”. Fra la sua perplessità, riuscii a invitare a Cinecittà più di 400 followers. Da Tweeter arrivò l’Edicola, poi ho usato molto i social durante il lockdown con Jovanotti anche per tenere compagnia alla gente, infine ho sentito il bisogno di staccare, di avere un contatto fisico con la gente e soprattutto di non dover dire la mia su tutto. È come aver smesso di fumare, era diventata una roba compulsiva. Anche perché, nel frattempo, ho provato cosa sia l’odio sui social. A Sanremo ho fatto una battuta sui no vax, ma solo su quelli che credono che con il vaccino ci iniettassero anche un microchip e i potei forti. Di fronte a tanta violenza, a tanta ostilità ho chiuso». Una domanda. Se potesse dire una sola parola oggi, quale sarebbe? «Sorriso. Devo spiegare?» No. Grazie.
Da repubblica.it il 19 giugno 2022.
"Sanremo? La mia avventura al Festival è chiusa. Morta e sepolta per sempre": unico momento semiserio di Fiorello nel turbinio di battute e sketch, prendendo di mira tutti, da Eros Ramazzotti a Fiorella Mannoia, che animano il backstage di 'Gigi Uno come te' lo show di Rai1 che celebra il trentennale di carriera di Gigi D'Alessio, in diretta da Napoli da piazza del Plebiscito.
"Amadeus è il mio comico preferito", dice Fiorello facendo irruzione nel camerino dell'amico mentre si cambia le scarpe prima di salire sul palco. È Il momento della reunion degli Amarello, la coppia che ha animato Sanremo, a più riprese, per tre anni consecutivi attraversando anche il momento storico più difficile, con la pandemia e l'Ariston deserto. Mentre Amadeus si prepara ad eguagliare Pippo Baudo e Mike Bongiorno con altri due Festival, arrivando a cinque edizioni consecutive, con un contratto già firmato, Fiorello è sempre imprendibile ed imprevedibile.
"Al direttore artistico di Sanremo hanno dato un camerino cabrio, il più piccolo di tutti! Ama è umile. Non usiamo l'aria condizionata, non c'è, deve morire qui", scherza lo showman mentre l'amico e complice ride. "Il mio camerino si è allagato", spiega il conduttore, riferendosi all'acquazzone pomeridiano che ha ostacolato le prove dello show.
"Chiudiamo la porta?", chiede Niccolò Presta, cercando di proteggere la privacy di Amadeus, artista della scuderia che gestisce con il papà Lucio. "Ma no!", risponde Fiorello rispalancando la porta in mezzo alle risate dei presenti, a partire dalla moglie Susanna. "Facciamo un pò di spettacolo perché c'è tristezza. La gente ne ha bisogno", conclude Fiorello.
Alessandra Comazzi per “la Stampa” il 6 maggio 2022.
Fiorello e la sua generazione, nata ai tempi del boom economico, i cosiddetti «baby boomers»: che adesso non sono più baby, ma si stanno avviando, più o meno serenamente, verso una vecchiaia combattuta, sopportata, sfidata, subita, dipende dai temperamenti. In una società come la nostra che i giovani li maltratta, bene che vada non li considera, essendo i giovani troppo pochi per contare, quegli altri continuano a risplendere.
Ma lo sanno, che il tempo passa: e allora, o fanno finta di niente; o si prendono in giro, usando la formidabile arma dell'ironia, rivolta prima di tutto verso se stessi. Ed ecco la via scelta da Fiorello. Il suo nuovo spettacolo dal vivo dopo cinque anni, Fiorello presenta Fiorello, scritto con Francesco Bozzi, Pigi Montebelli e Federico Taddia (in questi giorni al teatro Colosseo di Torino) è sempre nuovo e sempre diverso, perché Rosario cambia, improvvisa, «non sono un attore ma atto», e il suo «attare» resta un modello insuperato nell'intrattenimento italiano.
Quel tipo di lavoro lì, due ore piene, non si fa più, prevale l'estetica del frammento, i segmenti, in tv, sui social, mordi e fuggi, gira e cambia pagina. Mentre Fiorello organizza ancora uno show con un principio e una fine. Una narrazione.
E sono, le sue, proprio le considerazioni di un baby boomer di 62 anni molto ben conservato. «Anche perché sono uscito dai social. Li seguo, li rispetto, ma non intervengo più in prima persona. Tutti hanno diritto a una risposta, tutti vanno considerati, ma non è umanamente possibile. Meglio astenersi».
Però non si astiene dal prendere in giro TikTok e il suo fantastico passare di palo in frasca, senza soluzione di continuità. Che confusione, sarà perché ti amo. E non lo dico a caso: sulla canzone dei Ricchi e Poveri si innesca un meccanismo di interazione con il pubblico, che canta a squarciagola, nemmeno male, in verità, seguendo la sua direzione.
Pubblico non esentato, d'altronde, dall'ironia dell'uomo.
Ci interpella. «Alzi la mano chi ha meno di 40 anni».
Pochi.
«Meno di 30».
Pochissimi.
«Meno di 20».
Ancor meno. Ci guarda:
«Siete bellissimi. Una bellissima Rsa».
Fiorello cita se stesso e il Karaoke degli anni 90, giacca arancione e coda di cavallo, ma non indulge. Essendo un intrattenitore, «cintura nera di karaoke», ma più in generale di animazione e di conoscenza del pubblico, sa che gli spettatori bisogna sempre portarli a chiedere: ancora. E smettere lì, lasciandoli con l'acquolina in bocca. Perché come diceva Eduardo: «È tanto difficile entrare in scena, ma ancora più difficile uscirne».
Quindi lo show è tutta una combinazione di biografia e musica. Sempre collegate con l'attualità. «Da bambino volevo fare il prete, servivo tutte le messe, mi dicevano: "Vieni avanti, pretino", ero il primo aiutante di padre Lofaro, che adesso ha 85 anni e 4 figli».
Consiglia di non sottovalutarlo, lui conosce anche i compositori classici, Mozart, Beethoven, Chopin e Schubert, di cui lui, ai tempi di padre Lofaro, cantava l'Ave Maria. «Ma perché Schubert non ha fatto anche il Padre Nostro? Aveva avuto tanto successo». Allora risolve, cantando la preghiera sulla musica di Tiziano Ferro e termina con «Ascoltaci o Signore, perché ormai soltanto Lui ci può aiutare in questi tempi di guerra».
Bravo Fiore, la guerra è un argomento troppo serio per dire altro.
Attualità e la pandemia, la gioia per la presenza, le mascherine «che non si cambiano più, nascoste come topi morti in tasca».
Fuori dallo spettacolo, ricorda il suo Sanremo senza pubblico: «Era terribile dire una battuta e non capire se funzionava. Nessun applauso, niente. Una esperienza forte, diciamo».
Non avrebbe fatto meglio Amadeus a lasciare in bellezza, nella gloria degli ascolti?
«Ma no, è il suo mestiere, lui presenta, fa benissimo a continuare. Quello che fa bene a smettere sono io».
Ma adesso che è uscito dai social i giornali di carta li legge ancora?
«Sempre. Sempre mattiniero, vado a prenderli nello stesso posto, la stessa "Edicola Fiore" del programma».
E l'Eurovision?
«Farà meno successo di Sanremo. Scherzo, eh, c'è qui Coletta - il direttore di Rai1 n. d. r - che fa le prove. Dopo che ha baciato sulla bocca Amadeus, può fare di tutto».
Sostenuto dalla band guidata dal magico Enrico Cremonesi «il veganello», Fiorello gioca con musica e canzoni e personaggi. Canta Figli di puttana di Blanco con la voce di Modugno. Fa la linguaccia di Damiano: «Avete mai visto una foto dei Måneskin con la lingua dentro?». Fa l'hully gully di Edoardo Vianello alla maniera del rapper Ghali. Racconta che la mamma di Ornella Vanoni non le permise di cantare Grande grande grande, che poi interpretò Mina, per l'elementare metafora mascherata.
Imita Mahmood: «È arrivato a Torino, è subito andato al Museo Egizio a trovare i nonni».
Canta Elvis Presley come fosse Baglioni. Insomma, gioca sulla sua splendida voce e sul suo eclettismo, «io non so cantante ma canto, non sono un ballerino ma ballo, non sono un attore ma atto», per l'appunto. Presentando se stesso, Rosario parla anche di figlie, «era appena finita l'adolescenza di una, arriva quella dell'altra, queste ragazzine allegre e solari fino a un momento prima di entrare in casa, quando si trasformano nella giovane dell'esorcista, testa al contrario e vomito verde».
Omaggio a Battisti, omaggio a Raffaella Carrà, omaggio a Torino «città degli eventi, dal Salone del libro all'Eurovision, qui capita di tutto. C'è anche il congresso internazionale dei cardiochirurghi, se ci deve venire l'infarto, questo è il posto giusto».
Alessandra Troncana per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.
Primo ordine di fanteria: «Portatelo dal barbiere». Bari, 1982: l'animatore della Valtour è allineato con gli altri soldati semplici nel cortile delle Casermette. Ha la maglietta di Miami beach, la cartolina precetto in mano e i capelli troppo, troppo, lunghi. «L'ho conosciuto così, al 48esimo Reggimento: era già una bomba a orologeria». Autista della Cogeme in pensione dallo scorso agosto, Giuseppe Platto abita a Berlinghetto, in provincia di Brescia, ha una moglie che gli gestisce WhatsApp, un figlio e una foto di lui e Fiorello vestiti da camerieri, con due discutibili giacche rosse e un amaro in mano, con il mignolo alzato: hanno fatto la naia insieme.
«Prima, 45 giorni di addestramento in Puglia. Poi, nove mesi alla caserma Slataper di Sacile, in Friuli: ci sono arrivato in pullman, con il cappotto giallo che mi aveva prestato perché nella mia valigia di cartone avevo solo abiti estivi. Servivamo in sala». Venerdì sera, dopo 40 anni e un appello sul Giornale di Brescia , i due commilitoni si sono dati baci e abbracci nei camerini e sul palco del Teatro Morato, durante lo show del Fiorello nazionale. «L'ho seguito in tour per anni, messaggiato il suo batterista, tentato di contattarlo in ogni modo. Dopo l'intervista, mi ha chiamato il suo manager: Rosario ti aspetta dietro le quinte. Ci è quasi scappata una lacrima: non ho rivisto l'uomo di spettacolo, ma un amico», racconta Platto.
L'insegnante di dialetto bresciano di Fiorello - «Lo usava per rimorchiare le commesse siciliane» - è stato uno dei suoi primi spettatori, il suo pungiball - «Quando dormivo mi metteva le saponette sotto al letto: la mattina mi svegliavo in corridoio» -, il compagno delle domeniche in discoteca. «Nel giro di due fine settimana, è diventato l'idolo della pista».
La vita militare secondo Fiorello: «Non era portato per la fatica (ride, ndr ). Faceva quello che gli saltava in mente. Era amico di tutti, parlava di calcio con i marescialli, imitava chiunque perfettamente». Per gli scherzi, invece, sì: «Sulla mano, al posto del vassoio, mi versava il risotto». Alla fine dell'incontro al Teatro Morato, Platto ha invitato lo showman a Berlinghetto: «Ho gettato l'amo: il mio numero ce l'ha, ora lo aspetto».
Gloria Bertasi per il “Corriere della Sera” il 28 gennaio 2022.
Condomini contro, con decisioni dell'assemblea impugnate dall'avvocato e rapporti tra dirimpettai a dir poco gelidi. Nodo del contendere, un ascensore da realizzare nella corte del palazzo. Che le assemblee tra vicini di casa possano trasformarsi in un incubo, con le famiglie schierate le une contro le altre non è una novità.
Ma quando il condominio in questione non è un palazzone di periferia, ma Ca' Bernardo, immobile quattrocentesco con affaccio sul Canal Grande a Venezia, e tra gli inquilini c'è lo showman Rosario Fiorello in persona, l'affaire ascensore assume tutt' altri contorni. Da tempo, chi vive al secondo piano avanza la proposta di realizzare un ascensore: c'è una signora in carrozzina e il meraviglioso edificio gotico per lei è una trappola tra scale, gradini e dislivelli.
Così all'ultima riunione di condominio la scorsa settimana è stato presentato il progetto - a cura dell'architetto Stefano Zorzi e degli artigiani che hanno curato gli ascensori del Fondaco dei Tedeschi a Rialto e oggi al lavoro a San Marco nel restyling delle Procuratie di Generali - che subito ha surriscaldato gli animi.
«È impensabile realizzare un manufatto del genere in un cortile come il nostro, da tutelare per il suo pregio artistico e culturale non da deturpare con un intervento del genere», la posizione di Gaby Wagner, ex modella, designer e fotografa che con il marito, l'avvocato Jean Marie de Gueldre, occupa un'ala di quel palazzo non distante da campo San Polo, dalla facciata neogotica, due piani nobili e pietra d'Istria.
Proprio qui, in uno dei suoi tanti investimenti immobiliari, ha preso casa Fiorello al terzo e ultimo piano. «Lo sta restaurando per creare due appartamenti, uno sarà venduto», spiegano i vicini di casa. L'ascensore, va da sé, può farne salire il (già alto) valore. «Si può rendere accessibile la casa in un modo più rispettoso», sottolinea Wagner, la cui posizione, però, è rimasta isolata. Tutti hanno infatti votato sì all'intervento, Fiorello compreso. «Il progetto prevede che si inseriscano le corsie del manufatto tra le finestre della mia camera da letto, i disagi saranno notevoli», continua la designer il cui timore è che il manufatto sia usato dagli ospiti dei due appartamenti turistici del secondo piano.
In realtà, garantisce Zorzi, «l'ascensore sarà insonorizzato e saranno usati materiali in sintonia con l'edificio: ci sarà una "cabina" nuda il cui armano non sarà a vista». L'impatto dovrebbe cioè essere minimo e, comunque, l'ultima parola sul da farsi spetterà alla soprintendenza il cui parere, come in tutti i centri storici, è vincolante.
«È garante della tutela dei beni culturali», precisa l'assessore comunale all'Urbanistica Massimiliano De Martin. La bagarre su Palazzo Bernardo ha rinfocolato il dibattito sul futuro di Venezia, divisa com' è tra posizioni più conservatrici sulla tutela dei suoi edifici e tra chi invece è più aperto a intervenire in nome della modernità. Un dibattito antico a Venezia (negli anni '70 Le Corbusier non riuscì a realizzare il suo ospedale), ma sempre più attuale oggi che la pandemia ha messo in ginocchio l'economia della città, i cui residenti sono sempre più anziani e diminuiscono di giorno in giorno.
«Vivere a Venezia comporta molte difficoltà, tra cui il dover fare magari quatto o cinque piani a piedi - dice De Martin -. Se si vogliono raggiungere standard abitativi di qualità, non invasivi e inclusivi, si possono studiare progetti che poi la soprintendenza valuterà tutelando palazzi e monumenti».
Beppe Fiorello compie 53 anni: gli inizi nei villaggi turistici, la vita privata riservatissima e gli altri 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.
Da «fratello di Rosario» a «re delle fiction»: una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sull’attore nato a Catania il 12 marzo 1969.
Gli inizi nei villaggi turistici
«Non avevo il sogno di fare l’attore. Con il tempo ho capito chiaramente che mi piaceva l’idea di raccontare storie, dovevo capire in che forma, ma quella era la mia vocazione. E il destino va sempre incontro alla vocazione, ognuno di noi ne ha una che prima o poi verrà fuori. Non è un caso che il 90% delle mie storie per il cinema e la tv siano storie vere: ho un’attrazione dettata dalla curiosità di crescere attraverso le storie degli altri». Compie oggi 53 anni Beppe Fiorello (Giuseppe all’anagrafe), attore, produttore cinematografico e sceneggiatore soprannominato anche «re delle fiction» per il gran numero di storie raccontate sul piccolo schermo nel corso della sua lunga carriera. Fratello minore di Anna, Catena (scrittrice e autrice televisiva) e del famoso showman Rosario, Beppe Fiorello è nato a Catania il 12 marzo 1969. Cresciuto ad Augusta ha iniziato a lavorare accanto a Rosario come tecnico al villaggio turistico Valtur a Brucoli e successivamente in quello di Pila. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Al Karaoke
Nel 1994 Beppe Fiorello approda in televisione al timone del Karaoke, condotto in precedenza (e portato al successo) dal fratello Rosario. In seguito però si è pentito di questa scelta: «Fino a qualche anno fa dicevo che non me ne ero pentito - ha detto in una intervista a Diva e Donna -. Ora invece lo ammetto: mi sono pentito di aver seguito le orme di mio fratello Rosario alla guida del Karaoke».
L’incontro che gli ha cambiato la vita
Il debutto al cinema di Beppe Fiorello risale al 1998: venne scelto dal regista Marco Risi per il film «L'ultimo capodanno». Gli suggerì di tentare il provino un allora scrittore emergente: Niccolò Ammaniti. «In un bar di Riccione incontrai Niccolò Ammaniti, era un giovane scrittore poco noto - raccontava Fiorello al Corriere -, mi disse di andare a Roma a fare un provino per un film di Marco Risi tratto da un suo racconto. Arrivato a Roma ci sono rimasto».
L’approdo in tv con «Ultimo»
«Ultimo», miniserie di Stefano Reali con Raoul Bova, per Beppe Fiorello sarà un vero e proprio trampolino di lancio nel mondo della televisione. L’attore presta il volto all'appuntato Domenico Nocelli detto «Parsifal» e successivamente lavorerà in numerose fiction Rai: interpreterà Salvo D'Acquisto, il vicebrigadiere dei Carabinieri ucciso dai nazisti, nel 2003, il capitano del grande Torino Valentino Mazzola nel 2005, San Giuseppe Moscati nella miniserie del 2007 sulla sua vita, e molti altri uomini comuni che la vita ha reso eroi. «Dietro ogni uomo si nasconde una storia che vale la pena raccontare».
Il grave incidente sul set
«Nel 2004, sul set di Joe Petrosino, ho rischiato di morire», ha raccontato l’attore a Vanity Fair. Durante le riprese della fiction infatti è rimasto coinvolto in un brutto incidente, ed è riuscito a salvarsi per miracolo: è caduto da una carrozza trainata da quattro cavalli riportando fratture a naso, spalle e gambe. «La ruota ha creato un’intercapedine nel terreno che ha impedito al cocchio di schiacciarmi». In seguito, ha rivelato, si è rivolto ad un terapeuta per riuscire a superare il trauma.
L’interpretazione di Domenico Modugno
Beppe Fiorello è cittadino onorario di Polignano a Mare, paese che ha dato i natali a Domenico Modugno. L’attore, cresciuto con la sua musica grazie alla passione del padre Nicola, ha interpretato il grande cantautore nell’apprezzata miniserie «Volare - La grande storia di Domenico Modugno», diretta nel 2013 da Riccardo Milani. «Solo io potevo interpretare Domenico Modugno, ci somigliamo fisicamente e vocalmente - raccontava a Tv Sorrisi e Canzoni -. Anche la moglie Franca in una scena mi ha scambiato per lui». A Modugno Fiorello ha anche dedicato uno spettacolo teatrale (trasmesso in tv da Rai 1 nel 2021): «Penso che un sogno così».
Regista, produttore e sceneggiatore
Oltre a recitare sul piccolo e grande schermo (nel suo curriculum ci sono anche pellicole come «C'era un cinese in coma» di Carlo Verdone, «Baarìa» di Giuseppe Tornatore, «Magnifica presenza» di Ferzan Özpetek, «Benvenuto Presidente!» di Riccardo Milani e «L'oro di Scampia» di Marco Pontecorvo) Beppe Fiorello si è seduto dietro la macchina da presa, per il film del 2021 «Stranizza d’amuri» (che ha anche prodotto). È stato poi produttore e sceneggiatore di film e serie tv come «L'angelo di Sarajevo» e «Io non mi arrendo», per la regia di Enzo Monteleone (2015 e 2016), «I fantasmi di Portopalo» diretto da Alessandro Angelini (2017), «Chi m'ha visto» di Alessandro Pondi (2017) e «Il mondo sulle spalle» di Nicola Campiotti (2019).
Insieme a Rosario
Insieme al fratello Rosario nel 1999 Beppe Fiorello ha recitato ne «Il talento di Mr. Ripley», film diretto da Anthony Minghella con Matt Damon, Jude Law e Gwyneth Paltrow. I due fratelli sono apparsi insieme anche nel videoclip del singolo di Biagio Antonacci «Mio fratello», diretto nel 2018 da Gabriele Muccino. «Ho visto Beppe e Rosario che si guardavano con affetto, che si lasciavano andare, che cercavano complicità nell’altro».
Ha salvato la vita ad un uomo
Ospite a Oggi è un altro giorno nel 2020 Beppe Fiorello ha rivelato di aver salvato la vita ad un uomo mentre si trovava in spiaggia, in Sicilia: «Credo di aver salvato la vita ad un uomo, non ne ho mai parlato ma la tua domanda ha stimolato il mio ricordo. Era un tedesco in vacanza con suo figlio, stava cercando di fare una capriola ma era caduto di testa e si era rotto l’osso del collo». L’attore ha soccorso il turista insieme all’amico che era con lui ed è rimasto fino all’arrivo dei sanitari.
Riservato sulla vita privata
Beppe Fiorello è sempre stato estremamente riservato sulla sua vita privata. Il 16 ottobre 2010 ha sposato la sua storica compagna Eleonora Pratelli in una chiesa all'interno del Vaticano. Il loro è stato un vero e proprio colpo di fulmine: dopo essersi conosciuti per lavoro (lei è stylist) si sono incontrati per caso su un volo per Los Angeles. La coppia ha due figli: Anita (2003) e Nicola (2005). «Quando è nata mia figlia ero molto spaventato dalla responsabilità di crescere una femmina - raccontava l’attore a Donna Moderna -. Temevo di diventare troppo geloso, perché lo ero da fidanzato. Ma pian piano sono riuscito a costruire con lei un rapporto di piena fiducia, e dopo l’ho fatto anche col maschio».
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 21 giugno 2022.
Ecco una frase molto scorretta e che ci piace molto. Tanto da proporla come slogan della nostra personalissima battaglia contro la cancel culture: «Every joke has a victim».
Chi l'ha detta? L'attore Rowan Atkinson, uno dei comici più popolari e amati della sua generazione, per tutti Mr. Bean, assieme a Benny Hill il personaggio muto più divertente della storia recente della comicità.
E si sa: chi non parla mai quando poi apre bocca, ogni parola è una sentenza.
La sentenza di Rowan Atkinson - affidata a un'intervista al quotidiano The Irish Times in occasione del suo nuovo show per Netflix Man vs. Bee - è lapidaria, la pietra tombale sulla cancel culture: «I comici dovrebbero essere in grado di fare battute su qualsiasi cosa. Credo che il compito della comicità sia quello di offendere, o di avere il potenziale per offendere. Ogni scherzo ha una vittima».
E manda un avvertimento a tutti quanti: i poliziotti del linguaggio, le erinni del politicamente corretto, gli «inclusivisti» a tutti i costi, le femministe a senso unico: «Bisogna stare molto, molto attenti a dire su cosa è permesso fare battute. In una vera società libera, dovresti essere autorizzato a fare battute su chiunque e su qualsiasi cosa». Perché - si chiede Rowan Atkinson, e noi con lui - a un certo punto «la sinistra progressista ha tentato di dire alla gente su chi può e non può fare battute?».
Rowan Atkinson, del resto, è da tempo su posizioni del genere. In passato ha appoggiato la campagna contro il «Religious Hatred Act» - che considera reato l'incitamento all'odio contro una persona sulla base della sua religione - proprio per permettere agli artisti di potere ironizzare su qualsiasi fede: islamica, cristiana, ebraica... E in un'intervista al quotidiano tedesco Die Welt del 2018, dichiarò: «Credo davvero all'importanza fondamentale della libertà di parola e di espressione delle proprie opinioni.
E senza il diritto all'offesa il concetto di libertà di parola è un concetto vuoto».
«Purtroppo - aggiunse Rowan Atkinson in quella circostanza - mi sembra che stiamo perdendo sempre più, e sempre più rapidamente, la battaglia per il diritto di far arrabbiare qualcuno. Ed è molto triste. Da che cosa dipende? Il fatto curioso è che il meccanismo che minaccia la libertà di parola in ultima analisi ha la sua origine in quei social media che si basano proprio sul principio della libertà di parola. In teoria su Internet tutti possono dire tutto, ma non appena lo fanno ci sono milioni di altri individui che rivendicano idee diverse... Vengono cioè impiccati e squartati da persone che fanno nello stesso tempo i giudici e i boia». A dimostrazione che i comici, a volte, sanno dire cose molto serie.
Russel Crowe: «Da cameriere in Australia a Hollywood. Sono la prova vivente che tutto è possibile». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022
Fuma, dice tante parolacce (anche in italiano) e grazie a un metodo tutto suo è diventato uno degli attori più famosi del mondo: «Non imito nessuno emi sforzo di non essere mai finto. Come quella volta dei capelli...»
Russell Crowe, 58 anni, è nato a Wellington, in Nuova Zelanda: i suoi genitori gestivano i catering dei set cinematografici
« Usciamo, che dici?». Non si dice no a Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio: anche se oggi il gladiatore ha la barba grigia di Zeus e indossa un bell’abito italiano, i bicipiti sono quelli dei bei tempi, contenuti a malapena dal fresco lana blu color notte da amministratore delegato, e così l’intervista programmata sui divani di una bella sala conferenze in un albergo extralusso a pochi passi da Trinità dei Monti a Roma viene trasferita, d’imperio, all’esterno. Esterno che in questo caso non può essere necessariamente in strada, per evitare il bagno di folla tra i turisti, ma in una piccola area di pochi metri quadrati, quasi un ballatoio, dove il personale delle pulizie deposita secchi, scopettoni, stracci, e vengono accatastate le seggiole in eccesso della sala conferenze. «Ecco qua», dice Russell Crowe porgendo in scioltezza una sedia all’intervistatore – ha le mani del gladiatore, simili a delle vanghe – mentre si accomoda sereno accanto a un grosso lavapavimenti rotante in microfibra appoggiato al muro.
Macché Covid, all’aperto per poter fumare
Scopo del trasferimento: non tanto respirare aria fresca, che è sempre una buona cosa in tempi di Covid (tempi nei quali prima di avvicinarsi seppur con mascherina alle star di Hollywood si viene sottoposti a tampone nasofaringeo) ma più che altro permettere all’intervistato di accendere, inalando golosamente, una sigaretta. Un gesto normale, se non fosse per la stranezza di vedere attraverso una leggera coltre di fumo l’uomo che ha incarnato sullo schermo nell’Insider di Michael Mann il chimico Jeffrey Wigand, che negli Anni 90 inguaiò l’industria del tabacco rivelandone i meccanismi produttivi e di marketing fino a quel momento invisibili al pubblico. «Lo so» ride Russell Crowe «che ci vuoi fare? Fumo fin da ragazzo, e pensare che in passato avevo anche smesso, per un po’... La mia vita è cambiata con L.A. Confidential di Curtis Hanson, non c’è dubbio, e con Ridley Scott ho sempre avuto un rapporto speciale in tutti questi anni (cinque film insieme, dal 2000 al 2010: Il gladiatore, Un’ottima annata, American Gangster, Nessuna verità, Robin Hood; ndr) ma Insider resta un film al quale sono molto legato. Al di là delle sigarette».
«QUANDO SONO A ROMA MI SENTO UN PO’ LO ZIO DI TUTTI PERCHÉ TUTTI MI HANNO FATTO SENTIRE SUBITO COME SE FOSSI UNO DI LORO»
Crowe si fa serio alla domanda – scherzosa – se preferisce essere chiamato “ambasciatore”, visto che l’incontro con 7 è avvenuto poche ore dopo l’affaccio dal balcone dello studio del sindaco Roberto Gualtieri sui Fori imperiali, culmine della cerimonia di consegna dell’onorificenza che ha reso l’attore “Ambasciatore della città di Roma nel mondo”. «È una cosa che mi ha sinceramente sorpreso e commosso: un onore, soprattutto una grande responsabilità. Essere testimone di questa storia millenaria, di questo patrimonio immenso di cultura… Fatico a esprimere la mia riconoscenza, come ho detto al sindaco sarò sempre al vostro servizio. Da subito i romani mi hanno fatto sentire uno di loro, con la loro umanità speciale: ormai in strada sento un ahò che mi viene rivolto a alta voce e rispondo la stessa cosa… Sono anch’io romano ormai – anche se vengo dall’altra parte del mondo».
Quanti divi di Hollywood si comporterebbero così? Quanti non soltanto riderebbero di gusto davanti a un giovane fan che dice loro “te perdóno pure che sei laziale” ma soprattutto gli risponderebbero romanescamente “Esticazzi”? «Mi sento un po’ lo zio di tutti, quando mi ritrovo qui tra i romani. Ho partecipato a una conferenza l’altro giorno con gli studenti, ho un po’ scherzato ma ho consigliato loro una cosa: non lasciate che qualcuno vi dica che certe cose sono impossibili da realizzare. È così, io sono la prova vivente di questo fatto». È venuta giù la sala dagli applausi. «Sì, mi vogliono bene. Qui la gente è sinceramente felice di vedermi».
«’POKER FACE’? IL REGISTA È ANDATO VIA, SONO SUBENTRATO, RISCHIAVANO IL POSTO 300 PERSONE. SON CRESCIUTO TRA GLI IMMIGRATI, NON A HOLLYWOOD»
Crowe era a Roma per presentare il suo nuovo film, del quale è regista oltre che interprete, Poker Face, nei cinema il 24 novembre, distribuzione Vertice 360. Un miliardario – reso ricco dal settore tech – organizza una partita a poker con gli amici, con una posta decisamente insolita. È all’apparenza un thriller, ma un thriller atipico, che dice cose molto serie sulla vita, sul lutto, su quello che lasciamo alle nostre spalle, con un finale che colpisce al cuore. «Come regista, è il tema che più mi interessa: il dolore per la scomparsa di qualcuno che amiamo». I finanziatori che dicono? Al netto che Crowe è regista di sé stesso, e il Crowe attore vende biglietti automaticamente, il tema del lutto non è esattamente una calamita per il pubblico.
«Un’esperienza che non consiglio a nessuno»
«Nel primo film che ho diretto, The Water Diviner, otto anni fa, la storia vera di un padre australiano che va fino a Gallipoli nel 1919 per riportare a casa i figli caduti, c’era il tema della guerra, e i film di guerra sono più semplici da vendere, hanno sempre un loro mercato, difficile sbagliare. Questo Poker Face? Be’, l’abbiamo girato durante il lockdown per questa cazzo di pandemia, lavorare era quasi impossibile, e io sono subentrato a un regista che a sole cinque settimane dal primo ciak si era chiamato fuori, un’esperienza che non consiglio a nessuno. Mio padre era morto da poco. Quasi trecento persone della troupe sarebbero rimaste senza lavoro, quella è gente che si guadagna il pane, non parliamo di celebrities, parliamo di gente normale. Pertanto, no, ci mancava solo che i produttori mi rompessero anche le palle. Non mi interessava raccontare una storia di cazzate hollywoodiane, un film d’azione, vuoto».
«L’EGO CI VUOLE: RECITARE È CONVIVERE CON LA DELUSIONE, CON IL FALLIMENTO, CON IL FATTO CHE UN LAVORO CHE SOGNAVI FINISCE A UN ALTRO»
Il cast è di lusso: oltre a Crowe, Liam Hemsworth, RZA che partendo da rapper del mitologico Wu-Tang Clan è diventato un attore interessante, Brooke Satchwell, Aden Young. Vent’anni dopo, è giusto ricordare ai più giovani come Crowe sia stato assolutamente dominante nel cinema americano dell’inizio del secolo. Le copertine delle riviste, idolo di milioni di donne etero e uomini gay, molto bello, divo da grandi incassi al box office ma anche – combinazione molto rara – grande interprete: tre nomination all’Oscar come miglior attore protagonista in tre anni (2000, 2001, 2002) e una vittoria (per Il gladiatore), quello che gli americani chiamano, mutuando un termine dallo sport, threepeat. Una categoria, quella della tripletta di nomination consecutive, riservata soltanto a dieci divinità del cinema: Spencer Tracy, Gary Cooper, Gregory Peck, Marlon Brando, Richard Burton, Al Pacino, Jack Nicholson, William Hurt. Dopo Crowe c’è riuscito solo Bradley Cooper. Eppure Crowe è diverso, il pubblico lo percepisce a pelle, anche prima della sua partecipazione alla Festa del Cinema di Roma, dove ha presentato Poker Face. Perché il pubblico lo sente così diverso dai colleghi? Zero capricci, niente chirurgia estetica (dimostra la sua età), niente stylist, niente precondizioni alle interviste, niente liberatorie da firmare o accordi di confidenzialità sui contenuti fino a una certa data.
«LA FAMA MONDIALE? ME NE SONO RESO CONTO LA PRIMA VOLTA CHE MI HANNO DETTO CHE DOVEVO METTERE UN CAZZO DI VESTITO ELEGANTE ALTRIMENTI NON POTEVO ENTRARE NEI CLUB DEI RICCHI»
«Perché non sono americano. Perché non vivo a Hollywood. Perché non vado alle feste dei produttori. Sono nato in Nuova Zelanda, vivo in Australia, in una fattoria, a sei ore e mezza di macchina da Sydney, otto ore se guidi normalmente (sorride; ndr). Sono cresciuto in mezzo agli immigrati. Dico le parolacce. Anche in italiano, ormai. La prima volta che mi hanno detto che dovevo mettere un cazzo di vestito elegante altrimenti non potevo entrare nei club dei ricchi mi son detto, che cazzo sta succedendo? Prima mi vestivo come capitava. In un certo senso non me ne capacito neanche adesso, dopo tutti questi anni, di quello che è successo». È successa la fama globale. «Una volta, la mamma era al lavoro, al catering per la troupe che stava girando una serie tv. Ero andato a trovarla. Avevo sei anni. 1970. Mancava un bambino, per una piccola parte, praticamente da comparsa, e mia mamma ha detto: se avete bisogno c’è lui. Non sono mai andato a scuola di recitazione. Da adolescente ho cominciato a suonare con una band. Poi un po’ di teatro, i classici, Shakespeare, ma soprattutto facevo musical, il mercato chiedeva quello: Grease, e 415 serate di Rocky Horror Picture Show, nelle more per mantenermi facevo il dj, il barman. Anche il cameriere, spesso nella stessa serata, dopo uno show».
La performance si studia anche tra i tavoli
Era bravo? «Come cameriere? Cazzo sì, ero un bravo cameriere, correvo come un matto. Come attore? Diciamo che cercavo di imparare. Soprattutto una cosa: la performance. Esibirsi, dal vivo, davanti a un pubblico. Teatro, suonare rock, fare il dj. Contava la performance. È tuttora la mia passione. Più del cinema. Però scrivere canzoni è un’altra mia passione, ma non ci campo. Insomma da ragazzo, guardando gli attori professionisti, al cinema, in tv, coltivando questa passione assoluta, da un lavoretto ne è nato un altro. E alla fine, a 25 anni, l’occasione della vita: Blood Oath, un film di guerra, una piccola parte. Ma bastava quella». Bastava quella, quando uno è bravo e carismatico come Crowe: due anni dopo, ecco il primo ruolo da protagonista, lo skinhead di Romper Stomper, difficile da dimenticare. Tre anni dopo era già a Hollywood, Pronti a morire, con Sharon Stone al vertice della fama e un altro emergente, un certo Leonardo DiCaprio.
«Quel giorno che smisero di pagarmi l’hotel»
Da lì a L.A. Confidential e Insider è stata una strada in discesa? «Magari. Il regista voleva me, uno sconosciuto, anche se i produttori pretendevano una grande star già affermata, uno che aveva già vinto l’Oscar, e me ne stavo lì in un bell’albergo a Los Angeles aspettando l’inizio delle riprese quando a un certo punto smettono di pagarmi il conto dell’albergo e lì capisco che butta molto male. Io tra l’altro allora non avevo risorse per pagarmelo da solo, l’albergo. Però alla fine ha vinto il regista, il film l’ho fatto io. Anche se inizialmente ero molto molto insicuro. La sceneggiatura diceva che il mio personaggio era un gigante, il poliziotto più spaventoso di Los Angeles, dalla forza mostruosa. Mi vedi, sono di statura media… ma è andato tutto bene. È un bel film».
Se hai successo, non devi perdere la testa
Come si gestisce la fama? L’effetto sull’ego? «L’ego ci vuole, soprattutto in questo mestiere, perché recitare è convivere con la delusione, con il fallimento, con la necessità di digerire che un lavoro che sognavi è finito a qualcun altro. L’ego ti aiuta a difenderti, è uno scudo, o meglio un’intercapedine tra te e la delusione. Certo non devi perdere la testa. Però se sei un attore, il mestiere che fai è sottomettere te stesso al personaggio. C’è chi lo vede come un sacrificio, ma se mi chiedono che mestiere faccio dico: reggo la tavolozza dei colori di Ridley Scott. Mica male, eh?». Crowe è un attore autodidatta ma ha affinato un metodo personalissimo, basato sulla messa a punto dei particolari come chiave di volta di un’interpretazione. «Insider era una storia vera ma non ho voluto conoscere prima Jeffrey Wigand, non sono un imitatore. Avevo il problema dell’età, lui aveva 25 anni più di me, era uno scienziato con la pancia e io allora ero magro, e sono ingrassato apposta, un’altra cosa che non consiglio. Ma i capelli non funzionavano, più me li tingevano di grigio e li sfoltivano col rasoio più mi sembravano finti. Mi sembravo finto».
I capelli da vecchio «come Dante Spinotti»
«Un giorno stavamo facendo una prova e dico al regista, Michael Mann: vorrei avere i capelli da vecchio, come quelli di Dante. E indico Dante Spinotti, il direttore della fotografia». E lui? «E lui si è incazzato, chiedeva: cosa hanno che non va, i miei capelli? Poi però mi hanno fatto una parrucca uguale ai capelli di Dante, e ho trovato il personaggio. Povero Dante: nella foga del momento ci rimase male, ma è una persona deliziosa e un grande direttore della fotografia. Sa che quella volta la produzione, nella campagna per gli Oscar, voleva sostenere Pacino, co-protagonista insieme con me, ma lui disse “date una mano al ragazzo, è il suo turno”? Quella è generosità vera, una lezione che non ho dimenticato».
Quello Zeus con l’accento british
Crowe fuma, dice le parolacce, e in Thor: Love and Thunder ispirato al fumetto Marvel è uno Zeus umano troppo umano. «In quel caso il problema del personaggio era l’accento: il regista voleva l’accento oxfordiano, ma che c’entrano gli dei dell’Olimpo con l’Inghilterra? Allora abbiamo fatto in due modi, ho usato l’accento che voleva il regista ma abbiamo rifatto le stesse scene con un accento greco, cosa che al giorno d’oggi fa agitare le persone (nel mondo anglosassone c’è un dibattito molto serio sulla cosiddetta appropriazione culturale, che vieterebbe imitazioni di gruppi etnici ai quali non si appartiene; ndr)». E alla fine? «Alla fine hanno fatto come dicevo io».
Sanremo 2022, Rkomi: «Il rap non sa più innovare. Porto al Festival la mia rivoluzione rock». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
L’artista in gara con «Insuperabile»: «Un brano su una relazione difficile». Esterno notte. Una Mustang nera gira per Milano. A bordo c’è Rkomi che racconta l’avventura che lo aspetta con il Festival di Sanremo. Fino a un paio d’anni fa uno nella sua posizione («Taxi Driver» è il disco più venduto del 2021) non ci sarebbe andato. Troppo rischioso. Le logiche del music business sono cambiate e se una nicchia anagrafica può bastare per esplodere il successo nazional popolare passa ancora per tv e radio. «Voglio coronare un anno intenso. Ogni giorno devi farti la barba, non puoi sederti sugli allori. Nella vita come nella musica mi affascina il cambiamento», Racconta Rkomi, inversione delle sillabe del nome di battesimo di Mirko Martorana.
Nella sua carriera il cambiamento è stato passare dal rap, di cui è stato promessa, a un pop fatto di introspezione, melodia e un flusso di parole in cui restano comunque alcuni segni del passato artistico. «Taxi Driver» lo ha fatto esplodere con una serie di ospiti come Tommaso Paradiso, Gazzelle, Gaia, Sfera Ebbasta. «Ci ho ragionato tanto e ho capito che più che tradire il rap avrei tradito me stesso rimanendo fermo. Non l’ho fatto per vendere di più, il rap allora era il genere più in auge, ma per seguire quello che sentivo. Nelle scelte artistiche del rap, anche di grandi come J. Cole o Kendrick, non vedo novità. E pensare che odiavo pop e rock...». Quella che lui chiama «accettazione» è giunta con «Dove gli occhi non arrivano» nel 2019. «Ero ancorato al passato e non ancora sicuro. “Taxi driver” è stato il disco della consapevolezza. L’amore invece è scoppiato negli ultimi 8 mesi, da quando prendo lezioni di piano».
Durante il tour di quest’estate si è spinto verso il rock e la voglia di strumenti veri. A Sanremo porta «Insuperabile», brano con un riff alla «Personal Jesus»: «Nel testo c’è un parallelo fra una relazione conflittuale, in cui lei è coinvolgente e pericolosa, e un’auto». Ecco perché il giro in Mustang, che sarà anche sulla cover della nuova versione di «Taxi Driver», ampliata da altri brani inediti tra cui quello con Elodie in radio in queste settimane, uno con Dargen D’Amico e uno con Karakaz, rocker visto nell’ultimo «X Factor».
Nella serata cover del festival porterà un medley di Vasco: «Ci sarà di sicuro “Fegato spappolato” che per me era già rap... Canto un sacco di brani di altri, avevo pensato di portare Dalla, De Gregori, Fossati, Battisti..., ma poi mi sono reso conto che certe cose non le puoi vestire. Anche Vasco è intoccabile, ma lo ascolto sin dalle scuole medie grazie a un amico che era fan». La strada, la notte... spesso è il mondo del rap... «Fino a una certa età ho vissuto solo il quartiere, sono cresciuto a Calvairate, zona piazzale Cuoco, e non conoscevo il resto di Milano. Non era Compton, ma certe cose le ho viste e alcune piccole le ho anche fatte e le ho descritte nei primi due anni di musica».
Non ci vive più nel quartiere, ma ci ha aperto una palestra di muay thai con l’idea di far pagare i ragazzi in base al reddito. Uno modo per restituire: «Avevo 18 anni, mi facevo le canne in piazza e mi incuriosì un cartello che pubblicizzava dei corsi. All’inizio non avevo soldi e non mi facevano pagare. Ora siamo diventati una famiglia e abbiamo aperto la palestra in cui c’è uno spazio lettura e uno PlayStation».
Ecco la sorpresa Rkomi. "A Sanremo sarò in gara soltanto con me stesso". Paolo Giordano il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il disco "Taxi driver" è stato il più venduto del 2021: "Per me inizia un'altra corsa".
Pronti, via: inizia un'altra cosa. Milano Sanremo, destinazione Festival. Rkomi ne parla mentre attraversa la sua città a bordo di una Mustang nera e potente, identica a quella che è in copertina sul disco Taxi driver. «Sono fiero e orgoglioso di poterci andare» spiega adesso che sta preparando le valigie. «Ogni mia scelta è sempre naturale e anche a Sanremo arrivo con la stessa mentalità: ho sempre fatto tutto passo dopo passo e sarò in gara solo con me stesso cercando di essere credibile come ho sempre provato a fare».
In effetti è difficile dire che questo milanese 27enne non lo sia, credibile. Non è uscito da nessun talent show. Non sfrutta alcun volano social per mettersi in mostra a costo zero. Ha investito su se stesso e adesso è in gara con Insuperabile con tanto di chitarrone alla Personal Jesus dei Depeche Mode: «Quella canzone rappresenta ciò che vorrebbe essere Taxi Driver, ossia una rappresentazione di tanti generi musicali».
Da Corso Italia alla «circonvalla». Dal centro alla periferia, ossia il percorso inverso di questo ragazzo introverso che potrebbe essere uscito da un film di Pietro Germi negli anni Cinquanta. Gli occhi malinconici. La voglia di mettersi in gioco e di crescere. C'è molto neorealismo nella storia di Mirko detto Rkomi che oggi è il fenomeno musicale più luminoso del bigoncio. «Sono nato a Milano in piazzale Cuoco e per vent'anni non sono praticamente mai uscito da lì, salvo un viaggio in Francia con mio zio e le vacanze ad Albisola, dove ho conosciuto Tedua».
Non parla mai per caso, Rkomi. Pensa.
Riflette prima di rispondere.
«Ho capito subito che non seriva soltanto il talento ma bisognava costruire qualcosa passo dopo passo». Mentre la Mustang ingrana la quinta, Rkomi, che in realtà si chiama Mirko Martorana, parla della musica con la quale è cresciuto: «Il mio eroe musicale è Chris Cornell, poi ci sono Ozzy Osbourne, Iggy Pop, Primus, Morphine, David Byrne, Queens of the Stone Age, Jack White, Dave Gahan dei Depeche». Rock, molto rock. Ma non solo. «Per la serata delle cover, avevo pensato di interpretare un brano di Battisti oppure di Dalla, magari anche Fossati. Ma poi mi sono reso conto che non posso fare altro che Vasco, che non è un rapper ma rappa. Perciò ho scelto un medley di suoi brani tra i quali Fegato, fegato spappolato, che è attualissimo. Con me ci saranno i Calibro 35». Anche loro milanesi. Anche loro indefinibili.
Dopotutto Rkomi è come la Mustang che lo porta in giro in una gelida serata a Milano, passa da una zona all'altra, da uno stile all'altro conservando la propria identità da neorealista della musica italiana: ben legato alle tradizioni ma desideroso di andare oltre.
Ha iniziato come rapper duro e puro con i mixtape Keep Calm nel 2012, Quello che non fai tu e, l'anno successivo, Cugini Bella Vita fino al più conosciuto Calvairate Mixtape, poi cita Heidegger in Dasein Sollen e arriva al primo disco Io in terra, seguito da Dove gli occhi non arrivano, entrambi al primo posto in classifica. Nulla al confronto di Taxi driver, uscito ad aprile 2021 e diventato il più venduto dell'anno.
Ora Taxi driver uscirà con una versione extralarge, che comprende otto tracce dal 28 gennaio con i featuring di Dargen D'Amico (Maleducata), di Karakaz (Ho paura di te) e di Elodie (La coda del diavolo) che è già stato pubblicato in autunno e, tra l'altro, al momento è il più ricercato su Shazam. «Certo, è passato tanto tempo da quando frequentavo l'istituto alberghiero e sognavo la musica. A un certo punto, a diciassette anni e mezzo, ho smesso perché mi avevano offerto un posto in una trattoria di San Donato e io ho subito accettato perché volevo avere dei soldini a fine mese. Una scelta stupida», spiega lui quasi scusandosi. L'altro giorno, provando il brano con l'orchestra di Sanremo all'Ariston «sul palco mi sono venuti i brividi sentendo tutti i maestri che provavano i loro strumenti per iniziare il mio brano, un istante lunghissimo e per me indimenticabile». Quando arriverà in scena per la gara, dovrà solo ingranare la prima e partire per un'altra corsa, senza pensare che è quella sognata da sempre. Paolo Giordano
Roberto Faben per “La Verità” il 14 agosto 2022.
Nella prima puntata di Rischiatutto, il 5 febbraio 1970, viso e minigonna di Sabina Ciuffini conquistarono gli italiani. Trascorso mezzo secolo, il mondo di allora è a stento riconoscibile.
Ma il dolce sorriso della valletta di Mike resiste e sa svettare sugli impulsi della malinconia. Forse perché è nata sotto il segno del Leone, precisamente il 4 agosto 1950 a San Juan, in Argentina, da genitori italiani. Pur nell'atmosfera di spaesamento e disincanto di oggi, la fermano per strada, per un autografo e un complimento, giacché essa resta un simbolo di quell'Italia rimpianta, quando la tivù, con le sue figure, faceva sperare che il popolo della penisola fosse un'unica, grande famiglia.
Roma le manca?
«Vivo a Milano da tanto, ma Roma è la mia città. La mia famiglia, purtroppo, non c'è più.
Li ho persi tutti. Lì ho amici, anche se è difficile localizzarli. Ricordo il Piper, le passeggiate attorno a Roma. Poi Mike mi ha portato a Milano. Arrivai nel 1970, era speciale in quel periodo, piena di artisti.
Con la mia solita fortuna, capitò che due concorrenti di Rischiatutto, i fratelli Maroni, mi fecero acquistare un albergo in una zona un po' malfamata, a Brera. Avevo un fidanzato appassionato di cucina milanese e dà lì nacque l'Antica locanda Solferino, così non ho mai avuto il tempo di andare per forza in televisione. Ho anche prodotto un cortometraggio, storia di bambini jugoslavi».
Qual è stata la professione di suo padre?
«Dopo un grande matrimonio, sono scappati a Buenos Aires, e in Argentina siamo nate io e mia sorella. Faceva l'architetto e lì si occupò di case anti-terremoto. Poi tornammo in Italia, avevo tre anni. Divenne un grosso produttore pubblicitario, con Luciano Emmer Conobbi tanti personaggi di Carosello Virna Lisi».
Il fatto che Mike l'abbia scovata all'uscita dal liceo classico «Giulio Cesare» a Roma è storia. Ma l'esatto fotogramma di quell'incontro?
«Scendevo dalle scale con i libri di latino. Avevo minigonna e cappotto lungo. Mi fermò, ma subito non lo riconobbi, perché mio padre era un intellettuale e la tivù si guardava poco. Pensai che volesse farmi la corte. Ma lui mi disse: "Cos' ha capito? Signorina, le sto offrendo uno stipendio!". Avevo 17 anni e mezzo».
E al provino che successe?
«Eravamo in cinque. Io pensavo scegliessero un'altra, molto formosa, bella. Mike me lo raccontò dopo. La minigonna andava bene con un corpo un po' più esile, provocante.
Quindi Mike e Voglino dissero: "Prendiamo questa che sorride"».
Colore della minigonna?
«Era un miniabito bianco e nero. Modello "Optical"».
Come reagì suo padre alla notizia?
«Il contratto lo firmò mia madre, perché ero ancora minorenne. Mio padre era piuttosto severo, di sera non potevo uscire. Ci diceva: "Fin che non avrete uno stipendio qui comando io". Poi intuì il valore dell'occasione e mi lasciò andare a Milano per il programma».
Alla prima puntata di Rischiatutto, Mike le chiese cosa faceva. «Sono studentessa di lettere e filosofia» rispose. Vista la sua immediata celebrità, che accadeva quando si recava alla Sapienza?
«Al Teatro delle Vittorie fu uno tsunami. Non capii subito, me ne resi conto quando presi l'autobus. Certe cose non potevo più farle. All'università, quando andai a fare l'esame di sociologia, fui seguita da una schiera di studenti affettuosi che gridavano: "Viva i pensieri di Mike Bongiorno" anziché quelli di Mao Tse-Tung. Non ero interessata alla "famosità". Quelli erano tempi di contrapposizioni e violenza, ma l'affetto nei miei confronti non è mai mancato. Ancor oggi lo condivido con l'immaginario degli italiani. Com' era bello, allora».
E adesso com' è?
«Negli anni ho capito che sono stata testimone di un cambiamento dello spirito del tempo. Anche all'interno della Rai, per la quale ho rispetto e gratitudine, la trasformazione non è stata del tutto positiva.
Mi dicevano di curare la dizione, dovevamo avere rispetto del pubblico. Il primo e secondo in bianco e nero erano quasi poetici rispetto a oggi. Poi Mike mi disse, cioè mi fece credere, che si sarebbero venduti milioni di tivù a colori e avremmo aiutato gli operai».
Umberto Eco, in La fenomenologia di Mike Bongiorno, gli diede del mediocre, del piccolo borghese, del semplice, del paternalista
«Mike era molto intelligente e onesto e gli sarò affezionata per sempre. Quando uscì l'articolo di Eco, nello studio c'era imbarazzo ma in camerino mi disse: "Abbiamo fatto il botto". Sapeva che quei rimproveri avrebbero attirato l'interesse del pubblico. La sua tecnica era quella di farsi sottostimare. Mi diceva: «Guarda Sabina, ci sono io, c'è il concorrente, e in mezzo ci sei tu: il pubblico guarda solo te". M' insegnò la controscena, a fare da spalla».
Poi lo seguì agli esordi delle tivù private.
«Appena è nata la tivù commerciale hanno innescato un cortocircuito nella mente delle giovani italiane. Bisognava essere competitive, senza scrupoli, con un interesse categorico a prevalere. Dopo un anno a Tele Milano mi disse: "Meglio che lasci stare"».
Nel maggio 1974 fu in copertina su Playboy.
«Con Pascuttini (fotografo di Playboy dell'epoca, ndr) non giravo nuda e nella fotografia si vede solo la schiena. Gli americani minacciarono il giovane Paolo Mosca, direttore, di licenziamento, perché non ero nuda. Mike andò su tutte le furie e ci rimasi di merda.
Le foto erano belle, non si vedeva niente. "Sabina, il problema non è delle foto, ma dell'articolo" disse. C'erano cose per un pubblico voyeur. Me la sono presa da morire. Adesso mi vien da ridere. Bernabei (l'allora presidente Rai, ndr) si seccò da morire.
Eravamo all'ultima puntata di Rischiatutto, per questo mi si vede un po' triste Ho fatto causa alla rivista E anche perso Ma con grande felicità di Paolo Mosca, quel numero di Playboy sbancò il botteghino e non fu licenziato. A me invece tolsero il contratto pubblicitario della Soflan, a Carosello, ma mi scritturarono per quello della Dreher, "la ragazza moderna che beve la birra in costume"».
Nel 1976 fece uno strano thriller a sfondo erotico, Oh mia bella matrigna, di Guido Leoni, che a rivederlo, in fondo ha un suo fascino
«L'unico film che ho fatto. Fu un'esperienza molto faticosa. Non ero molto preparata. Infatti poi ho rotto il contratto».
Nel 1977, per Tv Sorrisi & Canzoni, intervistò figure notissime e la sua firma fece impennare le vendite.
«Al ristorante in via Solferino con Enzo Biagi, che era severo, gli chiesi un suggerimento per intervistare Gianni Agnelli. Prima borbottò, poi mi disse: "Questa è la mia agenda, sto andando in bagno".
In quei cinque minuti copiai il numero del maggiordomo di Agnelli, di Fellini, Andreotti ed Enzo Ferrari. Berlinguer mi mandò una lettera bellissima, che conservo, scrivendomi "il mio Tatò (Antonio Tatò, capo ufficio stampa Pci, ndr) mi dice no".
Agnelli mi chiamò alle 6 del mattino: "Buongiorno signorina, mi dica di Mike". All'incontro mi aiutò a cercare la biro nella borsetta. Con Andreotti misi un vestito bianco. "Come la vede l'Europa?" chiesi. "Guardi signorina" mi rispose "vedrà che ci saranno enormi difficoltà; alla natura delle nazioni non c'è rimedio". In redazione sospettavano che qualcuno mi scrivesse gli articoli, ma li scrivevo tutti io».
E Fellini?
«Andai a Cinecittà con Petrosino (ex fotografo di Tv Sorrisi & Canzoni, ndr). Mi chiese: "È il tuo uomo?". "Vieni qui", c'era il suo letto. "Siediti". E poi: "Ecco, questa è la tua luce giusta, ricordatelo". Si divertiva, diceva cose pesanti, dissacratorie. Quando arrivava la moglie cambiava completamente e facevano gli spaghetti».
Sabina, cosa ricorda dei suoi sogni?
«Fino a qualche anno fa non li ricordavo. Ora faccio sogni avventurosi, pieni di voglia di viaggiare, sono sempre in viaggio, ma non in maniera angosciosa. È come entrare in un altro mondo e ho la sensazione che sia vero».
Il suo ex marito era affascinato dal buddismo. Che rapporto ha con il divino? E hai mai pensato di risposarsi?
«Non è stato un matrimonio felice. Ero molto innamorata, ma soprattutto volevo dei figli.
Non mi sono più risposata, vedo matrimoni infelici Lui ha dedicato la sua vita al buddismo, che è una filosofia. Ha seguito il Lama Gangchen Tulku.
Siamo cattolici, battezzati. Magari non sono praticante, ma entrare in chiesa è bellissimo. Mi hanno aiutato gli insegnamenti di questo Lama. Mio figlio (Iacopo, 40 anni, l'altra figlia è Ilaria, 36, ndr) mi ha detto: "Siamo discepoli di questo grande uomo". Credo di avere un buon rapporto con il divino».
Il percorso del dolore Sua sorella Virginia
«Era una giornalista. Aveva due anni più di me. La leucemia è apparsa quando aveva circa 42 anni. È morta a 55. Fui felice di poterle donare il mio midollo osseo, compatibile al 99,6% con il suo. Ci sono pochissime probabilità che, anche se hai molti fratelli, uno di essi abbia il midollo compatibile. Il prelievo è un intervento semplice e avviene dalle ossa iliache e non dalla spina dorsale.
Virginia doveva morire subito ma così è vissuta altri 15 anni, ha visto la figlia, Eleonora, sposarsi, e nascere il primo nipote, Davide. Basta dare una goccia di sangue e non c'entra l'etnia. Il donatore potrebbe essere in qualsiasi parte del mondo. E si ammalò anche mio fratello, Mario».
Se vuole raccontare
«È stato l'unico in famiglia colpito da una malattia genetica che aggredisce i polmoni, quella di cui morì mio nonno Guglielmo Giannini (scrittore e politico, fondatore del Fronte dell'uomo qualunque, ndr). Mario era un medico, tre bellissimi figli, li ha cresciuti. Si è accorto tardi della malattia. L'unica possibilità era il trapianto di cuore e polmoni. Preferì rifiutare. Aveva 56 anni».
Viene spesso da chiedersi a che serve il dolore.
«Non si capisce perché uno si ammala e l'altro no. Il dolore è legato alla condizione umana e con il tempo capisci e sei più consapevole. Ma credo che il più grande dolore sia la guerra e questo è un dolore che non serve proprio a niente».
Ora qual è il suo più intenso desiderio?
«Vorrei dei nipoti. Me li hanno promessi».
Da leggo.it il 16 maggio 2022.
L'attrice riapre l'album dei ricordi partendo dalla sua carriera e dal Premio David
Sabrina Ferilli è ospite di Oggi è un altro giorno da Serena Bortone e riapre l'album dei ricordi partendo dalla sua carriera e dal Premio David Speciale recentemente conseguito. L'attrice parla, relativamente alla fatica, delle rinunce che ha fatto nella vita: «Ho rinunciato a quella quiete delle persone normali e poi probabilmente anche il fatto di non avere figli è stato una scelta».
Sempre sulla fatica del lavoro aggiunge: «Riuscire a farci rispettare è più difficile per noi rispetto a un uomo. Inoltre, è uno strano mestiere, difficile avere delle caratteristiche che vanno bene. Nei provini può succedere di tutto, ma non ho mai pensato che senza questo mestiere sarei stata fallita. Non ho mai pensato che la vita fosse legata a un lavoro. Avevo altre cartucce. Avrei fatto la logopedista, maestra d'infanzia perché mi piacciono i bambini degli altri».
Ripercorrendo la carriera e commentando il David spiega: «Sono stata contenta; io ho interpretato donne anche molto complesse. Dalidà, per esempio, è stato uno dei ruoli più faticosi». A sorpresa viene mandato in onda un videomessaggio del regista Paolo Virzì: «Cara adorata Sabrina, complimenti per il premio che ti hanno dato meritatissimo. Sei così brava, bona, intelligente, simpatica. Ti voglio bene più che a una sorella. Hai fatto tre film a cui voglio particolarmente bene. Sei speciale».
Sulla vita privata racconta: «Io sono malinconica, non so bene perché. Questo fa parte del dualismo mio, ma è una cifra importante. Penso alle persone che non ci sono più, me le porto tutte dietro. Alle cose che non ho fatto non ci penso. Inutile guardarsi indietro». Infine, lo scambio di battute con Luca Tommassini: «Ma tu non hai fatto con me il mio spogliarello della Roma? Racconti di Madonna e non di me e mi era venuto il dubbio. Dovevamo trovare una cosa per mantenere la promessa e per non essere arrestati tutti».
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 3 maggio 2022.
La dichiarazione di intenti non lascia spazio ai dubbi: «Voglio essere Totò con le tette».
Poche dive avrebbero potuto permettersi una libertà del genere. Lei lo ha fatto, giocando insieme le carte della bellezza e dell'ironia, doti che la definiscono, fin dall'esordio e poi per un'intera carriera in cui, come recita la motivazione del David Speciale che riceverà stasera, Sabrina Ferilli « non si è mai accontentata di essere un popolarissimo sex symbol, l'attrice di brillante talento che si muove fra cinema, televisione e nel solco della tradizione teatrale dei Garinei e Giovannini.
Lavorando con autori come Marco Ferreri, i fratelli Taviani e Paolo Genovese ha saputo invece, con raro discernimento, schivare le troppe luci dei riflettori, mantenendo un profilo di impegno civile e una filmografia che, pur con qualche divertita evasione, mai rinnegata, nel cinepanettone, splende di bei titoli e commedie intelligenti diventate proverbiali».
Ieri mattina, al Quirinale, durante la cerimonia in cui il presidente Mattarella ha incontrato i candidati alle statuette che verranno attribuite stasera (in diretta su Rai 1 dalle 21,25), Ferilli è stata l'unica a spezzare, con un gesto di solidarietà femminile, la liturgia delle presentazioni e dei ringraziamenti. Durante il brevissimo intervento ha chiamato accanto a sé Giovanna Ralli (David alla carriera 2022) che aveva già avuto il suo momento di applausi, ma desiderava tanto una foto senza la mascherina che, prima, causa troppa emozione, non aveva levato: «Dopo quattro candidature ai David senza premi - dice Ferilli scherzando - cominciavo a sentirmi un po' come il povero Leonardo DiCaprio, insomma è successo pure a lui.
Adesso questo David è come un asso pigliatutto, vale anche per tutte le candidature non andate in porto. Insomma oggi il ciclo si chiude e mi fa molto piacere, sono felice».
La mia impressione è che lei dal cinema debba avere ancora molto. Che ne dice?
«Sono d'accordo, forse è successo perché sono una delle poche attrici che non è mai rimasta chiusa nel recinto di un unico settore. Ho fatto il cinema d'autore, le fiction, i film commerciali, la pochade, la commedia musicale. In Italia tutto questo ha provocato una specie di corto circuito, dovuto alla confusione tra l'arte e la cultura che non sempre coincidono e non sempre sono necessariamente legate».
Questo cos' ha provocato?
«Io ne ho ricavato una grande libertà, però chi può dirlo? Potrebbe avermi anche un po' penalizzato, ma su una carriera così lunga come si fa a stabilirlo? Io, anche per una mia forma caratteriale, tendo a guardare sempre avanti, a tenere in mano il bandolo della matassa, a riprenderlo se lo sto perdendo. Non mi volto mai indietro».
Ci sono ruoli che non ha ancora fatto e che vorrebbe fare, storie che le piacerebbe raccontare?
«Si, come no! Andando avanti con gli anni, vorrei tanto interpretare donne protagoniste del proprio destino, e poi donne con dubbi, dotate di una maggiore complessità. Finora ho fatto sempre personaggi abbastanza lineari, adesso vorrei raccontare altro, penso a una figura come Anna Karenina».
Nella "Grande bellezza" ha mostrato, nel migliore dei modi, che lei può fare tutto. Quella era stata la prima volta. Come andò?
«Sorrentino venne da me e mi colpì parecchio, mi disse subito che voleva tirassi fuori il mio aspetto malinconico, "sei sempre stata vista come figura solare, io sento che tu hai tutta un'altra corda, voglio quella"».
Ha mai provato rimpianti?
«No, non mi è mai capitato di dover rimpiangere qualcosa, quando faccio una scelta la faccio e basta. Non serve guardare indietro, quello che è perso è perso, e poi non siamo tutti scalatori dell'Everest, non dobbiamo per forza salire fino alla cima e mettere la bandiera, ognuno arriva dove può arrivare».
Se si guarda indietro, si vede molto diversa oppure identica ai tempi del suo primo successo cinematografico?
«Mi vedo assolutamente identica. E le spiego perché. Per me tutto quello che viene è sempre straordinario, esattamente come la prima volta, in questo senso è che come se non fossi mai maturata, mi stupisco ogni volta. Non mi sento cambiata, forse perché non sono una che si ferma sulle cose, sicuramente non su quelle belle, forse sulle altre un pochino di più. Però, per carattere, sono abituata ad avere con il lavoro un rapporto netto, spartano».
Per stasera ha preparato un discorso?
«Un discorso? No, assolutamente, non sono capace, andrò sull'improvvisazione».
Sanremo 2022, Sabrina Ferilli l'antisnob. Dal cinema d'autore alla conquista del festival. Silvia Fumarola su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
L'attrice sarà co-conduttrice la serata finale, sabato 5 febbraio, accanto a Amadeus.
Il ruolo più malinconico glielo ha affidato Paolo Sorrentino, la spogliarellista Ramona della Grande bellezza. Ma neanche la parte di quella ragazza bellissima rassegnata, vinta dalla malattia, stanca del mondo e degli sguardi degli uomini riusciva fino in fondo a spegnere la solarità di un’attrice che in trentacinque anni di carriera al cinema ha frequentato tutti i generi, dal dramma alla commedia. Sabrina Ferilli è orgogliosamente nazionalpopolare, lo ripete quando qualcuno le fa notare le sue scelte: la tv, il teatro, le fiction strappacuore. Torna a Sanremo come co-conduttrice per la serata finale e ci sarà da divertirsi perché sempre, quando è fuori ruolo - quindi è se stessa – usa l’arma più efficace che ha, l’ironia. Si è visto nei programmi di Maria De Filippi, giudice di Amici e Tu si que vales, in cui è come se fosse una del pubblico.
«Sono innamorata di Maria De Filippi, ha una saggezza d’altri tempi, glielo dico sempre: ‘Siamo vecchie dentro’. Non la vedo come presentatrice ma per quello che è: una donna speciale. Il mio è un mestiere pubblico”, spiegava “mai stata snob. Ho un approccio nazional-popolare, divoro ore di televisione. Vengo dal cinema d’autore, vado ovunque”. Era scatenata anche in Dinner club il programma di Prime Video in cui viaggiava, mangiava, si confrontava, tra gli altri, con gli amici Abatantuono, Favino, Mastandrea a tavola. Battute su battute, ride, gioca, difficile fermarla. “Ero molto scettica all’inizio, io e Cracco, che non conosco, in giro. Lui che guida. Mi ero fatta un’idea di Cracco che era tutto, ma non in movimento. Per me era statico”: Sabrina, simbolo della femminilità è anche un maschiaccio e se c’è da giocare, si gioca.
A Sanremo c’era già stata nel 1996, valletta “in quota mora” per Pippo Baudo che la affianca a Valeria Mazza, la bionda. Era già l’attrice amata dal cinema d’autore, ma Sabrina la pasionaria, che da ragazzina vendeva le copie dell’Unità, figlia di un comunista che le ha insegnato la passione per la politica e il bene comune, non è snob. Il palcoscenico del Festival di Sanremo significa essere di tutti e parlare a tutti. Ferilli lo sa. Ci sarebbe tornata nel 2012, ospite della quarta serata della seconda edizione consecutiva condotta da Gianni Morandi.
Attrice e donna di spettacolo, schietta e forte, prendere o lasciare. Sempre stata così, consapevole delle proprie scelte, proiettata nel futuro. “Sorrentino mi ha affidato un ruolo 'mistico' in La grande bellezza perché nei miei occhi c’era la dose più alta di malinconia e di mistero che avesse mai visto” ha spiegato. E però Sabrina il camaleonte è un raggio di sole, modernissima e legata alle radici di Fiano Romano, il paese alle porte di Roma dov’è cresciuta “fra persone anziane che mi hanno amato e protetto, ho avuto un rapporto viscerale con loro”.
Imprevedibile, capace di spogliarsi per lo scudetto della Roma e di schierarsi per i diritti della maternità, di bacchettare il Partito democratico per cui tifava. “Il Pd di Letta? Sono d’accordo sul bonus ai diciottenni, ma poi penso con delusione che stando al governo non si è riusciti a dare la cittadinanza a un bimbo nato e cresciuto qui ed è una vergogna». Chiarezza, sintesi. Da Marco Ferreri a Sanremo, da Paolo Virzì ai calendari, dagli spot sui divani alle fiction. In televisione si capiva che si sentiva a suo agio, dai tempi dello show con Lucio Dalla, La bella e la bestia.
Ha detto che voleva essere “Totò con le tette”: «Sono ottimista, non mi sono mai ritrovata con gli intellettuali che tendono a incupirsi, ero diversa. Non migliore, per carità. Non mi ritrovo in certi contorcimenti mentali. Ai seminari all’Argentina provavo imbarazzo quando volevano che recitassimo ‘il vaso di gerani che prende la rugiada la mattina sul balcone’... Magari sono un po’ grezza, ognuno è libero di sentirsi vaso di geranio. Io non mi ci sentivo”. La sua filosofia, l’ha spiegata benissimo. “Valiamo per quello che siamo, non è il contenitore che ci fa valere”.
La coppia è sposata dal 2011. Chi è il marito di Sabrina Ferilli, l’imprenditore Flavio Cattaneo: “La nostra solida storia d’amore”. Redazione su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.
Sarà la co-conduttrice di Sanremo 2022 nella serata finale. L’attrice romana Sabrina Ferilli salirà sul palco dell’Ariston accanto ad Amadeus il 5 febbraio. Per lei sarà la terza volta, dopo aver condotto il Festival nel 1996 insieme a Pippo Baudo e Valeria Mazza ed essere stata ospite speciale nell’edizione del 2002.
Sabrina Ferilli può vantare una carriera ricca di successi, sia al cinema che in tv: è stata tra i protagonisti del film premio Oscar di Paolo Sorrentino La grande bellezza, è stata premiata con sei Nastri d’argento, un Globo d’oro e sei Ciak d’oro.
Per quanto riguarda la sua vita privata, si è sposata due volte: nel 2003 con Andrea Perone, relazione segnata da burrascosa separazione; nel 2011 con il manager Flavio Cattaneo, con cui ha ritrovato la stabilità e la felicità in amore.
Chi è Flavio Cattaneo
Nato a Rho (Milano), il 27 giugno del 1963, Flavio Cattaneo è un dirigente di lungo corso e imprenditore. Laureato in Architettura al Politecnico di Milano, si è in seguito specializzato in finanza presso la SDA Bocconi School of Management.
Dopo essere stato imprenditore edile nell’azienda di famiglia e aver ricoperto alcune cariche dirigenziali presso Fiera Milano e Aem (l’attuale A2A), nel 2003 è stato nominato Direttore Generale della Rai; dal 2005 fino al 2014 ha ricoperto la carica di AD presso Terna SpA.
Nel 2014 è entrato nel Consiglio d’amministrazione sia di Ntv-Nuovo Trasporto Viaggiatori SpA- dove è stato eletto amministratore delegato l’anno successivo fino al 2016- che di Generali Assicurazioni.
Sempre nel 2016 è stato nominato nuovo AD di Telecom Italia, ruolo che ha lasciato nel 2017, anno in cui è avvenuto il suo ritorno nell’azienda dei treni Italo: dal 2018 ne è il vicepresidente. Proprio la buonuscita da Telecom- 25 milioni di euro per 15 mesi di ‘servizio’– lo hanno portato al centro delle polemiche: “La cifra che mi verrà attribuita non ha nulla di scandaloso, né di disdicevole. Ho la coscienza assolutamente a posto” ha dichiarato all’epoca, secondo quanto riportato da Repubblica.
Nel 2021 ha fondato Itabus, azienda di trasporto su strada, di cui è anche azionista di controllo.
Flavio Cattaneo è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere del lavoro nel 2011.
Il matrimonio con Sabrina Ferilli
Flavio Cattaneo e Sabrina Ferilli si sono conosciuti sul set della miniserie Dalida nel 2005, proprio nel periodo della dolorosa separazione dell’attrice da Perone, quando lui era dirigente Rai.
I due si sono sposati in gran segreto a Parigi il 29 gennaio del 2011, con una cerimonia intima, dopo una lunga convivenza. La coppia, che vive a Roma e non ha figli insieme, è sempre stata molto riservata e continua a proteggere la propria privacy: pochissime le uscite mondane o le occasioni in cui è stata paparazzata. “Flavio è una persona ferma, solida e forte, siamo anche molto simili in questo. Ci siamo dati stabilità a vicenda” ha dichiarato la Ferilli un’intervista rilasciata qualche anno fa al Corriere.
Flavio Cattaneo è padre di due figli, avuti dalla prima moglie Cristina Goi.
La simpatia virale. Sabrina Impacciatore spopola in America: ‘White Lotus”, l’intervista a Jimmy Kimmel, la torta e la battuta su Peppa Pig. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Dicembre 2022
Dopo la sua partecipazione nel cast di White Lotus, pluripremiata serie americana ambientata per la sua seconda serie a Taormina, Sabrina Impacciatore sta letteralmente spopolando in America. Sui social sono diventati virali i meme di un’intervista al Jimmy Kimmel Show, popolare show televisivo di Los Angeles. E da allora tutti pazzi per Sabrina Impacciatore: con la sua simpatia ha conquistato il cuore degli americani.
L’attrice romana, 54 anni, è tra le protagoniste della serie White Lotus andata in onda su HBO in America e su Sky (e Now) in Italia, acclamatissima negli Stati Uniti dove lo show ha raggiunto picchi d’ascolto in concomitanza con il finale che in Italia arriva lunedì 19 dicembre. Impacciatore interpreta una fragile ma inflessibile manager d’hotel, Valentina, che dovrà affrontare una serie di crisi umane e professionali. In 9 minuti di intervista ha colpito il cuore di tutti.
“È incredibile per me essere qui. É come un sogno che si avvera, i miei amici in Italia stanno impazzendo”, ha subito detto Sabrina a Jimmy Kimmel. “Sono felicissima di essere qui ma questo è il mio peggior profilo, possiamo fare tutta l’intervista storta?”, ha detto al presentatore. Sin da subito ha raccontato una serie di aneddoti divertentissimi. Jimmy, che ha svelato la sua provenienza ischitana per parte di madre, le ha chiesto di ripercorrere gli inizia della sua carriera e lei ha svelato: “Quando avevo otto anni ho scritto nel mio diario ‘Un giorno sarò un’attrice e la mia vita sarà un film’. E infatti lo è. Non ho specificato il genere”.
Ha raccontato anche della sorpresa che voleva fare in occasione del suo compleanno al regista e showrunner della serie Mike White. Erano sul set a Taormina quando ha fatto preparare una torta al pasticcere che prevedeva una bandiera italiana e una americana e una scritta. Poiché lei è una gran fan del film di David Lynch ha voluto parafrasare il titolo Wild at heart con il nome del regista e ha fatto scrivere dall’ignaro pasticcere ‘White at heart’. Sabrina ha raccontato che era così orgogliosa di questa torta ma l’atmosfera attorno a lei era glaciale. Così quando lei ha invitato la crew dicendo: “Hey, ragazzi. Facciamo una foto insieme!” nessuno ha accettato. Così ha fatto uno scatto da sola un po’ triste e ancora inconsapevole della gaffe. Poi un collega le si è avvicinato e le ha detto: “Questa è una torta razzista». Di lì le risate con l’intervistatore per il suo candore e la rassicurazione: «Per questa volta va bene”.
Sabrina Impacciatore è diventata un’icona negli Usa tanto che tutti i salotti televisivi se la stanno contendendo. A renderla ancora più simpatica a tutti è stata anche la battuta improvvisata sul set della fiction. In una scena già diventata cult, Sabrina Impacciatore ha improvvisato un dialogo esilarante con l’attrice. “Chi sono?”, domanda Jennifer Coolidge nei panni di Tanya, tutta vestita di rosa, a Sabrina Impacciatore. “Peppa Pig”, risponde lei mentre la immortala con il telefonino. “Sono Monica Vitti”, risponde l’altra. E giù di risate.
Sabrina Impacciatore ha iniziato la sua carriera giovanissima tra le ragazze di “Non è la Rai” dove spiccava tra le centinaia di ragazzine per la sua verve comica, poi a Macao. Poi sono arrivati i film e il grande cinema. Ha recitato diretta tra gli altri da Gabriele Muccino, Ettore Scola, Paolo Virzì e Giovanni Veronesi. Ora il suo successo è arrivato anche oltre oceano grazie alla fortunata serie tv targata HBO. Dopo aver vinto a settembre dieci Emmy Award su venti nomination per la stagione ambientata alle Hawaii ora White Lotus corre anche ai Golden Globe dove ha preso quattro nomination.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Sabrina Salerno: «Io ero fidanzata, Enrico sposato da poco. Siamo felici da 30 anni». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.
La sex symbol degli anni Novanta e il matrimonio con Enrico Monti. Lui: «Le foto di lei su Instagram? A volte le scatto io. Si è portata i trucchi anche in mezzo alla natura»
«Nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di noi. Nemmeno i nostri amici», ammette lei seduta al suo fianco a un tavolo del Golf Villa Condulmer di Mogliano Veneto. Eppure sono passati trent’anni da quando hanno scoperto di amarsi, sedici da quando sono marito e moglie, diciotto dalla nascita del loro figlio. Ed è il successo più grande di Sabrina Salerno , 54 anni, la sex symbol degli anni Novanta sopravvissuta a sé stessa e a successi da venti milioni di copie, donna tenace e profonda che per la prima volta accetta di parlare accanto all’uomo con cui ha formato una famiglia amatissima e desiderata (dopo un’infanzia senza il padre, che l’ha riconosciuta quando lei aveva 45 anni). Lui è Enrico Monti, 60 anni, imprenditore.
Raccontatemi dall’inizio.
Enrico: «Mi chiesero di incontrarla per un nuovo progetto musicale. Ai tempi ero discografico, avevo uno studio di registrazione dove hanno inciso Vasco Rossi, Shade, Simply Red... Così andai a un concerto allo stadio di Rovigo e cenammo con altri, 31 anni fa. Lei pianse tutto il tempo, mi era sembrata disperata».
Sabrina: «Lo ero! Lavoravo in una gabbia di matti!».
Enrico: «Poi assistetti alla sua incredibile trasformazione sul palco e pensai: “Mi piacerebbe lavorare con lei”».
Quando avete capito di essere innamorati?
Sabrina: «Un anno dopo, quando abbiamo cominciato a lavorare insieme. Mi sono accorta subito che c’era qualcosa e che era importante».
Enrico: «Anch’io, ma dovevo far finta di nulla: ero sposato da poco e avevo un figlio di qualche mese».
Sabrina: «Beh, io pure ero fidanzata. Ma l’amore non lo spieghi con la logica. Io in lui avevo visto l’amore salvifico».
Era un suo fan?
Enrico: «No, il mio approccio è sempre stato da discografico. Riconoscevo il valore di Boys, nel suo genere un capolavoro. Ma mi interessava il potenziale: ho amato altre canzoni fatte dopo insieme».
Avete impiegato un po’ prima di sposarvi, nel 2006. Vostro figlio aveva già due anni.
Sabrina: «Mi diceva che non ci saremmo mai sposati e non avremmo avuto figli...».
Enrico: «Un momento: la mia è stata una separazione sofferta, non ho avuto un dialogo costruttivo con la mia ex moglie. Avevo un figlio, Andrea, oggi 31enne, che vedevo con grande difficoltà».
Che rapporto avete ora?
Sabrina: «Bello».
Enrico: «Lei è stata molto brava a non volersi mai sostituire alla madre».
Sabrina: «Per me i figli vengono prima di tutto. Se mi avesse detto che ero più importante di Andrea ci sarei rimasta male. Certo, c’è voluto un po’ prima che avessimo il nostro. Ma dopo 10 anni mi sono guardata allo specchio: “Perché devo rinunciare a esser madre per la sua paura?”».
Quando avete scoperto che Luca Maria stava arrivando, qual è stata la reazione?
Enrico: «La mia tragicomica. Dopo aver sopportato le torture di Sabrina perché erano sei mesi che ci provavamo e non succedeva nulla, una mattina uscì dal bagno e mi disse con tono serissimo: “Sono incinta” (la imita, ndr)».
Sabrina: «Ma tu sei matto! Non ho usato quel tono!».
Enrico: «Mica hai detto: “Amore, sono incinta!”».
Sabrina: «Tu eri choccato! E poi, scusa, è più grave che non ti abbia detto amore o il fatto che per tutto il giorno, dopo, non mi hai rivolto la parola?».
Enrico: «Mia moglie è una persona dalle molteplici sfaccettature: ha parti meravigliosamente belle e momenti poco costruttivi in cui vede tutto negativo. Temevo che si potesse ripercuotere su nostro figlio. Invece sbagliavo perché è una madre perfetta».
Sabrina: «Non volevo far pagare a mio figlio i miei up and down. Non mi considero una madre esemplare, ma volevo fare il massimo per dare a Luca Maria gli strumenti invisibili perché si sentisse un uomo amato. Se uno si sente amato ha già fatto Bingo».
E quando è nato?
Enrico: «Lì ho capito subito il carattere di mio figlio».
Sarebbe?
Enrico: «Eravamo all’ospedale per il cesareo. Quando è nato, Sabrina ha cominciato a cantargli l’Ape Maia».
Sabrina: «Aspetta, fammi spiegare! L’ostetrica ripeteva: “È un maschio!”. Ma io non lo sentivo. Poi ha cominciato a piangere ed ecco perché ho cominciato a cantargli l’Ape Maia: per calmarlo!».
Enrico: «Poi siamo andati a fare il bagnetto. In acqua si è subito calmato, era un angioletto. Ma quando l’hanno tirato fuori ha ricominciato a strillare e l’ostetrica ha detto che era un indemoniato: aveva il carattere di sua madre».
Un vostro pregio e difetto.
Enrico: «Il pregio più grande di Sabrina è di essere una madre fantastica. E poi l’ambivalenza del suo carattere: da un lato ha tenacia e forza di carattere fuori dal comune, dall’altro una grandissima fragilità. Questo doppio lato è affascinante. Il difetto è che non è affettuosa: è anaffettiva. Se ho una preoccupazione di lavoro mica mi dice: dai forza, vedrai che andrà bene...».
Sabrina: «Il suo pregio è di essere nobile d’animo, pure troppo! È il suo atteggiamento nella vita: vede solo il bello nelle persone, mentre io sono più cinica. Il difetto è che quando si mette in testa una cosa non gliela fai cambiare».
Siete gelosi?
Enrico: «Se dicessi che non lo sono per niente sarebbe una cavolata, ma non sono uno che fa scenate, altrimenti impazzirei. Tutto il mondo vorrebbe avere un rapporto con lei, di ogni tipo. Cosa faccio: uccido tutti? Non mi permetto di essere geloso».
Nemmeno per le foto che pubblica su Instagram?
«No. Certe gliele faccio io! Ha una grande fisicità, è un dato di fatto: è una delle poche donne della sua età a poterselo permettere».
E lei, Sabrina, è gelosa?
«Lo sono stata molto, soprattutto i primi dieci anni. Una volta ha rischiato grosso, non me lo faccia ricordare sennò ci litigo di nuovo. Posso solo dire che avevo trovato sul suo cellulare dei messaggi che non avevo gradito e gli ho lanciato qualunque cosa in testa: ho distrutto una camera da letto».
Il giorno più bello?
Enrico: «La nascita di Luca Maria».
Sabina: «E il nostro matrimonio. Piangevo come una fontana, per me era diventato importantissimo sposarci. Quando mi vide in quello stato, disse: “Ma se sapevo che ci tenevi così tanto ti avrei sposato prima!”. Lo avrei ucciso».
Il vostro segreto?
Enrico: «C’è grande rispetto, non è mai un rapporto banale e si evolve di continuo».
Sabrina: «Non siamo una coppia da Mulino Bianco, ma non restiamo passivi nelle difficoltà: cerchiamo sempre di risolvere le cose».
Chiudiamo con l’immagine di un vostro momento felice.
Enrico: «L’esperienza della Via degli Dei, il cammino che unisce il centro di Bologna a quello di Firenze. Una settimana in mezzo alla natura con nostro figlio: dormivamo negli ostelli. Sapevo che per lei era tosta, nello zaino si era portata pure i trucchi!».
Sabrina: «Mi servivano per le foto! A me quell’esperienza resterà perché mi ricorda che appresso a questi due faccio cose che mai nella vita...».
Andrea Scarpa per “Il Messaggero” il 24 aprile 2022.
Forse sui social le è un po' sfuggito di mano il gioco (certe foto su Instagram ricordano quelle hot, per molti indimenticabili, degli Anni Ottanta e Novanta), ma di sicuro a 54 anni Sabrina Salerno è in grande forma, piace a tutti - uomini e donne - ha l'agenda piena di impegni fino al maggio 2023.
E ieri, per lanciare la prima puntata di Name That Tune Indovina La Canzone, lo show di Tv8 al via martedì 26 aprile, ha postato un video con Rocco Siffredi (lui fa parte della squadra maschile composta da Morgan, Riki, Pierpaolo Pretelli che lei sfiderà con Michela Giraud, Iva Zanicchi e Mietta) in cui lui fa la sua parte, «Questo video può diventare anche quell'altro video», e lei anche: «Ma tu sei pazzo per davvero».
Dica la verità: è una di quelle che mangia una foglia di insalata al giorno, passa ore in palestra, non sgarra mai?
«Sono da sempre fissata con la forma fisica, e l'esperienza di Ballando mi ha dato una spinta pazzesca per fare sempre meglio. Però sgarro come tutti, ovvio. E quando lo faccio, dopo cerco di darmi una regolata.
Non sono golosa di dolci, per fortuna, ma ieri mi sono fatta un bel risotto con due bicchieroni di Franciacorta e oggi mi tengo leggera. Tornerò a bere fra una settimana. Seguo quello che mi dice il corpo».
Le ha mai detto di fare un ritocchino?
«Tanti trattamenti di bellezza e tante ore in palestra, ma quello mai. La bellezza da giovani è un dono. Ma già dopo i 25 anni se non conduci uno stile di vita sano, cominciano i problemi. Io l'ho sempre fatto e oggi, alla mia età, posso dire che mi piaccio più di allora. Sono più sicura come donna, un po' più ironica, e anche più tranquilla».
Chi l'aiuta sui social?
«Faccio tutto da sola. Per me sono come un palco. Mi fotografano le mie amiche, fra una riunione e l'altra di lavoro. Bisogna usarli, però, non farsi usare (fra Ig, Fb e twitter ha più di 2 milioni di follower, ndr)».
Con la consapevolezza di oggi cosa direbbe alla Sabrina di 20 anni?
«Che non bisogna mai credere troppo alle cose che ci succedono. A quell'età non mi rendevo conto fino in fondo di quello che vivevo. Oggi so tutto, o quasi, e guardo ogni cosa con distacco. Il nostro mestiere, poi, è fatto di mille varianti, incontri, casualità.
Alla fine, cosa vendiamo?».
Cosa vendete?
«Sogni? Intrattenimento? Io per resistere ho cercato sempre di mantenere un mio equilibrio sopra la follia, come dice Vasco».
Cosa l'ha guidata?
«La voglia di fare quello che volevo nel modo in cui volevo. Sono da sempre così».
Più coraggiosa o incosciente?
«Metà e metà. Nella vita bisogna saper rischiare e io l'ho sempre fatto, da giovane di sicuro con più incoscienza. Anche oggi però diciamo che non so mai come andrà a finire. Fa parte del gioco».
Finora ha avuto quello che meritava o no?
«Non ho dubbi: potevo fare e avere molto ma molto ma molto di più.
Però mi sto divertendo tanto adesso e quindi spero da qui a 80 anni di fare tutto quello che voglio».
Perché fa questo bilancio?
«Perché siamo un Paese un po' bigotto, che demonizza la leggerezza e in cui tutti si prendono troppo sul serio, cosa che mi è sempre sembrata un po' stupida, e io un po' l'ho scontata. Se poi da bella si ha avuto successo da giovanissima, e a 50 anni passati ci si mostra ancora, non ci siamo proprio».
Non dica che la bellezza non l'ha aiutata, però.
«No, ma è stata un'arma a doppio taglio. Da una parte mi ha dato tantissimo, dall'altra mi ha bloccato in una gabbia. Non ha idea di quanti addetti ai lavori, spesso invidiosi, mi hanno ostacolata. Solo Claudio Cecchetto ha fatto tanto per me. È stato lui l'uomo più importante della mia carriera (i due hanno avuto una relazione durata poco, ndr).
Ha saputo dare spazio a uno spirito libero come me».
Ha detto di sé che sa essere anche stronza e pesante: quando e perché?
«Con il passare degli anni sono diventata più cruda e dura nei giudizi. Non ho più vie di mezzo. Ieri ho fatto una litigata con mio marito (l'imprenditore Enrico Monti, 54 anni, sposato nel 2006, da cui ha avuto il figlio Luca Maria, 18, ndr) perché sostenevo che nel mondo le cose negative sono l'80 per cento, le positive solo il 20. Lui è ottimista, io no».
Perché?
«Da quando sono nata la vita mi ha sempre messo alla prova. Per fortuna, non mi sono mai fatta schiacciare».
Amiche ne ha?
«Quelle giuste, senza le quali non vivrei».
Nel mondo dello spettacolo?
«Sì, certo. Mietta, per esempio».
I suoi riferimenti artistici?
«Non li ho mai avuti né mai li avrò. Io sono io e vado avanti per quello che sono».
Chi le piace?
«Billie Eilish, Lady Gaga. Dua Lipa e Britney Spears. Lei mi fa una tenerezza immensa».
Un nuovo disco lo farà prima o poi?
«Certo. Ci sto lavorando».
Perché ha detto in più occasioni che cantare nel 1991 Siamo donne con Jo Squillo le sembrava una sconfitta?
«Perché pensavo che rispetto, parità e non violenza fossero scontate. Mi sbagliavo».
L'errore della vita qual è stato?
«Far gestire i miei affari a una persona disonesta. Avrei dovuto fare diversamente, ma avevo solo 17 anni quando ho iniziato ad avere successo. E non avendo una famiglia normale, ho accettato situazioni che mai avrei dovuto accettare. Per fortuna dopo qualche anno mi sono ribellata e ho messo tutto in mano agli avvocati».
Concretizzando, quell'agente quanti soldi le ha sottratto?
«Milioni e milioni di euro».
Come se l'è passata durante il lockdown?
«Male. Come tutti. Ho capito che bisogna vivere alla giornata e il futuro non si può più programmare, cosa difficilissima per una maniaca del controllo come me».
Adesso cos'ha in mente?
«Un mega progetto di cui non posso parlare. Spero di riuscire a fare più cose quest'anno. Ho impegni, anche in Francia, fino a metà del 2023».
È anche uno personale?
«Sì. Un libro sulla mia vita, ma non me la sono più sentita di farlo. Si tratta di vicende dolorose che non sono ancora in grado di tirare fuori».
È mai stata in analisi?
«Più di una volta, ma dopo il primo incontro sono sempre scappata. Non ce la faccio. E non ha idea di quanto mia sorella insista per farla».
Sua sorella psicologa, Manuela Incrocci, 45 anni, che ha conosciuto solo nel 2009, anche lei figlia di quel padre che non ha mai voluto riconoscerla?
«Sì. Mi ha scritto nel 2009 e ci siamo finalmente incontrate. L'aspettavo da una vita».
Anche lei ha avuto lo stesso trattamento?
«No. È stata voluta, riconosciuta e amata. Io A 47 anni ho fatto il riconoscimento del dna perché lui diceva che non ero sua figlia... Anche Manuela, però, dopo un po' ha iniziato a capirlo meglio.
A un certo punto lui è diventato papà di un bimbo, proprio quando lei diventava mamma e si aspettava che facesse il nonno non che si presentasse con un fratello».
Poi nel 2019 l'ha chiamato e avete cominciato a parlarvi, giusto?
«Sì. È durata quattro mesi. Ci siamo parlati. Poi purtroppo è morto. Credo sia sempre meglio perdonare, ma farlo veramente dentro di sé, e non solo a parole, è molto difficile».
C'è riuscita?
«Non lo so. Il mio rapporto con gli uomini è stato talmente devastato dall'assenza di mio padre, che non mi vengono le parole per spiegare quanto questa cosa mi abbia condizionata».
Sabrina Salerno: «Io e mio marito, insieme da trent’anni. La gente ha una visione distorta di me: mi ritengo più intelligente che bella». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'1 febbraio 2022.
La cantante Sabrina Salerno racconta la storia con il marito Enrico Monti, la carriera, il rapporto con il figlio Luca Maria. «La gente ha una visione distorta di me: ho avuto solo tre amori importanti. I fan? C’era un fisico nucleare mi inseguiva ovunque»
A metà degli anni 80 era sulle pareti degli adolescenti di tutta Italia. Lei, invece, di chi si era appesa il poster?
«Di Miguel Bosé. E Pierre Cosso: avevo una cotta per lui dal Tempo delle mele».
Poi ci si fidanzò.
«Lo conobbi a Parigi in una radio, dove promuoveva un duetto con Nikka Costa. Avevo 21 anni. Al primo appuntamento passò a prendermi in moto: io ero elegantissima, con i tacchi, lo avrei ucciso! Per fortuna indossavo i pantaloni. E mi portò a vedere cattedrali. A cena non avevo il coraggio di guardarlo, lui era in adorazione».
Lo sente ancora?
«Sì, ogni tanto. Vive in Polinesia. Con mio marito pensiamo sempre di andare a trascorrere lì un Natale, ma non riusciamo mai».
E Miguel Bosé lo ha conosciuto?
«Sì! A Napoli, per un programma di Massimo Ranieri. Mi venne incontro e mi diede un bacio sulla bocca: “Sabrina! Ti cercavo da una vita, in Spagna sei una star!”. Io a momenti svengo».
Da bambina lo avrebbe immaginato?
«Mai. La vita mi ha sorpreso parecchio».
Sabrina Salerno oggi è una donna solida, concreta. La generosità la noti nei dettagli. Le risposte, a cui non si sottrae. Il pranzo, che offre. Il passaggio in auto, dalla stazione di Mestre a Mogliano Veneto andata e ritorno, dopo due ore di conversazione che comincia davanti a un’insalata di radicchio con una battuta fulminante: «E ora inizia la seduta di psicanalisi».
Il primo ricordo?
«Credo di aver un po’ cancellato il periodo della mia infanzia. Forse un albero di Natale, a Genova, da zia Lina, con cui sono cresciuta. È mancata quando avevo cinque anni. Dopo, mi sono trasferita a Sanremo dai nonni materni».
Sua madre non poteva occuparsi di lei?
«Mia mamma, Feliciana, mi aveva avuta giovanissima, a 18 anni. Faceva l’infermiera. Da lei sono tornata a vivere per un breve periodo dai 15 ai 17 anni, poi ho cominciato a lavorare».
Che ragazzina era?
«Inquieta, ribelle, avevo sempre idee diverse rispetto agli altri, non rientravo nei canoni. Ho avuto una sola amica importante, in quegli anni: Natasha, olandese, faceva il liceo linguistico come me. La mia adolescenza è stata brevissima».
E suo padre quando lo ha conosciuto?
«A 12 anni. Avevo scoperto nome e cognome e lo avevo cercato sull’elenco telefonico. Lo avevo chiamato per incontrarlo, per curiosità: volevo dare un’immagine all’uomo che, seppure involontariamente, mi aveva messa al mondo. Ho sempre rispettato che non volesse riconoscermi e non accettasse il ruolo di padre. Almeno, credevo di averlo elaborato, ma poi a 30 anni mi è tornato indietro come un boomerang e ho cominciato a capire che certe situazioni se non le risolvi te le trascini per tutta la vita».
Come andò quando lo vide?
«Venne a prendermi a Genova e pensai: “Mamma mia come è giovane”. Sembrava un ventenne. Ci rimasi male, forse mi aspettavo una figura più adulta, invece mi sono trovata davanti questo belloccio ed è stato uno choc».
L’ha riconosciuta, infine?
«Quando avevo 45 anni. Disse: “Va bene, facciamo il riconoscimento, ma non avrai mai il mio affetto”. Con lui poi ho fatto pace. Prima che morisse ho sistemato tutto: un periodo bellissimo, durato pochi mesi. Ho una sorella fantastica, Manuela, l’altra sua figlia: ha 44 anni, io 53. È stata lei a cercarmi nove anni fa e la considero una delle cose più belle e intense della mia vita. Sapevo della sua esistenza, ma non potevo fare il primo passo. È stata coraggiosissima a volermi incontrare. Nostro padre non fu contento...».
Torniamo a Sanremo. Quello di lei bambina.
«Era il sogno, l’evasione. La musica mi ha sempre trasportato in un’altra dimensione».
Si appostava per chiedere gli autografi?
«Certo! Ero innamorata di Alice, per me era la cantante più bella e piu brava del mondo. Mi è sempre rimasto un debole per lei».
L’ha conosciuta?
«No, l’ho incontrata solo da piccola fan. Ho l’autografo anche di Richard Sanderson e Plastic Bertrand: da adulta siamo diventati amici».
A Sanremo è stata in gara nel 1991 assieme a Jo Squillo, con «Siamo donne». Nel video dell’esibizione non sembra molto felice.
«Non ero felice per niente! Ero tormentatissima, non ero convinta di quel progetto. Per me cantare “oltre le gambe c’è di più” era una sconfitta, mi sembrava un’ammissione di colpa. Io non sono una leggera, sono pesantissima...».
Sul palco indossava un bikini argentato.
«Lì ho fatto una cazzata. Quel bikini era proprio brutto e mi stava malissimo. Quando lo guardo non so che cavolo mi abbia preso. Mi pento e mi dolgo di averlo indossato».
Beh, quanto a bikini non si è fatta mancare nulla. Vogliamo parlare del due pezzi bianco nel video ufficiale di «Boys»?
«No, era rosa con i bordini neri».
Non mi pare. Cerchiamolo su YouTube.
«Ha ragione... Quel video penso di non averlo mai visto per intero».
Fu censurato in Inghilterra, dove comunque la canzone arrivò terza in classifica, dietro a Michael Jackson e Madonna. Che effetto le faceva?
«Non mi rendevo conto. È successo tutto così in fretta. Ho realizzato di essere diventata famosa quando sono arrivata in Spagna per una trasmissione e all’aeroporto ho trovato trenta fotografi. Pensavo fossero lì per qualcun altro. Il successo mi ha spaventato».
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Sabrina Salerno sorpresa dal marito a Ballando con le stelle (video)
Era seguita da un manager che l’ha truffata.
«È scomparso e non mi sembra elegante parlarne. Posso dire che era un manipolatore. A 23 anni ho detto basta».
Fu a causa sua che rinunciò a firmare con Seymour Stein, il produttore di Madonna?
«Ma no, lì sono stata io. Voleva che mi trasferissi per sei mesi in America e a 19 anni non ho avuto il coraggio. Non ho avuto il coraggio di fare tante cose, paralizzata dalla paura di rimanere sola. Ma ero già sola. Solissima. Pur avendo guardie del corpo, segretarie, assistenti. Non potevo muovere un passo di mia iniziativa».
Addirittura le guardie del corpo?
«C’erano persone ossessionate da me. Un fisico nucleare mi seguiva ovunque e in albergo riuscivano solo a metterlo a un piano diverso dal mio. In Spagna avevo una guardia fuori dalla porta. Ancora adesso una spagnola mi dà la caccia. Un mese fa si è piazzata davanti al Comune di Mogliano per farsi dare il mio indirizzo».
Ha lavorato con tanti grandi. Da Nino Manfredi a Johnny Dorelli a Raffaella Carrà.
«Manfredi mi leggeva le lettere dei suoi fan in camerino, tra una pausa e l’altra di Premiatissima. Ho impressa la sua risata, la gentilezza: un uomo dolcissimo. Ma se devo scegliere una persona sola, è Raffaella Carrà. Ricordo un viaggio bellissimo in Egitto con lei, mio marito, Japino, Gianfranco D’Angelo, la moglie e un’altra coppia. Rivedo Gianfranco che cade dal cammello nel deserto. Raffaella, con cui ho lavorato tanto, mi ha insegnato a essere imperturbabile e andare sempre avanti, nonostante tutto».
Gli uomini della sua vita. Sono stati tanti?
«No. Anche questa è una visione che la gente ha di me completamente distorta. Io cercavo gli innamoramenti. Le mie relazioni importanti sono state tre: il primo fidanzato a Sanremo, Giorgio; poi Franz, olandese; e mio marito».
L’imprenditore Enrico Monti. State insieme da quasi trent’anni. Un record.
«L’ho conosciuto a cena dopo un mio concerto, c’erano anche Meat Loaf e il mio commercialista. Piansi tutta la sera, non mi ricordo neanche per cosa. Lui pensò: “Povera ragazza...”. Poi feci un disco nel suo studio di registrazione».
È mai stato geloso?
«No, è estremamente intelligente. Aveva messo in conto che sarei sempre stata corteggiata».
E lei di lui?
«Molto, all’inizio. Un incubo. Quando nel 2004 è nato nostro figlio, Luca Maria, sono cambiata. La gelosia è sintomo di insicurezza».
Che mamma è?
«Una che pensa di non dover stare né davanti né dietro al figlio, ma di fianco, perché possa appoggiarsi se ha bisogno».
Quando si è reso conto della sua fama?
«A sei anni, quando lo portai in Francia per un concerto del tour di Stars 80. In camerino non faceva entrare nessuno, mi diceva che ero troppo magra, di coprirmi. Mentre mi esibivo, ho visto nei suoi occhi uno sguardo che non mi piaceva. Per lui la mia immagine di donna sexy era difficile da elaborare».
Oggi va meglio?
«Direi di sì, credo abbia scavallato. Abbiamo un legame forte, passiamo da momenti di estasi a momenti di catastrofe. Ho la responsabilità di insegnargli a rispettare le donne».
Leggende: i chewing gum dedicati a lei.
«Le Pegatinas! Scartavi e trovavi la mia foto».
Bambole.
«Ne ho ancora una, da qualche parte».
Videogame.
«Lo trova su Internet».
Altre memorabilia?
«Mi sembrano già abbastanza, cosa dice?».
Ha fatto cinema e teatro. Vincendo un premio per il film «Colori» di Cristiano Ceriello.
«Forse ho sbagliato carriera. Fare teatro mi ha appagata moltissimo: ogni regione ha un pubblico diverso, piange e ride per cose differenti».
Progetti?
«Intanto vorrei riprendere il tour in Francia: il Covid mi ha fatto perdere 300 date. Sono molto focalizzata sulla tv, dopo la bellissima esperienza di Ballando. Poi vorrei incidere un duetto con Mietta e magari pensare a qualcosa che ha a che fare con le cinquantenni allo sbaraglio».
Il pregiudizio più grande nei suoi confronti?
«Sono talmente tanti... Forse bella e stupida. Pensi che io mi ritengo più intelligente che bella. Mi davano per morta già quando avevo vent’anni. E invece ci sono ancora. E ho venduto 20 milioni di dischi. Ciaone!».
Barbara Costa per Dagospia il 30 aprile 2022.
E sono 68!!! E non si porno ferma!!! 68 anni compiuti per Sally D’Angelo, la nonna del porno, la pornostar credo la più anziana in circolazione, eh che diamine, la grande Nina Hartley ne ha 63, ancora qualcosa porna, e però una calmata se l’è data, e invece nonna Sally no! Ma chi la quieta, ma chi la piega, Sally porna e covid-vaccinata e testata, e quando i set del porno erano chiusi in pieno lockdown, come se ne lagnava!
Non che fosse contraria alla serrata, certo che no, e però si annoiava, santa donna, sola a casa col marito pensionato, a niente fare se non ad accumulare voglie su voglie, di corpi e sessi e… giovani! Bruciori insopprimibili di ammucchiate, di fervide sverginate, di movimento intensificato, di umide lingue attorcigliate, e di fellate… tutto quello che negli ultimi mesi la signora Sally D’Angelo si è ripreso, eccome!
Non porna così tanto e così assiduamente come da quando i set hanno riaperto, e nei porno i più recenti in cui si è scatenata non c’è nipote, o amico del nipote, o marito di figlia, o giovane nuora che Sally D’Angelo non abbia "sbranato" in prove porno che per lei rappresentano novità e traguardo. Infatti la signora ha cambiato genere, mettendo da parte il porno quello gonzo il più crudo per darsi al porno-commedia il più pecoreccio. Il fermo imposto dalla pandemia l’ha motivata, muovendola a sperimentare nel campo del porno dove si sc*pa e intensamente ma dove le sc*pate sono incardinate a scenografie e a trame impostate e immediate.
Sally D’Angelo ha capito che l’immortale binomio sc*pate e risate è ora quello che fa per lei, è quello che oggi vuole fare lei, e guarda che ha porno combinato in "Funeral Crasher", dove fa la vedova, inconsolabile, come no, talmente disperata che proprio non ce la fa, non resiste a non prenderlo in bocca, e a chi, ma a quel bel giovane delle pompe funebri, e manco il tempo di portarselo in un posto più adeguato, più appartato, ché inizia a fellarselo sotto il leggio, e davanti agli astanti piangenti, e poi su quel divano, a cavalcarselo, con quelle gambe aperte, sguainate, senza pudore o vergogna!!!
Io la signora Sally D’Angelo la guardo e la ammiro incondizionatamente: perché dà gioia, stupore benefico, lei non ha ritegno nello sbandierare e nel porno giostrare il suo corpo che, per quanto qua e là aiutato, sostenuto da punturine e affini, e con quei due cocomeri al posto dei seni naturali che ho scoperto rifatti negli anni '90, quindi minimo tre volte passati a revisione, dicevo io Sally D’Angelo la ammiro su tutte perché non vuole né posa a far la giovane: lei sta nel porno ed è star del porno per quel che è e per come è, una donna di 68 anni e quelli dimostra, di quelli dà mostra, e il suo corpo lo sveste e lo sconcia in pose pornografiche che ne rilevano rughe, solchi, macchie, ogni segno del tempo che è stato e che non è più.
Sally D’Angelo è donna vera, fa del porno quello in cui crede, la sua è totale e inarrivabile emancipazione. Lei non cerca elogi o consensi, lei è nel porno per la persona che è e che del sesso fa mirabilie improponibili nella realtà e che però marcano un fatto incontestabile: le donne hanno fame, di sesso e orgasmi, ad ogni età, e non è una frase da dire e a cui annuire per far le moderne, no: le donne di sesso ha voglia e bisogno s-e-m-p-r-e, e tutte le menate che sulla menopausa ci dicono hanno il loro valore per alcune ma per la maggior parte sono mito partorito dagli uomini per illudersi di tenerle a cuccia.
Sally D’Angelo con le sue sc*pate esagerate, e con quel corpo lì, e che in tanti guardano, magari la prima volta per curiosità, ma poi per altro, turgore, desiderio, indegno segreto inconfessato ma che c’è (oh, signori, poche storie: di chi sono tutte quelle visualizzazioni ai suoi video???), ci mette tutti al muro.
Non possiamo scappare dall’evidenza della potenza sessuale di femmine, adulte, di ogni età. Sally D’Angelo abbatte ogni difesa e chi la sfotte, la deride, fa finta di distogliere gli occhi dal suo corpo segnato – e dal suo c*lo non più florido, e però complimenti, per una 68enne! – non può evitare di essere dalle sue ostentazioni affondato. Con lei cadono prototipi e certezze. Ci sono donne, e nonne, che i nipotini non li vogliono tenere, che di cucinare se ne sbattono, e dei mariti lamentosi se ne f*ttono. Si sentono vive, non più giovani ma vive, e anelanti di viversi tutto ciò che vogliono. Anche e soprattutto nel sesso. Che nella realtà ovviamente non è il sesso amplificato e recitato dalla D’Angelo, ma sono quelle gioie, quei piaceri, quelle grida, quelli orgasmi.
Anticipazione da "Oggi" il 25 giugno 2022.
Salvatore (Totò) Cascio pensa al ritorno sul grande schermo. L’interprete del film premio Oscar «Nuovo Cinema Paradiso» di Giuseppe Tornatore soffre di retinite pigmentosa con edema maculare, una malattia degenerativa che gli ha spendo lentamente lo sguardo e la carriera. «Ricordo il dramma vissuto dai miei genitori nell’ascoltare la “condanna” lo stesso giorno in cui moriva Ayrton Senna, il 1°maggio 1994», racconta Cascio in un’intervista a OGGI, in edicola da domani.
«Non è stata una malattia galoppante, ho guidato lo scooter e la macchina, senza patente in campagna, fino a 20 anni. Ho girato film, poi mi sono chiuso nella nebbia della mia vista». Una caduta all’inferno e una rinascita che Salvatore Cascio racconta nel libro «La gloria e la prova, il mio nuovo cinema paradiso 2.0» (Baldini+Castoldi) e che descrive a OGGI in una intervista esclusiva «Ero ingabbiato in un labirinto fatto di paure. Una gabbia fatta d’insicurezze, un circolo vizioso. Una sensazione brutta, di vergogna, temevo il giudizio».
Un inferno da cui non trovava via d’uscita: «La psicoterapia? Non volevo sentirne parlare, dicevo che non ero un malato. Sbagliavo. Mi ha aiutato a vincere il senso di colpa. Ha risvegliato la voglia di vivere».
Ha avuto tante proposte di parti in film, ma ho sempre rifiutato. «Ma ora è iniziato il mio secondo tempo». Con un’idea per Checco Zalone.
"Sono esausta". Sandra Bullock dice addio al cinema. Novella Toloni il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'attrice premio Oscar per The Blind Side ha deciso di ritirarsi momentaneamente dalla scena per dedicarsi alle figlie
A 57 anni e con una carriera trentennale alle spalle, che l'ha vista protagonista di oltre cinquanta pellicole tra cinema e televisione, Sandra Bullock ha deciso di prendersi una pausa. Niente più riflettori e cineprese puntate addosso, almeno per il momento. "Sono esausta. Sono stanca e non sono in grado di prendere decisioni sane e intelligenti", ha dichiarato l'attrice premio Oscar nell'ultima intervista rilasciata al The Hollywood Reporter.
La notizia non coglie di sorpresa i fan. Nel 2021 Sandra Bullock aveva accennato all'idea di volersi prendere una pausa da cinema e televisione. Ma poi erano arrivati i copioni di The Lost City e Bullet Train - le sue ultime due pellicole - e l'attrice aveva deciso di rimettersi in gioco. Ora però il momento di dire basta sembra essere arrivato e senza rimpianti. L'attrice si è detta esausta e desiderosa di dedicarsi alla sua vita privata e ai figli Louis e Laila. "Non voglio essere vincolata al programma di nessuno che non sia io o la mia famiglia", ha affermato la Bullock, che non ha stabilito una scadenza al suo allontanamento dalla scena cinematografica: "Non so dire quanto potrebbe durare questa pausa. Davvero non lo so".
Sandra Bullock è la donna più bella del mondo
L'addio di Sandra Bullock arriva a poche settimane da un altro triste annuncio, quello di Jim Carrey. Lo scorso aprile lo "Yes Man" sorprese tutti annunciando di volersi ritirare per dedicarsi a altre passioni oltre alla cinematografia. Un pensiero condiviso dalla Bullock. Al quotidiano statunitense l'attrice ha spiegato di sentirsi fortunata per avere lavorato con costanza in tutti questi anni. L'interprete americana ha saputo, infatti, ricoprire svariati ruoli nel corso della sua carriera: da quelli più drammatici in "The Unforgivable" e "Bird Box" a quelli più leggeri in "Miss FBI" e "Ricatto d'amore". E ora è pronta a staccare la spina: "Ho capito che forse il lavoro stava diventando la mia stampella. Era come aprire un frigorifero tutto il tempo e cercare qualcosa che non era mai stato nel frigorifero. Così mi sono detta: 'Smettila di cercarlo qui, perché qui non esiste. Ce l'hai già: trovarlo". E Sandra Bullock ha scelto di trovarlo lontano dal cinema, almeno per il momento.
Sandra Bullock si prende una pausa dal cinema: "Sono stanca ed esaurita". L'attrice ha rivelato che vuole prendersi un periodo di tranquillità, lontana dalle scene, per dedicarsi ai suoi due figli, Louis e Laila, di 12 e 10 anni, entrambi adottati. La Repubblica il 23 giugno 2022.
Sempre bella, ma stanca ed esaurita. Un mondo troppo frenetico che non lascia respirare, soprattutto quando si vuole fare la mamma. Sandra Bullock si prende una pausa, "sono esaurita". L'attrice di The Lost City vuole dedicarsi alla famiglia "Sono tanto esaurita, tanto stanca e non sono più in grado di prendere decisioni sagge". Bullock è estenuata dal lavoro e per questo ha deciso di prendersi una pausa dalle scene. Lo ha rivelato all'Hollywood Reporter. In realtà già da qualche mese aveva detto di volersi fare temporaneamente da parte nel mondo cinema per dedicarsi ai suoi due figli, Louis e Laila, rispettivamente di 12 e 10 anni, entrambi adottati da madre single.
Sandra Bullock ha vinto un Oscar come miglior attrice nel 2009 con il film The Blind Side e ottenuto una nomination per Gravity dove ha recitato accanto a George Clooney, con la regia di Alfonso Cuaròn. Fra le sue relazioni quelle con gli attori Tate Donovan, Matthew McConaughey e Ryan Gosling. Nel 2005 sposa il costruttore Jesse G. James, dal quale si separa nel 2010.
"Voglio stare a casa - aveva detto alla Cbs - non faccio un favore a nessuno che sta investendo in un progetto dicendo che voglio stare a casa perché sono sempre di corsa, in corsa verso la prossima cosa. Voglio solo essere presente e responsabile". E questa volta sembra davvero stanca di stare dietro a tutti gli impegni e dopo 30 anni di carriera e una cinquantina di film ha bisogno di avere tempo per se stessa. Ha anche confessato che fare un passo indietro rappresenta una sfida personale per lei.
"Il lavoro è stato sempre costante per me - ha detto - e sono stata davvero fortunata. Mi sono resa conto che stava diventando come la mia stampella. Era come aprire sempre un frigorifero alla ricerca di qualcosa che non c'era mai". Ha aggiunto di essersi resa conto di essere sempre insoddisfatta del suo successo e di lavorare troppo per rafforzare l'autostima. "Mi sono detta - ha spiegato - smettila di cercarlo qui perché non esiste. Ce l'hai già, e mettiti l'anima in pace che non c'è bisogno che il lavoro ti validi.
La Bullock non ha idea di quanto durerà questa pausa. Negli ultimi mesi l'attrice è stata in un vortice frenetico di tour per promuovere i suoi due ultimi film, The Lost City, nei cinema da aprile 2022, e Bullet Train, thriller con Brad Pitt, che uscirà il 25 agosto 2022, ma ha confessato che non è una cosa naturale per lei avere gli occhi del pubblico o dei giornalisti addosso. "Mi faccio piccola di fronte alla stampa, sotto gli occhi del pubblico e durante un servizio fotografico - ha commentato - semplicemente crollo, non sono brava in questo, anche se adoro lavorare in tandem con le persone per creare qualcosa".
Sandra Bullock è una piccola rivoluzione in un mondo che ci vuole sempre più produttivi. Lisa Pendezza il 23/06/2022 su Notizie.it.
Sandra Bullock è una piccola rivoluzione in un mondo che ci vuole sempre più produttivi
È il momento di prendere fiato, mettere da parte il busy bragging e imparare la difficile ma preziosa arte dell'improduttività.
C’è un po’ di Sandra Bullock in tutti noi. In tutti c’è una parte, piccola o grande che sia, che vorrebbe solo fermarsi, prendere fiato e ammettere candidamente: “Sono tanto esaurita, tanto stanca e non sono più in grado di prendere decisioni sagge.
Voglio stare a casa perché sono sempre di corsa, in corsa verso la prossima cosa“.
E non tacciatela di pigrizia, lei per cui “il lavoro è sempre stato una costante e sono stata davvero fortunata“. Ma “mi sono resa conto che stava diventando come la mia stampella. Era come aprire sempre un frigorifero alla ricerca di qualcosa che non c’era mai. Mi sono detta: smettila di cercarlo qui, perché non esiste.
Ce l’hai già [il successo, ndr], e mettiti l’anima in pace perché non c’è bisogno che il lavoro ti validi“.
C’è un po’ di Sandra Bullock in noi che cerchiamo nel lavoro quella soddisfazione che sembra sempre sfuggire, come un’oasi nel deserto, sempre più lontana, luccicante ma irraggiungibile. Noi che più ore passiamo in ufficio più ci sentiamo appagati, più sentiamo di aderire ai canoni che ci impone una società sempre di corsa, sempre col fiato corto.
E così ci ritroviamo col fiato corto anche noi. Più stanchi siamo, più bravi appariamo. Con più cose riempiamo il nostro tempo – lavoro, hobby, palestra, corsi di aggiornamento, aperitivi con gli amici e cene coi parenti – meno sentiamo quel vuoto dentro, quell’insoddisfazione che non riusciamo a spegnere, che per quanto corriamo sarà sempre un passo avanti a noi. E che ci mangia vivi, ci fa sentire sempre un passo indietro rispetto agli altri, rispetto ai piani che avevamo per noi stessi.
Siamo schiavi della convinzione che più siamo impegnati e meno ci rilassiamo, più valiamo come persone. Più mostriamo agli altri quanto sappiamo tenerci occupati con “cose da fare”, più riempiamo i nostri profili social con le prove del nostro inesistente tempo libero, più siamo socialmente accettabili. Si chiama busy bragging ed è la tendenza a vantarsi di essere costantemente occupati, soddisfatti solo se non abbiamo neanche un minuto per noi stessi. Con evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica.
Sandra Bullock è una piccola ma potente rivoluzione in un mondo che ci vuole sempre più produttivi, sempre più “sul pezzo”, sempre meno fragili. Sempre meno umani. È il momento di prendere fiato, rivalutare l’antico concetto di otium come qualcosa di cui non vergognarsi e imparare la difficile ma preziosa arte dell’improduttività.
I Santi Francesi dopo la vittoria a «X Factor»: «Noi, introversi e insicuri. Eravamo in cinque, ma funzioniamo meglio come duo». Barbara Visentin il 9 Dicembre 2022 su Il Corriere della Sera.
Alessandro De Santis e Mario Francese, duo di Ivrea, hanno già annunciato l’uscita dell’ep «In fieri» e di un tour in partenza il 18 gennaio
Comprensibilmente insonni dopo la vittoria a «X Factor 2022», Alessandro De Santis e Mario Francese, ovvero - giocando sui due cognomi - i Santi Francesi, si godono il trionfo al talent di Sky, arrivato al termine di un’edizione in cui erano stati sempre fra i favoriti, sicuri ed eleganti sul palco. Il duo di Ivrea, 24 anni per De Santis e 25 per Francese, ha già annunciato un tour nei club, in partenza il 18 gennaio da Torino, e l’uscita dell’ep «In fieri» che arriva lunedì 12 dicembre in digitale e venerdì 16 in versione fisica.
Come avete festeggiato alla fine della puntata?
«Abbiamo dormito un minuto e mezzo a testa. Dopo la finale c’è stata una festicciola al Forum e siamo rimasti lì fino a molto tardi, non ricordo bene (risponde Alessandro De Santis, ndr.). Ci siamo lasciati andare dopo un mese e mezzo di focus e ora l’ultima cosa che resta da fare è dormire, altrimenti muoriamo».
Anche voi avete fumato una canna come i Tropea con Fedez?
«Assolutamente no, siamo ragazzi perbene noi, mica come quelli...»
Fin dall’inizio siete stati elogiati per come tenevate il palco, ve lo aspettavate?
«Sinceramente non fino a questo punto, avevamo già fatto cose dal vivo, ma sempre in tre, quindi questa era la prima esperienza come duo e basta ed era tutta da costruire man mano. È andata bene, ci siamo piaciuti sul palco e ci è piaciuto come l’abbiamo gestito».
Sui social ci sono anche tanti apprezzamenti estetici, molti notano la vostra bellezza. Come vivete questo aspetto?
«È forse l’unico piccolissimo neo di questa esperienza e non ce lo aspettavamo. Abbiamo entrambi un buonissimo livello di insicurezza sia a livello fisico che morale, quindi cerchiamo il più possibile di parlare di musica e di essere giudicati solo per quello sul palco».
Come vi siete conosciuti?
«Andavamo nello stesso liceo a Ivrea, ma in realtà non è lì che ci siamo conosciuti. Io ero in studio con la mia vecchia formazione, Mario stava facendo uno stage come fonico: ci siamo intortati a vicenda e alla fine gli ho detto “dai vieni a suonare con noi”. Siamo partiti in cinque, poi abbiamo mandato a cagare tutti quanti e ora siamo noi due».
In trio avete partecipato ad «Amici di Maria De Filippi» qualche anno fa. Nella conferenza post-vittoria avete detto che è un’esperienza che «ti può far del male». In che senso?
«C’è tanta gente che ci segue già da allora e a cui teniamo molto, ma è un’esperienza che abbiamo fatto quando eravamo piccoli, senza qualcuno che ci sostenesse e che in certi momenti non siamo riusciti a vivere benissimo. Venivano fuori più i problemi legati al mio carattere che alla musica».
Con «X Factor» è stato diverso?
«È andata meravigliosamente e la cosa più figa è che il nostro pensiero non è stato invaso. Siamo due persone molto introverse, facciamo fatica ad aprirci e abbiamo messo dei paletti. Tutti sono stati rispettosi e anzi ci hanno dato una mano, senza traumi».
Com’è andata col vostro giudice, Rkomi?
«Benissimo perché siamo anime simili ed è stata la cosa più interessante. Mirko è proprio una persona che ci assomiglia».
Ora arrivano un ep e un tour. Eravate già abbastanza strutturati...
«Sono ormai 10 anni che suoniamo insieme, quindi qualche cosa era già capitata. C’erano dei pezzi pronti prima del talent, ma poi tutto è successo molto in fretta. Questo sarà il nostro primo vero tour, per iniziare ad avere feeling con queste cose».
Nell’ep c’è anche un featuring con i Fast Animals and slow kids.
«Sì, un onore e una cosa pazzesca per noi, li abbiamo contattati perché il pezzo parte da un loro live e dal loro modo di affrontarli. Avevamo aperto un loro concerto al Fabrique e poi abbiamo deciso di lavorare insieme».
Chi sono i vostri punti di riferimento artistici?
«Da anni, per entrambi, i Twenty One Pilots, infatti quando Fedez ci ha detto che sentendoci sembrava di stare a un loro concerto mi sono gasato come una scimmia».
"Noi due Santi Francesi abbiamo vinto il talent, ma l'X Factor conta ora". Dopo il trionfo (atteso) il duo pubblica un disco "Al provino Ambra ci consigliò un analista..." Paolo Giordano il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La domanda più frequente dopo aver vinto X Factor?
«Come vi sentite?».
E come vi sentite?
«Sballottati, almeno così direbbero i Tropea».
I Santi Francesi sono Alessandro De Santis e Mario Francese e modificando appena i loro cognomi hanno creato il duo che ha vinto X Factor. Prima erano sconosciuti, ora hanno la madre di tutte le opportunità: capitalizzare i voti del talent show (finale da 1.563.000 spettatori medi con 10,1 per cento di share e 828mila interazioni social) ed iniziare a vivere di vita propria. Prima di entrare nella squadra del coach Rkomi, il cantante e chitarrista Alessandro lavorava a Milano da Decathlon, mentre il tastierista e bassista Mario campava come programmatore web. Già notati ad Amici nel 2017 come The Jab (erano in tre), hanno continuato a fare musica, a crescere, a sperare come fa chi davvero ci crede senza piangersi troppo addosso o gridare subito al complotto. E a X Factor la loro ricetta musicale ha convinto quasi tutti, trasformandoli nei pochi vincitori non contestabili della storia di questo talent. Bravi sono bravi. Coraggiosi pure. E, soprattutto, hanno messo al centro la musica, senza giocare troppo con gli outfit (vero Beatrice Quinta?), senza essere troppo «paraculi» (ad esempio i Tropea) e senza neanche rinchiudersi nelle proprie riflessioni (come la quarta finalista Linda). Insomma, i Santi Francesi sono nuovi ma vecchi, nel senso che si presentano ora al grande pubblico ma hanno lo spirito ormai fuori moda di chi si concentra prima sulla musica e poi, soltanto dopo, su tutto il resto. Ce ne fossero.
Alessandro, intanto definiamo i Santi Francesi.
«Ha ragione chi ci definisce hard pop».
Traduzione.
«È pop che non è soltanto pop, nel senso che cerca di approfondire i testi e nella musica prova ad allargare i confini».
È un po' vago.
«Ascolterete il nostro Ep che esce tra pochi giorni e si intitola In fieri».
Anche voi siete «in fieri», in divenire.
«Non abbiamo una direzione musicale chiara e la nostra anima rock era molto più forte all'inizio. Adesso si percepisce in brani inediti come Spaccio, che abbiamo registrato con i Fast Animals and Slow Kids.
In finale avete cantato anche un medley di cover.
«Due di quelle, ossia Ragazzo di strada dei Corvi e Creep dei Radiohead sono anche nel nostro Ep».
Curioso che il web disprezzi la musica del passato ma poi il pubblico premi chi la suona (bene), Maneskin compresi.
«Per quanto ci riguarda, cerchiamo di fare nostri i brani della tradizione e di trasformarli in qualcosa di nuovo e divertente. E di certo non disprezziamo la musica che arriva dalle generazioni precedenti».
Avete vinto un talent.
«Ma non ci aspettiamo nulla».
Davvero?
«Sappiamo che i talent sono bolle che si sgonfiano in fretta per chiunque ci partecipi. Fa parte del gioco. Adesso tocca a noi giocarci l'x factor».
Aspettative?
«Nessuna».
Questo è il bello.
«L'importante è dare il massimo, e non è un luogo comune».
La popolarità cambia anche i rapporti umani.
«Nel nostro caso è difficile. Sia Mario che io abbiamo pochi rapporti solidi che non possono cambiare dopo un programma tv. Però, certo, capita che parenti che non sentivi da 76 anni ti mandino dei messaggi. Ci sta».
E i social?
«Sembra strano, ma riceviamo tanti messaggi di persone ultra competenti».
Parliamo dei coach. Rkomi?
«Ha i piedi saldati a terra e l'anima a mezz'aria».
Fedez?
«Abbiamo avuto poco a che fare con lui».
Dargen D'Amico
«Un genuino raffinato».
E Ambra?
«Dopo aver sentito il nostro inedito Non è così male alle Audition voleva darmi il numero dell'analista. Ho capito che ci aveva capito».
Anticipazione da "Oggi" il 14 settembre 2022.
«Nel 2018 ho concluso una lunga storia con un uomo più grande. Da allora sono andata a scendere. Prima un compagno con otto anni di meno, poi 10, poi 12. Fino a 23», racconta al settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani, Sara Ricci, volto amato di «Un posto al sole» e ora protagonista del film «La santa Piccola», disponibile su Netflix, Amazon Prime, Youtube e Google Play Film, dove interpreta una ricca signora in cerca di evasione erotica con due ragazzi.
L’attrice, 53 anni, non nasconde di avere anche nella realtà la predilezione per quelli che lei chiama «baby love». «Le prime volte la differenza di età mi metteva in crisi. Dopo ho approfittato del fatto che sembro più giovane ed è diventato un gioco d’azzardo. Una sfida con me stessa, il voler dimostrare che posso ancora stare al passo. I giovani amano la mia energia, il senso dell’umorismo. I coetanei sono retorici, noiosi e bacchettoni, oltre che nostalgici.
E io non ho tempo per stare dietro ai ricordi». Ora Sara Ricci si dichiara non impegnata, dopo la fine dell’ultima relazione, a giugno: «Ci siamo lasciati dopo un anno insieme. Di comune d’accordo e senza patemi, abbiamo deciso di concludere la storia perché stava diventando ridicola. Io ho l’età di sua madre».
Da repubblica.it il 15 Dicembre 2022.
Tutti assolti. Non fu violenza sessuale verso Sara Tommasi. Lo hanno stabilito i giudici del tribunale di Salerno, dopo un processo durato 9 anni. La showgirl denunciò di essere stata condotta a Buccino, in provincia di Salerno, nel 2012 dall'ex manager Federico De Vincenzo con la proposta di partecipare a un set fotografico per un calendario di beneficenza. Ma di essere poi stata drogata e violentata, una volta giunta nella camera d'albergo, da 5 uomini. Tommasi raccontò anche di essere stata ripresa in video.
Oltre all'ex manager (per il quale la Procura aveva chiesto 5 anni e 4 mesi), finirono sotto accusa gli attori Fausto Zulli e Pino Igli Papali, e il regista Max Bellocchio (per i quali era già stata chiesta l'assoluzione dal pm). Indagato anche il produttore Giuseppe Matera, che fu condannato con rito alternativo.
Anche la madre della donna depose in aula a Salerno durante il processo, sottolineando di aver chiesto all'ex manager di non condurre la figlia a Buccino a causa dei problemi mentali che le erano stati diagnosticati. In quel periodo Tommasi partecipò a una serie di film hard prodotta da De Vincenzo e Matera.
Gabriele Bojano per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022.
Non ricorrerà in appello contro la sentenza della terza sezione penale del Tribunale di Salerno che ha assolto i quattro uomini che lei, nove anni fa, aveva accusato di violenza sessuale di gruppo. Sara Tommasi, la showgirl e modella laureata alla Bocconi finita nel giro dei film hard, da cui da tempo è uscita, non ne vuole più sapere di processi e aule di giustizia.
«Non sono delusa dalla sentenza - precisa -, non ero in attesa né di una condanna né di un'assoluzione. Per quanto mi riguarda si tratta di una vicenda lontana, che appartiene al mio passato. Anzi ho preferito restare in disparte, per non esserne più coinvolta, tant' è che non mi sono neanche costituita parte civile. Per questo ho deciso di non fare neppure appello, posso dirlo con certezza».
La vicenda è legata a quanto avvenne dieci anni fa in un agriturismo di Buccino, nel Salernitano: la lavorazione di un film porno, Confessioni private , secondo gli imputati, in cui la protagonista fu proprio la Tommasi, consenziente e ritenuta capace d'intendere e di volere; un vero e proprio inganno, invece, in base alla denuncia sporta all'epoca dalla soubrette, che raccontò di essere stata condotta nell'agriturismo per posare in alcune foto per un calendario di beneficenza ma che una volta giunta sul posto sarebbe stata drogata e stuprata. Non solo, le immagini della violenza di gruppo sarebbero finite a sua insaputa nel circuito dei video a luci rosse sul web.
I giudici non hanno creduto alla versione di Sara (e si saprà perché solo dalle motivazioni depositate entro novanta giorni) e hanno assolto con formula piena i due attori Fausto Zulli e Pino Igli Papali, il regista Max Bellocchio e l'ex manager della showgirl, Federico De Vincenzo, per il quale la Procura aveva chiesto una condanna a 5 anni e 4 mesi. «Dio c'è, quando ho saputo che ero stato assolto con formula piena sono scoppiato in un pianto liberatorio.
In caso di condanna mi sarei attaccato al Tribunale di Salerno con le catene», è la reazione di De Vincenzo che all'epoca fu arrestato e scontò nove mesi di carcere e otto agli arresti domiciliari. «In questi anni - riprende - sono stato nell'ombra come mi ha consigliato il mio avvocato, ho sofferto nel vedere distrutti la mia vita sociale, il lavoro, la reputazione. Ora che il castello accusatorio è crollato qualcuno mi dovrà risarcire i danni, che sono stati enormi».
Il produttore Giuseppe Matera, che aveva scelto il rito abbreviato, è stato l'unico ad essere condannato: due anni e dieci mesi, sentenza confermata in appello. Durante il processo Cinzia Cascianelli, la madre di Sara Tommasi, venuta a mancare nel febbraio scorso, depose in aula sottolineando che aveva implorato De Vincenzo di non portare la figlia a Buccino a causa dei problemi mentali che le erano stati diagnosticati. Sara Tommasi oggi sta bene, fa l'opinionista a TeleLombardia e ha sposato il suo attuale produttore, Antonio Orso.
Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 14 maggio 2022.
Riceviamo e pubblichiamo il contenuto di una telefonata con Sara Tommasi, in riferimento all'articolo pubblicato da Fanpage.it il 10 maggio su Britney Spears nuda su Instagram e al paragone proprio con la storica soubrette che replica: "Io non sono Britney Spears, però facevo quelle cose lì".
A distanza di dieci anni dall'esordio nel porno, Sara Tommasi è una persona completamente diversa, ripulita e finalmente felice. Però ricorda bene quei momenti: "Quando ho letto il vostro articolo, ho immaginato bene il paragone tra me e Britney Spears in riferimento a quegli anni bui nemmeno troppo lontani della mia vita". Ecco cosa ci ha raccontato.
Sara, prima di tutto, come stai?
Vengo da un periodo molto positivo grazie al matrimonio, grazie a chi mi è stato vicino senza interessi, grazie a mamma che purtroppo non c'è più, grazie a mia nonna.
Che ricordi hai di quei momenti?
Di quel periodo ricordo persone negative che mi hanno fatto sbagliare, ma la colpa è tutta mia. La colpa è mia perché ho permesso a queste persone di prendere il sopravvento, di darmi consigli sbagliati. Adesso sto bene e so valutare cosa è giusto e cosa è sbagliato per me.
Ci hai chiamato per la notizia di Britney Spears, nuda su Instagram.
Sì. Devo dire che il paragone con Britney Spears in questo senso regge, perché forse lei non è molto lucida al momento per comportarsi così.
Sei in grado di riconoscere qualche segnale di squilibrio?
Assolutamente. Pubblicarsi nuda, gestire la propria immagine in quel modo. Succedeva anche a me. Succedeva quando non stavo bene che cominciavo a spogliarmi nuda sulle piattaforme o per strada, mi facevo fotografare. Non andava bene in quel momento. Quindi, sì, per me questo spogliarsi nuda sulle piattaforme è un segnale chiaro di una persona che non sta bene e che forse va aiutata.
Oggi stai bene?
Oggi sono serena. Sto bene e vivo la mia vita con grande serenità, insieme a mio marito.
Provi rabbia per le persone che ti hanno sfruttato?
No, nessuna rabbia. Mi risulta difficile provare rancore nei confronti delle persone che si sono approfittate di me. Perché mi sono lasciata avvicinare, gliel'ho permesso e quando sei in quella dimensione, diventa facile lasciarsi deviare.
Poi succede che te ne freghi dei consigli e ti circondi di quelle persone che in maniera anche infame ti dicono invece che va bene così, è tutto giusto. Però no, nessuna rabbia verso nessuno.
La cosa più brutta che senti di aver fatto?
La cosa più brutta? Tutto. Il porno, spogliarsi nuda per strada, il gesto della fontana. Sono tutte così orribili. Non sono per niente fiera del mio passato, però sono fiera di essere riuscita a voltare pagina, fiera di aver riconquistato quella normalità che credevo perduta per sempre.
Come vedi il tuo futuro?
Mi piacerebbe testimoniare la mia storia, raccontarla alle ragazze che si approcciano al mondo dello spettacolo e capire cosa evitare.
Quindi, ti vedi lontana dal mondo dello spettacolo?
Non come prima. Magari sarebbe bello un docu-film sulla mia vita.
Le rivelazioni dell'attrice. Scarlett Johansson nella trappola della sessualizzazione: “Formata per essere un’attrice-bomba sexy, non riuscivo a uscirne”. Vito Califano su Il Riformista il 15 Dicembre 2022
Scarlett Johansson in un’intervista ha rivelato di essersi sentita per anni in trappola, quasi come schiava, succube di un personaggio per il quale sembrava essere stata plasmata e dal quale avrebbe voluto uscire, evadere. Quello dell’“attrice bomba sexy”, panni che ha indossato soprattutto nei primi anni della carriera. Lo ha raccontato lei stessa in un episodio del podcast Table for Two with Bruce Bozzi.
“Quando feci La ragazza con l’orecchino di perla e Lost in Translation avevo 18, 19 anni”, ha spiegato. “Stavo diventando donna e stavo imparando a conoscere la mia identità sessuale e la mia sensualità. In un certo senso sono stata come formata ad essere ciò che viene definita un’attrice bomba sexy. Interpretavo l’altra donna e l’oggetto del desiderio e mi sono trovata come messa alle strette in questo posto. Non riuscivo a venirne fuori”.
Un ruolo nel quale, secondo l’attrice, una volta esaurite le possibilità che ti offre non è possibile andare oltre. “È facile osservare una carriera simile da lontano e dire: ‘Sta andando alla grande’. Ma quelle fiamme sono veloci e si spengono, e dopo le opportunità svaniscono”, ha spiegato la diva di Hollywood. “È stato un dilemma interessante e bizzarro in cui trovarsi, ma alla fine ci ho lavorato e ho avuto modo di ritagliarmi un posto in altri progetti e a lavorare con grandi cast”.
Scarlett ha ricordato nel corso dell’intervista che anche il suo ruolo di Vedova Nera in Iron Man 2 (2010) era stato concepito inizialmente come “sottosviluppato e ultra sessualizzato”. Solo con il lavoro con il regista e la Marvel quella parte era stata poi rivista ed era diventata più complessa e stratificata di quanto fosse in partenza.
“Diventai oggettificata e classificata in un modo in cui sentii di non ricevere offerte per cose che volevo fare – ha aggiunto l’attrice a Variety -. Ricordo di aver pensato: ‘La gente pensa che abbia 40 anni, come se si smettesse di essere desiderabile ed era qualcosa contro cui stavo lottando’. Credo che tutti pensassero che fossi più grande e che recitavo da tanto tempo … Mi sentii come se la mia carriera fosse finita, pensai: ‘Questa è la carriera che hai e questi sono i ruoli che hai interpretato, finisce qui?’”.
La diva è ora sul set di Project Artemis, il film di Greg Berlanti con Channing Tatum.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
«E Scarlett Johansson mi chiese: “Stasera a cena ti siedi vicino a me?”» Il racconto di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.
«Mi ha rivelato cosa le sussurra Bill Murray all’orecchio in Lost in Translation. Dicendomi però di non raccontarlo in giro»
Tengo in mano la confezione del dvd: e questo già dice chi sono, una persona anziana. Nessuno sotto i cinquant’anni maneggia la confezione di un dvd, se non deve schiacciare una zanzara. L’immagine di copertina è singolarmente brutta. C’è un tipo di mezza età seduto sul letto sfatto in una stanza d’albergo. Ha pochi capelli. Indossa una vestaglietta color diarrea. Ai piedi, le pantofole di spugna che offrono negli hotel: sempre troppo corte. In Asia, dove le producono, non hanno ancora capito che europei e americani hanno, in media, i piedi più lunghi. Infatti, il tipo ha i talloni fuori, ma non sembra preoccuparsene. Ha un sorriso un po’ ebete, quello che viene quando si ha molto sonno o si è innamorati. Dietro di lui due lampade e, lontane, le luci colorate di una metropoli. La copertina non dice qual è, ma io lo so: Tokyo. Sul retro, un’altra immagine. Migliore, bisogna dire. Di fianco al tipo in copertina, che nel frattempo si è rivestito, c’è una ragazza bionda. Vent’anni, a occhio. I due sono seduti vicini, appoggiati a una tappezzeria zebrata. La ragazza ha un casco di capelli rosa. Porta un abito nero sbracciato. Tiene le mani sull’orlo della gonna. Guarda l’obiettivo con gli occhi socchiusi. Sorride.
Ok, l’avete capito. Il film è di Sofia Coppola e s’intitola Lost in Translation. In italiano è diventato L’amore tradotto (se esistesse l’Oscar per la Peggior Traduzione di un Titolo, sarebbe già assegnato). Il 50enne con la vestaglia è Bill Murray. La ragazza con i capelli rosa, Scarlett Johansson. Forse è il film che amo di più, uno dei pochi che rivedo regolarmente. Un capolavoro di dolcezza e jet-lag. Da quando è uscito, nel 2003, mi domando perché mi colpisca tanto. Poiché non riuscivo a trovare a una risposta, una decina d’anni fa ho pensato di chiederlo direttamente a Scarlett. Ci siamo incontrati nella Francia del nord. Al settimanale «7» del Corriere era stata offerta la possibilità di un’intervista di copertina. Quando me ne hanno parlato, ero all’aeroporto prima che finissero la frase. Si trattava di una intervista vera: due persone in una stanza, senza fretta. Non una delle micro-interviste a rotazione che precedono l’uscita di un film, quelle che in gergo si chiamano junkets. Attori e registi stanno seduti nello stesso posto — stessa sedia, stesso sorriso, stesso manifesto sullo sfondo — e rispondono meccanicamente. Siccome lavorano nel cinema, certo, sanno recitare. I più bravi, in quei pochi minuti, riescono addirittura a convincerci che gli importa qualcosa di noi.
Be’, con Scarlett non è andata così. Sono arrivato a Parigi, ho trovato l’auto che mi avrebbe portato tra le vigne di Epernay, dove Ms Johansson aveva il quartier generale. Qualche junkets era previsto, certo. I colleghi entravano nella stanza dell’attrice e uscivano poco dopo, quasi mai entusiasti. C’era anche un’italiana che conoscevo. Mi ha visto e ha detto: «Buona fortuna. Simpatica come una cicca nei capelli, la ragazza». «Cicca», in Lombardia, vuol dire gomma, chewing-gum. Quindi avete capito: non simpaticissima, la giovane Johansson, secondo la collega. Quand’è arrivato il mio turno, a metà pomeriggio, non ero emozionato — un giornalista non lo ammetterà mai. Diciamo, contento. Sapevo che avremmo avuto tempo. Ero preparato, conoscevo i suoi film. Non solo Lost in Translation. Scarlett sembrava un’attrice versatile e convincente. E una giovane donna affascinante, certo. Un fascino che non riuscivo a spiegarmi del tutto. Mi ero preparato leggendo ritratti e interviste: quelle dei colleghi maschi erano spesso imbarazzanti. Le domande erano del genere: «Lei è divina, o solo meravigliosa?». Mi sono ripromesso di mantenere un contegno. Finché non sono entrato.
Per cominciare: Scarlett era più piccola di quanto immaginassi. Uno e sessanta scarso. Stava seduta sul divano, le scarpe sul tappeto, le gambe raccolte sotto la gonna a fiori. Le ho chiesto, come prima cosa: possiamo metterci vicino alla finestra? Il mio iPhone è scarico, e mi serve per registrare l’intervista — ho bisogno di una presa di corrente, e c’è solo lì. Mi ha guardato e ho capito, con la rassegnazione degli imputati e degli innamorati, che il destino del nostro incontro si sarebbe deciso nei successivi dieci secondi. Ne sono bastati cinque. Ha sorriso, si è alzata, si è spostata. «Cosa faremmo senza i vecchi, buoni iPhone?», ha scherzato. La conversazione — seduti di fronte, schiacciati contro il muro — è corsa via. Scarlett Johansson era una che rispondeva alle domande, sospetto lo sia ancora. Abbiamo ricordato L’uomo che sussurrava ai cavalli, il suo vero esordio cinematografico, e Robert Redford che diceva, parlando di lei: «She’s thirteen, going thirty», ha tredici anni, va per i trenta. E poi il filotto di ottimi film all’inizio degli anni Duemila: La ragazza con l’orecchino di perla, Una canzone per Bobby Long, Match Point e Scoop, Black Dahlia, Vicky Cristina Barcelona (Scarlett mi piaceva meno nella versione inguainata alla Iron Man, ma non gliel’ho detto).
Le ho chiesto di Lost in Translation , mia deliziosa ossessione. «Mi tolga una curiosità. Il personaggio di Murray era innamorato di lei?». Risposta: «Lo sarebbe stato, se fosse stato un po’ più giovane, o se lei fosse stata un po’ più vecchia. Era un amore platonico. Penso che lei gli abbia mostrato qualcosa, e lui l’abbia guidata, in qualche modo. Lui s’illumina, quando è con lei. E lei pure, quando è con lui. Grazie a questo incontro riesce a transitare verso una nuova fase della propria vita». Scarlett si è accorta che conoscevo bene il suo lavoro, ma ha capito che sapevo poco o nulla della sua vita privata. «Veramente? Non sa neanche con chi sono sposata?». No, le confesso. «You’re my dream interviewer! Lei è il mio intervistatore da sogno! Avanti, parliamo di politica». Rileggendo l’intervista a distanza di anni, mi accorgo di quanto la giovane americana Scarlett J. fosse lucida e, purtroppo, premonitrice. Le ho chiesto se fosse delusa da Obama, allora al primo mandato. «Non delusa. Ancora piena di speranze. Delusa, invece, dalle divisioni della politica americana, dalla polarizzazione della nostra società. La faziosità dei media è ripugnante, davvero. Veramente difficile da mandar giù. Speravo che questo sarebbe cambiato. Ma non è cambiato». Non crede sia anche una questione di mercato? I media hanno capito che il pubblico vuole leggere, ascoltare e vedere chi gli dà ragione. La gente — in America, in Europa, in Italia — non vuole dubbi, con la prima colazione. Ms Johansson sembra d’accordo: «Il pubblico ama lo status quo. Vuole sentirsi dire che tutto è più o meno ok. La gente lavora tantissimo, in America. Si ammazza di lavoro. Non credo abbia tempo e voglia di pensare alla politica, all’ambiente, alla big picture. Non ha tempo e voglia di controllare le notizie. Ha bisogno di cose semplici e accessibili, la mente è affaticata dalla durezza della vita quotidiana».
Verso la fine dell’intervista, a sorpresa, Scarlett mi ha chiesto perché, a mio giudizio, lei piacesse tanto agli uomini. «Ci sono attrici più belle di me», ha aggiunto serissima. Forse è vero, le ho risposto; ma molte intimidiscono. Scarlett è una ragazza americana. La cassiera più carina del supermercato Walmart, di fronte alla quale si forma la coda più lunga. Ho pensato per un attimo che mi cacciasse. Non lo ha fatto, ha sorriso. «Stasera c’è la cena, ci vediamo là». A cena, nelle cantine dell’azienda, mi ha chiesto di sedermi accanto a lei. Ho ringraziato mentalmente il Corriere della Sera. Era un duro lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo. Salutandola, le ho chiesto: cosa le ha sussurrato Bill Murray, alla fine di Lost in Translation? Si è avvicinata e me l’ha detto. «Ma non lo racconti in giro!», ha concluso ridendo. Scarlett, tranquilla: sarò una mummia. L’età, ormai, è quella.
Questa storia ha un post scriptum . Qualche mese dopo la pubblicazione dell’intervista, nella primavera 2011, ricevo una telefonata dall’agenzia di Scarlett Johansson. «C’è un grosso evento a Shanghai. Scarlett ha la possibilità di invitare due giornalisti, un americano e un europeo. E ha fatto il suo nome. Ha un bel ricordo del vostro incontro». Deglutisco, rispondo. «Anch’io ho un bel ricordo: insieme a quella con Bruce Springsteen, l’intervista più bella della mia carriera. Ma dovete sapere che, tra qualche mese, festeggio le nozze d’argento. E dove abbiamo prenotato il viaggio dell’anniversario? A Shanghai. Se lo annullo, per andare nella stessa città con Scarlett Johansson, anche il mio solidissimo matrimonio potrebbe vacillare». L’agente ride, rido anch’io. Cos a non si fa per te, Ortensia.
Francesco Garozzo per “la Stampa” il 23 maggio 2022.
Denunciare lo spaccio di droga, scrivere versi contro la mafia e incoraggiare chi è costretto a pagare il pizzo a ribellarsi, raccontare le donne vittime di violenza. Cantare contro l'omofobia e girare un video in cui due ragazzi si danno la mano avvolti nelle bandiere di Russia e Ucraina, come nel caso dell'ultimo singolo «Tra di noi», uscito lo scorso 17 maggio in occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia: a parlare di tutto questo nelle sue canzoni è un rapper, Revman.
Cosa di per sé già insolita, visto che il mondo del rap e della trap strizza da sempre l'occhio - spesso in modo un po' stereotipato - al guadagno facile, alla prevaricazione, all'estetica da gangster importata dalle metropoli statunitensi.
Ancora più insolito è che il 32enne Revman, cioè Sebastiano Vitale, palermitano, nella vita sia un poliziotto. Poliziotto assegnato alla questura di Milano, da dieci anni per le vie del capoluogo lombardo a ripercorrere la strada del padre Salvatore, poliziotto anche lui: «Sono stato poliziotto prima di diventarlo», dice Revman. «Crescere con un padre in polizia ti trasmette la mentalità dell'appartenenza. L'appartenenza al mondo della legalità, a quel mondo che si impegna contro ogni tipo di illegalità».
I turni in volante, le notti in giro per la città, la scoperta della Milano del degrado e della criminalità: esperienze che Revman ha trasferito nei testi delle sue canzoni. La passione per la musica risale ai tempi dell'adolescenza, «anni in cui mi sono avvicinato alla break-dance. Da lì ai musicisti rap il passo è stato breve, a cominciare da Eminem, il riferimento principale per gli appassionati della mia generazione».
Seppur affascinato da quelle rime e da quei ritmi, qualcosa per Sebastiano suonava comunque stonato: «Non mi sentivo rappresentato dall'esaltazione del modello criminale, dell'uomo che tende a prevaricare sulle donne e sugli altri. Soprattutto nei testi dei cantanti trap lo sdoganamento, e a volte l'esaltazione, dell'uso delle droghe è cosa nota. In me è così maturata la voglia - spiega - di produrre un tipo di rap che non si era mai sentito prima».
Dicendo cose che nessun rapper aveva mai detto prima. Una piccola rivoluzione, «la nascita del rap della legalità», come il poliziotto Sebastiano Vitale ama definire il suo stile. In «Rogoredo Trap» - (il boschetto di Rogoredo, periferia milanese, è stato per anni la principale piazza di spaccio del Nord, ndr) versi come «scrivo per i ragazzi senza obiettivi, senza qualcosa che li renda vivi non sono qui per farti la morale ma della vita farti innamorare» spiegano bene l'approccio di Revman. Ancora più urgente la denuncia in «Musica contro le mafie», brano in cui si ascolta la frase-manifesto del suo pensiero: «Io credo nella giustizia e non in questa immondizia».
Affascinante poi scoprire come il caso e la vita si siano divertiti a combinare e scombinare le carte. Siamo a Palermo, è l'estate del 1980. Una bambina di dieci anni sta giocando con un pallone per le strade del quartiere La Cala. Una delle più grandi fotografe italiane, la palermitana Letizia Battaglia (anni a documentare il dramma della mafia sulle pagine del quotidiano L'Ora), ha finito da poco di pranzare in una trattoria ed è colpita da quella bambina. Si avvicina e scatta.
Lo scatto diventerà «La bambina con il pallone», una delle immagini più celebri della fotoreporter scomparsa lo scorso 13 aprile. Quella bambina, Caterina Malizia, è la madre di Revman: «La cosa incredibile di questa storia è che per quasi 40 anni ho vissuto senza saperne nulla», racconta Caterina, che oggi è tornata a vivere nel suo paese d'origine, Monreale. «Solo quando Letizia Battaglia, nel 2018, lanciò un appello per ritrovare la sua" bambina con il pallone", sono riuscita a ricostruire tutto. Quella bambina ero io, quel pomeriggio del 1980 ero a La Cala in visita ai miei zii che abitavano non lontano dal punto della fotografia».
Caterina ha quindi avuto modo di conoscere Letizia Battaglia, di diventare sua amica, «di apprezzarla come fotografa e come donna. Dolce e determinata, è riuscita a trasmettermi dei valori che ormai fanno parte della mia vita». Caterina fa parte del cast di «Solo per passione», il film per la tv - la seconda puntata in onda stasera su Raiuno - diretto da Roberto Andò con Isabella Ragonese nel ruolo di Letizia Battaglia. Tutto si tiene, in questa storia di un figlio che diventa poliziotto come il padre e che canta la legalità e la lotta alle criminalità; e di un ex bambina che diventa amica di una fotografa simbolo di testimonianza e lotta alla mafia. Perché, come conclude Revman, «Falcone e Borsellino hanno lanciato i semi; noi dobbiamo essere la foresta».
Selena Gomez compie 30 anni: l’amore con Justin Bieber, la lotta contro il lupus, 10 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.
L’attrice e cantante, attualmente tra i protagonisti della serie «Only Murders in the Building», è nata in Texas il 22 luglio 1992
Le origini del nome
Dagli inizi targati Disney ai misteri di «Only Murders in the Building» (serie mistery-comedy visibile in streaming su Disney+ in cui recita accanto a Steve Martin e Martin Short): proprio oggi Selena Gomez, che - si può dire - abbiamo letteralmente visto crescere sul grande e piccolo schermo, compie 30 anni. Nata in Texas il 22 luglio 1992 porta - per scelta dei suoi genitori - lo stesso nome di una popstar amatissima nel mondo latino: Selena Quintanilla (morta tragicamente a soli 23 anni nel 1995). Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.
Attrice bambina
Selena Gomez ha iniziato a recitare a soli sette anni, interpretando Gianna in alcuni episodi della serie per bambini «Barney». Scoperta nel 2004 dalla Disney ha ottenuto il successo grazie al ruolo di Alex Russo nella serie «I maghi di Waverly».
Ambasciatrice UNICEF
Dal 2009 Selena Gomez è ambasciatrice dell’UNICEF.
Doppiatrice in «Hotel Transylvania»
Presta la voce a Mavis - figlia del conte Dracula - nella saga di animazione «Hotel Transylvania».
La lotta contro il lupus
Nel 2015 Selena Gomez ha dichiarato pubblicamente di essere affetta da una malattia cronica, il lupus. «Mi sono dovuta fermare perché soffrivo di lupus – ha raccontato a Billboard - e avrei potuto avere un ictus. Ho dovuto fare la chemioterapia e non potete nemmeno immaginare quanto sia stata male. Quando leggevo tutti quei pettegolezzi sul fatto che mi stessi disintossicando da una dipendenza avrei voluto urlare al mondo: “Sono in chemioterapia, idioti!”. Per questo ho voluto allontanarmi da tutto fino a quando non mi sono sentita di nuovo sicura e tranquilla». Dopo due anni ha annunciato tramite Instagram di essersi dovuta sottoporre ad un trapianto di rene, che le è stato donato dall’amica - anche lei attrice - Francia Raisa. «Mi ha fatto il dono più grande sacrificandosi e donandomi il suo rene. Sono incredibilmente benedetta. Ti voglio tanto bene sorella».
Vita privata
Dal 2008 al 2009 Selena Gomez ha frequentato Nick Jonas, componente dei Jonas Brothers. In seguito ha avuto una lunga relazione con il cantante canadese Justin Bieber (2010-2018) e ha frequentato per un breve periodo il cantautore The Weeknd.
La carriera nella musica
Ha pubblicato diversi album, prima con la sua band Selena Gomez & the Scene poi come solista. L’ultimo disco è «Rare» del 2020. Nel 2021 è ritornata sulle scene musicali con il singolo cantato in lingua spagnola «De una vez» e un EP, «Revelación».
Produttrice di «13 Reasons Why»
Insieme alla madre è stata produttrice esecutiva della serie televisiva «13 Reasons Why» (2017-2020), basata sull’omonimo romanzo del 2007 di Jay Asher.
Il disturbo bipolare
«Sono affetta da disturbo bipolare». Nel 2020, ospite dello show di Miley Cyrus «Bright Minded» su Instagram, Selena Gomez ha raccontato che le è stata diagnosticata la patologia «in uno dei miglior ospedali di salute mentale in America, il McLean, e ho discusso del fatto che dopo anni in cui mi sono capitate diverse cose ho capito che ero bipolare. E mi ha aiutato saperne di più. Non fa paura se si sa».
Il tweet a Mario Draghi
Lo scorso anno, nell’ambito dell’evento benefico Vax Live (ideato per chiedere la distribuzione dei vaccini anti Covid in eccesso alle persone bisognose) Selena Gomez ha scritto un tweeet indirizzato a Mario Draghi: «Vuoi contribuire a porre fine alla pandemia una volta per tutte? Unisciti a me. Chiediamo ai leader mondiali come il Primo Ministro italiano Mario Draghi di donare le loro dosi extra di vaccino alle persone che ne hanno più bisogno. Draghi Possiamo contare su di te?».
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 24 Ottobre 2022.
Il titolo è già tutto un programma: Vieni avanti, cretina! è lo spettacolo di e con Serena Dandini, al Teatro Ambra Jovinelli da domani al 30 ottobre, con il coordinamento artistico di Paola Cannatello. In palcoscenico anche Antonella Attili, Cristina Chinaglia, Martina Dell'Ombra, Federica Cacciola, Annagaia Marchioro, Germana Pasquero, Rita Pelusio e Francesca Reggiani.
Chi è la cretina di turno?
«Tutte e nessuna, ovviamente - ride Serena - Il titolo è un gioco provocatorio, che si riferisce al celebre Vieni avanti, cretino dei Fratelli De Rege, personaggi indimenticabili. Ho avuto la fortuna di entrare nell'atmosfera del loro mondo, e di molti altri comici della loro epoca, come Totò, quando ho diretto per alcuni anni l'Ambra Jovinelli: un palcoscenico storico che è stato il tempio del varietà e dell'avanspettacolo, quindi della comicità... e che per me è stato una sorta di università. Ma tornando alla "cretina", l'intenzione è di rivendicare la nostra parità di genere anche nella cretineria, che è fondamentale. D'altronde il tema della comicità al femminile lo percorro dai tempi della Tv delle ragazze , che ha oltre trent' anni».
La comicità femminile ha un nesso specifico con la fisicità?
«Esistono due esempi fondamentali della comicità al femminile, che appartengono alla storia dello spettacolo: Franca Valeri che non era bellissima, ma è stata una rivoluzionaria anche come autrice comica, in quanto scriveva i suoi testi, le sue sceneggiature, e questo ha rappresentato un passo in avanti ulteriore, rispetto all'epoca in cui si è fatta strada nel cinema, nel teatro e nella televisione.
Monica Vitti, invece, è stato un faro per tutte noi in altro senso: è stata la dimostrazione di come un'attrice possa essere comica e al tempo stesso drammatica, passando dai film esistenzialisti con Antonioni, alle irresistibili commedie con Alberto Sordi. Inoltre era una donna sexy, bellissima, fascinosissima...».
Perché la strada della comicità è stata più difficile da percorrere per le donne?
«Virginia Woolf diceva, oltre un secolo fa, che l'umorismo era negato alle donne, sottolineando però che "le donne e i bambini sono i principali rappresentanti dello spirito comico". Eppure, le donne si prendono molto meno sul serio degli uomini e molto spesso, dietro a una donna apparentemente cretina, si nasconde in realtà una donna molto intelligente. D'altronde le donne intelligenti danno sempre un po' fastidio e devono nasconderlo. L'ironia e soprattutto l'autoironia rappresentano un'arma straordinaria, potentissima: meglio prendersi in giro da sole, prima che lo facciano gli altri. E con questo spettacolo, vogliamo dire basta alla sindrome di Ginger Rogers».
Cioè?
«Ginger doveva riuscire a fare tutto quello che sapeva fare Fred Astaire, ma aggiungendo delle difficoltà: i tacchi alti e camminando all'indietro. Siamo stufe di tali dimostrazioni e poi diciamo la verità: la reale parità si potrà ottenere quando anche una cretina potrà avere lo stesso incarico di responsabilità di un cretino...».
Insomma, a prescindere dalla cretineria, le donne devono sempre dimostrare di essere più brave per raggiungere gli stessi obiettivi raggiunti da uomini magari mediocri...
«Esattamente. La manager femmina deve dimostrare capacità incredibili, che non vengono richieste ai suoi colleghi maschi. E la cosa davvero strana è che è stato un partito di destra, storicamente e apertamente maschilista, a puntare su una premier. Giorgia Meloni va ammirata per la sua determinazione nell'essere una leader: dovrebbe rappresentare un esempio per le sue colleghe del Pd che, in un ambiente fintamente egualitario, non sono riuscite ad emergere».
Il suo nuovo libro, «Cronache dal paradiso», parla di cretineria?
«No! - ride - È una storia di persone famose che hanno cercato il paradiso in terra».
Serena Dandini: «A scuola mi vergognavo della mia famiglia nobile. Trascinai mia mamma al Piper». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2022.
Sognava di diventare l’assistente della sua professoressa di lingue e letterature straniere all’università. «Invece fu proprio la professoressa a segnalarmi alla Rai per fare un provino - racconta Serena Dandini-, di quelli che il servizio pubblico dedicava ai giovani per inserirli nel mondo del lavoro. Se da un lato quella fu la mia fortuna, dall’altro fu la fine della mia sognata carriera universitaria».
Una fortuna iniziata però alla radio, non alla televisione... «No, iniziata come facchino!».
Cioè? «Non mi avevano affidato la conduzione di qualche trasmissione radiofonica, ma il compito di portare fisicamente, dall’archivio Rai allo studio dove si svolgeva il programma, i dischi da trasmettere, un bell’allenamento. Poi qualche conduttore ha cominciato a coinvolgermi, a farmi dire qualcosa al microfono e così via...».
Nata in una famiglia aristocratica, con padre avvocato e madre marchesa, da dove le è nata la passione per radio, televisione, teatro... «Innanzitutto, sono discendente di una famiglia aristocratica sì, ma decaduta, e poi da adolescente mi vergognavo, con i miei compagni di scuola, del cognome e dello stemma nobiliare, in cui non mi riconoscevo e da cui non avevo alcun vantaggio. Per fortuna sono stata l’unica, rispetto a mio fratello e mia sorella, a frequentare le scuole pubbliche e di questo sarò sempre grata a mia madre, un genio, perché ha intuito che con me l’istituto privato non avrebbe funzionato. Sono stata la pecora nera, ma l’intuizione di mamma mi ha reso cittadina del mondo».
Rispetto a una famiglia proletaria, lei cosa ha avuto di più o di meno? «Ho avuto di più la consapevolezza della decadenza, anche economica: non c’è niente di definitivo, tutto può cambiare all’improvviso, dalle stelle alle stalle, come si suol dire. Si può nascere in un posto al sole e conoscere poi il lato oscuro. Mio padre si era mangiato tutto, era rimasto solo lo stemma, che non so neanche bene cosa rappresenti: da lui non ho ereditato palazzi e gioielli, ma senso dell’umorismo e questo mi ha aiutato ad affrontare la vita, a dover contare solo sul mio impegno. Ho sempre temuto di finire in tailleur con la collana di perle».
Una contestatrice? «Una ribelle sin da quando, minorenne, andavo al Piper di nascosto: il tempio della beat generation, un mito. All’epoca il locale aveva un’apertura anche pomeridiana e, con un paio di amichette, uscite di casa con qualche bugia, ci accorciavamo le gonne, ci passavamo un rossetto sulle labbra per apparire più grandi e ci presentavamo all’ingresso, dove c’era un tipo severissimo: decideva se farti entrare oppure no».
I suoi genitori non se ne sono mai accorti? «Mia madre sì, e ne fu terrorizzata: il Piper era luogo di perdizione. Una volta le proposi di venirci con me e, con mio grande stupore, accettò la proposta. Lei, con il suo tailleur e il filo di perle, fu scioccata dall’ambiente, dai ragazzi che si baciavano in pubblico, dall’alto volume della musica... Avrebbe voluto mantenere il suo aplomb e invece, seguendomi sulla pista da ballo per controllarmi, si perse una scarpa. Il mio intento era quello di rassicurarla, invece ottenni l’effetto contrario».
Lei ha sempre puntato sull’effetto contrario, a cominciare dal suo primo grande successo, «La tv delle ragazze». «Più di trent’anni fa, abbiamo portato sul piccolo schermo il nostro “triunvirago”, ovvero l’energia dell’universo femminile, l’indignazione nei confronti del fatto che l’umorismo fosse terreno solo maschile e che le donne, per far ridere, dovevano necessariamente essere bruttine, quindi la loro comicità scaturiva dai difetti fisici. Abbiamo combattuto contro gli stereotipi. Per noi un faro era stata Monica Vitti, affascinante e buffa al tempo stesso. E poi Franca Valeri, ironica geniale. Le cose sono un po’ cambiate, ma non è sufficiente. Un consiglio alle ragazze di oggi: state attente, non vi distraete, basta poco per tornare indietro rispetto a certe conquiste, non solo artistiche».
Si riferisce alla violenza sulle donne: dieci anni fa uscì la prima edizione del suo «Ferite a morte». Ora è in libreria la versione aggiornata, dove torna a dare voce alle vittime di femminicidio. «Quando ho scritto la prima versione, non si poteva usare il termine femminicidio. Per questo genere di omicidi, la dicitura era “raptus di follia” o “delitto passionale”. Ma se non si può dare un nome preciso a un fenomeno, non lo si può combattere. Non avrei mai immaginato che siamo ancora qua a contare le vittime. Nonostante le buone leggi che sono state varate negli ultimi tempi nel nostro Paese, i numeri sono impressionanti e, se non affrontiamo questa piaga insieme agli uomini, non se ne esce. Proprio gli uomini devono farsene carico, essendone gli artefici».
Per questo ha inserito nel nuovo testo la testimonianza di un uomo? «Ho immaginato un uomo che bussa alla porta di un paradiso popolato dalle vittime, mogli, fidanzate, sorelle...».
La pandemia ha costituito un’aggravante? «Certamente! Per molte donne stare chiuse tra le mura domestiche con il proprio aguzzino, è stato un incubo».
Non solo i femminicidi, le donne devono ancora percorrere una lunga strada per conquistare ruoli rilevanti in politica. «Purtroppo sì, la leadership è un’annosa questione. Nel 1971, Enzo Biagi chiedeva a Monica Vitti: perché si batte per il femminismo? E lei rispondeva: perché forse è ora! Una risposta che non mi pare proprio passata di moda. Quando si parla di nomine importanti, pur essendoci un elenco sterminato di personaggi femminili con competenze eccezionali in ogni campo, vengono ignorati. Siamo in un paese patriarcale, maschilista e alle donne non viene riconosciuta la dovuta autorevolezza. Secondo me, nomineranno una donna quando ci sarà l’inguacchio, cioè un lavoro sporco da risolvere, così se va male è colpa della nominata. È la sindrome Enza Sampò: la presentatrice mi raccontava che la sua era stata una carriera di sostituzioni di colleghi, la chiamavano se qualcuno si ammalava o per altri imprevisti. Ma voglio essere ottimista: a forza di picconate le cose miglioreranno».
Tra i suoi numerosi programmi, a quale è maggiormente affezionata? «Sono tutti figli adorati, ma ricordo con divertimento la prima edizione di Parla con me, che venne attaccato da Silvio Berlusconi per lo sketch satirico “lost in wc”, dove due ragazze, presunte olgettine, erano chiuse nel bagno di un palazzo di potere, presumibilmente Palazzo Grazioli. Nello stesso programma, facemmo oltretutto un’incredibile anticipazione di quanto avvenendo».
Quale? «Neri Marcorè imitava Putin e nella scenografia dello sketch era rappresentato un grosso tubo del gas, con tanto di enorme manopola che lo zar minacciava di chiudere se veniva contraddetto. Ad ogni mia domanda scomoda, lui si arrabbiava, chiudeva il gas e lo studio televisivo calava nel freddo polare».
«Avanzi» fu un caposaldo della satira... «La nostra classe mista, uomini e donne insieme, ne combinava di tutti i colori. Ma eravamo agli esordi del programma, il budget era molto basso e i nostri attori, per realizzare bene le varie imitazioni, necessitavano di strumenti necessari. Quando Francesca Reggiani imitava Enrica Bonaccorti accadde un problemino: per somigliarle aveva bisogno non solo della parrucca giusta, abiti, trucco, ma anche di una dentiera che evocasse l’appariscente sorriso della famosa conduttrice di Non è la Rai. La dentiera costava parecchio ma una sera, a fine spettacolo, Francesca la ripone in camerino avvolta in un kleenex. La mattina dopo, le donne delle pulizie buttano quel kleenex, non sapendo del prezioso contenuto. Eravamo disperati e tutti quelli di Avanzi, vestiti e truccati, tipo Sabina Guzzanti-Moana Pozzi, Cinzia Leone-Edwige Fenech, o Corrado Guzzanti-Rokko Smithersons, cominciarono a grufolare nei cassonetti della spazzatura davanti allo studio Rai: cercavano i denti della Bonaccorti!».
Li trovarono? «Purtroppo no, facemmo una colletta per ricomprare la preziosa dentiera».
Da alcuni anni, lei realizza a Firenze, il festival «L’eredità delle donne». «Non è un festival delle donne, ma dove le donne possono parlare liberamente di tutto, anche dei loro difetti».
Per esempio? «Bè, capita spesso di essere competitive tra noi, e questo in certi casi non aiuta. Purtroppo riusciamo a essere stron... come gli uomini e forse anche di più».
Lei ha una figlia, Adele Tulli. È stata una brava madre? «A causa del mio lavoro, credo di essere stata una madre ingombrante, Adele è stata giustamente molto critica nei miei confronti e ha voluto fare il suo percorso indipendentemente da me. Ora ha 39 anni, fa la documentarista, è più colta, più preparata di me e siamo al giro di boa: è il momento della riconquista, abbiamo un rapporto meraviglioso. Voglio consolare, rassicurare tutte le mamme delle ventenni di oggi: la razza migliora».
E lei, col passare degli anni, con l’età che avanza, migliora? Ride di cuore: «In questo mondo di forever young, non è facile invecchiare. La vulgata dice che gli uomini, quando invecchiano, diventano interessanti, mentre le donne sono come al solito penalizzate. Mi piace però ricordare una frase del film Harry ti presento Sally dove, riguardo alla procreazione in età avanzata, lei dice a lui: per voi uomini è diverso, Charlie Chaplin ha avuto figli fino a 73 anni. E lui le risponde: sì, ma non riusciva a tenerli in braccio!».
Serena Grandi e l'ex Gianni Morandi: Perché l'ha lasciata. Da twnews.it e velvetgossip.it l'11 luglio 2022.
Selena Grandy e Gianni Morandi erano insieme quando il cantante era all'apice del suo successo. Improvvisamente, la feroce storia d'amore era finita.
Serena Grandi e Gianni Morandi non sono durati a lungo, ma è rimasto uno dei ricordi più belli dell'attrice che ha fornito i dettagli. Una storia d'amore da Barbara d'Urso qualche anno fa. È facile abbandonarsi con sicurezza al soggiorno di un presentatore napoletano e Grundy ne sa qualcosa. In effetti, è stata proprio lei a parlare dietro le quinte della sua relazione con Morandy che ha attirato molta attenzione sulle pagine della rubrica di gossip. Anni dopo, la storia d'amore, nata nel lontano1983, continua oggi a stimolare la curiosità tra i fan. Visibilmente emozionata, Serena Grandi ha raccontato a D'Urso della sua trama di amore giovanile con il famoso cantautore bolognese. .. Oltre a poter contare su una carriera di successo nel campo della musica, artista poliedrico che si è cimentato come attore e ha condotto diverse edizioni del Festival della Canzone Italiana. ..
Serena Grandi e Gianni Morandi: differenza di età 14 anni
Lei aveva solo24 anni. E non era ancora Femme Fatale che ha fatto tanti film della commedia italiana. 38È sempre stato una delle voci più famose della musica italiana. Per Serena Grandi è stato un amore importante, anche se è durato pochi mesi, ma nonostante un periodo così breve l'attrice ne ha fatto una delle emozioni che ha davvero commosso qualcosa nella sua vita. Sente una classica farfalla sulla pancia, "svolazza" proprio accanto a lui, e se la relazione continua, anche lei ha intenzione di sposarlo. Ho ammesso che lo sarebbe stato.. Ma il lieto fine non è stato il destino di questa storia. Infatti, qualche mese dopo, Serena e Gianni erano già lontani. Capisco davvero qual è il motivo dello scioglimento finché Serena Grandi (Il Salotto di Barbara Duso) non apre lo scrigno dell'amore sepolto in altri ricordi e svela altri dettagli molto importanti. Non ne ho avuto l'occasione.
Grandi di Barbara d'Urso: "Perché ci siamo lasciati"
In un modo più appropriato posto come lo studio di una conduttrice a Napoli che non è successo. Non molto tempo fa, l'ospite della D'Urso Serena Grandi ha raccontato perché ha portato a una rottura decisiva tra lei e Gianni Morandi. "Ci siamo lasciati perché lui era un po' più grande e io non ero pronto per entrare nella famiglia allargata. Ero molto giovane", ha detto l'ospite. .. Ma non è tutto! In un'intervista al settimanale DiPiù , ha anche parlato della sua intenzione di sposare una cantante e delle sue sfortunate conseguenze. " Ad un certo punto Gianni ha chiuso tutti i ponti. C'erano anche bambini al centro", dichiarando ancora Grundy, ma non nascondeva il fatto che era molto malato.
Dagospia l'11 marzo 2022. Da “Belve” - In onda stasera su Raidue alle 22.55.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti.
Grande puntata di Belve. L’attrice Serena Grandi sollecitata dalle domande della Fagnani torna e, sorprendentemente, smentisce alcuni aspetti controversi della sua vita, come l’uso della cocaina, aggiungendo tuttavia particolari inediti. Quando la giornalista le chiede: “Ma per lei è stato un momento di svago o un po’ di dipendenza in una fase della sua vita c’è stata?”. La Grandi nega tutto: “Avevo un figlio piccolo, dovevo pensare a lui... non avevo tempo per le sostanze, io odio tutto quello che è polvere”.
Al che Fagnani incredula, insiste: “Vabbè lei l’ha ammesso!” La Grandi ribatte: “L’ho dovuto ammettere, perché l’avvocato mi ha chiesto di ammettere, c’erano dei nomi ancora più importanti che hanno dovuto ammettere”. La Fagnani le chiede allora di essere più precisa: “Lei l’ha ammesso, pur non essendo vero, per uscire prima da quel processo? Quindi ha dichiarato il falso?”. La Grandi allora rivela un particolare inedito: “Ho mentito certo, ho mentito perché dovevo farlo, era l’unico escamotage per uscire da questi 157 giorni inutili”, riferendosi agli arresti domiciliari.
Con un divertente e a volte malinconico botta e risposta con Francesca Fagnani, Serena Grandi ripercorre tutta la sua vita, dai successi, agli amori, dai problemi con la droga a quelli finanziari. Racconta di alcuni suoi capricci da diva, come quella volta che pretese sul set una jacuzzi dentro una roulotte, ma anche di Paolo Sorrentino che l’ha voluta nella Grande Bellezza: “Sapevo che rivedendomi sarebbe stato un inferno, avevo un busto per essere così iconica e così tanta... lui pensava che fossi una diva al tramonto, è stato faticoso ma molto forte ma poteva essere anche depressivo... La Grandi, poi, mette su un siparietto divertente quando la Fagnani le chiede dell’altra diva dell’epoca, la sua rivale Francesca Dellera: “C’era la Grandi e c’erano le mezze calze”.
La Grandi, incalzata dalle domande precise della Fagnani smentisce con molta fatica e con momenti comici, tutta una serie di storie che le sono state attribuite, da Agnelli, a Morandi, a Celentano, a Pino Daniele, a Berlusconi e a Bettino Craxi... anche se, poi, in un fuori onda ....
Da “I Lunatici - Radio 2” il 6 ottobre 2022.
Serena Rossi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e le due e trenta circa.
Serena Rossi ha parlato della seconda stagione di Mina Settembre: "Quanto c'è di Mina Settembre in me? Molto. Mi è capitato di interpretare dei personaggi che erano tanto lontani da me. Con Mina invece ci sono un sacco di cose in comune. La città, la voglia di ascoltare gli altri, su alcune cose non siamo simili e mi fa anche un po' arrabbiare, soprattutto nelle sue faccende amorose. Però la perdono perché alla fine le voglio molto bene. Napoli? Mina Settembre la racconta dall'alto al basso. Ultimamente a livello cinematografico andava di moda una Napoli dark.
Invece Napoli è mille colori. E allora facciamoli vedere. Mostriamo i tanti volti di questa città e i napoletani ne sono orgogliosi. Marisa Laurito sul set? Più o meno come la vedete. E' un vulcano, un concentrato di energia, è una donna accudente, generosa, abbiamo passato ore intere a ridere, chiacchierare, parlare di cibo. Siamo diventate amiche, la guardavo da piccola nei programmi con Arbore, ho sempre avuto una ammirazione nei suoi confronti".
Sul motivo che la porta a piacere molto al pubblico femminile: "Forse perché mi vedono come una non rivale. Sono una persona abbastanza normale, questo credo sia rassicurante. Credo di apparire per come sono. Il mio pubblico è prevalentemente femminile perché non sono una minaccia. Mi vedono come una potenziale amica, o nipotina. Ed è bellissima questa cosa. Se ho mai recitato il ruolo della cattiva? Non troppo, ma mai dire mai. Mi piacerebbe moltissimo farlo. Mi divertirebbe molto".
Sugli esordi: "Ho iniziato cantando, facendo le cerimonie a Napoli, matrimoni, pianobar. Poi mi hanno scelta per una piccola parte in uno spettacolo teatrale. Poi un regista, Albano, è venuto a vedere lo spettacolo, una sera, e ha detto che avrebbe voluto farmi un provino. Ho fatto il provino con estremo disincanto, e lui mi scelse. Arrivai sul set con mio papà il primo giorno, ero minorenne, avevo 16 anni. Dopo la prima inquadratura il regista guardò mio padre e gli disse 'Signor Rossi, Serena da grande farà l'attrice'".
Sulla gelosia nel rapporto di coppia: "Se sono gelosa nel mio compagno? E di che! Non controllo nulla, dopo tanti anni come ti viene. Dopo un figlio, una casa insieme, tanti progetti, la fiducia è da mettere al primo posto. Mi sento estremamente tranquilla".
Sui social: "Su Twitter ogni tanto c'è qualcuno che mi offre un sacco di soldi in cambio di scarpe. Hater non ne ho. Espongo poco i fatti miei, sono abbastanza riservata. Una volta uno ha scritto una cosa orrenda, ci sono rimasta malissimo. Ho pubblicato la foto di fine set di Mina Settembre. Ero seduta con la mia sedia sui binari di un treno, ovviamente chiusi. E uno mi ha augurato una cosa brutta... . Da una parte ci sono rimasta, non ci sono proprio abituata. Poi però ho pensato che è un messaggio su migliaia".
Anticipazione da Oggi il 5 ottobre 2022.
Con «Mina Settembre 2» ha conquistato oltre il 28 per cento di share e 5 milioni di telespettatori ma in intervista a OGGI, in edicola domani, rifiuta la definizione «Signora della fiction»: «Forse la signorina. Non esageriamo».
Serena Rossi racconta per la prima volta di quando, attraversando un periodo di difficoltà, ha chiesto un sostegno psicologico, come fa il suo personaggio nella serie. «È capitato in passato, quando, nel 2009, mi sono trasferita da Napoli a Roma e ho lasciato la casa dei miei genitori con le sue certezze e la soap Un posto al sole. Mi ha spinto a chiedere aiuto il disagio che provavo, la fatica di crescere, la paura del futuro. Ho sentito che avevo bisogno di una guida. A volte basta parlare con un’amica, altre no».
L’attrice confida a OGGI anche desideri e lati nascosti di sé. Come questi: «Andare al prossimo Festival di Sanremo sarebbe un sogno che si realizza», dice Serena, che è legata all’attore Davide Devenuto col quale ha avuto un figlio, Diego, nel 2016. E svela emozioni e rimpianti. Nelle prime mette la nascita di suo figlio. «A pensarci mi emoziono ancora». E rimpiange di non essere stata accanto al nonno quando stava male: «Mi faceva soffrire l’idea che non stesse bene e c’era sempre un motivo per non andare da lui».
La famiglia torna sempre nei suoi discorsi, anche ricordando quando da ragazzina cantava col papà nei locali e alle feste di nozze. Sulle tanto discusse future nozze con Davide Devenuto dice: «Se lo faremo sarà un matrimonio in famiglia: io, Davide, Diego, i genitori».
Serena Rossi: «Sono stata bocciata per il ruolo di Lila ne L’amica geniale». Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.
L’attrice napoletana ha rivelato di non essere stata scelta per quel ruolo nella serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante: «Non ho avuto il tempo per prepararmi meglio».
Non succede spesso che un attore riveli per quale ruolo è stato bocciato. Lo ha fatto però Serena Rossi, in un’intervista a «Grazia». L’attrice napoletana ha dunque raccontato di aver fatto un provino per il ruolo di Lila, una delle due protagoniste dell’Amica geniale, serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante. Aggiungendo anche che questo provino, a cui teneva, era arrivato però in concomitanza con un altro impegno che non le ha permesso forse di prepararsi come avrebbe voluto. «Un provino che non ho superato? È successo con L’amica geniale», ha spiegato, aggiungendo: «Mi hanno chiamato per la parte di Lila. In quel periodo ero impegnata sul set di Mina Settembre. Mi sono chiesta come sarebbe andata se avessi avuto più tempo per prepararmi. Era un bel ruolo di donna forte».
Gli altri impegni
Alla fine, le protagoniste, Gaia Girace e Margherita Mazzucco, sono state confermate anche per tutta la terza stagione nei ruoli di Lila e Elena. E «Mina Settembre» è stata una fiction Rai di grande successo, seguita da oltre sei milioni di persone, confermando, di fatto, il periodo di grande ascesa dell’attrice, che è stata anche la madrina all’ultimo Festival del Cinema di Venezia.
· Sergio e Sergio Castellitto.
Sergio Castellitto: «Le Br? Un’idea seducente, io ho erotizzato nel teatro. L’ego? Sovrastato da quello dei figli». Renato Franco su Il Corriere del Giorno l'8 Maggio 2022.
L’attore interpreterà il generale Dalla Chiesa in occasione dei 40 anni dalla morte.
Ventenne negli anni Settanta, di sinistra: come ha vissuto la stagione delle Br?
«L’arte mi ha salvato. Erano gli anni in cui nasceva la passione per il teatro, quella è stata la mia piccola rivoluzione rispetto al sentimento tipico della gioventù — il desiderio di rompere con una regola, con un destino già prefissato per te: io ho erotizzato tutto lì, nella recitazione. Erano gli anni dell’accademia, della passione, ho letto Shakespeare e Cechov, non leggevo i bollettini delle Br».
Per molti era un’idea seducente...
«Purtroppo sì. Era seducente qualsiasi idea rompesse con un’azione che appariva ferma, immobile, pietrificata nello sviluppo del futuro. In qualche misura è naturale che sia così, che lo spirito giovanile vada verso la contrapposizione, verso la rottura; è addirittura legittimo, ma arriva un momento in cui si capisce dove sta la verità, anche se la verità è un concetto labile, come il potere. Il potere è sempre altrove, diceva Sciascia».
Ieri la società era immersa nella contrapposizione politica, oggi prevale il disincanto...
«La classe politica italiana ha lavorato bene per costruire il disincanto della maggior parte dei cittadini, la personificazione più evidente di questo stato d’animo è nella disaffezione al voto; quando la metà della popolazione non va a votare dobbiamo farci delle domande. Il Parlamento mi sembra fuori fuoco rispetto a quanto sia decisiva la voce della televisione. La tv è la nuova Chiesa, è lì che ormai crediamo si dica la verità. L’altra Chiesa sono i social, un mostro che si fonda su una sostanziale stupidità: la pretesa di pensare che esistiamo e ci sentiamo rappresentatati solo per il fatto di possedere un profilo virtuale».
Dopo aver interpretato tanti eroi del nostro tempo — Coppi, don Milani, Padre Pio, Rocco Chinnici — Sergio Castellitto veste la divisa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nella serie in 4 serate (il titolo in via di definizione) che arriverà su Rai1 in autunno, in occasione dei 40 anni dalla morte di Dalla Chiesa (3 settembre 1982), ucciso in un agguato di Cosa Nostra. Coprodotto da Stand By Me e Rai Fiction, è un action-movie che si concentra sui dieci anni che lo videro impegnato nella lotta al terrorismo.
«La figura di Dalla Chiesa è molto interessante dal punto di vista politico e sociale, ma lo è altrettanto dal punto di vista psicologico, che è quello che mi interessa di più come attore. È un uomo che ha vissuto sempre in guerra, ha iniziato con la Resistenza e ha finito con Cosa Nostra, un uomo che ha fatto subire alla propria affettività le conseguenze dolorose delle sue scelte anche come marito e padre. Come tutte le persone che si rispettano era un uomo che aveva paura, per sé e per gli altri. Un sentimento umanissimo che però non prevaleva mai sul suo senso del dovere».
Qual è stato il suo tratto nella lotta alle Br?
«La sua straordinarietà è stata quella di non essere solo un soldato, un carabiniere, ma un grande investigatore, anche attraverso l’intuizione psicologica: è stato uno dei primi a capire che per poter comprendere il terrorismo non si poteva prescindere dal fatto che un processo rivoluzionario nasce sempre da una crisi delle istituzioni, e lui ha intuito che per capire quel processo e combatterlo, era importante normalizzare, umanizzare il nemico. I terroristi per arrivare a uccidere il nemico dovevano disumanizzarlo, demonizzarlo; Dalla Chiesa invece adottava il processo contrario. L’indignazione a prescindere, che è sacrosanta, è invece spesso l’anticamera della propaganda».
È un film che risponde al dovere della memoria o racconta anche qualcosa del nostro oggi?
«Il dovere della memoria è intoccabile ma nasconde il rischio di mummificare e santificare certe figure in una sorta di celebrazione retorica. La capacità di analisi di Dalla Chiesa, il suo modo di andare alla radice dei motivi per cui il terrorismo si affermava, servirebbero anche oggi rispetto all’orrore che stiamo vivendo. Normalizzare e umanizzare il tuo nemico è l’unico modo per smascheralo».
Nella sua carriera prevale il cinema di impegno, il dramma più della commedia. È una sua scelta?
«Spesso hanno scelto gli altri per me, il problema è che in Italia ci sono molti film comici e poche commedie. Io penso che un attore dovrebbe scrivere sempre accanto al curriculum delle cose fatte anche il curriculum delle cose che non ha voluto fare — che per rispetto non dico. Recitare significa anche esprimere la tua opinione, ogni film fatto rappresenta una scelta precisa».
Lei è un attore di successo, sua moglie Margaret Mazzantini una scrittrice di primo piano, suo figlio Pietro una giovane promessa o realtà che dir si voglia. Come funziona la distribuzione dell’ego in casa...
«Il nostro di genitori è sotto le scarpe perché esiste solo l’ego dei figli. La nostra quotidianità è lontana dall’immagine che una famiglia — diciamo con pudore — di artisti può lasciar pensare. L’impresa eccezionale è essere normali... e ai nostri figli abbiamo dato sostanzialmente una cosa: la libertà intesa come impegno, una libertà che ti devi guadagnare ogni giorno, non come pretesa o diritto di per sé».
Avete 4 figli, due maschi e due femmine, che di secondo nome si chiamano Contento/a: un’aspirazione, un invito, un errore da giovani innamorati?
«È un augurio. La felicità confina spesso con la paura di perderla, con una certa isteria dell’animo, mentre la contentezza sembra a me e Margaret uno stato più rasserenante dell’esistenza. E poi è bello che abbiano un nome che li accomuna come fratelli e sorelle».
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.
Pietro Castellitto, come sono i trent' anni?
«Sereni. Ma c'è la consapevolezza che non tutto si può fare».
Perché?
«Perché a vent' anni tutto ti sembra possibile. Sia che tu voglia fare il regista sia che tu voglia diventare albergatore. A trenta capisci che per fare qualsiasi cosa devi entrare in un "giro"».
Lei però ha cominciato a recitare a tredici anni. Il film era «Non ti muovere», regia di Sergio Castellitto, suo padre, da un romanzo di Margaret Mazzantini, sua madre.
«E tutti allora giù pesanti con i vari "è figlio di". Qualunque cosa facessi, tutti a ricordarmi da dove venivo. Così per anni e anni ho scritto.
Ho scritto tantissimo, cose mai pubblicate e nemmeno trasformate in un film. Cose mie, ricerche personali. Volevo fare qualcosa di artistico , ma facevo fatica a trovare un punto fermo».
Che cosa ha innescato poi la svolta?
«Tante persone che mi hanno guardato limpidamente, che hanno cercato in me il talento oltre il cognome. Mario Gianani, per esempio».
Il produttore di «Speravo de morì prima», la serie tv in cui lei fa Francesco Totti».
«Io ho le idee chiare, ho anche delle ambizioni. Ma, giuro, fare Totti per me è stato un onore. Totti per noi non è un essere umano, Francesco è un'icona. Lo vedi così tante volte che quando te lo trovi davanti e scopri che parla, che sorride, che si tocca i capelli, non ti pare vero».
I dettagli del primo incontro con Totti.
«A pranzo vicino a Piramide (zona del quartiere Ostiense di Roma, ndr ). Io che manco spiaccico parola, lui che mi guarda e poi fa: "Ahò, se devi fa' Totti ar cinema mo' devi magna'". E comincia a passarmi pasta, pane, carne. "Magna", mi ripete. Io sto lì con la pancia piena, non mi va più niente, ma gli faccio: "France', se me lo passi tu me magno pure er legno"».
E all'anteprima, quando lui si è visto sullo schermo con la faccia di Pietro Castellitto?
«Lo avevano invitato a vedere il primo episodio al cinema da solo con la famiglia, cioè Ilary Blasi e i figli Cristian e Chanel. A metà puntata mi manda a chiamare. Io entro in sala, sudo freddo. Ma lui ride e mi fa: "Ahò, Chanel dice che io parlo proprio così". Gli è piaciuto. Evvai!».
Chissà l'invidia degli amici di Roma Nord.
«Il gruppo storico. Casa dei miei è dietro ai Parioli, io ho preso casa da solo un po' lontano».
Liceo?
«Il "Falconieri", liceo classico. Periodo epico. Un solo esempio: una volta ho azionato l'allarme antincendio facendo evacuare l'intero edificio».
Ragazzo irrequieto?
«Per usare un eufemismo. Mio padre ogni tanto si incavolava e girava per la casa dicendo "Ma dove ho sbagliato?"»
Sergio Castellitto in una delle sue migliori interpretazioni, insomma.
«Siamo quattro figli, due maschi e due femmine. Però mamma e papà ci sono stati sempre per noi. Famiglia molto unita. Litigi e discussioni, certo, ma loro due sono stati genitori perfetti. Tanto è vero che oggi quando penso a un figlio mi dico che non potrei farlo, perché penserei troppo a me stesso, non potrei mai essere come loro. Un modello autentico, fin troppo».
Mai fumato una canna?
«Be', sì».
Lei nemmeno fuma le sigarette.
«Certo, e allora? Mai fatta una canna da solo, sempre con gli amici e comunque molto di rado. Sono salutista, faccio judo, con i soldi della serie su Totti mi sono comprato una piccola barca che però adesso voglio vendere».
Perché?
«Perché la uso poco, devo lavorare. Non penso tanto ai soldi, se vivessi in America adesso sarei più ricco, ma non mi importa».
Come spende i soldi?
«Cerco un po' di sicurezza. Poter fare un viaggio o permettermi un ristorante senza ansie. Tutto qui. Ma in questo sono stato bene educato dai miei. Ha presente Massimo Ferrero?»
Ma chi, «Er Viperetta»?
«Proprio lui, il produttore. Quando ero piccolo una volta venne a casa nostra. Gli dissi che raccoglievo le figurine e lui mi diede cinquantamila lire. Mai visti prima tanti soldi. Mi disse: "To', vatte a comprà er pacco intero". Intervenne papà che prese i soldi e glieli restituì. Non avrebbe mai permesso a un bambino di spendere così tanto tutto insieme. Ma soprattutto papà voleva che io le figurine le raccogliessi poco per volta».
E mamma Mazzantini si è mai arrabbiata?
«Allora, una volta, tornando a casa in motorino con un amico, ci fermammo e io mi feci fare un tatuaggio sulla caviglia. Lei lo vide e mi disse: "Ma che ti sei fatto? Mi pare un baffo"».
Obiezione estetica, più che etica.
«Mia madre è la persona più sincera con sé stessa che io conosca. Da lei ho imparato a fissare dentro di me un parametro di giudizio. Più questo è chiaro, meglio si riesce a scrivere».
Sì, perché lei è anche scrittore. Il suo romanzo d'esordio, «Gli iperborei», ha avuto recensioni molto buone e ha appena vinto il Premio Opera Prima del Viareggio-Rèpaci. La storia di un gruppo di ventinovenni della Roma ricca, persi in troppi soldi, troppa solitudine, troppi adulti.
«E troppe pressioni. Prima, quando dicevo che a trent' anni arriva il disincanto, volevo dire che per la mia generazione tutto è complicato. Avvertiamo un senso di oppressione in ogni progetto. Burocrazia che blocca i sogni».
Energia e idee, ma vi sentite prigionieri di una ragnatela di ostacoli?
«Cerco di dirlo in modo chiaro: penso che per un giovane uomo della mia età sia più difficile mettere a frutto il proprio potenziale rispetto a uomini di altri tempi. Ci sentiamo pieni di possibilità ma poi ci accorgiamo che non riusciremo mai a cambiare il mondo come lo hanno cambiato quelli prima di noi».
Eppure sembra che a lei tutto riesca bene. Regista con «I Predatori», attore, scrittore.
«Sì ma è stato il frutto di un lavoro su me stesso. Io a 21 anni ho conosciuto il fallimento».
E cioè?
«Profonda crisi. Ho cominciato a recitare da bambino, tutto mi sembrava facile. Ma non lo è. Allora a ventuno anni smisi. Mi misi a fare altro, a studiare filosofia. Pensi che a un certo punto della mia vita ho detto di voler fare il professore. Cominciai a scrivere, I Predatori l'ho girato a ventisette anni ma l'ho scritto a ventitré. La scrittura chiarisce tante cose. E sono un lettore vorace: Nietzsche, Foster Wallace, Hemingway, Fante. Solo letteratura internazionale».
La cosa migliore fatta finora?
«Il romanzo, senza dubbio».
È difficile parlare di questa generazione?
«Lo fanno i grandi, spesso usando modelli sbagliati. O ci dipingono come barboncini ammaestrati o come depravati. Io di una cosa sono certo: quando avrò cinquant' anni non mi metterò mica a scrivere di ventenni o trentenni».
Che sentimenti nutrite verso i quaranta-cinquantenni?
«Non vi guardiamo proprio».
Touchée.
«No, dai. Il punto è che, proprio perché siamo sempre raccontati dai grandi, voi pensate che noi vi odiamo, che proviamo risentimento perché ci avete tolto il futuro o cose del genere. Ma manco per sogno. Noi guardiamo a noi, ci concentriamo sui nostri casini, sui sogni. Non vi odiamo. E non so se questo sia un bene».
I ragazzi e le ragazze del romanzo sembrano sempre in fuga. Insofferenza per cosa?
«Per i valori fintamente progressisti in cui si cresce in tante famiglie con i soldi».
Non ne potete più?
«La mia famiglia non è mai stata finta. Sono cresciuto respirando un progressismo anarchico. Con spirito critico, insomma».
Ce ne vuole tanto per liberarsi dall'oppressione del «figlio d'arte»?
«Ne esci quando ti rendi conto che quella è solo un'arma nelle mani di chi ti vuole mettere in difficoltà. Paolo Maldini è figlio d'arte, ma qualcuno ha mai messo in discussione il suo talento?».
A proposito di calcio...
«José Mourinho è uno che sa far accadere le cose. E ho detto tutto».
L'attore-modello?
«Matt Damon. Perché non ha ancora fatto il film della vita. Sa farsi aspettare. Non mi chieda però il regista da cui vorrei essere diretto».
Lo faccio: fuori il nome del regista.
«Sergio Leone».
Pietro...
«La mia generazione ha due punti fermi: Beppe Vessicchio e, se sei romano, Totti». Un'amicizia bella nata girando film?
«Matilda De Angelis. Ci siamo conosciuti sul set di Rapiniamo il Duce , di Renato De Maria».
Per la verità, stando alle foto che sono uscite, sembrerebbe qualcosa di più.
«Durante la lavorazione del film abbiamo legato e ci siamo concessi colazioni lunghissime. E passiamo molto tempo insieme, Matilda è una persona semplice e molto intelligente. E sa perché mi piace? Con lei si può parlare di tutto».
Come vive l'amore Pietro Castellitto?
«Ricordo la prima volta che mi sono innamorato, alle elementari. Non le ho mai detto nulla, perché lo vivevo con un senso di impotenza. Era doloroso. Oggi è diverso, ma ho sempre fatto sogni di un vecchio. Anche da bambino, mica sognavo di baciarla: sognavo di portarla a cena ».
Vabbè ma mica sono sogni da vecchi.
«Insomma».
E come si vede tra vent' anni?
«In un salone pieno di luce, con una camicia bianca, a parlare di lavoro con i miei fratelli».
Usciamo dal ristorante, in piena Roma Nord. Un cameriere lo ferma e gli dice:
«Ahò, sei un grande».
Castellitto-Totti sorride - un sorriso bellissimo, montato sotto occhi verde-acqua chiaro - e risponde: «Eh, mo vediamo».
La storia (vera) dei Sex Pistols rivive in una serie. La musica rock degli anni '70 è la colonna portante di Pistol, serie di Disney+ che racconta la nascita, l'ascesa e la discesa della mitica band che ha sconvolto il panorama musicale del secolo scorso. Carlo Lanna il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
Spregiudicati e anticonformisti. Così sono conosciuti i Sex Pistols, la storica rock band inglese che, nel corso degli anni ’70, si è fatta strada nell’ambiente musicale diventando poi un fenomeno di massa. È stato fulminate il successo per il gruppo capeggiato da Steve Jones tanto da entrare nei libri di storia come i fautori di un nuovo genere musicale, ancora oggi imitato e mai eguagliato. I legami, i sogni, le vittorie e le sconfitte dei Sex Pistols sono state fonti di ispirazione per Pistol, miniserie tv disponibile dall’8 settembre su Disney+ e diretta da Danny Boyle (premio Oscar per The Millionaire), che ripercorre le tappe salienti della band mentre si muovono nel contesto underground londinese, durante una devastante crisi economica che ha stravolto tutta l’Inghilterra. Sei gli episodi previsti, disponibili in streaming da subito, per immergersi in una storia folle, dissipata ma che racconta con un pizzico di malinconia un’epoca di grandi cambiamenti sociali, politici e culturali.
Pistol funziona, non lo si può negare. C’è l’imprinting fin da subito. Grazie allo stile psichedelico di Danny Bolye (autore anche di Trainspotting) è bello scoprire una storia sincera e vera di una rock band che è stata capace di lasciare un segno nell’immaginario di tutti. Se è una serie da vedere? Assolutamente sì. Non solo per riscoprire la musica dei Sex Pistols, che rivive nella sua forma più smagliante, ma anche per immergersi nelle atmosfere degli anni ’70, così vivide e così affascinanti.
Steve Jones e la "nascita" dei Sex Pistols
Jeans a zampa di elefante, capelli lunghi e arruffati, sigaretta sulle labbra, sguardo schivo e sorriso sghembo. Così si presenta il giovane Steve Jones (Toby Wallace, visto su Netflix in The Society) ragazzo scapestrato che sogna in grande e che immagina di poter cambiare il mondo. Ha una voce penetrante e fa battere il cuore a troppe ragazze. Ha un passato tormentato e un’adolescenza per nulla facile, e vive rincorrendo il mito di David Bowie che proprio in quel periodo ha trovato grande consenso tra i ragazzi come lui. Steve vuole essere proprio come il Duca Bianco: una star a tutti gli effetti. Di fatto, il giovane ha talento da vendere ma con la sua sgangherata band non riesce a trovare nè un ingaggio né tanto meno un manager disposto a rappresentarlo. Fino a quando non arrivano a Kings Road a West London, nel negozio SEX di Vivienne Westwood e del magnetico Malcolm MacLaren (Thomas Brodie -Sangster). Rapiti dal fascino di Steve, trovano in lui il portavoce di una generazione stanca di abbassare la testa e di non combattere per il proprio futuro. Malcolm diventa così il manager della band e, di lì a poco, si accenderà la magia sui Sex Pistols e il mondo della musica non sarà più lo stesso.
Un racconto umano, sboccato ma accattivante
Pistol è una serie che non lesina nei dettagli. Con un tratto ruvido, forte, potente e stralunato, apre la finestra sul sottobosco della musica hard rock degli anni ’70, nata come canto di rivolta per i più giovani, oppressi da una società che non riesce ad ascoltare il loro grido. La miniserie, da cui emergono tutte le caratteristiche più particolari della poetica di Danny Boyle, non è solo una rilettura alquanto romanzata di una storia vera ma è soprattutto il ritratto di un’epoca a noi lontana ma vicina, allo stesso tempo. Gli usi e costumi degli anni ’70 implodono con veemenza, facendo da cornice a un racconto potente sulla gioventù dei "figli dei fiori" e "dell’amore libero", tratteggiando l’ascesa e la discesa della band dei Sex Pistols. Oggi sono delle icone, ma ieri erano dei sovversivi, etichettati come "nemici del sistema", ma in pochi avevano compreso il loro potenziale. E la serie percorrere la nascita, il successo con il primo (e unico) album di studio, gli eccessi, i vizi, le virtù e le liti tra il gruppo. Il tutto servito con il linguaggio schietto che non guasta di certo l’appetito.
La storia vera dietro la fiction
Tutto quello che è viene raccontato in tv non si discosta dai fatti realmente accaduti. Pistol, più che altro, non rivela solo la nascita e l’ascesa dei Sex Pistols, ma si concentra anche sulle vicende personali della band. Di sicuro è stato il gruppo musicale più influente della storia, una vera icona per il punk che si ascoltava nel periodo a Londra. Nascono nella City nel 1975. Anche se la carriera non è stata longeva – è durata solo tre anni – , i Sex Pistols sono arrivati comunque al successo e descritti, in epoca più recente, dalla BBC come "l’unica e sola punk rock band". Hanno pubblicato solo un album di studio, intitolato Never mind the Bollcks, Here’s The Sex Pistols e 4 singoli. Sono emersi nell’ambiente come una risposta innovativa a ciò che si respirava nell’ambiente musicale dell’epoca, cavalcando soprattutto il genere del rock progressivo.
Nella loro carriera hanno creato molte controversie nella Gran Bretagna degli anni ’70. I loro show, ad esempio, sono stati ripetutamente ostacolati dalle autorità. E il singolo God save The Queen, pubblicato nel 1977 durante il Giubileo d’argento, fu preso di mira perché considerato un attacco diretto alla monarchia e al nazionalismo. Si sono sciolti nel 1978 durante un turbolento tour negli Sati Uniti. Rimasti in tre, hanno continuato a suonare per un paio di anni sotto un altro nome, per tornare poi in un concerto reunion nel 1996. Sed Vicious, uno dei membri fondatori, è morto a 21 anni a causa di una dose di eroina.
"Una fantasia borghese"
Eppure il progetto non è stato accolto di buon occhio da John Lydon, il frontman della band. Sui social e attraverso il suo portavoce ha attaccato duramente il progetto di Pistol. "Eravamo tenuti a credere che fosse la storia di Steve Jones, non quella dei Sex Pistols – rivela -. Ma vedendo il trailer le cose non stanno proprio così. Un tizio che assomiglia a John è stato sfruttato per vendere questo prodotto – continua -. Vengono messe in bocca a John parole non sue nel tentativo di riscrivere la storia. Una fantasia borghese. Disney ha rubato il passato e creato questa favola che ha poco a che fare con i fatti veri".
L'anarchico punk dei Sex Pistols affascinato dalla politica italiana "Bellissima condizione di caos"
Pionieri di una generazione di rocker
Sono entrati nella storia dopo uno show in tv e grazie a un articolo pubblicato su Rolling Stone, scalando poi la vetta delle classifiche di gradimento da parte del pubblico. Il loro unico album fu un successo singolare all'interno del movimento punk e un importante evento nella storia della musica popolare in generale. Il disco è regolarmente citato come uno dei migliori di sempre: nel 2006 raggiunse la posizione 27 sulla rivista Q Magazine, mentre su Rolling Stone si trova al secondo posto nella classifica dei migliori album degli ultimi 20 anni. Nel 2004, ancora su Rolling Stone, i Sex Pistols alla posizione 58 nella lista dei 100 migliori artisti di tutti i tempi.
Perché vedere la serie tv?
Pistol non è una docu-fiction ma romanza un pezzo di storia contemporanea. Piace proprio perché non santifica la band, anzi, da quel ritratto esce un’immagine molto brutale di Steve e company, ma non poteva essere diversamente. Convince per quel suo ritmo frenetico, per la regia di grande impatto e per un cast valido. Da vedere non solo per conoscere cosa c’è dietro la nascita dei Sex Pistols, ma anche per conoscere l’ambiente giovanile di ieri. Non così diverso da quello che i giovani post-Covid e post-pandemia stanno vivendo.
Danny Boyle: «Vi racconto come i Sex Pistols cambiarono la storia del rock». Francesca Scorcucchi su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.
Il regista di «Trainspotting» e la serie sulla band pioniera del punk basata sul memoir del chitarrista Steve Jones. Su Disney+, dall’ 8 settembre, per sei puntate
Danny Boyle ha costruito il suo successo sul quel racconto un po’ edulcorato della gioventù bruciata anni’90, uso e abuso di eroina compresi, che fu «Trainspotting». Già, era il 1996: oggi compie un’operazione simile con una mini-serie in sei puntate che racconta la formazione e i pochissimi anni di vita dei Sex Pistols, i punk inglesi che rivoluzionarono la scena musicale londinese tra gli anni ‘70 e ‘80.
Su Disney +, dall’8 settembre «Pistol», al singolare, è basato su «Lonely boy», memoir del chitarrista Steve Jones. Boyle, che è anche produttore esecutivo del progetto e ha diretto tutti gli episodi scritti da Craig Pearce, spiega che quei ragazzi furono in grado di scuotere il potere costituito con canzoni come «God Save the Queen», censurata dalle radio britanniche perché considerata un vero e proprio attacco alla monarchia.
IN OCCASIONE DEL GIUBILEO
«God Save the Queen» (per davvero): i Sex Pistols diventano buoni con la Regina
«Quella cultura, quella musica e persino la loro moda furono, ai tempi, più importanti della politica». Il regista di Manchester gioca sulla contrapposizione tra loro e la generazione precedente, la cui strada era segnata e consisteva nel nascere, crescere e andare a lavorare nella fabbrica dove lavorava il padre. «Eri giovane e già vecchio allo stesso tempo», continua Boyle. È a quel destino che si ribellarono Johnny Rotten, Steve Jones, Paul Cook e Glen Matlock poi sostituito da Sid Vicious (nella serie sono Anson Boon, Toby Wallace Jacob Slater, Christian Le Howes e Louis Partridge). «Quei ragazzi cambiarono la prospettiva».
Il racconto parte dalla frequentazione della boutique SEX, specializzata in quella «anti-moda», magliette tagliate, pantaloni di pelle e accessori fetish, che poi si sarebbe diffusa fra i fan dei Pistols. Il negozio era di Malcolm McLaren (Thomas Brodie-Sangster) e Vivienne Westwood (Talulah Riley). McLaren divenne il manager della band che, dopo vari nomi (prima The Strand, poi The Swankers) e vari avvicendamenti, finì per diventare famosa come i Sex Pistols.
La vita del gruppo fu breve, tre anni di passione, controversie, censure, liti, vite al limite e fatti tragici, come la morte in circostanze sospette della ragazza di Sid Vicious, Nancy Spungen. Uno degli episodi infatti si intitola «Nancy and Sid», in contrapposizione con il film del 1986 con Gary Oldman, «Sid and Nancy». Sid sarebbe morto per overdose di eroina poco tempo dopo.
«Una delle frasi celebri di McLaren, agli inizi della band fu: stanno andando benissimo, già si odiano», sorride Boyle. Non va meglio ai giorni nostri. Steve Jones e il resto del gruppo hanno fatto causa (e l’hanno vinta) contro John Lydon (Johnny Rotten) perché quest’ultimo stava ostacolando il progetto. Lydon è arrivato ad affermare che la serie è irrispettosa. Curioso lo dica il frontman di una delle band più irrispettose di sempre.
Sfera Ebbasta compie 30 anni: perché si chiama così, controversie e polemiche, giudice ad X Factor, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2022.
Il rapper di «Rockstar» e «Ricchi x sempre» (all’anagrafe Gionata Boschetti) festeggia oggi il suo compleanno
Il vero nome
All’anagrafe è Gionata Boschetti ma tutti - nel mondo rap, trap e non solo - lo conoscono con il suo nome d’arte: Sfera Ebbasta. Nato a Sesto San Giovanni il 7 dicembre 1992 e cresciuto a Cinisello Balsamo (con sua madre e sua sorella, i suoi genitori si sono separati quando era molto piccolo) è salito alla ribalta nel 2015 grazie alla pubblicazione dell'album «XDVR», inciso con la collaborazione del produttore discografico Charlie Charles. Deve il suo pseudonimo alla firma-tag Sfera, che da ragazzino scriveva sui muri con la bomboletta spray: «Mi ero iscritto a Facebook, ma non volevo dare loro nome e cognome. Sfera non bastava. Così ho aggiunto per scherzo Ebbasta, e tutti hanno iniziato a chiamarmi in quel modo». Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Le prime canzoni su YouTube
Ritiratosi da scuola durante il primo anno di liceo ha iniziato giovanissimo a lavorare, come elettricista e fattorino per la consegna delle pizze. In quegli anni si è avvicinato all’hip hop e - tra il 2011 e il 2012 - ha caricato le sue prime canzoni su YouTube. Poi, l’incontro con Charlie Charles alla festa di Hip Hop TV, ha dato la svolta alla sua carriera. «Io ce l'ho fatta perché mia mamma credeva in me - ha rivelato Sfera qualche mese fa a Vanity Fair -. S'in******* quando andavo male a scuola, però capiva che avevo un sogno. Potevo sgarrare nella vita, ma solo entro certi limiti. Il limite primo e ultimo era quello del rispetto. Magari facevo cazzate tutto il giorno, però prima di cena ero sempre a casa. Sembra una banalità, ma eravamo in due e bisognava collaborare. Lei rispettava me, io rispettavo lei. Sono convinto che il rispetto sia la base di tutto: se rispetti sei anche rispettato».
Artista più ascoltato in Italia (per due volte consecutive)
La popolarità per Sfera Ebbasta è arrivata con i dischi «Sfera Ebbasta» (2016) e «Rockstar» (2018), e da allora l’artista di «Ricchi x sempre» ha continuato a macinare successi. È - per il secondo anno consecutivo - l’artista più ascoltato in Italia su Spotify, seguito da Lazza, thasup, Blanco e Marracash, nonostante il suo ultimo lavoro in studio «Famoso» risalga a novembre del 2020. Nel 2021 ha collaborato con Lous and the Yakuza su «Je ne sais pas», con Rkomi per «Nuovo Range», con Blanco su «Mi fai impazzire» e con Madame per «Tu mi hai capito». A maggio 2022 Sfera ha reso disponibile l'EP «Italiano», cinque brani tutti realizzati in collaborazione con Rvssian.
Polemiche e controversie
Ai suoi esordi Sfera Ebbasta ha fatto molto parlare di sè: hanno fatto discutere in particolare i riferimenti nei suoi testi all’uso della cosiddetta «Purple Drank», cocktail ottenuto miscelando bibite e sciroppo alla codeina. Ma anche l’ostentazione del lusso: nel 2018 in seguito alla sua partecipazione al Concertone del Primo Maggio sollevò un polverone il tweet in cui il trapper dichiarava di essersi esibito con due Rolex al polso (travolto dalla critiche scrisse sempre su Twitter: «Nessuno mi ha mai regalato niente e sono orgoglioso di essere un povero arricchito, mi sono sudato tutto quello che ho e ancora mi ricordo quando a casa avevamo 150€ per fare la spesa di tutto il mese e mangiavamo o pasta o latte ogni sera. Ora le cose sono cambiate e 2 Rolex al polso per me rappresentano solo un trofeo. Mi ricordano da dove sono venuto e fino a dove sono arrivato»). Qualche mese dopo Sfera è finito di nuovo sotto i riflettori: nella notte tra il 7 e l'8 dicembre, alla discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo (dove era prevista una sua esibizione), si è verificato un incidente che ha provocato la morte di sei persone e numerosi feriti. Sconvolto dalla tragedia il trapper, dopo essersi tatuato sei stelle in ricordo delle vittime, ha scelto di rimanere in silenzio per alcuni mesi. In seguito ha pubblicato l'inedito «Mademoiselle» (visto come una sorta di risposta alle critiche e accuse che gli sono piovute addosso).
Giudice di X Factor
Nel 2019 (non senza polemiche per via della tragedia di Corinaldo) è stato annunciato il suo nome tra i giudici della tredicesima edizione di X Factor, insieme a Malika Ayane, Mara Maionchi e Samuel dei Subsonica. L’edizione è stata poi vinta proprio da una concorrente del suo team, Sofia Tornambene.
Neopapà
«Ho capito che questa volta era diverso perché il tempo passava e nella mia vita c’era una sola donna: Angelina», raccontava qualche mese fa Sfera Ebbasta a Vanity Fair in riferimento alla sua nuova compagna Angelina Fiol Lacour. Che a giugno lo ha reso padre per la prima volta, del piccolo Gabriel (nome scelto in onore del papà del rapper, scomparso prematuramente nel 2006).
Il cameo in un film
Sfera Ebbasta ha interpretato se stesso, accanto ad altri artisti della scena rap italiana (Guè Pequeno, Ernia e Tredici Pietro), nel film «Autumn Beat» (2022) diretto da Antonio Dikele Distefano. La pellicola è disponibile dallo scorso 10 novembre sulla piattaforma Amazon Prime Video.
La mia nuova vita fuori dal set. Nicola Santini su L’Identità il 13 Dicembre 2022
Ha un quoziente intellettivo a malapena inferiore rispetto a quello del geniale Albert Einstein e allo stesso tempi è un’icona di sensualità, talento e forza di volontà. Sharon Stone, protagonista di pellicole che sono entrate nella storia del cinema mondiale come Basic Instinct e Casinò. E a sessantaquattro anni suonati, puntualmente, continua a rubare la scena anche alle ventenni. Non appena gli impegni professionali glielo consentono, non vede l’ora di mettere la propria immagine al servizio di cause in cui crede da sempre. Negli ultimi tempi, per esempio, è stata coinvolta come testimonial dal Better World Fund, organizzazione no-profit con sede a Parigi, nata per sensibilizzare l’opinione pubblica sui grandi cambiamenti relativi alla salute globale, attraverso la proiezione di film e documentari, l’attribuzione di riconoscimenti, la realizzazione di eventi ad hoc.
La sua è una delle carriere maggiormente ricche di traguardi raggiunti ma anche di episodi drammatici…
Se oggi sono quella che sono, lo devo soprattutto a tutto quello che mi è capitato. Nel bene e nel male. I successi, inevitabilmente, mi hanno spinto ad andare avanti e a cercare di migliorarmi e perfezionarmi sempre di piu. I momenti meno belli, invece, sicuramente mi hanno invogliato a scavare ulteriormente dentro di me fino a ottenere quel pizzico di determinazione e caparbietà che magari prima mi mancava. Per questo, oggi, posso ben dire che mi è tornato utile tutto, ma proprio tutto, quello che mi è successo nel corso degli anni.
Della società di oggi cosa le fa più paura?
L’indifferenza e l’egoismo. Purtroppo la maggior parte della gente è concentrata unicamente su se stessa, sui propri bisogni, ignorando quelli degli altri o di chi verrà dopo di noi. Prendiamo, per esempio, il grande problema dell’emergenza climatica. Per anni l’uomo se n’è infischiato di quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze di tutto quello che stava facendo alla natura e già facciamo i conti con diversi fenomeni climatici che ci fanno pensare al peggio, visto che in pochi sembrano esserne consapevoli e vogliono prendere provvedimenti. Io spero che tutti, prima che sia troppo tardi, ci impegnassimo per salvaguardare il pianeta per il bene di chi verrà dopo di noi.
Hai sempre prestato la tua immagine per campagne contro ogni forma di discriminazione…
Lo rifarei anche domani e lo rifarò. È aberrante che al giorno d’oggi non tutti abbiano gli stessi diritti. Ma perché? A questa domanda non sono mai riuscita a dare una risposta che avesse un senso logico e credo sia molto triste.
Hai dichiarato in diverse interviste che i tre figli che ha adottato Roan Joseph, Laird Vonne e Quinn Kelly li considera i suoi più grandi successi…
Confermo. Le gioie che mi ha regalato in tutti questi anni lamia famiglia non è minimamente confrontabile alle soddisfazioni che ho raccolto sul fronte professionale. A distanza di anni, la carriera d’attrice continua a regalarmi stimoli e gratificazioni ma quando mi ritrovo con i miei ragazzi, è come se esistessimo solamente noi. Mi piace conoscere il loro punto di vista su tutto, specialmente sul mondo che ci circonda e di sapere che viaggiano continuamente lungo la stessa strada. Quello che mi importa di più, specialmente in questa fase della mia vita, è il riuscire sempre a essere considerata da loro una mamma presente e brava in tutto quello che prevede questo ruolo così complicato ma anche magico.
Sei sempre stata molto legata al Bel Paese…
Impossibile non esserlo. La genuinità degli italiani non sono mai riuscita a trovarla in nessun altra parte del mondo. Per non parlare del cibo incredibile, del buon vino. L’Italia è un posto eccezionale dove, ogni volta che vado via, poi non vedo l’ora di tornare…
Sharon Stone: «Ho un grosso tumore fibroide. L’ho scoperto grazie a un secondo parere». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022.
Ha scelto Instagram, Sharon Stone per raccontare in un post la scoperta di un tumore. Non solo: ha raccontato l’accaduto e ha invitato tutti a chiedere un doppio parere medico perchè alle volte uno non è sufficiente e può trarre in inganno. Così la grande diva 64enne ha annunciato ai fan di aver scoperto di avere quello che definisce un «grosso tumore fibroide». La star di Hollywood ha spiegato che si tratta di un tumore benigno e che deve essere rimosso in ogni caso.
Un tumore scoperto dopo aver chiesto un altro parere in seguito a una prima diagnosi, rivelatasi errata. L’attrice ha spiegato ai fan che sta bene e che le serviranno dalle 4 alle 6 settimane per recuperare dopo la rimozione. Ha esortato le donne a «chiedere un ulteriore parere medico se preoccupate per i cambiamenti nel loro corpo.... Cercate un secondo parere. Può salvarvi la vita. Io ho appena avuto un’altra diagnosi errata e subìto una procedura medica sbagliata». La diva hollywoodiana ha voluto però anche rassicurare i suoi fan con un «Va tutto bene».
Sharon Stone affronta il fibroma con alle spalle una lunga storia di problemi di salute. Nel 2001, infatti, ha subìto interventi con cui le sono stati rimossi alcuni tumori benigni. «Avevo gonfiori in ogni zona linfatica. Mi venne detto due volte che ero malata di cancro. E per due volte i test confermarono la diagnosi. Poi i test positivi finirono, ma ci vollero diversi mesi che cambiarono la mia vita», ha raccontato in una vecchia intervista al Times. Poi, nel settembre dello stesso anno, Stone è stata colpita da un’emorragia cerebrale ed è stata salvata dai medici che le hanno ricostruito un’arteria vertebrale.
Sharon Stone compie 64 anni: il QI superiore alla media, il buddismo, l’impegno umanitario e altri 13 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2022.
L’attrice, nata il 10 marzo 1958 in Pennsylvania, si è fatta conoscere in tutto il mondo grazie al film «Basic Instinct», che l’ha consacrata nel ruolo di femme fatale
Il QI superiore alla media
Sharon Stone non ama fare il punto della sua carriera perché «gli esseri umani sono in evoluzione o involuzione continue come possono essere le loro carriere» (diceva nel 2018 al Corriere). Ma di sicuro l’attrice - che proprio oggi compie 64 anni - può vantare un curriculum invidiabile tra pellicole cult (su tutte «Basic Instinct») e interpretazioni apprezzate dalla critica (come quella in «Casinò» di Martin Scorsese). Considerata uno dei sex symbol più popolari degli anni Novanta Stone è nata il 10 marzo 1958 in un paesino della Pennsylvania, Meadville. È la seconda di quattro fratelli e i suoi genitori, Joe e Dorothy, avevano origini irlandesi. Forse non tutti sanno che Sharon Stone, quando aveva 5 anni, è andata direttamente in seconda elementare: ha infatti un quoziente di intelligenza superiore alla media (154). E questa non è l’unica curiosità su di lei.
L’esordio al cinema con Woody Allen
Prima di intraprendere la carriera come attrice Sharon Stone, dopo aver vinto molti concorsi di bellezza, ha mosso i suoi primi passi artistici come modella. Notata da Woody Allen otterrà una piccola parte nel film «Stardust Memories» (1980).
Pensava di lasciare la recitazione
Prima di ottenere il ruolo di Catherine Tramell in «Basic Instinct» (1992), pellicola che l’ha resa famosa in tutto il mondo, Sharon Stone aveva già alle spalle numerosi film (tra cui «Scuola di polizia 4 - Cittadini in... guardia» e «Atto di forza») e serie tv («Magnum, P.I.», «T.J. Hooker»). Ma non era particolarmente soddisfatta della sua carriera: stava addirittura pensando di lasciare la recitazione per iniziare a studiare legge.
Ha posato per Playboy
«Pensavo che fosse la parte giusta per me e sapevo cosa dovevo fare per ottenerla»: per attirare l’attenzione dei produttori di «Basic Instinct» - ha raccontato Stone al Drew Barrymore Show nel 2020 - nei primi anni Novanta decise di posare senza veli per Playboy.
Ha vinto un Golden Globe
Nel 1995 l’attrice ha ricevuto il plauso della critica per l'interpretazione di Ginger McKenna nel cult «Casinò» (1995) di Martin Scorsese, per la quale si è aggiudicata il Golden Globe come migliore attrice in un film drammatico e la sua prima e unica candidatura agli Oscar.
È stata colpita da un fulmine
Al podcast «Films To Be Buried With» Sharon Stone ha raccontato di essere stata in passato colpita da un fulmine: «Stavo riempiendo il ferro da stiro di acqua e avevo una mano sul rubinetto e una sul ferro, quando il pozzo della casa è stato colpito da un fulmine e la scarica è passata attraverso l’acqua. Sono stata sollevata e fatta volare attraverso la cucina, andando a sbattere contro il frigorifero. È stato davvero intenso». L’attrice è stata subito soccorsa dalla madre Dorothy: «Mia mamma era lì e mi ha schiaffeggiata sul viso, facendomi rinvenire, ed ero in uno stato talmente alterato che non riesco nemmeno a descriverlo. Così mi ha infilata in macchina e mi ha portata in ospedale, dove mi hanno fatto un elettrocardiogramma e hanno visto tutta l’elettricità che avevo nel corpo e quindi per i successivi dieci giorni mi hanno tenuta monitorata facendomi un elettrocardiogramma al giorno».
L’incidente a cavallo da adolescente
Da adolescente Sharon Stone ebbe un incidente mentre andava a cavallo: finì impigliata in una corda che quasi le recise la giugulare. Poco dopo l'uscita di «Atto di forza» (1990) invece l’attrice rimase coinvolta in un altro brutto incidente a Los Angeles, sul celebre Sunset Boulevard, questa volta mentre si trovava in auto: il forte urto le provocò la frattura della scapola e della mascella, oltre a numerose contusioni.
L’ictus che l’ha colpita nel 2001
Il 29 settembre 2001 l'attrice è stata colpita da un’emorragia cerebrale che l’ha ridotta in fin di vita, costringendola a un lungo ricovero (per quasi tre anni non è stata in grado di scrivere). Nel 2019 in un’intervista a Variety ha raccontato di come il mondo dello spettacolo l’abbia lasciata sola, nel momento più difficile della sua vita. «Ero una delle donne più famose e amate al mondo, poi all’improvviso tutti sembravano essersi dimenticati di me. Mi sono sentita abbandonata e ho perso tutto, compresa la cosa più importante che avevo: l’affetto di mio figlio. La gente mi ha trattato in modo crudele, a partire dalla giudice che si occupò della custodia di mio figlio e fino alle mie colleghe. Ho capito che le persone non hanno la minima idea di quanto possa essere pericoloso un ictus e quanto sia faticoso riprendersi totalmente, mi ci sono voluti sette anni».
Ospite a Sanremo 2003
Sharon Stone nel 2003 partecipò alla prima serata del Festival di Sanremo (edizione condotta da Pippo Baudo affiancato da Serena Autieri e Claudia Gerini): per l’occasione recitò il monologo «Desiderata». A proposito del suo primo incontro con l’attrice Baudo nel 2012 raccontò: «Un giorno vado a trovarla nel suo albergo, entro nella stanza e lei era distesa sul letto solo con gli slip. Lei mi disse: “Look me”. Io la guardo meravigliato. Mi dice di togliermi gli occhiali, me li pulisce e mi ridice: “Look me again”. Ed io la guardo ma non faccio nulla. Poi parliamo solo del programma del giorno dopo. L'indomani, prima dell'inizio della trasmissione, lei arriva, mi toglie gli occhiali, me li pulisce e mi ripete: “Look me!”. Solo a quel punto ho capito che avevo perso un'occasione».
Due matrimoni…
Nel 1984 Sharon Stone si è sposata con il produttore televisivo Michael Greenburg, conosciuto sul set del film tv «The Vegas Strip War». Tre anni dopo la coppia si è separata e nel 1998 l’attrice è nuovamente convolata a nozze con Phil Bronstein, giornalista del San Francisco Chronicle. Non riuscendo ad avere figli (a causa di una malattia autoimmune ha subito diversi aborti spontanei) con il marito Stone nel 2000 ha adottato un bambino, Roan Joseph. Quattro anni dopo è arrivato il divorzio, per «differenze inconciliabili».
…e tre figli
Oltre a Roan Joseph l’attrice ha altri due figli: ha adottato Laird Vonne nel 2005 e Quinn Kelly nel 2006.
L’iconico abito di Catherine Tramell
Sharon Stone ha raccontato di possedere ancora l’iconico abito bianco di Catherine Tramell, scelto proprio da lei: «Ellen (la costumista Ellen Mirojnick, ndr.) mi ha portata a Rodeo Drive e mi ha detto “Puoi scegliere qualsiasi cosa tu voglia per il tuo personaggio” - ha spiegato a InStyle -. Abbiamo deciso di optare per il bianco perché il mio personaggio aveva un'atmosfera molto hitchcockiana, ma Ellen ha disegnato il vestito in modo che potessi sedermi come un uomo se fossi stata interrogata. Mi ha dato la possibilità di muovere braccia e gambe, occupare spazio ed esercitare il controllo su una stanza piena di uomini».
Diretta da Pupi Avati
Nel corso della sua carriera Sharon Stone è stata diretta anche dal regista bolognese Pupi Avati, che l’ha voluta in «Un ragazzo d'oro» (2014). Ha recitato nei panni di una scrittrice, accanto a Riccardo Scamarcio, Cristiana Capotondi e Giovanna Ralli.
La medaglia d’oro della Croce Rossa Italiana
Fervente attivista per i diritti umani l’attrice nel 2006 si è recata in Israele per promuovere la pace in Medio Oriente. È noto anche il suo impegno a favore dei migranti, degli indigenti, dei bambini abbandonati e delle persone con HIV/AIDS. Per il suo impegno umanitario nel 2018 ha ricevuto la medaglia d’oro al merito della Croce Rossa Italiana.
«The Beauty of Living Twice»
Lo scorso anno l’attrice ha pubblicato il suo libro di memorie «The Beauty of Living Twice» (in italiano «Il bello di vivere due volte», Rizzoli), in cui ha raccontato alcuni episodi shock della sua infanzia: ha rivelato che lei e sua sorella Kelly da bambine hanno subito abusi sessuali (da parte del nonno materno) e che veniva picchiata da suo padre. Ha inoltre parlato delle molestie incontrate nel corso della sua carriera e dei retroscena della famosa scena dell’interrogatorio di «Basic Instinct».
È buddista (e ama Papa Francesco)
Sharon Stone è di religione buddhista: si è convertita al buddismo quando Richard Gere l'ha presentata al Dalai Lama. Apprezza però molto Papa Francesco: «Amo profondamente il vostro Papa, sono una sua groupie devota - ha detto a Io Donna -. Supera a pie’ pari tutti i sistemi burocratici, è un leader autentico in tempi di crisi globali. Quando parla del vero significato della famiglia mi conquista, mi commuove, mi colpisce la sua idea di includere e comprendere più famiglie possibili in un universo moderno. Papa Francesco è esemplare».
Sharon Stone 64 anni 'on fire' da attrice a produttrice e icona di moda. Anna Lupini su La Repubblica il 10 marzo 2022.
La celebre attrice annuncia l'acquisto dei diritti del romanzo "Woman on fire" e racconta come andò con il vestito bianco di Basic Instinct. Ora e più che mai, è l'immagine di donna bella forte e indipendente a cui molte donne aspirano, nonostante le molte difficoltà vissute.
Sharon Stone compie 64 anni ma è quanto di più lontano possa esistere dall'immaginario in passato legato a una donna della sua età. Non solo è bellissima, ma è nel pieno delle sue attività, grazie anche all'enorme esperienza, e ha molti interessi, tra cui quello della moda: l'abbiamo vita a Milano assistere divertita alla sfilata di Dolce e Gabbana per l'autunno inverno 2022.
La star ha di recente opzionato i diritti del prossimo romanzo di Lisa Barr 'Woman On Fire', firmando un accordo per produrre e recitare in un adattamento cinematografico. Vincitrice di Golden Globe ed Emmy, candidata all'Oscar, la Stone ha già prodotto la serie 'Agent X' e film tra cui 'We the People', The Cure, 'Romantic Road', 'All I Wish' e 'Running Wild', tra gli altri. Prossimamente apparirà nel dramma romantico di Klaus Menzel 'What About Love', in 'Beauty' di Andrew Dosunmu e nell'attesa seconda stagione di 'L'Assistente di Volo' di Hbo Max, interpretando la madre della star Kaley Cuoco, Cassie Bowden.
Il 10 marzo Sharon Stone compie 64 anni, ma come festeggia una diva come lei? Dopo aver abbandonato le app di incontri alle quali aveva dato una possibilità un paio di anni fa (come aveva rivelato lei stessa), Sharon lo scorso anno aveva dedicato del tempo alla pittura, pubblicando sul suo account Instagram una sua creazione ad acquerello (realizzata con dei pennelli da make up) che è stata molto apprezzata dai suoi follower. Sharon è ancora una delle attrici migliori della sua generazione e una delle perennials più belle del mondo. Oltre a essere una donna coraggiosa che ha infranto molti tabù (compreso quello di amare uomini molto più giovani) e ad aver aderito in passato al #nomakeupmovement lanciato da Alicia Keys per convincere le donne a non aver paura di mostrarsi senza trucco. Del resto basta andare a vedere le sue foto recenti su Instagram per accorgersi che il fascino dei tempi di Basic Instinct è ancora tutto lì. Gambe lunghissime, sorriso smagliante (e sincero) una simpatia contagiosa che l'ha resa unica nel panorama hollywoodiano. Quello che piace di Sharon è anche che ha una vita sentimentale fatta di alti e bassi (come ogni donna), ha vissuto due divorzi difficili, vari problemi di salute e anche nel lavoro ha avuto i suoi periodi bui. Insomma la sua "normalità" ne fa una delle attrici più amate dal pubblico. E lei restituisce questo affetto con un impegno senza sosta per la lotta all'Aids. Noi celebriamo il suo compleanno con una gallery che mostra le sue trasformazioni fisiche e di stile e che ricorda alcuni dei suoi look più belli.
Nel 2021 l’attrice ha deciso di raccontarsi nella sua autobiografia “Il bello di vivere due volte”, nella quale ha ripercorso il tragico ictus del 2001, le sue migliori interpretazioni, ma anche i suoi fallimenti e ha svelato violenze e abusi subiti durante la sua infanzia, e esperienze negative vissute nei primi anni della sua carriera.
Un altro tragico episodio che ha recentemente segnato la vita dell’attrice è stato la morte del nipotino River di appena 11 mesi. L’attrice aveva chiesto ai suoi fan tramite un post di pregare per lui e ha poi ha reso noto il fatto che i genitori di River avessero deciso di donare gli organi del bambino: "Hanno salvato la vita a tre persone, due bambini e un uomo di 45 anni. Questo ci ha dato un po’ di pace”, ha raccontato.
Per quanto riguarda l'amore, Sharon Stone, che ha due matrimoni alle spalle, il primo con il produttore Michael Greenburg dal 1984 al 1987 e il secondo con giornalista Phil Bronstein dal 1998 al 2004, dopo essere stata avvistata più volte in compagnia di RMR, un rapper californiano di 25 anni, ultimamente sembra preferire la compagnia di Bullit Stone, ovvero il suo amatissimo cagnolino, a detta della diva la migliore compagnia per le sue serate.
Circa la sua passione per la moda, e di come questa abbia contribuito decisamente alla sua carriera cinematografica, in una lunga lettera autobiografica per InStyle, Sharon Stone ha raccontato la scelta dei suoi look più iconici sul set di Basic Instinct, il film del 1992 che l'ha resa celebre anche grazie a quell'abito bianco mozzafiato e alla leggenda che fosse senza biancheria intima nel momento in cui accavallava le gambe di fronte ai poliziotti che la stavano interrogando.
"Dal momento in cui ho letto la sceneggiatura ho capito di essere la persona giusta per il ruolo" ha raccontato Sharon Stone, che aveva 32 anni quando ha interpretato la parte di Catherine Tramell. Per calarsi nel personaggio ha da subito cominciato a collaborare con la costumista Ellen Mirojnick: "Ellen mi ha portato a Rodeo Drive e mi ha detto 'Puoi scegliere qualsiasi cosa tu voglia per il tuo personaggio'. Abbiamo deciso di optare per il bianco perché il mio personaggio aveva un'atmosfera molto hitchcockiana. Ma Ellen ha disegnato il vestito in modo che potessi sedermi come un uomo se fossi stata interrogata. Mi ha dato la possibilità di muovere braccia e gambe, occupare spazio ed esercitare il controllo su una stanza piena di uomini".
Una clausola del contratto prevedeva che l'attrice potesse conservare gli abiti di scena: "La gente pensava che fossi pazza, ma la verità è che non venivo pagata molto rispetto al mio co-protagonista maschio. Ho guadagnato 500.000 dollari; Michael Douglas ha guadagnato 14 milioni. Quindi chiedere di poter tenere i miei costumi è stata una cosa davvero intelligente da fare. Non posso fare a meno di pensare a quanto ho imparato nel processo di realizzazione del film. Ho imparato quanto può essere spaventoso, non solo per gli uomini ma per la società nel suo insieme, vedere una donna accedere e possedere il suo potere. Ho imparato ad avere una spina dorsale. Ho imparato a parlare per me stessa. E sì, ho imparato che sto maledettamente bene in bianco.".
"Non vado in pensione e resto controcorrente". Antonio Lodetti il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.
A 78 anni il rocker pubblica "Quasi una leggenda". "Il mio segreto? Ho sempre conservato tanta ironia".
«Nessuno si ricorda più chi sei», ha detto qualcuno a Shel Shapiro, l'ultimo hippie, quello che alla guida dei Rokes ha doìk,minato la scena beat italiana con classici come Che colpa abbiamo noi, È la pioggia che va, Bisogna saper perdere. Magro, segaligno, capelli lunghissimi (ancora oggi ma allora era fondamentale), affascinante, oggi ha 78 anni e allora cantava già in italiano con smaccato accento inglese creando uno strano mood che faceva impazzire i fan. Perbacco, tutti noi lo ricordiamo, anche produttore di personaggi come Mina e Riccardo Cocciante o collaboratore di Quincy Jones. Shel (che è anche attore di cinema e teatro) non ha mai smesso di imbracciare la chitarra e oggi torna con un album di ballate inedite (veramente belle) che si intitola provocatoriamente Quasi una leggenda e con una tournèe che andrà avanti fino a autunno inoltrato.
Titolo presuntuoso?
«Anzi, titolo umile e ironico. Il quasi dice tutto. In questo mondo di leggende, supereroi, miti ci vuole un po' di ironia e quel quasi è perfetto. Sei una leggenda? Quasi. Insomma è divertente e mi rappresenta».
Come nasce il disco?
«All'inizio volevo riprendere lo spettacolo che porto in giro da un po', ovvero riproporre i grandi classici che hanno fatto la storia del rock, da Bo Diddley ai Beatles ai Rolling Stones. Poi con il team con cui ho lavorato si è fatta strada l'idea di scrivere o presentare canzoni inedite. Ci hanno messo venti secondi a convincermi».
Così è cominciato tutto.
«Sì, in fondo il mio lavoro è prendere la chitarra e cantare davanti ad un microfono, e poi ho avuto un team fantastico, dalla band alla produzione del bravissimo Filadelfo Castro. Un disco da non pensionato che dice vaffa alle convenzioni».
Ha cominciato con un video.
«Credo sia il primo video che io abbia mai girato. È il primo singolo e si intitola Non dipende da Dio e parla di tutti quelli che non si assumono responsabilità e trovano sempre scuse per le loro azioni e i loro sentimenti».
Ci sono ospiti Dori Ghezzi e Lina Sastri.
«Dori è un'amica di sempre. Abbiamo collaborato nel '77-'78, quando scrissi per lei e per Wes Era, canzone per l'Eurofestival che ha venduto otto o nove milioni di copie. L'ho scritta con un grande come Andrea Lovecchio. Lina Sastri unisce l'eleganza alla vena popolare napoletana. Questo pezzo avevo addirittura pensato di presentarlo a Sanremo».
Come definisce l'album?
«Un disco controcorrente. Il mondo rivisto e rivisitato con il rock. È un disco rock nel senso che il rock è uno stile di vita, è una cultura non solo una musica. Non è un disco alla Sangiovanni. Mamhood e Elodie sono bravissimi ma questa è un'altra cosa».
Soddisfatto quindi?
"C'è attorno al progetto molto entusiasmo. In un video abbiamo inserito un Tir della MAN e l'azienda mi ha regalato un modellino originale del camion e ha partecipato con entusiasmo alla mia nuova avventura».
Nel disco c'è un libro con tante sue foto di Guido Harari.
«È un grande fotografo e un amico. Pensi che l'ho conosciuto quando è entrato nell'albergo dove mi trovavo con i Rokes per chiedermi un'intervista. Aveva solo 12 anni e da lì è cominciata la sua carriera».
E la sua?
«Al teatro Alcione di Milano con i Rokes. Era avanspettacolo con canzoni, film, ballerine».
Poi?
«Ci ha scoperto Teddy Reno per farci accompagnare Rita Pavone. Da lì il salto al Piper. Il boss, Alberico Crocetta, ha posticipato di due mesi l'apertura del locale, dal Natale 1963 al febbraio 1964, per avere noi come attrazione principale. C'era anche l'Equipe 84, ma per aprire hanno voluto aspettare noi: un onore».
Partirà in tournèe?
«Il 23 aprile partirò da Cagli per un lungo giro in Italia. Porterò uno spettacolo variegato; non solo le canzoni nuove ma anche classici del rock e qualche brano dei Rokes».
Shel Shapiro: «Io e l'amore a 78 anni. Bacio Mara Venier nel video del mio brano». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2022.
Il cantautore è tornato con il nuovo disco solista «Quasi una leggenda», a 14 anni dal precedente.
Non è un titolo ego-riferito «Quasi una leggenda», album con cui Shel Shapiro torna a farsi sentire a 14 anni dall’ultimo lavoro solista. «La verità è che quasi tutte le leggende che conosco sono morte, quindi cerco di non associarmi troppo», scherza il cantautore, 78 anni e una carriera lunga 60 fra musica, cinema e tv.
Che cosa intende allora con «Quasi una leggenda»?
«Era un modo per essere spiritoso. Viviamo in un mondo di miti, in cui la gente vuole dei supereroi, forse per combattere la normalità che ci accomuna. Ma volevo smitizzare questi aggettivi di potenza. La leggenda, forse, sta nell’avere determinazione».
Nel disco ci sono due ospiti: Dori Ghezzi e Lina Sastri. Come ha convinto Ghezzi che canta così raramente?
«Qualche anno fa stavo lavorando a uno spettacolo teatrale che poi non è andato in porto e una delle canzoni originali era questa “Non arrenderti”. Non so perché ho chiesto a Dori di cantarla, ma siamo amici da 50 anni e ha accettato. Negli anni 70 avevo scritto “Era” con cui lei e Wess andarono all’Eurovision. Lei canta benissimo. Quando hai vissuto esprimi verità e consapevolezza con la voce».
Cosa pensa della grande attesa per l’Eurovision a Torino di quest’anno?
«In verità non sto seguendo. Mi sembra che ci sia la tendenza a perdere di vista la musica in favore di vestiti e presentazioni. È tutto un po’ sopra le righe, ma pare che alla gente piaccia».
Vale anche per Sanremo?
«Quest’anno non c’è stato niente che mi abbia scioccato e non ho visto nulla che non avevo già visto. Mahmood e Blanco sono molto bravi e la canzone è molto bella».
I Måneskin le piacciono?
«Sì, già da “X Factor”. Sono un segno dei tempi: contemporanei, anche spudorati e va benissimo. A 20 anni cosa vuoi che facciano, stiano in casa a pensare alla guerra? Hanno trovato una loro dimensione nell’appoggiarsi a cose già sentite, ma alla fine a chi assomigliano? Direi a loro stessi e quindi vuol dire che hanno carattere e talento».
Lei ha iniziato con i Rokes: conferma che l’Italia non è un Paese per band?
«Non è mai stato facile per i gruppi. Nel dna italiano c’è qualcosa della storia dell’opera, c’è il grande tenore o il soprano. Tutti i gruppi sono figli dei Beatles e dei Rolling Stones, loro hanno mostrato che era possibile che una rockstar fosse fatta di quattro persone insieme. È il Brit rock che ha cambiato le cose. Ricordo quando suonavamo a Londra, nei locali di Carnaby Street prima che diventasse la Carnaby che conosciamo. Beatles e Stones erano già lì».
Andrà a San Siro a vedere gli Stones?
«Non ci penso neanche, sono troppo vecchio. Li amo follemente e ho visto su YouTube il loro concerto a Cuba. Non è che preferisco vederli in video, ma so com’è l’atmosfera di un live e non ho bisogno di andarci».
Nel video del suo singolo «La leggenda dell’amore eterno» c’è Mara Venier, con cui si scambia un bacio...
«Insieme siamo credibili. Uno della mia età non può scegliere una Violante Placido, deve essere qualcuno della mia generazione, ma ancora desiderabile in senso estetico. Io e Mara in passato avevamo lavorato bene e le persone con cui ti diverti nel nostro mestiere te le ricordi perché c’è tanta altra gente stronza che cerchi di scordare. Quel che voglio dire nel video è: perché non innamorarsi nella terza età, anzi, brutta parola, diciamo da grandi?».
Dopo una carriera così ricca e lunga, cosa la spinge a fare ancora dischi?
«Chi si siede sugli allori è andato in pensione mentalmente e lo trovo di una tristezza totale. Io faccio molta fatica a pensare di vivere del passato, certo ai concerti mi chiedono “È la pioggia che va” o altri pezzi vecchi e io li faccio, ma non c’è niente di più bello di dire “ho una canzone nuova”. Così stai andando avanti con la testa e partecipi attivamente alla vita».
Quindi alla pensione non ci pensa proprio?
«Spero proprio di no. Anzi adesso vado in tour, cominciamo a fine aprile. Sceglierò 4-5 pezzi nuovi, alla mia età averli è linfa vitale».
La sua famiglia è di origini russe. Che effetto le fa il conflitto in Ucraina?
«Lo stesso di qualunque altra guerra. In quel che sta succedendo la sensazione di essere sotto ricatto è totalmente immorale. Non so cosa pensino i russi, ma molti sono disposti a rischiare la libertà per protestare, quindi power to the people, potere al popolo».
Silvia Salemi: canto la bellezza per combattere la violenza. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.
La cantautrice conquistò un grande successo nel ‘97 con il brano «A casa di Luca» e a distanza di 25 anni decide di celebrare la ricorrenza con una nuova canzone.
«Noi contro noi». Due pronomi personali, uno di fronte all’altro, che si guardano con sospetto e rabbia. E chi perde, alla fine, siamo sempre noi. Silvia Salemi ha scelto un titolo che non fa sconti a nessuno per il suo ultimo singolo, un brano che si trasforma in un invito ad aprirsi agli altri, senza paura e senza ostilità. «Siamo sempre sul piede di guerra, sempre arrabbiati con le persone. Anche nei momenti più quotidiani (anche dal panettiere per esempio) la gente si guarda con antipatia». La cantautrice non ci sta e decide di dare voce alle proprie idee tramite un brano che unisce la forza del messaggio con la leggerezza musicale delle hit estive. «Ricordo bene il 24 febbraio. Ero in radio quando è arrivata la notizia dello scoppio della guerra in Ucraina. Da lì è nata la necessità di scrivere una canzone che diventasse un appello alla pace e all’unità. Esistono due livelli di guerra: la prima è quella che si combatte al fronte, la seconda è quella viviamo ogni giorno alzando barriere altissime tra di noi, dando libero sfogo all’infelicità».
E infatti «non siamo mai felici» è la frase che anticipa il ritornello della canzone che si spinge anche oltre, avviando una riflessione sul tema dell’ambiente: «Nel testo dico che siamo sulla stessa palla blu. Ovvero, siamo sullo stesso pianeta che rischia di trasformarsi in una palla di fuoco. Da mamma, pensare al mondo in cui vivranno le mie figlie e i miei nipoti mi fa paura. Il problema dello sfruttamento dell’ambiente e delle sue risorse ha qualcosa in comune con la rabbia che nutre i nostri sentimenti verso gli altri. I concetti di cura e di condivisione sono finiti chissà dove. Nel singolo cerco di mettere in evidenza il fatto che siamo un Noi e c’è qualcosa di più importante che va oltre i nostri rancori e le nostre invidie. Cogliere la bellezza ad esempio».
Una voglia di bellezza nata da un dolore: «Me lo ha insegnato la morte, mi ha dato gli strumenti per saper cogliere la vita. Mia sorella è morta quando ero piccola. Ho capito che la vita va celebrata e io da sempre cerco di farlo attraverso la musica». Nel ’97 Salemi conobbe la notorietà a Sanremo cantando A casa di Luca, che quest’anno compie 25 anni. Poi è tornata all’Ariston altre volte: salirebbe ancora su quel palco? «Ni. Il Festival mi ha regalato grandi emozioni ma per gli artisti è una sofferenza avere solo pochi minuti per dar voce ad un brano che richiederebbe molto più tempo per essere spiegato nella sua completezza. Non è nei miei progetti per adesso».
Silvio Orlando: «Ero un comico. Vinco come cattivo del cinema». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.
Nastro d’argento all’attore. «Nel nuovo set di Nanni Moretti la follia del circo».
«Quando li vinco, con cadenza decennale, li vinco in serie, successe così anche la prima volta con Il Caimano: Nastro, David, e Ciak d’oro. Il triplete». La butta sullo scherzo Silvio Orlando, premiato ieri sera al Maxxi con il Nastro d’argento come miglior attore 2022 per Ariaferma e Il bambino nascosto, ex aequo con Pierfrancesco Favino per Nostalgia di Martone. «Ho iniziato come comico, nel cabaret, frutto del lavoro fatto dalla mia generazione che già in teatro portò uno spessore diverso alla comicità. Dopo Il caimano mi sono dedicato tanto al palcoscenico. Nel nostro lavoro vai dove ti portano istinto e cuore, oltre ai tratti fisici, e pian piano capisci meglio quello che vuoi. Sono felice che arrivino risultati anche in questa fase più legata al dramma».
Un cattivo che ha lasciato il segno il suo Carmine Lagioia di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, il freddo antagonista dell’ispettore Gargiulo di Toni Servillo. «Appena appare in scena deve comunicare un carisma negativo, un senso di minaccia, un’inquietudine. Per una lunga fase della vita come attore ho lavorato sul contrario: essere rassicurante, cercare empatia con il pubblico. Questo è un punto di arrivo che mi fa felice». Buffo che sia stata la prima volta insieme per Orlando e Servillo, primo derby Napoli-Caserta. «Non ce l’hanno mai chiesto prima. L’idea è venuta a Leonardo. Tra noi c’è immensa stima, abbiamo un percorso parallelo dal teatro sperimentale al cinema». Anche con Andò per Il bambino nascosto il trait d’union è stato il teatro. «Un bellissimo regalo, un’atmosfera alla Simenon ricreata nel quartiere Sanità. Il professore di musica è uno di quei personaggi che guardano le vite degli altri sperando di non esserne toccati».
Il debutto al cinema arriva nel 1987 con Kamikazen di Salvatores all’epoca dell’Elfo («Gabriele è stato un angelo custode, gli anni a Milano sono stati difficili»), seguito da Palombella rossa di Moretti, e altri incontri fertili: Luchetti, Mazzacurati, Virzì, Avati, Capuano, fino al Sorrentino di The Young Pope. «Ho grande rispetto dei ruoli. Spero sempre che regista abbia le idee molto chiare. Noi attori siamo pensanti anche se non lo esprimiamo. Io cerco di sciogliermi dentro il racconto senza essere ingombrante». Ha appena concluso le riprese de Il sol dell’avvenire, di nuovo con Moretti dopo 16 anni. «Nanni è in un momento molto felice della sua vita artistica. Con lui ho sempre sentito la gioia creativa, ma i set erano luoghi un po’ tormentati. Questa volta ho avuto la piacevolissima sorpresa di trovarlo del tutto sereno. Il tema del circo ha portato qualcosa di folle». Come gli elefanti in via dei Fori Imperiali. Con Orlando alla guida. «Erano molto docili. Solo un po’ di scossoni. Avevamo intorno diversi domatori, abbiamo unito le due grandi famiglie del circo italiano, c’era un Orfei e un Togni. E il giorno dopo peggio: ha liberato dei leoni al Ghetto, non ha posto limiti alla fantasia».
Virzì in Siccità gli ha affidato un altro ruolo da carcerato. «Un tipo senza cervello, quasi decerebrato, se lo sono dimenticato in carcere non si sa neanche se abbia scontato la pena, poi si trova fuori, in questa Roma senza acqua con il Tevere in secca, molto attuale, e sfrutta la situazione».
Dopo l’estate riprenderà la stagione de La vita davanti a sé di Romain Gary, spettacolo molto amato dal pubblico. «Il teatro è il mio orto. Il cinema a volte è un po’ capriccioso. Avere un luogo dove coltivare il tuo mondo artistico, dove trovi la tua zucchina, la tua patata, aiuta. È la mia decrescita felice, diciamo così».
Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 30 gennaio 2022.
«Devo proprio parlare di me?»
Be', è una intervista, faccia lei.
«Sapersi raccontare è un'abilità. Perché un regista dovrebbe parlare della propria vita?
Forse perché scavando nei suoi ricordi, veri o finti che siano, si ritrovano tracce della sua poetica, i fili invisibili dei suoi film?
«Allora le dico subito che da bambino abitavamo dalle parti di corso Garibaldi, a Milano. Un giorno presero a demolire una casa non lontana dalla nostra. La cuoca mi ha raccontato che io, all'epoca sei anni, mi incollai alla finestra a guardare quello spettacolo e rimasi così per giorni».
Vede? Abbiamo già individuato una caratteristica dei suoi film, compreso l'ultimo, «3/19»: una Milano che spesso viene vista dall'alto, come se si stesse vivendo un sogno.
«Questo forse dipende dal fatto che, sempre da bambino, mi piaceva vivere sugli alberi».
Un barone rampante svizzero-milanese?
«La mia famiglia aveva una casa sul Lago Maggiore, una villa assurda, mio nonno diceva che l'aveva fatta costruire una diva del cinema americano. Colonnati grandi, stile neoclassico, statue. E tanti alberi intorno. Io e mio fratello Emanuele ci arrampicavamo, costruivamo delle piccole casette sui rami e restavamo lì per ore».
Suo padre era dirigente di un cotonificio, sua madre lavorava in casa. La sua famiglia si aspettava tre figli con tre carriere molto diverse tra loro ma tutte ugualmente di successo? «Non lo so. Giovanni ha scelto la vela, Emanuele è il direttore dell'Istituto Europeo di Design. E poi ci sono io. Che, dopo il liceo, non avevo la benché minima idea di che cosa fare».
E suo padre la iscrisse alla «Bocconi», Economia e Commercio.
«Un disastro. Poi passai a Scienze Politiche, ma ero una specie di testa vagante, perlopiù si era verso la fine degli anni Settanta, andavo alle manifestazioni senza nemmeno sapere per che cosa stavo manifestando. Sì, amavo il cinema ma non osavo nemmeno confidarlo a me stesso. Figuriamoci, non ne sarò mai capace, pensavo».
Chi la convinse a tentare?
«Pensi un po', mio padre. Perché lui era, sì, la personificazione della legge in casa ma mi ascoltava e capì che quella poteva essere una strada. Volai a New York, feci due anni di scuola di cinema, studiai con un allievo di Scorsese, vidi più o meno seicento film. Poi tornai».
Il suo primo lungometraggio di successo è stato «L'aria serena dell'Ovest» con Fabrizio Bentivoglio, 1990. Come andò?
«Eravamo una squadra molto piccola, una famiglia. Accanto a me Luca Bigazzi e mio fratello Emanuele. Con Bentivoglio si girava ma alla sera andavamo a giocare a bowling, ecco».
Sin dai primi lavori era evidente la sua poetica: Bergman sì, Fellini no. Un fondo di ironia per piccole tragedie umane che si consumano nell'incontro tra persone diverse, no?
«Se devo citare un'ispirazione dico Antonioni. Da ragazzo frequentavo la cineteca di San Marco a Milano. Una volta diedi lì un appuntamento a una ragazza, chissà che cosa avrà pensato. Mi interessava il cinema fatto non con le immagini ma sulle immagini. E uno dei momenti più belli della mia vita fu quando, in una delle tante premiazioni romane di Pane e tulipani, incontrai Michelangelo assieme alla moglie Enrica. Lui non disse una parola, ma lei si avvicinò a me e mi disse: "Sai, ha visto il film, per lui è..." e fece il gesto del pollice in su. Che emozione».
«Pane e tulipani» vinse nove David di Donatello, senza contare tutti gli altri premi. «Ricordo la cerimonia, fu un tormento. Io continuavo a essere chiamato sul palco e premiato, altri attori accanto a me nulla. Mi guardavano un po' storto, io ero imbarazzato. Però il riconoscimento più bello me lo diedero al mercato di Roma, dal pizzicagnolo».
E cioè?
«Una donna in fila davanti a me esasperata per l'attesa urlò: "Ahò, guarda che mo' faccio come quella de Pane e tulipani, me ne vado"».
Parlava di Rosalba, una donna che lascia tutto e prende a vivere la vita come un'avventura. Da dove viene questo senso del destino rocambolesco e strampalato che ha messo in molti suoi film, da questo a «Agata e la tempesta»?
«Non lo so. Forse da mia nonna, che leggeva tantissimo e ci diceva: "Non buttate il vostro cervello all'ammasso", cioè ci invitava a non andare a manifestare con i ribelli degli anni Settanta».
Lei preferiva le avventure sentimentali?
«Sì ma che fatica avere a che fare con l'altro sesso. Il primo bacio fu un incubo, feci l'amore per la prima volta a sedici anni con una ragazza inglese, ricordo ancora il desiderio, sì, ma anche l'ansia. Ho sempre vissuto il cinema come un linguaggio diverso, forse per poter dire cose che altrimenti non sarei stato capace di dire».
Che cosa avrebbe voluto dire?
«Per esempio che amare è difficile, che parlare di sé è complicato, che le famiglie sono strambe, che se non fosse stato per mio padre io sarei arrivato al cinema molto tardi, forse mai».
Per alcuni lei è stato il contraltare di Nanni Moretti. «E chi lo dice?» Lo hanno scritto alcuni critici.
«Moretti mi chiamò quando uscì Pane e tulipani, mi chiese di vedere il film per il suo premio Sacher. Io presi le mie belle "pizze", le bobine, invitai anche dei produttori e andai a Roma. Arrivato, mi dissero che Nanni se n'era andato di punto in bianco, il film voleva vederlo da solo».
Le ha dato buca, insomma?
«Sì, ma poi ci siamo incontrati di nuovo, pensi, dal benzinaio. La vita è strana, sì».
O assomiglia a uno dei suoi film.
«Anche l'incontro con Alba Rohrwacher a suo modo è stato assurdo. Io andavo in vacanza vicino al posto dove stavano Alba e la sua famiglia. Suo padre era disperato e mi diceva: "Ci parli lei con le mie due figlie, una vuole fare l'attrice, una la regista (Alice, ndr ), ma come si fa?". Be', di certo non l'ho accontentato, perché ne ho scritturata una».
Ma non ha detto come vi siete incontrati.
«Alba mi lasciò sulla porta un barattolino di miele con un biglietto gentile. È una persona speciale, ti fa venire voglia di continuare a fare dei film con lei. Infatti con me ne ha fatti tre».
Uno dei quali è «Cosa voglio di più», un film difficile, sconfortante, in cui le condizioni materiali finiscono per soffocare un amore. Una volta lei ha detto che avrebbe voluto fare un film «alla Ken Loach», forse questo è quello che si avvicina di più?
«Forse sì. Ora le confesso una cosa: quando ho cominciato a lavorare a Pane e tulipani, io avevo già in mente di fare Brucio nel vento , film durissimo, tratto da un romanzo di Ágota Kristóf. Una mazzata, insomma, ma questo mi rendeva più leggero, mi faceva avvicinare alla commedia con più serenità. E così Pane e tulipani, finora il mio più grande successo di pubblico, critica e botteghino, lo affrontai come si affronta una commediola».
Addirittura.
«È che io ho sempre paura di scadere nelle commedie più trite e per questo tristi, di quelle che si fanno per fare soldi. È il mio timore, uno spauracchio che mi accompagna ogni volta che penso ad un soggetto più leggero. Pensare di lavorare ad un progetto rigoroso mi aiuta».
Nella vita vera le è mai accaduta una di quelle situazioni surreali che tanto ricorrono nelle sue commedie più riuscite?
«Più che surreale, direi un episodio drammatico. E c'entra l'acqua, a dimostrazione che mio fratello Giovanni è, sì, coraggioso ma io sono davvero spericolato qualche volta».
Racconti.
«Lago Maggiore, io e i miei tre figli, una canoa. L'obiettivo è di raggiungere Isolabella e tornare indietro. Lago calmo, nessun problema. Solo che ad un certo punto si alza un'onda, le condizioni del lago cambiano e la canoa si ribalta. Io pensavo ai miei ragazzi: indossavano il giubbotto, ma come fare a uscire da quella situazione?
La canoa imbarcava acqua, non riuscivo a raddrizzarla, passò un aliscafo che manco ci vide e, anzi, rischiammo di essere tranciati. Poi finalmente una barca più piccola, un "ferro da stiro" grosso. Che ci vide e ci raccolse. Grappa per tutti, ci voleva».
Dunque anche lei è sedotto dall'acqua, come Giovanni?
«Altroché. Solo che a me capitano guai. Un'altra volta stavo nuotando al largo con la mia compagna di allora. Una corrente improvvisa, la roccia che già si vedeva in lontananza. Lei si dibatteva, non ce la faceva più. Anche quella volta pensavo più a lei che a me stesso, chissà perché».
Forse perché non voler parlare di se stessi è anche una paura del guardarsi, di osservarsi a distanza?
«Non so. Comunque la scampammo».
Lei ha mai pregato?
«No, non riesco. Il massimo che ho potuto fare è stato leggere con trasporto Il regno di Emmanuel Carrère, quel libro in cui lui racconta che per un certo periodo della sua vita è stato cristiano e nel quale sente il bisogno di scavare dentro questa condizione spirituale. Ma il suo è lo scavo di uno scrittore, quasi da storico. Io percorro altre strade, indago sull'umanità delle persone e sulla disumanizzazione che vedo».
E nel suo ultimo film, «3/19», Kasia Smutniak interpreta una donna che sale in alto sulla scala sociale ma poi un evento drammatico accaduto ad uno sconosciuto la induce a guardare intorno a sé e a «scendere», anche fisicamente. «Un cammino complesso, fatto di sensi di colpa e di cambiamento. E quando cambi dentro, sembra che cambi anche il mondo che hai intorno: la città, il paesaggio, le cose». Il prossimo film sarà una commedia?
«A me piacerebbe tanto fare un musical».
Le sorelle Izzo: «Papà era un campo magnetico, a ciascuna diceva che era la sua preferita. Ricky Tognazzi? È nostro sorello». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.
Fiamma e Giuppy e le gemelle Simona e Rossella: «La vita, l’amore, i divorzi»
L’idea è stata di Simona: «Fra Caino e Abele, Romolo e Remo e i fratelli Karamazov, non c’era una storia che esprimesse un rapporto tra fratelli che non si fanno del male». Le quattro sorelle Izzo hanno tutte colto la sfida, scrivendo l’autobiografia collettiva Quattro sorelle, 8 matrimoni, 9 divorzi, appena uscita per Fabbri. Ora, le Izzo sono riunite per la loro prima intervista a quattro voci. In ordine di apparizione al mondo: Simona e Rossella, 69 anni, gemelle; Fiamma, 58, Giuppy, 54. Fiamma è stata un soprano diretta anche da von Karajan, e ora dirige lo studio di doppiaggio di famiglia, con Giuppy che doppia la dottoressa Meredith di Grey’s Anatomy da 19 anni, Rossella che è anche regista, Simona che è anche attrice e sceneggiatrice. Messe insieme, hanno diretto e scritto cento film, ne hanno doppiati tremila e adattati millecinquecento, poi, ci sono nove figli, sedici nipoti, un numero di pronipoti di cui non verrò a capo perché una conversazione ordinata si rivelerà impossibile. Ci sarà pure una partecipazione fulminea di Ricky Tognazzi, che sta con Simona da 35 anni ed è detto «il sorello».
Sbaglio se dico che è centrale la figura di vostro padre Renato, maestro del doppiaggio, bellissimo, che a ognuna diceva: la mia preferita sei tu?
Giuppy: «Me lo diceva quando gli stavo vicina in ospedale. Aggiungendo: non dirlo alle altre. Quando è morto, l’ho confessato a Fiamma per liberarmi da un peso e lei ha cominciato a ridere».
Rossella: «Abbiamo scoperto che lo diceva a tutte. Mi chiamava di notte perché non riusciva a dormire, lo raggiungevo e lui: sei la mia preferita. Siamo state tutte plagiate dallo charme affettivo di un uomo bello, circondato da attrici bellissime che riusciva a far recitare tutte. Era un manipolatore a fin di bene».
Giuppy: «Tu la chiami manipolazione ma, per me, era una forma d’amore: io questa cosa la rifarei coi miei figli».
Simona: «Dopo l’ictus, il cervello era intatto, ma il corpo fermo. Stava sempre in giardino a guardare le tortore. Quando è morto, il mio giardino si è popolato di tortore e io, ogni volta: c’è papà. Era un segno. Papà era un campo magnetico, entrava in un posto e spegneva i televisori. Un suo amico mi disse che fermava gli ascensori. Io penso a lui e si accende la tv, a voi no?» (coro di no) «a voi papà non fa niente di paranormale? Allora, la preferita sarò io».
Perderlo, 13 anni fa, come è stato?
Giuppy: «Era un grande organizzatore di pranzi e viaggi collettivi, ma quando è mancato, l’unione che lui ci assicurava l’abbiamo dovuta creare noi e noi ci siamo ritrovate ancora più vicine».
Simona: «Ma se io chiedo di vederci di più! Dopo papà, è stata la diaspora».
Rossella: «Ma se ci vediamo tantissimo, che dici?».
Fiamma: «Simona si sente esclusa perché noi tre ci vediamo tutti i giorni al lavoro».
Simona si descrive come la più «rompiscatole, ossessiva, impicciona, piena di consigli non richiesti».
Fiamma: «Io non trovo».
Eppure, nel libro scrive che ha preteso di scegliere proprio il pavimento di casa sua.
Fiamma: «Quello del patio. Avevo comprato il tufo e lei: ci vogliono le doghe. Mi ha sfinita, ci ho messo le doghe e, ora, non si riesce a camminarci: si arroventa».
Simona: «Ho avuto ragione io: i tufi rovinano i piedi».
Il vostro ricordo più bello?
Fiamma: «Credo i tanti viaggi con papà».
Simona: «Potrà suonare male, ma sono di maggiore coesione i momenti dolorosi. Quando mia nipote Miriam, la primogenita di Rossella, ha avuto un incidente in motorino ed è finita in coma, tutte siamo entrate in funzione».
Giuppy: «I momenti più belli sono quelli con voi e i miei figli, che vivono ad Amsterdam: senza, soffro di malinconia cosmica».
Nel titolo «Quattro sorelle, 8 matrimoni, 9 divorzi» i conti non tornano: i divorzi possono essere massimo otto.
Simona: «Qui c’entra il mio Ricky, l’unico marito che resiste da decenni. Gli abbiamo imposto la prefazione come quattro erinni. All’inizio, non capiva il titolo sulla matematica. Gli spieghiamo che, a una certa età, puoi solo andare per numeri: quanti mutui, quanti fidanzati, quanti film... Allora, lui domanda: il nono divorzio chi è? E noi, in coro: è un avvertimento per te. Ah, eccolo, vieni Ricky…».
Le signore dicevano che lei è il più longevo fra i mariti.
Ricky: «I numeri sono inesatti: secondo me, dovremmo considerare non solo i mariti, ma le convivenze, i fidanzati».
Fiamma: «Fra me e Rossella, a convivenze, non so chi vince, altro che otto, nove...».
Ricky: «Più che di divorzi, io parlerei di funerali: ho perso un sacco di ex cognati, spariti, mai più visti».
Giuppy: «Ma quando mai: io sento il padre di mio figlio, lavoro col padre di mia figlia».
Ricky: «Mi devo essere confuso con un’altra famiglia».
Simona: «Papà diceva: quando li cacciate, seppelliteli in giardino».
Fiamma: «Teneva sempre una bottiglia di champagne in frigo. Se gli chiedevi perché, rispondeva: per quando ci dirà che se ne va».
Ricky: «Io sono il prossimo consapevole che un giorno deve morire.Vado, buona giornata».
Simona: «È il vendicatore dei cognati, ma se dovessi lasciarlo, continuate a tenerlo».
Rossella: «Certo, la domenica fa meravigliosi risotti».
Leggendari sono pranzi e cene di Ricky e Fiamma.
Simona: «La frase leggendaria del Natale è “siamo solo noi”: 40 o 45».
Perché Simona e Rossella sono dette le «soremme»?
Simona: «Perché siamo mamme e sorelle. Apparteniamo a una generazione diversa: Fiamma e Giuppy le portavamo bambine sulle spalle nelle piazze del ‘68».
Giuppy: «Ma la differenza d’età, col tempo, non si sente più. La cosa bella fra sorelle è che, da grande, ti scegli: le sorelle ti capitano, ma il gol è restare. Noi siamo rimaste».
La gemellanza fra Simona e Rossella quanto si sente?
Simona: «Abbiamo sentito una il parto dell’altro. Quando ha partorito lei, io sono finita al pronto soccorso per i dolori. Isterici, mi hanno detto».
Rossella: «Quando lei si è operata al ginocchio, ho pensato: non so che ha avuto Simona oggi, ma se mi tocchi con un dito, piango».
Chi vuole concludere?
Simona: «Io. Per dire che le mie sorelle sono tutte molto accudenti e allo stesso tempo manager coi tacchi a spillo. È un insegnamento di mamma, che è sempre curata, elegante. Ha farcito papà di musica, letteratura, cinema e gli ha permesso di avere una grande famiglia. E voglio aggiungere che abbiamo la sindrome delle sorelle Brontë: insieme, creiamo sempre qualcosa e ci siamo sempre aiutate. Il bello è che tra fratelli e sorelle si può dire qualunque cosa, perché il legame è così forte che puoi sempre tornare indietro. La forza dei fratelli è che, se non arrivano a uccidersi, saranno uniti per sempre».
Simona Izzo per “Specchio – la Stampa” il 29 maggio 2022.
Ore 23:30. Beauty routine serale: tre minuti di picchiettamento viso-collo. Ore 23:33. Gel borse sotto agli occhi, due minuti collo un minuto crema anti-rugosità braccia, «Oddio, e le gambe?» "Amoreeeee" Chiama Ricky dalla stanza da letto Voce pensiero: «Che vuole adesso? Sono 36 anni che mi tamburello la faccia a quest' ora». Mollo le creme e mi dirigo verso la camera da letto.
Voce pensiero: «Ma che succede? Ah, vuole farlo: ma l'amore sessuale di due coniugi trentennali, non è un ossimoro? Forse per lui no...» Mi sdraio e gli dico: «Tesoro, che bello... ti rendi conto? In un mese sarebbe già la seconda volta, un record...Ti ricordi? Quando eravamo ragazzi se stavamo due o tre giorni senza farlo, ci dannavamo. E invece che bello farlo due volte al mese È vero non si tratta più di sesso acrobatico, diciamo sesso a rallenty...
Siamo più veloci, ma più slow, ecco…Una cosa che dovrebbe durare venti minuti, ne durerà trentacinque. Ricky mi interrompe: «Ma ti vuoi stare zitta che mi deconcentro?» Voce pensiero: «La verità è che adesso, quando faccio l'amore con lui entro in modalità flashback della nostra vita sessuale: in 36 anni quanto amore avremo fatto? 20 milioni di volte, un milione di volte, un miliardo di volte? Boh...»
Si affastellano nella mia testa, i momenti più salienti. È una tecnica salvifica a una certa età, se c'abbiamo una defaillance reciproca, ecco che arriva in soccorso la fantasia del passato, perché pensare di fare l'amore a volte è più bello che farlo.
Certi orgasmi raccontati…Mogol docet: «...le discese ardite e le risalite...», sono più forti e incisivi della realtà, o no? Le coppie in generale, a un certo punto, si girano uno di qua, uno di là, nel letto e buonanotte ai suonatori! A volte, invece di separarsi, separano i letti: noi non li separeremo mai, perché, le mani che si intrecciano nel king-size, saranno giovani per sempre.
Pare che la monogamia sia una sorta di patologia, in qualche modo, pari alla poligamia, insomma, sempre una mania. Ho scritto un film che si intitola Maniaci sentimentali, noi saremo, in eterno, maniaci del sentimento della coniugalità. Ma chi ci può separare? Chi te vo' a 'na certa? Solo noi ci possiamo volere, noi che ci siamo visti giovani e ci siamo amati quando tutti gli altri pensavano ad altro, noi, che non abbiamo pensato ad altro che a noi stessi.
Ricordo di aver letto: Una passione coniugale del grande Bacchelli, ma lì, mi pare che ci fosse un omicidio alla fine o sbaglio? Lui ammazzava lei perché era geloso? Si, credo proprio di si…Diciamo che la nostra è una grande passione coniugale senza omicidio, ahah, per lo meno fino ad adesso anche se, ora che ci penso, il nostro amore ha scatenato un po' di rabbietta in molti…
Passione coniugale nonostante marito e moglie combattano con la routine: le lavatrici, gli idraulici, le bollette, le zanzare che infestano, ma se sei capace di chiudere la porta del tuo talamo nuziale, i problemi spariscono e si torna ad essere amanti, parlo per noi naturalmente, come non ce ne sono stati mai, nemmeno nella Divina Commedia.
Allora dico al mio sposo: «La nostra è una storia divina perché è eterna, o perlomeno faremo in modo che lo sia...» «Che prosegua oltre la morte, no, eh, che palle!» Esclama Ricky. «Vabbè, perlomeno finché siamo in vita tutti e due» Chioso io.
Voce pensiero: «In quanti, mi chiedono quale sia il segreto della nostra storia evergreen Il segreto non c'è, c'è solo la fortuna bilaterale di aver incontrato una persona che dopo 36 anni ti fa vibrare ancora, ti fa emozionare con la vivacità della sua testa, delle sue reazioni, e perché no, delle sue mani. Ma soprattutto, bisogna tenere a mente che l'amore è un atto di buona volontà, una professione, con le sue regole.
Perché se è vero che ritengo il matrimonio un'istituzione per che prevede la condivisione dei mali e non quella dei beni, bisogna fare in modo che le ferite, perché quelle non mancano mai, abbiano il conforto di un balsamo coniugale Ah, ora servirebbe anche il balsamo vaginale giusto? Vabbè, ok, vado in bagno, lo metto e non glielo dico. Sì, qualche segreto ci vuole. Poi ci ripenso, è tardi, domani abbiamo la sveglia presto»
Dico a Ricky, con la voce più suadente: «Buonanotte amore mio» «Come buonanotte, scusa? Non dovevamo fare l'amore?» «Ah, è vero», rispondo io. Voce pensiero: «Ne abbiamo parlato talmente tanto che alla fine è come averlo fatto, no? No, non la pensa così». Mi porta verso di sé con le sue braccione forti, e festeggiamo la seconda del mese.
Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 19 settembre 2022.
Gioca sempre in Serie A, si muove a tutto campo, e quando cade - e negli ultimi anni i flop non sono mancati (i più recenti Game of Games - Gioco Loco su Rai2 del 2021 e Ultima fermata su Canale 5 della scorsa primavera) - non fa una piega: si alza e riparte. Che piaccia o meno, Simona Ventura, a 57 anni è - nonostante tutto - ancora fra i grandi protagonisti della tv italiana. Oggi, alle 11.15, torna su Rai2 con una puntata riassuntiva della prima stagione di Citofonare Rai2, che ripartirà sul serio domenica prossima. Sempre alla stessa ora, sempre sullo stesso canale, e sempre con Paola Perego al suo fianco.
(...) per me è anche un momento felice e creativo. Sto ultimando la lavorazione del mio secondo documentario come regista (il primo è Le 7 giornate di Bergamo, sull'emergenza Covid-19, ndr): si intitola A Subito. Gli ultimi cento giorni di Marco Pannella ed è dedicato al leader radicale».
Scusi, ma lei che c'entra con Pannella?
«Oggi ricordare un combattente per le libertà come Pannella credo sia una boccata d'ossigeno per tutti, anche per i più giovani. L'autore del soggetto è Giovanni Terzi, il mio compagno (giornalista, ex assessore di Forza Italia alle Attività produttive del Comune di Milano e prima ancora allo Sport e tempo libero, ndr), e quando l'ho letto mi sono innamorata della sua storia. In pratica, ho montato le immagini inedite di Marco girate nei suoi ultimi mesi di vita dall'assistente Matteo Angioli e da Laura Harth, la sua storica compagna».
Cosa l'ha sorpresa di più?
«Spesso le battaglie che portava avanti non erano le sue. Per esempio, non fumava le canne pur avendo sempre lottato per la liberalizzazione delle droghe leggere (Pannella nel 1975 venne arrestato a Roma per aver fumato uno spinello, ndr)».
Lei le ha mai fumate?
«Sì, anni fa. Provai, vomitai subito, e poi mi addormentai. Non fu un granché come sballo».
Lavorare in coppia anche con il suo compagno non è troppo?
«No. Dopo essere stata una virago per anni, aver fatto sempre tutto da sola, è bello fare esperienze comuni».
Si risposa o no?
«Sì, presto».
Lui come sta?
«Nel 2020 ha scoperto di essere affetto da una grave malattia genetica ai polmoni, la dermatomiosite amiopatica. Non si può guarire, ma solo impedirle di peggiorare. La terapia sta andando bene, siamo fiduciosi».
Da almeno vent' anni dice di essere pronta per guidare una rete tv: in Rai dopo le elezioni cambierà tutta la dirigenza, vuole lanciare un appello?
«Da anni mi occupo dei miei canali social, non so cosa augurarmi. I direttori in Rai cambiano alla velocità della luce».
Quindi non le interessa?
«Per ora, no. Ho ancora voglia di stare in video».
Che ne pensa di Chiara Ferragni, che a Sanremo 2023 animerà prima e ultima serata? Si farà male?
«Non credo. Lei è molto in gamba e ha chiesto consigli proprio a me per sapere cosa fare e come stare su quel palco. Sono il suo punto di riferimento televisivo».
Vi siete già incontrate? Cosa vi siete dette?
«Sì, certo. E lo faremo anche in futuro. È venuta in ufficio da me e le ho fatto vedere un po' di cose. Mi sono messa a sua disposizione. Chiara ha fatto la scelta giusta al momento giusto. La Rai le chiedeva di andare a Sanremo da quattro anni...».
Le ha chiesto consigli prima di accettare l'offerta?
«No, dopo aver detto sì».
La dritta più importante che le ha dato finora?
«Essere se stessa. È l'italiana più famosa al mondo e Sanremo è il palco più popolare e importante d'Italia. Comunque vada per lei sarà un successo».
Lei ne sa qualcosa: com' è che i matrimoni con i calciatori non funzionano quasi mai? Il riferimento, ovviamente, è alla coppia Totti-Blasi.
«Certo, io ho già dato. Non durano perché il mondo va sempre più di fretta e le sollecitazioni sono tantissime. Se poi si va a velocità diverse, ci si annoia anche più facilmente».
Lei li conosce bene, giusto?
«Sì, certo. Da tanti anni».
L'avrebbe mai detto che sarebbe finita così? Con i Rolex e le borse...
«Io conosco bene anche i loro avvocati, Annamaria Bernardini de Pace - che oggi tutela Totti e nel 2008 difese me quando divorziai da Stefano Bettarini - e Alessandro Simeone - che rappresenta Ilary e per dieci anni ha curato i miei interessi professionali - quindi non mi sbilancerei».
Che intende dire?
«I due sono tutt' altro che avventati. Ogni loro mossa è molto ben ponderata e non me la sento di dire una sola parola: chi lo sa cosa c'è dietro questa storia? Cosa è successo davvero?».
A proposito, il 6 settembre ha postato una sua intervista a Totti del 2008 in cui lui confessava di aver fatto sesso notturno in una cabina del telefono, a Roma. Che cosa voleva dire: Totti è sempre stato così, nulla di nuovo?
«Volevo solo far capire come una volta era tutto più spontaneo, mentre oggi tutto è soffocato dal politicamente corretto».
Perché a X Factor di Sky in giuria richiamano tutti tranne lei?
«L'ho fatto per cinque anni ed è andata bene così. Non torno mai al passato».
I suoi soldi li investe sempre in case? Luciana Littizzetto ne ha ventidue, Alba Parietti dieci: lei?
«Beate loro. Io di meno».
Con i ristoranti ha chiuso?
«Per sempre. È l'unica cosa che mi è andata veramente male».
È vero che in passato, vestita da Giorgio Armani, dopo aver modificato i suoi vestiti scoppiò il finimondo?
«Sì. Ai tempi di Scherzi a parte feci tagliare alcuni abiti troppo lunghi per me. Dopo tanti anni Giorgio, che adoro, ancora me lo rinfaccia».
Con Dolce & Gabbana andò peggio?
«Feci accorciare anche le loro gonne. Se ne accorsero e si incazzarono come licantropi. Alla fine, però, mi hanno vestito per 14 anni».
Eleonora D’Amore per fanpage.it l'8 gennaio 2022. Sinead O’Connor ha comunicato al mondo la notizia della morte di suo figlio 17enne Nevi'im Nesta Ali Shane O'Connor: "Il mio bellissimo figlio, Nevi'im Nesta Ali Shane O'Connor, vera luce della mia vita, ha deciso di porre fine alla sua lotta terrena e adesso è con Dio. Possa riposare in pace e nessuno seguire il suo esempio. Il mio bambino. Ti amo così tanto. Riposa in pace, ti prego" ha scritto su twitter. Il ragazzo, misteriosamente scomparso nel nulla due giorni fa da Tallaght, città situata nella parte orientale dell’Irlanda, potrebbe essersi suicidato, stando alle parole della madre.
Sinead O'Connor aveva lanciato un appello sempre su Twitter per ritrovare il figlio Shane scomparso nei giorni scorsi: "Questo è un messaggio per mio figlio, Shane. Shane, non è più divertente. Mi stai spaventando a morte. Potresti per favore fare la cosa giusta e presentarti ad una stazione di Gardai (gli agenti del corpo di polizia della Repubblica d’Irlanda, ndr). Se sei con Shane, chiama Garda per la sua sicurezza".
Un messaggio anche per Shane, per ricordargli che la sua vita era preziosa, che non farsi del male avrebbe significato tanto, sia per lui che per sua madre. Un appello andato a vuoto fino a poche ore fa, quando la notizia della morte dell'adolescente ha rotto gli equilibri dei canali social della cantante: "Shane, la tua vita è preziosa. Dio non ha scolpito quel bel sorriso sul tuo bel viso per niente. Il mio mondo crollerebbe senza di te. Sei il mio cuore. Per favore, non impedirgli di battere. Per favore, non farti del male. Vai ai Gardai e ti portiamo in ospedale".
Chiara Maffioletti per corriere.it il 14 gennaio 2022.
Sinead O’Connor è stata ricoverata in ospedale, a pochi giorni dalla morte del figlio 17enne. Solo qualche ora prima, la cantante ha pubblicato diversi messaggi, in cui esprimeva anche il suo desiderio di non continuare a vivere. «Non voglio essere in un mondo senza il mio Shane e senza gli altri miei figli. Non merito di vivere. È colpa mia. Non di un altro», ha scritto.
Aggiungendo: «Sono un disastro dal giorno in cui sono nata. Non è colpa dei miei genitori, della mia famiglia o dei miei figli. Dio mi ha fatta sbagliata». Pensieri che O’ Connor ha condiviso anche in vista del ricovero, quando sui suoi social ha scritto: «Sono persa senza mio figlio e mi odio. L’ospedale aiuterà un po’. Ma troverò Shane. Questo è solo un ritardo».
I fan in ansia
Infine, la cantante ha cercato di calmare i tanti fan preoccupati per lei. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo — ha fatto sapere —. Sono con i poliziotti ora in viaggio verso l’ospedale. Mi dispiace di aver sconvolto tutti». Il figlio di O’Connor aveva tentato già due volte il suicidio in precedenza, fuggendo dall’ospedale in cui era ricoverato. La notizia della sua morte ha devastato la vita già piena di tormenti della cantante, facendola ripiombare nel buio da cui da sempre tenta di allontanarsi.
La vita folle e tragica di Sinead O’Connor, dal riformatorio alla foto del Papa stracciata in tv. Chiara Maffioletti Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.
La cantante, 55 anni, si trova a dover affrontare la morte del figlio, ripiombando in un momento cupo della sua esistenza, dopo le droghe e la depressione.
«Sono stata una persona molto travagliata». Tempo fa, dovendosi descrivere, Sinead O’Connor aveva usato queste parole, specificando anche una cosa però, dopo tante inquietudini: «Indietro non ci voglio tornare». È la vita, però, che sembra riportarla sempre al punto di partenza visto che ora, a 55 anni compiuti da poche settimane (l’8 dicembre), la cantante si trova ad attraversare quello che con ogni probabilità è il suo travaglio più grande: la morte di uno dei suoi quattro figli, Shane, scappato dall’ospedale in cui era stato ricoverato dopo che per due volte aveva tentato di togliersi la vita. Aveva 17 anni. O’Connor, nel messaggio con cui ha dato notizia della sua scomparsa, ha parlato di lui come «la vera luce della mia vita». Una luce che si è spenta, lasciando spazio ancora una volta al buio.
L’infanzia difficile
Buio che accompagna la cantante praticamente da sempre. Nata a Dublino nel 1966, la sua è stata un’esistenza difficile già dall’infanzia: al momento della separazione dei genitori, quando lei aveva 9 anni, era stata affidata alla madre — alcolizzata e depressa, morirà molti anni dopo in un incidente d’auto — diventando vittima dei suoi abusi e innescando quel rapporto di amore e odio con lei, poi cantato anche in diversi suoi brani. Una volta scoperti, era stato il padre a decidere di trasferire la futura voce più vellutata d’Irlanda in diversi collegi cattolici, andando a plasmare l’altra matrice di una relazione complessa, quella con la religione cattolica, detonata poi all’inizio degli anni Novanta quando — ormai famosissima — si è resa protagonista di gesti poi fissati nell’immaginario collettivo di un’epoca. Il più celebre era stato l’esibizione al Saturday Night Live, nel 1992, quando cambiò senza preavviso le ultime parole del testo di War, di Bob Marley, denunciando la pedofilia in certi ambienti cattolici e infine strappando davanti alle telecamere una foto di Papa Giovanni Paolo II, al grido di «combatti il vero nemico».
La depressione
Ragazza inquieta e sfrontata, ribelle nelle idee e anche nel look (i suoi capelli rasati hanno fatto scuola) ma che nella musica sembrava aver trovato una strada per sedare le sue ansie. Lei che già prima di diventare famosa era stata arrestata per furto, conoscendo dopo tanti collegi anche il riformatorio. Una vita di saliscendi percorsi a velocità folle, come le scale che era in grado di scalare con la sua voce, unica. «Nothing Compares 2 U» era diventata una delle più hit del decennio (nel 2015 ha dichiarato di non volerla più cantare, ndr.) e lei nel mentre era al centro degli scandali, per quel suo esporsi talvolta scellerato, subito bollato da chi ha l’etichetta facile come un comportamento squilibrato, «non normale». Criticata, accusata, attaccata, O’Connor rientra così in quello stato depressivo che già aveva conosciuto molto bene in passato.
Gli sfoghi sui social
Parallelamente alla musica, fanno parlare le sue scelte, con le proporzioni che, negli anni, sono andate sempre più ribaltandosi: a fine anni Novanta diventa prete di un movimento cattolico indipendente, decidendo di farsi chiamare Madre Bernadette Mary. La sua missione? «Salvare Dio dalla religione». Nel 2011 sposa Barry Herridge, da cui divorzierà 18 giorni dopo. E poi arriva l’epoca dei social network, dove la fragilità della cantante viene scandita da lei stessa, a chiare lettere. Come quelle di un suo post su Facebook, del 2015, in cui scriveva: «Le ultime due notti mi hanno distrutto. Ho preso un’overdose. Non c’è altro modo per ottenere rispetto... Finalmente vi siete sbarazzati di me». Parole lette come l’annuncio del suo suicidio. Non va meglio nel 2017, quando pubblica un video in cui dice: «Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe... E non c’è niente eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma: all’improvviso tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male».
La conversione all’Islam
Quindi l’ultimo annuncio, nel 2018: «Sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Questa è la naturale conclusione del viaggio di qualsiasi teologo intelligente. Tutto lo studio delle Scritture porta all’Islam. Il che rende ridondanti tutte le altre scritture. Mi verrà dato (un altro) nuovo nome. Sarà Shuhada Davitt». La sua ricerca della luce sembrava essere arrivata a un punto. Ma alla fine il buio è tornato, ancora una volta.
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 9 gennaio 2022.
Non c'è pace per Sinead O' Connor, l'indimenticata voce di Nothing Compares 2 U, hit del 1990 che la rese una popstar a livello mondiale: due giorni dopo la sua scomparsa, denunciata lo scorso giovedì, ieri è stato ritrovato morto il figlio 17enne della cantautrice irlandese, Nevi' im Nesta Ali Shane O' Connor. Il ragazzo si è suicidato, come lasciano intuire le parole con le quali la madre, che nel 2018 ha annunciato di essersi convertita all'Islam e di aver cambiato il proprio nome di Shuhada' Davitt, ha confermato la notizia sui suoi canali social ufficiali: «Ha deciso di porre fine alla sua lotta terrena, che nessuno ne segua l'esempio», ha scritto la cantautrice, la cui vita sembra essere da troppi anni avvolta da una vera e propria maledizione, tra crisi e insuccessi nelle classifiche e un guaio dietro l'altro nella vita privata.
Il ragazzo, uno dei quattro figli avuti da Sinead O' Connor (da quattro mariti diversi: Shane nacque nel 2004 dall'unione con il musicista irlandese Dónal Lunny, dopo che la cantautrice aveva già dato alla luce nel 1987 Jake Reynolds e nel 1996 Roisin Waters, nati dalla relazione con il primo marito Donald Reynolds e con il giornalista John Waters), era stato ricoverato in una clinica a Newbridge, cittadina irlandese nella contea di Kildare, dopo aver tentato già due volte di togliersi la vita.
Eludendo la sorveglianza del personale, Shane giovedì è riuscito a fuggire dall'ospedale: «Perché un giovane traumatizzato che era sotto osservazione per tentativi di suicidio è potuto sfuggire ai controlli?», aveva denunciato la stessa Sinead O' Connor, dopo aver ricevuto la notizia della scomparsa del figlio.
A nulla sono serviti gli appelli che la madre gli ha lanciato sui social in questi giorni («Non farti del male», «Mi stai terrorizzando»): il corpo del ragazzo, infatti, è stato ritrovato ieri privo di vita. Gli inquirenti lo hanno recuperato nell'area di Bray, cittadina sul mare a sud di Dublino, distante 60 chilometri dalla clinica dove Shane era ricoverato: «Il mio bellissimo figlio, la luce della mia vita, ha deciso di porre fine alla sua lotta terrena oggi ed è ora con Dio», ha scritto Sinead O' Connor sui social, confermando la notizia, prima di dedicare al figlio una canzone di Bob Marley, Ride Natty Ride (Saremo per sempre insieme). Cait O' Riordan, 57enne ex bassista e cantante dei Pogues, tra i gruppi simbolo della scena rock irlandese, è stata la prima a far sentire alla cantautrice la sua vicinanza, sui social: «Mi dispiace tanto, Sinead».
Affetta da disturbo bipolare, nel 2017 la voce di Nothing Compares 2 U scritta da Prince, oltre 3 milioni e mezzo di copie vendute a livello mondiale nel '90, mentre l'album I Do Not Want What I Haven't Got di copie ne vendette addirittura 7 milioni in un drammatico video sui social denunciò la famiglia di averla abbandonata a sé stessa e di essere impegnata in una battaglia legale per la custodia e l'affidamento dei due figli minori, lo stesso Shane e Yeshua Bonadio, 15 anni, nato dalla relazione con l'uomo d'affari Frank Bonadio: «Solo il mio psichiatra è presente ora: è lui che mi tiene in vita», si sfogò la cantautrice.
Un anno prima, nel 2016, era stata lei a far sparire le sue tracce, tenendo con il fiato sospeso familiari e fan, preoccupati per la sua incolumità perché pochi mesi prima ormai uscita dal circuito musicale la O' Connor aveva tentato il suicidio assumendo una massiccia dose di stupefacenti. La polizia la ritrovò in un hotel.
I guai per la cantautrice cominciarono nel 92, due anni dopo il grande successo, quando in diretta televisiva al termine di un'esibizione sulle note di War dello stesso Bob Marley strappò davanti alle telecamere una foto di Papa Giovanni Paolo II. Nel 99, già preda dei problemi mentali, arrivò a rapire la figlia Roisin, portandola via dalla casa del padre. Sinead O' Connor, che non incide un album da otto anni, l'anno scorso ha pubblicato l'autobiografia Rememberings. Al Sundance Festival, in programma dal 20 al 30 gennaio in formato virtuale, sarà proiettato un documentario sulla sua tormentata vita.
Sonia Bergamasco: «Bertolucci mi ha scelto dopo avermi visto in farmacia». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 23 giugno 2022.
Giorgio Strehler e Franco Battiato. Carmelo Bene e Checco Zalone. Zubin Metha e Antonio Albanese, i fratelli Bertolucci e Camilleri, Irène Némirovsky e Roberta Torre. Se si facesse una versione italiana del gioco dei sei gradi di separazione applicato a Kevin Bacon, la prescelta sarebbe Sonia Bergamasco. Non ce n’è un’altra come lei: diploma da pianista al Conservatorio di Milano e quello alla Scuola del Piccolo, partenza con il botto, in compagnia con Strehler, quindi una sequela di incontri unici fino alle sue regie di teatro e anche d’opera. Un filo rosso che sa unire gli opposti, a mettere alla stessa tavola i diversi. Un talento fuori dal comune nell’aprire nuove porte. Ma anche una determinazione a chiuderle, all’occorrenza. Segni di riconoscimento: criniera di capelli biondo miele e risata contagiosa. Milanese, classe 1966, sposata con il collega Fabrizio Gifuni con cui ha avuto due figlie, Valeria e Maria, ha appena inaugurato un nuovo capitolo, la poesia, con Il quaderno, in uscita con La Nave di Teseo in contemporanea con lo spettacolo in scena stasera alla Milanesiana.
«Ho seppellito mio padre che avevo diciott’anni. Per essere precisi, / “issato” in quarta fila in un cimitero di campagna (il parterre risultava troppo caro). / Tempi duri, adolescenza. Miserabile bosco di spine». Si è decisa a aprire il suo diario poetico, cosa l’ha spinta? «Forse è un momento della vita in cui sono pronta a farlo. Ho scritto fin da ragazza, al momento è la cosa che preferisco fare, una strada che voglio seguire sempre di più. La scrittura è prima di tutto è possibilità di guardarmi allo specchio. In copertina ho messo una mia foto a 3 anni a Natale. Riguardando quella bambina mi ritrovo anche con tutte le ferite, le diseguaglianze, gli stop, le difficoltà. Sono contenta che una parte di quella bambina sia rimasta intatta».
Com’era da piccola?
«Volevo tanto diventare grande, non stare più lì. La musica era nell’aria a casa anche se in verità solo una zia, Zia Margherita, la praticava. Era una cantante molto promettente che non ha proseguito, si è dedicata alla famiglia. Mia nonna amava l’opera, suonava pianoforte sbagliando tutto, mio nonno paterno canticchiava arie d’opera ma nessuno si era inoltrato. Mia madre ci teneva che noi fratelli imparassimo a suonare uno strumento e mi ha avviato al pianoforte».
Ricordi degli anni del Conservatorio?
«Ci sono entrata a dieci anni, è stato impegnativo. Per me fu durissimo per la chiusura monastica che ho percepito, che ho un po’ subito. Il legame con la musica l’ho recuperato dopo, si è stampato dentro come dna».
Perché anche la scuola del Piccolo Teatro? «È stata una scelta impulsiva, a 18 anni, dopo la morte di mio padre. Aveva 48 anni, giovanissimo, è successo all’improvviso. Per me è stato grosso rimescolamento. Ho sentito la necessità di capire cosa volevo e potevo fare, dovevo chiarirmi le idee presto. Mi ha attratto il bando della scuola di teatro. Lo feci con incoscienza sicuramente, ma soprattutto impreparazione. Credo mi abbiano preso per la musicalità del mio modo di affrontare la prova, anzi le prove, tre nel corso dell’anno. Forse li ha colpiti una sorta di solfeggio nel mio modo di recitare».
Sua madre come la prese?
«Vivevo già da sola, è stata una scelta mia, l’ha saputo a cose fatte».
E dopo un po’ si è trovata in scena con Strehler. «Dalla scuola alla compagnia. Prima il Faust e poi l’ Arlecchino. Ricordi preziosi. Giorgio aveva un entusiasmo leonino trascinante e un po’ terrorizzante. E su tutto, una passione contagiosa».
E un bell’imprinting nel teatro.
«Ne ho fatto tanto. Con Glauco Mauri, con Massimo Castri, cinque anni di spettacoli».
Tra cui «La trilogia della villeggiatura». Nella stessa compagnia del suo futuro marito.
«Con Fabrizio ci siamo conosciuti lavorando. Altri hanno unificato i testi, Massimo invece volle fare tre spettacoli diversi: Le smanie, Le avventure e Il ritorno. Con Castri, tre anni di tournée insieme. L’avevo già incontrato: ero andata a vederlo recitare nell’ Elettra con un mio amico. Poi ci siamo trovati per Goldoni. Due anni mezzo di repliche. Siamo andati a vivere insieme».
Milano o Roma?
«A Roma, rione Monti. Era il 1997, un romano non avrebbe mai compreso la Milano di allora. Ora è più allegra oltre che più bella. Ci torno sempre con grande gioia. Quella casa di Monti è legata a altri incontri speciali. Uno in particolare, nella farmacia del quartiere».
Non con un dottore, immagino. «Con Giuseppe Bertolucci, con cui ho girato L’amore probabilmente, il mio primo film, dopo il corto D’estate con Silvio Soldini. Eravamo vicini di casa ma non lo sapevamo. Ci siamo incontrati in farmacia, io mi ero tagliata i capelli cortissimi per il Pinocchio di Carmelo Bene. Lui è tornato a casa e ha detto a sua moglie: ho visto la protagonista del film. Io ho detto a Fabrizio: ho incontrato uno in farmacia che mi fissava. Poi siamo diventati grandi amici».
E con Carmelo Bene come andò?
«Un nuovo inizio. Lui lavorava con Elisabetta Pozzi alla riedizione del suo bellissimo Adelchi, cercava attrici giovani. Una parte di me desiderava conoscerlo e lavorare con lui ma, vista la personalità debordante, esitavo. Quando l’ho conosciuto ho trovato una persona di un’ironia stellare: con lui ti potevi cappottare dalle risate. Molte attrici si presentarono ai provini. Ti chiedeva di salire sul palco e recitare versi al microfono e lui dal suo microfono tuonava, si divertiva un sacco. Io non mi decidevo. Dopo qualche giorno mi ha scovato: tu non ti esibisci? L’ho fatto e mi ha proposto di lavorare con lui».
A cosa?
«Un periodo di studio pagato che poteva dare la possibilità di uno spettacolo, ancora non si sapeva quale. Non ho avuto dubbi: una specie di sabatico fuori da ogni norma. Era il Pinocchio, l’ultima sua edizione. Una fatica immane: un’estate torrida, prove al teatrino dell’Angelo, io come fatina avevo un costume in velluto pesantissimo con imbottiture che mi facessero sembrare una bambola e una maschera fissa su metà viso e su cui dovevo mettere altre maschere. Mi era tagliata i capelli apposta. Lo portammo all’Argentina, in scena solo noi».
Poi?
«Finì di colpo. Andai nella sua casa di Otranto a studiare per La figlia di Iorio di D’Annunzio. Una sera ci fu una rottura, non ci intendevamo più su nulla. Ho mollato tutto e sono partita all’alba. Ci siamo rivisti per la ripresa di Pinocchio. Conservo di lui un ricordo luminoso».
Anche con Battiato un incontro non conforme.
«Ci aveva visto ne La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, ci chiamò per il suo Musikanten, il suo film su Beethoven. Con Fabrizio abbiamo accettato questo viaggio fuori da ogni strada usuale. Ci fece una proiezione a casa sua a Milo, voleva portarlo a Venezia, io gli dissi è meglio di no, non sarebbe capito, lui non se ne preoccupò».
Fu fischiato.
«Fu una catastrofe annunciata, era un oggetto che non era riconducibile a quel contesto. Ma Franco seguiva suoi percorsi. Con lui ho fatto anche un programma tv Bitte, keine reclame. Un uomo generosissimo, era semplice stare con lui. Era in movimento, in cammino ma con leggerezza senza pesare su nessuno, senza giudicare. Desiderio puro».
A vent’anni di distanza
«La meglio gioventù» resta un punto fermo. Cosa fu per voi? «Un punto di svolta che ci ha unito. Eravamo un gruppo di attori giovani, il nucleo centrale si conosceva, io, Fabrizio, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni. E Maya Sansa, Jasmine Trinca, Claudio Gioè, Valentina Carnelutti, oltre a Adriana Asti. Un’opera innovativa, fatta per la tv e lanciata al cinema. Sono felice abbia una vita così lunga e importante».
Non ha mai snobbato la tv.
«Anzi, ne ho fatta tanta. In modo diversi. Dal De Gasperi di Liliana Cavani a Tutti pazzi per amore di Riccardo Milani, scritto da Ivan Cotroneo, un tuffo nella leggerezza».
E Montalbano. Livia per 5 anni, poi lasciata al telefono. Il pubblico si è arrabbiato.
«Sinceramente pure io: ma che si finisce così? Però l’aveva scritto Camilleri...».
Hanno fatto il remake francese di «Quo vado?» Come la convinsero Nunziate e Medici?
«Un invito a nozze. Per me un tuffo nel vuoto. Ma anche per loro: prendere me per una commedia è stata una bella intuizione. Come di tradurre al femminile il personaggio classico del dirigente maschio. Ho amato la dottoressa Sironi, ho cercato di difenderla soffrendo, alla fine distrutta da quel disgraziato di Checco Zalone».
Ci ha preso gusto con la commedia, con Luce.
«Mi sta molto simpatica, così persa nel suo vagolare. Le figlie ne sono entusiaste, chiedono che anche Fabrizio si decida a lanciarsi in commedia».
A un certo punto in teatro ha iniziato con le sue regie: «Il ballo», «L’uomo seme», etc. «Testi che non nascono dal teatro. Ancora l’ossessione per la lingua che seguo a modo mio».
Per lei dopo l’estate c’è la ripresa di «Chi ha paura di Virginia Woolf?» di Antonio Latella. «Un lavoro amatissimo, desideravo da tanto recitare con Antonio e con Vinicio Marchioni. Generosità e brillantezza rare. Una grande squadra, una gioia stare insieme. Non è scontato».
A casa si parlerà spesso di lavoro.
«È parte della nostra vita, fin dall’inizio. Come stacchiamo? Con Fabrizio giochiamo a scacchi. Ci giocavamo quando ci siamo conosciuti, nelle nostre vacanze in Grecia, mi ricordo pomeriggi in cui perdevo sempre. Abbiamo ripreso e finalmente ho cominciato a vincere anche io. Adesso c’è un buon equilibrio, mi piace molto».
Domenico Basso per corriere.it l'11 aprile 2022.
Da ragazzina voleva studiare arte e anche se non ci è riuscita perché i suoi l’hanno spedita a fare la scuola alberghiera, lei all’arte in qualche modo ci è arrivata lo stesso. Non si è occupata di ritratti o di sculture ma di corpi nudi, di intrecci, di posizioni a volte anche acrobatiche.
Lea di Leo, al secolo Sonia Faccio, è stata pornoattrice made in Veneto ma in quel mondo è durata poco per scelta ma soprattutto per paura. Oggi vive a Castello di Godego dove ha il suo «ufficio» dove lavora anche 10 ore al giorno intrattenendo i fan con video, foto e collegamenti via cam.
«Ho fatto 4 o 5 film ma poi ho mollato – racconta – Non era un bell’ambiente, giravano malattie e vivevo nell’incubo. Ogni volta che facevo un test avevo paura di risultare positiva a qualche malattia. In questo mondo c’è sempre stata molta promiscuità e questo è un grosso pericolo».
Ma come era approdata al sexy business?
«Avevo iniziato a lavorare prima come barista in un night, poi qualcuno mi ha detto che se avessi fatto io gli spettacoli avrei guadagnato almeno tre volte quello che prendevo stando dietro al banco».
Quindi il salto dal bancone al palo della lap dance è stato veloce?
«Io non ho fatto gavetta, io mi sono ritrovata a fare spettacoli in locali che si riempivano all’inverosimile. La gente veniva apposta per vedere me.
Un giorno arrivò un tipo da Milano, incuriosito da tanto successo e mi propose di fare altre cose. Ho conosciuto l’attore Franco Trentalance alla fiera del sesso di Milano, il Misex, ed ho cominciato a fare i film, più o meno ad inizio anni Duemila».
Poi la decisione di smettere. Ma ovviamente lei era già molto richiesta per fare spettacoli nei night e quindi non ci ha rimesso.
«Sì, facevo spettacoli ma anche programmi tivù che reclamizzavano telefoni erotici. Stavo in televisione in diretta anche dieci ore al giorno. Erano gli anni del boom degli 899, guadagnavo circa 700 euro al giorno».
E adesso cosa fa Lea di Leo?
«Adesso lavoro su alcune piattaforme, tra cui Onlyfans».
Che tipo di lavoro è, me lo spiega?
«Vendo video e foto, i miei fan facendo abbonamenti mensili da 30 dollari possono acquistare i vari contenuti».
Solo questo o c’è dell’altro?
«C’è anche la possibilità di vedermi in cam. C’è chi vuole vedere il mio corpo ma anche chi vuole ammirare i miei piedi oppure anche chi paga per sentire pronunciato da me il suo nome».
E quanto costa questo collegamento?
«Da 50 a 100 dollari per dieci minuti».
Chi sono i suoi fan o clienti?
«Sono soprattutto giovani, ma diciamo che si va dai 25 ai 55 anni. C’è gente affezionata. Ad esempio c’è un ragazzo che mi chiama ogni primo del mese e mi paga 1000 euro per vedermi indossare varie tipologie di intimo».
Tanti giovani e questo lascia un po’ sbalorditi. Un ragazzo che cerca sesso in cam e non nella realtà. Perché secondo lei?
«La gioventù rispetto ad anni fa è cambiata. Ieri i giovani cercavano il contatto fisico, oggi si sono assuefatti alla virtualità. Molti ragazzi si soddisfano con l’autoerotismo in cam perché magari non vogliono complicazioni».
Ma quando la chiamano per collegarsi?
«A qualsiasi ora. Molti prendono appuntamento, altri mandano un messaggio all’ultimo momento. Capita che si colleghino con me anche persone che lavorano in aziende o enti pubblici e la pausa pranzo la fanno con me, guardandomi e soddisfacendosi così».
Ma lei passa tutta la giornata davanti al computer?
«Una volta ci stavo anche 10 ore, adesso il lavoro è un po’ calato e quindi al massimo sono 6. Ho lavorato tantissimo negli anni del Covid».
Che clientela aveva in quel periodo?
«Sempre molto variegata, mi ricordo di un tipo che voleva raccontarmi di tutte le sue avventure sessuali prima del Covid. Pagava 300 euro l’ora».
Si è mai innamorata di qualche cliente visto in cam?
«Questo è un lavoro e non lo mescolo con la mia vita privata».
Ma lei, lavoro a parte, cosa dice del sesso virtuale?
«Dico che non è una cosa brutta, può essere coinvolgente. Detto questo, però, io amo il contatto fisico».
Ha un compagno o è single visto il lavoro che fa?
«Sono single e sto bene così».
Mai pensato di fare un lavoro più normale?
«Ogni tanto ci penso ma adesso mi va bene così, guadagno parecchio».
Tornasse indietro cambierebbe qualcosa della sua vita?
«Sicuramente non farei più film porno».
Gli amici e le amiche che dicono del suo lavoro?
«Loro non mi giudicano anche perché non faccio del male a nessuno, anzi probabilmente aiuto le persone».
Oltre alle piattaforme sulle quali lavora che rapporto ha col web e con i social?
«Sono presente su Instagram dove però non si può osare più di tanto con le foto e su Twitter. Ecco quest’ultimo social mi piace perché diciamo che è più aperto».
Si è posta un limite di età per questa sua attività rivolta ai voyeur?
«E perché dovrei. Non è detto che se una donna invecchia non può essere attraente e desiderata. Poi una donna esperta vale sicuramente di più di una giovane».
Oggi si è presa una giornata libera?
«No. Prima che mi chiamasse mi sono collegata con un cliente. Voleva vedermi il seno. Il video incontro è durato 5 minuti e mi ha pagato 50 dollari. Come vede la richiesta c’è, il lavoro non manca ed è ben pagato e mi scordavo i regalini. Se il cliente è soddisfatto arriva anche la mancia».
Marco Menduni per “Specchio – La Stampa” il 28 maggio 2022.
Ci ride su e ammette: «Io devo tutto alla mia forza estetica, al cento per cento, lo ammetto». Sonia Grey fa una pausa e poi chiarisce: «Però io mi ci diverto. Ci gioco, mi sentirei ridicola oggi a non giocarci».
Quella che si è aperta per lei non è una vita parallela: più che altro una nuova carriera.
Perché nel vortice dei social ha portato tutta se stessa: un'immagine super glamour, esperienze ereditate dalle attività del passato, una buona dose di intuito imprenditoriale, persino le conoscenze acquisite all'ateneo.
Ha infatti conseguito la laurea in Scienze della comunicazione, informazione e marketing all'Università Lumsa di Roma e poi ha seguito un corso di programmazione neuro linguistica. Ne viene fuori un mix che rappresenta la nuova Sonia.
Così diversa dalla ragazza che Antonio Ricci scelse come prima infermiera sexy di Striscia la notizia, eppure capace di sfruttare la forza evocativa di quel debutto. Arriva su OnlyFan e spopola: «Raccolgo numeri davvero interessanti, a mia sorpresa.
Non faccio nudo ma cose molto carine. E poi continuo a pubblicare contenuti. Incontri con politici e calciatori. Il lavoro che facevo in tv sono riuscita a riportarlo sui social».
Conclusione? «Su Onlyfan sono nella top. È stata una grande rivoluzione nella mia vita. Mi do un gran da fare. Il risultato è arrivato a prescindere». Perché non c'è solo il web: «Sta uscendo il mio libro. Poi ci sono le canzoni, gli integratori, i bracciali. Tante attività intorno alle quali girano dei numeri davvero importanti».
Quando la contattiamo, le foto su Instagram la collocano a Dubai. È sempre in movimento. Di sé traccia un ritratto di donna entusiasta e appagata: «Sono laureata. Sono un'imprenditrice. Conduco una vita super movimentata. Faccio molto sport e una dieta equilibrata e sana. Quando faccio qualcosa, è un successo. Mi sono messa a dipingere e subito ho venduto le mie opere. Diverse gallerie, alcune molto importanti, mi hanno proposto mostre anche all'estero. Le mie opere sono esposte in una galleria di Firenze».
Poi, però, vuole godersi la calma e la pace dei suoi rientri a casa. Da Roma si è trasferita in Alto Adige: «Vivo appena sopra Bolzano, immersa nei vigneti e nei meleti». Ha una storia solida: «Una relazione stabile da vent' anni, un figlio». La decisione è stata presa insieme: «Abbiamo voluto trasferirci là, a contatto con la natura e con la possibilità di fare sport in luoghi bellissimi». Viaggiare le piace sempre moltissimo: «Sono appena tornata da Dubai, ora sono a Bolzano ma già in procinto di ripartire».
Naturalmente, tra l'infermiera sexy e l'oggi c'è una bella carriera di mezzo. Condotta all'insegna della versatilità. Ricordiamo: per ben nove anni conduttrice di programmi tv su Raiuno (Notti mondiali, Domenica In, Unomattina estate, Mezzogiorno in famiglia, Ciak si canta, Una notte per Padre Pio e altro), poi attrice di film e fiction, e anora autrice di libri di cucina apprezzati dai lettori.
Adesso l'incontro con il mondo dei social. L'intuizione che tutto cambia ed è quella la nuova frontiera da affrontare. Per divertirsi, certo, ma anche per dar corpo alle sue capacità professionali e imprenditoriali.
«Non mi sento un'influencer, ma quando ero ancora in tv avevo già percepito che le cose avrebbero preso questa piega. Sono sempre stata un'anticipatrice di tempi e di fenomeni sociali. Ho avuto ragione». Il contapersone di Instagram le sta dando ragione, indicando a oggi 404 mila follower. E sono in continua crescita.
Le sue fonti di ispirazione, non lo nega, sono la seduzione, l'intrigo, l'erotismo. Il suo nuovo libro verterà proprio su questi argomenti. Le immagini social evocano l'immagine di questa bellezza matronale: «Nulla di troppo esagerato. Mi piace giocare con la mia immagine così prorompente, ma sono capace di giocare sempre sul filo dell'ironia».
La "donna dietro al mito": la vita e i successi di Sophia Loren in tv. In vista del compleanno della "diva tra le dive", in tv si festeggia la mitica Sophia Loren con un documentario che arriva il 20 settembre su Rai Uno. Carlo Lanna il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.
È una tra le attrici del nostro Paese più amate dalla critica e dal pubblico. È la donna che ha scritto una pagina indelebile del cinema italiano nel mondo. È una vera icona, anche alla veneranda età di 88 anni. E, proprio nel giorno del suo compleanno, Rai Uno celebra (e festeggia) l’immensità di Sophia Loren con un documentario, dal titolo Sophia!, che debutta il 20 settembre in prima serata. Un ritratto unico di una donna altrettanto unica e che scava a fondo nei suoi successi, nella sua vita sotto i riflettori, ma che racconta soprattutto la vita "segreta" di Sophia Loren, facendo emerge una fotografia inedita di un’attrice leggendaria.
"La vita davanti a sé" ha il volto della Loren
Diretto da Marco Spagnoli, critico cinematografico e regista di origini napoletane, e con la produzione di Rai Documentari, Sophia! si immerge in immagini di repertorio, in interviste video e in radio e in "scatti" rubati dalla sua vita privata per portare alla luce tutto il meglio di un’attrice che ha lasciato un regalo immenso al cinema e a tutto il mondo dello spettacolo. Raccontato in prima persona, insieme alla voce della Loren, il documentario ospita molte attrici del panorama di oggi, come Claudia Generi, Matilde Gioli e Ludovica Nasti (celebre per il ruolo che ha ricoperto ne L’amica Geniale), rivelando quanto è importante – per il cinema e non solo – la grande eredità di Sophia.
È conosciuta all’anagrafe come Sophia Costanza Brigida Villani Scicolone. Una vita costellata di successi, di grandi film, di eccellenti collaborazioni e di grandi amori. Con l’ausilio di un repertorio molto ampio degli archivi Rai, il documentario non solo si sofferma sulla carriera cinematografica della Loren, ma apre una parentesi anche sulla sua vita privata. Come l’amore dirompente per Carlo Ponti, il (presunto) flirt con Cary Grant, l’ammirazione per Vittorio De Sica, e l’amicizia e la complicità con Marcello Mastroianni. Inoltre, si racconta anche la Sophia moglie e madre. Come la Sophia icona di moda e di stile. Tra le vere chicche, spunta un’intervista radiofonica che è stata rilasciata agli albori della sua carriera e che, di fatto, ha lanciato la Loren nel firmamento delle star. Oggi a 88 anni non vive più in Italia ma in America insieme alla sua famiglia. Non dimentica l’Italia, la sua napoletanità e l’amore per il buon cibo. L’ultimo film da protagonista risale al 2020. In La vita davanti a sé è stata diretta – per Netflix – Edoardo Ponti.
Sophie Marceau, dal «Tempo delle Mele» a «Une femme de notre temps». Paolo Baldini su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.
L’attrice francese tra lavorando sul set del film in uscita ad ottobre, una storia di emancipazione e forza femminile.
Mette e toglie la mascherina con un gesto da gran diva. Come se respirasse. Dice di amare il mistero, il teatro e il linguaggio del corpo, la forza seduttiva delle parole, ma anche «i silenzi che creano consapevolezza». Sospira: «Spesso a casa, quando guardo un film, tolgo l’audio per concentrarmi sui volti». Parla dell’emancipazione femminile e sostiene che le donne «si adattano meglio alla scommessa del cambiamento perché sono abituate a vivere nel presente gettando un seme nel futuro». I suoi genitori si sono separati quando aveva 9 anni. In un’intervista, ammise: «In fondo, penso di non averli mai conosciuti».
Dice di accettare con serenità le critiche dei suoi due ragazzi: Vincent, 27 anni, figlio del regista Andrzej Zulawski, e Juliette, 20, nata dalla relazione con il produttore Jim Lemley. Non teme il tempo che passa: «Mangio sano, mi tengo in forma, sorrido. Invecchiare è inevitabile». Spiega che «i film possono diventare più veri della realtà» e aggiunge di avere creato legami profondi con tutti i personaggi che ha interpretato, da Anna Karenina alla principessa di Braveheart alla velenosa Elektra King di 007 – Il mondo non basta, perché ha scavato nella loro storia e loro sono entrati nella sua. «Mi sono assicurata che la gente li capisse. Ho preteso che fossero reali. Amo tutte le donne che ho messo in scena perché soffrono e combattono». Sophie Marceau, la ragazzina al primo bacio del Tempo delle mele (1980), è oggi, a 55 anni, la protagonista di Une femme de notre temps, il film di Jean-Paul Civeyrac che ha presentato a Locarno.
Che storia è?
«Quella di una donna determinata che si è fatta largo in un mondo di uomini e si ribella a un destino scritto da altri. L’esistenza di Juliane, commissario di polizia a Parigi, scrittrice di noir, arciera, viene sconvolta dal dolore. Per la perdita della sorella, morta a Tokyo. Per i tradimenti del marito e della famiglia di immigrati che tenta di salvare da un padre violento».
Un’emergenza emotiva.
«Juliane segue una traiettoria precisa. Dal punto A al punto B. Come le frecce che scaglia per scaricare la tensione. Tirare con l’arco è un’attività che coinvolge l’intero corpo. Quando le capita di mutare rotta Juliane investe tutta sé stessa. Le donne sanno essere radicali quando voltano pagina, nel bene e nel male. Juliane scopre le lettere d’amore della sorella e le sue certezze crollano. Usa le armi, arco e pistola,che io invece odio. Sa di sbagliare, va fino in fondo. Fino alla confessione finale».
Nel 2018 dopo la regia di «Mrs Mills, un tesoro di vicina» si prese una pausa di riflessione. Spiegò: «Non sono depressa, è solo il momento di rallentare».
«Dirigere è un lavoro duro e complicato. Si è molto soli. Hai intorno tante persone che condividono con te un progetto: l’ultima parola è sempre tua, tutti si affidano a te».
Pensa di tornare dietro la macchina da presa?
«Al momento no. Scrivo, ma non per il cinema».
Dopo «Il tempo delle mele» Gaumont le fece firmare un contratto milionario.
«Fu un successo enorme. Tutto è iniziato da lì. Un grande debutto. Per molti io sono ancora Vic. Quando alla Cinémathèque mi chiesero quale film volessi che fosse proiettato, ho segnalato quello. Ho scoperto questo meraviglioso mondo mentre lo stavo vivendo. Non mi ero creata aspettative, mai stata una cinefila».
Cosa è cambiato da allora?
«Un set durava 12 settimane, oggi la metà. I ritmi sono più intensi, le tecnologie si sono raffinate, c’è una concentrazione maggiore, il che non è un male. All’epoca, avevo 15 anni, mi chiamò Francis Huster, il celebre attore della Comédie-Française. Non lo conoscevo. Quando mi spiegarono chi era dissi: wow!».
Motivo della chiamata?
«Mi diede dei consigli. Disse che dovevo studiare perché di ragazze carine è pieno il mondo, ma recitare è un lavoro serio, non va preso sottogamba. L’ho ascoltato: è stata una lezione molto utile».
È più istintiva o razionale?
«Mi sono sempre affidata all’istinto. Non ho paura di restare senza lavoro. E non sono carrierista: non mi riesce e bisogna fare troppe telefonate».
Quanto conta l’effetto virus sulla crisi del cinema?
«Paura e restrizioni hanno spopolato le sale. Eppure, il numero delle produzioni è aumentato. Tanti film ora in sala o in streaming: non so come la gente possa guardarli tutti, è impossibile».
Teme per il futuro?
«Penso che il cinema possa farcela anche stavolta. Ottomila persone tutte insieme che guardano un film, come succede qui a Locarno, sono un motivo di speranza».
· Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Dagospia il 31 ottobre 2022 Da “La Zanzara” – Radio24.
Wanna Marchi e Stefania Nobile stracult a La Zanzara su Radio 24. Wanna: “I coglioni vanno inculati. Ma alla fine hanno inculato me. Vittime? Ma quando mai, sono diventate tutte ricche coi soldi miei. Nessuno ha sofferto, con Wanna hanno fatto i soldi. Una aveva speso 200mila lire e le hanno risarcito 300 milioni. Che troia”.
“Vittime? Abbiamo fatto beneee!!!”. Stefania: “Le vittime? Ma erano tutta gente che voleva scopare o cornuti. Oggi i maghi sono ancora in circolazione a inculare la gente ma nessuno li arresta”. Perchè non chiedete scusa? Wanna: “Perchè dovrei? A chi? Nessuno ha sofferto, ma quale sofferenza. Pensa che una aveva speso 200mila lire e le hanno dato 300 milioni, la troia”.
Stefania: “Mai chiesto scusa perchè non siamo ipocrite, non abbiamo la faccina da culo. I pentiti che mandano la lettera di scuse mi fanno schifo”. Wanna: “Nessuno ha sofferto a causa nostra, ciò hanno tolto tutto e li hanno risarciti, Ma quale sofferenza!”.
Nella serie Netflix Wanna Marchi pronuncia la frase “I coglioni vanno inculati” e alla Zanzara su Radio 24 dice: “Ma alla fine hanno inculato me!!”. Ecco l’intervista stracult di Wanna Marchi e la figlia Stefania Nobile a La Zanzara su Radio 24.
Wanna Marchi: “Alla fine hanno inculato me. E non parlate di vittime perché non ci sto. Sono vittime che sono diventate tutte ricche coi soldi miei. Nessuno ha sofferto, anzi hanno fatto i soldi con Wanna Marchi. Una ragazza aveva speso 200 mila lire e gli hanno riconosciuto 300 milioni. Questa troia”.
Stefania Nobile: “Un povero che veniva in tribunale a dire “Ho dato 500 milioni al mago” o è un coglione o è un bugiardo. Come faceva a essere povero, cazzo!! Se uno viene a piangere miseria e a dire “Sono povero!” e poi tira fuori cinquecento milioni allora sei un coglione totale, non sei povero”. E Wanna va all’attacco: “Abbiamo fatto beneeee!!! Who-ooooh”. Chi si è rivolto a voi all’epoca dei fatti era gente in difficoltà, dicono i conduttori.
Stefania: “No, no. O erano cornuti o gente che voleva scopare. Su questo divento una belva”. Ancora Stefania: “Se ti rivolgi a un mago sei un coglione e i maghi ci sono ancora in Italia tra radio, tv e social. Perchè noi in carcere e gli altri liberi? Stanno semplicemente inculando quelli che inculavamo noi. Noi abbiamo fatto la storia e l’inizio della tv commerciale, poi è arrivato Berlusconi ed è stato bravissimo.
Noi abbiamo perso contro il più nemico più grande. Alle piccole emittenti le Marchi davano miliardi e cavalcando l’inchiesta hanno capito che distruggendo Wanna hanno distrutto a effetto domino quel segmento e tutte le piccole televisioni si sono trovate in difficoltà e hanno venduto”.
Alla voce Wanna Marchi su Wikipedia c’è scritto “personaggio televisivi e truffatrice italiana”: “Non mi riconosco ma lo stronzo che l’ha scritto la pensava così”. Wanna qualche persona la uccideresti? “Comunque un paio di persone le ammazzerei. Non ti dico chi, ma li conosci Cruciani. Stanno dietro le quinte in televisione, maledetti porci”. Ancora Wanna: “Alle elezioni ho sempre votato per Pannella, poi mi hanno tolto il diritto di voto e infine me lo hanno ridato, ma non ci torno più a votare. Mai più. Preferisco andarmene”.
Stefania: “Questi italiani di oggi ci fanno schifo. Se oggi tornassimo in tv a vendere il sale faremmo i miliardi, i miliardi”. Wanna: “Sì, i miliardi. Ma oggi vendo la mia immagine, vendo me stessa, vado nei locali, li arredo”. Wanna: “Facciamo serate nei locali, nelle discoteche, facciamo i matrimoni e ci danno fior di soldi. Lo sapevate?”.
Wanna, allora non è vero che vivi con seicento euro di pensione: “Ho detto che prendo seicento euro di pensione, non che vivo con quelli. Io vivo come una signora, i miei figli guadagnano entrambi bene e anch’io guadagno”. Poi la questione delle scuse alle persone truffate. Wanna: “Scuse a chi? Perché dovrei chiedere scusa?”. A chi ha sofferto, dicono i conduttori. Wanna: “Ma che sofferenza, ma come hanno sofferto, ma va”.
Stefania: “Ma chi, quelli che entravano in aula truccatissimi, si spogliavano in aula e svenivano per fare i finti malati”. Ancora Stefania: “Non abbiamo mai chiesto scusa perché non abbiamo la faccia da culo come gli altri. Noi non siamo ipocrite, sarebbe stato facile, agli italiani invece piacciono i pentiti. Come quelli che ammazzano e poi scrivono una lettera di pentimento. A me fanno schifo. Pensa che mi schifa anche un uomo che dice “Ti amo”.
L’amore si dimostra, con le parole puoi dire il cazzo che vuoi. Se chiedessi scusa farei schifo a me stessa, mentre a voi piace essere presi per il culo. Nove anni di galera, basta, basta”. Nessuno ha sofferto a causa vostra, Wanna?: “No, nessuno. Ti posso citare parecchia gente che ha guadagnato soldi con Wanna Marchi e figlia, sono stati ricompensati tutti perchè ci hanno fregato tutto, ci hanno preso tutto e hanno pagato.
Una ragazza aveva speso 200mila lire e le hanno riconosciuto trecento milioni. Questa troia, la poverina”. E sul futuro. Wanna: “Ottant’anni sono pochi. Mi piacerebbe fare un film e anche un disco. Con Morgan”.
La seconda vita di Vanna Marchi: regala speranza in carcere. Raffaella Stacciarini su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
“In radio mi hanno chiesto cosa farei per i detenuti. Sapete io cosa farei? Inventerei una lima potentissima, una super-lima-mirabolante, e ve la regalerei per segare le sbarre e uscire da qui: veloci! dinamici! svelti, andate via tutti!” Checché se ne dica, a Vanna Marchi i mezzi termini non sono mai piaciuti e non piaceranno mai. Il pubblico esplode in uno scroscio di incitazione e per un attimo sembra di ripiombare nel rampantismo scalmanato e sognante di fine anni ’80, quando la Prima Repubblica era sull’orlo del tracollo ma ancora non lo sapeva, e Marchi la precedeva di poco, senza saperlo pure lei.
Stavolta non siamo nelle sale del potere né in tv, anche se della tv il luogo ne condivide le sembianze, una scatola chiusa che può diventare prigione, e in questo caso lo è: nel teatro interno della casa di reclusione di Opera – il carcere di massima sicurezza alle porte di Milano che ogni mese accoglie il laboratorio Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino – il dna da venditrice torna con una veste inedita; l’energia all’epoca al servizio della televendita ora convertita in motore di speranza per i detenuti. E sì che di entrambe – energia e speranza – qui c’è più bisogno che mai. Vanna Marchi e la figlia Stefania Nobile, che dalla scorsa primavera partecipano al laboratorio e per anni hanno conosciuto il carcere in prima persona, lo sanno bene.
“Io mi sento libera ogni volta che vengo qui” dice Stefania, “perché libera fuori non lo sarò più.” Come sono diverse Vanna e Stefania, oggi, in questa loro seconda vita, dall’immagine che televisione e fiction hanno consegnato della loro prima vita! Un percorso, il loro, che comincia insieme con la carcerazione preventiva nel 2002 e si conclude in maniera definitiva nel 2013 per Stefania, nel 2014 per Vanna. Nel mezzo, il calvario delle cure per l’artrite reumatoide della figlia, patologia autoimmune che la rende invalida al 100% e che sancisce la separazione madre-figlia nel 2009, anno in cui Stefania viene trasferita nel carcere di Pisa, ritenuto più idoneo al trattamento della malattia. “Il momento più difficile? Quando l’hanno portata via da me”, Vanna non trattiene le lacrime. Soprattutto perché per la malattia di Stefania le cure non sono quelle promesse, e il centro idoneo si rivela invero una sorta di discarica dove parcheggiare chi nelle altre case di reclusione non può più stare.
Eppure, loro come altri riescono a trasformarsi e a trasformare il luogo della pena in luogo di dignità e libertà interiore: Vanna lavorando in cucina (“cucinavo per tutti, adoro cucinare”), Stefania riconsiderando il passato – i miliardi, il parco auto, la notorietà – alla luce del presente. Ché dietro le sbarre i beni materiali perdono ogni valore e ci si trova a fare i conti con sé stessi e coi propri errori, soli e nudi, inchiodati a nuove priorità. Forse, per dirla con le parole del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, la lima più potente che fa evadere dal carcere è quella che prima libera la mente, apre il cuore, eleva la coscienza. La vera libertà si scopre interrompendo una coazione a ripetere, e quando la coazione a ripetere si spezza con un evento traumatico come quello dell’arresto non si arresta la persona, ma la vita della persona fino a quel momento: eccola, la liberazione. Il rinascere a nuova vita, senza dissociarsi dalla precedente ma tenendo insieme il tempo, le cose, le vite (l’importanza della religiosità, quella laica e letterale: “re – ligo”, legare, tenere insieme).
Tengono insieme le vite Vanna Marchi e Stefania Nobile. Qui a Opera tiene insieme le cose Orazio, che oggi esce in permesso-premio, una piccola libertà dal fine-pena-mai che fino a ieri sembrava impensabile. Tiene insieme i tempi Antonio, da 30 anni in carcere, quotidianamente dedito al ricamo, spesso senza completare le figure per regalarsi una via di fuga, l’illusione del movimento. Che forse illusione non è, perché il movimento interiore è verità più potente di qualsiasi moto esterno, nel cosiddetto mondo libero. Lungo il corridoio d’uscita sgattaiola un frequentatore abituale delle sezioni, pelo a chiazze cineree e occhio sornione – si chiama Opera, ma in molti sostengono sia la reincarnazione felina di Marco Pannella –, ci guarda di sguincio da un mondo che non è il nostro, e se ne va. Raffaella Stacciarini
Dagospia il 3 ottobre 2022.
Gentile Dago,
una (nuova) precisazione all’articolo dal titolo “«I co***ni vanno inc***ti» - Il metodo Wanna Marchi nella serie tv su Netflix” che riprende il pezzo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 22 settembre in cui si parla dell’inchiesta di Striscia la notizia che svelò e infine fermò la vendita di amuleti e numeri vincenti organizzata da Wanna Marchi e Stefania Nobile.
Nel pezzo c’è scritto che secondo Stefania «il tg satirico di Canale 5 aveva denunciato la vicenda, “spinto dal marchese (il marchese Attilio Capra De Carrè)”». Tutto falso. A “spingere” i servizi di Striscia la notizia fu la signora Fosca Marcon, che era stata chiamata dal mago Do Nascimento perché Wanna Marchi e Stefania Nobile avevano il suo numero di telefono. Anni prima, la signora Marcon aveva acquistato prodotti cosmetici dalla televenditrice e non aveva alcuna intenzione di comperare numeri fortunati o altri amuleti. Fu lei a contattare Striscia e quindi a dare il via – con l’aiuto del tg satirico di Antonio Ricci – alla valanga che ha travolto Wanna Marchi e sua figlia. In seguito al primo servizio, infatti, arrivarono in redazione moltissime segnalazioni da parte di telefonisti pentiti e collaboratori licenziati, che furono poi intervistati da Striscia e misero così a nudo il sistema-Marchi.
Striscia la notizia non ha mai avuto nulla che fare e mai conosciuto il marchese citato - a sproposito - da Stefania Nobile. L’ufficio stampa di Striscia la notizia
Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 2 ottobre 2022.
L'orizzonte ha un profilo basso: "I coglioni vanno inculati". Lo spiega Wanna Marchi nella serie televisiva Wanna, in onda da ieri su Netflix; lo ripete e lo rivendica con il Fatto la figlia, Stefania Nobile.
Inizi, ascesa, casualità, intuito, fortuna, fama, caduta, presunti legami con la criminalità organizzata, fallimenti, incendi dolosi. Fughe. E ancora: risurrezione, altre accuse, massoneria, gli scoop di Striscia, gli amuleti, il sale. La galera.
Sono quattro puntate serrate, con le due donne protagoniste, non solo Wanna, ma lei e la figlia: un binomio talmente forte da portarle, oggi, a dormire nella stessa stanza tra Italia e Albania.
La serie vi è piaciuta?
(W) Hanno tralasciato gli aspetti più importanti, ma è fatta bene; (cambia tono) in certi momenti mi sono sentita quasi male, soprattutto per le testimonianze fasulle.
Esempio... A un certo punto l'avvocato della parte civile sostiene che il mio legale mi ha invitato a piangere davanti al giudice; (pausa) barbone di merda! Lo porto in tribunale.
Cos' altro non torna?
(S) Questa gente che parla incappucciata, camuffata: non siamo mica in un film di camorra; mica c'è qualcuno che minaccia o spara. Qualche storia di camorra è ventilata.
(S) Ma per favore!
Tutto nasce dai servizi di Striscia la Notizia spinti dal marchese (intende il marchese Attilio Capra De Carrè, morto, già iscritto alla P2 e con interessi nell'ambiente televisivo: con lui avevano un contratto); (pausa) comunque l'obiettivo principale era colpire noi per poi sconfiggere le tv commerciali.
(...)
Mentre i "coglioni" li aspettavate...
(S) Capita tutti i giorni.
Cosa?
(Stefania s' infervora) Come li definite quelli che acquistano i biglietti delle lotterie istantanee?
Rispondo io: coglioni. Ed è un continuo non solo sulle lotterie, pure nelle bollette. Coglioni e basta (nella serie si riferiscono pure ai loro "clienti"). Voi due sembrate vittime di una sorta di Truman show...
(In coro) Infatti la vera storia la racconteremo noi. Per il processo avete voluto le telecamere.
(S) Non "noi", ma io. (Silenzio) Sapevamo come erano andati i fatti e ho pensato: davanti alla tv saranno costrette a raccontare meno balle. Ho sbagliato.
Cosa?
(S) Non ero io alla regia, ma Striscia; ho visto testimoni arrivare truccate, andare in bagno e uscire dimesse, pronte per il giudice. Nessuna testimonianza vi ha rese partecipi. Ma per favore!
(...)
Di cosa avete paura?
(W) Di niente
(S) Della mia malattia (artrite reumatoide): sono invalida al 100% con tre operazioni. Ho anche il pass per il parcheggio invalidi. Lei con il contrassegno non la crederanno. L'altro giorno ho litigato con una dottoressa: mi ha urlato "si vergogni".
Vi fermano per strada?(Felici nel rispondere) Ci chiedono in continuazione dei selfie. Wanna Marchi all'inizio appare suo figlio, poi scompare. Dov' è? È rimasto estraneo da tutto. Per fortuna.
Vivete da agiate?
(W) Senza esagerare; in realtà hanno provato a ucciderci, ma non ci sono riusciti.
Margherita Montanari per corrieredibologna.corriere.it il 22 settembre 2022.
La storia di Wanna Marchi, 80 anni compiuti da poco, non è solo quella della “regina delle televendite”, della “teleimbonitrice”, come è stata ribattezzata. È la storia di due esistenze inscindibili.
Quelle di una madre e una figlia. La prima diventata icona della televisione, capace per oltre 20 anni di far comprare qualsiasi cosa: creme, amuleti e numeri del lotto ad oltre 305mila persone. E Stefania Nobile, che le è sempre rimasta a fianco, nell’ascesa così come nelle cadute rovinose. Un’alchimia che non si è spenta negli anni.
E che la docu-serie “Wanna” - prodotta da Netflix - cristallizza nel ripercorrere una carriera fatta di successi, fallimenti, truffe e vicende giudiziarie che ne hanno inevitabilmente sancito la fine.
Dall’immensa popolarità conosciuta negli anni ’80, con le “alghe magiche” e lo “scioglipancia”, alla condanna in via definitiva a 9 anni per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, arrivata nel 2009. La parabola della televenditrice, per anni rincorsa dalle telecamere e ampiamente squadernata nelle aule dei tribunali, ora viene ricostruita utilizzando le voci delle protagoniste, a cui si intreccia il racconto in prima persona di chi ha lavorato con loro e di quanti ne ha subito le truffe.
Stefania: «Dopo 9 anni di carcere, non abbiamo bisogno di redenzione. È stata Netflix a cercarci. Mia madre Wanna Marchi è stata a lungo la regina della televisione. E, anche se sono 20 anni che cercano di farla fuori, in televisione tornerà. Se non sarà in Italia, sarà in Danimarca, in Sudafrica, ovunque. Questa serie dà la possibilità al mondo di conoscere una parte della sua storia».
Wanna: «È stato Gabriele Parpiglia a propormi questo racconto. Io ho pensato che fosse troppo grande per me l’idea di andare in onda in tutto il mondo. Alla fine ho accettato. Abbiamo già un primo invito per andare a New York».
Come avete reagito alla serie?
Stefania e Wanna: «Abbiamo guardato le quattro puntate. È un bel lavoro, di ricerca e di montaggio. Ma molte verità, importanti per capire la nostra storia, sono state omesse. Forse gli autori hanno intenzione di fare una seconda serie.
Ma comunque uscirà presto anche un nostro libro, con tanti altri dettagli che nella serie non sono stati messi. Abbiamo apprezzato molto ciò che ha detto il maestro Do Nascimento nell’intervista. Molto presto vorremmo andarlo a trovare in Brasile. Non l’abbiamo mai più visto né sentito dal 2001. Adesso cercheremo di metterci in contatto con lui. Lo abbiamo sempre considerato un nostro amico».
Il mago brasiliano fu insieme a voi protagonista dello scandalo di Striscia la Notizia, che portò a galla truffe e minacce collegate alle televendite di numeri del lotto. Le persone credevano a ciò che gli vendevate per liberarsi dal malocchio e si indebitavano. Alcune hanno testimoniato in tribunale e altre, a volto coperto, anche nella serie Netflix. Guardandovi indietro, cambiereste alcune delle scelte fatte?
Stefania: «Nulla. Non mi pare che lo Stato abbia smesso di far giocare i cittadini ai numeri del Lotto. Eppure, conosco gente che in quel modo ha perso la casa. Se non fa un passo indietro lo Stato, non vedo perché Wanna Marchi dovrebbe pentirsi. E poi, se si trattava davvero di persone senza soldi, che si sono indebitate, come hanno raccontato in tribunale, come mai all’epoca riuscirono a pagare 300 milioni di lire ad un mago? Questa è una storia vecchia, per cui abbiamo già scontato 9 anni di carcere».
Prima dell’incontro con il mago, tra gli anni ’80 e ’90, Wanna Marchi ha costruito una fortuna vendendo diete dimagranti, prodigiose creme d’alghe, lo “scioglipancia”, di cui nella serie raccontate il processo di ideazione, e l’iconico “D’accordo”. Perché poi è passata dalla guerra al grasso alla vendita della fortuna?
Wanna: «Il “d’accordo” mi è venuto naturalmente, non l’ho studiato. Come in tutte le cose che facevo, andavo a intuito. Passare alla vendita dei numeri del lotto? Lo facevano già tutti. Per una volta nella mia vita, ho copiato un’idea di altri. Ho preso spunto dallo Stato. La lotteria non forse la stessa cosa?».
Vi siete lasciate alle spalle la detenzione. Che anni sono stati?
Stefania: «Anni tremendi. Il carcere andrebbe discusso e argomentato. Nonostante una pena così severa, siamo uscite sane da questa esperienza e abbiamo ripreso in mano la nostra vita, ricominciando a lavorare. Eppure, è rimasto su di noi il marchio del sale e dei numeri. Anche se le stesse cose, in Italia, continuano a farle tanti altri: di maghi in televisione continuano a vedersene. Forse lo Stato dovrebbe chiedere a Wanna Marchi di insegnare alle persone come non farsi fregare dai maghi».
Cosa fanno oggi Wanna Marchi e Stefania Nobile? In futuro torneranno a vendere?
Wanna: «Io sono in pensione. L’unica cosa che so fare bene nella vita è cucinare e non temo nessun cuoco. Ho anche un diploma, rilasciato dal Comune di Bologna, preso in carcere».
Stefania: «Lavoro nei locali notturni, li ristrutturo. Nel nostro futuro c’è l’Albania. Da quindici anni lavoro in questo settore. Spero che potremo trasferirci a vivere lì molto presto.
Ci piace di più la gente. Non amiamo gli italiani di oggi, sono spenti. Un’altra cosa voglio dire: il compagno di mia madre, mio padre, nonché l’uomo più importante della mia vita (Francesco Campana, ndr) , è mancato tre settimane fa. Ora non abbiamo più motivo di fare niente: io mi dedicherò a mia madre e lei a me. Gli amici del passato non esistono più. Qualcuno ora sta provando a riavvicinarsi, ma chi ci ha lasciati non ci interessa più».
Wanna Marchi, la serie non va oltre la semplice indagine. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.
Nei quattro episodi su Netflix l’ascesa e la caduta della protagonista della tv del sommerso.
Nel corso degli anni ho scritto così tanto su Wanna Marchi che ora, nel seguire i quattro episodi della docu-serie «Wanna» di Alessandro Garramone, mi trovo senza parole (Netflix). Come se il ruolo della «riparazione» potesse essere assunto solo dall’oblio. Nessuno rimedia alle nefandezze commesse ma tutte le nefandezze sono fatalmente dimenticate. Sotto varie forme: il mondo delle televendite, una storia italiana, l’ascesa e la caduta, la televisione come truffa esistenziale. Forse si poteva fare uno sforzo in più per superare la semplice indagine.
La tv del sommerso (il mondo, un tempo inesplorato, delle tv locali) ha avuto in Wanna Marchi l’indiscussa protagonista. Per lei, la cosmesi truffaldina è sempre stata il mondo come volontà e rappresentazione, la lotta violenta e gli insulti contro l’adipe una santa crociata, le alghe il mistero alchemico della felicità terrena. A poco a poco Wanna Marchi è diventata così padrona della scena, così sovrana nel dettare i tempi televisivi che si è messa a dispensare consigli sulla vita con la sicurezza e l’orgoglio di chi è venuto dalla gavetta e ha avuto, in seguito, visioni celesti.
Non solo: è diventata un modello di riferimento per la tv «seria». Ha partecipato come guest-star a diverse trasmissioni: «Maurizio Costanzo Show», «Linea diretta», «Lupo solitario», «Fantastico». E dietro Wanna Marchi sono entrate altre sirene di questi varietà del pauperismo: maghi, cartomanti, guaritori, numerologi, fattucchiere che promettevano miracoli via etere preoccupate solo di segnalare il numero in sovrimpressione, attrici e cantanti flagellati dal tempo usati ora come testimonial, esperti di seduzione, maliarde con vistosi buchi nelle calze a rete. Così sgraziati, così reietti, così cheap che se uno si fa fregare, verrebbe da dire, sono anche cavoli suoi. Per saperne di più: Stefano Zurlo, Wanna Marchi. Ascesa e caduta di un mito (Baldini+Castoldi).
Da liberoquotidiano.it il 23 settembre 2022.
"Oggi non venderei più sale e amuleti". Stefania Nobile, che da poco ha visto realizzare la serie tv sulla loro storia, vuole dire la sua. Nota per le truffe tramite televendite, Stefania dà la loro versione dei fatti: la sua e quella della madre Wanna Marchi. Alle due i quattro appuntamenti su Netflix sono piaciuti, anche se non mancano alcuni rimproveri: "In certi momenti mi sono sentita quasi male, soprattutto per le testimonianze fasulle. A un certo punto - spiega la Marchi al Fatto Quotidiano - l'avvocato della parte civile sostiene che il mio legale mi ha invitato a piangere davanti al giudice; barbone di me**a! Lo porto in tribunale".
Ma sono altri gli aspetti della serie tv che a mamma e figlia non vanno giù. Tra questi "la gente che parla incappucciata". Alcuni testimoni hanno preferito rimanere anonimi. Una scelta criticata da Stefania che accusa: "Non siamo mica in un film di camorra; mica c'è qualcuno che minaccia o spara". E sempre Stefania imputa a Striscia la Notizia tutte le colpe. A suoi dire il tg satirico di Canale 5 aveva denunciato la vicenda, "spinto dal marchese (il marchese Attilio Capra De Carrè). L'obiettivo principale era colpire noi per poi sconfiggere le tv commerciali".
Eppure dalle truffe televisive Wanna e Stefania si sono arricchite: tante le proprietà di cui disponevano, così come cospicua la somma di denaro che ogni mese portavano a casa. Poi però è arrivata la galera. Un periodo che entrambe definiscono terrificante e dopo il quale amici, e non, hanno loro voltato le spalle. "Non è giusto pagare per sempre: sopra la nostra testa c'è un 'fine pena mai'", si sfogano per poi giustificarsi: "Come li definite quelli che acquistano i biglietti delle lotterie istantanee? - chiede Stefania alquanto irritata -. Rispondo io: cog***ni. Ed è un continuo non solo sulle lotterie, pure nelle bollette. Co***ni e basta". Un aggettivo che nella serie è rivolto anche ai loro "clienti", tanto che Wanna non si fa problemi a dire che "i cog*** vanno inc***".
Il Paese addomesticato. Wanna Marchi, le canzoni che costano e il pensiero magico che possiamo permetterci. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Settembre 2022.
La storia dell’imbonitrice più famosa d’Italia, ora protagonista di un documentario Netflix, è ovvia e possente metafora delle elezioni. Anche perché ripropone l’annosa dubbio se sono più criminali loro che truffano la gente o più sceme le persone che si fanno infinocchiare.
La prima scena di Turné – chi aveva l’età giusta quando uscì lo sa, e ci dispiace per gli altri – è Fabrizio Bentivoglio che fa un provino per recitare Trofimov. E il monologo che pensa bene di portare a un produttore che deve decidere se vada bene per Il giardino dei ciliegi è una cosa che dice «Là c’è una porta rossa, la vorrei tinta in nero», e il produttore chiede se sia García Lorca, e lui risponde «Mick Jagger» – il che aveva lo scopo (riuscitissimo) di far capire a noi men che ventenni che quel personaggio era disadattato, esaurito, anticonformista, innamorabile.
Solo che poi a quel punto succede una cosa che non mi dà pace da trentadue anni e mezzo, dalla primavera dei miei diciassette anni in cui neanche sapevo che costo macroscopico fossero le canzoni nella produzione d’un film, da quello stesso anno in cui Scorsese aveva a mia insaputa speso fantastiliardi per avere Gimme Shelter in Quei bravi ragazzi.
La scena finisce con quello sprezzante «Mick Jagger», e partono i titoli di testa, e i titoli di testa hanno una canzone che il budget d’un Salvatores a inizio carriera poteva permettersi, e quella canzone non è Paint It, Black.
La mia vita adulta è stata funestata dal chiedermi «sì, ma questa quanto gli è costata?» d’ogni canzone giusta (poche, per fortuna) in ogni scena d’ogni film. Non mi ricordo quale francese, forse Jacques Perrin, dicesse di non riuscire più a guardare i film senza pensare al segno per terra al quale si fermano gli attori, al tizio subito fuori scena che bada al riflettore, alla truccatrice che aspetta lo stop per entrare a tamponare. Io non riuscivo a guardare Siccità senza pensare: ma quanto gli sarà costata Mina?
Guardando Wanna, il documentario sulla Marchi e sulla figlia, sugli anni ruggenti dello scioglipancia e dei numeri del Lotto, sul dibattito etico su chi meriti più d’essere punito (chi truffa o chi si fa truffare?), sul mago do Nascimiento che proprio non capisco perché non sia almeno concorrente di Grande Fratello o altro ruolo televisivo, sul marchese Capra de Carré che non sapevo esistesse ma chissà che invidia Fruttero&Lucentini per quel nome stupendissimo, guardando le quattro puntate su Netflix in cui la venditrice d’illusorie cuccagne viene accusata del massimo crimine contemporaneo, la mancanza di empatia, pensavo: chissà se a mettere Panama non ci hanno pensato o costava troppo o Fossati non gliel’ha concessa. Sembra scritta per la loro stanchezza, per la loro guittezza, per il loro non poterne più di andare ai cocktail con la pistola.
Wanna è, come ormai tutto, poderosa allegoria della campagna elettorale. Racconta Stefania Nobile – figlia della Marchi, e appartenente alla stessa scuola di Ivanka Trump: quelle che difenderanno i genitori oltre ogni evidenza e decenza, e per la Nobile oltretutto difendere la madre significa rinnegare il padre – che, quando vendevano prodotti dimagranti, si facevano richiamare dalle acquirenti ogni tre giorni per farsi dire quanto peso avessero perso. «Io ti tengo legato a me, e domani ti vendo altro».
Che differenza c’è tra la famiglia Marchi e chi cita il Piccolo principe e l’«addomesticami» che significa «creare dei legami»? M’è tornato in mente Rotondi che una volta twittò una storia della Dc di governo in un paio di righe: Abbiamo portato questo Paese a divenire la settima potenza del mondo consentendovi evasione a nord di Firenze e pensioni false a sud.
Addomesticami, implorò l’elettorato disposto a tutto tranne che a fare la propria parte.
Che speranza può mai avere di farcela il candidato che pretenda dagli italiani adempienza alle regole? L’elettorato, come Ozzano, non è pronto. Ozzano dell’Emilia era il paesino in cui Wanna Marchi, in profumeria, aggrediva le clienti dando loro delle schifose cellulitiche che dovevano emendare la loro orrendità se non volevano che i mariti le lasciassero. «Ozzano non era pronta», dice una testimone. Le televendite sì (le tv locali stavano agli anni Ottanta come TikTok sta a questo decennio).
«Buscetta si pente: io non mi pento», dice perentoria la Nobile messa davanti a uno dei palesi casi di truffa, in un montaggio alternato con la madre che, d’una povera vecchia cui avevano venduto rituali per toglierle il malocchio, dice «Oggi è, credo, all’inferno, perché quando una fa una roba del genere», e la roba del genere è: chiamare Striscia la notizia, e far finire sputtanata l’azienda di famiglia di Wanna e Stefania.
È difficile dare torto a madre e figlia quando chiedono retoricamente se sono delinquenti loro o coglione chi compra per milioni una bustina di sale che dovrebbe sciogliere il malocchio; è difficilissimo non pensare «sì, però tu credi all’inferno, non è che brilli per razionalità rispetto a quella che credeva al malocchio»; è impossibile non capire che Wanna e Stefania non hanno capito la cultura in cui vivevano, che da centoquarant’anni ritiene che vadano arrestati il Gatto e la Volpe, mica interdetto Pinocchio. (La volpe del Paese dei balocchi sarà parente di quella del Piccolo principe? Chissà se qualche politologo ha la risposta).
Finirono a processo, la gatta Wanna e quella volpe di sua figlia, e nel documentario ci sono immagini di Un giorno in pretura, con una testimone che riferisce turbata che Wanna le disse «Tu devi morire», e la pm turbatissima glielo fa ripetere. Sarò pure ossessionata, ma mentre guardavo pensavo alla Rogati che, secondo Repubblica di ieri, scriveva da una sim intestata a un’altra tizia «sei morto» assortiti a taluni vicini rumorosi (quanto la capisco). Dice Repubblica che la signora è rinviata a giudizio per minacce; ma «sei morto» e «devi morire» non sono minacce: è pensiero magico. Se crediamo che desiderare la morte di qualcuno gli arrechi danno, poi per forza finiamo a comprare promesse di snellezza e di ricchezza da teleimbonitrici che ci urlano in faccia. Chissà le facce, sapessimo di agitarci su una polveriera.
"Wanna", sogni e incubi di una vita in televendita. Una ricerca che ha il piglio dell'inchiesta sulla celebre imbonitrice. Diventata un simbolo degli anni '80. Paolo Scotti il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.
Smodata, tracimante, sconcertante. All'inizio tutta l'Italia televisiva ne rideva, suo malgrado ipnotizzata; oggi non puoi parlarne senza che un brivido ti serpeggi lungo la schiena. E vedere, in questi giorni in una piazza di Roma, il sorriso porcellanato di Wanna Marchi che da un mega-cartellone proclama come nulla fosse «Sempre ingannare, mai pentirsi!» aumenta l'inquietudine. Si può tornare a parlare della regina delle televendite, da fenomeno della cultura pop precipitata ai neri abissi dello scandalo, condannata per associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta e truffe a nove anni (scontati sette), senza correre il rischio di giustificarne, o addirittura gratificarne la figura?
Alessandro Garramone, autore della docu-serie Wanna, quattro puntate disponibili dal 21 su Netflix, precisa: «Wanna non è la biografia della Marchi. È un'indagine su ciò che ha fatto di lei una sorta di icona dell'Italia anni '80. Mi sono chiesto: ma si conosce fino in fondo la sua storia? E soprattutto: oggi quelle truffe e i drammi che ne scaturirono sarebbero ancora possibili? Molti pensano: non potrebbero capitare più. Non è vero. Le truffe esistono ancora: da alghe e amuleti siamo passati al falso commercio elettronico, alle criptovalute tarocche». Un libro di Stefano Zurlo, Wanna Marchi. Ascesa e caduta di un mito, come punto di partenza; due anni di ricerche, chili di faldoni giudiziari spulciati, 22 testimonianze raccolte, comprese quelle di altre due figure chiave nella tenebrosa vicenda - la figlia della Marchi, Stefania Nobile, e il sedicente «maestro di vita» Do Nascimento - 60 ore d'interviste e 100 ore di materiali d'archivio visionati: tutto per ricomporre una sconcertante parabola di potere mediatico e malvagità catodica. «Ma anche il ritratto di un'Italia diversa. Quella anni '80, in cui acquistare all'asta un quadro dai tele-imbonitori, magari solo per sentir pronunciare il proprio nome in tv, diveniva quasi una forma di status symbol».
Con la Marchi e la figlia, Garramone ha avuto venti ore di colloquio, preceduto però da precisi diktat: «Non potrete avere alcun controllo editoriale sui filmati, non saprete chi altro intervisteremo, non ne vedrete il risultato né potrete parlarne finché andrà in onda. E soprattutto: non verrete pagate - racconta il produttore della Fremantle Italia, Gabriele Immirzi -. Abbiamo sudato, per convincerle. Ma alla fine la componente esibizionista deve aver prevalso». E tornando ad accendere i riflettori su di loro non avete temuto di fare il loro gioco? «No - risponde Garramone - perché ogni singola cosa che hanno detto è stata scrupolosamente verificata. E l'onestà dei nostri intenti ha fatto da costante discrimine». E com'è Wanna Marchi fuori dagli studi tv? Incredibile ma vero: «Nella realtà è una donna normale, pacata. Parla a voce quasi bassa. Ma appena la lucina della telecamera s'accende... tac: scatta in lei una sorta di trance agonistica. Torna aggressiva, prepotente». Arduo è stato rintracciare le sue vittime: «Ne abbiamo recuperate circa quaranta. Non per spettacolarizzarne il dolore, ma per capire le ragioni emotive, i meccanismi psicologici che le avevano spinte a fidarsi di lei. Molte non hanno voluto apparire: I nostri figli non conoscono questa storia, dicevano. La cosa terribile della truffa è che per noi italiani, che abbiamo il culto della furbizia, la vittima viene spesso ritenuta meritevole del danno ricevuto. Come facevano a credere a simili fandonie?, pensiamo. Ma quando sei nel dolore diventi debole. E quindi vulnerabile». Non basta: «Negli anni '80 ancora si pensava: se l'ha detto la tv vuol dire che è vero. E Wanna Marchi viveva in tv. Insomma: era la credibilità fatta persona».
Il dato più sconcertante? Madre e figlia sono ancora convinte di avere ragione. Di più: le vere vittime sarebbero loro. Da una parte riducono tutto al «benaltrismo» («Ci sono tanti che hanno fatto ben altro»); dall'altra, come dice Zurlo, sono come i due giapponesi nella foresta. Per loro la guerra non è mai finita. Continuano a farla, perché, in fondo, sono diventati loro stessi la guerra.
Claudia Casiraghi per “La Verità” il 18 settembre 2022.
Wanna Marchi è bionda oggi, un biondo che vira al bianco. Le illumina il viso, le labbra scarlatte. Parrebbe cambiata Wanna Marchi, ma lo sguardo, il baluginio della furbizia negli occhi accesi, la tradisce, riportandola indietro, dove tutto è cominciato: agli anni Settanta, all'Italia del benessere, delle televisioni private piagate dal bisogno di far soldi, alla loro lenta metamorfosi in supermercati, ai «D'accordo?» che il tempo avrebbe reso sempre più sguaiati.
Wanna Marchi è pacata mentre racconta di una parabola a suo dire figlia del bisogno. «Mio marito, soldi a casa, non ne ha mai portati. Sarei diventata qualcuno soprattutto per dar da mangiare ai miei figli», dice, ritrovando la caparbietà degli anni bui nel matrimonio con Raimondo Nobile, rampollo di una famiglia che a lei, erede di contadini, guardava con sdegno.
È stata una sposa diciottenne in un giorno di pioggia, Wanna Marchi. «Mia suocera, fuori dalla chiesa, mi disse: "Come sei brutta". Quella frase avrebbe contato tanto nella mia esistenza». Non ci sono lacrime, ma le parole le muoiono sulle labbra, appena tremanti.
Wanna Marchi, protagonista di una docuserie Netflix che di lei porta il nome, Wanna, chiede di non dilungarsi nel racconto del marito. Il dolore ha un antidoto nel silenzio. Il resto può aver voce. E la voce, per spiegare la propria ascesa e la caduta, rumorosa, che ne è seguita, non le manca. Ruggisce la Marchi, nelle quattro puntate disponibili online dal 21 settembre.
«Dopo il carcere non ho più paura», sibila. Non c'è traccia di pentimento quando l'intervistatore la stuzzica sui trascorsi giudiziari e lei tuona: «I coglioni vanno inculati». Le mezze misure per la Marchi sono come gli unicorni: non esistono.
La serie parte dall'inzio: metà degli anni Settanta, Wanna Marchi è una madre disposta a tutto pur di portare a casa il sostentamento dei figli. «Ho perfino truccato i morti nella camera mortuaria di Bologna», ricorda, spiegando come sia stata la lauta mancia di una madre in lutto - 1 milione delle vecchie lire - a permetterle di dare inizio a quella che sarebbe diventata la sua carriera.
La Marchi con quei soldi ha comprato una macchina e messo in piedi un business: vendeva, massaggiava, lavorava come estetista. Poi il caso l'ha portata alle tv, le piccole emittenti private, bazar dove chiunque poteva provare a vendere i suoi prodotti. È stato un fiasco.
Wanna Marchi, alla terza presenza in studio, ha chiesto scusa al pubblico. Ha pianto e in quelle lacrime è germinato il suo successo. I centralini davanti all'immagine di una donna affranta sono esplosi. Ha venduto come mai prima, la gente ha comprato a scatola chiusa e Wanna Marchi è stata invitata a tornare. E ha capito di avere potere sul pubblico.
Le alghette, lo «Scioglipancia» ideato dalla figlia Stefania, i fanghi, le creme. Era un impero da 5 miliardi di lire al mese. La Marchi cresceva insieme alle sue promesse: dimagrimenti lampo, pillole per mangiare ai quattro palmenti senza mai ingrassare, fanghi miracolosi. Vendeva facendo leva sul senso di colpa e di inadeguatezza dello spettatore.
«Le donne con i peli, mamma mia, non le sopporto», si sente in uno dei tanti filmati di repertorio. «C'è un ciccione disposto a dirmi: "Signora Marchi, si sbaglia, io sono molto felice", c'è?», chiede in un altro, chiamando «elefanti» e «bauli» le mogli oversize di mariti a suo dire esasperati.
Era un metodo opinabile: intercettare e lucrare sulle insicurezze della casalinga media. Funzionava però, e Wanna Marchi era ovunque: Maurizio Costanzo Show, Pippo Baudo, i giornali. Era nostra signora delle televendite, ricca, richiesta, divisiva. Sempre pronta a rilanciare per prendersi tutto il piatto. Ma quel sistema ad inizio anni Novanta è crollato.
Wanna, fatto di interviste ai televenditori più noti (Roberto Da Crema, Valter Carbone, Joe Denti e Giorgio Mendella), di testimonianze e racconti in prima persona, vira bruscamente, seguendo il corso della parabola Marchi. Il primo successo, poi il declino. La ripartenza di metà anni Novanta, quel che la giustizia avrebbe definito truffa: il tentativo - per altro riuscito - di vendere la fortuna.
La serie Netflix, magnetica, ripercorre gli anni del maestro Do Nascimento, del sale e dei numeri da giocarsi al lotto. Ripercorre la disperazione delle famiglie che alla Marchi hanno dato tutto, vittime di un meccanismo psicologico («Mi chiamavano ogni settimana: "Allora lei per 10 milioni fa morire sua figlia?". E io pagavo, avrei avuto il rimorso se fosse successo. In un anno, dal 1997 al 1998, ho dato loro 200 milioni», testimonia una donna).
Wanna Marchi e Stefania Nobile ascoltano parole e sentenze, gli stralci del processo che le ha condannate. «Io sono orgogliosa della mia vita. Chi si pente? Buscetta si pente, io non mi pento», asserisce Stefania, senza concedere alibi a chi ha speso tutto per paura d'avere il malocchio. «Io non la vedo una truffa, perché se qualcuno mi chiama e mi dice di mettere del sale nel bicchiere io lo mando affanculo. È un truffatore lui o sei un coglione tu?», domanda la Nobile rivolge alle telecamere. Titoli di coda.
Franco Giubilei per “la Stampa” il 5 agosto 2022.
«Rifarei tutto, nel bene e nel male». La frase è di Stefania Nobile, 58 anni, ma la madre Wanna Marchi, protagonista con lei dell'epopea della televendita in Italia e al tempo stesso di una condotta truffaldina che ha fruttato a entrambe una condanna a nove anni e sei mesi, la pensa esattamente come lei. Ammettono la colpa ma solo in parte, dicono che si sarebbero meritate due anni e non tutto il carcere che si sono fatte. La voce di Wanna, che compirà ottant' anni il 2 settembre, mantiene la carica che metteva negli acuti imperiosi dei suoi «D'accordo?».
La figlia Stefania, che ne ha 58, ci ha condiviso gloria e soldi, quando facevano miliardi di lire vendendo alghe e amuleti, insieme alle pene giudiziarie, ma come la madre non ha perso l'istinto della venditrice e ora annuncia la prossima messa in vendita del mitologico «scioglipancia» dietro le vetrine virtuali del Metaverso. La loro vicenda racconta di un'epoca, quella in cui una miriade di tivù private mandava in onda di tutto, dagli spogliarelli a notte fonda alle aste, fino alla vendita di ogni sorta di prodotto, comprese le creme di bellezza e dimagranti. Imbonitori di razza come Wanna Marchi, coi suoi toni da squillo di tromba, erano uno show che andava ben oltre il tema della serata, ma i confini fra tecniche di convincimento e raggiro possono essere molto labile e la giustizia interviene laddove, come in questo caso, vi ravvede una truffa.
La loro storia ora diventa una docuserie che sarà su Netflix il 21 settembre, stessa data in cui uscirà anche una loro biografia. Da quegli anni, nella loro vita è cambiata ogni cosa.
Di che cosa vi occupate oggi?
Wanna: «Io non faccio più niente, sono in pensione».
Stefania: «Col mio ex compagno lavoro da tanti anni nel mondo dei locali, da ancora prima dell'arresto, seguo fornitori e dipendenti. Poi sono libera professionista e ho uno studio di produzione».
La televisione vi ha fatto offerte negli ultimi anni?
Stefania: «Ci avevano prese all'Isola dei famosi nel 2017, ma poi siamo state pagate per stare a casa. A tre giorni dalla partenza per l'Isola è uscito un servizio di "Striscia" che sosteneva che gli italiani non ci volevano dopo aver fatto parlare tre persone che avevano istruito. Magnolia (la società di produzione del programma, ndr) ci ha liquidato tutto».
Sta dicendo che vi hanno fatto terra bruciata intorno?
Stefania: «Ovunque siamo andate in tv, prima ci hanno detto che avremmo parlato di tutto e invece gli argomenti erano solo di un tipo. Quando finisci in galera il marchio del delinquente ti resta addosso a vita. Se non avessimo il carattere che abbiamo, ora penzoleremmo da un cappio».
Wanna: «È una pena che non si finisce mai di scontare, ma noi sappiamo benissimo quello che abbiamo fatto e giriamo a testa alta».
Parliamo delle conseguenze giudiziarie, le avete vissute come un'ingiustizia o riconoscete la plausibilità delle accuse?
Stefania: «Abbiamo scontato tutto, nove anni e sei mesi di carcere tolti tre mesi ogni anno, fra domiciliari, semilibertà e cella. Io soffrivo e soffro tuttora di una patologia per cui non ci sarei dovuta neanche tornare in carcere, roba che un mafioso lo mandano fuori e io invece no. La galera però ci ha insegnato tanto e rifaremmo tutto, nel bene e nel male. Oggi facciamo volontariato per i detenuti con l'associazione Nessuno tocchi Caino».
Avete scelto il giudizio scartando il patteggiamento che comportava ammissione di responsabilità, vi professavate e vi professate innocenti?
Stefania, in accordo con Wanna: «Noi non abbiamo mai detto di essere innocenti, abbiamo deciso per il processo perché il patteggiamento è una scappatoia. Nel nostro caso è accaduto questo: la mela l'avevamo rubata, ma siamo state processate anche per aver ammazzato il contadino. Secondo la mia valutazione noi rischiavamo due anni di reclusione».
Questo da un punto di vista legale, ma sotto quello morale come vi giustificate?
Sapete che avete abusato della credulità popolare?
Wanna: «Nella docuserie di Netflix che ci riguarda spieghiamo come i troppi soldi fanno perdere il senso delle cose. Un errore c'è stato, sì, ma non così grave».
Stefania: «E comunque io i maghi in tv li vedo ancora tutti, mentre noi siamo state condannate per un reato perpetrato da tutte le tv del mondo».
La gente però la ingannavate.
Stefania: «Sgarbi ha detto la verità più grande, che in Italia un ignorante deve pagare. Ma sei cretino tu a credere che il sale tolga il malocchio».
Sta dicendo che era un gioco in cui tutte le parti erano consapevoli che in fondo era uno scherzo?
Stefania: «Era un gioco, poi le cose sfuggono di mano. Ricordo che noi avevamo 350 mila clienti soddisfatti e felici e che le parti civili sono state 78».
E perché se la sarebbero presa tanto proprio con voi?
Wanna: «Io sono una donna che parla poco, ma colpendo Wanna Marchi che fatturava miliardi di miliardi hai creato un effetto domino e distrutto una metodologia di vendita».
Stefania: «Il resto del sistema televisivo ha preso possesso delle piccole emittenti che vivevano di televendite.
Il 21 novembre del 2001 ci fu il primo servizio di "Striscia", il 24 gennaio del 2002 ci hanno arrestate, e il fatto che si fosse mosso "Striscia la notizia" non è casuale».
Ma voi alla qualità dei vostri prodotti dimagranti ci credevate davvero?
Wanna: «Certo che ci credevamo. Non si vendono prodotti per 300 milioni di lire al giorno se non sono di qualità». Stefania: «Meglio di così la scienza non poteva fare, i nostri prodotti venivano dal laboratorio di Primo Tortini che oggi è uno dei più grandi in Europa».
E ora cosa farete?
Wanna e Stefania: «Lo scioglipancia torna, nel Metaverso, perché Wanna Marchi va oltre e non la ferma nessuno».
Siete state pagate per partecipare alla serie Netflix?
Stefania: «Non abbiamo preso un soldo».
Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 6 Agosto 2022.
Wanna Marchi entra a pieno diritto nell'epica di una docuserie Netflix. Ancora da viva sarà raccontata attraverso la storiografia televisiva. È un privilegio solitamente postumo e riservato a chi abbia rappresentato un tassello non trascurabile nella storia del nostro Paese. L'importante è non farla passare per un genio, o per una grande innovatrice televisiva. È stata solamente una donna molto capace di cogliere alcune debolezze genetiche degli italiani e farci sopra profitto.
Lei e il circo Barnum di cui era a capo ha giganteggiato per un decennio, permanendo nella nostra memoria collettiva con assai più profonda traccia, tra la folta schiera di imbonitori che si portò dietro la prima carovana di tv commerciali. Non furono innovatori, non inventarono alcunché già non si fosse manifestato nelle fiere di paese, nelle campagne, nelle piazze cittadine. Come alle corti dei potenti o alla riffa dei simoniaci.
Wanna Marchi, rispetto ai materassai con rete e copriletto annessi, i mobilieri del truciolato, i mercanti di patacche d'arte, fu la regina in assoluto della coorte dei venditori di «experience», come si direbbe oggi, che però potremo facilmente tradurre con il termine gergale di «fancazzole».
Wanna Marchi fu ancor più la pitonessa del sacro culto della fancazzola, nell'epifania telelibera di una millenaria arte di vendere illusioni, che tanto più paiono prossime alla concretezza tanto più rasentano l'assurdo, in un rapporto costo-beneficio cosmicamente svantaggioso per chi acquista.
La fancazzola di Wanna Marchi, come della figlia Stefania con cui seppe fondersi in indissolubile monade bifronte, ebbe la maggior fortuna di culto proprio nei decenni 80/90, quelli in cui agli italiani fu permesso sognare di aver lambito il paradiso in terra. Paradiso che altro non fu che l'annuncio di poter raggiungere un non ben definito Nirvana, solamente attraverso il contatto allucinato con della merce.
È importante definire il contesto in cui si produsse la sua fortuna miliardaria. Ricordiamo per i più giovani che non esisteva Internet e non c'era Amazon. Chiunque ambisse a ricevere beni di consumo a casa propria, e senza contatto sensoriale con ciò che acquistava, non aveva altro supporto che il catalogo Postal Market, il succedaneo a ogni desiderio (compresi i più impudichi dei maschi adolescenti, fruitori indiretti di quelle pagine tentatrici).
Il catalogo entrò stabilmente nelle case degli italiani dalla fine degli Anni 50 alla fine dei 90. Quello che ne derivò in seguito non fece la storia: l'ultima edizione, nel '99, già apparteneva a un gruppo tedesco e il manager che lo gestiva, Eugenio Filograna, che fu anche senatore di Forza Italia, tentò la carta del glamour per famiglie, pubblicando nel primo numero una collezione di lingerie maliziosa, indossata da Gabriella Carlucci in guepierre e completini leopardati. Aggiunse una sezione in cui erano in vendita manette con peluche rosa, vibratori e preservativi in confezione «famiglia».
Osò veramente troppo rispetto alla verecondia del target femminile, che rinnegò definitivamente il supporto cartaceo, mentre nel frattempo iniziava ad apprezzare la modalità della televendita, che rappresentava l'evidente vantaggio di essere targettizzata.
Gli oggetti innominabili erano venduti nottetempo da fantasmagoriche televenditrici, si immagina a solo vantaggio di maschi adulti e figli in crescita.
Vale la pena qui di ricordarne due tra tutte: la «Venere bianca», al secolo Manuela Falorni da Fucecchio, recentemente risorta a 63 come imprenditrice di fitness, al tempo però dispensatrice delle sue grazie a Rete mia, in un programma dedicato ai suoi «orgasmini», che fu paradigma di quella prima vendita di merce impalpabile rappresentata dai famigerati numeri a pagamento di chat erotiche. Quelli stessi da cui la signora Pina Fantozzi fu costretta a farsi ingaggiare, per poter pagare la compulsione all'ascolto zozzo del ragionier Ugo pensionato.
Anche Maurizia Paradiso eccelse nelle televendite notturne di oggetti astrusi dall'uso inequivocabile, contestualizzati però in una cornice talmente surreale da depotenziarne la carica proibita di succedanei sessuali: sembravano piuttosto espressioni di arte concettuale, anticipatrici di ogni narrativa cyberpunk.
Meritano una menzione la giostra panoramica delle lingue rotanti e la mano vibrante telecomandata. È proprio in questo girone eterodosso della vendita di gadget che rasentavano l'improbabile che, a mio parere, riesce ad allignare la liturgia pomeridiana di Wanna e Stefania Marchi. Ciò, senza dubbio alcuno, fu attività mirata a lucrare sull'ignoranza altrui, rappresentò però la più concreta profezia di quello che oggi ci siamo rivelati essere nella nostra percentuale, anche politicamente emergente, di pensiero arcaico e superstizioso.
Wanna Marchi vendeva all'inizio pillole «scioglipancia», le vendeva sbattendo sul tavolo tranci di coratella bovina e celebrando l'apoteosi di quello che oggi condanniamo come «Body shaming». Si rivolgeva direttamente alle donne sovrappeso, dicendo che facevano schifo. Oggi nessuno potrebbe mai impunemente ripetersi in quel repertorio, è sicuro però che nelle sue pillole ci fosse lo stesso «nulla» che rappresenta l'ingrediente base di un'infinità di integratori, preparati omeopatici, straordinari medicamenti suggeriti da eroici rappresentanti della «medicina alternativa».
Le interminabili e reiterate litanie, che Wanna e Stefania portavano in tv ogni pomeriggio, avevano la stessa evidenza scientifica dei mantra novax che negli ultimi due anni hanno avuto dignità di esistenza nei più importanti talk della tv generalista nazionale. Lei, però, passerà alla storia, i suoi epigoni al massimo avranno una transeunte fama parlamentare. L'apoteosi della fancazzola fu quando tutto ciò si trasformò in pura avanguardia. Il grado zero della scrittura televisiva avvenne quando madre e figlia si improvvisarono sacerdotesse del Candomblè, capaci di evocare nell'Italia, devota a Padre Pio, la straordinaria discesa tra gli umani del mago Do Nacimiento.
Allora nessuno fece caso al vilipendio dei valori dell'Occidente cristiano, quando le due donne invocavano, urlando e simulando possesso, tutte le divinità della Santeria. A beneficio delle italiane, donne e madri, che stiravano davanti alla tv i pantaloni del marito e compravano a distanza il sale consacrato, che avrebbe loro evitato corna e disgrazie.
Paolo Baldini per il “Corriere della Sera” il 9 luglio 2022.
Vive di slanci, cambi di rotta, emozioni sparse. «Sono così da quando, bambina, dicevo che volevo diventare un medico per ragioni umanitarie».
Curiosa, pronta a spendersi.
Ha abitato a Barcellona, Roma, Parigi, New York. Ottanta film, grandi produzioni e magnifiche scommesse, «sempre rischiando in prima persona». Il successo arrivato come un fulmine a ciel sereno.
Anni di studio, ricerca, approfondimento. «Sì, sono una capatosta, pronta a rimettersi sempre in discussione». Capace di costruirsi una carriera internazionale: Godard, Minghella, Branagh, Figgis, Ferrara.
La prossima svolta di Stefania Rocca, l'attrice di Nirvana, La bestia nel cuore e Viol@ , si chiama regia: «Sento il desiderio di creare mondi miei. Finora sono stata all'interno del videogioco creativo di altri. Adesso quel videogame mi piacerebbe programmarlo. Ma senza mai dimenticare che sono un'attrice».
Ha un marito, Carlo Capasa, imprenditore e presidente della Camera della moda, e due figli: Leone, 14 anni, e Zeno, 12. «Ci siamo sposati durante una vacanza a New York con i bambini. Un lampo: nevicava, faceva freddo e non avevo il vestito adatto. È stato buffo».
Ha portato in teatro Il silenzio grande di Maurizio De Giovanni insieme a Massimiliano Gallo, regia di Alessandro Gassmann. Ha nel cassetto una sceneggiatura nata nei mesi del lockdown, ispirata al romanzo L'ora di tutti di Maria Corti: diventerà un film di cui sarà regista. Prepara per la prossima stagione il monologo La madre di Eva , dal libro di Silvia Ferreri: l'attesa di una donna fuori dalla sala operatoria, in una clinica di Belgrado, mentre la figlia, 18 anni, si sta sottoponendo all'intervento che la trasformerà in un uomo.
Messaggio coraggioso.
«Sii sempre te stessa, non preoccuparti di essere diversa. Ma nel testo non c'è solo il tema transgender. Si parla anche del rapporto madre-figlia, dello scontro generazionale».
Il tema della diversità l'affascina?
«Non bisogna temere il confronto perché ci aiuta a far affiorare il nostro modo di essere speciali. E neanche i giudizi del prossimo. La diversità è creatività, è mettersi in gioco. Mi piacerebbe che il messaggio fosse recepito a pieno dal mondo del cinema e delle serie tv».
Com' era Stefania prima del cinema?
«Una ragazza studiosa ma non secchiona. In cerca di libertà e di indipendenza. Osservatrice, sognatrice. Con molti amici e un forte senso del dovere. Rispettosa delle regole di famiglia. Ho iniziato giovane a lavorare: preparavo contributi video per le convention. Esperienze che porto ancora con me. La famosa valigia dell'attore».
La famiglia era con lei?
«Quando dicevo "voglio fare l'attrice", papà attaccava: studia, Stefania, che è meglio! Pensava che mi passasse, che alla fine avrei cambiato idea e amen. All'università scelsi psicologia, scienze dell'alimentazione, indirizzo scientifico.
Intanto mi informavo sulle scuole di recitazione.
Luca Ronconi era un idolo per me. Lo incontrai nel giorno sbagliato. Provava e dirigeva tempestosamente gli allievi. Mi spaventai a tal punto da decidere di cambiare città. Avevo la sensazione che allontanarmi da Torino avrebbe giovato alla mia ricerca. Volevo mettermi in gioco».
Così a 22 anni andò a Roma per iscriversi al Centro sperimentale di cinematografia.
«Dissi a papà: devo provarci, non posso vivere con il rimpianto per sempre. A Roma facevo una vita bohemienne . Mi mantenevo lavorando in un pub, la Compagnia delle Indie. Andò bene. Feci le prime cose. Arrivò Nirvana . Incontrai Gabriele Salvatores, un maestro, curioso quanto me».
Poteva dirsi arrivata. Invece?
«Andai a vivere a New York. Frequentavo l'Hunter College High School. Quando ne sono uscita parlavo l'inglese con un curioso accento giapponese. Volevo approfondire il Metodo e mi iscrissi all'Actors Studio. Mi consigliarono di prendere un coach e ripulirmi la dizione. Intanto per mantenermi facevo i cappuccini al Caffè Dante e i cocktail al Lucky Strike a Manhattan.Nirvana era appena uscito. Lo presentammo al Festival di Cannes mentre ero completamente immersa nella nuova avventura».
In Usa incontrò Jean-Luc Godard.
«Girammo Inside/Out . Lui faceva il produttore-tutor, regista era Rob Tregenza. Set sui monti del Maryland. Neve pazzesca e noi chiusi in casa.Il film era muto, tutto piani sequenza. Riproduceva un dentro e un fuori . Dentro, i pazienti, disturbati. Io facevo parte del mondo di fuori. Ero una volontaria borderline. Con me, un prete ex soldato di guerra. Godard voleva raccontare quanto fosse evanescente il confine della follia.Gli studi di psicologia mi furono molto utili».
Godard che cosa vi chiedeva?
«Era taciturno. Sul set non aveva preamboli. Non si rivolgeva a noi, ma ai nostri personaggi. Si presentava e mi diceva: eh, perché oggi non mi hai dato la pastiglia? Dopo quattro settimane di isolamento gli chiedemmo: Jean-Luc, per favore, facci parlare almeno tre minuti, se no andiamo fuori di testa davvero. Stette al gioco. Disse: ok, ognuno di voi scriva un monologo sulla sua parte. Demmo il massimo, ma lui non montò mai quei frame . Però alla fine ce li regalò. Il mio l'ho perso in un trasloco».
Un peccato.
«Sono disordinata per vocazione. Ho smarrito tutte le mie fotografie. A Parigi, quando ho conosciuto mio marito Carlo, ho messo i miei ricordi in un magazzino che si è allagato. Del resto, ho sempre pensato che la vita vada vissuta senza salvagente. Tutti mi dicono: Stefania, fermati e fai le cose più sicure. Non ci riesco. Il mio gol è vivere, conoscere persone interessanti, attraversare la bellezza, comunicare con la gente.
Mai avuta una strategia. Mi sono divertita».
Con Anthony Minghella nel 1999 girò «Il talento di Mr. Ripley».
«Quando ci siamo incontrati stavo recitando Giovanna D'Arco con Walter Le Moli. Per me il teatro significa Jérôme Savary, con cui feci Irma la dolce , Robert Lepage, che mi diresse in Polygraphe , e Le Moli appunto. Savary è l'ironia, il gioco, la fantasia. Lepage l'innovazione. Le Moli l'introspezione e l'eleganza creativa».
Dunque, Minghella?
«Mi presentai a lui con la testa rasata. Ero magra e pallida come uno straccio. Lui cercava una donna del Sud, figurati. Oh caspita, mi disse, ma tu mi sembri più tedesca che italiana. Gli feci cambiare idea. Rubai un vestito Anni Quaranta alla madre del mio ragazzo di allora, misi lenti a contatto scure e una parrucca nera. Capì che ce la potevo fare. Sul set, a Ischia, Anthony era dolce, poetico, molto attento agli attori».
Tra i suoi pigmalioni c'è Kenneth Branagh.
«Un vulcano di energia. Andai a Londra, mi fece cantare e ballare il tip tap. Pene d'amor perdute è un musical in inglese antico. Non facile. Mi misero vicino un insegnante, Timothy Spall mi metteva soggezione. Branagh s' accorse del mio disagio: cosa c'è, Stefania? Risposi: non so, Ken, forse non sono all'altezza. Lui mi dette una lezione che non ho mai dimenticato: se senti di avere dei limiti, usali. Nel film interpretavo un'analfabeta. Mi s' è accesa una lampadina».
Con Mike Figgis ha girato «Hotel» nel 2001.
«Un eccezionale sperimentatore. Per lui vale il timing . Tutto viene calcolato e cronometrato. La matematica incontra l'arte astratta. Imprevedibile, moderno, molto british».
L'opposto di Abel Ferrara che la diresse in «Mary» (2005) e «Go Go Tales» (2007).
«Abel è più "italiano": si esprime anche con i gesti del corpo. Per lui non valgono regole e schemi precostituiti. Cambia, rivoluziona, stravolge. Odia riprodurre la realtà. Chiede immediatezza e naturalezza. Nel cast dei due film c'erano Forest Whitaker, Juliette Binoche, Matthew Modine, Willem Dafoe. Esperienza unica».
Lei è amica di Cate Blanchett.
«L'ho conosciuta sul set di Minghella, anche se avevamo scene diverse. Abbiamo legato subito. Siamo schiette, non temiamo di dire quel che pensiamo. Anthony si era accorto e ci volle come sorelle in Heaven di Tom Tykwer, che lui produceva. E lì sono volati gli schiaffi... In un momento drammatico, Cate ha intuito che stavo per darle una sberla e mi ha detto: coraggio, picchiami. L'ho rivista a una sfilata di Giorgio Armani qualche anno dopo. Mi ha abbracciato: "Stefania, ti ricordi?". Siamo ancora in contatto».
Poi ci sono i fratelli Taviani.
«Con loro girai una miniserie per la tv, Resurrezione. Dovevo ancora finire il film con Cate Blanchett, mi precipitai in Siberia. Per non perdere tempo, mi diedero un aereo privato. Wow! Mi sentivo una regina su Marte. Durante quel viaggio scoprii di amare profondamente la terra. Non vedevo l'ora di rimetterci i piedi».
Con Dario Argento ha girato «Il cartaio».
«Il suo è un mondo davvero speciale. È un padre/maestro. Pieno di contraddizioni. Sensibile e forte. Vittima e carnefice. Serio e divertente. Una volta gli feci uno scherzo. Misi del cotone in bocca e simulai un'allergia. Andò personalmente in farmacia a comprarmi le medicine».
Cristina Comencini?
«Quando mi chiamò per La bestia nel cuore vivevo a Parigi. Dovevo interpretare una cieca. Per prepararmi, andai in un istituto come volontaria. Accompagnavo i non vedenti, mangiavo con loro. La scintilla però non scattava. Mi accorsi che c'era una differenza tra chi è cieco dalla nascita e chi lo diventa. Andai dalla direttrice. Mi raccontò: io non vedo da quando avevo 16 anni. Sono diventata la sua assistente. Mi spiegava: senti il rumore delle suole? Da quello puoi capire che scarpe porta chi ti sta vicino, se è uomo o donna, pesante o leggero, aggressivo o no».
Qual è l'insegnamento principale che dà ai suoi figli?
«Scoprite le vostre passioni e coltivatele usando metodo. Si sceglie con l'istinto, si costruisce con la forza di volontà. Quella è la vera libertà. Ma per arrivarci devi conoscere e rispettare te stesso e ciò che ti sta intorno».
Stefania Rocca, cinema, tv, un marito nella moda, due figli, il rapporto complesso con la sorella Silvia. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.
L’attrice arrivata al successo con «Nirvana» di Salvatores, ha girato tanti film e serie tv. Giovedi è la protagonista del film su Rai2 «Un matrimonio da favola» di Carlo Vanzina.
«Un matrimonio da favola»
Stefania Rocca è un’attrice capace di esprimersi attraverso diversi linguaggi dalla commedia al dramma. Ha girato 48 film, 33 tra miniserie tv e film tv, riscuotendo sempre grande successo. Una bellezza originale. Giovedì 20 va in onda su Rai2 (21.30) «Un matrimonio da favola», un film del 2014 diretto da Carlo Vanzina. Protagonisti con Stefania Rocca, Emilio Solfrizzi, Giorgio Pasotti, Adriano Giannini, Ricky Memphis.
La sorella Silvia
Silvia Rocca, sorella di Stefania è un personaggio eccentrico. Dj, modella, scrittrice, conduttrice (famoso quel suo «Spicy Tg» dove, nuda, intervistava gli ospiti) una decina di anni fa ha avuto parole durissime contro Stefania. Disse al quotidiano Libero: «Se non faccio cinema, è perché non sono raccomandata come lei. Stefania ha sfondato perché aveva una storia con il regista Gabriele Salvatores. Tutto qui. E comunque mi annoierei a morte a fare il suo lavoro: lei legge un copione già scritto, mentre io preferisco creare». E ancora: «È lei a non rivolgermi la parola da più di un anno. Stefania è sempre stata molto competitiva: non so perché, ma mi soffre da sempre. Forse, per lei sono troppo trasgressiva e scomoda». In un’altra intervista disse: «Per avere un contatto con mia sorella Stefania accendo la TV e la guardo nella fiction “Una grande Famiglia”, dove sta riscuotendo un enorme successo accanto a Stefania Sandrelli. Del resto, non ho alternative». Dopo queste dure parole, Silvia è sparita per un po’ e le ultime notizie parlano di un riappacificamento tra le due.
Stefania e il rapporto (difficile) con Silvia
A quell’attacco, dieci anni fa, Stefania rispose così: «Ma quale raccomandata… con Silvia non siamo mai andate d’accordo - disse l’attrice in un’intervista a «Vanity Fair - Non sono una moralista, ho fatto anche un film nuda. E non sono una raccomandata». E sul rapporto tra loro bambine dice Stefania: «Eravamo un po’ dei maschiacci, con lei non siamo mai andate d’accordo, e qualche volta ci menavamo. Io le beccavo sempre, allora Francesca (la terza sorella, ndr) prendeva le mie difese e menava Silvia. Siamo tutte uscite presto di casa… Ho sempre pensato di essere la più brutta delle tre, ero molto minuta». Chissà se ora davvero le due sorelle si sono ritrovate
Gli esordi e il successo con «Nirvana»
Classe 1971, Stefania Rocca è originaria di Torino dov’è nata il 24 aprile, anche se a 18 anni si è trasferita a Roma per inseguire il suo sogno di diventare un’attrice. Ma la sua voglia di perfezione l’ha portata a New York, all’Actors Studio. Il debutto per Stefania Rocca è avvenuto quando aveva 24 anni con « Effetto». Subito dopo ha recitato nel fortunatissimo film «Palermo Milano – Solo andata». Ma il grande successo è arrivato con il film «Nirvana» di Gabriele Salvatores, dove ha vestito i panni della protagonista Naima.
Il marito Carlo Capasa sposato a New York
Dal 2005 fa coppia fissa con Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana (è stato anche Amministratore Delegato di Costume National, che ha fondato insieme a suo fratello Ennio nel 1986). Nel 2013 , lui e Stefania Rocca si sono sposati, presenti i due bambini nati nel 2007 (Leone) e nel 2009 (Zeno). La coppia ha deciso di unirsi in matrimonio con delle nozze “improvvisate” a New York: Ha raccontato l’attrice al mensile Elle: «Ci trovavamo a New York e Carlo mi ha detto: “E se ci sposassimo qui, che facciamo tutto in fretta? Solo io e te?”. E così è stato. C’erano solo Leone, Zeno e mia cognata che vive a New York e che ci ha fatto da testimone. Ancora ora mi sembra impossibile! Ho sempre avuto paura del matrimonio: i miei genitori si sono separati e un sacco di amici, anche. Carlo mi ha fatto però passare questa paura… Il fatto di esserci sposati in modo così intimo è stato salvifico per me: una cerimonia con tanta gente mi avrebbe fatto venire l’ansia. Non mi piace essere al centro dell’attenzione, nella vita preferisco anzi mimetizzarmi».
L’esperienza (brutta) a «Ballando con le stelle»
Stefania Rocca nel 2018 ha partecipato a «Ballando con le Stelle» facendo conoscere un lato sconosciuto di sè. Si è messa in gioco, ma non ha ottenuto un gran risultato. Ha avuto anche infortunio che l’ha molto danneggiata, impedendole di gareggiare al massimo della forma. In una intervista a Grazia raccontò: «Non mi sono divertita per niente».
L’amore per i figli
Stefania adora Leone e Zeno. Ha confidato a Vanity Fair che i suoi figli ultimamente le hanno insegnato a comprendere meglio l’esistenza e l’inevitabile scorrere del tempo. Ha detto che non ha paura di invecchiare: «E un naturale procedere con cui convivo, diciamo, piacevolmente. Me ne sono fatta una ragione, grazie ai miei figli, li vedo crescere e prendere la loro forma. La malattia, quella mi spaventa di più. Ma cerco anche di non pensarci. Il calcolo delle probabilità parla chiaro: la vita è solo una questione di cu**».
Il successo della serie tv «Una grande famiglia»
«Una grande famiglia» è una serie televisiva che ha avuto tre stagioni, tra il 2012 e il 2015 e che ha avuto uno straordinario successo di pubblico. Raccontava bene la storia di una grande famiglia italiana e Stefania Rocca era tra le protagoniste femminili accanto a un cast stellare: Stefania Sandrelli, Alessandro Gassmann, Gianni Cavina, Sarah Felberbaum, Sonia Bergamasco, Giorgio Marchesi, Lino Guanciale, Isabella Ferrari, Cesare Bocci, Piera Degli Esposti
Gloria Satta per ilmessaggero.it il 18 settembre 2022.
Stefania Sandrelli è una regina avvolta in veli candidi che porta al Lido il peso della sua «carrierona», 100 film e una regia lirica, e la bellezza trionfale dei suoi 76 anni. «Non ho chiuso occhio e, come diceva l'amato Ettore Scola, quando non dormo sono più bella», si schermisce la grande attrice, due figli, 5 nipoti e un numero incalcolabile di riconoscimenti a cui ora si aggiunge il prestigioso Premio Bianchi del Sindacato Giornalisti Cinematografici.
A Venezia, «dove ho concepito mia figlia Amanda con Gino Paoli», Stefania ha anche accompagnato alle Giornate degli Autori l'opera prima di Corrado Ceron Acqua e anice in cui interpreta una 70enne ex star del ballo liscio che parte per un ultimo viaggio sui luoghi del suo successo con una timida autista (Silvia D'Amico). Commedia on the road, il film affronta anche il tema dell'eutanasia.
Alla Festa di Roma, Stefania porterà invece Astolfo di Gianni Di Gregorio in attesa di girare in Sicilia L'estate più calda. E pensare che aveva dichiarato al settimanale Oggi che la sua vita professionale era al termine...
Davvero ha deciso di ritirarsi?
«Non proprio. Finché mi offrono dei ruoli, anche piccoli, non sono ancora un'ex attrice. Voglio però prendermi un anno sabbatico per star vicina al mio compagno Giovanni Soldati che ha passato sei mesi in ospedale. La sua malattia mi ha stesa a 4 di bastoni, come dicono a Roma».
Non riesce proprio a reprimere il suo senso materno?
«Da sempre mi preoccupo della famiglia, ma voglio vivere. Anche se mio figlio medico Vito Pende ha elaborato per lui un ottimo piano terapeutico, spero che Giovanni si responsabilizzi prendendosi cura di sé senza che io gli stia addosso. Del resto 40 anni fa mi sono innamorata di lui proprio perché è così, vive alla giornata. Ma è l'uomo della mia vita».
Perché ha deciso di girare Acqua e anice?
«Dopo “Io la conoscevo bene”, è il secondo film della mia carriera tutto incentrato su di me. Mi piaceva l'idea di rappresentare il coraggio della protagonista. Inoltre si parla di eutanasia che si pratica anche in Italia, ma senza dirlo. Fatico a parlarne ma andrebbe legalizzata, è una questione di diritti umani».
Sceglierebbe di morire se un male le togliesse le speranze?
«Sì. Sul set e fuori ho sempre incarnato la gioia di vivere, ma una vita senza dignità non merita di essere vissuta».
Come riesce ad accettare con leggerezza il tempo che passa?
«Sono carica di energia e ho coraggio da vendere. Nulla mi fa paura. Mi preoccupo solo dei figli e dei nipoti».
L'Italia si prepara alle elezioni, che ne pensa?
«È un momento difficilissimo. Se ne accorgeranno quelli che smaniano per andare al governo. Saranno cazzi loro».
Ha mai pensato di entrare in politica?
«Mi metterei in gioco solo se potessi difendere le donne. Siamo sempre a rischio, come ho sperimentato di persona».
A cosa si riferisce?
«Quando avevo 17 anni, un calciatore della Lazio fidanzato con una mia amica provò ad avere un rapporto sessuale con me. Io mi rifiutai e lui mi gonfiò di botte. Lo denunciai, ma la cosa venne insabbiata. Lui ora non c'è più».
Cosa sogna per il futuro?
«Vorrei vivere in campagna con un somarello, il mio animale preferito. A dire la verità vedo già gli asini dal mio appartamento sulla Cassia affacciato su una vallata. Loro ragliano e io rispondo con un urlo. Mi dà tanta serenità».
Stefania Sandrelli: stasera c’è la Chiave. Storia di una vita piena d’amori, passioni e successi in carriera. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.
L’attrice dal fascino irresistibile e immutabile, ha girato più di 100 film, e ha vissuto grandi storie: Gino Paoli, Nicky Pende, Depardieu e ora il lungo amore con il marito Giovanni Soldati
Miss Viareggio a 14 anni e poi al via con grandi successi
Nata a Viareggio il 5 giugno 1946 sotto il segno dei Gemelli, Stefania Sandrelli è un’icona del cinema italiano. E’ una delle poche capace di essere amata dagli uomini per la sua avvenenza e dalle donne per la sua simpatia. A 14 anni diventa miss Viareggio, e nel 1961 arrivano due film che le cambieranno la vita Il federale con Ugo Tognazzi, ma soprattutto Divorzio all’italiana di Pietro Germi (1961). Da allora un film dopo l’altro fino a superare le 100 pellicole. Una lunga carriera con tanti premi: 3 David di Donatello vinti su un totale di 11 candidature, 6 Nastri d’argento e un Leone d’oro alla carriera, assegnatole alla 62ma Mostra internazionale del Cinema di Venezia nel 2005. Stasera va in onda «La Chiave» (alle 21 su Sky Cinema Drama con replica domattina alle 11), il film «scandaloso» di Tinto Brass di cui parliamo diffusamente in seguito. Ma ecco un ritratto con alcune curiosità inedite, della grande attrice.
A 16 anni la passione per Gino Paoli
La vita di Stefania Sandrelli è stata una girandola di successi sul grande schermo e nella vita privata. A soli 16 anni, si innamora perdutamente del cantante Gino Paoli, all’epoca già sposato. Durante questa intensa relazione d’amore, ricca di alti e bassi, c’è anche un momento drammatico. Durante le riprese del film Sedotta e abbandonata (1964) la Sandrelli era in Sicilia per le riprese, e la lontananza faceva soffrire profondamente Paoli tanto che, in un momento di disperazione e annebbiamento da abuso di alcol, si ferisce con un colpo di pistola. Un brutto momento superato sempre nel 1964 , dalla nascita della loro figlia Amanda Sandrelli. La pace però tra Stefania e Gino dura poco: i due si separano definitivamente nel 1968. Ma i due restano amici. Di recente in una intervista Sandrelli rispondeva così: «Perché ho lasciato Gino Paoli? E che me lo chiede anche??? Mi avrà tradito una trentina di volte. Ora siamo molto amici, l’ho perdonato, abbiamo un buonissimo rapporto. Ma quando ho scoperto una delle sue tante scappatelle, gli ho distrutto la casa».
La figlia Amanda e quel rimorso...
La nascita di Amanda è motivo di grande gioia per Stefania. Ma presto all’orizzonte arriva un nuovo grande amore che la allontana dalla figlia. «Lei è stata il grande cruccio della mia vita - ha confidato una volta - . Il mio più grande dolore. Dovetti abbandonarla, per stare vicino a Nicky Pende, che mi faceva disperare. Gli piacevano troppo la vita notturna e l’alcol. Per occuparmi di lui, affidai Amanda a Gino e a sua moglie. Negli anni Sessanta ancora non c’era il divorzio, che dovevo fare? Non me lo sono mai perdonato. E, giustamente, neppure mia figlia è stata indulgente. Ci siamo chiarite da poco. So che le ho procurato tanta sofferenza e questo mi affligge da morire». Per fortuna negli anni hanno recuperato un ottimo rapporto
Nicky Pende, il chirurgo che amava la vita notturna
Continua la girandola di amori di Stefania : nel 1972 sposa Nicola Pende, medico, noto come Nicky e molto presente nelle cronache dei giornali negli anni Settanta, per la sua bellezza, e i suoi veri e presunti flirt. Un matrimonio brevissimo quello con Stefania (lui 28 anni, lei 25). Nel 1974 nasce il figlio Vito, oggi anche lui medico chirurgo.Anche questo rapporto già difficile viene messo definitivamente in crisi dalla breve relazione dell’attrice con l’attore francese Gerard Depardieu, incontrato sul set del film Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci. Così la separazione è inevitabile dopo quattro anni di matrimonio. Disse Stefania al Corriere tre anni fa: «Lo sposai per amore, sapeva che mi fidavo di lui in tutto, certa che sarebbe stato un bravo medico, un bravo marito e un bravo padre. Ma la vita non va mai tutta dritta...Nicky era estremamente corretto ma un po’ Dottor Jekyll e Mister Hyde. Aveva probabilmente dei problemi caratteriali che non potevo conoscere prima delle nozze. Quando ci siamo lasciati però mi sono sentita come nuda in una foresta, sola e di notte. Ero veramente disperata». Nicky è mancato due anni fa: è morto solo. Non aveva buoni rapporti nè con Stefania (che ha sofferto molto per questo lutto), nè con il figlio Vito (anche se poco prima di morire c’era stata una riconciliazione tra i due), nè con molti altri parenti e amici.
Giovanni Soldati
E dopo tante passioni in stile ottovolante, arriva il porto sicuro, l’amore forte, sereno, duraturo. Dal 1983 è al suo fianco il compagno Giovanni Soldati, regista e sceneggiatore (figlio del grande Mario soldati), più giovane di lei di 7 anni. L’attrice ha rivelato che per scaramanzia non si sono mai sposati (e ha funzionato...) Il loro rapporto è cominciato come una grande amicizia, che poi è diventata complicità, intesa e infine amore. E pare che a cambiare le cose sia stato un tango!
L’amicizia con Proietti e il successo del «Maresciallo Rocca»
Stefania Sandrelli ha avuto grandi soddisfazioni anche dalla televisione. In particolare arrivò la popolarità da piccolo schermo grazie a «Il Maresciallo Rocca», accanto all’amato Gigi Proietti. I due erano colleghi, amici, ed erano pure vicini di casa. Così quando Gigi propose a Stefania di lavorare con lui, lei non solo accettò felice, ma gli predisse: «Sarà un grande successo».
Un’icona prima dei 20 anni
Sarà Pietro Germi a donare la definitiva notorietà a Stefania Sandrelli con due capolavori della commedia all’italiana: Divorzio all’italiana (1961) con Marcello Mastroianni e Sedotta e abbandonata (1964). In questi film diventa una star senza avere neanche compiuto i vent’anni.
Con i due grandi, Manfredi e Gassmann
Nel 1974 partecipa al capolavoro di Ettore Scola C’eravamo tanto amati, una storia che ripercorre 30 anni di vita italiana, al fianco di Nino Manfredi e nuovamente con Vittorio Gassman. E sono anni fertili. Dopo questo grand film, collabora per la terza volta con Bertolucci in un altro kolossal, Novecento (1976), recitando con attori del calibro di Robert De Niro, Gérard Depardieu, Alida e Romolo Valli, Burt Lancaster, Sterling Hayden e Francesca Bertini.
Lo «scandalo» de «La chiave» di Tinto Brass
Una scelta scandalosa, oggi si direbbe divisiva. Stefania Sandrelli accetta di girare La chiave di Tinto Brass, un film altamente erotico. La discussione sia della critica sia del pubblico è molto accesa, tra favorevoli e contrari. Fatto sta che Sandrelli - come sempre ha fatto nella sua vita - porta avanti la sua scelta e a 37 anni non ha dubbi e perplessità nel mostrare il suo corpo e la sua sensualità ne La chiave (1983). E fu proprio grazie alla presenza della Sandrelli che lo stesso Tinto Brass ebbe una accelerata nella sua carriera e nella sua popolarità.
Tre David di Donatello, e l’onorificenza da parte di Ciampi
Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi premia Stefania Sandrelli. L’attrice viene insignita dell’Onorificenza di Grande Ufficiale dell’OMRI, in occasione dell’incontro con i candidati al Premio David di Donatello, nel 2004 . Premio che la Sandrelli vinse nel 1989 come migliore attrice protagonista per Mignon è partita; Migliore attrice non protagonista per L’ultimo bacio nel 2001; Migliore attrice non protagonista per Figli/Hijos nel 2002; E nel 2018 un David speciale alla carriera.
«Una grande famiglia», la fiction dagli ascolti stellari
Dal 2012 è impegnata sulle reti Rai con una fiction di grande successo «Una grande famiglia», nella quale interpreta la protagonista Eleonora Rengoni; oltre a lei nel cast ci sono Gianni Cavina (suo marito) e Alessandro Gassmann (uno dei suoi figli). Il successo è enorme e la Sandrelli torna a vestirne i panni anche nella seconda e nella terza stagione, rispettivamente nel 2013 e nel 2015, sempre con strepitoso successo.
Con Pozzetto nei panni dei genitori di Vittorio Sgarbi
Sandrelli ha già detto che non vede l’ora di girare un nuovo film perchè senza cinema non sa stare. L’ultimo suo lavoro, dolce e struggente, è firmato da Pupi Avati: Lei mi parla ancora, tratto dal romanzo «Lei mi parla ancora - Memorie edite e inedite di un farmacista» scritto nel 2016 a 95 anni da Giuseppe Sgarbi (papà di Vittorio). Sandrelli interpreta Rina Cavallini (la mamma di Elisabetta e Vittorio Sgarbi) e al suo fianco c’è un bravissimo Renato Pozzetto che dà il volto a Giuseppe ‘Nino’ Sgarbi. Il film racconta la vera e dolcissima storia d’amore dei genitori di Vittorio Sgarbi, con un bellissimo cast. Il film inizialmente sarebbe dovuto uscire al cinema, ma a causa del Covid è stato trasmesso in prima visione l’8 febbraio su Sky. «Pupi è adorabile - ha raccontato Sandrelli - , anche se mi ha fatto morire praticamente alla prima scena. Sono rimasta colpita dal mio partner, Renato Pozzetto, molto bravo in un ruolo drammatico»
Stefania nonna con i 5 nipoti
Stefania Sandrelli è una nonna affettuosa e coccolona. E ama trascorrere tempo con i suoi cinque nipoti: Rocco, 23 anni, e Francisco, 17, che sono i due maschi figli di Amanda; poi Elena, 20; Diletta, 18, e Nicole, 7, le figlie di Vito. (Nella foto Stefania Sandrelli, al centro, con i nipoti: da sinistra Rocco, Francisco, Diletta, Elena, e la figlia Amanda. Manca la piccola Nicole). «Non sono “sbaciucchiona” o “smanacciona” - ha rivelato - A me piace molto farli mangiare, farli dormire, dare il biberon quando erano piccoli. Li abbraccio, ma solo quando capisco che lo posso fare. E li sento tutti i giorni: se so che sono impegnati, mando solo dei messaggi su WhatsApp. E sto molto attenta a dare a tutti le stesse attenzioni e opportunità».
Stefania Sandrelli senza freni: "La mia carriera è più unica che rara". Massimo Balsamo il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
Protagonista al Magna Graecia Film Festival, Stefania Sandrelli ai nostri microfoni: "La sensualità? Basta giocare, senza prendersi troppo sul serio"
Da “Divorzio all’italiana” a “Lei mi parla ancora”: sessant’anni di carriera per Stefania Sandrelli, tra le leggende del cinema italiano. L’attrice di Viareggio è tra le grandi protagoniste del Magna Graecia Film Festival di Catanzaro, dove sarà premiata con la Colonna d’Oro alla Carriera. L’ennesimo riconoscimento di una carriera straordinaria. “Sì, più unica che rara”, ha ammesso ai nostri microfoni.
Ha ricevuto un grande amore e ha sempre testimoniato la sua gratitudine. Che bilancio fa della sua carriera?
“Io in genere non amo parlare di me in modo meraviglioso, anzi (ride, ndr). Però credo che la mia carriera sia più unica che rara, almeno nel panorama del cinema italiano. Ho iniziato talmente presto, ho lavorato con tutti i fenomeni del cinema italiano. Immagino che non ci sia qualcuno con una carriera come la mia e lo dico con il cuore in mano, non per vantarmi. Chi si loda s’imbroda, del resto”.
Ha invece qualche rimpianto?
“No, direi di no. Credo di avere una predisposizione al mio lavoro. Amo i lavori con tanta gente, non amo lavorare da sola. Mi piace il cinema perché è fatto da una moltitudine di persone e mi accorgo benissimo quando manca qualcuno. Mi piace il lavoro di collaborazione. Avevo scelto di fare la ballerina classica, ma sono diventata un po’ troppo formosetta (ride, ndr). Avrei perso tempo e penso che non ci sia niente di peggio che perdere tempo”.
Su questo non c’è dubbio…
“E poi la danza non è molto lontana da quello che è il mio lavoro. Il mio lavoro è un fatto tecnico, come il balletto. Io volevo diventare come Ludmilla Tchérina, non volevo diventare una ballerinetta di avanspettacolo. Ero pazza del balletto. Ma probabilmente non sarebbe stato nemmeno opportuno. Diciamo che mi è andata meglio così”.
C’è una critica o una maldicenza che le ha fatto male?
“Una volta sola, non ricordo chi fosse. Era un critico abbastanza noto, ma evinsi dalla lettura della sua critica che non aveva neanche visto il film. Non mi chieda troppo, perché non ricordo né il film, né il critico: sono passati una quarantina d’anni (ride, ndr). Quando le cose vanno così mi dispiace molto, mi arrabbio. Ma è successo una volta sola, non mi posso lamentare”.
Lei è stata e continua a essere un’icona di libertà. Oggi, però, sembra esserci più pudore per determinati temi rispetto ad anni fa. È un controsenso…
“No, c’è solo una cosa di cui non si ha pudore: la vergogna. Qua non c’è nessuno che si vergogna. In linea di massima, ovviamente”.
Lei è la signora più sensuale del cinema italiano. La sua femminilità ha tracciato un solco, c’è un perché?
“Perché io sono esattamente il contrario. Gioco, mi diverto ed ecco che la sensualità arriva. Probabilmente è quello il motivo: basta giocare, senza prendersi troppo sul serio. Ma io non mi sono mai sentita sensuale (ride, ndr)”.
Si parla molto di rivoluzione femminile, ma sembra procedere a rilento…
“Io credo molto nelle donne, nella diversità rispetto all’uomo. Trovo le donne meno aggressive e questo non mi dispiace. Il domani sarebbe forse opportuno che lo prendessero in mano le donne. Anche se ci sono donne e donne…”.
Non ci sono dubbi…
“Sa da cosa capisco quello che sto dicendo? Dal fatto che tutti i migliori registi avevano una sensibilità femminile. Ho detto tutto. Pur mantenendo una loro sessualità di uomini, avevano una spiccatissima sensibilità femminile. Ho la facoltà per affermarlo”.
Ha ancora un sogno da realizzare?
“Ne ho tanti, come sempre. Ho la testa piena di sogni, è difficile sceglierne uno. E’ come cercare l’ago in un pagliaio. Lo scopriremo…”.
Stefania Sandrelli: «L’eros sul set? Un gioco. Non cerco scandali, vivo senza schemi». Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.
L’attrice e «Il conformista» di Bertolucci in versione restaurata: «Le scene di seduzione e il tango con Sanda mi divertivano»
Se c’è stato un «Ultimo tango a Parigi», ce ne sarà stato anche un primo. E l’ha ballato proprio lei, Stefania Sandrelli, avvinghiata con Dominique Sanda sulla pista di una balera. Occhi negli occhi, corpi fasciati di raso ben aderenti, Dominique che la rovescia nel casquè, poi con un ginocchio a terra, le tende la mano per farla roteare.
Danza scandalo la vostra ne «Il conformista». Quasi un anticipo del tango di Brando con Maria Schneider due anni dopo
«A Bernardo il tango piaceva e molto! E anche a me, s’intende – assicura con un guizzo di nostalgia Sandrelli - Quando si girava con lui c’era sempre una sera in cui si andava tutti a ballare. Eravamo giovani, Dominique e io poco più che ventenni, Bernardo non ancora trentenne. Il più vecchio era Jean Louis Trintignant, sulla quarantina».
Trintignant che se n’è appena andato. Che impressione le fa aprire sabato a Bologna il 36mo festival del Cinema Ritrovato con il nuovo restauro de «Il conformista»?
«Sarà commovente ricordarlo con uno dei film che lui amava di più. Jean Louis, schivo e riservato, non vorrebbe altro omaggio».
Era così anche allora?
«In quella balera gioiosa Marcello, il suo personaggio, doveva sembrare un pesce fuor d’acqua, rigido e lontano. Per carattere e perché quella che avrebbe voluto stringere nella danza non ero io, Giulia, la moglie giovane e un po’ oca, ma la torbida Anna di Dominique Sanda. Che però era molto più interessata a me che a lui».
Oltre al tango, il momento in cui Anna la seduce sul letto fece molto parlare. Le creò imbarazzo?
«Per niente. Quel corteggiamento insolito ci ha fatto tanto ridere. E poi non si trattava di un amore lesbico. Giulia asseconda le pulsioni erotiche di Anna per gioco. È in luna di miele a Parigi, se il marito non sembra interessato a lei, lei non vuol rinunciare a divertirsi. Anna è bella e sensuale, la porta in giro, la stordisce di attenzioni e tenerezze. Fa le veci di un marito assente. Quel tango tra loro è il culmine di un’eccitazione dei sensi, di una frenesia di vita».
Perché Bertolucci volle lei per un ruolo che così poco le somiglia?
«Forse perché i ruoli che vengono meglio sono quelli che non ci somigliano! Certo, non sono mai stata una piccola borghese, la mia vita, i miei amori, sono sempre stati fuori dagli schemi, ma essendo nata a Viareggio, la provincia la conosco bene. Giulia è leggera, voluttuosa, un po’ stordita. Con le volpi dell’amica strette al collo, squittisce come una topetta. Una delizia, pane per i miei denti. E poi, dopo aver lavorato gratis in Partner, stavolta Bernardo mi offrì un ottimo cachet. Come dire di no?».
Rivedendolo ora, come le sembra «Il Conformista»?
«Fresco come mezzo secolo fa, uno dei film più belli di sempre. Bernardo mette il dito nella piaga, in quel conformismo vile che è alla radice del fascismo. L’uomo normale che Marcello vorrebbe tanto essere, il “vero cittadino, il vero patriota”, è il vero fascista».
Fuori dal set cosa le è rimasto nella memoria?
«Il gran freddo di Parigi, io e Dominique con le calze di seta, i piedi gelati da immergere in acqua calda tra una pausa e l’altra, trangugiando litri di tè corretto. E la scena al ristorante cinese con le bacchette che mi cadevano di continuo. A Bernardo piacque, è finita nel film. E poi tutti a cena, a tirar mattino parlando di cinema e vita».
Rispetto a quegli anni, come le sembra il cinema di oggi?
«Di recente Dominique mi ha detto: che bel cinema abbiamo fatto! E’ vero. Anche se per me il cinema è sempre vivo, i grandi film continuano a nascere. Il problema sono le sale vuote. Quelle sì mi fanno malinconia».
Lei però continua a lavorare
«Ho appena finito il nuovo film di Gianni Di Gregorio, «Astolfo». Dove lui mi corteggia nel suo modo un po’ buffo, tenero e maldestro. Essere corteggiata alla mia età… Evviva il cinema!».
Arianna Finos per “la Repubblica - Robinson” il 2 maggio 2022.
Sul set ho sempre portato con me risata e dolore, una fusione di stati d'animo che mi consentiva di lasciarmi andare. Fin da Divorzio all'italiana, un gioiello che racchiudeva la tinta fosca e il ridicolo, il dramma e la piccineria umana. Avevo 17 anni, nel 1961 ed ero incantata da una sceneggiatura perfetta e da un regista, Pietro Germi, che rideva, piangeva, cantava, si entusiasmava e s' arrabbiava guardando attraverso l'obiettivo. Seguirlo era come seguire uno spartito, mettere in scena una coreografia».
Il propellente della commedia all'italiana ha lanciato Stefania Sandrelli attraverso mezzo secolo di cinema, superando decenni, generi, generazioni di autori. Il Festival de la Comédie di Montecarlo, diretto da Ezio Greggio, ora le consegna un premio e l'attrice festeggia, con l'entusiasmo che a 75 anni l'accompagna, a parte certi piccoli sfoghi sulle angosce e i problemi che la vita non le risparmia.
Com' era da ragazzina?
«Sono cresciuta tra sette maschi, ma ero io quella autorevole, a cui il nonno fiorentino consegnava il soldone per comprare i "chicchi", i dolci per tutti. Mi dava la responsabilità di andare in quel bellissimo negozio gestito da una vecchina dolce. Mi consideravo una regina, ma non mi prendevo sul serio. Ero una bimba vivace, ridevo tanto con le amiche, che però mi facevano anche soffrire, dovevo cambiare strada per non vederle, se troncavamo».
Quanto era importante l'allegria sul set?
«Fondamentale, anche perché allora i set erano faticosissimi. Quando mi chiedono a cosa ho rinunciato per il lavoro beh, rinunciavo a ridere. Ogni volta che finivamo una scena ero sull'orlo del riso. In quella della gelateria di Divorzio non sono riuscita a nasconderlo. Andavamo a fare il teatrino per il paese, papà Saro Urzì chiedeva a Buzzanca, il fratello geloso e scemotto che gelato volesse e lui, che aveva la febbre al labbro biascicava "oh io al pistacchio". Il padre si arrabbiava, gli buttava il gelato sui denti, "stunk", io ridevo come una matta, Lando se lo ricorda ancora. Al decimo ciak ho dovuto nascondere la bocca dietro il gelato. Germi s' arrabbiava. E pure Scola, ricordo, in una scena con Gassman che raggiungeva me e Manfredi davanti alla scuola, ridevamo troppo sfacciatamente. Per tacere della scena alla trattoria della mezza porzione. Ma come si fa a resistere a dialoghi così? Con Bertolucci giravo Il Conformista, durante la cena con le bacchette, me ne cade una e inizio a ridere, lui non dà lo stop e io fingo di essere ubriaca, poi mi alzo. La scena è nel film».
Tra i registi chi la faceva ridere di più?
«Bernardo era allegro. E Roberto Benigni, in Il piccolo diavolo, mi fece preparare un posto speciale per assistere al défilé in chiesa, esilarante. I registi migliori erano quelli che godevano quando ridevo, era una manifestazione che apprezzavo, Roberto era tra questi».
E tra gli attori?
«Ho lavorato con i giganti. Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman, Villaggio. Mica facile tenere loro testa. Ma mi va di ricordare Dustin Hoffman».
Non il primo nome che viene in mente. "Alfredo Alfredo"?
«Sì. Di Dustin dicevano che fosse un po' grossier, ogni tanto toccava il sedere di qualche sarta o parrucchiera ed erano urtati. Io non mi sono accorta di nulla. Mi sembrava toscano, come me, mi faceva molto ridere. E ricordo che aveva appena fatto Il laureato, per me era un mito. Tra l'altro su quel set aspettavo un figlio, con mio marito dovemmo spostare le nozze a fine film. All'inizio dovevo fare entrambi i ruoli femminili, Caterina e Maria Rosa. Quando gli dissi che non potevo girare - i suoi set erano faticosi e incinta non mi avrebbero assicurato - si inginocchiò, pianse "ti scongiuro". Tirò fuori il contratto con Hoffman e scoprii che il mio nome faceva parte dell'accordo. Così mi diede solo un personaggio. Nessuno doveva sapere che ero incinta, tranne Hoffman.
Nelle scene dei baci gli dicevo "Attento a come ti muovi che mio marito viene e fa uno scandalo". Poi Dustin conobbe la famiglia, adorava "Amandina", che gli dava i giocattoli in testa...ma mi ha sempre rispettato».
Catherine Spaak aveva rivelato le difficoltà sul set molto maschile di "L'armata Brancaleone". Lei fece il sequel, "Brancaleone alle crociate".
«Mai avuto problemi, ma sono cresciuta tra i maschi, so far valere la mia voce, e Monicelli apprezzava il carattere. Tra fata e strega non ho dubbi: in quel film ero la strega che tutti riempivano di improperi e veniva bruciata. In quella scena mi intossicai un po' per davvero».
Con la Spaak eravate amiche?
«Il giorno dopo la sua morte sono stata male fisicamente, avevo un vuoto dentro. Catherine avrebbe potuto fare di più al cinema. La conobbi quando registrò un disco con Gino Paoli (il 45 contiene Perdono e Tu ed io, 1962). L'ho seguita negli anni, è stata brava nel reinventarsi in tv, con trasmissioni eleganti, importanti per le donne. Ogni volta che chiamava correvo, sapendo che sarebbe stata una cosa di qualità».
Nei giorni scorsi è tornata online l'intervista che la Spaak le fece nella vasca da bagno. Nel doc "Sex Story" Cristina Comencini cita la scena come emblema di liberazione, "immagine del divertimento, di quella frenesia che abbiamo conosciuto tutte noi all'epoca".
«È vero, fu liberatorio. Catherine venne a casa, vide il mio bagno tutto in boiserie, accogliente: "Ci facciamo il bagno?". Ci pensai un po'. "Nude?". E lei, "beh ma il bagno come lo fai?" Mercanteggiammo sulla nudità, anche lei non era un'attrice ansiosa di spogliarsi, e mi fidai. Feci bene».
Al cinema la sua svolta sul nudo è stata "La chiave" di Tinto Brass.
«Una sfida con l'età. Avevo superato i quarant' anni, non ero più di primo pelo e si vede. Il fisico era tonico, ho fatto danza da ragazza, sono attiva, ma era quello di una donna della mia età. Un fisico naturale, che non mi vergognavo di esporre. Che non fossi malaccio lo sapevo da quando avevo portato il mio bikini da Viareggio per la scena di Divorzio all'italiana. Ma sapevo però che se mi fossi denudata gratuitamente in un film avrei poi dovuto farlo spesso, funziona così nel cinema. Allora l'ho evitato, è stato uno slalom nella carriera. La scelta di La chiave non fu a tavolino, ma spontanea...Ed era diverso dal filone di Pierino e le pernacchie».
C'è poi stata un'altra generazione di registi di commedia, da "Eccezzziunale...veramente" a "Vacanze di Natale".
«Ricordo pareri discordi anche tra le persone che si occupavano di me. Conoscevo Enrico Vanzina, uscivamo, ridevamo, tante cene. Eccezzziunale lo presi davvero come un'occasione. Ero consapevole che non fosse il set di Germi o Scola, ma la parrucchiera di quel film era un personaggio delizioso. Non ho mai ragionato in termini di serie A e film minori. Se c'era amicizia, stima e una buona sceneggiatura non discriminavo. Quella di Vacanze di Natale era deliziosa. Stupenda quella di Mignon è partita, anche se a conquistarmi furono le lettere scambiate con Francesca Archibugi. Ho sempre scelto in libertà».
Cosa la fa ridere oggi?
«Sono tempi difficili, il Covid, la guerra. E sono preoccupata per i giovani, per la mia nipotina. Mi ha appena fatto sorridere il video che mi ha mandato Giovanni (Soldati, il suo compagno, ndr) in cui cammina di nuovo, dopo un periodo durissimo. Ogni giorno cerco di trovare la forza nel sorriso, come tutti noi».
· Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Da Vanity Fair il 29 novembre 2022.
In un’intervista esclusiva a Vanity Fair, Fabio Volo racconta per la prima volta la sua separazione da Johanna Maggy, con cui ha avuto i figli Sebastian, 9 anni, e Gabriel, 7. In attesa di vederlo al cinema a inizio 2023 con Vittoria Puccini nel film Una gran voglia di vivere, tratto dal suo penultimo libro - ha all’attivo 11 romanzi tradotti in 22 lingue e 8 milioni di copie vendute in dieci anni - Fabio oggi è soprattutto un padre single, che ha scoperto dei «superpoteri». «Sono meglio come papà, cosa che non sapevo prima di separarmi. Sono più bravo. Perché ci sono solo io», dice. «È vera la cosa che è diminuita la quantità ma è aumentata la qualità».
La maturità raggiunta di Fabio Volo è anche frutto della meditazione, che pratica ogni giorno. «A 50 anni sono tornato “a casa”: medito, prego, penso, leggo, studio». L’equilibrio della mente si riflette anche in quella del corpo, con un’ottima forma raggiunta grazie all’attività fisica quotidiana. Tra le sue priorità, spiega, non c’è la ricerca di una donna, ma se l’amore arriva lo saprà accogliere: perché ha imparato molto dalla sua esperienza di coppia.
Fabio Volo racconta di vivere da solo ormai da due anni, vicino alla casa della ex compagna. In ottimi rapporti con lei, i due sperimentano un felice equilibrio da famiglia allargata: «I bambini stanno una settimana con me e una settimana con lei, durante quella settimana un giorno stanno con me e un giorno stanno con lei». Vacanze, pranzi domenicali e cene, ogni tanto, tutti insieme. Un’armonia che nasce dal rispetto.
«Non ho mai tradito Johanna. Le sono sempre stato fedele», risponde Volo dopo le voci sul tradimento come causa della separazione. Che invece ha avuto origine dopo una lunga crisi: «Non pensavo di lasciarmi, e che mi sarei trovato single. Quando è arrivato il momento “forse è meglio se ci lasciamo”, dei due ero quello più spaventato». Ma aggiunge: «Johanna e io non è che non ci amiamo più perché non stiamo più insieme: l’amore si è trasformato.
Se nella relazione le due persone non tirano fuori la parte migliore dell’altro, possono o restare insieme per poter dire che stanno insieme da cinquant’anni, come se fosse un premio, oppure dirsi “continuiamo ad amarci anche se non stiamo sotto lo stesso tetto”». E ancora: «Sarei rimasto con Johanna tutta la vita se fosse andata bene, non sono “contro la coppia”, non faccio piani, ma se lì dentro non c’è qualcosa che mi tiene vivo, non posso andare avanti».
Volo spiega come non ci sia nulla che giustifichi tenere insieme una relazione che non ha i presupposti, neanche «per i figli». «Il vero misunderstanding è che la gente dice: “sto insieme per i figli”. Invece è: “bisogna lasciarsi per i figli”. Perché loro meritano la verità, e se tu, che sei la persona che stimano di più, gli dici delle bugie, dopo li mandi nel mondo e loro diranno: se mio padre mi ha mentito, se mia madre mi ha mentito, allora perché devo fidarmi di questa persona?».
Renato Franco per corriere.it/sette il 20 febbraio 2022.
Questa intervista a Stefano Accorsi e Fabio Volo è il servizio di copertina del numero di «7» in edicola venerdì 11 febbraio con il Corriere della Sera. La anticipiamo per i lettori di Corriere.it, unitamente all’analisi di Letizia Mencarni — professore ordinario di Demografia all’Università Bocconi di Milano — sui cinquantenni italiani, l’ultima generazione con un lavoro sicuro. Buona lettura
Da una parte il ragazzo che ha fatto ripetere a generazioni che «du gust is megl che uan», l’attore che ha stregato Muccino e Özpetek, l’interprete di emozioni umane in cui riconoscersi, il cittadino del mondo che è stato compagno di Laetitia Casta. Dall’altra il ragazzo che faceva il panettiere con il padre e poi si è specializzato nel non avere specializzazioni: volto televisivo, attore di cinema, scrittore (11 romanzi, oltre 8 milioni di copie in totale, l’ultimo Una vita nuova in cima alla classifica). Stefano Accorsi e Fabio Volo, due cinquantenni special, di successo.
Infiliamo subito il coltello nella carne tremula dell’amor proprio: come ci si sente nei panni di un uomo di mezza età?
Accorsi: «Non mi ci sento. Quando Dante scriveva la Divina Commedia e parlava del mezzo del cammin di nostra vita intendeva i 35 anni. Oggi le cose sono cambiate, certo l’età media non arriva a 100 ma non riesco a definirmi un uomo di mezza età. Se quantifico la sensazione della mia età nella voglia di fare, di progettare, nei programmi in corso e futuri, sento che ho ancora bisogno di un bel pezzo di vita davanti a me».
Volo: «Tengo sempre a precisare che ne ho 49, ma capisco che per la copertina devo averne 50... In realtà la crisi di mezza età ce l’ho da quando ne ho 42. Ho anticipato, io vivo già nella terza età. Quando è stato introdotto il coprifuoco ai miei amici ho detto: state vivendo come io faccio già da anni. Sveglia alle 6; cena alle 7, anche un quarto alle 7; a letto alle 10. Io non voglio sentire parlare di feste, cocktail, gala; quando devo fare la promozione dei miei libri o dei miei film mi sento male: si va al ristorante alle 11 di sera, si cena a mezzanotte e io poi la pago tutta la settimana. L’età non mi pesa perché credo di avere fatto le cose giuste nelle età giuste. Io non sono il 50enne che si chiede chissà come è stare con una di 25, chissà come è drogarsi, chissà come è viaggiare... Io ho pienamente vissuto il periodo della sperimentazione, il periodo dei viaggi con i biglietti aperti, che partivi e non sapevi quando tornavi, non sapevi che moneta avevano, dormivi dove capitava, alle stazioni, negli aeroporti».
50 o 49 e non sentirli, ma come personaggi pubblici dovete fare spesso i conti con la vostra immagine...
Accorsi: «Rivedere le sequenze del passato, festeggiare i 20, i 30 anni di un film ti mette sempre di fronte al tempo che passa e ti rendi conto che non basta fare una qualunque espressione o un qualunque sorriso per venire bene in foto. In realtà se mi guardo indietro il tempo è volato, ho avuto davvero rari momenti di inattività, ho sempre avuto la testa, il pensiero e la vita occupati. I figli fanno il resto».
«Quando hai una vita densa e piena ti rendi meno conto del tempo che scorre, vola in fretta, te ne accorgi a lampi. È vero che nel nostro mestiere fai spesso i conti con l’età, ma nel frattempo accumuli esperienza. Il nostro è un lavoro in cui puoi continuare a crescere, ti assicura longevità professionale: perdi giovinezza, ma guadagni capacità».
Volo: «Per la verità mi sembra di essere più bello adesso di quando facevo Le Iene con il pizzetto. Più maschio, più uomo. Sono migliorato...».
Che padre avete avuto? E cosa vi ha insegnato?
Accorsi: «Ho un padre con un grande senso dell’ironia, è un tratto che mi ha sempre colpito: uno sguardo ironico sulle cose, humor molto sottile. È un aspetto che ho ritrovato tantissimo nella vita: la capacità di sdrammatizzare con una battuta, di scherzare, non solo mette a proprio agio gli altri, ma anche te. Lo sguardo ironico è un’angolazione dalla quale vedi in modo diverso le situazioni, ti aiuta a decodificare la realtà in modo originale e leggero. È un aspetto che mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi; alla fine anche per me è diventato un codice del quale mi sono impossessato grazie a mio padre».
Volo: «Un padre sgobbone, casa e lavoro, con un principio inderogabile: non giudicare. Me lo diceva sempre: non sai mai cosa c’è nella vita di una persona, quindi lascia stare. Devo tutto a mio padre: sia perché era poco presente e ho sempre desiderato la sua attenzione e quindi mi impegnavo il doppio; sia per la forma mentis sul lavoro. Penso che le cose che ho realizzato, i miei sogni, sono arrivati non tanto per il talento, ma per l’atteggiamento e l’attitudine al lavoro. In questo mi sento superiore a tante persone, macino tanto lavoro con diligenza e disciplina».
E la mamma?
Accorsi: «Ha sempre avuto un approccio molto pratico, uno spirito fattivo, non voglio dire imprenditoriale, ma di iniziativa: se c’è una cosa da fare, facciamola. Di questo approccio pratico mi rendo conto oggi da padre: faccio cose che mi sembrano ovvie perché mi sono state insegnate, sono dentro di me perché sono scontate».
Volo: «Solare, estroversa. Una che parla anche con i sassi, sale sull’autobus e chiacchiera con chi ha di fianco, aperta al mondo; il contrario di mio padre. Da lui ho preso la disciplina e il godersi la solitudine; da lei il saper attaccare bottone con tutti».
E voi che padri siete?
Accorsi: «Non sono quel padre autoritario d’antan che forse non esiste più, ma non cerco l’approvazione dei figli, li sgrido e li riprendo quando devo. Il problema con il quale devo convivere è che faccio un lavoro che mi porta spesso fuori casa. Gestire, o co-gestire a distanza, è sempre abbastanza complicato. E mi toglie una parte importante della quotidianità con loro. Ho quattro figli da due donne diverse ( Laetitia Casta e Bianca Vitali; ndr), la logistica non è semplice. La separazione è un momento molto difficile, doloroso, complesso da attraversare, sia nella gestione della propria emotività sia per la gestione dell’emotività dei figli. Il rapporto che prima era condiviso me lo sono ritrovato tutto mio. E mi ha aperto nuove possibilità. Poi certo un po’ di senso di colpa rimane, ma alla fine i miei figli avranno avuto l’esempio di due genitori che in un momento in cui le cose erano insostenibili hanno preferito non accettare un’unione di facciata; sapranno che se proprio le cose non vanno c’è sempre un’uscita, una scelta».
Volo: «Sono un padre diverso dal mio. Sto molto con i miei figli (hanno 6 e 8 anni), gioco tanto con loro, cucino con loro, mi godo il divano con loro, apprezzo il non avere gente in casa; vado a recupero di quello che ho subito da mio padre e dedico loro molto tempo. Mio padre però è stato più bravo, più padre, mi ha formato, non faceva sconti, invece i miei amici sono più viziati... Ecco li ho chiamati amici, che lapsus , Freud ci andrebbe a nozze. Il problema è che io ogni tanto vengo sedotto dal tentativo di piacere ai miei figli, e quindi gli do quella cosa che non gli dovrei dare per sentirmi dire che sono bravo».
Mastroianni diceva che un attore fa di tutto per diventare celebre e poi si deve mettere gli occhiali scuri per non farsi riconoscere. Quanto il successo è o è stato un’ossessione?
Accorsi: «Oggi più che in passato viviamo in un mondo in cui c’è l’ambizione al successo. I reality, i talent, i social: la possibilità la vedi a portata di mano. Oggi c’è grande consapevolezza della propria immagine pubblica rispetto a prima, i social hanno allenato tantissimo le generazioni ad avere una percezione più chiara dell’immagine che danno di sé agli altri. Io lo ammetto con onestà: per me l’idea del successo era abbastanza imprescindibile dal fare questo mestiere. Gli attori con i quali mi identificavo o che ammiravo da piccolo erano bravissimi ma anche famosi, quel film che andavano a vedere tante persone, insieme, era per me significativo perché univa il pubblico in un rituale comune - che è la forza del cinema, del teatro. Quella componente identitaria, la ritualità, la condivisione si traducono nel successo, quindi l’ambizione al successo per me era un elemento abbastanza imprescindibile dall’ambizione di fare l’attore. Per successo non intendo i soldi (che poi sono una conseguenza), ma il fatto di desiderare che i film che facevo potessero veramente parlare alle persone. Ho sempre sentito naturale che se io raccontavo una storia, dall’altra parte ci doveva essere qualcuno ad ascoltarla, possibilmente una sala piena».
Volo: «Il successo non è mai stato un’ossessione, mi devo fare un complimento in questo senso. Ancora prima di cominciare questo lavoro avevo capito che la spinta è sempre stata avere un’idea da realizzare: avere un progetto e farlo diventare realtà. Io ho fatto un anno a Radio Capital con Cecchetto che a quei tempi era come Maria De Filippi oggi; c’erano Jovanotti, Fiorello, quando sono arrivato lì mi sentivo nell’Olimpo. Poi dopo un anno Cecchetto è andato via e io sono andato a fare il lavapiatti a Londra. Mentre ero lì mi sentivo Cenerentola, pensavo di aver perso il treno, mi chiedevo cosa avrei fatto e alla fine ho capito che l’espressione della mia creatività era quello che mi dava la felicità: avere un’idea e realizzarla. Ho sempre inseguito questo appagamento, poi è arrivato anche il successo. Credo che i miei libri piacciano per l’onestà di fondo, io non mi metto mai sul piedistallo, non mi faccio tentare dall’idea di descrivermi piu figo di quello che sono. E poi lascio tanto spazio al lettore, non sono ossessivo nella descrizione dei personaggi, mi piace dare solo alcuni elementi così chi legge lo può identificare in un amico, in un vicino, in un conoscente. Cerco di raccontare persone che tutti possono conoscere, così il meccanismo di identificazione diventa più facile. A volte gli intellettuali scrivono per loro; io invece lascio come un quadro, chi lo guarda decide cos’è. Mi sposto dalla scena, come faceva De Sica con la macchina da presa».
Qual è l’utopia di chi fa il vostro mestiere, l’ambizione più collettiva che personale?
Accorsi: «Come spettatore alcuni film sono stati incontri della vita, sono stati esperienze che mi porto dentro come vita vissuta, sono compagni di viaggio. Questa è la mia utopia: riuscire a dare alle persone questa sensazione, cercare di regalare dei personaggi che senti vivi, portarsi dentro un pezzo di un’altra vita, che non è la tua, ma ti fa capire e interrogare sulla tua e sulla vita di un altro. È questa la grande potenza di cinema e teatro: sono contesti empatici, dove se il film funziona hai l’impressione di aver vissuto qualcosa di altro da te».
Volo: «Mi piace divulgare più che intrattenere e in questo la radio è perfetta: nelle mie trasmissioni ho sempre cercato di mettere dentro parole e pensieri di altri - scrittori, pensatori, filosofi, gente molto più profonda di me - per far sentire meno la solitudine a chi ascolta. Il problema vero da ragazzino era non avere un amico simile a me che mi dicesse: guarda che anche io provo le stesse sensazioni. Questo conforto l’ho trovato nei libri, in quei testi che dici: questo mi conosce meglio di mio fratello. Questo tipo di approccio lo applico anche nei miei libri: non scrivo mai dall’alto ma dal livello di chi legge».
Qual è la critica che vi ha ferito di più? Quanto pesa il pubblico giudizio?
Accorsi: «In fondo non ci si abitua mai. Le critiche un po’ ti toccano sempre, anche quando il giudizio è approssimativo e superficiale».
Volo: «Grazie per il tentativo di addolcire il concetto. Ok, parliamo di quelli che mi massacrano. Ricordo i fax di insulti in radio, le prime volte ci rimani malissimo ma con il tempo ti fai le spalle grosse. Io poi ho avuto la fortuna di iniziare con Cecchetto e lui ti metteva sotto apposta: ti chiamava in ufficio e ti faceva dei cazziatoni memorabili. Anni dopo gli ho chiesto perché provasse gusto a farlo.
E mi ha risposto che lo faceva per allenarmi: se ti ritrovi a San Siro e ti fischiano in migliaia non puoi metterti a piangere; lui ti temprava, ti metteva alla prova per vedere se resistevi anche alla pressione negativa. Ma senza quegli hater - non solo gli intellettuali ma anche la pancia dei lettori - penso che non avrei avuto tutta questa attenzione. Quindi quelle critiche per quanto dolorose o fastidiose sono state poi funzionali a mettermi al centro dell’interesse. Parte del mio successo lo devo anche a questo. Diciamo che ho messo l’odio in fattura».
Stefano Bollani compie 50 anni: ha iniziato a suonare quando ne aveva 6, la lettera a Carosone, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.
Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul pianista e compositore, reduce dal successo del suo programma «Via dei Matti n.0» su Rai 3
Ha iniziato a suonare a 6 anni
«La nostra vita la scegliamo noi. Nel nostro cammino, se siamo attenti, incontriamo un sacco di maestri...magari per dieci minuti, ma lo sono. Niente è casuale ma serve sempre a farti capire qualcosa». Compie oggi 50 anni il pianista e compositore Stefano Bollani. Nato a Milano il 5 dicembre 1972 ha iniziato a studiare pianoforte a 6 anni. «Non discendo da una famiglia di musicisti - ha raccontato al Corriere -, mia madre era stonata come una campana, ma mio padre era appassionato di canzonette e trovavo per casa una grande quantità di dischi di musica rockettara. Sin da piccolissimo dissi ai miei genitori che da grande volevo fare il cantante. E loro, volendomi assecondare, mi proposero di studiare prima di tutto uno strumento. Scelsi il pianoforte».
La lettera a Renato Carosone
Sempre al Corriere Bollani ha raccontato che da piccolo sognava di diventare come Adriano Celentano: «Lui riassumeva, e riassume in sé, una serie di caratteristiche che mi attiravano. Uomo di spettacolo, showman televisivo, attore di cinema, interprete canoro eccezionale...e inoltre tanto simpatico». Poi però si è imbattuto in Renato Carosone «che era un Celentano con l’aggiunta del pianoforte: sapeva suonare stupendamente, cantare, intrattenere il pubblico, divertire la gente con musica gioiosa. Ero un suo fan sfegatato e una volta gli scrissi una letterina, per dirgli che avevo imparato tutti i suoi pezzi e per chiedergli consigli». E lui gli rispose: «Mi consigliò di studiare il blues, che è alla base della musica moderna».
Si è diplomato al Conservatorio di Firenze
Pur essendo nato a Milano si è diplomato al Conservatorio di Firenze, sotto la guida del maestro Antonio Caggiula: «Mio padre girava molto per lavoro e tutta la famiglia lo seguiva, ovviamente, quindi ho svolto i miei studi musicali dai 6 ai 15 anni al Luigi Cherubini - ha spiegato Bollani al Corriere -. Facevo il bravo bambino, studiavo e mi esercitavo con tutti i brani classici, ma siccome ero un talebano del jazz, mi sono cercato anche un insegnante specifico».
Tra jazz e pop
Nel corso della sua carriera Stefano Bollani ha attraversato musica classica, jazz ma anche pop: in passato è stato turnista per Raf e Jovanotti e ha collaborato con numerosi artisti, da Elio e le storie tese a Samuele Bersani, da Daniele Silvestri alla Bandabardò. Con Irene Grandi nel 2012 ha realizzato il disco «Irene Grandi e Stefano Bollani».
Sul palco dell’Ariston
Bollani è stato ospite speciale di Sanremo 2013 insieme a Caetano Veloso.
Paperefano Bolletta, l’omaggio in Topolino
A Bollani è ispirato il personaggio dei fumetti Disney Paperefano Bolletta, musicista amico di Paperino, che compare per la prima volta nella storia «Paperino e il segreto del tenore smemorato» sul numero 2808 di Topolino (2009).
In tv con Arbore
Nel 2005 Bollani è stato ospite fisso nel programma televisivo di Rai 1 Meno siamo meglio stiamo, di e con Renzo Arbore. Sempre a proposito di tv nel 2011 è stato ideatore, autore e conduttore di Sostiene Bollani su Rai 3 (al suo fianco Caterina Guzzanti, Jesper Bodilsen, Morten Lund e molti altri ospiti) e nel 2016 ha realizzato un late night show per Rai 1 dal titolo L’importante è avere un piano.
Vita privata
Stefano Bollani ha avuto una lunga relazione con la cantante Petra Magoni, da cui ha avuto due figli: Leone (nato nel 1999) e Frida (2004). Successivamente si è sposato con l'attrice Valentina Cenni, con cui ha condotto su Rai 3 la trasmissione «Via dei Matti nº0», che si è aggiudicata il Premio Flaiano per il miglior programma culturale (il 25 novembre scorso è terminata la seconda stagione).
Stefano Bollani: «La musica è la sostanza di cui siamo fatti». La casa immaginaria, lo show in tv, il gusto del silenzio. E la guerra. “Le note sono il linguaggio degli dei, volano più in alto della diplomazia”. Emanuele Coen su L'Espresso il 30 maggio 2022.
Non deve essere facile avere dei vicini di casa così. Una coppia di musicisti colti, carini, complici, quasi perfetti. Praticamente insopportabili. Per non parlare degli amici che frequentano, spigliati e brillanti. Ce n’è abbastanza per mettere in crisi l’ego di chiunque. Dalla loro abitazione immaginaria Stefano Bollani e Valentina Cenni, insieme nella vita e in tv, entrano nel salotto degli italiani all’ora di cena e portano il loro show, “Via dei Matti n° 0”: ospiti, canzoni, risate, leggerezza, ironia e stile. Un’anomalia nel panorama televisivo.
In attesa della nuova striscia quotidiana, in autunno, il pianista e la moglie, vocalist e attrice, propongono un ricco antipasto: “Via dei Matti Picture Show”, domenica 5 giugno in prime time su Rai3, un’ora e mezza dedicata al rapporto tra musica e cinema. Non solo Ennio Morricone e Nicola Piovani, ma compositori meno conosciuti come Fiorenzo Carpi, Piero Piccioni, Riz Ortolani e altri. «I nostri cuori sono in alto, nello show si suona e si canta, l’idea è rendere omaggio ai maggiori compositori italiani di musica per film. Ospiteremo due grandi amici: Luca Marinelli, in una delle sue rare apparizioni in tv, e Nicola Piovani, tra i massimi esperti della materia», sintetizza Bollani, istrionico e vulcanico, nel suo open space affacciato sulla terrazza che guarda i tetti di Roma. In fondo alla sala troneggia un bel pianoforte. «È un tre quarti, in concerto invece suono quello a coda, mi consolo così», gigioneggia il compositore, impegnato su mille progetti tra concerti e un disco in uscita, sempre con Valentina Cenni, che porta lo stesso titolo del programma tv: venti canzoni di autori molto diversi tra loro, da Antonio Carlos Jobim a Vinicio Capossela, da Enrico Ruggeri a “Sau sau”, canto tradizionale in maori dell’isola di Pasqua.
In tv lei e sua moglie sembrate molto affiatati. Siete così anche nella vita?
«La maggiore differenza è che nella realtà, a casa, mi alzo spesso dal pianoforte. Con Valentina facciamo un sacco di cose, anche ginnastica. Per una vita non l’ho fatta, grazie a lei finalmente ho iniziato. E poi viaggiamo spesso, facciamo progetti, procediamo per associazioni di idee. Partiamo da una canzone di Alan Sorrenti e finiamo a parlare di Einstein».
Ascoltate musica dalla mattina alla sera, immagino.
«Niente affatto, amiamo molto il silenzio anche se io sono un chiacchierone, tendo a riempire ogni spazio. Il silenzio è fondamentale: se ascolti musica tutto il giorno ti riempi di informazioni e perdi i dettagli, trascuri le cose importanti».
A proposito di cinema, una volta lei ha detto: «Ennio Morricone è il mio mito». Il film di Giuseppe Tornatore le ha rivelato qualcosa che non sapeva?
«Mi ha molto sorpreso. Sapevo che Morricone era un lavoratore instancabile, conoscevo alcuni aneddoti sul personaggio, sulla sua carriera, ma non la sua umanità così prorompente. Invece Tornatore tira fuori a meraviglia il suo pudore, il rammarico per non essere stato accettato dall’accademia dai compositori malgrado la notorietà. Aveva una sorta di timidezza, quasi un complesso di inferiorità. Fa molta tenerezza».
Mi ha colpito una frase in un suo libro: «Nel jazz l’errore può essere una porta che si apre». Le succede anche nella vita?
«Mi accade ogni giorno, ma nel frattempo ho cambiato definizione. Non userei quella parola perché presuppone un giudice: chi ha deciso che si tratta di un errore? Tu, Dio, la famiglia, Valentina, un tuo amico o il tempo? Preferisco parlare di “avvenimento” o “incidente di percorso”: se cominci a guardare la vita da questa angolazione ti accorgi che tutto ciò che ti accade può portarti a qualcosa di positivo, a cui non avevi pensato».
È tempo di bilanci: il 5 dicembre compirà 50 anni.
«È ancora presto! Non sono mai stato uno che si porta avanti, anche quando andavo a scuola ripassavo sull’autobus all’ultimo momento. Ne riparleremo tra qualche mese. Come disse una volta Frank Sinatra: “Buonasera a tutti, ho compiuto cinquant’anni ma in realtà ho lo spirito di un 49enne”. Sono d’accordo con lui».
Nella sua carriera ha collaborato con alcuni dei più grandi musicisti del mondo. Con chi vorrebbe lavorare in futuro?
«Con Louis Armstrong, ma al momento è complicato. Se proprio deve accadere facciamo che avvenga un po’ in là».
A volte la musica fa irruzione nella Storia. Di recente ha fatto il giro del mondo il video di un pianista che suona tra le macerie di Kharkiv completamente distrutta, in Ucraina. Era accaduto tempo fa con un altro pianista in Siria. Questi gesti la emozionano?
«Non mi trasmettono un’emozione musicale, ma di altro tipo. La musica può accostarsi a qualsiasi argomento: politica, temi sociali, guerra, pace. Ma per grandissima fortuna dell’intera umanità si occupa di temi ben più alti. Perché la musica sono le frequenze, i suoni, è la sostanza di cui siamo fatti. Per gli antichi greci e per gli antichi indiani è il linguaggio degli dèi, l’armonia dei pianeti rimanda all’armonia come la conosciamo, le forme della musica somigliano alle forme della natura. La musica si muove su questo livello, dopodiché ben vengano i gesti che vogliono attirare l’attenzione su qualcosa».
L’Ucraina, con la Kalush Orchestra, ha vinto l’edizione 2022 di Eurovision. La musica può riuscire dove non arriva la diplomazia?
«Fa bene allo spirito, va molto oltre la diplomazia. Faccio due esempi nobili di integrazione avvenuta tra musicisti: l’orchestra che gestisce Daniel Barenboim, composta da musicisti israeliani e palestinesi, e l’orchestra sinfonica creata da Gustavo Dudamel in Venezuela, fatta di ragazzi presi dalla strada che ora vanno in tour in giro per il mondo. In genere, quando le persone si mettono insieme per un progetto, un’idea politica, sono di parte, mentre quando partecipano a un rito religioso o a un progetto musicale inseguono il bello, non sono contro qualcosa».
Il jazz è di per sé una musica ibrida, meticcia, rappresenta un nemico di chi vuole alzare muri tra i popoli.
«Dirò di più: il jazz non è nemico di chi vuole alzare i muri, ma indifferente, viaggia su un altro piano. Come faccio a discriminare un musicista perché è russo, israeliano, palestinese, ucraino o svedese? Non è proprio pensabile. I musicisti stanno bene con i musicisti».
In diverse occasioni ha partecipato con i suoi concerti ai progetti di Emergency. L’anno scorso è scomparso Gino Strada, che ricordo ha di lui?
«Ho una grande e sincera ammirazione per Gino Strada, per tutto quello che faceva e per il piglio con cui lo portava avanti. Ci vuole tigna, qualità molto rara che lui aveva. Era un combattente per cause giuste. Per fortuna era dalla parte del cuore».
Parlavate di musica?
«Non tanto perché con lui era divertente stare sul pezzo, sui temi di Emergency. C’era talmente da fare che l’ultima cosa che mi veniva in mente era chiedergli se gli piaceva Beethoven o Mozart».
Stefano De Martino: «Belen? Credo ci sia un transfer emotivo nei nostri confronti. Non ci risposeremo. Per Emma ho tanto affetto». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.
Il conduttore: «Da ragazzo per amore sono stato fruttivendolo». Il lavoro: «Prima di ogni decisione importante chiamo Maria De Filippi». La cura di sé: «Vado dallo psicologo tutte le settimane, mi aiuta». Il figlio Santiago: «La sua nascita il giorno più bello della mia vita».
Stefano De Martino il 9 giugno debutta al cinema con Il giorno più bello di Andrea Zalone, accanto a Paolo Kessisoglu, Luca Bizzarri, Violante Placido e Fiammetta Cicogna.
Che voto si dà come attore?
«Uno!».
Suvvia, non si butti giù.
«Ma no, mi do 1 perché non ho mai pensato di fare l’attore. Mi sono affacciato con curiosità all’esperienza, mi affascina il dietro le quinte».
Qual è stata la cosa più difficile?
«Aspettare. Sarà che ora sono più coinvolto nella scrittura dei miei programmi e i ritmi sono più frenetici. Sul set mi è capitato tra una scena e l’altra di dover stare due ore seduto truccato con i tovaglioli infilati nella camicia per non sporcare il costume e un attimo dopo fare la battuta».
Ha fatto fatica a imparare il copione?
«No. In televisione lavoro senza gobbo, ma non lo dico per vantarmi: semplicemente non lo so usare, non riesco a dissimulare».
E suo figlio Santiago ha già visto il film?
«No, non ancora: lo voglio portare in sala. Il suo parere sarà il piu severo di tutti. Mi dirà “papà mi fai ridere”, e non nell’accezione che tutti ci auguriamo!».
Se le chiedo che lavoro fa oggi cosa risponde?
«Forse il conduttore, perché nonostante adesso sia sempre più difficile etichettare i mestieri perché facciamo tutti più cose, la conduzione rappresenta meglio me e le mie passioni».
Aldo Grasso, a proposito del suo «Bar Stella», ha scritto: «Ci troviamo di fronte alla classica emulazione fallita di un modello alto, soprattutto perché De Martino non ha il carisma, la preparazione, l’ironia di Renzo Arbore».
«Grasso non è famoso per essere clemente, ma io non vado d’accordo con i complimenti, preferisco misurarmi con una critica. Mi spiace che non abbia colto la citazione della prima puntata: il critico televisivo del programma è un omaggio a lui».
Ma lei vorrebbe diventare il nuovo Arbore?
«Ma no, è che nessuno inventa nulla. Copiare per copiare, potevo copiare anche di peggio...».
La penalizza di più l’aspetto o l’età?
«Credo che siano strettamente collegati. Quando avrò qualche capello bianco in più e più ore di dirette sulle spalle sarà più facile scardinare il cliché. Resterò un giovane conduttore fino a 55 anni, i tempi in Italia sono questi. Mi prenderò il lusso di essere un debuttante per altri 20 anni: mi concederanno qualche errore in più».
Quale programma vede come punto d’arrivo?
«Nessuno, perché quelli che mi piacciono sono disegnati sui conduttori stessi. Quando vedo Paolo Bonolis con Avanti un altro! so che quella cosa lì la può fare solo lui».
Ha un rito prima di un programma?
«Ascolto musica, da Carosone a Sinatra».
È scaramantico?
«Ho piccole manie: indosso sempre prima la scarpa sinistra e poi la destra; sulle scalette uso solo l’evidenziatore giallo di un certo tipo».
«Made in Sud», «Stasera tutto è possibile», «Bar Stella». In quale si è divertito di più?
«Stasera tutto è possibile mi è servito per la conduzione, subentravo ad Amadeus e dovevo trovare una formula mia. Bar Stella mi ha coinvolto e divertito di più: parte da un’idea mia e di Riccardo Cassini. Ha un valore affettivo perché era il nome del bar di mio nonno».
Stefano Scassillo: ha fatto in tempo a vederlo?
«No, è mancato nel 2016, mia nonna l’anno scorso. Però è stato un modo per glorificare anche la loro vita. Una scelta rischiosa, il progetto poteva risultare fallimentare. Con mio nonno giocavo a carte su un tavolo del bar in chiusura. Mi ha insegnato la dedizione al lavoro e come si sta al mondo: lo vedevo modulare il comportamento a seconda dei clienti».
Gli hanno mai chiesto il pizzo?
«A Torre Annunziata il Bar Stella era un’istituzione, c’era rispetto. Poi con l’avvento degli esponenti più giovani della criminalità organizzata è stato più difficile gestirlo. Credo sia stata una delle ragioni che lo hanno portato alla chiusura, difficilmente si piegava a certe richieste».
Che infanzia ha avuto?
«Il primo ricordo che ho è del mare e del lido, ogni anno la mia famiglia prendeva una cabina di legno. Posso ancora sentire l’odore delle stuoie di vimini che mia madre portava nella borsa, io le camminavo dietro e mio padre ci seguiva».
Mamma maestra di sostegno, papà ballerino. Per lei è stato inevitabile ballare?
«Come tutti i figli d’arte ho avuto una repulsione per la danza e ho voluto prima provare gli altri sport. Poi accompagnando in bici alla scuola di danza mia sorella Adelaide, che ha cinque anni meno di me, mi sono innamorato anch’io. Ho cominciato a 10 anni, ero l’unico studente della mia scuola a fare danza».
Sua sorella balla ancora?
«Lavora con me, è il mio valore aggiunto. Ha 27 anni e si occupa della logistica, è la problem solver. Ho anche un fratello, Davide, che come tutti i diciottenni non sa cosa fare nella vita. Io alla sua età avevo già le idee molto più chiare».
A 18 anni lei era al Broadway Dance Center.
«L’America è molto formativa, ha un approccio professionale: qui in Italia la danza è vista come un hobby, salvo diventi un mestiere».
Dove abitava?
«Al Greenwich Village. Riuscivo a mantenermi con una borsa di studio, e per arrotondare lavoravo come cameriere nei locali italiani».
Ha fatto anche il fruttivendolo.
«Sì, prima di Amici. Quando sono ritornato dall’America il mestiere più gettonato era cameriere, ma siccome avevo una fidanzata che andavo a scuola e l’unico momento uscire era durante il weekend, ho virato sul fruttivendolo».
E si alzava alle 4.30 del mattino.
«Ho sempre trovato qualcosa di romantico nei mercati ortofrutticoli. Quando cominci a lavorare così presto hai un vantaggio sul resto del mondo, ti sembra quasi di far parte di un’élite».
In quegli anni poteva diventare tante cose.
«Sono cresciuto a Torre Annunziata nei primi anni ‘90, i tempi del pizzo e della malavita organizzata. Ma nei luoghi più difficili ci sono tantissime persone perbene che si fanno scudo con la loro professionalità per smentire quella fama».
Ad «Amici» come andò?
«Avevo fatto un’audizione con la Scuola Del Balletto Di Toscana, ma quando ho visto il costo degli affitti sono tornato a Napoli un po’ sconfitto: la vita da artista non me la potevo permettere. Amici è stato l’ultima chance che mi sono dato».
Quale incontro l’ha emozionata di più?
«L’unica persona che mi è sembrata onestamente poco terrena è Diego Armando Maradona: non sono un patito del calcio, non pensavo di subirne il fascino, ma lui mi è sembrato quasi un essere mitologico. L’ho incontrato a Roma in una puntata di Amici».
Maria De Filippi la sente ancora?
«Sì, mi confronto spesso con lei e so che è un piccolo grande lusso per il mio mestiere. Prima delle grandi decisioni la chiamo».
Ed Emma Marrone?
«È una persona bellissima. La nostra storia è stata una cosa di gioventù che ricordo con affetto. Mi fa piacere sia riuscita a evolversi come artista: è una cantante affermata, fa cinema, tv...».
Va ai suoi concerti?
«Quando capita volentieri, l’ultimo prima del Covid. Siamo rimasti in ottimi rapporti».
E veniamo a Belén. Ormai siete gli Al Bano e Romina 2.0. State di nuovo insieme, giusto?
«Sì sì. Credo ci sia una sorta di transfer emotivo nei nostri confronti. Tutti hanno avuto un amore tormentato: nella quasi morbosità con cui vogliono capire come va a finire c’è la velata speranza che ci sia un lieto fine anche per loro».
Vi siete sposati nel 2012. Finì perché eravate troppo giovani o per la pressione mediatica?
«In dieci anni cambiano tante cose. La vita fa percorsi strani e ho smesso di analizzarli. Cerco di improvvisare, come faccio nel lavoro».
Va ancora dallo psicologo?
«Tutte le settimane. Si parla tanto di salute fisica, ci prediamo cura di noi stessi il 60-70% in più rispetto a nostri genitori. Mi sembra stupido dedicare così poco tempo alla salute mentale».
In che cosa le è stato utile?
«Ho imparato ad auto analizzarmi, a capire come funziono sotto stress. Riesco a guardarmi da fuori, prima ero in balia delle emozioni. Vanno fatti dei tentativi, non è scontato trovare subito lo psicologo giusto».
Il lavoro su di sé l’ha aiutata anche a vivere il rapporto con Belén in modo diverso?
«Ma sì, sicuramente. I problemi che ho avuto tra i 20-25 anni li hanno tutti i ventenni: si fa fatica ad avere un’identità ben precisa. Quando sei con un riflettore sempre puntato addosso, la mancanza di consapevolezza emerge. Oggi mi riconoscono grazie al mio lavoro ed è più appagante per me, mentre la cosa difficile dell’essere noti da giovani è che tutti ti conoscono quando non sei pronto: non sai neanche tu chi sei».
Che papà è?
«Quando Santiago è nato è stato il giorno più bello della mia vita, mi ha catapultato nella vita adulta da un secondo all’altro. Con lui provo a essere un padre presente, cerco di costruirmi una quotidianità, non credo ai grandi gesti. Se non ci sono, mi piace mandargli un messaggio prima che va a scuola e fare una video chiamata quando esce. È il nostro rito quotidiano».
E se è a Milano?
«Provo ad accompagnarlo a scuola la mattina. Il tablet ha sostituito un po’ il ciuccio, ma i figli preferiscono sempre giocare con i genitori».
Che rapporto ha con Luna Marí, la secondogenita di Belén?
«È la sorella di mio figlio, mi sento uno zio».
Ma voi avete mai divorziato?
«Oddio, non ne sono sicuro, ma credo di sì».
Le piacerebbe risposarla?
«Di matrimonio ne ho fatto uno, e quello nostro per come si è svolto basta e avanza per altre due-tre vite!».
Oggi è felice?
«Sono felicissimo».
Matteo Cruccu per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2022.
C'è stato un tempo in cui non c'erano pandemie e (quasi) terze guerre mondiali a frapporre barriere tra i luoghi e le culture. E c'è stato un tempo in cui c'era una grandissima band, a cui quel mondo, libero, piaceva girarlo: parliamo del biennio 1979-80. E dei Police e di «Around the World», copioso progetto, tra dvd, cd e quant' altro, con materiali inediti, della tournée con cui il gruppo conquistò il pianeta, da Hong Kong al Cairo, da Atene a Bombay.
Senza dimenticare i due storici concerti, per noi, di Milano e Reggio Emilia. Stagione eroica che ci racconta Steve Copeland, della band l'estroso batterista (nonché ritenuto uno dei più validi di sempre), amico-nemico, come vedremo, dell'altro totem dei Police, Sting, con il povero Andy Summers, il chitarrista, a fare da cuscinetto. A luglio Copeland compirà 70 anni e ama molto il nostro Paese, con varie escursioni passate (ha collaborato con Max Gazzé e la Notte della Taranta) e future (un'opera rock con Irene Grandi , di cui ha scritto le musiche) .
Come mai questo progetto "Around the World"?
«Andy ha scoperto questo materiale quasi dimenticato. E abbiamo ritenuto meritasse una nuova vita».
In quelle immagini e in quei suoni siete potentissimi: qual era il segreto di una macchina da live come voi?
«Eravamo interdipendenti, tutto aveva senso in funzione degli altri, perché eravamo solo in tre. E se uno riempiva gli spazi, l'altro li lasciava, in modo molto fluido. Pochi ma buoni, insomma».
L'altra forza è stata la vostra non incasellabilità: né punk, né reggae, né rock, né pop, ma un po' di tutto questo
«Quando iniziammo nel 1976-77, volevamo in realtà essere punk, dogmaticamente punk. Poi scoprimmo che Sting non era un urlatore, ma un superbo cantante. Che io sapevo improvvisare come un jazzista e Andy anche. E che forse eravamo qualcosa di diverso. E di più».
Il posto più strano in cui suonaste?
«Bombay, non ci conosceva nessuno. Suonammo all'aperto, la gente ci sentì per le strade e riempi all'inverosimile lo spazio. Una magia unica».
E poi l'Italia: non era semplice per il rock, allora.
«Ricordo perfettamente le cariche della polizia e la gente che non voleva pagare il biglietto, era un posto spaventoso per i musicisti. Incredibile, perché poi è diventato uno dei luoghi più belli dove suonare, tra piazze e castelli».
Eravate molto giovani, ma anche poco inclini ai cliché del rock donnaiolo e tossico. Sting però praticava anche allora le famose cinque ore di sesso tantrico?
«Ma va, non ne avrebbe mai avuto il tempo, tra un tourbus e l'altro »
Ritornando seri: perché la magia non è continuata?
«A un certo punto abbiamo avuto diverse idee sulla musica: Sting era ossessionato dal perfezionismo, io avevo una concezione più anarchica del mestiere e la combinazione non ha più funzionato»
E ci avete riprovato 14 anni fa, ma è stato un unicum.
«Alle prove liti come un tempo, poi al concerto tutto passava, alla sera davanti a un bicchiere di vino eravamo degli amiconi. Poi alle 9 di mattina, alle nuove prove, giù di nuovo a litigare come dei pazzi. Perché io e Sting andiamo d'accordissimo, basta che non parliamo di musica».
Per questo esclude future reunion?
«Sì, i Police me li porto in giro a modo mio, con delle partiture orchestrali. Così non devo discutere con nessuno».
· Steven Spielberg.
Il bambino Steven racconta com'è diventato Spielberg. Il regista americano nell'autobiografico "The Fabelmans" ancora una volta affronta il difficile rapporto madre-figli. Pedro Armocida il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Il più grande spettacolo del mondo. È The Fabelmans, il nuovo, straordinario film di Steven Spielberg, presentato ieri in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma in accordo con la sezione autonoma dedicata ai più giovani Alice nella città, in uscita per Natale, il 22 dicembre, nelle sale distribuito da 01 con Rai Cinema e Leone Film Group. Ma appunto il trentaquattresimo film di Spielberg inizia con il protagonista bambino che a otto anni viene portato dai genitori per la prima volta al cinema dove danno proprio Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille con la famosa sequenza dei treni che si scontrano e che ossessionerà il piccolo, un po' come all'inizio della storia del cinema, nel 1896, gli spettatori di fronte al corto dei fratelli Lumière L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Tanto che si trasformerà in un regista in erba rimettendo in scena, con i trenini casalinghi, quello scontro.
Naturalmente il riferimento del piccolo di casa Fabelman, una famiglia ebrea, a Steven Spielberg, di famiglia ebrea, non è casuale perché il film è una sorta di sua autobiografia forse neanche troppo romanzata, dato che ha aspettato che morissero entrambi i genitori, il film infatti è dedicato ad Arnold, il padre, l'ultimo a mancare nel 2020. Ad aiutarlo a compiere la difficile impresa, sicuramente anche catartica, è stato lo sceneggiatore premio Pulitzer Tony Kushner, col quale aveva già lavorato in Munich e in Lincoln.
Ciò che è presente in tutti i film del regista, nato a Cincinnati in Ohio 76 anni fa, il prossimo 18 dicembre, ma che si è trasferito, come il protagonista del film per via del lavoro del padre ingegnere che vuole guadagnare sempre di più (sono gli anni in cui il sogno americano è reale), tra il New Jersey, l'Arizona, per finire in California, e cioè il conflitto dei bambini con il mondo degli adulti, la figura assente dei padri compensata da quella più amorevole delle madri, è raccontato in The Fabelmans per filo e per segno. Spielberg si addentra nella sua memoria impressa nella pellicola che usava per fare i primi filmini, prima solo riprendendo la famiglia, poi con le prime messe in scena di battaglie (Escape to Nowhere si intitola il primo film girato con gli scout) che riprenderà, con la stessa passione e maestria, ma con molti più soldi, in film capitali come Salvate il soldato Ryan.
Proprio durante il montaggio in moviola di un tranquillo weekend di campeggio nota che la madre, superbamente interpretata da Michelle Williams, ha sguardi e intese particolari più per l'amico di sempre di famiglia, «zio» Benny appunto (Seth Rogen), che per il padre interpretato da Paul Dano che già ipoteca il suo primo Oscar da protagonista.
La storia si fa dunque immediatamente universale perché gioca sugli elementi basilari della vita di ognuno di noi. Il giovane Sammy Fabelman, interpretato da piccolo da Mateo Zoryon Francis-DeFord e, da diciottenne, da Gabriel LaBelle, sogna di fare il regista ma il padre continua a parlare di «hobby» mentre l'unica che crede in lui è la mamma. Il racconto di questa figura femminile, fragile e forte allo stesso tempo, complessa e molto moderna, è una delle cose più struggenti che il cinema abbia prodotto in molti anni. Poi ci sono le tre sorelle, le diverse scuole dove ricominciare tutto daccapo, tanto che in una viene bullizzato perché ebreo, dunque, come tanti, anche oggi, un diverso. Proprio sulla questione religiosa, Spielberg usa i toni più comici, nella rappresentazione yiddish della famiglia con la nonna e lo zio, che si trasformano in quelli quasi dissacranti, ed è un elemento nuovo nel suo cinema, nel ritratto della prima fidanzatina supercattolica, con il crocifisso e le immagini «così sexy» di Gesù in camera.
The Fabelmans è dunque un «coming of age» di un ragazzo che ha fatto la storia del cinema inseguendo un sogno. È cinema classico allo stato puro come quello prodotto dal regista con la benda che il giovane Spielberg incontrerà in un ufficio di una major e che gli insegnerà a posizionare la macchina da presa con la giusta prospettiva sull'orizzonte. Dell'arte e della vita.
Barbara Costa per Dagospia il 6 marzo 2022.
“The bitch is back!!!”: è così, è la verità, ed è proprio la bitch in questione ad annunciarlo: la pornodiva Stormy Daniels torna al porno! Come regista, per "Wicked Pictures", come ambasciatrice del marchio, e non (per il momento?) come attrice.
“Il contratto è firmato, ed è a sette cifre!” esulta Stormy, che a 43 anni e dopo 4 di stop ricomincia, e il 2022 segna il ventennale della sua entrata nel porno, precisamente da "Heat", primo film in cui sguainò i suoi imponenti seni, e gambe e lingua, e un sesso bagnatissimo, mostrando quello che ben sapeva fare, quello che già da tempo – a dirla tutta, da minorenne – dava prova: da 17enne ma non nel porno, bensì nello spogliarello, sotto contratto (legale?) a far strip tease su e giù nei club della nativa Louisiana… e visto che tocco la legalità, caro Donald Trump, stai sereno!
Puoi continuare a far comizi in giro per l’America, Stormy non tornerà alla carica: i contenziosi tra voi sono conclusi… ma ve le ricordate, quante seccature la bionda Stormy ha dato a Trump?
Quando, guarda un po’ proprio con Trumpone sceso in campo per la Presidenza, Stormy se ne va in tv, alla CBS, al programma "60 Minutes", a dire tutta contrita che lei Donald Trump lo conosce, e bene: loro due nel 2006 – ovvero quando Trump era un tycoon famoso, sì, ma un privato cittadino – hanno avuto “a Tahoe Lake, in Sierra Nevada, in un hotel di Trump, un rapporto sessuale consensuale, e non protetto, e consensuale pure nel non utilizzare il condom”, e lui era fresco sposo di Melania e papà di Bannon, “e mi confidò che con Melania già vivevano in stanze separate”, pigolò avvilita Stormy, in tv mica “per fare la vittima”, in tv mica “per i soldi”, piuttosto “per un dovere di verità”, in barba a quel “contratto di riservatezza” stabilente che “in cambio di 130 mila dollari” lei si impegnava a starsi zitta, e a non dire che “Trump ha un arnese piccolissimo, a forma di fungo, tipo fungo velenoso”, fungo che a Stormy “faceva gran ribrezzo”.
Ribrezzo che scompare al pensiero di Trump che ti apre le porte della fama non porno: quando ha incontrato Stormy, Trump stava girando il reality "The Celebrity Apprentice" e “mi promise una parte e non solo: mi promise che lo avrebbe truccato così che la mia partecipazione durasse più a lungo”.
Partecipazione che poi non si concretizzò. “Io e Donald ci siamo visti una seconda volta, in un albergo a Los Angeles”, e lui voleva “di nuovo fare sesso, ma io gli ho detto no”, appunto per ripicca del mancato ingresso nel reality.
Che cara, la Stormy, ci ha tentato a mandar all’aria Trump nel frattempo diventato presidente USA, in un’accesa – e mediatica – baraonda di accuse e controaccuse poi sfociate in più processi dagli esiti che hanno (s)contentato e no tutte e due le parti. Che cara, la Stormy, che con la notte di sesso passata con Trump ha stra-monetizzato una carriera porno già di per sé sfavillante: il porno della sua tresca con Trump, ci ha strombazzato in parodie, e Stormy ha a dismisura aumentato presenze dentro e fuori dal porno, e ci ha scritto pure un libro, "Full Disclosure", best-seller in cui ha svelato altri confidenziali dettagli, come la predilezione di Trump ad essere “sculacciato con una copia di Forbes con lui in copertina”, e che hanno fatto sesso per lo più in missionario.
Memoir che ha portato sul conto in banca di Stormy una cifra pazzesca per cui Michael Avenatti – l’avvocato da lei assunto per difenderla da Trump – è stato appena condannato a risarcirle i 300 mila dollari e più che si è intascato (ma Avenatti è ricorso in appello).
Stormy che quando col suo avvocato era pappa e ciccia postava sui social foto di CD minacciosamente compromettenti le attività amatorie extraconiugali di Donaldone… perché questa è anche la politica, e chi ha sottovalutato la portata dell’uragano Stormy ha sbagliato, come pure si è trascurata l’abilità politica della signora, una che tra un porno e l’altro, e recitato e diretto, e lesbo e sadomaso, votava democratico fino a che si è nel corpo e nell’anima scoperta una repubblicana e come tale si è candidata per un seggio al Senato, candidatura che è durata solo un mese, candidatura forse presagio di altre politiche imprese… dai, stai sereno, Donald Trump, ora Stormy assicura che “quelle battaglie sono finite”, ora Stormy è tornata al porno, a Wicked, la casa che l’ha lanciata, e per la quale ha pornato in esclusiva 16 anni.
E comunque in questi ultimi anni di scandali sesso-politici e aule di tribunali Stormy Daniels è stata via dal porno ma non ferma: ha lanciato un lubrificante a base di marijuana (“per sensazioni speciali mentre si fa sesso!”), è stata in tour con uno strip show da lei chiamato "Make America Horny Again" (!), è stata autrice e star di comics, e ha collezionato innumerevoli ospitate in talk show, ed è stata pure invitata a parlare a Oxford!
Di recente Stormy per un canale mainstream ha girato "Spooky Babes", 13 episodi su case e posti infestati di creature paranormali. Stormy Daniels ha una figlia 11enne, e 2 matrimoni falliti alle spalle. Il suo primo marito l’ha accusata e denunciata di averlo picchiato (per una bolletta non pagata!?), denuncia in seguito ritirata.
Gennaro Marco Duello per fanpage.it l’8 novembre 2022.
Sta per scoppiare di nuovo la Sly-mania. Il 13 novembre sarà distribuita su Paramount+ la sua prima serie tv da protagonista, "Tulsa King" e per l'occasione, Sylvester Stallone si racconta a The Hollywood Reporter. Per l'attore, 76 anni, è un momento nuovo dal punto di vista della carriera, impegnato ancora una volta a rinfrescare la sua aura da divo di Hollywood balzando da una piattaforma all'altra. Dopo "Samaritan" (bocciato dalla critica, ma tra i più visti su Prime Video) ora prova una serie che incrocia "I Soprano" e "Yellostone" unendo Terrence Winter e Taylor Sheridan, le menti dietro i prodotti citati. Ma è anche il momento dei rimpianti: "Ho rifiutato 34 milioni di dollari per Rambo 4, che stupido" e delle occasioni mancate. Ecco le sue parole.
Le parole di Sylvester Stallone
James Hibberd, autore dell'intervista, chiede a Stallone se sente il peso dell'età che avanza. Sly non ha dubbi: «Mi sento un immaturo. Sono sempre stato contrario alle citazioni tipo "dimostra la tua età" oppure "invecchia con grazia". Come si fa ad invecchiare con grazia? Non c'è più niente di grazioso in te. Allora più invecchio, più cerco di abbracciare il mio bambino interiore. Sento la mia età solo perché ho avuto un sacco di infortuni: cinque operazioni alla schiena, tre al collo, a entrambe le spalle, ginocchia, caviglie, le mani. Più di 25 volte sono stato messo fuori gioco. Ma dopo un po' di riscaldamento, mi sento ancora bene. Nessuno mi mette fuori gioco».
I rimpianti di Sylvester Stallone
Sylvester Stallone, oggi, giudica negativamente un periodo della sua carriera. Quello a cavallo tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, dove ha sempre detto di aver fatto brutti film: «Mi sento come se avessi perso un sacco di tempo. Ora mi rendo conto che nella pistola sono rimasti solo pochi proiettili. Pochissimi. Quando sei giovane, spari a casaccio in modo selvaggio e speri di colpire qualcosa.
Ora non ho il lusso di mancare, specialmente con la famiglia e i bambini. Trovo che sia il mio più grande rimpianto. Tutti dicono: "Vorrei aver mostrato di più amore" o "Vorrei aver trascorso più tempo con i bambini". Sto guidando quella barca. Questo è uno dei motivi per cui ho fatto il reality show per il quale ho preso un sacco di merda. L'ho fatto perché ho pensato potesse essere l'ultima cosa ‘casalinga'».
I film, le delusioni e i 34 milioni di dollari a cui ha detto no
A questo punto, l'intervista prende una piega molto spassosa con Sylvester Stallone che fa la lista dei film che gli hanno spezzato il cuore. "Witness fu un errore" ma soprattutto "Fermati, o mamma spara" che Stallone accettò solo perché aveva sentito che era stato contattato Schwarzenegger, come confermato dallo stesso Arnold. Ora i due sono grandi amici, ma all'epoca tra i due c'era una forte rivalità. E poi i 34 milioni di dollari rifiutati per Rambo 4, che con l'inflazione dell'epoca fanno 84 milioni di dollari, oggi.
«Stavamo facendo Rambo III e pensavamo che sarebbe stato il più grande successo di sempre, prima che uscisse. Ero stato già pagato una fortuna per farlo. Così, i produttori mi dicono: "Facciamo anche Rambo IV". Loro dicono: 34. E io rifiuto. Che idiota!»
Ma Sylvester Stallone rivendica anche film che ha amato fare e che per un motivo o per un altro sono stati un insuccesso: "La vendetta di Carter mi sembrava un film buono, anche Cop Land speravo andasse meglio".
Matteo Regoli per cinema.everyeye.it l’8 novembre 2022.
Creed 3 sarà il primo film della saga di Rocky senza Sylvester Stallone, ma in una nuova intervista bomba con The Hollywood Reporter, il regista e interprete di Rocky Balboa ha rotto il silenzio sul suo addio al franchise che l'ha reso celebre in tutto il mondo.
Parlando con il magazine, Stallone ha espresso il suo disagio per la direzione presa da Creed III ed è tornato a rincarare la dose contro il produttore Irwin Winkler, senza risparmiare neppure il suo 'pupillo' Michael B. Jordan, che del terzo episodio della saga di Adonis Creed sarà non solo protagonista ma anche regista al debutto: "Questa è una situazione molto spiacevole per me perché so quali erano le idee originali per questo terzo film. Semplicemente è stata presa una direzione abbastanza diversa da quella che avrei preso io. Stiamo parlando di filosofie diverse: quella di Irwin Winkler e di Michael B. Jordan. Auguro loro ogni bene, ma sono un tipo molto più un sentimentale di loro. Mi piace che i miei eroi vengano picchiati, ma non voglio che abbiano sentimenti oscuri. Credo che ci sia già abbastanza oscurità nel mondo."
Nella stessa intervista, Sylvester Stallone ha parlato anche dello spin-off Drago attualmente in lavorazione: "Ho chiamato Dolph proprio oggi, perché ha avuto un problema alla caviglia, poverino. E' un problema con cui convive da sempre. Ma questo film il classico esempio di questi produttori che prendono i migliori aspetti di Rocky e ci lavorano per conto loro senza nemmeno chiedermi se voglio far parte della cosa. Non sono un produttore esecutivo dei film di Creed. Il regista Ryan Coogler lo è, la star Michael B. Jordan lo è, i figli di Winkler lo sono. Io no. Sono l'unico rimasto fuori".
Sylvester Stallone, matrimonio finito con Jennifer Flavin (che chiede un risarcimento). Laura Zangarini su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022.
Jennifer Flavin, ex modella, ha depositato la richiesta presso un tribunale della Florida. Qualche giorno fa Sly aveva coperto un tattoo a lei dedicato.
Jennifer Flavin, moglie di Sylvester Stallone, ha chiesto il divorzio da «Rocky» dopo 25 anni di matrimonio. Lo riferisce Tmz. Flavin, 54 anni, ha presentato la richiesta presso un tribunale della contea di Palm Beach, in Florida. La loro relazione durava dal 1988 ed erano sposati dal 1997. La coppia ha tre figlie: Scarlet, 20 anni, Sistine, 24 anni, e Sophia, 25 anni. «Il matrimonio è irrimediabilmente rotto», Stallone «si è impegnato nella dissipazione intenzionale, nell’esaurimento e/o nello spreco dei beni coniugali, avendo un impatto economico negativo sul patrimonio coniugale», si legge nella documentazione da cui emerge una richiesta di risarcimento di Flavin, che chiede inoltre di inibire il marito dal «vendere, trasferire, assegnare, gravare o dissipare qualsiasi bene durante la pendenza del procedimento».
Qualche giorno fa l’attore 76enne aveva fatto coprire il tatuaggio con il volto della moglie con il muso di Butkus, il suo bullstiff apparso anche nei film di Rocky (Birillo). Mentre in maggio, in occasione delle celebrazioni per i loro 25 anni di matrimonio, Sly aveva postato un amorevole messaggio su Instagram: «Buon 25° anniversario alla mia fantastica moglie — aveva scritto la star —. Non ci sono parole sufficienti per descrivere ciò che questa donna incredibilmente disinteressata e paziente ha significato per le nostre vite e vorrei solo che potessero essere altre 25! Grazie tesoro!». Non meno flautata la replica di Flavin: «Grazie amore mio! Ti amo tanto e passeremo insieme i prossimi 25 e più anni! Sarò tua per il resto della mia vita!». Poi, due settimane fa, la foto con le figlie su Instagram: «Queste ragazze sono la mia priorità. Nient'altro conta. Noi 4 per sempre».
Sylvester Stallone, la moglie chiede il divorzio dopo 25 anni. La Repubblica su il 24 Agosto 2022.
Jennifer Flavin ha chiesto il divorzio dalla star di Hollywood dopo che sono stati inseparabili dal 1988. I due si sono sposati nel 1997
La ex modella e imprenditrice Jennifer Flavin, moglie di Sylvester Stallone, ha chiesto il divorzio dalla star nota in tutto il mondo soprattutto per i ruoli di Rocky e Rambo dopo 25 anni di matrimonio. Lo riferisce Tmz. Flavin, 54 anni, ha presentato la richiesta presso un tribunale della contea di Palm Beach, in Florida. La loro relazione durava dal 1988 ed erano sposati dal 1997. La coppia ha tre figlie: Scarlet, 20 anni, Sistine, 24 anni, e Sophia, 25 anni.
Stallone è anche padre di Seargeoh, nato dal matrimonio con Sasha Czack mentre il suo figlio maggiore, Sage, nato dall'unione con Starlin Wright, è morto nel 2012.
La rivista People racconta che solo tre mesi fa Stallone aveva pubblicato una foto su Instagram in cui la coppia accarezzava un cavallo. Il post era una dedica ai 25 anni di matrimonio. Mentre lo scorso 10 agosto l'ex modella, sempre su social media, aveva pubblicato uno scatto in cui abbracciava le tre figlie. "Queste ragazze - diceva nel post - sono la mia priorità. Null'altro importa. Noi quattro per sempre".
"Il matrimonio è irrimediabilmente rotto", Stallone "si è impegnato nella dissipazione intenzionale, nell'esaurimento e nello spreco dei beni coniugali, avendo un impatto economico negativo sul patrimonio coniugale", si legge nella documentazione da cui emerge una richiesta di risarcimento di Flavin, che chiede inoltre di inibire il marito dal "vendere, trasferire, assegnare, gravare o dissipare qualsiasi bene durante la pendenza del procedimento". Qualche giorno fa l'attore 76enne ha fatto coprire il tatuaggio con il volto della moglie con il muso di Butkus, il suo cane bullstiff apparso anche nei film di Rocky (Birillo).
Jennifer Flavin a 19 anni fa la modella e nel 1988 conosce Sly in un ristorante a Beverly Hills. Dopo circa sei anni di relazione, nel marzo 1994 lui la lascia con una lunga lettera. Nello stesso anno lei si lancia nell'imprenditoria, fondando con alcuni soci l'azienda cosmetica Serious SkinCare. Nel 1995 si riconcilia con Stallone, che sposa con cerimonia civile il 17 maggio 1997 a Londra, ed a Oxford con cerimonia religiosa.
I pentiti del tatuaggio: Sylvester Stallone copre il ritratto della moglie con quello del cane. Dalla star di Rocky - che ha voluto ricordare il suo fedele animale a scapito di Jennifer Flavin (e già girano rumors su una crisi di coppia) - fino a Britney Spears, Justin Bieber, Angelina Jolie o Johnny Depp, sono sempre più numerose le celebrità che trasformano o cancellano i propri tattoo. Come tre su quattro italiani, i più tatuati al mondo. Silvia Luperini su La Repubblica su il 24 Agosto 2022.
Sylvester Stallone ha un nuovo tatuaggio: un tributo al suo cane Butkus a cui era molto affezionato e che l'ha accompagnato nella saga di Rocky. Però il nuovo ritratto sostituisce quello dedicato alla moglie Jennifer Flavin. La nuova opera, esibita senza dare spiegazioni, ha scatenato i rumors sui social. In molti si sono chiesti se la coppia fosse in crisi, gossip smentito subito dall'addetta stampa della star Michelle Bega che si è affrettata a scrivere che "Il signor Stallone ama la sua famiglia con la quale sta girando un reality show che presto debutterà in streaming".
Incisi nell'entusiasmo dell'inizio relazione, i tatuaggi si rivelano spesso imbarazzanti, soprattutto quando l'ex continua a farsi ricordare con il suo volto, il nome o la data di nascita incisi sul corpo. O quando un'amicizia sparisce o crolla un mito. Spesso i tattoo si trasformano in un diario, accessibile a tutti, della propria intimità rivelando amori, passioni, desideri e aspirazioni che poi non si vogliono più ricordare. Ci si fa disegnare addosso quasi di tutto: il giocatore o il simbolo della propria squadra di calcio, simboli tribali, motti in indiomi esotici e persino i simboli di partiti politici, E così uno su tre cambia idea e si presenta dal medico estetico per fare "scomparire il passato".
L'Italia resta il paese più tatuato del mondo, con il 48 per cento della popolazione "marchiato" seguita dalla Svezia (47 per cento) e dagli Stati Uniti (46 per cento) e sono in crescita costante i pentiti. Secondo gli esperti, già dopo il primo anno, a cambiare idea sarebbero quasi il 25 per cento dei tatuati. A cominciare dai più esposti, i vip.
Ne sa qualcosa Johnny Depp. Il suo primo tatuaggio sulla spalla destra, "Winona Forever", era dedicato alla fidanzata dell'epoca, Winona Ryder. Con un'iniziativa non proprio brillante, alla fine della loro storia, il divo si era fatto togliere le ultime due lettere del nome con il risultato che le due parole rimaste sono diventate Wino Forever, vino per sempre. Evidentemente sbagliare non insegna. Al culmine dell'amore con Amber Heard aveva scelto il luogo più visibile, le dita delle mani, per scolpire all'inchiostro il soprannome dell'attrice e poi ex moglie Slim, che significa magra rimaneggiato in Scum che in Inglese, feccia.
Anche Angelina Jolie, con cinque sedute di laserterapia, ha eliminato il drago inciso sulla spalla sinistra insieme al nome dell'ex marito Billy Bob Thornton ricoprendolo con le coordinate geografiche dei luoghi di nascita dei suoi sei figli.
Poi è stata la volta dell'ideogramma giapponese del coraggio, fatto insieme all'ex marito Johnny Lee Miller, diventato la scritta in arabo "determinazione". Tra i tanti tatuaggi, sono stati eliminati anche il simbolo giapponese della morte sulla spalla destra che ora è una preghiera cambogiana mentre la piccola finestra incisa sul fondoschiena è stata nascosta dalla coda di una tigre del Bengala.
Dopo il divorzio anche Britney Spears ha fatto sparire il tattoo che le ricordava l’ex coniuge Kevin Federline. Come Charlie Sheen che si è tolto dal polso il nome dell’ex moglie Denise Richards coperta dalla scritta "winning", affettuosità ricambiata dall'ex consorte, immortalata, fuori da un laboratorio di tatuaggi con una fatina al posto della scritta Sheen.
Invece di sottoporsi a lunghe e dolorose sedute al laser, Malin Åkerman ha risolto con astuzia la questione della Z, come l'inizio del cognome dell'ex marito Roberto Zincone, aggiungendo semplicemente la S del figlio Sebastian.
Più laborioso il prima e dopo di Kaley Cuoco, per rimuovere dalla memoria e dal corpo, il divorzio da Ryan Sweeting l'attrice della sitcom The Big Bang Theory ha coperto la data delle nozze che troneggiava dietro al collo con una grande falena. Idem per Eva Longoria, che ha detto addio all'unione con il campione francese di basket Nba Tony Parker cancellando dal polso la data del matrimonio.
E Justin Bieber? L'attore s'è tolto dalla testa, e dal polso, Selena Gomez poco prima del sì a Hailey Baldwin.
Invece di rimuovere un amore del passato Megan Fox ha spodestato un suo idolo dando un colpo di spugna al volto di Marilyn Monroe che si era fatta imprimere sull’avambraccio destro: “La sto eliminando", ha confidato l'influencer, "perché Marilyn è un personaggio negativo, soffriva di disturbi della personalità, era bipolare. Non voglio attrarre questo tipo di energie negative nella mia vita”.
Infine la coppia che ogni tanto scoppia: Belen Rodriguez e Stefano De Martino. Allo scoccare della scintilla si erano fatti tatuare lui un angelo con il volto della showgirl e lei un marinaio e una pin-up che si baciavano appassionatamente, contornati da un cuore e dalla scritta “Io e te”. Poi entrambi, dopo il divorzio, l'hanno fatto sparire. Che succederà ora che sono tornati insieme?
Lo dicono le statistiche: nel 2014 sono state circa 12 mila le operazioni di rimozione di tatuaggi (fonte Associazione Italiana di Chirurgia Plastica Estetica) spesso con esiti incerti. Ma quali sono i tatuaggi che più spesso vengono modificati dagli italiani? Al primo posto si piazzano i nomi o le iniziali di ex fidanzati (58%) di cui si vuole cancellare ogni ricordo. Proprio come fanno spesso le star. Da Johnny Depp ad Angelina Jolie, da Federica Pellegrini a Eva longoria, tutte riunite in questa gallery. Quando si è innamorati sembra un gesto romantico tatuarsi il nome del partner sulla pelle ma poi quando la storia finisce che si fa? Si cancella. O meglio ancora si trasforma il tatto in qualcos'altro. Johnny Depp ci è (ri)cascato con il tatuaggio dedicato alla ex moglie Amber Heard che aveva sulle dita della mano destra: il soprannome dell'attrice Slim, che significa magra, snella, è diventato infatti Scum che in Inglese vuol dire rifiuto, feccia. L'interprete dei Pirati dei Caraibi è recidivo visto che aveva già fatto trasformare il tatuaggio Winona Forever, dedicato all'ex Winona Ryder in Wino Forever, a celebrare un ben più duraturo legame con l'alcool. Johnny Depp non è però un caso isolato. Il trend del tattoo-changing ha da tempo preso piede tra le star di Hollywood. Ma torniamo alle persone comuni. Dal Quanta System Observatory, spiegano: "Le maggiori richieste di rimuovere un tatuaggio provengono da coloro che lo hanno eseguito in età adolescenziale e poi, invecchiando, non lo considerano più consono al loro modo di essere. Oggi la tecnologia ci viene incontro e il metodo più sicuro ed efficace da proporre ai pazienti è il trattamento laser" sottolinea il Dottor Matteo Tretti Clementoni, specialista di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva presso l'Istituto Dermatologico Europeo di Milano (sistema Discovery Pico), "una metodologia efficace, rapida e con meno possibili effetti collaterali. Oggi all'avanguardia". Il 54% delle donne tatuate e il 48% degli uomini ha dichiarato di volere rimuovere o cambiare un tatuaggio sulla propria pelle. La maggior parte dei “pentiti” ha tra i 30 e i 40 anni (68%). Al 2° posto nella classifica delle rimozioni, dopo gli ex, ci sono le citazioni celebri o tratte da film (45%), al 3° i grossi disegni tribali che ricoprono braccia e gambe (41%). Al 4° i tattoo fatti con le ex amiche del cuore (37%). 5° posto, i tatuaggi venuti male (35%); 6°: lo stemma della squadra del cuore (31%); 7°: i tatuaggi considerati troppo evidenti o impressi su una parte del corpo esposta (25%), 8° quelli ritenuti imbarazzanti come un lecca lecca o una pin-up (19%); 9°: quelli con riferimenti politici o ideologici (15%). Al 10°: i tattoo troppo infantili come i personaggi dei cartoni animati (12%).
Fulvia Caprara per “La Stampa” il 19 agosto 2022.
L'utopia del riscatto sempre possibile, la voglia di farcela anche fuori tempo massimo, il senso di esclusione da una società che trascura le emozioni autentiche. Le apparizioni di Sylvester Stallone hanno suscitato, fin dai primi successi, letture socio-politiche ben oltre i limiti del genere di cui l'attore è specialista, quel cinema d'azione (con incluso pensiero) che lo ha convinto, ancora una volta, a tornare in scena.
Così, adesso, vedendolo in Samaritan (dal 26 su Prime Video), nei panni di un leggendario supereroe che ha messo da parte ogni spirito di rivincita, viene da chiedersi che cosa significhi quest' ultima discesa in campo. Capelli grigi, lineamenti sgualciti, toni pacati da vecchio profeta, Stallone enuncia il suo credo, che oggi, mentre protesta per ottenere i diritti di Rocky e mentre risuona l'eco del suo no alla candidatura offertagli da Trump, è racchiuso in una certezza: «Tutti abbiamo la possibilità di redimerci, perché tutti impariamo dai nostri errori, c'è sempre una seconda chance».
Nella storia del film, diretto da Julius Avery e scritto da Bragi F.Schut, Stallone si nasconde sotto il cappuccio sempre alzato di Mr.Smith, collezionista solitario di vecchie carabattole scovate nell'immondizia. Per convincerlo a tornare alla sua vera identità, quella di Samaritan, fratello del malvagio Nemesis (Pilou Asbaek), è necessario l'incontro catartico con Sam (Javon Wanna Walton), un ragazzino senza padre che in quel burbero vicino di casa intravede la luce dell'eroe.
A 25 anni di distanza dai violenti scontri che avevano travolto Granite City' s, Samaritan, creduto morto, rientra in scena per proteggere Sam, riportare l'ordine, lottare contro un Male che, in fondo, è quasi parte di se stesso: «Ho pensato che in questa storia ci fossero un sacco di significati stratificati e non fosse facile intuirne lo sviluppo finale, per questo ho detto ok al film ».
In particolare che cosa l'ha attratta del soggetto?
«Mi sembra che rifletta bene quello che succede nel mondo. Di base siamo più o meno tutti brave persone, cerchiamo di farcela da soli e andare avanti, spesso, però, questo modo di essere ci si ritorce contro, veniamo ostacolati da chi si comporta male e allora cominciamo a chiederci come reagire alla violenza. Nei film arrivano ad aiutarci mitici supereroi, ma la verità è che bisogna farcela da soli, anche se in certi momenti non siamo in grado di assumerci le nostre responsabilità».
Prima di affermarsi nel cinema ha fatto un sacco di mestieri. In che modo queste esperienze le sono servite?
«È vero, ho fatto di tutto e questo torna sempre utile, per capire i processi, per scoprire i segreti, l'esperienza umana insegna. Per esempio oggi sul set mi diverto molto di più di quando avevo 30-35 anni. Allora pensavo di sapere ogni cosa e invece non sapevo nulla, si impara per tutta la vita».
Recita con un attore tredicenne e, nella storia, finisce per occupare il posto di un padre assente. Come è andata?
«Quando si invecchia si tende a diventare cinici, ad acquistare la sindrome della vecchiaia, a cercare ancora la giovinezza che non c'è più. Nella storia l'incontro con Sam restituisce vigore al mio personaggio, è come se facesse andare indietro le lancette dell'orologio, allontanandomi dalla prospettiva del crepuscolo verso cui ero avviato. Per tutte queste ragioni penso che, anche nella vita reale, sia importante che le persone più anziane abbiano legami con quelle più giovani, è una cosa vitale, i ragazzi acquistano saggezza e gli anziani guadagnano energia. L'attore che interpreta Sam è fantastico, ha molto humour, è divertente, esuberante, con lui ho affrontato meglio le riprese».
Anche se il suo è un supereroe diverso da quelli cui siamo abituati, ci sono molte sequenze d'azione. Come le ha affrontate?
«Non potevo certo fare quello che facevo a 29 anni in Rambo, so di non essere più quello di prima, ma è anche vero che sono ancora qui. Ed è un po' quello che capita al mio personaggio. Ha una gran forza fisica, ma certo non vola e non attraversa le pareti, è un po' come un Ercole moderno, un eroe mitico. Credo che in questo tipo di figure ci si possa identificare, il pubblico sa che possono morire, e anche io lo so. Posso aggiungere, parlando di preparazione fisica, che amo il wrestling, che ho subito 31 operazioni e continuo a dire alle mie figlie di seguire gli incontri di wrestling, si viene coinvolti, ma si sa che è puro intrattenimento».
I film d'azione si basano quasi sempre sulla lotta tra il bene e il male. Che cosa l'attrae di questo tema eterno?
«Tutti noi abbiamo questo doppio aspetto, possiamo essere nello stesso tempo angeli o demoni, dipende da come siamo cresciuti, dai principi etici che ci hanno inculcato, la nostra esistenza si basa su questa continua lotta e il risultato è nella direzione che scegliamo».
Che cosa la spinge tuttora a raccontare queste storie?
«Sono quelle che mi hanno sempre affascinato, fin da quando ho girato Rambo. Sono le stesse storie dell'Iliade e dell'Odissea. Questa domanda mi è stata rivolta da un giornalista indiano e la cosa mi ha colpito, si pensa che in India ci sia una cultura diversa dalla nostra, e invece è evidente che l'umanità condivida le stesse emozioni ovunque, la paura della solitudine, il bisogno di figure guida, la necessità di atti di coraggio».
Samaritan è ai margini della società, come Rambo. Perché le piacciono questi ruoli?
«È vero, amo queste persone che sono ai margini ma vorrebbero far parte del contesto sociale. Rambo voleva tornare a casa, ma non sapeva come, insomma quello che mi attira è sempre l'aspetto umano, se non c'è non vedo ragioni per raccontare una storia».
Sylvester Stallone, il dramma per colpa di Rocky: l'uomo che l'ha rovinato. Libero Quotidiano il 19 luglio 2022
Il dramma di Sylvester Stallone: quasi 3 miliardi di dollari letteralmente "in fumo" per colpa del suo primo e forse più famoso film, Rocky. Il divo di Hollywood, 76enne, oggi si trova a chiedere "un atto di giustizia da parte di questo gentiluomo 93enne". Il riferimento, in un post su Instagram, è a Irwin Winkler, produttore della saga di Rocky e dei due spinoff Creed: L'amatissimo Sly lo accusa di non avergli assegnato alcuna parte dei diritti della serie dei film. L'attore statunitense definisce il produttore un "parassita" e lo raffigura come un serpente dalla lingua a forma di coltello. E gli chiede di poter ricevere "almeno un poco di quel che è rimasto dei miei diritti prima che vadano solo ai tuoi figli. E' un argomento doloroso che mi mangia l'anima. Voglio lasciare qualcosa di Rocky ai miei figli", prosegue Stallone.
E' da molto tempo che l'interprete di Rambo manifesta il suo disappunto per come è andata la questione della distribuzione dei diritti della serie di film e dell'intera franchise che lui stesso ha contribuito a fare nascere: una somma di quasi tre miliardi di dollari se si considerano i sei film della serie e i successivi due capitoli di Creed. "Vorrei davvero riavere almeno un po' di ciò che è rimasto dei miei diritti", rivendica l'attore. Il primo Rocky, arrivato sugli schermi nel 1976, incassò 225 milioni di dollari. Ma il suo protagonista, un giovane e quasi esordiente Stallone appunto, guadagnò ben poco: 75mila dollari per aver scritto la sceneggiatura e recitato nel primo capitolo, oltre a ottenere due candidature agli Oscar. Nulla invece dallo sfruttamento del mondo dal lui stesso creato, il cui copyright appartiene a Winkler.
Da repubblica.it il 19 luglio 2022.
La storia risale a 46 anni fa. Era il 1976, quando nelle sale americane (e l'anno dopo in tutto il mondo) uscì un film sulla boxe, interpretato da un semisconosciuto attore italoamericano. Il film era Rocky e il protagonista Michael Sylvester Gardenzio Stallone, ma tutti abbiamo imparato a conoscerlo come Sylvester Stallone, o più familiarmente Sly.
Una saga da tre miliardi di dollari
Realizzato in appena ventotto giorni con un budget di 1,1 milioni di dollari, ne incassò al botteghino 225 dando vita ad una fortunatissima serie composta da cinque sequel (Rocky II, Rocky III, Rocky IV, Rocky V e Rocky Balboa) e due spin-off (Creed - Nato per combattere e Creed II).
Complessivamente tutta la saga ha incassato quasi tre miliardi di dollari (per l'esattezza 2.965.471.850), collocandosi al 12esimo posto nella classifica dei più grandi incassi delle saghe del cinema. E quanto entrò nelle tasche di Stallone?
Tre Oscar
L'attore venne pagato 75mila dollari nel 1976 per aver scritto la sceneggiatura e recitato in Rocky, oltre ad ottenere due candidature come miglior attore e miglior sceneggiatore e facendolo diventare il terzo uomo nella storia del cinema dopo Charlie Chaplin e Orson Welles a ricevere la nomination all'Oscar sia come sceneggiatore che come attore per lo stesso film.
Insomma, tanta gloria, mentre il film, oltre agli incassi, ottenne tre statuette: tra cui quello per il miglior film e miglior regia, per la soddisfazione dei produttori Irwin Winkler e Robert Chartoff, del regista John G. Avildsen e dei montatori Richard Halsey e Scott Conrad. Ma non finisce qui.
Al top dei film
Nel 1998 l'American Film Institute ha inserito il primo Rocky al settantottesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è salito al cinquantasettesimo posto.
Nel 2006 è stato scelto per la preservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso e nell'agosto 2015 la rivista Rolling Stone lo ha messo al secondo posto della classifica dei migliori film sportivi della storia del cinema.
Stallone batte cassa
Ora Stallone, a 76 anni appena compiuti (li ha festeggiati lo scorso 6 luglio), Stallone ha deciso di riaprire il capitolo legato a immagini, storie e personaggi della saga del leggendario pugile e della successiva serie di Creed.
Al di là dei compensi ricevuti come protagonista, sceneggiatore e regista, l'attore non percepisce nessun introito legato allo sfruttamento del mondo dal lui stesso creato. Stallone ha rivolto un appello pubblico al produttore Irwin Winkler, 93 anni, che da sempre possiede il copyright su Rocky.
L'attore, come detto, all'epoca venne pagato 75mila, oltre a una percentuale sugli incassi che gli fece maturare 2,5 milioni di dollari, una somma niente male, visto che all'epoca era praticamente al verde, e non chiese niente di più perché "c'era una sorta di codice di condotta in questo business a quel tempo e non si andavano a scompigliare le piume della gallina dalle uova d'oro", disse in una intervista di qualche anno fa. Insomma, ha sempre ritenuto di essere stato pagato equamente, ma ora vorrebbe lasciare alla famiglia qualcosa di ciò che ha fatto.
L'appello su Instagram
Su Instagram Sylvester Stallone ha postato ritratto di Irwin Winkler che lo raffigura con il corpo di un serpente e una lingua a forma di spada. Un dipinto creato dallo stesso attore che si diletta da anni nella pittura.
"Un lunsinghiero ritratto del grande produttore di Rocky/Credd, Irwin Winkler, da uno dei più grandi artisti del Paese... - ha scritto Stallone nel post - Poi, dopo aver controllato Rocky per più di 47 anni, e ora Creed, mi piacerebbe davvero ricevere almeno "quel che è rimasto dei miei diritti", prima che vengano passati soltanto ai tuoi figli. Credo che sarebbe un leale gesto da questo 93enne gentiluomo, giusto? È una questione dolorosa che mi divora l'anima, perché vorrei lasciare qualcosa di Rocky ai miei figli, anche se è sempre bello sentire parole dai lealissimi fan".
Sylvester Stallone, quel bimbo solo che sognava muscoli e cinema. Vittorio Vaccaro il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Da bambino Sylvester Stallone soffrì di rachitismo e balbuzie. Ma alla fine è diventato un'icona del cinema tutto muscoli.
Se mi chiedete chi tra i tanti attori di Hollywood, da ragazzo, mi ha fatto sognare, emozionare, soffrire, tra i miei tanti preferiti, risponderei di certo Sylvester Stallone. Per via di Rocky e Rambo, due personaggi pieni di muscoli, pronti a tutto, senza paura, con quell’incoscienza di chi lotta sempre per il bene, partiti dal basso per poi diventare qualcuno attraverso il duro lavoro, l’impegno e la sofferenza. Ma se pensate che questi siano solo ingredienti di fantasia utilizzati nei film di Stallone, vi sbagliate di grosso: la sua vita reale è stata praticamente la stessa.
Nasce nel 1946 a Hell’s Kitchen, in quegli anni un quartiere pericoloso di New York. Lo chiamano tutti Sly, figlio di un uomo di origini pugliesi che fa il parrucchiere e di una mamma di origini ucraine che fa l’astrologa. La vita di Sylvester Stallone è difficile fin dalla nascita. Durante il parto un errore dei medici gli provoca una paresi facciale del lato sinistro e durante l’adolescenza inizia a soffrire di rachitismo e balbuzie.
Per fortuna arriva lo sport: inizia a praticare la scherma, gioca a football e si allena ogni giorno in palestra e anno dopo anno diventa un ragazzo tutto muscoli. Proprio dallo sport, grazie ai suoi meriti, riceve una borsa di studio che gli permette di frequentare il college e poi l’università. Inizia così a studiare anche recitazione, da sempre una passione per lui.
Sono comunque anni difficili economicamente e si adatta a fare qualsiasi tipo di umile lavoro. Inoltre è una persona molto sola, fino a quando a ventisei anni trova il suo migliore amico, Butkus, un cane. Diventano inseparabili. Entrambi magri, soli, vivono in una catapecchia sopra la fermata della metropolitana.
È il periodo in cui Stallone impara il mestiere dello sceneggiatore, ma le cose non vanno bene e dopo un po’ di tempo è costretto a vendere il cane per soli quaranta dollari, per potersi permettere di comprarsi del cibo. Succede però un miracolo: la sua sceneggiatura “Rocky”, scritta in soli tre giorni, viene venduta a due produttori cinematografici durante un provino per circa trecentosessantamila dollari. Immediatamente ricompra il suo cane per quindicimila dollari.
La sua carriera prende il volo: nel 1982 inizia a interpretare anche John Rambo, che diventa, come Rocky, un’icona del cinema americano.
All’età di settant’anni, dopo una carriera meravigliosa, dichiara:
La mia vita è fatta per il novantasei per cento di fallimenti e per il quattro per cento di successi.
Anche questa volta abbiamo conosciuto un uomo che da “scemo del villaggio” e diventato “genio del mondo”. Vittorio Vaccaro
Michele Focarete per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2022.
Showgirl, galeotta e adesso attrice. La terza vita di Sylvie Renée Lubamba che, a 50 anni, si rimette in gioco davanti alla macchina da presa, nei panni di una preparata e battagliera insegnate di una scuola con allievi difficili, dei veri bulli. Nata a Firenze da genitori congolesi, Lubamba è una delle protagoniste del film Bullyng giovani ragazzi, l'opera prima dell'attore Nicola Palmese, ora anche sceneggiatore e regista. Il lungometraggio, della durata di 80', verrà proiettato oggi alle 20.30 al cinema Massimo di Torino.
«Un tema di grande attualità», dice Lubamba, «che vuole spiegare il fenomeno del bullismo, nella sua drammaticità, soprattutto tra le mura scolastiche. Una grande esperienza per me, dopo gli anni duri del carcere». Una pausa e i ricordi. «Ho pagato con 3 anni e 4 mesi e proprio in galera ho ritrovato la fede e le persone che mi hanno aiutato a superare quel buio momento della mia vita». Così si racconta. Le piace parlare.
Ma anche mangiare a dispetto di una linea invidiabile. La incontriamo in un ristorante in zona Brera mentre si gratifica con risotto alla milanese. «Non ho paura di ingrassare», dice con un pizzico di orgoglio, aggiungendo che da buona toscana ama i primi e non rinuncia al dolce.
Quindi si alza in piedi per mostrare un fisico di tutto rispetto, in un nero hot pants e una maglietta a righe rossa e nera dall'audace décolleté. Ci regala un sorriso da soubrette e si mette per un attimo in posa, come quando nel '92 partecipò a Miss Italia. «Fui la prima donna di colore, ma non arrivai fino in fondo perché mi squalificarono a causa di alcune foto nude, che qualcuno mandò in giro. Comunque, vinsi il titolo di Miss Toscana».
Poi ricorda volentieri la partecipazione a un noto programma di Piero Chiambretti, che la fece conoscere al grande pubblico televisivo. Ma è ricordata anche da tante persone che tra il 2004 e il 2009 la frequentavano e avevano visto i propri conti bancari prosciugarsi. Per questo la soubrette era finita a Rebibbia e poi a Bollate.
Prima delle manette è stata Miss, show-girl, indossatrice, speaker radiofonica, con diverse apparizioni in spot pubblicitari e una carriera televisiva di tutto rispetto in trasmissioni accanto a Maurizio Mosca, Gene Gnocchi, Alberto Brandi. Anche Maurizio Costanzo la volle tra i suoi ospiti e a Quelli del calcio era quasi di casa. Il grande salto in tv però arrivò con Chiambretti nel varietà Markette, tutto fa brodo, in onda su La7 dal 2004 al 2008.
«Bei tempi. Ma non rimpiango niente. La prima volta che commisi il reato fu nell'estate del 2002: andai con tutta la mia famiglia, la mamma e le mie due sorelle, in Sardegna e spesi 60 mila euro. Mi hanno arrestato 12 anni dopo, quando ormai pensavo che tutto fosse andato in prescrizione. Ma è acqua passata, anche se è una esperienza che ti segna la vita. Adesso mi aiuta molto la fede. Vede, ho avuto dei segnali in questo senso: sono stata scarcerata il 25 dicembre 2017, proprio a Natale. E nel 2015, il Giovedì Santo, Papa Francesco fece visita ai carcerati. Su 250 detenuti io fui tra le sei donne a cui il Santo padre lavò i piedi. Non lo dimenticherò mai. Ed eccomi qui in questa mia nuova avventura cinematografica».
Parla, parla. Tutto quello che le viene in mente lo esterna. Ci racconta del sostegno dei volontari, dell'aiuto degli psicologi e della preghiera. Ricorda il giorno più triste della sua esistenza, quando morì suo padre, nel 2006, ma anche i giorni belli quando nacquero i suoi nipotini, Thomas e Lorenzo. Scherza persino sul suo essere casta da molti anni, «nonostante abbia ricevuto proposte da uomini facoltosi».
«Se dovesse però arrivare l'uomo giusto, deve essere una persona comprensiva, di grande aperura mentale, senza pregiudizi, sempre pronto a cogliere le sfide della vita e possibilmente che condivida la fede con me». Che mi dice del film, dei colleghi di lavoro? «Voglio sottolineare la scelta del regista: una donna di colore nel ruolo di insegnante. Spesso nelle pellicole i neri hanno parti di cattivi, di spacciatori. Con gli altri attori si è creato un gruppo splendido».
Le scene sono state girate fuori Torino. Vi hanno lavorato ben 80 persone, Tra i partecipanti Camilla Ricciardi che interpreta la ragazza bullizzata. Accanto a lei 4 sedicenni esordienti, nel ruolo dei bulli: Ludovica Iacobellis, Simone Palmese, Andrea Signoriello e Diego Puchot. Maura Anastasia è invece la psicologa, mentre Edoardo Raspelli il preside.
Dagospia il 18 marzo 2022. Il memoriale di Tamara Baroni pubblicato da “Oggi” nel 1970
«Non rinnego nulla del mio passato. Rifarei tutto quello che ho fatto. Sono stata una donna scandalosa? Detto oggi fa ridere. Davo scandalo perché portavo vertiginose minigonne? Perché avevo un bel corpo? Perché gli uomini mi inseguivano con la Lamborghini o la Ferrari? Ero una donna libera e potevo fare quello che volevo. Ho pagato caro il mio desiderio di libertà…».
Così, nel 2010, alla presunta vigilia dell’uscita della sua autobiografia (non trovò un editore e finì su un blog), Tamara Baroni, ex attrice-fotomodella dalla bellezza statuaria, riassumeva al nostro cronista Giangavino Sulas la sua vicenda.
Era stata l’amante dell’industriale parmense Pierluigi, Bubi, Bormioli, sposato dal 1956 con la marchesa genovese Maria Stefania Balduino Serra e padre di quattro figli. Erano tempi (prima del 1970), in cui il divieto di divorzio in Italia e il fatto che l’adulterio fosse un reato soltanto per le donne, rendeva i tradimenti, comunissimi, un succulento argomento di cronaca.
Nel caso di Baroni e Bormioli la faccenda si tinse prima di rosso acceso, visto che i due non si nascondevano affatto e ostentavano soldi e passione. Poi di nero. Perché furono accusati di ripetuti tentativi di uccidere la marchesa, tutti affidati a presunti killer decisamente maldestri.
All’epoca pochi dubitarono che la bella parmense non fosse una feroce cacciatrice di eredità, benché la storia con Bubi fosse finita: si fece pure 46 giorni di carcere preventivo, finì sotto processo e ne uscì scagionata.
Nello stesso periodo, come lei stessa raccontava in esclusiva sul n.11 del 17 marzo 1970 di Oggi, Tamara, dopo aver denunciato l’industriale ed ex amante per sequestro di persona, tentata violenza e lesioni, era stata oggetto di una misteriosa sparatoria mentre si recava a un altrettanto misterioso appuntamento di lavoro.
Baroni si raccontò allora al nostro giornale ripercorrendo il presunto attentato e consegnandoci un suo memoriale (che, anche quella volta, doveva confluire in un’autobiografia, mai pubblicata) che culminava in una vacanza da sogno con Bubi a Saint Thomas, Isole Vergini, dove i due si erano “sposati” con un rito “pagano” tra fanciulle vestite di bianco e giovanotti in pareo.
Oggi definì il memoriale «scottante». Ne emerge piuttosto una coppia parecchio provinciale. All’arrivo a New York, Tamara rispose all’amante, che le aveva chiesto: «Sai dov’è la 59ma strada?», «So dov’è la via Emilia». Bubi, che aveva fama di “playboy”, alternava gesti galanti e mosse da furbone: «Pierluigi, compito come un gentiluomo di vecchio stampo, aprì lo sportello dell’auto, attese che scendessi, mi accompagnò alla porta di casa, mi diede il bacino della buona notte, accese una sigaretta e disse: “Ci vediamo tra tre giorni”.
“Come vuoi tu, amore”, sorrisi conciliante, “però se mi dici anche l’ora e il posto evitiamo un sacco di complicazioni”. “All’aeroporto. Ore diciassette e trenta”».
La destinazione era appunto New York dove Tamara, che aveva già due matrimoni alle spalle (un annullamento della Sacra Rota e una separazione) e una figlia, ma che non parlava una parola d’inglese, rischiò pure di essere “venduta” a un anziano anfitrione.
Bubi l’aveva mollata nel bel mezzo di una festa per andare a fare affari «in Ohio». Si salvò, racconta lei stessa, andando a letto con un altro playboy italiano, Sergio. Risultato: al ritorno, Bubi l’aveva picchiata.
Lei gli aveva spaccato una scarpa in testa. Nella hall dove si era svolta la seconda scena, la gente «si fermava, divertita come a teatro». Finale da fotoromanzo dell’epoca: «Pierluigi mi prese tra le braccia e mi baciò il volto inondato di lacrime mentre gli spettatori americani erano prossimi alla commozione».
The End: il finto matrimonio alle isole Vergini. «Quando il nuovo giorno s’affacciò sull’orizzonte lontano giurammo al santone che ci saremo amati per tutta la vita. Lui ci prese per mano e camminammo nel mare, verso il sole. Secondo l’antico rito pagano delle isole Vergini, eravamo marito e moglie».
La storia non finì affatto così. I due si lasciarono. Lei denunciò, come abbiamo detto, sia l’aggressione da parte di Bormioli, sia il mancato attentato e fu arrestata per l’altrettanto fallito omicidio della marchesa.
Tananai: «Prima di Sanremo ho passato uno dei periodi più brutti. Ci sarà un futuro per noi?». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
«Rave/Eclissi» è il nuovo album della popstar: niente a che vedere con il decreto del Governo
Un uomo sul bordo di un precipizio, cappotto, stivali e bastone. È il quadro simbolo del romanticismo ottocentesco, Viandante sul mare di nebbia del tedesco Caspar David Friedrich. Quell’immagine è finita nell’ultima canzone, si chiama «Fottimi», del primo album di Tananai. «Sono un inguaribile romantico (ride)... Mi sento così, sull’orlo di qualcosa di più grande che non conosco. Ma non sono impaurito. Lo scruto».
La popstar milanese, vero nome Alberto Cotta Ramusino, che dall’ultimo posto di Sanremo con «Sesso occasionale» è riuscito a trasformare il brano in tormentone e far diventare virale subito dopo «Baby Goddamn», pubblica «Rave/ Eclissi». Non è una risposta al primo provvedimento sulla musica del governo Meloni. «Avevo annunciato il titolo in tempi non sospetti (ride), ma mi piace l’idea di avere lo zeitgeist, il senso del tempo... Detto questo, il provvedimento manca di articolazione, è confuso, è stato fatto di pancia. Se c’è preoccupazione per l’incolumità di chi partecipa ok. Se è retorica contro lo spaccio di droghe non ha senso: la droga si trova in strada, nei locali... ».
Politica a parte, il titolo, spiega Tananai, riflette le due anime del disco: «C’è quella più leggera che mi ha fatto conoscere dopo Sanremo e quella più introspettiva che non si era ancora vista. Ma non è una formula matematica, facciamo musica e non pasticceria. Rave ed eclissi sono due delle cose che preferisco al mondo. Il rave come spazio di aggregazione per persone che godono in libertà; l’eclissi è il sentisi una formica davanti al sublime». «Quelli come noi» è il ritratto di una generazione che vorrebbe essere diversa. «Noi Millenials e anche la gen Z abbiamo paura a pensare se ci sarà ancora un mondo in futuro... Non solo per il clima. E poi sentiamo il peso delle aspettative della società verso di noi e viceversa». Ma Alberto capisce Tananai? «Quando scrivo finisco in una sorta di trance e dopo mi sembra che le cose che siano state scritte da un altro. Vorrei arrivare a capirlo mentre lo sto facendo».
«Gli anni migliori» racconta della pandemia che si portata via un pezzo di vita, soprattutto nei più giovani. «L’ho vissuta male. Sono partito dai dj set e dai live set e sentivo che non mi bastavano, quindi ho iniziato a scrivere canzoni e a fare locali con anche tre persone nel pubblico: è stata la cosa più bella del mondo. Così ho pubblicato il mio primo ep e sarebbe dovuto partire il tour quando tutto si è bloccato. Sono andato fuori di testa per fortuna non ero da solo in casa ma con Wolf, il mio chitarrista. Alla riapertura ero in fomo (l’ansia dell’essere esclusi da quello che gli altri stanno facendo ndr) e ho vissuto il far west delle Colonne a Milano: stavo a casa due ore, sempre in giro». Poi è arrivato il riscatto di Sanremo, passando però per l’inferno dell’ultimo posto.
Si slaccia i pantaloni e mostra un 25 tatuato sulla coscia destra. «La sinistra è ancora libera per l’1, nel 2080 però... Devo tantissimo al Festival. Passavo da uno dei periodi più brutti della mia vita, quello in cui la musica era ferma causa covid, a vedere dal backstage di Sanremo Cremonini esibirsi prima di me. Ero contento per quello che accadeva, ma è stato brutto pensare ai mie cari che soffrivano per il risultato». In attesa del 2080 vincente, potrebbe tornare nel 2023 e peggio di quest’anno non potrebbe andare: «Si può presentare una canzone fino al 28 novembre...».
Da ilnapolista.it il 15 agosto 2022.
Il Corriere della Sera intervista Alberto Cotta Ramusino, in arte Tananai. Quest’anno ha partecipato al Festival di Sanremo arrivando ultimo, ma ora sta scalando le classifiche. Si parte dal nome d’arte: Tananai è una parola che si usa al nord e che significa «gran confusione e schiamazzo di gente che ciarla e grida». Viene spesso usata per indicare dei bambini vivaci. «Mi chiamava così, non ero uno tranquillo».
Si racconta:
«Nato a Milano l’8 maggio 1995 e cresciuto a Cologno Monzese. Fino a che non ho avuto il motorino, la metropoli sembrava distante. Vita di periferia tranquilla, senza problemi. Al massimo qualche “ciccione” e qualche spintone quando ero un ragazzino obeso. Non direi bullismo, nulla rispetto ai tweet di Sanremo. Alle medie ero 1 metro e 50 per 82 chili. Adesso 1 e 82 per 76. Ho anche saltato qualche mese di scuola per non farmi vedere: ero pure in carrozzina per un problema a un ginocchio. Ho iniziato a mangiare bene, gli ormoni mi hanno fatto crescere e in terza, quando ho iniziato a piacere alle ragazzine, pensavo mi prendessero in giro».
Sulla sua carriera:
«Il primo contratto è arrivato come produttore di musica elettronica sperimentale col progetto Not for Us. Ero troppo saccente: pensavo che solo la musica complessa potesse essere valida. Ho messo un macigno su quell’esperienza ed è nato Tananai quando una vocal coach mi ha detto che avevo una bella voce».
A Sanremo, come detto sopra, è arrivato ultimo.
«Mi sono incazzato. Non per le critiche, ma con me stesso. Pensavo di aver bruciato un’occasione. Dopo la prima serata ero felice che fosse uscita la voce. All’università mi veniva la lingua felpata a parlare in pubblico… Invece quella notte mi sono svegliato, ho preso il cellulare e ho visto il diluvio di critiche. Ho pensato “all’Italia non piaci”. Il giorno dopo il ritorno a casa: mi chiama il mio manager e mi dice che tutti mi vogliono».
Da open.online il 13 febbraio 2022.
Chi l’ha detto che arrivare ultimi sia sempre un disastro? Che non sia così ne è la prova il cantante Tananai, di cui non si smette più di parlare. I social sono inondati dai suoi meme, dalle sue dichiarazioni e dalle sue foto. Tananai – che Open aveva già intervistato nel 2019 quando non era ancora così conosciuto – è arrivato ultimo al Festival di Sanremo 2022 ma non si è mai dato per vinto. Anzi.
Ha dovuto cambiare le location dei suoi concerti a Milano e Roma per troppa richiesta, ha aumentato i suoi fan in pochissimi giorni e la sua canzone, Sesso occasionale, è tra le più ascoltate in Italia su Spotify. È lui il vincitore “morale” di questa edizione della kermesse musicale di Rai 1. Tananai, infatti, anziché disperarsi, quando è stato annunciato l’esito del voto (e lui si è piazzato all’ultimo posto), ha esultato insieme al suo team. Non era mai successo. Una reazione spontanea che ha lasciato tutti senza parole.
Classe 1995, ha vissuto a Cologno Monzese ed è riuscito nell’impresa impossibile di arrivare dietro persino alla criticatissima Ana Mena. Sul palco del Teatro Ariston, tra l’altro, non è andato tutto benissimo: la sua “prima” non è stata un grande successo. Troppe incertezze.
E dopo la fine della sua ultima esibizione ha detto: «Ci vediamo all’Eurovision, raga!». Era ironico: sapeva benissimo che mai sarebbe potuto arrivare primo al Festival di Sanremo. A rappresentare l’Italia all’Eurovision, infatti, andranno Mahmood e Blanco, i vincitori di questa edizione con la loro «Brividi».
Prima ironizza sull’Eurovision di San Marino – «Cos’è sta storia di San Marino raga», scrive su Twitter – poi su quello dell’Azerbaijan: «Mi dicono che l’Azerbaijan non ha ancora presentato un candidato per l’Eurovision». E pensare che Tananai ci ha visto lungo: Achille Lauro sarà davvero uno dei candidati in gara a «Una voce per San Marino» per contendersi il posto sul palco dell’Eurovision, rappresentando in quel caso il piccolo stato di 30 mila abitanti e non la sua Italia.
Ora, però, dopo il post ironico di Propaganda Live, per Tananai arriva addirittura l’invito dell’ambasciata svizzera. «Caro Tananai, ti aspetto in ambasciata per un’audizione e un duetto», scrive Monika Schmutz Kirgoz, ambasciatrice di Svizzera in Italia, Malta e San Marino. Chissà che Tananai, alla fine, non riesca davvero a salire su quel palco. L’ha detto talmente tante volte che alla fine potrebbe riuscirci. Ma la speranza di andarci con l’Italia è chiaramente l’ultima a morire (ma di difficile realizzazione): «Io spero ancora in 24 rinunce per andare all’Eurovision con l’Italia», scrive.
Tananai, significato del nome, Cologno, Lambrate, i look e l’architettura: chi è il cantante milanese che scala le classifiche. Federica Bandirali il 13 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.
Nato a Milano nel 1995, cresciuto a Cologno Monzese, Alberto Cotta Ramusino (in arte Tananai) è arrivato ultimo a Sanremo 2022. Ma la canzone «Sesso occasionale» spopola in radio e su Spotify. E i suoi concerti raddoppiano. «Ma tengo i piedi per terra».
È nato a Milano, è cresciuto a Cologno Monzese, è tornato a vivere a Lambrate. Di chi parliamo? Anno di nascita: 1995. All’anagrafe: Alberto Cotta Ramusino. Altro indizio. Il suo nomignolo, ora nome d’arte, è un regalo del nonno: significa piccola peste. Primo «lavoro», a 15 anni: dj e pr nelle discoteche, il giovane spigliato che smazza le prevendite e invita gli amici per incassare una mezz’ora in console a orari impossibili. Si era iscritto alla facoltà di Architettura ma dopo qualche esame ha abbandonato i libri e scelto la musica («Ero a un bivio», ha raccontato a Open: «O dedicarmi alla musica per bene o finire il corso di laurea, non volevo essere mediocre in entrambe le materie. La verità è che come architetto facevo abbastanza schifo...»). Alberto Cotta Ramusino è Tananai. Tananai è l’Alberto Cotta Ramusino cantante che ha stonato di brutto sul palco ed è arrivato ultimo al festival di Sanremo. Mediocre? Un trionfo. Non poteva andargli meglio. La sua canzone, «Sesso occasionale», è un’onda che travolge radio e piattaforme di streaming. Il concerto, inizialmente previsto ai Magazzini generali di Milano il 28 marzo, si è allargato e sdoppiato: Tananai sarà live al Fabrique il 16 (già sold out) e il 23 maggio. «Quando me l’hanno detto, non riuscivo a crederci». Anche Vasco, nel 1983, finì penultimo a Sanremo con «Vita spericolata». E come è andata, poi, beh.
Da Sanremo 2022 al sogno Eurofestival
«La noia è il mezzo per scrivere le canzoni. Il fine sono le persone alle quali penso mentre compongo», raccontava un paio d’anni fa. Tananai è cresciuto. Il suo profilo Instagram ha 148 mila follower, Jovanotti, Blanco e Fedez tra i tanti (con Fedez, nel 2021, ha anche duettato in «Le madri degli altri»). Simpatico, è simpatico: ai giornalisti accreditati a Sanremo ha recapitato un kit d’emergenza con preservativi, gel e il cartellino «non disturbare» da appendere alla porta della camera d’albergo, «sesso occasionale… ma sicuro». Dopo la trionfale sconfitta al Festival, ha twittato: «Spero ancora in 24 rinunce per andare all’Eurovision con l’Italia». Impossibile, certo. «Cos’è 'sta storia di San Marino raga?». San Marino deve scegliere il suo artista, ma quel posto potrebbe andare ad Achille Lauro. E quindi? «Mi dicono che l’Azerbaijan non ha ancora presentato un candidato per l’Eurovision...». Gli ha risposto l’ambasciatrice svizzera in Italia, Monika Schmutz Kirgoz: «Caro Tananai, ti aspetto per un’audizione e un duetto». E Tananai? «Io ve lo dico che mi state tirando in mezzo, ci rimango male e poi ve la vedete con mia mamma». Ironico, come sempre.
La carriera
Alberto è nato nel 1995, Tananai si è presentato nel 2017. Ha esordito a 22 anni come producer di musica elettronica. Ha studiato un po’ di pianoforte e chitarra. Dal 2019 ha pubblicato diversi singoli, tra cui «Bear Grylls», «Volersi male», «Calcutta» e «Ichnusa». Il primo Ep: «Piccoli boati». Il passatempo è diventato un lavoro, il lavoro l’ha portato sul palco di Sanremo giovani prima e Sanremo grandi poi. E ora? «Tengo i piedi per terra», continua a ripetere. Nei tweet Tananai lo spiega ancora meglio: «Che figata ‘sta wave che mi volete bene e le tendenze e la musica e la Rai con i meme. Sì sì. Ma tu pensa se l’anno prossimo mi ripresento a Sanremo e arrivo ancora ultimo. Che volareee».
I suoi look
Sul palco dell'Ariston Tananai si è affidato allo stylist del momento, Nick Cerioni (lo stesso che ha curato i look sanremesi di Achille Lauro, Orietta Berti, Gianni Morandi e Rkomi, solo per dirne alcuni). Per il debutto in riviera ha scelto pezzi di Dior Men by Kim Jones. Ma è stata la sua camicia di cristalli a incantare tutti, la quarta serata: un pezzo della linea «The Nick» del celebrity stylist e art director Nick Cerioni (30 mila cristalli Swarovski per produrla). La t-shirt con il suo nome, poi, consegnata in regalo anche a Mara Venier durante la trasmissione speciale «Domenica in» da Sanremo, è diventata un pezzo cult. La sua vera forza però sono i social. È qui che Tananai si è distinto per simpatia e sfrontatezza. Su Twitter a Instagram ha scritto: «Ho trasformato l’ultimo posto in qualcosa di positivo».
Teo Teocoli, le sentenze sulla Serie A: "Pioli un prete, Galliani bipolare". Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano il 25 settembre 2022
Teocoli è uno, nessuno e centomila. È Galliani e Cesarone Maldini, Valentino Rossi e l'avvocato Prisco, Caccamo e il presidente Moratti, Carletto Mazzone e Ibra. Teo è un Fregoli moderno che ti avvince, alternando la voce delle marionette che ha creato, imitandone tic e smorfie come fosse in scena. È il re della satira sportiva e recita anche se prendi soltanto un caffè con lui. Questo straordinario showman della vita, che ha avuto molto ma non tutto dallo star-system, ha scritto a quattro mani con Gabriella Mancini un bel romanzo sportivo: El piede de Dios. Surreale e psichedelico.
Teo, perché questo romanzo?
«Per raccontare la storia di Brigitte Lampion, così chiamato perché i genitori amavamo la Bardot. Lui è un uomo, alto due metri e 10... E più che asso lo definirei un due di coppe che ha vissuto una vita unica, debuttando a 40 anni nella primavera dell'Inter».
Dell'Inter? Ma tu non sei un ultrà del Milan da sempre?
«Sì, al Derby negli anni '70 avevamo il Milan nel sangue. Ma tutti fanno errori gravi e il mio Lampion, dopo l'Inter, si corregge subito e va al Milan. Dopo una carriera rocambolesca a 70 anni gioca la partita d'addio a San Siro».
Nel libro c'è la Milano della tua giovinezza, vero?
«Sì, racconto i Navigli degli anni '60 e '70 partendo da fatti accaduti ma romanzandoli. Tra Inter e Milan si sono sempre verificate situazioni assurde».
Se pronuncio la parola Inter, qual è la reazione?
«Ho stima per tanti interisti, Moratti in testa, un vero signore, molto leale. E poi come dimenticare l'avvocato Prisco, un attore nella vita. Se vinceva l'Inter, in tribuna mi abbracciava.
Ma se perdeva filava via smoccolando: Teocoli, lei è uno sporco milanista, mi saluti la signora».
L'Inter attuale farebbe felice Prisco?
«Per niente. Inzaghi, si chiederebbe, è l'allenatore giusto? E poi Lukaku: Prisco non l'avrebbe mai riportato a Milano. Le minestre riscaldate sono sempre insipide, avrebbe detto. A ragione... Ricordate quando il Milan riprese Shevchenko o Gullit? Furono dei fiaschi».
A proposito di minestre riscaldate: Allegri alla Juve?
«L'Avvocato Agnelli, con la sua erre moscia, direbbe: come si fa a silurare uno che non guadagna certo un tozzo di pane? Allegri è una minestra riscaldata ma la dirigenza mi sembra bollita».
Torniamo al Milan?
«Volentieri. Con il Napoli è andato come un treno, ha preso due traverse e meritava almeno il pareggio. Sa che dico? Bravo Paaaaooolino!».
Cesarone Maldini è nel suo cuore, eh?
«Pensi che la prima volta che lo imitai in televisione, con quella parrucchetta da Beatles, Cesare si incacchió di brutto».
Racconti...
«La sera mi telefonò: Teo, che cacchio fai? Mi prendi per il sedere? Ci conosciamo da 40 anni, che due paia di palle! Risposi: Cesare, vuoi dire che hai quattro palle?».
Paaaooooolino è forte come dirigente, però.
«È il regista di questa società che si è ricreata con giocatori giovani e una gestione assennata».
Per anni è stato tenuto fuori dal Milan, come mai?
«Alla fine della sua ultima partita, San Siro lo fischiò di brutto e nessuno lo difese in società. Assurdo. Adoro questi personaggiche legano la propria vita a una maglia e non la tradiscono mai: PaoLLIIN,IIA ,,. WIXOM 1.0111.4 lo, Totti e De Piero, in questo calcio di mercanti, sono rari».
Pioli è il tecnico giusto per questo nuovo ciclo?
«Chiamatelo Padre Pioli. Lui è ecumenico, gestisce la squadra come un parroco in sagrestia. Fa un buffetto, si alza la tonaca e via in campo».
Gode il suo Galliani, a Monza?
«Vive il calcio in modo bipolare: domenica scorsa era triste per la ko del Milan e rideva come un pazzo per il Monza. Galliani mi ha sempre fatto ridere, è un ultrà nell'esultanza con quella bocca storta e la bocca storta».
Il Napoli di Felice Caccamo fa paura a tutti, adesso...
«Spalletti lo fa giocare bene. Nel weekend Caccamo chiude il suo negozio che si chiama, chissà perché, Cose di casa d'altri e non si perde una partita. Peccato non ci sia più Pesaola per le trasferte che faceva con Bruscolotti alla guida della sua Arna».
Questo Milan può fare il bis tricolore?
«Il nuovo corso creato con tanti giovane è quello giusto. Mi vengono in mente Kalulu, quando è arrivato faceva ridere per il cognome e invece si è rivelato un bel difensore. O Tonali che, pur di restare al Milan, ha accettato un compenso adeguato, quello che non ha fatto Donnarumma».
Un flash della tua passione per il Milan?
«Nella mia vita Enzo Jannacci à stato fondamentale. Mi fece conoscere il Derby e mi scritturò per il suo primo spettacolo, Saltimbanchi si muore, con Cochi e Renato. Il giorno della prima era domenica ma io non rinunciai ad andare a vedere il Milan; arrivai in teatro con bandiera, sciarpa e cappello del Milan. Salii sul palco in quelle condizioni e la gente cominciò a ridere e ad applaudirmi. Pensava fosse una gag».
Un nuovo personaggio che ti piacerebbe imitare?
«Fefè De Giorgi. Sembra fatto apposta per entrare nella mia collezione di marionette».
Da fanpage.it il 17 luglio 2022.
Teo Teocoli e Silvio Berlusconi hanno avuto un rapporto burrascoso, al punto tale che il Cavaliere lo cacciò da Arcore durante un meeting, e quindi da Mediaset. In una intervista pubblicata a Il Giornale, il mattatore milanese racconta l'aneddoto di una riunione con Teo Teocoli, Massimo Boldi e Gaspare e Zuzzurro, ai tempi del grande successo di "Emilio".
Le rivelazioni di Teo Teocoli.
Ma qual è stata la frase che è costata il posto a Mediaset a Teo Teocoli? Ecco cosa ha raccontato il comico a Il Giornale: Con Massimo Boldi e Gaspare e Zuzzurro andammo da Silvio Berlusconi a Villa San Martino. Parlammo, fece delle proposte, non ero d'accordo e dissi: Lei costruisca pure Milano 2 che io faccio il mio mestiere. Fui praticamente accompagnato alla porta. Aspettai in auto un'ora e mezza prima che gli altri uscissero.
La pace e il successo
Erano gli anni di "Emilio", siamo tra la stagione 1990 e quella 1991. Poi per Teo Teocoli ci saranno anni d'oro con Mai dire gol e il rilancio definitivo in Mediaset, che lo stesso attore 76enne racconta così: "Qualche anno dopo fu proprio Silvio Berlusconi a richiamarmi nelle sue tv, aveva riconosciuto il mio talento". Inizia così il nuovo corso di Teo Teocoli con un successo commerciale senza precedenti, diventando uno dei pilastri dell'intrattenimento di Mediaset.
Teo Teocoli ritorna adesso in Mediaset insieme a un altro grande ritorno, quello di Zelig con Claudio Bisio e Vanessa Incontrada, in onda ieri sera. Il comico milanese è stato l'ospite d'eccezione del programma: "Hanno dovuto tagliare dieci minuti perché quel pazzo di Bisio ed io abbiamo improvvisato, oh quello non molla mai", ha dichiarato Teo Teocoli: "Io sono un cabarettista e il cabaret è quel mondo dove si balla, si canta, si scherza e si improvvisano cose. Zelig non è proprio casa mia. Io sono più da Derby. Ci ho trascorso 17 anni e quell'impronta non andrà più via".
Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 2 maggio 2022.
Tutto finisce bene. Nel migliore dei modi. E anche stavolta, zia Mara - la regina indiscussa della domenica - incassa un altro grande risultato: riesce a mettere le cose in chiaro tra Teo Teocoli e Maurizio Costanzo. Rigorosamente in diretta a Domenica in.
Ma cosa accade? Teocoli è ospite di Mara Venier quando attacca, all'improvviso, Costanzo (che sta guardando il programma da casa): un equivoco che mette subito in guardia la conduttrice. Teocoli dice di essere stato snobbato da Costanzo.
Ed allora, Mara Venier dice al comico che le sue parole potrebbero sollevare un polverone aprendo un caso spinoso televisivo. Solo pochi giorni fa Teocoli a Belve (su Rai 2) aveva raccontato di vivere un periodo delicato dal punto di vista professionale: la tv si sarebbe dimenticata di lui e questo lo renderebbe molto triste. Secondo Teocoli l'attrito con Maurizio Costanzo sarebbe nato da un suo vecchio rifiuto relativo a quando andava in onda Buona Domenica.
"Mi dispiace ogni tanto essere dimenticato dalla tv. Sai quando fanno quegli spezzoni in cui si vedono tutti gli artisti? Io non ci sono mai. Ad esempio nella serie Alfabeto di Costanzo, Maurizio parla di Mai Dire Gol e di tutti i suoi personaggi. Io sono stato messo per terzultimo… 'Poi c’è pure Teocoli…'.
L’intervistatore allora gli ha detto: 'Ma è Teo!'. Maurizio ha risposto: 'No, lasciamo perdere Teocoli, non ci interessa'. Io so il perché di ciò: perché non sono andato da lui a fare Buona Domenica. Io incontrai Fiorello che aveva fatto Buona Domenica l’anno prima e mi disse che aveva faticato tantissimo. Io dico la verità, non accuso nessuno", dice il comico milanese.
Così, dopo queste parole, Mara Venier rivolge un appello a Maurizio. Che chiama in diretta. "Digli a Teocoli che non ho nulla contro di lui e che mi dispiace se in quella trasmissione (Alfabeto di Costanzo, ndr) non ho detto le cose giuste. Lui ha la mia stima, lo dico pubblicamente, la mia stima è assoluta. Teo è stato un bravo attore, leggermente sfortunato". Costanzo, poi, invita Teocoli al suo show - il più longevo della storia della tv che è tornato dal teatro Parioli di Roma. "Ci vado volentieri", risponde Teocoli. "Questa cosa con Maurizio mi risolleva moltissimo, mi dà tanta gioia e mi rinforza. Mi fa piacere andare da Maurizio, così parliamo anche delle nostre cose".
Domenica In, Teo Teocoli attacca Costanzo: "Mi ha fatto fuori". E lui chiama in diretta: clamoroso su Rai 1. Libero Quotidiano l'01 maggio 2022.
Momenti di tensione e imbarazzo a Domenica In su Rai 1: Teo Teocoli, intervistato da Mara Venier, ha fatto delle esternazioni un po’ particolari su Maurizio Costanzo. In particolare, ha detto di essere stato snobbato da lui. A quel punto la padrona di casa prima si è voluta dissociare da quanto detto dal suo ospite e poi ha invitato il marito di Maria De Filippi a chiamare in diretta per chiarire, se lo avesse ritenuto necessario.
A quel punto Costanzo ha accolto l’invito di zia Mara e ha chiamato in diretta. Prima di vedere cosa sia successo, però, è necessario sottolineare che Teocoli non vive un buon momento dal punto di vista televisivo. Qualche giorno fa, intervistato a Belve, aveva detto di essere giù di corda perché – a suo dire - la tv ogni tanto si dimentica di lui. E a un certo punto dell’intervista ha tirato in ballo Maurizio Costanzo, sostenendo che per un suo vecchio rifiuto relativo a quando andava in onda Buona Domenica, il giornalista avrebbe cominciato a lasciarlo da parte.
“Digli a Teocoli che non ho nulla contro di lui e che mi dispiace se in quella trasmissione (Alfabeto di Costanzo, ndr) non ho detto le cose giuste – ha detto Maurizio al telefono -. Lui ha la mia stima, lo dico pubblicamente, la mia stima è assoluta. Teo è stato un bravo attore, leggermente sfortunato”. Il giornalista poi ha invitato Teocoli al Maurizio Costanzo Show. “Ci vado volentieri”, ha risposto l’imitatore. Che alla fine ha aggiunto: “Questa cosa con Maurizio mi risolleva moltissimo, mi dà tanta gioia e mi rinforza. Mi fa piacere andare da lui, così parliamo anche delle nostre cose”.
Dagospia il 22 aprile 2022. COMUNICATO STAMPA
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, in onda il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Interviste fatte con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci e ombre delle sue ospiti
In questa puntata di Belve Francesca Fagnani riesce a realizzare un’intervista speciale con Teo Teocoli che, dismessi i panni dei suoi personaggi più famosi, confida alla giornalista alcuni aspetti poco noti e più autentici del suo carattere.
Teocoli, sollecitato dalle domande della Fagnani, chiarisce alcuni aspetti della sua lite con Adriano Celentano, che ha posto fine a un’amicizia durata 60 anni: “Lei mentre stava a Verona chiamava Celentano e lui non rispondeva?” Teocoli conferma: “L’ho chiamato un paio di volte, e da allora non ci siamo più sentiti”. Poi spiega: “Celentano voleva che lo imitassi perfettamente così potevo presentare io lo spettacolo al posto suo, ma questa cosa a Mediaset non piaceva”.
Quando la Fagnani chiede a Teocoli di Claudia Mori, se, cioè, avesse discusso anche con lei, l’attore senza parafrasi dice: “Claudia Mori...è la moglie di Adriano Celentano”. Al che la Fagnani lo spinge a chiarire: “Cioè, vuol dire che non esisteste senza Celentano” ...Teocoli con molta nettezza dichiara: “Cosa esisterebbe a fare...?”
Teocoli, poi, ricorda alcuni momenti dolorosi della sua infanzia. “Un pomeriggio - racconta l’attore - venne un amico di mio padre, quando tornai a casa, mio padre e il suo amico stavano ascoltando su un giradischi i discorsi di Mussolini. Lì pensai: ma mio padre è proprio un fascistone di merda. Cominciò un conflitto duro, le sberle diventarono pugni per me e mia madre, e questa cosa è durata finché sono cresciuto, poi, dopo, l’ho appeso al muro”. Teocoli spiega inoltre perché non è dispiaciuto di non essere andato al funerale del padre “Ho fatto bene a non andare al suo funerale, mia mamma lavorava tutto il giorno lui non faceva niente”.
Durante l’intervista, Teocoli passa da momenti ironici a momenti più duri, ad esempio, non si tira indietro quando si tratta di dare giudizi su alcuni colleghi, su Abatantuono per esempio “Non ha mai aiutato nessuno”. Teocoli non tralascia di raccontare dei suoi amori, in particolare ricorda che è stato fidanzato sia con Loredana Bertè sia con Mia Martini, ma non contemporaneamente, e comunque dice: “Mia martini si innamorò di me”. Infine la Fagnani gli chiede spiegazione di una sua precedente dichiarazione sull’omosessualità, dice: “Ha detto che non ha mai avuto esperienze omosessuali ma ci ha pensato”, e Teocoli con candore spiega che “Negli anni ’70 c’erano certi travestiti che facevano girare la testa, come Amanda Lear, lei che era la musa di Salvador Dalí e non mi filava, nemmeno di striscio”.
Teo Teocoli: «A cena Agnelli mi chiese se a Niguarda si sciava. Per la Bardot io ero “sfigato”». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.
Il comico si racconta a tutto tondo, dall’infanzia difficile da emigrato ai grandi successi.
Cosa le hanno insegnato i suoi genitori?
Niente
Antonio Teocoli da bambino lo chiamavano Nino, poi a un certo punto è diventato Teo. È cresciuto nella periferia della periferia di Milano ma è arrivato a frequentare i ricchi e famosi, quelli che negli anni 60 e 70 stavano a Saint-Tropez. Era fidanzato con la segretaria di Brigitte Bardot e «lei non capiva perché fossi sempre lì, mi guarda e dice: Come mai tutti sono in giro e tu sei qua? Teò, sfigatò». Ballerino strepitoso («Se avessi avuto vent’anni in America avrei fatto La febbre del sabato sera. Tony Manero ero io»), non era uno studente modello («Venivo sempre bocciato. Ho fatto Ragioneria, come Fantozzi»).
A Saint-Tropez si presenta con un motoscafino da 50 metri, il GA, Gianni Agnelli.
«Teo sei greco? No, italiano. Dove vivi? A Niguarda. Ma si scia da quelle parti? No, ma da Cusano Milanino si vedono le montagne. Andammo a cena con lui nel ristorante più caro di Saint-Tropez, mangiare costava come una 500, simulai una raffinata e signorile inappetenza. Temevo il conto, ma ero ingenuo: se c’è Agnelli al tavolo mica si fanno le quote»
Prima di Saint-Tropez, c’è Taranto dove è nato 77 anni fa, poi subito a Reggio Calabria: quando è arrivato a Milano lei era il terrone...
«All’epoca manco sapevano dove era Reggio Calabria, ci volevano due giorni per arrivarci con la Freccia del Sud che si fermava anche dal benzinaio. Erano dei treni che oggi sarebbero di lusso con il vellutino, gli scompartimenti, la retina per i bagagli: quando ero piccolo mi mettevano lì a dormire, a Paola si tiravano giù i finestrini e finalmente si respirava. A Reggio parlavo con il mio accento milanese e sembravo un tedesco; a Milano vivevamo una vita agra, abitavamo in uno scantinato, una specie di box, non avevo niente. Mio padre era in giro a cercare lavoro o qualcos’altro; mia madre faceva la sartina e la trattavano abbastanza male; la gente mi chiamava Africa, terùn, andalù. Il cartello Non si affitta ai meridionali era in bella vista».
I suoi genitori non le hanno insegnato proprio niente? Sua mamma?
«Mia mamma era figlia di giostrai, mio nonno e mia nonna li ho visti solo una volta, li ho conosciuti un pomeriggio in due ore, e poi non li ho più visti, non so nemmeno se sono morti».
Suo papà?
«Mio padre mi ha insegnato solo a parare i colpi perché era un po’ manesco. A quei tempi i ceffoni volavano, non come adesso; le pappine arrivavano in qualsiasi punto. Una volta sul tram mi diede una sberla sul coppino così forte che gelò l’aria, tutti zitti fino al capolinea a Niguarda. Era marinaio e credo che la guerra lo abbia rovinato: era troppo incazzoso, non voleva lavorare sotto padrone ma non aveva nemmeno la quinta elementare, cosa poteva fare? Nessuno poteva aiutarmi, abitavamo dietro l’Ospedale Maggiore, tra prati e canali di irrigazione limpidissimi dove facevamo il bagno».
Quando ha capito che sapeva far ridere?
«Ho sempre avuto una grande verve artistica fin da piccolo, facevo ridere, volevo essere sempre protagonista, facevo qualunque cosa pur di fare lo scemo, il pagliaccio. E poi cantavo bene: a scuola in cortile cantavo canzoni napoletane, ero carino quando mi pettinavo e tutti mi stavano ad ascoltare, era un momento di grande gloria e di piccola rivalsa».
A fine anni Sessanta è stato protagonista di «Hair», c’erano anche Renato Zero e Loredana Bertè.
«Loredana era già incazzosa all’epoca, quando le chiesi il nome, mise subito le cose in chiaro: saranno cazzi mia. Non pensavo sarebbe diventata famosa, perché era intonata ma non aveva una voce particolare. Renatino invece già scriveva dieci canzoni al giorno, bisognava chiuderlo nel camerino per farlo azzittire, così se le suonava da solo. All’epoca ero già amico di Adriano Celentano e fu lui a farmi fare Hair, perché tutte le cose che gli proponevano, le girava a me, diceva sempre: fatele fare al Teo. Andai a finire anche al Festival della Canzone Napoletana al posto suo dove cantai Carulina nun parte cchiù, una canzone più di merda non l’ho mai sentita in vita mia. Io presi 15 voti, vinse Modugno con 9 mila voti».
Come arrivò al cabaret?
«Frequentavo il Santa Tecla dove facevano jazz e ballo, lì c’era un pianista che si chiamava Enzo Jannacci, mi disse qualcosa di incomprensibile, non si capiva niente di quello che diceva perché biascicava. Fu lui a farmi conoscere il Derby e mi volle per il suo primo spettacolo, Saltimbanchi si muore, dove c’erano anche Cochi e Renato, Lino Toffolo. Il giorno del debutto — era la domenica pomeriggio — non rinunciai ad andare a vedere il Milan; arrivai con la radio in mano, la sciarpa e il cappello del Milan. Salii sul palco così e la gente rideva perché pensava fosse una gag».
Jannacci?
«Era un genio, faceva tutto e niente. Io mi sono sempre rimproverato di non aver cantato una delle sue canzoni, avrei dovuto interpretare Il dritto che era dedicata a me, pensata su di me, Festa nella casa popolare al 3 diceva: era dove abitavo io. Però la diede a Milva. Avrei dovuto chiedergli di scrivere un paio di canzoni per me come lui aveva fatto con Cochi e Renato, La vita l’è bela è un capolavoro che apre il cuore».
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Celentano?
«L’ho aspettato sotto casa sua a 14 anni, pensavo si chiamasse Cedentano con la d, aveva già fatto successo, la somiglianza era nella faccia da terrone che avevamo tutti e due».
Vi sentite ancora?
«Per 20 anni il 6 gennaio abbiamo sempre festeggiato il suo compleanno con canzoni, scherzi, scemate di tutti i colori. Ho fatto anche una fuga d’amore con loro due, lui e Claudia Mori, e poi c’eravamo io e Miki Del Prete: siamo stati a Madonna di Campiglio in albergo un mese. Non so cosa c’entravamo noi, ma lui da solo senza gli amici si rompeva. Da due anni non ci sentiamo più, loro hanno paura anche di una zanzara, sono ipocondriaci, paurosi, non prendono l’aereo, la nave, nemmeno l’ascensore».
Al Bano non la salutava.
«Avevo messo un suo manifesto aggiungendo una g in mezzo al nome e si leggeva Al bagno, non l’aveva presa bene».
Boldi?
«Il nostro spettacolo Non lo sapessi ma lo so nel 1982 su Antenna 3 Lombardia fu un trionfo totale, lo guardavano tutti. Boldi era la vittima designata, non so che capelli avesse, ma quando gli tiravo una sberla i capelli rimanevano su. Però facevo molto più ridere io, avevo più numeri, con il ballo, con le parodie, con il trucco, ero più energico».
La Gialappa?
«Da spalla diventai protagonista, a Mai dire gol guadagnavo 3 milioni a puntata, c’era anche Gene Gnocchi che poi l’anno dopo non volle più esserci e non ho mai capito perché. Con Caccamo, Peo Pericoli e Vettorello coprivo quasi tutta l’Italia sportiva».
Come nacque Caccamo?
«L’abbigliamo me lo aveva ispirato Necco, il giornalista di 90° minuto. La parlata mi veniva da quell’anno e mezzo a Napoli dagli zii, avevo preso l’umore della città, i gagà parlavano così, li sentivi dire: Qua non succede mai niente, me ne vado da questa città. E dove vai? A Capri... Vidi quella giacca azzurra, era perfetta, ma strettissima. Anche quello fece gioco. Il regista poi sbagliò e bucò la cravatta, fu un errore geniale».
Galliani?
«Non lo conoscevo, ma vidi i suoi occhi e dissi: quelli possono anche essere i miei occhi».
Iniziò a imitarlo: con l’immancabile impermeabile e l’inseparabile cravatta gialla.
«Era compiaciuto, ma faceva già ridere da solo, quando esultava poi con la bocca storta...».
Ha fatto due Festival di Sanremo con Fazio.
«Se ne parla poco perché lo abbiamo sputtanato con quelle due edizioni, la gente non aspettava altro che uscissi io in mutande a imitare il sindaco Albertini, a cantare come Ray Charles, a parlare come Maldini: diventò un varietà, non più un festival della canzone. A Pavarotti piaceva molto Albertini in mutande, si divertiva come un matto. Una sera ci mancava un ospite, il maestro era lì che ascoltava: Faccio io. La sera dopo arrivò Bono degli U2... A fine Festival mi regalò una sveglia di Cartier».
Poi Fazio ruppe con la Rai...
«E io feci l’errore più grosso della mia vita: il contratto con Mediaset. L’errore non era andare a Canale 5 ma firmare senza mettere le cose scritte per bene. Dovevo fare Italiani con Bonolis e Laurenti, ma avevano già registrato la sigla senza di me. Non sapevo cosa fare, mi presentai per due puntate come ospite e poi me ne andai».
Passa per uno con un brutto carattere.
«Lo dicono tutti. Un tempo mi incazzavo molto spesso. Penso di essere il re del dettaglio e quindi invece di ragionare strillo subito».
Con chi ha litigato?
«Con Fatma Ruffini mi incazzavo molto quando tagliava i miei sketch: ma siamo matti, tu non tocchi la roba che faccio io, cosa puoi fare di meglio? Con la Gialappa mi sono incazzato perché continuavano a chiamare artisti di sinistra: troppi. Anche con Boldi, ma lui si spaventava e non reagiva. Gino e Michele dicono di me che un momento mi ammazzeresti e un altro mi adori. Il cambio di personalità e atteggiamento è qualcosa che forse mi ha lasciato mio padre».
Che fa ora?
«Lavoro ce ne è poco, in questa stagione ho fatto tre serate, ma dopo 60 anni posso anche riposarmi. Un artista però senza il lavoro non è niente, cosa altro può fare? Da sempre io mi applico solo nell’arte, tutto quello che ho imparato l’ho fatto vivendo come dice Mogol».
La pensione?
«Io morirò sul palcoscenico».
Alvaro Moretti per “Molto Donna - il Messaggero” il 26 marzo 2022.
Era un sogno che non aveva sognato, Teresa. Dopo un'ora che ci parli, con la Saponangelo la madre della Mano di Dio capisci che prende la vita così a morsi che i sogni non fanno in tempo a definirsi: se li è mangiati prima, li ha fatti suoi come pezzi di vita vissuta. Ha una specie di legge sua, tutta sua, per evitare i rimpianti e puntare alla soddisfazione del qui e ora. Qui e ora è un volo per Los Angeles: assegnano l'Oscar e tra i candidati come miglior film non in lingua inglese c'è otto anni dopo La Grande Bellezza il film di Paolo Sorrentino, il film in cui un ruolo delicatissimo lo ha vinto proprio lei, Teresa, uno scricciolo potentissimo nato a Taranto, vissuto a Napoli e che ha spiegato le ali a Roma. Teresa Saponangelo è un vaso di Pandora di emozioni (se non l'avete vista nel film scherzare e piangere, implodere ed espandersi è colpa vostra).
Citando Antonio Capuano, icona vera del film e della cinematografia napoletana, non ti disunire, Teresa.
«Allora, essere lì è bello, bello, bello. Io non l'avrei mai pensata una cosa così, perché non era tra i desideri di quando cominciai a fare l'attrice quasi bambina. Ma ora che arriva la cosa sento la bellezza del fatto».
Lei, Teresa, è una donna molto brillante: una Grande Bellezza, me la passa come battuta?
«Sì. Sono molto emozionata e ho cominciato a non dormire la notte, qualche notte. È una bellezza grande sapere di essere lì, vista e giudicata da attori e registi che ho amato senza conoscere, che sono stati una ispirazione continua. Oggi guardano me, noi, e scrivono, magari, come ha fatto De Niro: una lettera di incitamento per il film così bella sui nostri singoli ruoli, su Napoli con cui Sorrentino gioca come fa Woody Allen con New York».
Cita non a caso Woody Allen, uno come Molière che sta per interpretare a teatro: il nero e la commedia che si fondono.
«Ha presente Pallottole su Broadway? Lì c'è l'altra grande passione mia, il teatro: ora il cinema mi dà notorietà e successo, ma a teatro godo. E in quel film c'è tutto del teatro: i ruoli della vita e quelli della scena. L'attrice cagna, la sdolcinata nevrotica, quello che scrive e che deve accettare i compromessi. E le raccomandazioni, i ruoli che a volte arrivano per come sei piazzato nel gioco delle relazioni».
Il giro per essere la madre di Filippo, che nel film è il Sorrentino adolescente, è stato lunghissimo: provino non superato per The Young Pope, per esempio.
«C'è voluto un percorso lungo, tra noi: ci conosciamo da talmente tanto, debuttammo insieme io attrice lui in produzione, nel 1995. Se c'è una cosa che vorrei spiegare ai giovani colleghi è che la strada è lunga, ed è bello così. La frenesia, invece, ti fa perdere strada e occasioni. Forse è per questo che l'Oscar non lo sognavo: io mi sento molto soddisfatta di quello che ho. Perché so di essere stata coerente: tornare a teatro per me non è mai un passo indietro, ma una tappa di arricchimento, anche se scelta che mi rende meno popolare di fare una fiction. E penso di avere avuto dignità soprattutto nell'errore: quando ti rifiutano. Eppoi la serietà nel gioco».
Eh sì, il gioco è una cosa molto seria.
«Seria, ma non seriosa: quasi un motto per me. Vedo molti colleghi che con seriosità perdono il contatto con gli altri: non si alimentano degli altri. Io scherzo spesso, come fa Maria il mio personaggio per Sorrentino: magari è narcisismo, ma io non sto al posto dove qualcuno mi vorrebbe relegare. E faccio la battuta, anche quella scomoda: come Cyrano, al fin della licenza, tocco. Mi piace alleggerire».
Maria è una giocoliera: fa ridere e tenere il fiato sospeso quando, da madre di famiglia, tiene in equilibrio una storia con un marito infedele e amatissimo o attira le attenzioni con scherzi tremendi e riuscitissimi o con tre arance palleggia come una circense.
«Lei ride, molto, e soffre tantissimo. Forse quel tipo di donna lì è figlia di un'altra cultura o forse solo ancora molto innamorata di suo marito. Io non lo sopporterei, un tradimento chiude la mia porta».
La sintesi dei mille colori di Maria (come quelli di Napoli, citati da Sorrentino anche nella canzone finale)?
«La scena in ascensore con Lino Musella: dal pianto per quel tradimento a un sorriso strappato con un gesto volgare, ma salvifico. Quella è la mia scena da Oscar di un personaggio che è amato per le sue tante sfaccettature».
E suo figlio Luciano, quasi coetaneo del Filippo/Sorrentino del film, gliel'ha assegnato l'Oscar?
«No, l'ha assegnato a Toni Servillo... Quando ha visto il film era molto emozionato, ma me l'ha dovuto dire: mamma tu sei stata brava, ma Servillo è più bravo».
Maria e Teresa: due madri.
«Questo ruolo mi ha aiutato a vedermi madre in un altro modo, con un'altra luce: nel quotidiano con Luciano sono la madre assertiva, che indica le regole cui lui cerca di sottrarsi. Quella dura, perché io sono così... rigorosa. Sono la madre del dovere. Maria è dolcissima e mi ha tirato fuori dal cuore quell'aspetto: la cura, l'accudimento, la presenza discreta. Quella con cui carezzo Filippo mentre dorme. Mi ha aiutato a uscire dalla compressione della responsabilità che sento come genitore. E Luciano mi ha scoperta diversa: più morbida, pacificata, serena. A Sorrentino devo anche questo: una grande opportunità come mamma e donna».
In questo film, il film più intimo di Sorrentino raccontando storia e tragedia della sua famiglia, con la perdita per un incidente dei suoi amatissimi genitori, ha un ruolo delicatissimo.
«Mi sono sentita amata, voluta bene da Paolo: è stato accogliente con me, in ascolto e disponibile. Posso dirlo? Non me l'aspettavo così ed è stata proprio una bella sorpresa».
I complimenti di De Niro e l'adrenalina che sale: ci proviamo a sognare, adesso, a ridosso della notte degli Oscar?
«Se fossi stata americana, nello star-system di Hollywood avrei sognato un film con Spielberg, ma sono figlia di questa nostra realtà e ho già avuto tanto. Soprattutto godo e mi diverto a scegliere sempre».
I riferimenti di Teresa Saponangelo?
«Nell'armadio ho una foto con Francis Ford Coppola: ci feci due provini per una pubblicità del caffè Illy. Non mi prese, ma mi ha scaldato il cuore. Poi dico tre grandi donne del cinema italiano: Vitti, Melato e Silvana Mangano. Tutte e tre belle e comiche: l'umorismo può essere sexy. Se la ricorda quella cosa delle battute che non so trattenere...»
Estratto dell'intervista a Tiberio Timperi di Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano” il 12 dicembre 2022.
(...)
Un giorno Fede mi ferma: 'Sei bravo, ma parli troppo veloce, sembri Mentana: devi fare più pause, come me. Sai perché?
Mi dimentico le cose, ma se vado piano, con qualche pausa, allora ricordo e la gente è convinta che stia pensando'.
Berlusconi lo ha incontrato?
Una mattina entra in redazione accompagnato da Dede Cavalleri, salivazione azzerata. Si avvicina a me: 'Farà strada, l'ho guardata. Però le do un consiglio: sistemi le sopracciglia'. E io: 'Presidente, mi avete acquistato così'. A quel punto la Cavalleri sbianca.
Effettivamente sono folte.
(Ride) Anni dopo le ho sistemate: aveva ragione.
La caratterizzano.
Come il nome: quanto mi hanno rotto le palle! Ora mi piace.
(...)
Continuiamo con l'elenco degli incontri.
Raffaella Carrà: con lei c'era un forte affetto, ma ho commesso l'errore di mandare a quel paese Japino. E mi tolse il saluto.
Come mai?
Premessa: era una professionista assoluta e fu la prima a spiegarmi una legge importantissima: 'In televisione è fondamentale come ci stai: anche se hai uno spazio piccolo, devi ottimizzarlo'. Insomma, mi chiama per un programma a giochi complicatissimo, Navigator, in cui non si capiva niente. A un certo punto mi lamento con Japino e da lì i nostri rapporti finiscono.
Quando ha deciso di lasciare il giornalismo per il mondo dello spettacolo?
Il giorno dell'attentato a Borsellino: erano le cinque del pomeriggio, avevamo l'edizione flash del telegiornale che anticipava quella condotta da Fede. Mi chiama il corrispondente da Palermo: 'La bomba è sotto casa di Borsellino, non si sa se è vivo o morto. Lo dico o no?'. E io: 'Non fare il suo nome, per rispetto alla famiglia'. Andiamo in onda, nessuno pronuncia il nome di Borsellino, finisce la diretta e subito mi chiama Fede: 'Stronzo, coglione, non sarai mai un giornalista, hai perso lo scoop'.
E lei?
Ho risposto male e ho capito di non aver voglia di far carriera con tali modalità; e poi per andare avanti era necessario entrare in qualche cordata, pubbliche relazioni, o sposare la causa di Forza Italia.
Forza Italia già aleggiava?
Ho assistito alle riunioni prima del lancio ufficiale; (sorride) di sera, nello studio normalmente utilizzato per Pressing, beccavo le prime prove tecniche di dibattito politico, con tanto di accusa e difesa.
(...)
Torniamo ai maestri di tv.
Gianfranco Funari: 'A Tibe', tu non sei un centometrista, sei 'n maratoneta: li ammazzerai tutti sulla distanza' (lo imita alla perfezione). Quando stavo a Rete4 andavo sempre a chiacchierare con lui e lì ho capito che in televisione devi portare te stesso, nessuna finzione.
Lei ha avuto una storia con...
(Interrompe la domanda) Non è vero.
Cosa?
Non ho avuto una storia con Marina Berlusconi.
Excusatio non petita.
La domanda non è su quella voce assurda?
No, ma spieghiamola.
Lavoravo al Tg4, avevo problemi con Fede, messo ai margini per nove mesi, alla fine ne ho parlato con Marina Berlusconi e per gratitudine mi presentai con un mazzo di fiori. Non ci volevo provare. Quando andai via dal Tg4, sull'Espresso uscì un'indiscrezione: 'Chi è quel giornalista con l'occhio verde, romano, cacciato via da Mediaset perché ci ha provato con la figlia del proprietario?'. Ero io. Falsissimo.
Poco fa le volevamo chiedere di Amanda Lear.
Persona deliziosa, la sento, ed è matta come poche altre.
Esempio di follia.
(Ride) Quando venivamo inquadrati a mezzo busto, per mettermi in difficoltà, mi strizzava il pacco.
(...)
Ora è anche attore.
Un ruolo nella serie di Lillo e uno nell'ultimo film di Massimiliano Bruno. Mi piace tantissimo, nonostante i tempi morti del set; (pausa) in Italia se sei inquadrato come giornalista non ti prendono sul serio in altri ruoli, quando negli Stati Uniti Denzel Washington e George Clooney nascono giornalisti.
È il Clooney italiano.
(Ride) Una volta l'ho fregato.
Clooney?
Più di vent' anni fa, la Dixan doveva scegliere tra me e lui. La casa madre voleva lui. Peccato che il 70% del fatturato europeo veniva realizzato in Italia e nel 1999 ero più famoso di lui. Poi Clooney si è rifatto. Ampiamente.
Lei chi è?
(Ci pensa e intreccia sospiri a inizi di risposta) Uno che non smette mai di crederci.
· Tim Burton.
Fulvia Caprara per “La Stampa” l'1 novembre 2022.
«Mercoledì sono io». Esattamente come Emma Bovary per Gustave Flaubert. Gli sproloqui non sono il suo forte e, ancora oggi, dopo i premi, i successi, l'amore sconfinato dei fan, Tim Burton appare sempre vagamente a disagio ogni volta che è costretto a spiegare con le parole la genesi delle sue meravigliose creature. Stavolta, però, al Lucca Comics & Game, prende coraggio e si confessa: «Amo Mercoledì perché mi identifico in lei, per metà della mia vita ho avuto problemi di salute mentale e capisco molto bene il suo disagio. Per me è una fonte di ispirazione, dice sempre in modo molto diretto quello che prova, cosa che spesso, nei rapporti con gli altri, ti mette nei guai, però, proprio per questo, la considero un simbolo importante. Ha una forza semplice, tranquilla, silenziosa».
Da dove nasce, secondo lei, il successo della «Famiglia Addams»?
«Sono convinto che tantissime famiglie siano strane più o meno come gli Addams, chiunque può trovare un modo per identificarsi in quel nucleo familiare. E poi un sacco di bambini e di ragazzi provano imbarazzo per i loro genitori, figuriamoci se uno si ritrova ad avere Morticia come madre».
Quando ha conosciuto gli Addams e perché le sono tanto piaciuti?
«Sono cresciuto guardando la serie tv, naturalmente dopo aver letto i fumetti. Mercoledì è stato, fin dall'inizio, il personaggio che più mi ha affascinato, anche perché fin da ragazzino mi sono sempre sentito come lei. Condividiamo lo stesso sguardo in bianco e nero sulla vita, per questo ho cominciato presto a chiedermi come sarebbe diventata crescendo, frequentando la scuola, entrando in contatto con gli insegnanti, andando in terapia».
Mercoledì è soprattutto una outsider, lo dimostra il suo rapporto con i social, di totale estraneità, all'opposto di quello dei suoi coetanei. Lei come li vive?
«Ho letteralmente paura di Internet, ogni volta che ci vado per cercare qualcosa mi ritrovo in qualche buco nero, in qualche strano video con gatti impressionanti forse i social possono anche essere utilizzati bene, e Internet è uno strumento creato per il bene, io li temo, ma esistono, sicuramente su qualcuno avranno effetti positivi. Però, come Mercoledì, io continuo a rifiutarli».
La scuola, non solo la Nevermore Academy frequentata dalla protagonista, può essere difficile per tutti. È stato così anche per lei?
«Mi viene in mente un mio ricordo personale, il ballo di fine anno delle superiori, nel 1976, lo stesso anno in cui era uscito Carrie Lo sguardo di Satana. A quella festa mi sono sentito come Carrie, cioè con la sensazione di essere obbligato a stare lì, senza sentirmi parte di quello che mi circondava. Sono sensazioni che non si dimenticano, ecco, anche per questo, sono in sintonia con Mercoledì. Lei si sente reietta tra i reietti, ed è quello che io ho provato per l'intera esistenza, nei confronti dei miei genitori, della scuola, di tutto».
Per la prima volta dirige una serie, come è andata?
«Ho trovato interessante avere l'occasione di lavorare con un ritmo diverso, con una "cottura" più lenta rispetto a quella del cinema. Mi è anche piaciuto stabilire il tono del racconto, sapendo che poi altri registi avrebbero diretto le altre puntate, traggo sempre ispirazione dalle persone con cui lavoro e ho un gran rispetto nei loro confronti. Creare una serie significa entrare a far parte di un universo un po' strambo, curioso. Il cinema resta comunque il mio primo amore, sono convinto che ci sia ancora spazio per i film e credo che poi, in fondo, i due mezzi non siano così dissimili».
Come è stata scelta l'attrice protagonista, Jenna Ortega?
«È un personaggio iconico, era difficile trovare un'attrice che potesse interpretarlo. Senza Jenna la serie non sarebbe potuta nascere. Sono stati importanti i suoi occhi, bellissimi, e poi la forza di carattere, Jenna è stata capace di ritrarre una figura in bianco e nero, con qualche sprazzo di luce, qualche lato umano, che non intacca la sua natura profonda».
Gli insuccessi sono il pane quotidiano dei suoi personaggi prediletti. Lei come li ha superati?
«Ognuno fallisce, la vita è fatta di svolte improvvise, di alti e di bassi, magari sei convinto di fare la cosa giusta e all'improvviso ti accorgi che non è così. Tutti devono vedersela con questo tipo di fallimenti, succede a Mercoledì come a chiunque, nel mondo reale».
Qual è il suo rapporto con la galassia dei fumetti?
«La loro eredità è fondamentale, ho fatto Batman, insomma qualche fumetto devo pure averlo letto Amo disegnare, anche se da ragazzino ho sempre avuto problemi nel leggere le didascalie delle storie, non capivo mai a quale riquadro si riferissero»
Tim Burton: “La mia Mercoledì? Ce n’è una in ogni famiglia”. Paolo Lazzari il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Anteprima mondiale della nuova serie Netflix. Il regista: “Anche io mi sono sentito un reietto, ma gli strani sanno anche essere forti”
Quando fa il suo ingresso sul palcoscenico del teatro del Giglio, catino brulicante in uno dei giorni più densi del Lucca Comics and Games, la folla si alza in piedi in sincrono, sommergendolo di applausi. Lui accenna un sorriso e strizza l’occhio dietro le lenti scure, come l’abito affilato che indossa. Pare quasi provare una punta di imbarazzo, come se tonnellate di pellicole acclamate d’un tratto non contassero molto. Poi accavalla le gambe dinoccolate e si scioglie, iniziando a parlare con disinvoltura della sua nuova creatura.
Se la gente apprezza così tanto Tim Burton forse è per lo stesso motivo per cui, dopo tanti anni, continua ad amare la Famiglia Addams. Perché, in fondo, gli outsider sono anche quelli che riscuotono la simpatia collettiva. Imbranati, sfavoriti, costantemente fuori tempo rispetto alla società che li circonda, eppure alla fine probabilmente vittoriosi per via di quella capacità congenita di non tradirsi mai.
Come Mercoledì, ragazzina che trangugia e sputa via la banalità inferta dal mainstream per seguire la sua personale direzione. La serie Netflix incentrata su di lei uscirà il prossimo 23 novembre, ma al Lucca Comics stasera verrà proiettata l’anteprima mondiale. Per Burton è un battesimo: lui, abituato a fabbricare film intricati ma ritmici, adesso ha dovuto misurarsi con il tempo diluito dello spettacolo on demand.
“Da piccolo - racconta - mi sentivo esattamente come Mercoledì: fuori contesto, diverso, impacciato. Penso che in fondo ci sia un soggetto così in ogni famiglia. Gli Addams poi, sono gli strani per definizione. Identificarsi è semplice”.
La serie prova a fare uno scatto in avanti, sgualcendo lievemente la carta d’identità della protagonista - una straordinaria Jenna Ortega - per capire come se la cava con l’impatto a scuola. La Nevermore Academy è un istituto per ragazzi speciali, ma Mercoledì si sente fuori posto anche qui.
La sua esperienza con i fumetti
“La protagonista - prosegue il regista - è a tutti gli effetti una reietta tra i reietti. Lì quasi tutti si gingillano con i social, ma lei li detesta: preferisce la macchina da scrivere e il violoncello. Io sono d’accordo: internet mi spaventa, ogni volta che cerco qualcosa finisco in dei buchi neri che mi conducono a strani video con i gatti. Mercoledì è un personaggio che nasce in bianco e nero, ma io ho provato ad intravedere le sfumature che la rendono più umana”. Un compito reso più agile da Ortega: “Senza il suo carisma - precisa Burton - non credo che avremmo potuto girare questa serie. Jenna è una ragazza molto forte ed espressiva”. Insieme a lei, in un cast stellare, sbucano Catherine Zeta Jones (Morticia), Luis Guzman (Gomez), Isaac Ordonez (Pugsley) e Christina Ricci (Marilyn Thornhill).
Le cadenze di Netflix certo rispondono ad altri registri: “Ho adorato girare questa serie - rivela Burton - ma il mio vero amore resta il cinema e penso che ci sia ancora spazio per quello”. Dalla platea nel frattempo si alza una ragazza: “grazie - Tim - perché con il tuo lavoro hai fatto sentire gli strani un po’ meno soli”. Lui fa un cenno del capo e magari gli scorrono davanti agli occhi Edward mani di forbice, la Sposa cadavere, Big Fish o sleep Hollow. Poi lo incalzano sui fumetti: “da piccolo provavo a leggerli per trarne ispirazione - confessa - ma non riuscivo mai a seguire bene il flusso delle vignette”.
Quindi sfila via, il pubblico di nuovo in piedi che lo cinge nel balsamo sapido di un abbraccio collettivo. Mica male, in fondo, per uno che si è sempre sentito fuori posto.
Da leggo.it il 27 Ottobre 2022.
La vita di Tina Cipollari non è stata tutta paillettes e lustrini. Prima di arrivare negli studi di Maria De Filippi, il volto di Uomini e Donne ha vissuto un passato difficile, da ragazza mora di campagna di modeste origini a bionda opinionista del dating show. Ne ha parlato lei stessa in un'intervista a Chi, rilasciata in occasione dell'uscita del suo libro autobiografico «Piume di struzzo».
«Quel giorno ho lasciato che nel camerino mi trasformassero – racconta Tina, parlando del suo debutto nello studio di Uomini e donne, nel 2001 –. Mi sono fatta biondissima, mi sono truccata, vestita, quasi travestita, tanto che mi chiedevano: “Ma sei sicura?”. Sí, ero sicura, volevo che a casa, guardando il programma, non mi riconoscesse nessuno. E intanto cominciavo a riconoscermi».
Una trasformazione che le consente di superare il triste epilogo di un amore, quello per Antonio, che l'ha molto segnata: «È stato l’unico mio grande amore. Quest’uomo l’ho amato più della mia vita, mi ha fatto da fidanzato, da padre, da amico, è stato tutto quello che desidero in un uomo. E quando ho iniziato quella frequentazione ho anche ricevuto critiche da parte delle mie amiche, dicevano che era troppo grande per me. E poi era divorziato, aveva dei figli… lo ho seguito il mio cuore e ho fatto bene. Non ho mai notato la differenza d’età».
«Era molto ricco d’accordo, ma si era fatto da solo, aveva dei valori – prosegue l’opinionista di Uomini e donne, mettendo a tacere sul nascere le possibili critiche di chi la taccerebbe di una relazione spinta dall’interesse all’agiatezza –, aveva viaggiato, aveva costruito la sua vita. Mi ha insegnato tanto, mi ha cambiato l’esistenza».
Scrivere la propria autobiografia ha rappresentato una cura per Tina Cipollari: «Scrivere è stato terapeutico. Oggi ringrazio quella bambina triste: non sarei la donna determinata e con valori radicati che sono oggi senza quella radice. Tutto sommato quello che detestavo, i vestiti brutti, la mia casa orrenda e due genitori assenti, piegati nei campi, che tornavano stanchissimi a sera, che non ce la facevano neanche a parlare, altro che dialogo – tutto mi è servito, anche a superare quella timidezza data dalla “mancanza”».
Tina Turner, il figlio Ronnie trovato morto nella sua casa di Los Angeles. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.
È stato trovato nella sua casa di Los Angeles. Aveva 62 anni. Ancora incerte le cause della morte. È la seconda tragedia che colpisce la cantante: il figlio maggiore Craig si era sparato nel luglio 2018
Nuova tragedia per Tina Turner, 83 anni: il figlio Ronnie, 62 anni, è morto nella sua casa nella San Fernando Valley, a Los Angeles, California. La moglie, la cantante francese Afida, ne ha dato l’annuncio su Instagram. Secondo il sito del New York Post, il figlio della Turner e del secondo marito Ike (1931 – 2007) aveva avuto molti problemi di salute, tra cui un cancro. Tmz ha parlato con fonti della polizia secondo cui soccorritori erano stati chiamati a casa dell’uomo che aveva accusato problemi di respirazione. All’arrivo dell’ambulanza però Ronnie ha smesso di respirare ed è morto. Per la cantante è la seconda tragedia familiare: il primogenito, Craig, nato dalla relazione di Tina con Raymond Hill, sassofonista della band Kings of Rhythm, si è tolto la vita nel luglio 2018 sparandosi un colpo di pistola.
La tragedia. Chi era Ronnie, il figlio di Tina Turner trovato morto in casa: nuovo dramma per la cantante. Redazione su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Quattro anni dopo Raymond Craig, la cantante Tina Turner, 83 anni, piange la scomparsa del figlio Ronnie, trovato morto l’8 dicembre nella sua abitazione di Los Angeles all’età di 62 anni. Ronnie, musicista e attore, sarebbe stato stroncato da una crisi respiratoria. Trovato privo di sensi dai vicini, quest’ultimi hanno tentato di rianimarlo senza successo. La causa della morte non è stata ancora resa nota, sebbene Ronnie in passato aveva già lottato contro un cancro.
Tina Turner non ha ancora commentato la morte del suo secondogenito, che arriva quattro anni dopo che il figlio maggiore della cantante, Craig, si suicidò sparandosi nel luglio 2018. La cantante diede alla luce Craig quando aveva 18 anni, essendo rimasta incinta del sassofonista Raymond Hill. Craig aveva lavorato come agente immobiliare e si tolse la vita nella sua casa di Studio City nel luglio 2018 a soli 59 anni. Tina Turner ha altri due figli: Ike Turner jr e Michael Turner.
Ronnie era nato nel 1960 da Tina e suo marito Ike. La coppia si separò nel 1976 dopo che Tina accusò il marito di averla picchiata. Ike morì per overdose nel 2007. Ronnie aveva recitato accanto alla madre nel film biografico del 1993 What’s Love Got To Do With It e suonato il basso per una serie di tour di sua madre. Nel 2007 ha sposato la collega musicista Afida Turner.
Ronnie aveva anche altri due sorelle Twanna e Mia, dalle altre relazioni di Ike.
Tinto Brass, la moglie Caterina Varzi: «Io l’ho reso più pudico, le attrici dei suoi film sono quasi tutte sparite». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 7 Settembre 2022.
La moglie del regista, sposata nel 2017: «Gli dicevo che a me il sesso non importava, gli ho fatto accettare un amore non sessualizzato»
«Io erigevo muri, tentavo fughe e difese, gli dicevo che il sesso a me non importava ed era la verità. Ma più glielo dicevo più lui si avvicinava e mi cercava, mi esplorava. Vero Tinto?».
«Mmh».
Più silenzioso e minuto del solito, Tinto Brass in pigiama azzurrino è seduto in fondo al suo divano. Osserva Caterina e sentenzia: «Mi piaceva la perversione della castità». Non avrà più il sigaro in bocca e la cravatta glam ma è lui. E per certi versi sorprende la sua storia d’amore con Caterina Varzi, moglie, complice e musa dell’età matura. L’avvocata psicanalista con un passato da ricercatrice universitaria e il sacerdote del cinema erotico. Due mondi apparentemente lontanissimi che prima si respingono e poi si attraggono, come le calamite. In loro c’è un fuoco diverso, c’è del gioco e della tenerezza
Perché erigeva muri, Caterina?
«È la storia della mia vita, del mio rapporto con il maschile. Fin da ragazza mi sentivo prigioniera di un corpo troppo esuberante, gli uomini mi rimandavano un’immagine di sensualità che non mi ritrovavo addosso. Condizione che mi metteva in fuga rispetto alla realtà... primo rapporto a 27 anni, dopo un matrimonio non consumato»
Viene da pensare che Tinto Brass non fosse esattamente la persona ideale per lei.
«L’ho pensato anch’io, avendo un’idea di lui basata sulle chiacchiere degli altri. Peraltro non avevo visto mai nemmeno uno dei suo film».
Quando ha cambiato idea?
«Mi è capitato di conoscerlo e ha preso il sopravvento la profondità». Lui sorride, come per dire, scontato.
Dove vi siete conosciuti?
«Era il 2007, io facevo l’avvocata per conto di una società di produzione cinematografica interessata a fare un documentario sulla sua vita. Lo incontrai all’hotel Parco dei Principi ai Parioli per discutere del contratto. La cosa non andò in porto ma io nel frattempo avevo letto le sue memorie difensive di una causa per atti osceni riguardante un suo film, Caligola. Mi aveva colpito la forza dell’analisi, utopia, potere, follia, metteva insieme tutto in modo geniale ed eretico e questo mi aveva sedotto».
E lei Brass da cosa era sedotto?
«Dalla prigionia del corpo, dal profumo cipriato, dalle cadute di malinconia, dalla sua sfida alle convenzioni...». Ha carburato. «Volevo farne un film, una sorta di Bell’Antonio al femminile. Volevo liberarla e mostrarne l’eros... Nell’antica Grecia Elena di Troia non era celebrata per il suo intelletto ma perché era considerata l’icona della bellezza». Lei, con garbo, protesta: «Anch’io però ho scardinato le sue certezze».
Cioè?
«Gli ho fatto accettare un amore non sessualizzato».
È stata dura?
«Per nulla, Tinto sa accettare l’altro così com’è e manifesta il desiderio con dolcezza ed estrema delicatezza. Devo anche dire che è arrivata molto presto la sua malattia: un ictus che gli ha fatto perdere la memoria di colpo e gli ha creato grossi problemi. L’ho aiutato a recuperare il passato attraverso il suo archivio. Lui dice che l’ho riportato alla vita nel momento in cui pensava alla morte». E posa uno sguardo su di lui che è una carezza.
Tinto sospira: «La vita mi ha messo dinnanzi a scelte inaspettate». Caterina: «Con me sei diventato più composto e pudico». Lui annuisce, rassegnato: «La libertà di un uomo si evince anche dal rapporto con l’amore, la malattia e la morte».
Dica la verità, si è scelto un bastone sexy per la vecchiaia.
«Caterina è la vita che mi danza intorno. Mi ha portato gioia e felicità e io non voglio essere un vecchio patetico per lei».
Quand’è scoccata la scintilla?
«Un giorno, dopo avermi proposto di fare Ziva in Hotel Courbet, doveva venire a casa mia ai Parioli. Aveva dimenticato la borsa e si ricordava solo la via, Sergio Tacchini. Io avevo messo ad alto volume un cd di Mouloudji che mi aveva regalato. Tinto era in taxi e andava avanti e indietro finché sentì la musica e si fermò. Lo vidi entrare nel cortile con la sua mantella verde. Aveva seguito la musica. Ecco, lì ho avuto la percezione che sarebbe entrato nella mia vita in modo diverso».
Lei ha recitato nuda per lui, vive in questa casa dove non mancano richiami erotici, gigantografie di natiche, falli. Da nulla a tutto. Non si sente un po’ a disagio?
«Quelle natiche peraltro sono le mie... Tinto è riuscito nell’impresa di rendermi sereno il rapporto con la sfera corporale attraverso una dimensione alta dell’eros, dove lui vede il senso e il mistero della vita».
Tinto, lei l’ha plagiata...
«L’ho liberata dai retaggi della sua cultura d’origine».
In che senso, Caterina?
«Il mio problema aveva radici profonde, educative, borghesi. Sono nata in un paese della Calabria dove la donna doveva essere solo una buona madre e una buona moglie e anche il potere femminile, tipo una carriera accademica, non erano viste di buon occhio. Però mio padre aveva una vena artistica e questo ha facilitato le cose. Tinto, che ha 28 anni più di me, è della sua generazione, si sono conosciuti e si sono piaciuti».
Come sono i rapporti con i figli di Brass, Beatrice e Bonifacio (avuti dalla prima moglie Carla Cipriani, la «Tinta»), che le avevano fatto causa per la gestione del patrimonio?
«Civili anche se non particolarmente calorosi, la causa si è risolta con la mia nomina ad amministratore di sostegno di Tinto che mi consente di agire con la massima trasparenza».
Cosa dice Caterina a chi sospetta il matrimonio d’interesse?
«E quale sarebbe l’interesse? Il patrimonio? Non esiste. La gloria? Effimera».
Si fanno sentire le varie attrici dei suoi film?
«Sono sparite un po’ tutte ma lui la vive con ironia. Capisce la scelta del disconoscimento, l’emancipazione da quei ruoli».
«Comprendo ma non giustifico», irrompe lui con orgoglio.
Con chi è rimasto in contatto?
Lei: «Stefania Sandrelli è venuta di recente a trovarci. Un incontro commovente, erano felici di rivedersi dopo tanti anni. Hanno rievocato la Chiave. Anche Anna Ammirati, la Monella, è stata da noi più volte. Con Serena Grandi si sentono al telefono. Le altre, Koll, Galiena, Dellera... nulla. Ma lui sorride dolcemente, adorabile».
Progetti?
«Un film documentario sulla sua vita, partirà a settembre, titolo Una passione libera, sarà un Tinto Brass alla Hitchcok che presenta i suoi inediti... Scusaci ma adesso lui è stanco e io devo andare dal parrucchiere».
Tinto ha un sussulto: «Tagliali poco».
Caterina: «Ci tiene, anche allo smalto rosso».
Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 2 giugno 2022.
Non sappiamo se leggerlo come una distrazione o un imprevisto spazio di libertà, qualcosa che per miracolo è sfuggito alle rigide maglie della censura contemporanea, atterrita dalla rappresentazione del nudo, terrorizzata dall'erotismo eterosessuale e uniformatasi al bigottismo dei social per i quali bastano pochi centimetri di pelle scoperta nelle cosiddette zone erogene e addio, scatta il divieto, il blocco.
In un mondo dove, per assurdo, la pornografia è di libero accesso gratuito per tutti, minori compresi. Per fortuna c'è qualcuno che continua a fregarsene, ama il corpo delle donne che nella storia dell'arte è stato a lungo tra i principali oggetti di rappresentazione.
Nella pittura da secoli, nella fotografia e nel cinema da quando esistono, effetto scatenante del voyeurismo: per ogni "uomo che guarda" c'è qualcuna che si fa guardare, queste sono le regole del gioco tra i più divertenti mai inventati. Tra chi non si fa spaventare né intimidire dal clima di santa inquisizione messo su da web e femminismo un plauso va agli organizzatori di Photolux.
A Lucca, infatti, ecco il festival di fotografia intitolato You Can Call It Love e dedicato all'amore. Tante le mostre (fino al 12 giugno) la più attesa certamente è l'omaggio a Tinto Brass, grande maestro dell'eros all'italiana, riscoperto dalla critica che ha spesso storto il naso per il confine troppo labile con il sesso esplicito, mentre i fans (e le fans) lo hanno altrettanto idolatrato.
Brass Mon Amour, dunque, a Villa Bottini, vera e propria retrospettiva con 120 foto, documenti inediti provenienti dall'archivio privato, manifesti, gli scatti di scena di Gianfranco Salis che lo ha accompagnato per buona parte della carriera.
Nato a Milano nel 1933, veneziano di formazione e adozione, nipote di Italico Brass pittore di un certo successo a inizio novecento, Tinto arriva al cinema con un percorso tipicamente autoriale, studioso della Nouvelle Vague, assistente di Roberto Rossellini e Joris Ivens, interessato dallo sperimentalismo e dalla militanza già nei primi anni '60 - Chi lavora è perduto, Il disco volante, lo stralunato western Yankee e il londinese Dropout.
Dopo un paio di non troppo fortunate incursioni nei generi storici- Salon Kitty e il disconosciuto Caligola a causa di forti scontri con lo scrittore Gore Vidal e il produttore Bob Guccione che lo massacrò rendendolo irriconoscibile il "segno Brass" esplode negli anni '80 con il capolavoro, La chiave dove lavora splendidamente con il corpo di Stefania Sandrelli, matura e procace, che con rara intelligenza si presta al gioco di sguardi e parole - la letteratura in Brass ha spesso un ruolo fondamentale, qui ispirato da un romanzo di Tanizaki e spostato nella Venezia prima dell'entrata in guerra.
Nel volume autobiografico Una passione libera pubblicato alcuni mesi fa da Marsilio e scritto insieme alla seconda moglie Caterina Varzi sposata dopo la morte di Carla Cipriani "la Tinta", Brass cita il «démon de midi», la crisi di mezza età che colpisce le donne e provoca, per contrasto, la quasi involontaria esplosione di una nuova forma di erotismo, imprevedibile e liberato.
Dopo Sandrelli, ha diretto la quarantenne Ana Galiena in Senso '45, però la soddisfazione maggiore è legata a esordi o, letteralmente, scoperte, giovani attrici che hanno accettato di lavorare nude e senza alcuna forma di pudore.
Sesso a volontà ma spesso con una matrice colta: così è Serena Grandi in Miranda omaggio alla commedia goldoniana, Francesca Dellera in Capriccio ispirato a un romanzo di Mario Soldati, Paprika con Debora Caprioglio tra i lavori più contestati dalle femministe per la questione delle case chiuse. In Così fan tutte, protagonista Claudia Koll anzi il suo lato B, «il culo è un capolavoro: forma, significante allo stato puro», cita addirittura Mozart, ne L'uomo che guarda Brass affronta Moravia, mentre tra le opere più fresche e scanzonate va citata Monella con Anna Ammirati, libera bellezza in bicicletta che sovente dimentica le mutandine a casa.
Filmando in quella sottile linea tra erotismo e pornografia, Brass ha disturbato i benpensanti per la sua visione godereccia della vita e della carne. Non c'è mai tristezza nel rapporto tra uomo, donna e sesso, niente eros e thanatos. Tinto merita un posto tra i grandi maestri del genere, accanto a fotografi come Helmut Newton o Araki e forse nel cinema non esiste un equivalente. Per i suoi scanzonati camei, sempre col sigaro tra le labbra le tabaccaie lo arrotolavano sulle cosce, così vuole la leggenda - ricorda semmai un beffardo Alfred Hitchcock alle prese con i moralisti eppur convinto che la vera trasgressione sia oggi l'amore.
Dagospia il 10 maggio 2022. Notizie tratte da "Una passione libera", di Tinto Brass con Caterina Varzi (ed. Marsilio), selezionate da Giorgio Dell’Arti e pubblicate dal “Fatto Quotidiano”.
Ping pong. Tinto Brass giocava spesso a ping pong con Antonioni, ma gli toccava farlo vincere, perché quello non sopportava di perdere.
Macchine da cucire. L'operaia di Dropout che raggiunge l'orgasmo abbandonandosi alle vibrazioni delle macchine da cucire.
Ombrello. Tinto Brass che, contestato a Venezia, risponde con Vanessa Redgrave: "Merde! Fascisti!" e poi fa il gesto dell'ombrello. L'ambasciatore cinese, seduto accanto a lui: "Conosco il saluto fascista, quello comunista, ma questo proprio non so cosa sia".
Tintoretto. Il vero nome di Tinto Brass è Giovanni. Da bambino trascorreva molto tempo a disegnare. Un giorno suo nonno Italico, pittore, disse: "Abbiamo un piccolo Tintoretto in casa". In breve, da Tintoretto si passò a Tintino e, piano piano, da Tintino a Tinto.
Mona. Il poeta veneziano del Settecento Giorgio Baffo fu definito "meraviglioso cantore della mona". Tinto Brass ambisce a essere definito "meraviglioso cantore del culo".
Sottoveste. Tinto da bambino spiava sua madre attraverso la porta accostata della sua camera da letto. Un giorno vide che indossava una leggera sottoveste color carne, scucita sul didietro che lasciava intravedere i globi gemellari dei suoi glutei poderosi. Ne rimase molto turbato.
Schiaffetti. A tavola, mia madre sedeva sempre alla destra di mio padre. Mentre serviva il pranzo, a volte il papi la attirava a sé e allungava le mani dappertutto. "Dai, Sasha, smettila, ci sono i bambini" diceva lei con tono di sottile imbarazzo, mentre tentava di dargli schiaffetti sulla mano. Ma, a parte queste dimesse proteste, non riusciva a imporsi davvero, così lui continuava.
Mia madre. "Devo dire che mia madre aveva un culo bellissimo".
Guardare. Il più grande piacere di Tinto Brass da bambino: guardare sua madre e le cameriere che facevano pipì.
Condividere. "Due persone che condividono un'esistenza non possono non condividere una pisciata o una scoreggia".
Espressività. Durante le riprese di Salon Kitty, Tinto Brass fece radere il pube a Helmut Berger, in modo che il suo uccello acquistasse dimensioni più espressive rispetto a quelle reali.
Impatto. "Personalmente preferisco i peli biondi e rossicci, ma quelli neri hanno maggiore impatto visivo sul piano della resa cinematografica".
Scambi. Ginsberg e gli altri poeti della Beat Generation in segno di reciproca amicizia usavano scambiarsi un ciuffo dei propri peli pubici.
Helen. Helen Mirren, Cesoniain Caligola, dichiarò che si sarebbe sentita a disagio se fosse stata vestita.
Cervello. Tinto Brass, per La chiave, avrebbe voluto un'attrice come Sophia Loren o Silvana Mangano, ma riceveva solo risposte negative. Carlo Ponti, letta la sceneggiatura, gli disse: "Cos'hai al posto del cervello, sperma?".
Tinta. A Napoli, durante un convegno sulla cultura del porno cui Tinto Brass partecipava insieme a Moana Pozzi, mentre lui stava esprimendo il suo punto di vista sull'erotismo, un commando di femministe innalzò uno striscione verde e giallo che lo definiva "torturatore sessuofobico".
Elvira Banotti, al grido di "maiale" e "morte a Brass" gli tirò un pugno e gli rovesciò addosso un cesto di ghiande. Tinta, tra il pubblico, gli gridava: "Tiralo fuori! Faglielo vedere!", incitandolo a esporre il cazzo come gli esorcisti oppongono il crocifisso agli indemoniati per scacciare il diavolo che si è impossessato di loro.
Marco Luceri per corriere.it il 15 maggio 2022.
Nella sua autobiografia, Una passione libera (Marsilio), scritta insieme alla moglie Caterina Varzi, Tinto Brass sintetizza così il senso del proprio essere artista: «L’eros è liberazione, rifiuto dell’ipocrisia per mestiere e del perbenismo di destre e sinistre, affrancamento dall’arroganza del Potere, ribellione alla paura che spegne i sogni e con i sogni si porta via la speranza».
Anarchico, libertario, passionale, eternamente discusso e censurato, il maestro italiano dell’eros è il protagonista della mostra Brass mon amour (dal 21 maggio al 12 giugno) allestita a Villa Bottini, a Lucca, in occasione del Photolux Festival, che quest’anno ha come tema l’amore.
Nata da un’idea di Fabio Macaluso, e a cura di Caterina Varzi, Enrico Stefanelli, Chiara Ruberti, Francesco Colombelli e Rica Cerbarano, l’esposizione si snoda attraverso 120 tra fotografie e documenti inediti (come sceneggiature, bozzetti di scenografie e costumi, polaroid dei provini, manifesti, lettere), tutti dall’archivio privato di Brass. Un percorso che porterà a contatto con gli aspetti più curiosi dei suoi lavori, ma anche a scoprire il rapporto con gli attori e la vita privata.
Alberto Moravia ha seguito per anni il suo cinema con grande interesse, definendola «un ideologo del sesso», e cioè un artista che cerca di eliminare il senso di colpa, per giungere a un sesso innocente. È d’accordo con questa definizione?
«Se lo diceva Moravia! Il fatto che mi abbia seguito con attenzione presuppone una certa affinità. Durante le nostre lunghe conversazioni avevo la sensazione forte che l’erotismo fosse anche per lui una chiave per interpretare la realtà».
Venezia e Parigi sono due luoghi che negli anni della sua formazione, sia come uomo che come artista, hanno contato tantissimo. Perché proprio queste due città?
«Sono nato a Milano, ma un legame profondo mi lega a Venezia. Mi sono nutrito della sua cultura, storia, lingua e tradizione. Perfino con i cambiamenti irrimediabili subiti nel corso del tempo rimane per me la “sexe femelle d’Europe”, come la chiamò Apollinaire. Il significato e il significante del mio cinema derivano in buona parte dal mio rapporto con questa città intrigante. Acqua, luce, vedute e prospettive rovesciate sono elementi che la caratterizzano e si ripetono ossessivamente nei miei film.
A un certo punto, dopo la laurea in giurisprudenza, decisi di andare a Parigi. Alla fine degli anni Cinquanta la realtà parigina era molto vivace. Alla Cinémathèque Française, dove mi occupavo degli archivi, ho conosciuto il grande documentarista Ioris Ivens e Roberto Rossellini. Da loro ho imparato tutto quello che so del montaggio e del cinema».
Molti tendono a dividere la sua carriera in due fasi: la prima più legata al cinema d’impegno e di contrapposizione anarchica e radicale al Potere, mentre la seconda è quella dei film erotici. Mi pare una forzatura: già nel suo primo film, «In chi lavora è perduto» (1963), l’indagine sul tema della sessualità è presente, e poi cosa c’è di più «eversivo» della libertà e della felicità sessuale?
«L’ho detto tante volte. Nei miei film non c’è una frattura tra un primo periodo serio e militante e un secondo periodo frivolo e superficiale. È sempre stato il linguaggio a interessarmi. Non considero affatto minori i miei film erotici. L’erotismo veicola una critica sociale e politica, esprimendo su un piano diverso la mia inestinguibile ricerca di libertà».
Alla fine degli anni ‘60 lei stava lavorando a un adattamento di «Arancia meccanica», che prevedeva Mick Jagger nella parte di Alex. Ci può raccontare qualcosa su questo progetto mai realizzato?
«I produttori della Paramount mi invitarono negli Usa per propormi l’adattamento cinematografico del romanzo di Anthony Burgess. Avevo accettato la proposta della casa americana con l’intenzione di assegnare a Mick Jagger il ruolo di Alex Delarge. Ma a condizione di girare prima L’urlo, a cui già stavo lavorando.
Quando sono tornato in Italia il progetto è stato proposto a Kubrick. Non ho rimpianti, però. L’urlo è un film a cui tengo particolarmente. Gigi Proietti, oltre a essere il protagonista, ha anche collaborato alla scrittura dei dialoghi insieme a Giancarlo Fusco. E lavorare con Proietti e Tina Aumont, l’interprete femminile, è stata un’esperienza davvero entusiasmante».
Ne «Il disco volante» (1964) lei ha lavorato con Monica Vitti. In quel film ha un ruolo insolitamente comico per lei, che in quegli anni era la musa di Antonioni. Dunque fu lei, e non Monicelli a scoprire questa sua inclinazione ancora inespressa?
«Mi accorsi subito del sorprendente brio di Monica e le assegnai la parte brillante di Dolores, la moglie del sindaco. L’obiettivo era quello di realizzare un film in grado di mettere insieme la satira sociale con le fantasie libidinose, sintetizzate dall’iconica battuta di Monica “Dime porca che mi piase de più”, in risposta alle rime poetiche dell’amante, interpretato da Alberto Sordi. La ragazza con la pistola fu girato da Monicelli nel 1968, a distanza di quattro anni dal mio film».
Con «La chiave» nel 1983 dà una nuova svolta alla sua carriera e sceglie Stefania Sandrelli. Perché proprio lei?
«Stefania è una grande attrice e lo era anche prima di recitare con me. Io ho semplicemente tirato fuori ed esibito la sua carica sensuale. Era perfetta nel ruolo della protagonista. Nel provino si mostrò senza pudore e fortemente determinata a fare il film.
E poi ha un altro grande merito. Non mi ha mai rinnegato, difendendo La chiave con fierezza, orgogliosa di aver dimostrato alle sue colleghe di saper recitare anche con il culo».
Lei che ha mostrato e raccontato la sessualità delle italiane e degli italiani per decenni, come la vede oggi? Ci sono ancora dei tabù? Pensa che la realtà virtuale libererà definitivamente il sesso o, al contrario, lo mortificherà?
«Benché ci si racconti il contrario, siamo ancora bigotti. La morale rispetto al sesso è mutata pochissimo. E per alcuni aspetti stiamo tornando indietro. Basti pensare che ancora oggi se si vuole evitare di essere oggetto di scherno o violenza bisogna nascondere il proprio orientamento sessuale.
Nell’immaginazione non c’è censura e la realtà virtuale è solo un’estensione dell’esperienza del sesso. Può essere coinvolgente e interessante, purché non determini un totale distacco dal sesso e dagli incontri reali. Nessuna tecnologia è in grado di offrire le emozioni di una vera relazione».
Silvia M.C. Senette per corrieredelveneto.corriere.it il 25 gennaio 2022.
Dopo quasi sessant’anni di attività Tinto Brass (all’anagrafe Giovanni Brass) è considerato ancora oggi uno dei registi più provocatori e polarizzanti del panorama italiano. Dopo quel «Chi lavora è perduto (In capo al mondo)» del 1963 sono arrivati titoli clou firmati dal maestro del cinema erotico di origini veneziane: tra tanti, «La chiave», «Capriccio», «Così fan tutte» e «Monella».
Mentre si abbassavano i riflettori sul suo percorso creativo, Brass ha realizzato il progetto della sua autobiografia «Una passione libera», scritto assieme alla moglie Caterina Varzi. Oggi affronta le pagine più difficili e sofferte della sua vita — dopo la malattia — guardandosi indietro senza mai perdere la caustica e ironica profondità di analisi che hanno sempre contraddistinto la sua cifra artistica.
Maestro, lei è giunto alla ragguardevole soglia dei 90 anni dopo un’emorragia cerebrale, un ictus e due ischemie. La malattia è un’esperienza che l’ha cambiata?
«Con la malattia si diventa più attenti e tutto ciò che nel quotidiano appare scontato assume un valore inestimabile».
Come affronta questa nuova fase della sua vita?
«Ho ritrovato la felicità rileggendo un passato che credevo perso per sempre. La memoria mi affascina quanto il montaggio e il lavoro per recuperare quella perduta è stata l’occasione per realizzare con l’intensità e la ricchezza di un’esperienza nuova: “Una passione libera”, un memoir senza censure edito da Marsilio Editore, scritto assieme a Caterina, che ripercorre i momenti più significativi della mia vita e della mia carriera. Ognuno ha una sua mitologia personale e un’autobiografia aiuta a comprenderla meglio. Scriverla, per me, è stato come onorare un debito con la vita dando senso al presente».
Pensa mai alla morte?
«In uno stato di assoluta impotenza fisica la morte può sembrare una liberazione e io sono giunto a quel punto. Ogni uomo ha diritto a una morte dignitosa e davanti a un corpo segnato da malattie incurabili o da una definitiva perdita di coscienza si ha diritto alla decisione finale».
Si definirebbe ancora «serenamente ateo»?
«Sì. Ma se Dio è amore, non c’è nessuno più di me vicino a Dio».
Lei è un uomo profondamente libero e non ha mai amato le mezze misure. Come vorrebbe essere ricordato?
«Un meraviglioso cantore del culo».
E invece cosa la farebbe infuriare che si dicesse, dopo di lei?
«Non c’è più niente di offensivo che non sia stato già detto o censurato dei miei film. Ai “posteriori” l’ardua sentenza».
Eros e Thanatos - piacere e morte - dalla mitologia greca a Freud sono sempre stati concetti indissolubilmente legati. Lo sono anche per lei?
«No, la vita potrebbe essere molto più bella se la diffamazione del piacere non subisse lo screditamento abusivo e sistematico di Thanatos».
La visione dell’erotismo com’è cambiata in questi ultimi anni?
«La morale sessuale è uno degli aspetti in cui siamo progrediti di meno, benché spesso ci raccontino il contrario. Continua ancora a essere una colpa fare sesso o desiderarlo. In confronto alle questioni sessuali la tecnologia, la medicina e l’economia hanno fatto progressi infinitamente maggiori. Per diversi aspetti si è andati indietro, eppure poche cose come la nostra vita sessuale, inevitabilmente legata alla vita affettiva, determina la nostra felicità o l’infelicità».
E l’amore che ruolo ha oggi nella sua vita?
«L’amore è Caterina. Oltre alla bellezza e a una sensualità inconsueta, è una donna dotata di intelligenza e sensibilità disarmanti. Ho desiderato sposarla quasi da subito, tant’è che lo annunciavo continuamente a sua insaputa convinto che, prima o poi, mi avrebbe detto di sì».
E se avesse rifiutato?
«Qualsiasi alternativa mi avrebbe costretto a passare gli anni più difficili della vita in una profonda solitudine. Invece sono convinto che la mia sia stata una ripartenza, ma anche una felice conclusione».
Da Anna Galiena a Serena Grandi, da Claudia Koll a Stefania Sandrelli, Francesca Dellera, Silvana Mangano, Anna Ammirati e Debora Caprioglio, molte splendide donne sono state sue muse e hanno incarnato l’ideale erotico nei suoi film. La gratitudine è un sentimento che permea il mondo del cinema?
«La riconoscenza ha memoria breve. Si è ingrati all’insegna dei più impliciti rapporti di scambio nel mondo del cinema così come in ogni altro ambito professionale».
Se dovesse girare il suo ultimo capolavoro, quale attrice incarnerebbe oggi i suoi canoni di sensualità?
«Sarò ripetitivo, ma la donna che oggi mi ispira è Caterina. Lei incarna la protagonista di “Ziva. L’isola che non c’è”, il mio film più annunciato e mai realizzato, ma anche di “A sangue caldo”, la storia che rievoca lo scandalo dei marchesi Anna e Camillo Casati Stampa di Soncino, di “Vertigini” e di altri lavori che ho scritto o revisionato negli ultimi anni».
Di quale dei suoi film va più orgoglioso ora?
«L’urlo».
C’è invece qualche film che, con il senno di poi, non rifarebbe più o che cambierebbe?
«Non sono mai stato convinto del risultato finale di “Yankee (L’americano)”. Ne cambierei alcune sequenze, contaminando con più audacia il linguaggio cinematografico con quello del fumetto come, in effetti, era nelle mie intenzioni nel progetto originario. Un disegno ostacolato, però, nella realizzazione dalle liti con i produttori».
Chi crede che abbia raccolto la sua eredità?
«Non ho eredi. Invece continuo a guardare con ammirazione ai lavori di due registi scomparsi: Jean Vigo e Jean Renoir».
In passato lei ha lavorato con i più grandi nomi del cinema: da Rossellini a Ivens, da Cavalcanti e Bolognini. Chi considera il suo maestro?
«Roberto Rossellini e Joris Ivens sono stati i miei veri grandi maestri. Da loro ho imparato tutto quello che so sull’arte del montaggio e del cinema».
Com’era lavorare con Rossellini?
«Quando Roberto mi propose di occuparmi del suo documentario sull’India accettai con grande entusiasmo. La sera visionavamo per ore e ore chilometri di pellicola e durante il montaggio del documentario nacquero momenti intimi ed esilaranti così come episodi di forte intensità emotiva. Quello fu davvero un periodo memorabile della mia vita».
E Ivens? Come lo ricorda?
«Con Ivens ho lavorato nel ruolo di aiuto regista al documentario “L’Italia non è un paese povero”. Un documentario in episodi voluto da Enrico Mattei focalizzato sui progressi apportati al Paese dall’industria energetica. Ivens dipinse l’Italia in una condizione da terzo mondo e i funzionari della Rai si rifiutarono di mandare in onda la versione integrale del film.
Il negativo originale e tutte le copie furono distrutti... tranne una. Ma io avevo accesso alla sala di montaggio: rubai quella copia e la portai a Ivens a Parigi. Soltanto nel 1977, grazie a un documentario di Stefano Missio, la vicenda è stata resa nota e quei contenuti censurati hanno visto la luce».
Nella Parigi della Nouvelle Vague ha avuto modo di frequentare mostri sacri quali Godard e Truffaut. Come è successo di avvicinarli?
«Alla fine degli anni Cinquanta grazie alla critica cinematografica, scrittrice e poetessa Lotte Eisner sono riuscito a introdurmi nell’ambiente della Cinémathèque française, dove fui incaricato di occuparmi degli archivi e delle proiezioni organizzate dal pioniere del restauro di pellicole Henri Langlois».
Com’era Parigi allora?
«La Nouvelle Vague parigina era una realtà molto vivace. All’epoca Truffaut, Chabrol, Godard, Resnais, Rohmer e Rivet erano solo degli aspiranti registi come tanti. Dopo le proiezioni restavamo insieme a parlare del film visto e di cinema in generale. Discutevamo fino a notte fonda lungo i viali di Parigi o nelle brasserie. In quella compagnia eccezionale ho messo a fuoco che il mezzo privilegiato per comunicare con lo spettatore non è la trama, bensì le scelte stilistiche, il significante».
Anni più tardi le fu offerto di girare «Arancia Meccanica» e lei rifiutò. Si è mai pentito?
«In realtà avevo accettato. Avevo deciso di girare “Arancia meccanica” a condizione, però, di realizzare prima “L’urlo”, ma quando sono tornato in Italia il progetto è stato proposto a Kubrik. La pellicola fece molto scalpore ma non ho rimpianti, sono fiero di aver girato “L’urlo”: una scelta rabbiosa e utopica che dava corpo agli umori rivoluzionari dell’epoca».
C’è qualcosa a cui ripensa con rammarico?
«Nell’arco della mia carriera ci sono state altre due grosse occasioni mancate, ma per un errore di valutazione del produttore, Dino De Laurentiis: “Rambo” e “9 settimane e ½”».
Lei ha firmato tanti titoli audaci. Nell’era del politicamente corretto e — allo stesso tempo — della massima esibizione, cosa ritiene ancora osceno?
«L’ipocrisia».
A 88 anni cos’è per lei la libertà?
«Una ricerca ancora inestinguibile».
Se potesse esprimere un solo desiderio, oggi, quale sarebbe?
«Girare il trentunesimo film».
Rita Vecchio per leggo.it il 12 novembre 2022.
Chi conosce Tiziano Ferro sa che la sua arma migliore è l’autenticità. «Mettermi a nudo è più facile che inventare una versione altra di me che non saprei sostenere e la cui idea stessa mi atterrisce. Posso piacere o no, ma se mi tolgo il privilegio di essere quello che sono, cosa mi resta?».
Il cantautore di Latina - 42 anni di cui 20 di carriera con traguardi discografici da record (“Rosso Relativo”, quasi 3 milioni di vendite e uno degli album italiani più venduti nella storia, “Alla mia età”, “L’amore è una cosa semplice”) e live a tanti zeri - non si smentisce nemmeno con l’album “Il mondo è nostro” che uscirà l’11 novembre a tre anni da “Accetto miracoli”.
«Io sono un po’ alla vecchia. Penso si debba di tanto in tanto sparire - racconta Tiziano, nell’attesa di tornare nel 2023 in tour negli stadi (15, 17, 18 giugno a San Siro, Milano; 24, 25 giugno Stadio Olimpico, Roma) - Per questo i social non mi fanno impazzire, mi terrorizza lo stare sempre connessi, il parlare per forza anche quando non si ha niente da dire. La bellezza del ritorno, invece, è speciale».
E allora, bentornato Tiziano. Che stato d’animo ha oggi?
«Positivo. Sto bene. “Il mondo è nostro” nasce nel periodo della pandemia, in cui mi sono concentrato più sulle opportunità che sul pessimismo. Quei mesi avevano rallentato il percorso di paternità che avevo intrapreso con Victor (Allen, sposato nel 2019, ndr) e che ci ha portato due bimbi (Andrés e Margherita, ndr) di cui sono orgoglioso. Mi hanno insegnato il senso di appartenenza. Non vivere questa esperienza (e me ne rendo conto solo ora) sarebbe stata una grave mancanza, sarebbe morta una parte di me importante. Siamo tanto indietro in tema di adozione. Pensi a quanto tempo, coppie ritenute idonee ad adottare, attendono bambini che nel frattempo diventano adulti dentro gli istituti».
Lei affronta il tema del ruolo dell’artista, in che modo è cambiato il suo?
«Vorrei non fosse cambiato. Ho una idea romantica dell’artista. Per me è colui che si sporca, che non si può corrompere, che è libero. Però, spesso, l’artista si siede su un piedistallo e sui privilegi. “Il mondo è nostro” è un’esortazione: se non puoi dare il massimo, prova almeno a dare il minimo. Non so quanto io ci riesca. So di certo, però, che metto in ballo la mia storia e lo faccio senza fine».
Nel disco ci sono tanti nomi di artisti.
«Sono nomi di cui nutro grande stima. Caparezza era uno dei miei sogni nel cassetto. Vecchioni è un genio e da genio ha capito il sarcasmo del brano. Con thasup è nato tutto da messaggi su Instagram ed è proseguito con un fitto scambio di file, beat e idee. Ambra è un’amica. Sting è stato una sorpresa dell’ultimo minuto. Il brano è suo ed è stato molto generoso».
In “Paradiso dei bugiardi” traspare sofferenza. Parla di pagliacci vigliacchi e usa termini forti. Ha perdonato quelle “offese ricevute, gratuite, infamanti e spesso false”?
«Sì. Il bene fa bene a chi lo pratica. Intossicarsi per ferire l’altro non ha senso. Questo non significa che io sia cieco o sordo. Canto sì di essere un “vincente gladiatore” per poi, nel verso seguente, “gettare in mare il corpo perché morire è il mio talento migliore”. L’unica cosa che so fare è inseguire la verità. Non riesco a far vedere solo la parte migliore e patinata di me. Il gladiatore è uno forte, sì. E io lo sono, vado di fronte a muri di cemento, ma il gladiatore è anche colui la cui morte è l’intrattenimento altrui».
Ha perdonato anche Fedez che lo ha invitato a un tavolo a parlare di bullismo per quei versi contenuti nel brano datato 2011?
«Io ho perdonato e vado avanti. Ma quella canzone è lì, a fare streaming e a produrre ricchezza. E io parlo di me, di quello che ho subìto e delle offese che continuerò a ricevere ascoltandolo quando qualcuno lo suona, perché quel brano (“Tutto il contrario”, ndr) non è stato ritirato dal mercato. È facile invitare le persone a prendere un caffè. Io quando ho sbagliato, ho pagato. Per intero. Sempre. Per cui, io non faccio la giustizia per nessuno, ognuno si deve mettere a disposizione della giustizia. Io non sono uno dalle mezze misure. Quando e se offenderò qualcuno chiederò scusa, o ci rimetterò la faccia».
Come vede l’Italia dall’America?
«Io vivo in California ed è come vivere in una bolla. Non sento di essere mai andato via dal mio Paese, non ho mai avuto il mito dell’America. Io vivo là perché ho seguito per istinto un’opportunità e perché ho una famiglia, meravigliosa».
Ha seguito la querelle dell’articolo volto al femminile/maschile per Giorgia Meloni?
«Sono appena arrivato da LA. Non l’ho proprio seguita. Non saprei rispondere».
E della denuncia di Striscia alla Rai che non avrebbe pagato i diritti di riproduzione di alcuni brani?
«Non so nemmeno questa. Però se la Rai mi deve qualcosa, vorrei saperlo (ride, ndr)».
È sincero?
«Lo sono sempre. Nel bene e nel male. Non riesco a cantare in playback (e si è visto), immagini se riesco a inventare una storia. Sa quante volte ho desiderato far l’attore per vedere cosa si prova a interpretare l’opposto di me stesso?».
Lo ha definito crepuscolare, ovvero dalla metrica più tenue rispetto agli altri suoi album. Il mondo è nostro (Virgin Records/Universal Music Italia), è un chiaroscuro di battaglie personali che sviscera nel profondo l'umanità, tra divertissement e ballad, in un mix di elettro anni 80, hip pop, r'n'b, funky e swing.
Ferro si fa gladiatore sull'onda di un intimo «I'm back» (Sono tornato). Tredici brani - incisi su cd, vinile e in cofanetto deluxe - in cui la vocalità baritonale che spinge al confine del tenorile, abbraccia linee strumentali nette.
Le voci registrate del suo compagno Victor e dei due figli che si sentono in sottofondo, accompagnano questo viaggio umano, dall'emozione della paternità (La prima festa del papà, Mi rimani tu, A parlare da zero) alla depressione (Addio amore mio), dalla consapevolezza di un presente a dibattere migliore di un futuro senza carattere alla sofferenza interiore, in bilico con la voglia di una gentile ma decisa rivalsa.
C'è tutto il mondo emotivo di Tiziano dentro. Compreso il ventaglio delle collaborazioni. Vecchioni (I Miti), Ambra (Ambra/Tiziano), thasup («r()t()nda»), Caparezza (L'angelo degli altri e di se stesso) e Sting (For her love), insieme agli autori Brunori, Di Martino, Sonzini (con cui Tiziano produce questo album), Dabbono, Mattei (ThaSupreme) e Kierszenbaum (Madonna, Lady Gaga).
È un disco sincero e vero. Alla domanda se è merita attenzione, la risposta è certamente sì.
Michele Monina per mowmag.it il 10 novembre 2022.
Racconto una storia vecchia, ma sempre divertente. È il 2001, io sono già una firma di Tutto Musica, rivista leader del mercato delle riviste musicale in Italia (per numero di copie vendute), finito sotto i riflettori per aver portato in quel contesto solitamente buonissimo, un po’ di sana critica affilata. Sono, in sostanza, quel che sono anche oggi, uno considerato cattivo per il semplice fatto di non fare sconti e inchini. Tiziano Ferro è un giovane artista esordiente, che sta per presentare al mondo, sì, al mondo, il suo Rosso relativo, trainato dal singolo Perdono. A produrlo Mara Maionchi e Alberto Salerno, che oggi sono miei amici, ma all’epoca, per scelta mia e della direzione della rivista per cui lavoro, non intrattengo rapporti con la discografia, proprio per poter poi dire quel che voglio, senza pressioni.
È settembre, e devo intervistare, uno dei primi in assoluto a farlo, Tiziano. A fine agosto, questo ai tempi ovviamente non l’ho scritto, faccio una cena con un nostro amico di Ancona, che porta con sé alcuni suoi amici di fuori. Sono tutti omosessuali, lo dico non perché io stia per dire che ho anche amici omosessuali, spero di non dover mai dire una cosa del genere, ma perché succede che uno dei ragazzi di fuori, che conosco in quell’occasione, ci dice emozionato che un suo ex, così dice, sta per uscire con un album per una major, a mia precisa domanda dice che il suo ex si chiama Tiziano Ferro.
Traduco, vado a intervistare Tiziano Ferro sapendo qualcosa che lui svelerà al mondo molti anni dopo, ma ovviamente della cosa non mi interessa nulla. Serve giusto alla narrazione, poi capirete perché. Tiziano arriva, l’ho scritto ai tempi, e si gioca la carta di quello ruffiano, che vuole compiacere l’intervistatore, cioè me. Dice che mi legge e non vorrebbe mai che io lo maltrattassi, gigioneggiando. Fa, in sostanza, l’agnellino col lupo cattivo. Iniziamo a parlare, mentre Luca Del Pia, fotografo di Tutto Musica, ai tempi funzionava così, prepara il set per il servizio fotografico che accompagnerà il mio pezzo.
A un certo punto Tiziano, con fare tutt’altro che da agnellino, quanto piuttosto da artista scafato, scafatissimo, spegne il microfono del mio piccolo registratore, e mi confida che la cosa che di lì a breve andrà in onda alle Iene e Striscia la Notizia, che gli stanno per notificare la troppa somiglianza della sua Xdono con Did You Ever Think di R. Kelly, artista ai tempi di un certo successo e ancora a piede libero, è del tutto voluta.
Nel senso, questo lo riporto ora ma è già stato raccontato anche altre volte, sempre da me, Tiziano mi dice che sì, la canzone è molto somigliante, recentemente Michele Canova Iorfida, che ne era il produttore ha parlato proprio di plagio bello e buono, ma Tiziano mi dice anche che la cosa è voluta, perché l’idea è che di lì a breve vada a aprire il tour italiano dello stesso R. Kelly, in qualche modo confezionando una sorta di notizia nella notizia. Detto questo riaccende il microfono.
Mi indispettisco. Perché ai tempi non ho potuto raccontare la cosa, ero una firma, Tutto Musica era una rivista leader, ma su questo, ovviamente, era ferrea. Tiziano passa sotto la lente di Luca Del Pia, che gli fa fare delle foto con dei bambolotti, con delle rose, citazione del testo di Xdono. Tiziano veste una camicia fantasia su pantaloni di pelle rossi, dettaglio importante. Scrivo il mio pezzo, nel quale racconto di Tiziano che prima di iniziare fa l’agnellino, io visto come il lupo cattivo, poi racconto che a un certo punto mi spegne il microfono, come nel video di Just dei Radiohead, raccontandomi off topic una cosa importante che non posso dire, poi dico che va a fare le foto del servizio che correda il mio pezzo, fornendo un dettaglio non da poco.
Siccome, mi dice Tiziano, il rosso sfina, credo che oggi dovrei spesso vestire di rosso, onde non sembrare un eunuco è il caso di infilarsi un rotolo di Scottex nelle mutande, così da esibire un pacco non dico notevole ma quantomeno accettabile. Racconto questo, corredando il tutto con le foto del servizio. Tiziano sembra non prenda bene la cosa. Capisco, ma non puoi fare il bullo con un bullo, penso, o le prenderai. Tiziano diventa Tiziano, raggiungendo la vetta un po’ in tutta Europa, e non solo.
Tutto Musica decide di dedicargli una copertina, e Tiziano si vendica. Come? Costringe la mia collega, Valeria Rusconi, mi sembra, a inseguirlo per diverse date, sempre senza rilasciare nessuna intervista. Alla fine chiede che il giornale chieda ufficialmente scusa per le mie parole, altrimenti niente. La direttrice accetta. Io ovviamente non faccio nulla, non è da me che voleva le scuse e non le avrebbe ovviamente ottenute. Della faccenda di quello che per lui era un segreto e per me no, ovviamente, non ho mai fatto cenno. Lo dico perché, sai come funziona, in una gara tra stronzi io avrei potuto affondare, ma non vedevo competizioni nell’aria.
Due anni dopo esce il secondo album di Tiziano, nel mentre è diventata una popstar internazionale. Singolo di lancio del lavoro Xverso, la X porta fortuna, sembra. Mi viene una idea, che propongo alla direttrice di Tutto Musica, far intervistare Tiziano da Melissa P (oggi Melissa Panarello), che nel mentre è esplosa col suo Cento colpi di spazzola. Due perversioni a confronto. L’idea piace molto. Idea mia, pezzo mio, anche se l’intervista la farà lei, giovanissima e quindi in necessità di supporto.
Vado all’albergo in cui l’intervista deve avere luogo, e non vengo fatto entrare nella stanza dove Tiziano parla con Melissa. Esatto, mi lasciano dietro una porta, come certi mostri dei film dell’orrore, senza neanche un pertugio da cui guardare la scena. L’intervista ha luogo, mi viene mandato il pezzo che sistemo, parecchio, va detto, e viene pubblicato. Da allora non ho più incontrato Tiziano. Per scelta, mia, e per scelta sua.
Non mi hanno mai invitato alle sue conferenze, né offerto di intervistarlo, in genere funziona così, le interviste te le cerchi ma più spesso te le propongono uffici stampa privati o delle case discografiche. Ho conosciuto il suo manager, Fabrizio Giannini, che per capirsi è anche venuto ospite a mie masterclass, ma Tiziano mi ha lanciato una simpatica fatwa, che va avanti da ventuno anni. Certo, io mi sono divertito a sbertucciarlo, specie per questa cosa del suo sventolare problematiche di ogni tipo, è stato bullizzato perché gay, perché grasso, è stato alcolista, voleva sposarsi ma in Italia non può, voleva figli ma in Italia non glieli riconoscono, e ho spesso detto che la sua musica mi fa quasi sempre cagare, non sempre, canzoni come Ero contentissimo, Sere nere o Non me lo spiegare mi sembrano davvero perle, ma la fatwa fa molto ridere.
Negli anni tanti altre me le hanno a loro volta lanciate, su tutti Laura Pausini, negli ambienti la nostra reciproca antipatia è leggendaria, ci sono uffici stampa che mi evitano come la peste e case discografiche che neanche mi fanno entrare, ma io ho rapporti con buona parte degli artisti, spesso diretti, e il fatto di aver collaborato con molti di loro, da Vasco Rossi a Cesare Cremonini passando per Caparezza, e di aver lavorato anche con RTL 102,5, sicuramente, oltre che di scrivere con costanza e un certo seguito da venticinque anni non fa certo di me una vittima del sistema, solo uno che in certe circostanze è persona non gradita.
Quando tempo fa Samuele Bersani è tornato dopo sette anni di assenza, per dirne un’altra, ho molto riso del venire a sapere della sua presentazione in presenza a Milano, era poco prima del secondo lockdown, una rara occasione di incontrarsi in un periodo di merda. Ho riso perché ovviamente il suo ufficio stampa MN, non mi ha invitato, dicendo a lui, che chiedeva di me, che vivo a Perugia (vivo a Milano e a Perugia ci sono andato a volte in gita, ma raramente).
E ho riso perché in quel disco, Cinema Samuele, c’è una canzone che parla di un giornalista musicale che viene fatto fuori dal giornale proprio per aver scritto qualcosa di sbagliato, dal punto di vista di chi pensa che la critica musicale sia parte della promozione, L’intervista il titolo, canzone che lo stesso Samuele mi ha detto essere in parte stata ispirata proprio da me. Non esserci mentre la presentava esattamente per quel motivo mi sembra cosa bellissima, come un cortocircuito di quelli che se li racconti a qualcuno prima che avvengano pensano che tu sia un complottista che crede alla reincarnazione e anche alle scie chimiche, in pratica Red Ronnie.
Leggo ora che Tiziano Ferro avrebbe lasciato alla porta colleghi, come Fabio Fiume di AllMusicItalia, per aver detto che la sua ultima canzone non è all’altezza del suo passato, e leggo, pensa te, che la cosa viene vista come qualcosa di clamoroso, del resto avevo anche letto i lamenti del giovane Mattia Marzi quando Francesca Casarino di Wordsforyou, l’ha tenuto fuori da non ricordo cosa di Tommaso Paradiso, salvo poi andare a recensire bello bello Mahmood, del medesimo ufficio stampa, tutto è bene quel che finisce bene, e mi viene da sorridere.
Perché lamentarsi del proprio essere ostracizzati, se fatto seriamente, è qualcosa di stucchevole, oltre che, credo, di tenero. Io scrivo di musica, direi con un buon seguito, da anni. Quello che scrivo mi ha portato a perdere collaborazioni importanti, a partire dalla prima con IlFattoQuotidiano.it, proprio a causa di Tommaso Paradiso. Ma chi fa il nostro mestiere fa il nostro mestiere, e se un artista o il suo ufficio stampa non vuole avere a che fare con noi, beh, cazzi suoi, vorrà dire che di quell’artista parleremo senza averlo intervistato, magari giocando su questo fatto, o magari non ne parleremo affatto, non siamo mica noi a dover fare promozione a album che, è il caso di Tiziano Ferro, escono già destinati a scontrarsi coi vari Thasup, Lazza e subito dopo Ernia, ti saluto Il mondo è nostro, è stato breve ma intenso.
Non prendetevela troppo, cari colleghi, e semmai voleste la solidarietà, provate anche a esercitarla quando, a lasciare fuori dalla porta è qualcuno di quei nomi che vi sono amici, tipo la Pausini. Non incontro Tiziano Ferro da ventuno anni, ma vivo bene lo stesso. Unico piccolo inconveniente, da ventuno anni a questa parte ho difficoltà a usare lo Scottex, ma anche a quello posso sopravvivere.
Tiziano Ferro: «Canto la paternità e ho spostato il tour per stare con i figli». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022
Il cantante ha presentato il suo nuovo album, «Il mondo è nostro», in uscita venerdì 11 novembre: «Ho avuto il coraggio di affrontare la depressione, è una malattia»
«I riferimenti a fatti accaduti e persone esistite non sono casuali». Tiziano Ferro non ha smesso di cantare i sentimenti, ma nel nuovo album «Il mondo è nostro» (esce venerdì 11), quel senso di universale è più spesso che in passato legato a esperienze personali chiaramente identificate. «Forse perché si sono moltiplicati i media di racconto di un artista... Oggi oltre alla canzone ci sono le interviste, i libri, i documentari a esporci e quando esce un disco il pubblico ha già delle fotografie, dei riferimenti. E poi ho meno pudore rispetto al passato. Prima mi vergognavo, non mi sentivo in diritto di stare male. Mi dicevo “sta zitto e sorridi”».
Qui addirittura dedica «Addio mio amore», brano elettropop anni 80, alla depressione...
«Il coraggio di affrontarla me l’ha dato Lady Gaga. La nostra casa discografica mi aveva mandato a intervistarla e mi ero documentato ascoltando un podcast in cui affrontava a fondo la sua condizione mentale. Arriva un momento in cui capisci che la depressione ti fa vedere certe cose attraverso il suo filtro, non è la realtà».
Affrontare la depressione è stato un percorso parallelo a quello dell’addio all’alcol raccontato nel documentario del 2020?
«No. Il momento della diagnosi è il più difficile. Ero in analisi da tempo per altro, il mio rapporto con il cibo, la repressione dei miei sentimenti... la depressione cronica l’ho capita andando a vivere in California dove è vista come una malattia: non è follia, ma serotonina bassa».
A proposito di persone reali, «Mi rimani tu» è per sua figlia Margherita e «A parlare da zero» è per Andrés...
«Baglioni ha detto che tutti i cantautori scrivono una canzone quando hanno un figlio... eccomi nel club... Mai come adesso capisco quello che hanno fatto i miei genitori per me e glielo ripeto sempre. Io ho fatto i figli a un’età più adulta, con più lucidità e con più possibilità di avere aiuto anche se non abbiamo una tata fissa. Ho spostato il tour al 2023 proprio per stare con loro nel primo anno».
La trilogia familiare si completa con «La prima festa del papà»...
«Non ci sarà un seguito (ride): il mio fisico ha dato abbastanza... Nelle parole della canzone c’è il messaggio di auguri che mi ha scritto mio papà per la festa: un gesto potente che mi ha sbloccato quando sentivo ancora vergogna e inadeguatezza, ero ormai atrofizzato all’idea che quella cosa non potesse essere per me».
Nel testo dice che la paternità è negata «a chi è come me». Come stiamo a diritti? Vive a Los Angeles, ma teme una retromarcia in Italia?
«Siamo indietro a prescindere dagli schieramenti. Nessun governo ha mai fatto nulla di importante... Quella frase ce la si sente addosso... Conosco tanti ragazzi che risparmiano una vita per andare in Spagna, coppie che attendono anni per un’adozione, single cui non è concesso. È ovvio che non sono d’accordo con certe posizioni della maggioranza, ma mi auguro che chi è capo del Paese faccia il bene del Paese. Non c’è tempo per fare del male. Concedere più diritti a qualcuno non ne toglie ad altri».
Che papà siete lei e Victor? Chi è il più permissivo?
«Veniamo da famiglie piene di amore, ma anche disciplina e rispetto verso gli adulti, cose che non vanno di moda nella pedagogia americana di questi tempi. Si cercano modi idioti di dire no ai bambini senza usare la parola, non ci sono punti nelle gare sportive... ma la vita ti dice no, ti dice che non hai vinto».
«Il paradiso dei bugiardi» è uno sfogo contro l’hating?
«Sono stato ferito tante volte e spesso non mi sono sentito in pace di fronte a determinati sentimenti negativi. Ci sono parole che ti arrivano addosso da ragazzo e a 40 anni sei ancora ferito... Con il brano trasformo la sofferenza in qualcosa di positivo».
Nel testo prende di mira un collega che scrive canzoni ma con altri cinque autori. Una replica a Fedez per la rima omofoba anni fa«Ritenta, sarai più fortunato».
Nel disco ci sono feat con Sting, thasup, Roberto Vecchioni, Caparezza e Ambra Angiolini...
«Le collaborazioni sono diversissime tra loro ma amo i picchi dal basso all’alto come in un elettrocardiogramma impazzito».
Il 7 giugno parte il tour. Sarà diverso da come lo aveva pensato nel 2020?
«Non più di tanto. la forma può cambiare, ma il concetto che mi guida è la scaletta, le canzoni. L’ho capito guardando gente come Rod Stewart, Boy George, Duran Duran, Cindy Lauper».
Da repubblica.it il 27 luglio 2022.
"Xdono, non è più un mistero per nessuno, era proprio presa di peso da un pezzo di R. Kelly". La canzone che ha lanciato la carriera di Tiziano Ferro nel 2001, quella dalla quale è partita la carriera di uno dei più grandi artisti italiani è stata copiata da un brano del rapper R. Kelly.
Lo dice senza mezzi termini il produttore Michele Canova, che per anni ha lavorato con il cantautore di Latina. Il produttore non la indica, ma la canzone in questione sarebbe Did you ever think.
Canova, nel corso della sua lunga carriera ha collaborato, solo per citarne alcuni, anche con: Jovanotti, Alessandra Amoroso, Marco Mengoni, Patty Pravo, Francesco Renga, Elisa, Fabri Fibra, Biagio Antonacci. E ora, in una intervista a Rolling Stone, racconta della nascita di Tiziano Ferro e del brano che lo ha lanciato.
La nascita di una stella
A farli incontrare fu Mara Maionchi e il marito Alberto Salerno. "Con Tiziano avevano già provato con un team di produzione toscano e con uno veneto senza cavarne fuori nulla. Io ero il terzo tentativo. Prima, solo buchi nell’acqua e grandi no dalle major - ricorda Canova - Provo a lavorarci sopra io, allora. Portano tutto a Fabrizio Giannini, che allora era in Warner ma si sapeva già che sarebbe andato in EMI, e lui impazzisce. 'Si è innamorato così tanto del progetto che vuole sia la sua prima firma appena si insedia nel suo nuovo posto', mi riferiscono. E così effettivamente è stato". E da lì, la svolta.
"Facciamo la marachella?"
"Tiziano era un bel ragazzo, cantava bene; io avevo capito come copiare il suono che da sempre piaceva a lui, un certo tipo di r&b. E il gioco funzionò". Il produttore spiega che non avrebbe potuto "campionare direttamente: perché se l’avessi fatto, poi giustamente ci facevano causa".
Quindi Xdono è stata "proprio presa di peso da un pezzo di R. Kelly. Io e Tiziano ci siamo guardati, me lo ricordo ancora oggi, mentre eravamo in studio: 'Facciamo la marachella? Sì, dai: facciamola'. E così semplicemente risuonai il pezzo: perché se lo risuoni al massimo possono dirti che hai copiato, ma giuridicamente non possono farti nulla. A meno che non diventi veramente grosso grosso". E quel brano, "grosso, grosso", lo divenne davvero. "Inevitabile allora che a un certo punto ci arrivasse una lettera d’avvocato. Che arrivò. 'Eh, c’hanno beccato'. Ma poi in realtà, legalmente parlando, non poterono farci nulla".
Per ora Tiziano Ferro, che risiede ormai da anni a Los Angeles con il marito Victor Allen, non ha commentato le affermazioni di Canova. In questo periodo il cantante è alle prese con alcuni problemi nella sua vita privata. Prima il furto nella villa dei genitori a Latina, poi la sconfitta in Tribunale contro il fisco italiano.
Nei mesi scorsi, Tiziano e Victor sono diventati genitori grazie alla maternità surrogata. I due hanno avuto Margherita e Andres, che sono stati ufficialmente presentati da Ferro lo scorso febbraio su Instagram.
Paolo Travisi per leggo.it il 19 luglio 2022.
Tiziano Ferro vince sul palco, ma perde con l'Agenzia delle Entrate. Per la popstar di Latina, infatti, è stata convalidata l'esecuzione esattoriale per riscuotere un debito di 9 milioni di euro.
A deciderlo il Tribunale civile della città pontina, che nella sentenza del 15 luglio scorso, ha rigettato la sospensione del pignoramento presso la Tzn Srl, società riconducibile al cantante.
Debito con il fisco
Ma cosa avrebbe fatto il cantante? Secondo il quotidiano Latina Oggi, Tiziano Ferro, non avrebbe versato al fisco italiano, le quote Irpef, Irap e Iva degli anni 2006, 2007, 2008 dunque sarebbe debitore di 9 milioni di euro da versare nelle casse dello Stato.
Tiziano Ferro, che da anni vive a Los Angeles, da anni ha intrapreso una battaglia legale con l'Agenzia delle Entrate, opponendosi al provvedimento fiscale e dunque al pignoramento. Ma per il tribunale di Latina, si legge nel dispositivo, «non si ravvisano i presupposti per la sospensione del pignoramento e della procedura esecutiva in corso».
I trascorsi
Chiaramente ora spetta ai legali del cantante, la possibilità di introdurre il giudizio di merito per far valere le proprie ragioni, in merito al provvedimento fiscale.
Nel 2013 Tiziano Ferro era stato accusato di evasione fiscale e condannato a pagare 3 milioni di euro, perché all'epoca era residente in Inghilterra, e secondo il fisco non aveva dichiarato compensi di 2.038.956 euro più un imponibile Iva di 1.373.978 euro. Nonostante i ricorsi e l’assoluzione con formula piena da parte della Corte d’appello, poi la Cassazione aveva sostenuto che il trasferimento all'estero in realtà fosse un’operazione fittizia.
Da Ansa del 20 dicembre del 2016
"Se sono in America è anche perché voglio un figlio, e lo voglio anche da solo".
Così Tiziano Ferro racconta a Vanity Fair - che lo mette in copertina nel numero in edicola da mercoledì 21 dicembre, in occasione dell'uscita del suo album di inediti (a 5 anni dal precedente) Il mestiere della vita, disco di platino in appena 7 giorni - la sua nuova vita a Los Angeles, dove ha passato quest'anno.
Proprio sulle pagine del settimanale aveva pubblicamente dichiarato la sua omosessualità, nel 2010, e in questa intervista parla, tra le altre cose, della sua situazione sentimentale e del sogno di paternità. Dopo quattro anni in coppia ora non ha un compagno. Il figlio che sogna da tanto, lo vorrebbe anche da solo, "sono in America anche per questo.
Frequento incontri per aspiranti genitori e mi sono reso conto che c'è molta razionalità da mettere in questo progetto, lo slancio non basta. Diciamo che se il cuore riesce a superare la quantità di burocrazia richiesta, allora il figlio lo vuoi davvero".
Tiziano Ferro diventa papà di due bambini: «Ma chiedo riservatezza». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Il cantante e suo marito Victor Allen sono diventati genitori di due bambini di 9 e 4 mesi, Margherita e Andreas. «Li proteggeremo e custodiremo la loro intimità».
L’amore è una cosa semplice e, questa volta, Tiziano Ferro per dimostrarcelo ha pubblicato una foto in bianco e nero. Nell’immagine ci sono lui, suo marito Victor Allen e due testoline con già tanti capelli. Sono quelle di Margherita, 9 mesi e Andres, 4, i due figli della coppia. «Sono diventato papà — ha scritto il cantante su Instagram —, e voglio presentarvi queste due meraviglie di 9 e 4 mesi. Margherita e Andres, la vostra vita è appena iniziata, ma anche la nostra», ha scritto il cantante, aggiungendo pochi altri dettagli. «Due telefonate mi hanno reso l’uomo più felice del mondo — ha specificato —. La prima qualche mese fa: una bimba. La seconda poche settimane dopo: questa volta un bimbo».
La scelta del silenzio
«Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi, ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza di Margherita e di Andres». La scelta dei due padri, dunque, è di non condividere pubblicamente la crescita dei figli così come ogni altro dettaglio circa la loro nascita. «Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l’intimità meglio che potremo — prosegue il post —. Saranno solo e soltanto loro a decidere “quando” — e soprattutto “se” — condividere il racconto della loro vita, è giusto che lo conoscano prima del resto del mondo. E’ un diritto insindacabile».
Il matrimonio nel 2019
La coppia, che vive a Los Angeles, si è sposata nel 2019 dopo tre anni di relazione. Un doppio matrimonio: sia negli Stati Uniti che in Italia, a Sabaudia, poco dopo. Ora il coronamento di questo grande amore con la nascita dei due bambini accolta da una valanga di commenti entusiasti e felicitazioni da parte dei tanti fan del cantautore.
Chiara Maffioletti per corriere.it l'1 marzo 2022.
L’amore è una cosa semplice e, questa volta, Tiziano Ferro per dimostrarcelo ha pubblicato una foto in bianco e nero. Nell’immagine ci sono lui, suo marito Victor Allen e due testoline con già tanti capelli. Sono quelle di Margherita, 9 mesi e Andres, 4, i due figli della coppia. Con un post pubblicato ieri mattina su Instagram, il cantante ha fatto sapere al mondo che la sua famiglia è diventata decisamente più grande. «Sono diventato papà e voglio presentarvi queste due meraviglie di 9 e 4 mesi — ha scritto Ferro —. Margherita e Andres, la vostra vita è appena iniziata. Ma anche la nostra. Per me e Victor l’esperienza da genitori rappresenta il più alto degli onori, il più impegnativo degli oneri. Che affronteremo con amore, attenzione, tenerezza e dedizione».
Una promessa mantenuta già nella riga successiva del messaggio del cantautore, che ha chiaramente detto di voler tutelare la privacy dei due piccoli. «Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi, ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza di Margherita e di Andres — ha infatti chiarito —. Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l’intimità meglio che potremo. Saranno solo e soltanto loro a decidere “quando” — e soprattutto “se” — condividere il racconto della loro vita, è giusto che lo conoscano prima del resto del mondo. E’ un diritto insindacabile». E così, ad accompagnare la notizia, resta solo il sorriso totale della coppia nella foto in cui stringe i suoi piccoli e un unico altro dettaglio raccontato nel post, e cioè come è iniziata questa nuova vita per Tiziano Ferro: «Due telefonate mi hanno reso l’uomo più felice del mondo. La prima qualche mese fa: una bimba. La seconda poche settimane dopo: questa volta un bimbo».
Dunque, a 42 anni appena compiuti (il 21 febbraio), il cantautore realizza uno dei suoi sogni più grandi e antichi: diventare papà. Più volte nel tempo aveva detto che dietro la sua scelta di trasferirsi negli Stati Uniti c’era proprio questo, il desiderio di avere un figlio lì dove era burocraticamente più semplice realizzarlo. «Anche da solo», aveva ammesso nel 2016. Invece, lo ha fatto assieme a suo marito, sposato tre anni dopo. Con un doppio matrimonio: uno americano e uno italianissimo, a Sabaudia, vicino al mare e con una cinquantina di amici. Allora, parlando di quel giorno, Ferro aveva detto: «La vita e le sue imprevedibili e meravigliose svolte. Non vedo l’ora di raccontarvi questa ennesima storia di gioia e celebrazione dell’amore». Anche in quel caso, per i tanti fan del cantautore era stata una sorpresa. Un annuncio a cose fatte, l’unica strada cioè per evitare curiosità e troppe domande.
Ma, in un secondo momento, aveva condiviso alcuni dettagli del loro amore, nato nei corridoi della Warner Bros, a Los Angeles. Uno scambio di sguardi, poi l’invito da parte di Allen, che all’epoca lavorava come consulente per la casa di produzione, a bere un caffè insieme. Non immaginava che quel ragazzo — hanno quindici anni di differenza — era in realtà una superstar adorata in mezzo mondo e quella superstar, del resto, aveva preferito farsi conoscere solo come un ragazzo, rispondendo alla domanda del manager — «Cosa fai nella vita?» — con un contenuto: «Scrivo canzoni». Ed ecco allora la prima delle «meravigliose svolte» che negli ultimi anni hanno ridisegnato l’esistenza di quel bambino di Latina che già a cinque anni provava a cantare mentre suonava la tastiera Bontempi che gli avevano provvidenzialmente regalato.
Un talento che nel 2001 hanno conosciuto tutti quanti grazie a un disco - «Rosso relativo» — che ha lanciato la sua carriera non facendola mai più atterrare. Voce potente, non solo quando canta, Ferro ha parlato della sua omosessualità nel 2010, quando non era così automatico farlo. Da allora sempre più persone si sono appassionate a lui, alla sua musica (ha venduto con i suoi dischi più di 15 milioni di copie nel mondo) ma anche alla sua vita, seguita attraverso i social o anche nel documentario del 2020 che per titolo ha il suo cognome. Lì si vedevano i suoi sogni ma anche le sue insicurezze («Ero grasso, bullizzato, sfigato. Avevo un senso di inadeguatezza enorme»), le sue paure e le strategie per vincerle. Un susseguirsi di svolte «imprevedibili e meravigliose» fino a quest’ultimo doppio tornante. Quello che, finalmente, lo ha reso «l’uomo più felice del mondo».
Tiziano Ferro è diventato papà: ecco Margherita e Andres. Il Quotidiano del Sud il 28 Febbraio 2022.
Tiziano Ferro e suo marito Victor Allen sono diventati papà. Lo ha annunciato con un post social lo stesso cantante in cui si mostra con Victor mentre abbraccia i due bambini.
“Due telefonate mi hanno reso l’uomo più felice del mondo. La prima qualche mese fa: una bimba. La seconda poche settimane dopo: questa volta un bimbo – ha scritto Tiziano Ferro – sono diventato papà, e voglio presentarvi queste due meraviglie di 9 e 4 mesi. Margherita e Andres, la vostra vita è appena iniziata. Ma anche la nostra”.
“Per me e Victor l’esperienza da genitori rappresenta il più alto degli onori, il più impegnativo degli oneri – continua Ferro – che affronteremo con amore, attenzione, tenerezza e dedizione. Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi, ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza di Margherita e di Andres. Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l’intimità meglio che potremo”.
Nel post il cantante non dice nulla della provenienza dei due bambini, anzi, spiega che eventualmente sarà loro la decisione, al momento giusto, per raccontarsi. “Saranno solo e soltanto loro a decidere quando – e soprattutto se – condividere il racconto della loro vita, è giusto che lo conoscano prima del resto del mondo. E’ un diritto insindacabile. Grazie per l’amore e per la comprensione di sempre. Vi vogliamo bene T, V, M, A”, conclude nel post.
Tiziano Ferro e il compagno diventano genitori, il cantante: "Sono papà". Novella Toloni il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il cantautore ha pubblicato sui social network una foto insieme al compagno, Victor, e a due bambini di 9 e 4 mesi annunciando di essere diventato padre.
"Margherita e Andres, la vostra vita è appena iniziata". Con queste parole Tiziano Ferro e il compagno Victor Allen hanno annunciato di essere diventati genitori di due bambini rispettivamente di 9 e 4 mesi, nati da due madri diverse. Il cantautore italiano trapiantato negli Stati Uniti, dove vive con il marito, lo ha annunciato attraverso i social network con un lungo messaggio.
"Due telefonate mi hanno reso l'uomo più felice del mondo - ha raccontato nel lungo post Instagram pubblicato nelle scorse ore - la prima qualche mese fa: una bimba. La seconda poche settimane dopo: questa volta un bimbo. Sono diventato papà, e voglio presentarvi queste due meraviglie di 9 e 4 mesi. Ma anche la nostra".
La notizia non coglie di sorpresa fan e curiosi. Nel dicembre 2020, l'artista originario di Latina aveva svelato il suo desiderio durante un'intervista rilasciata a Silvia Toffanin per Verissimo. La volontà di diventare padre è sempre stata forte nell'artista, che già nel 2016 - quando ancora non aveva conosciuto il compagno - si era detto pronto a adottare un bambino. Poi l'incontro con l'attuale marito, Victor Allen, sposato nel 2019 e l'inizio di un percorso di vita insieme li hanno portati fino all'annuncio di oggi.
"Per me e Victor l'esperienza da genitori rappresenta il più alto degli onori, il più impegnativo degli oneri. Che affronteremo con amore, attenzione, tenerezza e dedizione", ha scritto sulla sua pagina Instagram Tiziano Ferro, affidando al web - per la prima volta - un ritratto di famiglia in bianco e nero. Nella fotografia il cantautore stringe tra le braccia i due neonati mentre alle sue spalle c'è il compagno Victor.
"Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l'intimità meglio che potremo. Saranno solo e soltanto loro a decidere "quando" - e soprattutto "se" - condividere il racconto della loro vita, è giusto che lo conoscano prima del resto del mondo. È un diritto insindacabile", ha concluso Tiziano Ferro. Il cantante, che vive a Los Angeles, ha chiesto rispetto per questo particolare momento e - pur accettando la curiosità di tutti - ha invitato tutti a rispettare la riservatezza dei piccoli e della nuova famiglia.
Instagram e tabù. Tiziano Ferro non sa che i follower dei padri ricadranno sui figli (surrogati e no). Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 marzo 2022.
Il cantante ha pubblicato sui social una foto con il compagno e i due bambini. L’immagine potrebbe essere utile per aprire un dibattito sulla gestazione per altri (in Italia quasi impossibile parlarne), se non fosse accompagnata dalla contraddittoria richiesta di privacy della prole.
Meno male che Tiziano Ferro non ha specificato, nel post in cui annuncia al mondo l’arrivo dei suoi figli, se sono stati adottati appena nati con procedura avviata durante la gravidanza, o concepiti con la fecondazione assistita in gravidanza surrogata; meno male, così possiamo parlare in generale della questione, senza che sembri un dibattito su Ferro e la sua prole. (Comunque poi ci arriviamo, a Ferro e alla sua prole).
Non esiste un verbo, per dire la paternità surrogata. È un problema che mi ero posta qualche anno fa, quando un conoscente aveva avuto dei figli da una madre surrogata, che negli Stati Uniti – dove si sono svolte le gravidanze che hanno reso padri prima il mio conoscente e poi Ferro – è una cosa normalissima e in Italia è un gigantesco tabù.
Avevo detto al mio conoscente, maschio gay come Ferro: non hai partorito tu né la persona con cui stai, non avete adottato, ci vuole un verbo preciso per dirlo. Lui si era messo sulla difensiva, sostenendo che no, «è diventato padre» basta e avanza.
Ovviamente non è così: la lingua funziona quando è specifica (per questo la schwa non ha alcuna possibilità di attecchire). Se non trovi un modo per dire una modalità che sarà sempre più comune, si farà sempre più spazio alla cornice che incoraggia il tabù: hanno comprato dei bambini.
Al netto delle convinzioni personali e ideologiche, della feticizzazione della maternità, l’unico modo di abbattere i tabù è parlarne come non fossero tali. (Riderne, persino: vaste programme).
Certo che le donne non devono essere ridotte in schiavitù e sfruttate; ma ci sono quelle per le quali una gravidanza è un lavoro come un altro, ci sono quelle cui piace essere incinte, c’è il libero arbitrio.
Certo che se i lavori di fatica puoi farli fare a qualcun altro pagherai sempre per farli, e quindi non vedo perché sia normale delegare a qualcuno le pulizie di casa e non la gravidanza; ma forse sottovaluto le perversioni, e probabilmente in futuro ci saranno sempre più povere che si sobbarcano le gravidanze delle ricche ma continueranno a esserci ricche che non si fanno fare l’epidurale.
Epperò l’adozione di neonati da gestanti che già sanno di non voler fare da madri non è diversa: è, a tutti gli effetti, una gestazione per altri. E nessuno, neanche i più oscurantisti tra noi europei, è contrario all’adozione di bambini cresciuti in uteri non desideranti, siano ad adottare scapoli o coppie omosessuali o zitelle. Ma quel bambino non è stato concepito su commissione, non sarà una transazione commerciale, puntesclamativeranno i reazionari. A parte che, se pensate la genitorialità non abbia a che fare col commercio, provate a negare un giocattolo a un bambino occidentale; mi state dicendo che una gravidanza per sbaglio è meglio d’una gravidanza pianificata?
La questione, al netto di Ferro, è complessa perché stratificati sono i tabù da una parte e grandi le paranoie di sembrare reazionari dall’altra. Talmente grandi che ci guardiamo bene dal notare quanto sia curioso che gli omosessuali maschi, coi loro rapporti fortissimi con la figura materna, appena ne hanno l’opportunità si affrettino a creare famiglie in cui la figura materna non esiste; non sarò certo io a farlo, e poi mi pare più utile regolamentare una situazione esistente che giocare col kit dello psicologo dilettante.
Non sarà certo Tiziano Ferro a risolvere il tabù: il tabù potrebbe cominciare a decadere se le italiane con un’immagine pubblica da tutelare utilizzassero la surrogata con la disinvoltura con cui la utilizzano le americane facenti parte del club dei giusti, da Shonda Rhimes a Nicole Kidman. Se lo fa solo chi un utero non ce l’ha, è il rifugio dei disperati (milionari disperati, ma sempre disperati), non un’opzione come un’altra.
Però di Ferro vale la pena parlare, e non del verbo che definisca la sua paternità ma del suo modulo comunicativo. Quando nel 2020 è stato necessario annullare tutte le tournée previste e riposizionarle nel 2021 (poi sarebbero saltate di nuovo, ma ancora non si sapeva), l’imminente paternità di Ferro era considerata una fortuna per gli altri cantanti: un concorrente in meno ai posti negli stadi nel 2021, è concentrato sulla gravidanza e non farà concerti.
Ovviamente nessuno l’ha scritto, perché gli esseri umani sono più civili di quanto si pensi, e intuiscono su cosa farsi i cazzi loro: sulle gravidanze in programma, su quelle in essere ma riservatamente, su quelle già concluse ma senza comunicati ufficiali. Nessuno ha scritto niente quando è nata la prima figlia di Ferro. Tutti hanno taciuto finché lui, ieri, non ha instagrammato sé stesso in una foto in cui si vedeva la sua faccia, la fronte del marito, le nuche dei bambini.
Sotto a quella foto c’è scritto così: «Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi, ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza di Margherita e di Andres. Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l’intimità meglio che potremo. Saranno solo e soltanto loro a decidere “quando” – e soprattutto “se” – condividere il racconto della loro vita». È la didascalia della prima immagine pubblica del racconto della loro vita, pubblicata non da loro ma da un cantante con più di due milioni di follower (cui aggiungere tutti quelli che leggeranno quel post rilanciato sulle pagine dei giornali).
Naturalmente non c’è una soluzione. Puoi non pubblicare mai i tuoi figli e sperare che nessuno lo faccia al posto tuo? Forse sì: dopotutto nessun paparazzo t’ha pubblicato a tradimento in questi primi mesi di paternità, e George Clooney ha come argomento più forte nel chiedere ai tabloid di lasciare in pace i suoi figli il proprio non averli mai condivisi sui social (social sui quali non sta, peraltro).
Puoi dire che stai proteggendoli pubblicandone solo le nuche e che quel confine non va superato? Forse sì, ma in Italia è anche superfluo: i giornali italiani si sono regolamentati con quell’ubriachissima convenzione per la quale le facce dei minorenni vanno rese irriconoscibili, col risultato della collega di Ferro che un minuto minaccia causa alle riviste che hanno pubblicato una foto con la figlia non pixelata, e il minuto dopo fa salire la figlia sul palco d’uno stadio davanti a decine di migliaia di persone.
Puoi pensare che i figli d’una celebrità globale nell’epoca della comunicazione autogestita, in cui dal tuo telefono puoi mostrarti in diretta dalla doccia o dagli Oscar, dalla cucina o da un concerto, puoi pensare che abbiano una scelta circa l’essere la loro vita uno spettacolo pubblico? Forse puoi illuderti, sì. Forse puoi creare un nuovo paradosso, nuove scuole filosofiche, una nuova società dello spettacolo. In cui la richiesta pubblica di non considerare la tua famiglia affare pubblico prenda ottocentomila pubblici cuoricini.
Tom Cruise, tutto quello che non sapevate sul divo hollywoodiano che compie 60 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.
Dai divorzi alla dislessia, le curiosità più succose sull’attore di “Top Gun”
Origini
Tom Cruise nasce con nome di Thomas Cruise Mapother IV il 3 luglio 19
Diagnosi
All’età di 7 anni, a Cruise venne diagnosticata la dislessia, condizione che può rendere più difficoltosa la lettura e la scrittura a mano.
Inizio di carriera
L’interesse per la recitazione arriva a Cruise in seguito a un incidente. Mentre si preparava a partecipare a un torneo di wrestling locale, un infortunio lo costrinse a trovare una nuova attività scolastica a cui dedicarsi, ed entrò così nel cast di “Bulli e Pupe”.
Famiglia
Tom Cruise è stato sposato con l’attrice Mimi Rogers fino al 1990, anno in cui è convolato a nozze con la celebre compagna Nicole Kidman, insieme alla quale adotta due figli. La coppia divorzia nel 2001 e nel 2006 Tom torna all’altare con Katie Holmes, dalla quale ha avuto la figlia Suri. Tutti e tre i matrimoni sono finiti con il divorzio e coincidenza vuole che tutte le mogli di Cruise diventassero ex alla stessa età, tra i 33 e i 34 anni…
Trend setter
All’inizio degli anni ’80, il produttore di occhiali da sole Ray-Ban si trovava in difficoltà finanziarie. Probabilmente la sua rinascita a metà decennio ha molto a che fare con Tom Cruise. L’attore indossò infatti diversi modelli Ray-Ban in film di enorme successo come “Risky Business” e “Rain Man”. Nell’anno di uscita di “Top Gun”, il 1986, Ray-Ban registrò almeno il 40% di incremento nelle vendite.
Religione
Tom Cruise è uno dei più ferventi sostenitori vip della Chiesa di Scientology. Ne viene affascinato sulla fine degli anni ’80, forse grazie alla prima moglie che già faceva parte del gruppo, e non ne è più uscito.
Le scuse di Anne Rice
L’autrice di “Intervista col Vampiro” non era entusiasta di Tom Cruise per il ruolo di Lestat nell’omonimo film del 1994. Dopo aver visto il risultato finale, Anne Rice dovette ricredersi e acquistò due pagine del Daily Variety per chiedere pubblicamente scusa all’attore.
Stunt
Tom Cruise ama prendersi cura delle proprie scene d’azione in prima persona. L’attore è infatti famoso per le sue scene di stunt senza controfigura, comprese mantenersi agganciato al fianco di un aereo, arrampicarsi su una montagna o scalare un grattacielo.
Quando Tom Cruise voleva farsi paralizzare le gambe per un film. Erika Pomella il 3 Luglio 2022 il 3 Luglio 2022 su Il giornale.
Nato il quattro luglio è il film di Oliver Stone con protagonista Tom Cruise ispirato a fatti realmente accaduti e incentrato su un ex marine che perse le gambe in Vietnam.
Nato il quattro luglio è il film del 1989, diretto da Oliver Stone, che va in onda questa sera alle 21.14 su Iris. La pellicola è tratta dall'omonimo romanzo del 1976 scritto dall'ex marine Ron Kovic che, secondo Coming Soon, ha partecipato alla stesura della sceneggiatura e appare anche in un breve cameo all'inizio del film.
Nato il quattro luglio, la trama
Ron Kovic (Tom Cruise) è un ragazzo cresciuto all'interno di una famiglia dagli alti valori cattolici e patriottici. Nato proprio nel giorno della celebrazione dell'Indipendenza degli Stati Uniti, Ron decide di arruolarsi non appena compiuti diciotto anni, per poter servire al meglio un Paese in cui crede fortemente. In Vietnam, però, le sue convinzioni cominciano a vacillare: non solo assiste alla strage perpetrata ai danni di innocenti - compresi donne e bambini - ma, quando per errore uccide un altro soldato, non viene nemmeno punito. C'è qualcosa di sbagliato nella guerra in Vietnam e Ron comincia a covare un crescente senso di colpa. La sua vita militare, però, cambia irrimediabilmente quando un colpo sul campo di battaglia gli costa la perdita delle gambe e l'impotenza.
Tornato a casa il ragazzo trova un'America ben diversa da quella che aveva lasciato e pian piano anche lui comincia a cambiare: la sua fede non è più ferrea, l'alcol e la dipendenza diventano una realtà e anche i rapporti con la sua famiglia si fanno problematici. Dopo essersi sfogato con un ex soldato (Frank Whaley) e aver conosciuto Donna (Kyra Sedgwick), Ron Kovic entra in contatto con altri reduci di guerra e quello che scopre lo spinge a modificare del tutto la sua vita e i suoi valori.
La preparazione del personaggio
Nato il quattro luglio è un film che ha avuto molto successo e che ha portato Oliver Stone a ricevere il premio Oscar per la miglior regia dalle mani di Martin Scorsese. Un successo ottenuto non solo per la forza della vera storia dell'ex marine portata sul grande schermo, ma anche per la dovizia di particolari che Oliver Stone ha cercato di mettere all'interno del suo film. Sebbene il suo desiderio di girare le scene di guerra direttamente in Vietnam non si sia potuto realizzare a causa dei rapporti ancora tesi tra i due stati, Oliver Stone ha cercato di creare un universo diegetico che non fosse solo verosimile, ma studiato anche nei minimi dettagli. Ad esempio, come si può leggere su IMBD, tutto il film è girato utilizzando tre tonalità principali: il rosso, il bianco e il blu. Sono, naturalmente, i tre colori che compongono la bandiera degli Stati Uniti d'America e che Oliver Stone ha utilizzato per identificare determinate scene. Ad esempio, tutte le sequenze di guerra sono girate con una preponderanza di toni rossi, le sequenze oniriche sono girate sempre utilizzando il bianco, mentre tutte le scene che includono un senso di crescente tristezza sono piene di tonalità blu.
Questa ricerca dei dettagli e di un certo perfezionismo di fondo ha trovato terreno fertile anche in Tom Cruise. L'attore, nel corso della sua lunga carriera, ha sempre dimostrato di non tirarsi indietro davanti ai ruoli che è chiamato a interpretare, anche a costo di farsi male o di girare scene molto pericolose. Basti pensare a Mission impossible: Protocollo fantasma in cui ha scalato uno degli edifici più alti al mondo, oppure a Mission impossible: Rogue Nation quando ha accettato di girare una scena all'esterno di un aereo in volo. Tom Cruise, dunque, non ha mai avuto veramente paura di sfidare e superare i propri limiti per la riuscita di un prodotto cinematografico. Per interpretare al meglio il protagonista di Nato il quattro luglio l'attore era pronto anche a provare davvero cosa significasse essere paralizzato. Secondo quanto si legge sul sito dell'Internet Movie Data Base, Tom Cruise avrebbe accettato di utilizzare un gas nervino per causare una paralisi temporale alle sue gambe. Il progetto, però, non andò mai in porto dal momento che la produzione non riuscì a trovare una sostanza abbastanza sicura da garantire l'assenza di danni permanenti. Tom Cruise, allora, decise di utilizzare quasi sempre la sedia a rotelle, anche quando non stava girando, per dare maggiore verosimiglianza alla sua interpretazione di Ron Kovic.
Tom Cruise, tutti i segreti della torta che regala agli amici ogni Natale (spedendola anche via jet privato). SIMONA MARCHETTI su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Diventata famosa come «Tom Cruise Cake», in realtà si chiama «White Coconut Cake» ed è una delizia al cioccolato bianco e cocco che l’attore ordina appositamente alla «Doan's Bakery», una pasticceria super chic di Los Angeles.
D’accordo, con il caldo che fa, pensare a Natale fa un po’ strano. Ma in questo caso c’è un’ottima (e squisita) ragione per farlo e si chiama «Tom Cruise Cake», ovvero la delizia che ogni anno l’attore regala ad amici e parenti proprio per le Festività. Perché ne parliamo ora? Semplice: i tempi d’attesa per questa golosità targata «Doan's Bakery»— pasticceria super chic di Woodland Hills, Los Angeles — sono di addirittura due mesi e contando che Cruise ne ordina a vagonate (lo scorso Natale ne ha fatte arrivare a Londra, via jet privato, ben trecento solo per lo staff di «Mission: Impossible 7»), tanto vale giocare d’anticipo. Ma cosa avrà mai questo dolce di così straordinario da spingere Kirsten Dunst (una delle fortunate a riceverlo come cadeau natalizio dall’attore) a divorarlo in una sola notte? Il primo indizio è nel nome, quello vero. Che non è «Tom Cruise Cake», bensì «White Coconut Cake».
La torta
Tradotto, una torta al cocco con pezzi di cioccolato bianco, ricoperta da una glassa al formaggio fresco e guarnita con scaglie di cocco tostato. Ideato e realizzato da Karen Doan nel 1984, l’anno di apertura della pasticceria che gestisce con il marito Eric, il dolce è arrivato per la prima volta a casa Cruise grazie all’ex moglie Katie Holmes, alla quale era stato consigliato da Diane Keaton durante le riprese di «Mad Money» nel 2008. Da allora, l’attore non ne ha più potuto farne a meno e con lui pure i suoi amici (oltre alla Dunst, l’elenco comprende Renée Zellweger, Angela Bassett, James Corden, Jimmy Fallon, Henry Cavill e Graham Norton).
Chi si trovasse a passare a Los Angeles, può acquistare la «White Coconut Cake» anche in un formato più contenuto, ma se si vuole proprio quella di Cruise per 12-16 persone, il costo è sui 50 dollari (che diventano 99 con la spedizione). Come ha detto lo stesso Cruise una volta, «aspetto sempre che i miei amici mi telefonino e mi ringrazino per la sua bontà!». Che altro aggiungere? Provare per credere.
Hanks compie 66 anni. La lezione di Tom: «Ecco perché non farei più Philadelphia». David Marchese su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.
In “Elvis” l’attore simbolo del “buon americano” veste i panni del cattivo. Pentito dei film commerciali? «Mai di un bel prodotto come il Codice da Vinci». E torna sulla questione dell’autenticità: «Oggi io, eterosessuale, non potrei più interpretare un gay, ed è giusto così».
Ci sono artisti che trascendono la popolarità per rappresentare una parte della storia americana. Tom Hanks è uno di questi. Fin dagli esordi in ruoli da protagonista imbranato e in preda alle pene d’amore o caratterizzato da una complicata innocenza, come in Big (1988), Hanks è diventato gradualmente un simbolo della bontà americana. Ha vestito i panni di uomini onesti ai margini della società (l’avvocato discriminato perché gay in Philadelphia ) e al centro della storia americana ( Forrest Gump e Apollo 13 ). In altre occasioni è riuscito a impregnare di fiducioso ottimismo personaggi intrappolati in situazioni apparentemente insostenibili, da soli ( Cast Away ) o circondati da nemici ( Salvate il soldato Ryan ). Grazie al suo talento versatile è riuscito a creare ritratti fedeli di personaggi reali (gli eroici capitani della compagnia aerea e della nave cargo, rispettivamente in Sully e Captain Phillips- Attacco in mare aperto), di cartoni animati (il cowboy Woody nei film della serie Toy Story ) e di personaggi che avrebbero potuto facilmente uscire da un cartone animato (come Fred Rogers in Un amico straordinario ).
Ci sarà quindi un motivo per cui, in questo momento di declino della fiducia reciproca e nelle istituzioni, Tom Hanks ha deciso di interpretare il ruolo del cattivo? Un personaggio che ha contribuito alla caduta di un’altra figura mitica e iconica della cultura americana? Ma nell’inconfondibile stile hanksiano riesce a trovare qualcosa di inaspettatamente positivo persino in questo personaggio. «Non mi interessa la cattiveria, ma la motivazione che ne sta alla base», afferma Hanks parlando della sua interpretazione del colonnello Tom Parker, ambiguo talent manager, nel biopic Elvis diretto da Baz Luhrmann. «Tutto quello che si può dire di lui è che ha sbagliato», aggiunge, «ma non che è cattivo». È una lezione utile, come tante altre dispensate dall’attore.
Tom Parker era un olandese che diceva di essere un colonnello del Sud. Elvis era un bambino povero di Tupelo che divenne un supereroe. Entrambi furono molto attenti a trasmettere al pubblico una versione molto particolare di sé. Cosa potrebbe sapere una star del cinema come lei su quello che si cela dietro questa sorta di autoritratto, che il resto di noi ignora?
«Vede, non credo che nel mondo dello spettacolo ci fossero personaggi più fedeli a sé stessi di quei due. Elvis si vestiva in quel modo perché doveva. Pensava che quei vestiti gli stessero bene. Era istintivo. Il colonnello Tom Parker era della stessa pasta, ma a un livello rozzo, non artistico. Ho sentito un racconto: quando faceva il giostraio aveva fatto saldare una moneta da dieci centesimi al suo anello. Diceva: “In tutto costa 90 centesimi e mi ha dato due dollari. Le devo un dollaro e 10”. Prendeva poi la mano del cliente, ci metteva dentro il resto poi la chiudeva dicendo “Grazie” e ingannava la gente con quei dieci centesimi. Provò lo stesso piacere quando firmò per Elvis un contratto da milioni di dollari con l’International Hotel di Las Vegas. Non ha nulla a che vedere con il potere o con l’influenza. È un desiderio spassionato di appropriarsi sempre delle cose degli altri. Era questo il sale della vita per il colonnello Tom Parker, come per Elvis lo erano i capelli, i vestiti e la musica che amava».
Ci ha raccontato di loro. Ora le chiedo: lei cosa ne sa dell’autenticità?
«Non ho avuto un successo immediato. Ho recitato a lungo e in diversi film prima di avere abbastanza opportunità ed esperienza per capire che non dovevo per forza accettare tutto quello che mi veniva proposto. Alcune volte pensavo: cosa farò se dico di no? Devo aspettare che suoni il telefono? Mi hanno chiamato! Ho detto sì! Ma sono stato fortunato perché nel frattempo è cresciuta la mia autoconsapevolezza e sete artistica. Avevo interpretato abbastanza ruoli romantici in un numero sufficiente di film e avevo accettato una certa dose di compromessi per arrivare a dire a me stesso: “Non leggerò mai più copioni del genere”. Quindi aspetti qualcosa che rappresenti meglio il tipo di artista che desideri essere. Negli Anni 90 Richard Lovett della Creative Artists Agency mi chiese: “Cosa vuoi fare?”. Nessuno mi aveva mai posto quella domanda prima di allora. Le persone chiedevano sempre: “Cosa vuoi fare con questa opportunità ? “. Ma cosa vuoi fare e basta? Risposi che volevo realizzare un film su Apollo 13. Fu la prima volta che dissi: “Questo è il tipo di artista che desidero essere”. Ma nella carriera di ognuno ci sono successi e flop. Alcuni film semplicemente non decollano, ma se ti lasci sopraffare dalla frustrazione sei finito».
Com’è riuscito a calarsi nel personaggio del colonnello Tom Parker? Per lei è raro interpretare il ruolo del cattivo.
«Direi che il colonnello, a prescindere dalle motivazioni, ha spesso ragione e la dinamica con cui mi trovo più a mio agio non è quella tra antagonista e protagonista, ma quella in cui ognuno ritiene di agire nel modo più giusto. Puoi dire: “Dov’era il colonnello quando Elvis aveva problemi di droga?”. Lui risponderebbe che quello che stava facendo era proteggere la reputazione del suo ragazzo, considerato il più grande performer del mondo, dandogli quello di cui aveva bisogno per farlo salire sul palco a cantare per il tempo necessario a soddisfare i desideri del pubblico, senza farlo apparire come un rocker tossico perché lui era Elvis Fottuto Presley. Il colonnello non gli avrebbe mai permesso di deludere i suoi fan. Quindi le sue motivazioni erano spesso egoistiche, ma anche comprensibili, che le si condivida o meno».
Ha parlato di un momento, all’inizio della sua carriera, in cui desiderava affrancarsi dal solito ruolo che le veniva assegnato. Non ha mai avuto paura, in seguito, di restare imprigionato in un altro tipo di personaggio?
«Intende dire l’eroe, quello di cui ci si può sempre fidare, l’uomo comune che si ritrova in circostanze straordinarie? Io la vedo così: ho dei tratti caratterizzanti che mi accompagnano in ogni film, come la cattiveria che De Niro trasferisce in tutti i suoi personaggi. Possono esserci modi nuovi per esplorarne il significato. Per esempio, quando Clint Eastwood mi chiese: “Vuoi vestire i panni di Sully?” gli risposi: “Ho già interpretato ruoli simili in passato”, e lui mi disse: “Sì, è vero”. La presi come una sfida. Era come se dicesse che c’erano ancora tanti aspetti da scoprire».
Può un attore utilizzare consciamente i suoi tratti peculiari in un’interpretazione?
«No, non credo che si riesca a conoscere la persona attraverso la sua interpretazione. Ma se si considerano tutte le opere che ha realizzato (chi ha visto anche solo la metà dei miei film, ne ha visti già 30), dopo un po’ si arriva a una sorta di imprimatur . È innegabile. Bruce Springsteen diceva che andare ai suoi concerti è come andare in chiesa, purché canti almeno sei canzoni di fila che siano le più rappresentative del suono suo e della sua E-street Band. Dopodiché, può fare quello che vuole. Al cinema non è esattamente così, ma la gente si aspetta qualcosa quando vede il mio nome sul manifesto. Non parlo di un’aspettativa specifica, ma si fida innanzitutto della mia scelta di recitare in un particolare film. “Andiamo a vederlo, perché ci ha deluso solo una volta su due. È ancora una buona media”. Non si può far finta che non esista. Ma tuttavia, quello che desideri sentire dalla gente all’uscita dal cinema è: “Sono contento di essere andato a vedere questo film oggi”. Cosa c’è di peggio che uscire dal cinema e dire: “Ma non potevo aspettare di vederlo in aereo?”».
Molti suoi film raccontano con affetto una fetta dell’America della metà del XX secolo. È un periodo che corrisponde anche a quello della sua giovinezza, per cui molte persone provano nostalgia. Ma, a causa di questa nostalgia, molti americani si sono fatti attrarre da una politica che guarda al passato. Perché il ricordo dei bei tempi andati ha avuto un risvolto negativo per alcune persone e per quale ragione non è stato così per lei?
«Spesso sento affermazioni che mi fanno venire la nausea: “Ai miei tempi ...”. Quei tempi sono passati! “Oh, gli Anni 50 erano così spensierati”. Mi dispiace, ma non è così. Perché le cose non sono più come prima? Intende dire quando lei stava bene? Le istituzioni manipolavano il sistema per mantenere lo status quo! È sempre stato così a parte quando vi era una sorta di ridefinizione delle istituzioni a seguito di una protesta pubblica contro uno status quo ingiusto. Ho recitato in Cloud Atlas , un film che nessuno è riuscito a capire e che poneva questo quesito: che senso ha cercare di fare la cosa giusta quando è solo una goccia nell’oceano? Ma cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce? Le cose migliorano quando le gocce formano un oceano e spazzano via tutto. Pensiamo alla Seconda guerra mondiale: i nazisti sono stati sconfitti, proprio come l’impero giapponese, perché un buon numero di persone perbene ha detto “no”. Credo che i diritti civili siano nati grazie alla convinzione americana che, come cittadini, abbiamo la responsabilità di lavorare per creare un’unione più perfetta. Non so se ho risposto alla sua domanda, ma “c’è Tom Hanks, ha nostalgia per l’America di un tempo” non va bene. Sono affascinato dai progressi realizzati dall’America in tutti questi momenti cruciali. C’è un senso americano del giusto e sbagliato. Quello che non farò, se continuerò a lavorare in questo ambiente, sarà piegarmi al cinismo che impera in gran parte del mondo dello spettacolo. Quante versioni distorte di Chinatown ha visto? Otto milioni. Il cinismo ha una forza di attrazione molto forte, come la violenza. Ma io non sono cinico».
«ERA IL GIORNO DEL MIO COMPLEANNO, COMPIVO FORSE 50 ANNI. STAVAMO EFFETTUANDO LE RIPRESE DURANTE LA NOTTE AL LOUVRE. MI SONO CAMBIATO I PANTALONI DAVANTI ALLA MONNA LISA! MI HANNO PORTATO LA TORTA NEL GRAND SALON! CHI HA FATTO UN’ESPERIENZA SIMILE?»
Realizzare i sequel di Robert Langdon non è stata una mossa un po’ cinica?
«Oh cielo, è stata un’operazione commerciale. Sì, i sequel di Robert Langdon sono delle fesserie. Il Codice da Vinci era un’assurdità. Dio benedica Dan Brown, ma dice: “Questa scultura è in questo posto a Parigi!”. No, si trova da un’altra parte. Sono delle deliziose cacce al tesoro, storicamente accurate quanto può esserlo un film di James Bond sullo spionaggio. Ma sono ciniche come dei cruciverba. Tutto quello che abbiamo fatto è stato offrire uno svago. Non c’è nulla di male nel realizzare un buon prodotto commerciale, a patto che sia effettivamente tale. Arrivati al terzo abbiamo capito che non era così. Lasci che le racconti un altro aneddoto su Il Codice da Vinci . Era il giorno del mio compleanno, compivo forse 50 anni. Stavamo effettuando le riprese durante la notte al Louvre. Mi sono cambiato i pantaloni davanti alla Monna Lisa! Mi hanno portato la torta nel Grand Salon! Chi ha fatto un’esperienza simile? Ci trova del cinismo? Assolutamente no!».
Le storie che vuole raccontare sull’America devono avere un elemento di riscatto perché lei decida di parlarne? Questo perché i suoi progetti sulla storia americana hanno sempre una prospettiva redentiva sui valori del Paese e il carattere della gente. Ci sono invece altre vicende americane, come il massacro di Tulsa (1921, una folla di bianchi attaccò le persone e le proprietà della comunità afroamericana, ndr ), che probabilmente non hanno alcun aspetto redentivo, che si sentirebbe a disagio a raccontare?
«Deve considerare l’aspetto commerciale del mio lavoro. Si comincia dicendo, per esempio nel caso di Masters of the Air : dobbiamo incassare 250 milioni di dollari con una miniserie di 10 puntate. Su cosa? Gli americani che bombardano i nazisti. È abbastanza commerciale, a mio avviso. Ma come lo facciamo? Uno degli aspetti che dobbiamo mostrare è quanto è costata questa operazione. È stata brutale. L’Ottava Air Force ha riportato metà delle vittime dell’intera aviazione americana. Non si tratta semplicemente di dire: “Yeh, abbiamo bombardato i nazisti!”. Ma: abbiamo bombardato i nazisti e le conseguenze di questa azione hanno sconvolto tanti americani. Così come non possiamo semplicemente tornare indietro e mostrare dei bianchi che salvano il mondo, perché anche i piloti neri che sono stati abbattuti sono stati imprigionati. Quindi vedrete anche dei neri».
«Vedrete questi ragazzini che sono esattamente come la loro controparte bianca, il medesimo tipo di prigionieri di guerra, che quando torneranno a casa ritroveranno una patria istituzionalmente razzista. Pertanto, per rispondere alla sua domanda, questa roba costa dei soldi, e quindi deve fare soldi. Dobbiamo quindi agire con furbizia per riuscire a trattare i temi più delicati. Lei non è un ingenuo, ma - francamente - alcuni dicono: “Perché non hai fatto un film su blah blah blah?”. Pensano che tu possa fare qualsiasi film che vuoi. Non è così. Ma con Masters of the Air abbiamo avuto la possibilità di mostrare piloti segregati, nello stesso campo per prigionieri di guerra come tutti gli altri, ed è la verità. Se non lo capite, se non vi informate sul massacro di Tulsa, continuerete a nutrire un’immagine edulcorata del passato. Ma se decidi di affrontare l’argomento, è un primo passo verso un’unione più perfetta. È successo questo. Sappilo. Perché se ne sei a conoscenza, capisci chi siamo».
«HO SMESSO DI TWITTARE PERCHÉ HO PENSATO CHE FOSSE UN ESERCIZIO VUOTO, TROPPI VAFFA, NON MI SEMBRAVA GIUSTO DARE SPAZIO A PERSONE COSÍ»
Ha parlato di un senso americano del giusto e sbagliato. A questo proposito, la sua fede ha vacillato?
«Ci sono un’infinità di motivi per demoralizzarsi. La bontà non è una costante, e non sempre si combatte una battaglia per il bene, ma c’è forza, resilienza e, in definitiva, prevale la vox populi. Ci sono eventi che scuotono quella parte degli americani che crede ancora che esista un modo giusto per fare le cose. A un certo punto è arrivata una nuova amministrazione, e gli urlatori sembravano prendere il sopravvento. Perché? Perché la gente a cui importava non si è fatta vedere. Beh, sta succedendo qualcosa di davvero oltraggioso e sa cosa le dico? La gente si presenterà. Ma le gabbie in cui è rinchiusa devono essere scosse. Potrebbe accadere proprio ora. Naturalmente il problema è che la tecnologia ha cambiato rotta a tal punto che la verità ha perso terreno. Questa situazione cambierà solo quando abbastanza persone diranno: “Non guarderò mai più i social media”».
È per questo che ha smesso di twittare? Saranno due anni che non fa un post.
«Ho smesso di postare perché, per prima cosa, ho pensato che fosse un esercizio vuoto. Ho già abbastanza attenzione puntata addosso. Ma anche perché, quando pubblicavo qualcosa di buffo come “Ecco un paio di scarpe che ho trovato in mezzo alla strada”, il terzo commento spesso era “Ma vaffa..., Tom Hanks”. Non mi sembrava giusto dare spazio a persone così. Così come se il terzo commento fosse “Ma vaffa..., comunista obamiano!”: non abbiamo bisogno di persone così».
Si parla molto di transizioni culturali. Mi parli delle transizioni culturali che riguardano i due film per cui ha vinto l’Oscar.
«Film calati nel loro tempo, che non potremmo girare oggi».
È proprio questo il punto. Per nessuna ragione al mondo oggi ingaggerebbero un attore etero per Philadelphia , e Forrest Gump sarebbe morto e sepolto.
«Vuole dire che Gary Sinise non potrebbe interpretare il tenente Dan perché ha le gambe?».
No, non intendo questo. Sono convinto che già i suoi presupposti farebbero di Forrest Gump un film deriso e criticato sui social prima ancora che qualcuno avesse la possibilità di vederlo.
«Non possiamo farci nulla, ma chiediamoci: “Oggi sarebbe possibile per un etero fare quello che ho fatto io in Philadelphia ?”. No, ed è giusto così. Il punto centrale della pellicola era: “Non avere paura”. Una delle ragioni per cui la gente non aveva paura di quel film era che io interpretavo un uomo gay. Ora abbiamo superato tutto questo, e non penso che la gente accetterebbe come autentico un uomo eterosessuale nel ruolo di un gay. Non è un crimine, non ci si deve lamentare se oggi la gente pretende qualcosa di più dal cinema in termini di autenticità. Sembra che stia facendo una predica? Non era mia intenzione».
Se le chiedo un ricordo della sua carriera, qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Allora, stavamo girando le scene della panchina di Forrest Gump . Era estate a Savannah. Giravamo da 27 giorni di fila. Era terribile. Eravamo seduti lì, io avevo quella pettinatura, cercavamo di dare un senso al dialogo, quando ho affermato: “Bob, ascolta, non penso che gliene freghi qualcosa a qualcuno”. E Bob rispose: “È un campo minato, Tom. Non puoi mai sapere cosa andrà bene. Vuoi arrivare sano e salvo al traguardo o vuoi rischiare di saltare per aria?”. Non ci sono mai certezze. In luglio avrò 66 anni e mi pagano per recitare da quando ne avevo 20. Sono passati quarantasei anni, e ora capisco quanto fossero profetiche, a quell’età, le parole di Spencer Tracy: “Impara le battute. Colpisci nel segno. Dì la verità.” Non puoi fare altro».
· Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Dagospia il 9 aprile 2022. Da I Lunatici – Radio 2
Tommaso Paradiso è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, con una finestra del format trasmessa live anche su Rai 2 tra l'una e venti e le due e trenta circa.
Il popolare cantautore ha parlato del suo ultimo album, 'Space Cowboy': "Sono contento che 'Tutte le notti' sia già un successo. Se qualche brano è nato di notte? Quasi tutti. Le canzoni nascono di notte, poi la mattina vengono messe in bella copia. Le canzoni sono come dei figli o delle figlie, non riesci a capire quale sia la tua preferita. Le ami tutte quante allo stesso modo. Ognuna ha le proprie caratteristiche, ma le amo tutte incondizionatamente, altrimenti non sarebbero lì. Le canzoni nascono sempre senza calcoli, non è che uno si mette a scrivere pensando di fare una canzone di successo o di nicchia. Poi con l'esperienza ti rendi conto quale diventerà un singolo e quale piacerà di più a chi si appassiona proprio al disco".
Tommaso Paradiso ha parlato un po' di se: "Quando è arrivato il successo? Probabilmente dal 2015 c'è stato un'attenzione maggiore. Con l'album Fuoricampo dei Thegiornalisti, lì si sono alzate un po' le antenne, poi con 'Completamente' abbiamo fatto il passo definitivo".
Sull'arrivo della sua musica nella sua vita: "C'è sempre stata. Alle elementari mia madre mi iscrisse a pianoforte. Poi sono sempre stato un grande fruitore di musica. Ho sempre avuto a che fare con la musica. Poi sono passato dal pianoforte alla chitarra, ho cominciato a fare i primi gruppetti a scuola, le cover. Da lì poi è nato tutto. Sono cresciuto ascoltando molto il britpop negli anni '90 perché ero proprio un fan di quella musica lì. Poi dalla musica inglese sono ritornato al cantautorato che ascoltavo da ragazzino con mia madre".
Sul Tommaso Paradiso bimbo: "Ero scatenato, molto gioioso, socievole, da ragazzino mi divertiva la vita in generale, lo sono ancora adesso, mi piaceva andare a scuola, con gli amici, facevo tante battute, amavo divertire anche la gente, tipo Bart Simpson. E' stato un periodo molto felice, sono stato fortunato, diciamo la verità".
Sulla sua passione per i film degli '80: "Sono stati grandissimi film, che hanno fatto la storia del cinema italiano e incassato in maniera pesante, perché erano scritti da sceneggiatori incredibili, che sapevano vivere con la realtà e non si andavano a impelagare in storie strane per strappare l'applauso della critica, ma stavano e vivevano in mezzo alla gente. Poi passa questo messaggio che io conosca molto bene i film degli anni 80 ed è verissimo, ma sono forse più ferrato sui film degli anni 70, 60, 50. Sono un appassionato del cinema italiano in generale. Il film della mia vita? Se dovessi decidere l'ultima pellicola da vedere prima di abbandonarmi al dolce oblio, direi 'Totò, Peppino e la Malafemmina. E' un film con cui sono cresciuto, che mi ricorda un sacco di vita mia".
Sul rapporto con il successo: "Fa piacere quando la gente ti riconosce e ti apprezza, vuol dire che hai fatto le cose fatte bene".
Sulla Lazio, squadra di cui è grande tifoso: "Il derby? Nonostante fosse a livello di classifica quasi insignificante, ci sono rimasto veramente male. Mi aspettavo tutt'altra cosa, dopo le ultime uscite della Lazio. Mi aspettavo un'altra partita. Siamo entrati bloccati, immobilizzati. Rialzarci? Spero di sì. Mi auguro di arrivare in Europa League, ma piuttosto che andare in Conference preferirei proprio non fare le coppe. Se ripartirei da Sarri? Assolutamente sì. Quando ci ricapita di avere un allenatore così preparato, internazionale, vincente, seguito, di carattere. Bisogna ripartire dalla Lazio che ci ha lasciato Sarri negli ultimi tre mesi. Le critiche a Ciro Immobile? Viene attaccato così perché gioca nella Lazio e non in una squadra di grande blasone tipo Inter, Milan o Juve. Sta da noi ed è un bersaglio più facile. E poi tutti si aspettano che lui in Nazionale prenda la palla, dribbli tutti, e la metta sotto al sette. Non è quel giocatore lì. Ciro è un campione che ha bisogno di un certo gioco e di un certo tipo di meccanismi. E' stato il capro espiatorio di un gruppo che dopo l'Europeo non ha funzionato alla grande".
Sulla società post pandemia: "Sai, quando c'è un nemico comune di solito i popoli si alleano. Credevo che contro questo grande nemico comune fossimo tutti compatti e legati gli uni con gli altri. Invece viviamo nella fase più divisoria nella storia dell'uomo. Probabilmente anche a causa dei social, su cui ogni persona ha la possibilità di esprimere opinioni anche su campi che non sono di sua pertinenza. Ci mandiamo a quel paese su come fare la carbonara, figuriamoci su un virus o una guerra. Ormai diventa tutto un elemento per dare sfogo alle proprie pulsioni negative e purtroppo non c'è mai di vera relazione, vera filosofia, vero dialogo".
Da il fattquotidiano.it il 9 aprile 2022.
“Tutte le notti” è il nuovo singolo in radio e il protagonista del video è Christian De Sica che Paradiso difende a spada tratta: “Il pubblico intellettuale lo indica ancora per qualche frase tipo ‘cafonata’ e ‘delicatissimo’… In realtà è un attore incredibile, lo seguo da tantissimo tempo anche nelle cose non commerciali. Da solo ha retto la commedia italiana in tutti questi anni ed è l’anello di congiunzione tra ieri e oggi della grande produzione di Risi, Scola, Tognazzi, il padre Vittorio De Sica e Vittorio Gassmann. È molto più difficile far ridere al cinema che far piangere”.
Da Ansa l'1 marzo 2022.
"Cosa cambia tra il Tommaso Paradiso di oggi e quello dei TheGiornalisti? Niente: solo il nome. I dischi li facevo io allora come oggi". Dopo l'addio non senza polemiche e strascichi legali con la band che gli diede la popolarità, Tommaso Paradiso, in occasione della presentazione del suo nuovo album solista Space Cowboy, torna sulla vicenda. "I dischi li facevo con Dario Faini, Matteo Cantaluppi, Federico Nardelli, Takagi e Ketra. Adesso pure", sostiene l'ex frontman della band romana, escludendo così i suoi ex compagni.
"Da concorrente non andrò mai in gara a Sanremo. In generale non farò mai una gara canora". E' tranchant Tommaso Paradiso, che quest'anno era dato tra i possibili Big del festival. "Io non ci ho mai pensato: non so come sia uscito il mio nome". Il cantautore poi non si dice contrario all'uso del playback, come già fatto in passato, in particolare per tutelare gli interpreti più "deboli.
"E' il festival della canzone italiana - sostiene Paradiso, che ha presentato il nuovo album Space Cowboy -. O siamo a The Voice e valutiamo interpretazione o valutiamo il brano. Bisogna stare attenti a votare la canzone e non l'interpretazione, perché magari qualcuno ha un brano che poi va fortissimo, ma si fa prendere dall'emozione. Vedi il successo di Tananai. Quindi perché no il playback? Tanti interpreti non sono troppo all'altezza di quel palco. La musica va fatta dal vivo, ma magari arriva il ragazzino e viene ucciso dall'odio dei social perché stona".
Tommaso Paradiso, doppio debutto solista con album e film: «Thegiornalisti? Ero solo io». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.
Tommaso Paradiso pubblica il primo album «Space Cowboy»: «Facevo i dischi da solo con il produttore. Vivo al massimo, come il protagonista del mio film».
Tempo di debutti per Tommaso Paradiso. A 38 anni un doppio inizio: è in arrivo il primo album solista «Space Cowboy» (esce venerdì 4) e sarà presto nelle sale il primo film da regista «Sulle nuvole» (26-28 aprile).
Che differenza c’è fra il Tommaso Paradiso solista e quello che «inventò» il nuovo indie coi Thegiornalisti?
«Non vorrei che si scatenassero gli avvocati (l’addio con la band è stato burrascoso ndr)... ma cambia solo il nome. Anche allora, come adesso, i dischi li facevo da solo assieme al produttore».
La differenza con il cantante caduto in disgrazia interpretato da Marco Cocci?
«Abbiamo in comune l’eccesso, il vivere tutto al massimo, drammi e gioie, la paura del palco, il piacere del vino... Spero di non fare la sua fine, lui ha una vita travagliata. Era una storia che doveva essere raccontata al cinema, una canzone non sarebbe bastata. Il cinema è la mia vera passione, ma nelle canzoni ci metto il mio mondo. Alla fine preferisco un tour sold out negli stadi che un Oscar».
«Piango sempre per gli stessi film» canta in «Space Cowboy». Quali?
«Il momento del ritorno a casa alla notte è particolarmente fragile e delicato e la mia comfort zone per addormentarmi sono le pietre miliari del cinema. In questo momento “Totò Peppino e la... malafemmina” mi fa piangere sul finale per l’idea di famiglia che ci vedo. Vedo cose pesanti ma ogni tanto un De Sica, che sarà protagonista del video di “Tutte le notti”, ci vuole».
Il vaccaro spaziale?
«Nella canzone che dà il titolo al disco c’è la frase manifesto: “tu vuo’ fa l’americano ma nel cuore c’hai Vasco”. Sono io, da sempre affascinato dall’America sia per l’immaginario dei cowboy che per l’idea di perfezione nello show business, ma poi c’è l’Italia, la melodia e l’armonia che sono casa e che si sentono in questo disco fatto da canzoni pop nell’essenza pura, con chitarre anni 80, qualche scopiazzatura di Lennon e pochi synth rispetto al passato».
In molti brani c’è il mare, ma non quello spensierato del tormentone «Riccione».
«Abbiamo registrato in uno studio in costiera amalfitana. Il mare è fonte di ispirazione, quando guardi l’infinito i pensieri prendono forma».
Quelli che hanno preso forma qui sembrano improntati alla malinconia, alla solitudine, alle lacrime... Figlio della pandemia?
«Non racconta la pandemia ma le riflessioni di quei momenti. La malinconia è fondatrice della produzione artistica. Il cervello rilascia sostanze che creano quella sensazione esattamente al centro fra tristezza e felicità, ma, come nei quadri di Magritte, nelle mie canzoni c’è sempre una luce in fondo. Mi sento più vicino all’idea di Nietzsche di opposizione fra apollineo e dionisiaco e quindi anche di un lato negativo che non deve sparire rispetto alla sintesi razionale di Hegel».
In «Tutte le notti» canta di concerti che vuole fare e cui vuole andare. Dopo più di un rinvio causa pandemia ha spostato il tour dai palazzetti ai teatri. Come mai?
«I teatri sono l’unica cosa garantita in questo momento. Non potevamo più spostare. Ho parlato con dei politici in questi mesi: non capiscono che ci mettiamo la faccia».
Primo album, ma dal 2019 ha pubblicato 8 singoli, 4 dei quali non sono qui dentro. Lo streaming ha ucciso l’album?
«La pandemia ci ha costretti a cambiare regole e nel marasma di canzoni scritte ho dovuto fare una scelta. A parte questo, se sei un hit maker te ne frega meno del disco ma da cantautore so che il pubblico vuole vedere dentro di me anche attraverso brani più personali che non saranno mai i singoli».
Mai pensato a Sanremo?
«Non capisco perché girasse il mio nome: non parteciperò mai a una gara canora. E poi dico che essendo il festival della canzone e non The Voice si dovrebbe valutare il brano. Magari per colpa di un’interpretazione incerta si perde un grande brano. Se allora uno volesse fare playback bisognerebbe lasciarlo fare».
Dylan non è perfetto, ma non abbiamo perso i suoi capolavori...
«Dylan non veniva bombardato dai commenti su Instagram. Il costante giudizio degli haters è pesantissimo».
«La vita non è un cellulare» dice «Space Cowboy»...
«Non sono l’esegeta della contromodernità, ma certe emozioni sono più belle se non veicolate da un telefonino che è un luogo senza limite senza fine».
"Dall'America a Vasco. Ecco il mio disco in controtendenza". Paolo Giordano il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.
Esce il disco "Space cowboy", di Tommaso Paradiso: "Con Sorrentino condivido la voglia di sentire ciò che non si sente in giro".
Tommaso Paradiso è una boccata di nostalgia nel pop italiano. Attenzione: nostalgia magari canaglia ma non triste anzi, divertita e colorata. E difatti nel nuovo disco Space Cowboy (che lui traduce scherzosamente «vaccaro dello spazio») ha tolto «tutto i sintetizzatori, gli arrangiamenti e gli orpelli che mettevo prima». In sostanza: le canzoni sono più essenziali e decisamente in controtendenza rispetto alla corsa all'ultimo effetto speciale di tanta musica che ci gira intorno. «Voglio fare cose che non sento altrove». Da quando era con i Thegiornalisti («Ma i dischi li facevo comunque io da solo con altri produttori»), l'ormai barbutissimo Tommaso Paradiso è sganciato dal rituale modaiolo e a hip hop, trap oppure urban ha sempre preferito i binari della canzone popolare italiana. «Ogni tanto mi vedo con Paolo Sorrentino e siamo molto d'accordo su di un punto in particolare».
Ossia?
«Anche lui dice che vuole un cinema che non vede altrove».
A proposito, il film di Tommaso Paradiso quando esce?
«Esce a fine aprile. Avevo in mente una storia da film e non da canzone e ci ho pensato per 5 o 6 anni».
Si intitola Sulle nuvole, il protagonista è un cantante e Sulle nuvole è anche un brano dell'album. Quindi è un film autobiografico?
«Ci sono senza dubbio dei tratti in comune, e penso al bisogno di vivere tutto al massimo. Ma spero di non fare la stessa fine del protagonista, che ha una vita travagliata. Io spero di averla meno tortuosa».
Allora Tommaso Paradiso è il «vaccaro dello spazio», ossia lo space cowboy del titolo.
«In questo momento sì: voglio fare l'americano ma nel mio cuore c'è Vasco. L'America è un orizzonte, un faro anche nella musica, la cita Vasco, la cita De Gregori. Ma poi mi basta registrare il disco sulla costiera amalfitana, davanti al mare, e ritorna fortissima l'anima italiana. In certi momenti delle registrazioni si sente pure il frinire delle cicale. Avrei potuto toglierlo, ma non l'ho fatto».
In un brano (Amico vero) c'è Franco 126.
«Prima di scriverlo ci siamo parlati: Che vogliamo fa?. E lui, con il suo vocione alla Califano mi dice: Descriviamo l'Italia. Così ci siamo immaginati di attraversarla in auto nel bel mezzo di agosto».
Lei ha amici?
«Il primo che mi viene in mente è Calcutta. Spesso ci chiedono di fare una sorta di Banana Republic di questo tempo. Mah, ci siamo scambiati i profili Instagram, figurarsi fare uno stadio insieme. C'è lui ma ci sono altri. Con Elisa e Jovanotti ci sentiamo quasi ogni settimana, poi posso ritenere amici Salmo, Dardust, Takagi e Ketra e altri».
Space cowboy è il suo primo disco da solista. Che differenza c'è con gli altri pubblicati con i Thegiornalisti?
«Direi nessuna differenza, cambia solo il nome».
Lei ama la tradizione pop italiana, perché non ha mai partecipato al Festival di Sanremo?
«Penso proprio che da concorrente non andrò mai all'Ariston perché non amo le gare canore».
Però quest'anno si diceva che sarebbe arrivato come ospite o addirittura coconduttore.
«Anche io mi sono chiesto come mai sia uscita quella voce. In ogni caso, Sanremo è definito il Festival della canzone italiana. Talvolta si è usato il playback e io non sono contrario perché può sfuggire un'interpretazione non all'altezza e la qualità del brano passa in secondo piano».
Però questa è la grande sfida dei grandi artisti. Bob Dylan, ad esempio, non brilla certo per le qualità vocali ma per i brani.
«Diciamo che ai tempi di Bob Dylan non c'era Instagram».
Nel video di Tutte le notti ci sarà Christian De Sica.
«Tutto il pubblico snob e intellettuale lo denigra per qualche frase trash, ma in realtà è un attore incredibile che ha recitato anche in molti film drammatici. Christian è l'unico l'anello di congiunzione oggi tra la vecchia scuola della grande commedia italiana (firmata Sonego, Flaiano, Risi, Scola, De Sica padre, Gassman padre) e la nuova scuola».
Lelio Luttazzi lo definiva «il miglior cantante italiano di swing». Magari potrebbe invitarlo in qualcuno dei concerti nei teatri dal 25 marzo per Vivo Concerti.
«E perché no? Una volta ho invitato anche Jerry Calà. Mi piacciono le scelte che sparigliano le carte».
· Tommaso Zanello alias Piotta.
Emanuela Del Frate per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 ottobre 2022.
È diventato nazional popolare con il brano " Supercafone", ritratto tamarro dell'estate italiana di fine secolo, ma dietro la musica di Tommaso " Piotta" Zanello, 50 anni ad aprile c'è molto di più. Colto, autoironico, malinconico, è stato tra i primi ad animare la scena rap. Una storia che ripercorre nel suo nuovo libro - edito da Chinaski con una prefazione dei Manetti Bros - "Il primo Re( p). Alle origini del rap italico".
Qui distende i fili della memoria già disseminati nel brano "Di noi", dedicato a Primo Brown, scomparso nel 2016. Uno dei "quattro amici al bar" da cui parte tutto. Gli altri sono Danno e Masito dei Colle der Fomento che, con Piotta e Ice One, diedero vita alla Taverna Ottavo Colle: prima crew a rappare declinando l'hip hop nello slang romano.
Partiamo dal titolo: perché Il primo Re(p) romano?
«Capita che mi fermino per strada dicendomi: "Oh, sei stato il primo". Ci ho voluto giocare in modo ironico, come se andassi a raccontare le mie gesta, ma anche quelle di tutti gli altri che hanno vissuto quel periodo, un'epoca fa».
Perché definisce il suo libro una "non fiction novel"?
«Perché c'è una parte di vita vissuta ma non segue le regole delle autobiografie. C'è un ordine emotivo più che temporale. Durante il lockdown ho scritto ogni giorno un capitolo. Partivo da un flash, un ricordo, come se fosse una cartolina, infilandomici dentro per farla tornare in vita».
Che ruolo ha avuto il benzinaio di viale Conca d'oro nella sua storia?
«Importantissimo. Il mio obiettivo è stato sempre lo stesso: arrivare con il rap a tutti. Lui era incuriosito dalla mia musica, ma non la capiva. E, alla fine, ci sono riuscito con "Spingo io", perché ha quella cantata a squarciagola, stiracchiata, sguaiata, un po' stonata da fischiettata romana».
Il libro è denso della sua Roma, quali sono i luoghi a cui è più legato?
«Villa Paganini, che rappresenta l'infanzia, poi c'è Villa Ada, posto imprescindibile per più di una generazione. Lì ci godevamo la Villa Ada Posse di Brusco: radiolone con il reggae, cannette e partite a pallone. Al Giulio Cesare ho incontrato il rap e Danno.
Di piazza Rondanini ho un ricordo forte perché è lì che ho conosciuto Primo, così come lo Stellarium, è un luogo del cuore, lì Masito trovò per me il nome Piotta. Ma c'è anche la Roma est di mio fratello Fabio, quella del Forte Prenestino - fu tra i primi ad animare quel luogo magico che ospitò anche le prime jam - . E della sua Torpignattara dove, ora che non c'è più, torno per immergermi nei libri che ha lasciato».
Nei suoi testi ci sono sempre state citazioni di film, il cinema torna anche nel libro. Come andarono le cose con Matteo Garrone?
«Ha girato molte scene di "Estate romana" sulla spiaggia di Capocotta dove "Supercafone" era perennemente presente. Garrone conosceva mio fratello, la sua chiamata mi arrivò al fisso di casa. La mia etichetta, però, si oppose e preferì dare il brano a un cinepanettone».
Anni dopo è arrivato su Netflix firmando la colonna sonora di "Suburra". Com' è nata "7 vizi capitale"?
«Quella canzone nasce per "Roma nuda", film che avrebbe segnato il ritorno di Tomas Milian, accanto a Califano, una bomba che non uscì mai. La ripresi in mano anni dopo, volevo un sound che fosse nuovo, ma che avesse in sé anche la Roma più vecchia, così ho chiamato gli amici del Muro del canto».
Di Franco Califano parla anche in "Supercafone", l'ha mai incontrato?
«A un certo punto, si scagliò contro di me per quella citazione. Poi, per riparare, mi invitò al suo compleanno e mi capì subito tanto che mi disse: "Va bene il rap, vanno bene le cose divertenti, ma tu devi tirare fuori Tommaso. Devi tirare fuori la tua parte più poetica».
Cosa ha condiviso con Jovanotti?
«Lorenzo è sempre presente. I suoi dischi, i programmi in radio e in tv sono stati fondamentali per noi per conoscere il rap e i nomi della scena. Poi ci siamo ritrovati spesso negli anni; ho cantato con lui al Flaminio, così come al suo primo Jova Beach Party».
Tra i tanti ricordi di persone che non ci sono più emergono, forti, quello di Primo e di suo fratello
«Era vivo quando ho scritto il libro, quindi parlo di lui come scrittore, come saggista, come fratello più grande. Non ho voluto declinare i verbi al passato, volevo che fosse un presente che non c'è più. David, purtroppo, è morto molto tempo prima: per fortuna restano le sue canzoni, così come restano i libri di Fabio».
Perché scrive di sentirsi simile a un personaggio di Zerocalcare?
«Siamo come Ulisse che, dopo svariate peripezie, torna sempre al punto di partenza, arricchito dal viaggio che ha fatto. Pronto a ripartire subito, ma, avendo sempre chiaro che il viaggio è bello perché c'è il ritorno, a volte anche simbolico, a Roma».
Claudio Fabretti per leggo.it il 4 ottobre 2022.
Si fa presto oggi a dire rap. Ma al tempo in cui Tommaso Zanello alias Piotta mosse i primi passi, in Italia, era quasi una parolaccia. «Tutti ci ridevano in faccia, ora il rap lo conoscono anche i nonni», sottolinea l’artista romano, che ha appena pubblicato “Il primo re(p). Alle origini del rap italico”, il suo terzo libro, in uscita da domani per Il Castello/Chinaski Edizioni. Dopo le precedenti esperienze editoriali con “Pioggia che cade, vita che scorre” e “Troppo avanti: come sopravvivere al mondo dello spettacolo”, Piotta torna in libreria con un diario personale e generazionale, in cui attraverso la sua storia umana e artistica, ripercorre la nascita della cultura hip-hop in Italia.
Che tipo di clima c’era agli albori del rap italiano negli anni 90?
«Era un bel clima. Un humus generazionale che ricordo con affetto: erano anni di gioventù, tra scuola, giri in scooter, dj-set... Ma sicuramente c’erano passione, coraggio, spontaneità. E aggregazione, anche senza i social».
Come si è arrivati a sdoganare l’hip-hop in Italia?
«Quella generazione sentiva l’esigenza di raccontarsi con un nuovo linguaggio, che non era più quello del punk, del rock o del cantautorato. Avevamo una prateria davanti. E pian piano il verbo del rap si è diffuso: giravamo l’Italia e scoprivamo che ogni città aveva i suoi rappresentanti. Erano serate anche con 13 gruppi a suonare. Così il rap e ha iniziato ad avere un riconoscimento ufficiale».
A Roma, poi, era una specie di famiglia.
«Sì, una grande amicizia mi univa ad artisti storici del rap romano, come Colle der Fomento, Cor Veleno, Flaminio Maphia, Ice One e tanti altri».
E poi con “Supercafone” è arrivato il grande successo. Che effetto le ha fatto?
«È stato un momento molto piacevole: una gratificazione e anche la soddisfazione di vedere che in famiglia erano contenti perché il lavoro del figlio dava qualche frutto e si poteva considerare una cosa seria. Così mio padre divenne un fan!».
Poi, però, ha iniziato a rifiutare tante proposte...
«Sì, perché a me interessa solo fare musica. Mi piacciono meno tante cose che le girano intorno. Come la tv. Ricordo il Festivalbar: era tutto finto, anche gli applausi. Preferisco i miei concerti».
Una volta però la tv l’ha aiutata: quando “7 vizi capitale” è stata scelta come sigla della serie “Suburra”.
«Sì, anche se quella serie aveva un taglio quasi cinematografico. Tra l’altro il brano era stato scritto per un film con Tomas Milian e Franco Califano, “Roma nuda”. Ma non è mai uscito per problemi legali».
Nel libro c’è anche la sua vita, segnata purtroppo da tre lutti...
«Ho perso mamma, papà e mio fratello Fabio: lui era il vero scrittore di casa e aveva anche firmato la sceneggiatura del mio film “Il segreto del Giaguaro”. Per gestire questo dolore servirà molto tempo».
Ha nuovi progetti discografici in cantiere?
«A breve riprenderò in mano il lavoro per il mio prossimo disco. Uscirà nel 2023».
Barbara Costa per Dagospia l'1 ottobre 2022.
60 anni!!! Tanti auguri al caro Tommy Lee e al suo pisellone!!! 60 anni, stupefacente che li abbia – pisellone compreso – ben più che ci sia arrivato – pisellone compreso – e tutto intero o quasi: a giugno Tommy si è rotto 4 costole ruzzolando sulle scale di casa, ma Tommy non lo fermi, lui "funziona" nonostante tutto, e laggiù intendo... e chissà se allo stesso modo di quando di anni ne aveva di meno, Thomas Lee Bass, per tutti Tommy Lee, “caz*o di testa sottosviluppata, disadattato e scheletrico, e c’ho il naso storto”, il batterista dei Mötley Crüe, maschione sex n' drugs n' rock, col suo pisellone stratosferico, che tutti – sìììììì, tutti!!! – abbiamo su IG nella foto uncensored (ooops!) postata da Tommy ammirato e anelato e noi brave femmine attente confrontato, membro da non dormirci la notte, dio santo se non è un sogno quel pene per cui ora Tommy vuole 40 dollari al mese per "darcelo" su OnlyFans!
Dici Tommy Lee e subito lo appiccichi a Pamela Anderson, a quel loro tape porno ancora sul web e video per cui Tommy Lee è stato contattato dal fu mito porno Ron Jeremy per iniziarla davvero, una carriera porno, accanto a quella di batterista rock! L’amore tra Tommy e Pamela Anderson è durato dal Capodanno 1995 al San Valentino 2000, più una ricaduta – e che botta!!! – dal 2008 al 2010.
Ma mica solo la Anderson ha potuto godere di una tale gloria penica: se Tommy Lee è prezioso superstite del rock il più decadente, e se per farglielo rizzare una tipa deve avere le tette grosse, rifatte o no non gli importa, basta che grosse siano… che poi 'sta storia della fissa di Tommy per le tettone cade sul suo primo matrimonio, quello con l’attrice Heather Locklear: una sventolona, donna che ne ha fatti palpitare, di peni, e una così, come l’ha conquistata Tommy Lee? Eh, gliel’ha presentata il suo commercialista, il cui fratello era il dentista di Heather (capito come vanno le cose, tra le colline di Hollywood?).
E lo svalvolone Tommy, la prima volta che le ha telefonato, l’ha apostrofata col nome di un’altra!!! Un’altra bambolona… e Heather ci è uscita lo stesso, ma gliel’ha data dopo un mese! Ed è durato pochi secondi, mentre il loro matrimonio 7 anni, con zero tradimenti, eccetto le groupie a valanga sc*pate da lui, in tour “circhi sessuali malati”, con preliminari di “chicchi d’uva sparati dalle vagine”, e in orge e alla grande di fellatio (perché una bocca sola non ce la fa, un tale "dono" di natura a infilarselo, né a succhiarlo più di tanto) fino a che l’amore è finito e non per la di Heather esasperazione orale, e non per le di lui dipendenze da alcool e zombie dust, ma per il no di lei a fare figli.
Prima conta la carriera, anche se Heather, appena mollatasi con Tommy si è messa con Richie Sambora, il chitarrista di Bon Jovi, rimanendoci incinta all’istante, con gran rosicamento di Tommy… Ma veniamo a Pamela, anzi no, prima voglio dire che non solo per Pamela Tommy è andato in galera e due volte, la prima 6 mesi (ridotti a 4 per buona condotta, e sai cosa?
In California se sei detenuto non puoi farti mandare i libri da casa: le pagine possono esser impregnate di LSD…), colpevole di violenza domestica (una sera ha sclerato di brutto perché non trovava una padella, quella giusta per friggere le verdure, e giù urlacci e spintoni a Pamela che ha chiamato il 911); la seconda 5 giorni per ubriachezza e, amico, se sei in libertà vigilata, e hai promesso al giudice di non bere più, sei nei guai… dicevo, prima di Pamela in galera ci è finito perché “ho sbraitato e cacciato via da casa sua” Bobbie, sua ex fidanzata, da Tommy mollata per bucarsi un’unica volta e andare in overdose e uscirne scappando dall’ospedale e così innamorarsi della Anderson, tampinarla fino a Cancùn, dove si sono sposati e si conoscevano da soli 4 giorni, e andavano a letto da altrettanti.
E pensare che Pamela, al primo appuntamento con Tommy, gli ha dato buca!!! Se n’era scordata, e lui che per lei si era perfino lavato i denti, e speso 400 dollari (e del 1995) in sex toys! Tra Tommy e Pamela sono 5 anni di amore folle e litigi e 2 figli messi al mondo subito, uno dietro l’altro, sul letto dove son stati concepiti e dalla vagina di lei li ha tirati fuori lui, più party di compleanno con superalcool e droghe modificate, e ritorni a casa in barella, e un tentativo di suicidio di Pam a cui Tommy mai ha creduto, e sc*pate e ritorni insieme post galera, e post corna: e con chi tradisci una passerona come la Anderson???
Ma con Carmen Electra, passerona in costume rosso intero e salvagente e boccione perché Carmen è la sostituta di Pamela a "Baywacht", quando Pamela lascia la serie per girare altro.
Oggi Tommy Lee è sposato con la web star (tettona) Brittany Furlan. “La musica rimane al f*ottutissimo primo posto, bello!!!”. Suona sempre coi Mötley Crüe, ma una volta ha fatto a pugni col cantante Vince e non perché Vince si è sc*pato Pamela Anderson prima che divenisse Pamela Anderson e si mettesse con Tommy, no: si sono picchiati per rabbie pregresse… e una volta Tommy si è sbattuto Brandi, moglie di Nikki Sixx, il bassista dei Mötley, macché moglie erano ex, e per ripicca, ché Nikki di suo si era già sbattuta Honey, ex ragazza di Tommy, “una psicopatica, bello!”, e una “con cui potevo fare sesso di gruppo”, e una che ha venduto le foto di lei e Tommy che sc*pano a una rivista porno, ma una che gli ha pure ficcato un coltello nella schiena “proprio affianco alla scapola, bello!!!
E ho dovuto guidare fino al pronto soccorso così!!! E poi in manette ci finisco sempre io…!!!”. E io non posso chiudere questo mio omaggio al grandissimo (pene di) Tommy Lee senza menzionare il suo primo amore, Jessica, adolescente messicana “con la faccia da alce” a cui l’adolescente Tommy Lee leccava forte la f*ga che squirtava “come una cisterna rovesciata” impestando il furgoncino in cui si appartavano: “È stata la mia prima vera ragazza, e io che pensavo che tutte venissero in quel modo, quando sono eccitate”. E su quel furgoncino un giorno ci è salita la mamma, di Tommy, ingenua signora, e chiedere da dove veniva, quella puzza strana…
Toni Servillo da Sorrentino a Berlioz e «presto vorrei girare un nuovo film a Torino». Luca Castelli su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.
L’attore darà voce a Lélio, ou Le retour à la vie di Hector Berlioz, con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio alle Ogr. Uno dei volti meno conosciuti di Toni Servillo è quello dell’appassionato di musica classica. «Efferato appassionato», puntualizza l’attore napoletano, in questi giorni in sala con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che sabato darà voce a Lélio, ou Le retour à la vie di Hector Berlioz, con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio in una delle fermate più evocative di Regio Metropolitano, tra il ferro e i mattoni delle Ogr. «In passato ho messo in scena molte opere liriche: da Le nozze di Figaro di Mozart a L’italiana in Algeri di Rossini, al Fidelio di Beethoven. Quando gli impegni di teatro e cinema mi hanno impedito di proseguire, non ho voluto interrompere il rapporto con la musica e mi sono dedicato ai melologhi, che prevedono una voce recitante, con l’orchestra e il coro».
Come Lélio di Berlioz. Non è la prima volta che incontra quest’opera, vero?
«Ce ne fu un’altra, ormai lontana, nel giugno del 2012 al San Carlo di Napoli. Lélio è un testo dall’affascinante eccentricità, che rispecchia quella del suo autore. È un’opera autobiografica, frutto di una delusione d’amore. Si viaggia attraverso continui cambi di stati d’animo — tra euforia e tristezza — che in musica prendono forme diverse: ballate per pianoforte, momenti orchestrali, brani per il coro. Il finale è un inno alla musica e all’arte come unica possibilità di salvezza. Per la commistione di generi e stili, sembra quasi un’anticipazione del postmodernismo. Ma a emergere è la voce del romanticismo europeo, la generazione che portò l’arte verso la vita».
L’opera è del primo Ottocento. L’idea dell’arte come sentiero che riporta alla vita — persino dopo le delusioni d’amore — è ancora valida?
«Credo che l’arte rappresenti per tutti una possibilità di allargare l’esperienza su territori che ci affrancano dall’asservimento dell’abitudine. Ciò che possiamo chiederle è un rinnovo della nostra interiorità. Da questo punto di vista, non conosce vecchiaie. Non è mai datata. Anche un’opera strana e curiosa come Lélio, letta nella maniera giusta, rivela l’audacia di un’anima».
La forza dell’arte rimane tale anche di fronte a un avversario destabilizzante come un virus?
«Penso di sì, perché l’arte può essere un volano per il coraggio e per allontanarci dalla paura. Nello specifico, mi auguro che il teatro torni a essere il luogo in cui emozionarci assieme, dal vivo. Sembra che questo periodo di chiusura ci voglia confinati ai nostri salotti, seduti sui divani ad attendere che il mondo ci entri dentro casa. Spero che torneremo a essere noi a entrare dentro i teatri».
Rispetto alle grandi produzioni del cinema e della tv, come si avvicina a progetti più piccoli, estemporanei, alternativi, come Lélio?
«Tutta la mia storia è costruita su progetti di questa natura. L’ultima volta che sono stato a Torino era per Elvira, una riflessione sull’arte attoriale tratta da Louis Jouvet. Sono cose diverse rispetto a quelle che faccio per il cinema. Chi mi conosce bene, probabilmente non si stupisce più. Mentre chi mi conosce soprattutto grazie ai film, mi auguro lo scopra con piacere».
Sabato sera sarà lei a scoprire le Ogr?
«Sì, e sono molto curioso. Esiste una tradizione ormai lunghissima del teatro, in particolare quello musicale, in spazi a lui non originariamente deputati. Proprio la frizione tra l’opera e la dimensione inedita può essere un elemento per conquistare il pubblico. Che sia una ex officina in una città dalla storia industriale come Torino, aggiunge un valore in più. Ma ricordo che già tanti anni fa venivo a vedere gli spettacoli di Luca Ronconi alle Fonderie Limone».
Esiste un suo luogo torinese prediletto?
«No, ma sono molto legato al Carignano, dove ho portato i miei ultimi spettacoli. A Torino ho girato anche molti film, Il divo è stato fatto quasi tutto in città. Non è ancora definito, ma è possibile che torni presto a girarne un altro».
Totò Cascio: «Per anni ho nascosto la mia cecità, adesso sono tornato il bambino di Nuovo Cinema Paradiso». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
A soli otto anni il film di Giuseppe Tornatore gli regala una popolarità internazionale. Ma poi scopre di avere la retinite pigmentosa e inizia un cammino doloroso verso la quasi totale perdita della vista. Oggi l’attore ha deciso di raccontarsi. E ricominciare.
Per anni Totò Cascio è stato ossessionato da una battuta pronunciata da Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso, una battuta che fa così: «Se dovessi perdere la vista, tu sarai i miei occhi». E in un certo senso lui, Totò, rappresentava davvero gli occhi di Alfredo, perché nel film di Giuseppe Tornatore lui era quel bambino che si affeziona al vecchio burbero proiezionista impersonato da Philippe Noiret. Totò era quel bambino con gli occhi neri che frequentava il cinema e cercava di recuperare gli spezzoni di film tagliati dalla censura, quello che maneggiava la pellicola, quel bambino che è diventato lo sguardo innocente di tutta l’Italia. Un bambino prodigio, perché dopo il film premio Oscar ha recitato con registi come Tessari, Avati, Ciprì e Maresco. Poi un silenzio profondo, difeso dalla curiosità dei giornalisti. Oggi, però, Totò ha 42 anni e finalmente, dopo decenni, ha deciso di raccontare la sua verità, una verità che — per una beffa del destino — è legata proprio agli occhi: «Ho la retinite pigmentosa, sono quasi del tutto privo della vista e non ne potevo più di nascondermi».
Che cosa riesce a vedere oggi?
«Le luci. Percepisco se in una stanza ci sono le finestre aperte, ma oggi sono abbastanza autonomo. Dopo anni di lavoro su me stesso ho imparato che il vittimismo serve a poco. Nei prossimi giorni, per esempio, dovrò andare in Toscana per presentare il mio libro, La gloria e la prova, e ci andrò da solo. Certo, mi verranno a prendere, ma io oggi vivo in quasi autonomia tra Bologna e la Sicilia e non escludo, un domani, di trasferirmi».
Lei aveva appena undici anni quando arrivò la diagnosi: retinite pigmentosa, appunto.
«Sì e dopo il successo internazionale di Nuovo Cinema Paradiso fioccavano le offerte. Io ero un bambino, non mi rendevo conto di tutto quello che stava succedendo. La premiazione agli Oscar, l’incontro con Sylvester Stallone, le battute con Celentano, i palleggi con Baggio e Vialli, i viaggi in Usa e in Giappone perché mi volevano negli spot pubblicitari. Ho conosciuto Gregory Peck e Glenn Ford, ho lavorato con Ennio Morricone, la famiglia Agnelli mi volle tra i testimonial del lancio della Fiat Cinquecento, nel 1991. Sentivo che tante cose avvenivano intorno a me ma non capivo bene e nei film più impegnativi mi annoiavo, come tutti i bambini».
E poi?
«E poi qualcuno intorno a me cominciò ad accorgersi che qualcosa nei miei occhi non funzionava. Anzi, fu Blasco Giurato, direttore della fotografia di Tornatore, a suggerire a mio padre di approfondire la cosa. La diagnosi, formulata in un importante centro di cura in Svizzera, non lasciava scampo: retinite pigmentosa, una grave malattia agli occhi che porta alla perdita progressiva della vista».
Lei però era molto giovane, ci vedeva ancora. Come reagì?
«Ignorando il problema, nascondendomi, cosa che ho fatto fino a quando non mi sono deciso a chiedere aiuto e a curarmi. Andavo a fare i provini e ovviamente ci si accorgeva che qualcosa non andava. Ma io immaginavo la cecità come il buio perfetto e fino a quando ho visto un poco di luce mi sono rifiutato di accettarla. È stato questo il mio errore: nascondermi. Se invece avessi chiesto subito aiuto non avrei vissuto fino a quasi 40 anni nell’isolamento più totale».
Che cosa la tratteneva?
«L’orgoglio, la paura di non piacere più, la paura che tutti cercassero ancora in me quel bambino senza mai trovarlo, la paura di non piacere alle donne, il terrore di deludere quelli che avevano scommesso sul bambino prodigio che ero stato, il timore di interrompere una carriera che mi aveva portato successo e anche un po’ di soldi, la diffidenza nei confronti degli altri. Oggi so che la vita è fatta anche di questi abissi. L’importante è accettarli, lavorarci, trovare un equilibrio».
Qual è la cosa che l’ha fatta più soffrire?
«Una volta una troupe televisiva venne a filmarmi senza avvisare nel supermercato di mio padre, dove mi ero messo a lavorare. Volevano fare uno scoop. Certo, non sapevano della mia malattia, ma volevano puntare sul tema, trito, del “che fine ha fatto”. Fu un grandissimo dolore».
C’è sempre quel senso pruriginoso di cercare chi non è più famoso, come se la fama, per sua natura, fosse infinita e costante.
«Io ero diventato un bambino famosissimo. Conversavo con Ennio Morricone, una volta dovevo mandargli un messaggio e lui mi disse che usava rigorosamente solo il fax. Ho conosciuto bene Fabrizio Frizzi, Corrado Mantoni, il mio mito Celentano. L’altro giorno ero a pranzo con Leonardo Pieraccioni, mio grande amico. Capisco chi per anni si è chiesto che fine avessi fatto».
Nelle sue parole — e anche nelle sue confessioni affidate al libro — si avverte una grande diffidenza. Da dove nasce?
«Se diventi molto famoso a soli otto anni in un paesino della Sicilia (tra Chiusa Sclafani e Palazzo Adriano, Palermo, ndr) devi aspettarti l’invidia. La cattiveria sotto forma di battute, piccole malignità anche per la mia famiglia. E poi non pensi che la malattia stessa sia immune da sarcasmo. Sia io che mio fratello, che peraltro soffre della mia stessa patologia, siamo stati bersagli facili. Tutto questo mi ha portato a chiudermi. Una volta, quando ormai erano passati anni dal film, feci una passeggiata con Tornatore. Lui mi chiese: “Che cosa c’è che non va?”. Non gli dissi nulla. Non dissi nulla nemmeno ai registi che mi cercavano, al massimo qualche volta rinunciavo io perché mi rendevo conto di non riuscire a farcela. Una volta Franco Zeffirelli mi invitò a casa sua per conoscermi di persona e vagliare la mia partecipazione a un suo progetto. Ma il mio occhio sinistro già allora tendeva a spostarsi di lato e l’effetto era di un leggero strabismo. Lui se ne accorse, il progetto andò in fumo».
Come è riuscito ad accettare la malattia e, dunque, anche il suo percorso di vita?
«Iniziando la psicoterapia, lavorando a contatto con altre persone che hanno la mia stessa forma di invalidità. Devo moltissimo all’istituto “Francesco Cavazza” di Bologna, dove si lavora per l’integrazione dei portatori di disabilità nel tessuto sociale. Adesso sono pronto per ricominciare. Vorrei portare La gloria e la prova, il libro che ho scritto per Baldini + Castoldi in teatro. Vorrei andare in giro a parlare a chi soffre del mio stesso disturbo. Vorrei, perché no, tornare a recitare. Vediamo».
Che cosa le manca?
«Non ho fatto in tempo a vedere il volto dei miei due nipotini, e questo è un grande rammarico. Poi, certo, mi manca il non poter guardare le belle donne, ma ho fatto in tempo a vedere i gol di Totti e, insomma, dai, va bene così».
Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
Complicata. Così Bono Vox ha definito la relazione tra lui e suo padre Bob, morto per un cancro nel 2001. E così come spesso accade con le cose complicate, l'unica strada per trovare pace è imparare a conviverci. In altri termini, accettarle. È quello che ha fatto anche il cantante, oggi 62enne, dopo che nel 2000 ha scoperto che, da quel padre, aveva avuto un altro fratello, tenuto segreto fino a quel momento.
A raccontarlo è stato il leader degli U2 in un'intervista alla radio della Bbc - in vista dell'uscita della sua autobiografia, Surrender - , dicendo proprio di sentirsi «in pace» rispetto a questa scoperta che, senza dubbio, ha cambiato quella che fino a quel giorno era la percezione della sua vita. «Ho un altro fratello, a cui voglio molto bene e che adoro, ma che non sapevo di avere», ha dichiarato.
Un segreto tenuto ben custodito, di cui nemmeno la mamma del cantante, Iris, morta nel 1974 per un aneurisma, era a conoscenza. Nemmeno lei sapeva che suo marito avesse un figlio anche con un'altra.
«È una famiglia molto unita - si è addentrato nel racconto Bono -, mio padre ha avuto una profonda amicizia con questa splendida donna e hanno avuto un figlio. Ma tutto questo è stato mantenuto segreto».
Fino al momento della scoperta. La prima reazione del cantante è stata proprio parlare con suo padre, che, fatalità, sarebbe morto di cancro un anno dopo, nel 2001. «Gli ho chiesto se aveva amato mia mamma e mi ha risposto di sì. E quando gli ho domandato come potesse allora accadere una cosa simile, lui mi ha detto solamente: succede». Poche parole ma sincere, dette «non tanto per scusarsi... stava solo affermando che questi sono i fatti. E io sono in pace con tutto questo».
Una pace faticosamente raggiunta dopo un'adolescenza non semplice, trascorsa senza la mamma, morta quando Bono aveva solo 14 anni. Nella casa in cui era cresciuto fino a quel momento erano rimasti a vivere lui, suo fratello Norman e il padre, «tre uomini che passavano la giornata a urlarsi cose», ha scherzato, aggiungendo che forse non è stato causale il suo aver trovato immediatamente dopo una nuova famiglia, quella della sua band, gli U2.
«Mio padre - ha aggiunto - evidentemente stava vivendo qualcosa di molto difficile. Con la testa era da un'altra parte, perché il suo cuore era da un'altra parte». Mettere a fuoco tutto questo, ha permesso al cantante di accettare quel padre di poche parole, riuscendo a risolvere la loro relazione «complicata». E trovandosi anche con un fratello in più.
Claudio Fabbretti per leggo.it il 23 gennaio 2022.
Niente di Bono da salvare. O quasi. Fa scalpore la feroce autocritica del leader degli U2, che ha definito «imbarazzante» la sua voce nei primi brani e infelice la scelta del nome stesso del gruppo. Alla fine, Bono Vox ha “risparmiato” solo Vertigo e quella Miss Sarajevo che peraltro non porta neanche la firma degli U2 bensì dei Passengers (progetto sperimentale che includeva i quattro irlandesi e Brian Eno). Una miseria, rispetto ai 45 anni di storia, agli oltre 200 milioni di dischi venduti e al patrimonio inestimabile di canzoni della band dublinese. Un’uscita eclatante - quella affidata da Paul Hewson all’Hollywood Reporter - ma non è certo la prima volta che una rockstar demolisce le sue stesse opere.
Spesso, infatti, sono proprio gli artisti i peggiori critici di sé stessi. Anche John Lennon, ad esempio, odiava la sua voce, al punto che durante le registrazioni pretendeva spesso di modificarla artificialmente. E non meno impietoso fu il giudizio dello stesso Lennon su una delle ultime hit dei Beatles, Let It Be: «Non so cosa avesse in testa McCartney quando l’ha scritta, non ha niente a che vedere con noi».
Sulla stessa falsariga i Pink Floyd a proposito di uno dei loro capolavori, Atom Heart Mother: «È un mucchio di rifiuti, lo realizzammo in una fase discendente» (David Gilmour). «Se qualcuno ora mi dicesse: “Se esci sul palco e suoni Atom Heart Mother ti darò un milione di sterline”, io gli risponderei: ma che razza di scherzo è?» (Roger Waters). E a proposito di hit immortali, perfino l’intoccabile Stairway To Heaven dei Led Zeppelin è incappata nella mannaia dei suoi autori: «Mi verrebbe un attacco di orticaria se a ogni concerto dovessi eseguirla», proclamò un esasperato Robert Plant nel 1988.
Più di recente, i Radiohead hanno rinnegato il loro primo grande successo, Creep: pare addirittura che il chitarrista Jonny Greenwood abbia cercato di boicottarne l’incisione piazzando i tre potenti accordi che lanciano il ritornello, ma il paradosso è che così il pezzo è uscito rafforzato. È noto che invece Michael Stipe degli R.E.M. non volesse più avere niente a che fare con Shiny Happy People: «Non dico di vergognarmene, ma quel brano non ha più alcun appeal su di me». Più esplicito Liam Gallagher degli Oasis su Wonderwall: «Non posso più sopportare quella fottuta canzone! Ogni volta che devo cantarla vorrei imbavagliarmi».
In campo pop, Madonna ha raccontato di essere perseguitata da Like A Virgin, che è «proprio la canzone che non voglio più sentire», mentre Lady Gaga considera Telephone «il peggior brano inciso». E in Italia? Francesco De Gregori il più spietato: per anni ha ritenuto La donna cannone «troppo melodica» e con Viva l’Italia ha un rapporto di ciclico amore-odio. Ipercritici del pentagramma. Ma ora Bono li ha superati tutti in tromba.
Simona Marchetti per corriere.it il 19 gennaio 2022.
Facendo parte degli U2 da 46 anni e avendo scritto e cantato molti dei loro successi, chiunque penserebbe che Bono sia il primo fan della sua band. Invece lui detesta tutto o quasi di quello che è diventato uno dei gruppi di maggior successo al mondo, a partire dallo stesso nome, U2, scelto dal loro primo manager, Paul McGuinness, «perché una lettera e un numero starà bene su una maglietta».
«Il nome della band continua a non piacermi - ha detto infatti il 61enne cantante irlandese in un’intervista al podcast “Awards Chatter” di Hollywood Reporter, a cui ha partecipato con The Edge - . Davvero non mi piace. Forse ero preso da una qualche forma di dislessia, non mi ero nemmeno reso conto che anche Beatles era un brutto gioco di parole. Nella nostra testa (U2) evocava l’aereo spia, gli U-Boot, nel senso di qualcosa di futuristico. Ma poi è diventato una sorta di accettazione di quello che significava e perciò non mi piace. No, ancora oggi quel nome non mi piace».
Spegne la radio
Non bastasse, Bono non sopporta nemmeno alcune canzoni della band, arrivando addirittura a spegnere la radio quando vengono trasmesse, perché le trova imbarazzanti. «Quella che riesco a sentire di più è “Miss Sarajevo” con Luciano Pavarotti - ha continuato il frontman - mentre quella di cui vado più orgoglioso è probabilmente “Vertigo”, ma la maggior parte delle altre mi fa un po’ rabbrividire. Mi è capitato di essere in macchina quando è passato in radio uno dei nostri brani e, come dicono a Dublino, sono diventato scarlatto. Mi sono sentito così in imbarazzo».
A non piacergli per niente è la sua voce in quelle canzoni, non il sound della band. «Il suono è incredibile, ma è la mia voce che è molto strana e non da macho irlandese. Penso di essere diventato un cantante vero solo di recente», ha concluso Bono, ricordando non a caso di quella volta in cui negli anni ’80 Robert Palmer chiese al bassista degli U2, Adam Clayton, di abbassare un po’ la tonalità. «Diresti al tuo cantante di abbassare un po' il tono? Farebbe un favore a se stesso e a tutti noi che dobbiamo ascoltarlo».
Un poco di Bono. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2022.
L’uomo che da quarantasei anni è il cantante degli U2 ha rivelato di detestare il nome U2, la sua voce non abbastanza virile e quasi tutte le sue canzoni: ogni volta che ne sente una alla radio, per l’imbarazzo cambia canale. La clamorosa confessione di Bono mi induce ad abbozzare alcuni pensieri che per l’imbarazzo non rileggerò. 1. Varcata ampiamente la soglia della maturità, un individuo ha il diritto di non riconoscersi più in ciò che è stato. Quelli che dicono: «Ah, se tornassi indietro, rifarei esattamente ogni cosa», a me hanno sempre fatto paura.
2.Agli adolescenti di tutte le età che non si piacciono o non si considerano, una delle più famose rockstar del pianeta sta ricordando che l’insoddisfazione non è per forza la conseguenza di un fallimento. Tormenta anche chi ha conosciuto il successo e, purché assunta a piccole dosi, forse ne rappresenta il segreto. 3. Se dopo una vita passata a scrivere e cantare canzoni, Bono non sopporta più né la sua voce né le sue canzoni, bisogna riconoscere che il matrimonio è una istituzione ai confini dell’eroismo. Pretende di fare andare d’accordo ben due persone, quando è già così difficile andare d’accordo con quell’unico essere inafferrabile e incoerente che si chiama «se stessi». Un pronome riflessivo che a volte riflette anche troppo e forse non è neppure un pronome, ma un perenne congiuntivo imperfetto.
"Le nostre canzoni mi imbarazzano", clamoroso Bono boccia gli U2. Carlo Antini, Testi e musica le mie ascisse e ordinate, su Il Tempo il 20 gennaio 2022.
«Non fare di me un idolo mi brucerò / Se divento un megafono m’incepperò». Così canta Giovanni Lindo Ferretti in «A tratti» dei CSI. Bono Vox sembra seguire alla lettera i suoi dettami. Il frontman degli U2 ha appena disintegrato il suo mito rock costruito in oltre quarant’anni di musica e successi in giro per il mondo. Ha detto che molte canzoni degli U2 lo fanno «rabbrividire per l’imbarazzo» e che non gli piace la sua voce che suonerebbe poco da «macho» irlandese. Non salva neppure il nome della band ispirato a un aereo spia statunitense degli anni ’50.
Bono si è lasciato andare alle clamorose rivelazioni parlando con Scott Feinberg durante l’intervista concessa per il podcast «Awards Chatter» di «Hollywood Reporter». «Ero in macchina quando una delle nostre canzoni è passata alla radio - ha detto Bono - Ero così imbarazzato. Come dicono a Dublino sono diventato scarlatto. Penso che gli U2 remino molto verso l’imbarazzo. Forse questo è il posto dove stare come artista, proprio al limite del tuo livello di imbarazzo».
Nella loro carriera gli U2 hanno venduto oltre 200 milioni di dischi, ricevuto il maggior numero di Grammy Award per un gruppo con 22 premi, vinto 2 Golden Globe e ottenuto persino 2 nomination agli Oscar. Come se non bastasse risultano essere la band che, in 10 anni, ha guadagnato (tra live e album in studio) più di tutte le altre con cifre che superano il miliardo di dollari. Evidentemente i soldi non danno la felicità e oggi Bono non salva quasi nessuna delle loro canzoni. «Quella che riesco a sentire di più è “Miss Sarajevo” con Luciano Pavarotti - confessa il frontman - mentre quella di cui vado più orgoglioso è probabilmente “Vertigo” ma la maggior parte delle altre mi fa un po’ rabbrividire. Il suono della band è incredibile ma è la mia voce che è molto strana e non da macho irlandese. Penso di essere diventato un cantante vero solo di recente». Qualche carezza solo per l’album di debutto «Boy» che conteneva «materiale davvero unico e originale» in termini di testi così come alcuni «altri album» che seguirono.
Persino l’emblematico nome U2 finisce sotterrato dalla furia iconoclasta. «Continua a non piacermi - ha precisato Bono durante l’intervista - Non mi ero reso conto nemmeno che The Beatles fosse un brutto gioco di parole. Nella nostra testa U2 avrebbe dovuto avere l’effetto dell’aereo spia U-Boot, sembrava futuristico. Poi è diventato una sorta di accettazione di quello che significava. Tutt’oggi non mi piace. Paul McGuinness, il nostro primo manager, disse: “Guarda è un bel nome, starà bene su una maglietta, una lettera e un numero». E allo stesso modo la pensa il chitarrista Dave Evans, in arte The Edge, che non apprezza il gioco di parole che ne viene fuori.
Peccato che Robert Palmer non sia più tra noi, altrimenti avrebbe potuto infierire ulteriormente sulla band. Già negli anni ’80 Palmer chiese al bassista degli U2, Adam Clayton, di abbassare un po’ la tonalità: «Diresti al tuo cantante di abbassare un po’ il tono? Farebbe un favore a se stesso e a tutti noi che dobbiamo ascoltarlo». Non sapeva che un giorno quei quattro ragazzi irlandesi gli avrebbero dato ragione.
Non solo Bono degli U2: da Madonna a Zucchero, i cantanti «pentiti» delle loro canzoni. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
Ha fatto scalpore la recente autocritica del frontman del gruppo irlandese, ma non sono pochi gli artisti che prendono le distanze dalle proprie «creature».
Il «caso» Bono
C’è chi paragona le canzoni a dei figli, c’è Fabrizio De André che una volta disse «la canzone è una vecchia fidanzata con cui passerei ancora molto volentieri buona parte della mia vita» e poi c’è Bono degli U2 che, usando una parola molto in voga («cringe»), ha confessato di sentirsi a disagio nel riascoltare la propria voce, di non amare per niente il nome della band e di essere anche imbarazzato da molte delle sue canzoni. Le sue rivelazioni hanno fatto grande scalpore, quasi sputasse nel piatto in cui mangia. Anche, se, in verità, il frontman del gruppo irlandese, ospite del podcast «Awards Chatter» di Hollywood Reporter, ha precisato di ritenere questo imbarazzo qualcosa di piuttosto fisiologico per un artista e in grado di stimolarlo a fare meglio. Ad ogni modo, Bono è in compagnia: i cantanti che prendono le distanze dalle loro creature, spesso proprio dalle hit che il pubblico continua a chiedere a gran voce ai concerti, non sono pochi, complice il tempo che passa, una maturazione personale che porta a nuove idee, l’evolversi della società per cui oggi alcuni testi stridono o banalmente la stanchezza di dover rifare da decenni gli stessi brani, cantati fino alla nausea.
Madonna, «Like a Virgin»
È il caso di Madonna che, ripensando alle sue prime hit, storce il naso: «Se sono in macchina o vado in un ristorante, se sono in giro e sento che inizia una mia canzone, faccio “ugh”, probabilmente perché l’ho già dovuta sentire cinque miliardi di volte», ha dichiarato. A esserle andata in disgrazia è soprattutto «Like a Virgin», brano iconico del 1984, dal vivo spesso rimaneggiato in versioni diverse dall’originale, di cui una volta ha detto: «Non so se potrò cantarla ancora, a meno che qualcuno non mi paghi 30 milioni di dollari o qualcosa del genere»
Elton John, «Crocodile Rock»
Elton John, 74 anni, si rassegna a riproporre «Crocodile Rock» durante i concerti, pur non sopportandola più, perché sa che «il pubblico la adora»
Katy Perry, «I Kissed a Girl»
Katy Perry, invece, con il senno di poi cambierebbe certi passaggi di «I Kissed a Girl», canzone che l’ha lanciata nel 2008, ammiccando a un bacio fra ragazze che «non è come ci si deve comportare», a suon di stereotipi ormai (speriamo) polverosi sulla bisessualità: «Le cose sono cambiate molto in questi anni, abbiamo fatto tanta strada — si è giustificata —. Al tempo non si parlava di bisessualità né di fluidità».
Liam Gallagher, «Wonderwall»
Se Robert Plant odia suonare «Stairway to Heaven» dei Led Zeppelin perché «appartiene a un altro periodo», dal canto suo Liam Gallagher (tranchant come sempre), ogni volta che canta «Wonderwall» degli Oasis dice che ha «voglia di vomitare»
Francesco Guccini, «L’Avvelenata»
Francesco Guccini considera «L’Avvelenata» «una canzone minore» del suo repertorio: «Mi ha stancato, ho scritto delle canzoni migliori», ha dichiarato, pur consapevole che i suoi fan non ne sono affatto stanchi
Roberto Vecchioni, «Samarcanda»
Roberto Vecchioni ripensa al significato di «Samarcanda», canzone che nel 1977 l’ha consacrato al grande pubblico, e oggi non la scriverebbe più. Parla dell’impossibilità di sfuggire al proprio destino, ma «nel frattempo ho cambiato idea —ha detto il cantautore in un’intervista al Corriere —. Siamo noi che costruiamo la nostra sorte»
Zucchero, «Donne»
E infine c’è Zucchero che ha detto basta a «Donne» durante i concerti per un dettaglio ben preciso: «Ha un testo bellissimo, ma non me la sento di cantare “du du du”. Ho pensato mille volte di farla, ma poi mi blocco sempre».
Da fanpage.it il 17 luglio 2022.
"Sei di Napoli? Napoli è una delle piazze migliori per suonare". Parola di Umberto Smaila che è pronto a una nuova estate di musica dal vivo, la prima con una reale parvenza di normalità dopo l'emergenza Covid. A Fanpage.it, il re della movida si racconta tra successi, ricordi e l'inevitabile passaggio al programma che gli ha regalato l'immortalità televisiva, Colpo Grosso: "Fu un colpo allo stomaco della televisione. Si può parlare di televisione prima di Colpo Grosso e dopo Colpo Grosso. Le ragazze? In una casa di riposo del Nord Europa (ride, ndr). Beh, ormai alcune avranno superato di molto anche i 60. Il tempo passa per tutti".
Sul tempo che passa e la difficoltà di aggiornare il repertorio: "È molto difficile mettere in scaletta i tormentoni di oggi, tra rapper e trapper ma la movida non cambia. Tutti si divertono allo stesso modo di quarant'anni fa". Poi un passaggio sull'attualità, Smaila preoccupato da quello che sta succedendo negli Stati Uniti: "Un paese che viaggia a due velocità. È assurdo negare l'aborto. E poi come si fa a vendere un fucile ad alta precisione al tizio di Chicago?".
In fiducia. Abbiamo ripreso il lavoro abbastanza bene, dopo tutto quello che c'è stato, dopo quel periodo allucinante. Ho ripreso ad andare un po' in giro e la cosa mi dà fiducia. Non vedo l'ora di vedere il pubblico, suonare e fare il mio mestiere.
È un cartellone tutto pieno?
Pieno pieno, proprio no. Però, diciamo che è denso, facciamo soprattutto tanto ad agosto. Le tappe chiave dell'estate: tutti i giovedì d'agosto al Twiga di Forte dei Marmi, poi c'è uno Smaila's a Porto Rotondo, il Magic che è un dinner club in riva al mare, poi siamo a Monopoli, saremo in Calabria. Sarà una bella estate.
La gente si diverte sempre allo stesso modo o è cambiato qualcosa nella movida?
Per quello che è il mio target, non è cambiato nulla. Perché questa è l'anima degli italiani. È un popolo focoso, che vuole divertirsi, vuole ballare e non riesce a star fermo. Poi, certo, c'è da fare dei distinguo.
Cioè?
E cioè, il pubblico di Napoli, per esempio, non è il pubblico di Gallarate per dire. Napoli è la mia tappa ideale, perché si balla di continuo. È molto difficile, invece, smuovere le persone di certe province, anche se vicine a Milano. In generale, però, non ho trovato grossa differenziazione rispetto a trenta, quarant'anni fa. Anzi, è migliorata la varietà generazionale perché non ci sono solo gli over 50 e 60, ma anche gli over 30 e 40. Si continuano a cantare i grandi classici, anche se si allarga la forbice con i nuovi ascolti.
È difficile inserire in repertorio un brano come, per esempio, Shakerando?
Rapper e trapper fanno cose che per me sono impossibili da inserire in una scaletta. Anche mio figlio, Rudi Smaila, che ora lavora con me, ha un suo repertorio più giovane del mio ma certi tormentoni di oggi sono difficili da inserire.
Anche un programma come Colpo Grosso, forse, oggi sarebbe difficile da inserire in un palinsesto. Non trovi?
Non solo sarebbe difficile, ma non avrebbe proprio ragione d'esistere. Non avrebbe più quell'impatto. Fu un colpo allo stomaco della televisione. Si può parlare di televisione prima di Colpo Grosso e dopo Colpo Grosso. Cambiarono le carte in tavola, cambiò l'idea di guardare il piccolo schermo. Molti sono nostalgici di quel periodo, io sono contento perché la trasmissione mi ha consacrato all'immortalità televisiva.
Però, Colpo Grosso ti ha causato qualche problema di costume, vero?
Ci furono i benpensanti dell'epoca che ci avevano messo all'indice, c'erano quelli che lo guardavano di nascosto e poi lo criticavano. C'era tutta una categoria di persone con delle idee sempre poco chiare, subivamo anche attacchi politici. Quello era un periodo confuso, anche un film come "Ultimo tango a Parigi", con tutto il rispetto per il paragone, fu osteggiato e addirittura bruciato. Era una vera e propria inquisizione, adesso sembra stia tornando.
L'inquisizione, addirittura?
C'è un'aria strana, credo sia politico il problema e non ci voglio entrare troppo. Però, c'è chi si mette a castigare troppo certi costumi, c'è chi sta subito pronto a indicare, a mettersi addosso i panni dei moralizzatori. Per me non è il momento di perdere tempo con cose frivole, penso ci siano cose più importanti. C'è anche chi sta peggio. Penso a come sono messi male gli americani, per esempio.
Parli dell'abolizione dell'aborto?
L'abolizione dell'aborto era qualcosa di impossibile da immaginare, ma non solo. Io adoro gli Stati Uniti, il punto è che si tratta di una nazione che viaggia a due velocità. C'è l'East Coast che è molto evoluta, ma gli stati centrali sono rimasti ancora a robe da Ku Klux Klan. Pensiamo a quello che è successo a Chicago. Come si fa a vendere un fucile ad alta precisione a un ragazzo con la faccia come quella? Con quell'atteggiamento che ha? Come si può pensare di vendere un'arma a un tipo del genere?
Torniamo a Colpo Grosso: di quelle ragazze, sei rimasto in contatto con qualcuno?
Ma certo! Sono in contatto con tutte le case di riposo del Nord Europa, son tutte lì col plaid che guardano fuori la vita nel parco (ridiamo entrambi, ndr). Beh, ormai alcune avranno superato di molto anche i 60. Il tempo passa per tutti. E comunque no, non ho mai avuto grandi notizie se non di una certa Monique, che era la protagonista, so che ancora lavora come presentatrice in Olanda.
Come va con Jerry Calà? Ogni tanto spuntano fuori strane voci di rotture e cattivi rapporti…
No, ma non ci sono mai stati cattivi rapporti. Forse hai letto le forzature dei titoli di giornale, ce n'è uno: "Mi ha dato una pugnalata…". Tutto finto. Io e Jerry siamo in ottimi rapporti, ci vediamo spesso, andiamo a cena insieme. Proprio pochi giorni fa, per esempio, siamo stati a cena con Nini Salerno. Recentemente, siamo stati invitati al programma di Ale e Franz dedicato alla storia del cabaret milanese. Prima ancora abbiamo fatto un grande show all'Arena di Verona.
Però, un momento di crisi c'è stato.
Ma sì, ma è successo tanto tempo fa. Ci sono stati dei momenti di crisi perché lui lasciò il gruppo, lasciandoci col sedere per terra. Ma sono ferite che il tempo ha curato.
Cosa pensi dei comici di oggi, quelli che si muovono sui social?
Non li seguo, mi annoiano un po'.
E i programmi comici televisivi di oggi?
Anche. Non c'è nessun programma comico che mi piaccia. Meglio le serie tv.
Cosa stai guardando adesso?
Sto guardando Bosch su Prime Video. A me piacciono le serie con 100-200 puntate, altrimenti non le guardo. Mi piacerebbe guardare più film sui grandi compositori, la vita di Beethoven, di Bach, questo manca e sarebbe interessante.
Ora al cinema c'è Elvis di Baz Luhrmann. Capisco che non è Beethoven, però…
No, ma i contemporanei mi piacciono meno. Ho visto il film di Freddie Mercury e non m'è piaciuto. Mi è piaciuto molto quello di Elton John, quello è stato fatto veramente bene. Però, in generale, sono uno che preferisce ascoltare musica e non guardarla. La penso così, però io sono un vecchio trombone e quindi bisogna capire le mie parole alla luce della mia età.
Allora, magari è il momento per un film sulla tua vita?
Sicuramente a puntate, perché c'è tanta roba da raccontare. Vorrei fare un libro tanto per cominciare perché ho avuto una vita movimentata, tanti amori, tanti figli. È importante che la gente venga a sapere una parte della mia storia. Però, per adesso, penso a lavorare per tutta l'estate.
Da corrieredellosport.it il 12 febbraio 2022.
In un'intervista al Corriere della Sera Umberto Smaila ha ricordato il suo incontro con Mike Tyson, avvenuto in un locale della Versilia. Il cantante ha avuto il piacere di cantare insieme al famoso pugile anche se non è stato semplice. "Non era male come cantante. Credo però avesse mangiato spaghetti alle vongole con mezzo chilo di aglio quella sera. Una roba da svenire", ha fatto sapere Smaila.
Poi ha aggiunto: "Quando gli feci cantare “My way” sono rimasto vivo per miracolo. Il suo staff mi aveva proibito di avvicinarmi; io me ne fregai e gli volli dedicare “My way”, la sua canzone, per uno come lui che nella vita ha sempre fatto a modo suo. Sotto quella spinta emotiva si mise a cantare. Alito a parte, fu molto divertente. Un ragazzo molto gentile".
Da corriere.it il 12 febbraio 2022.
(…) Inizi di carriera in Rai, poi sulle reti Fininvest. Il suo rapporto con Silvio Berlusconi?
«Fummo i primi a entrare nel cast dei programmi sulle reti Fininvest. Conducevamo il primo programma domenicale su Canale 5, un contenitore simile a Domenica In. Ho lavorato in Fininvest per un decennio. Sono legato a Berlusconi da un rapporto di amicizia e riconoscenza. Non ci incontravamo spesso, ma ogni volta è sempre stato un piacere. E poi ci accomuna la passione per il Milan»
Nomini Umberto Smaila e spuntano le Ragazze Cin Cin di Colpo Grosso.
«Andavamo in onda con due puntate a sera, alle undici e mezza e quindi all’una e mezza di notte. Fu un successo epocale. Ancora oggi mi identificano con quel programma»
La identificano anche con Fred Buscaglione…
«E mi fa molto piacere. Fred Buscaglione l’ho portato nei teatri. Mi sono immedesimato in lui anche grazie a una certa somiglianza fisica. Un artista originale e innovativo, che fece della trasgressione il suo modo di essere. Un Vasco Rossi degli anni Cinquanta. Non c’è più stato nessuno come lui».
Cinema e televisione: dove si è divertito di più?
«Io mi diverto a far tutto. Amo la musica: ho scritto oltre trenta colonne sonore per i film, tra i quali “I miei primi quarant’anni”, “Soldati - 365 all’alba”, “Caramelle da uno sconosciuto”, “I mitici - colpo gobbo a Milano”»
Umberto Smaila: «Jerry Calà mi pugnalò, oggi ci sentiamo tutti i giorni. A me non resiste nessuno». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.
Come in quella notte newyorkese di fine anni Novanta che «in un affollatissimo Downtown Cipriani di Manhattan, con Jennifer Lopez e Puff Daddy a due tavolini da me, dal nulla intonai un poderoso “all’alba vincerò, vinceròo, vin-cee-ròoo” manco fossi Pavarotti e con l’acuto per poco non incrinai i bicchieri di cristallo». E non fu che l’inizio dello show improvvisato, senza orchestra ma con l’accompagnamento di forchette e coltelli picchiettati sulle bottiglie di champagne. «Tempo mezzora e cantavano tutti il ritornello degli ombrelloni».
Eh?
«Ma sì, quello che fa: “Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare”. Pure l’agente dei Rolling Stones e una spia del Mossad, uguale identico a quelli dei telefilm, impassibile, stempiato, abbronzato».
Uno 007 israeliano con licenza di uccidere che si unisce al coretto balneare come un villeggiante sul torpedone?
«Oh sì, beh, non credo che né lui né nessuno dei presenti avesse bevuto proprio gazzosa, e comunque a me non si resiste, ho un potere demiurgico, persino, che so, al club dei mangiatori di anguille, partono freddini e poco dopo fanno i trenini», racconta sornione Umberto Smaila, ciuffo libero, baffetti, occhialino e maxi-sigaro, 71 anni e oltre cinquanta trascorsi ad allietare il prossimo, dai giorni gagliardi del Derby Club di Milano con gli altri tre Gatti di Vicolo Miracoli, a quelli ruspanti e scollacciati delle ragazze Cin Cin di Colpo Grosso, alle gaudenti serate estive di piano bar in Sardegna o sul Mar Rosso o sulle navi da crociera, sottofondo musicale per amori, ripicche e intrecci sentimentali o politici. E nel mezzo 33 colonne sonore: «La prima per “La belva con il mitra”, un filmaccio violentissimo con Helmut Berger, manco un B movie, uno Z. Però Quentin Tarantino ne ha ripreso 6 minuti per “Jackie Brown”. Doppio affare: sono nei titoli di coda e mi hanno pagato duemila dollari».
A 10 anni, serio serio, suonava Chopin.
«In terza elementare la maestra convocò i miei genitori per segnalargli una mia attitudine artistica. Fui iscritto al corso di dizione e recitazione e a quello di pianoforte e solfeggio. Il classico nipotino che veniva messo sulla sedia per recitare le poesie ai parenti. A scuola ero il primo della classe, un bambinone con il fiocco azzurro e il colletto bianco. Prendevo sempre dieci, poi sono peggiorato».
Papà era fabbro.
«Costruiva ringhiere e cancelli insieme ai fratelli, i tre Smaila emigrati da Fiume, lo guardavo battere il ferro con quel freddo e mi faceva compassione, per i geloni gli vennero due manone grosse così che quando mi accarezzava pareva un orso buono. Ex sassofonista, si chiamava Guerrino perché era nato nel 1915».
A 18 girava con i capelli dipinti d’argento.
«A fine anni Sessanta Verona era la Liverpool italiana, io il tastierista dei Killjoys, e il proprietario del locale in cui si andava a suonare — gratis, ovvio — si inventò questa trovata per distinguerci da un’altra band con i capelli verdi. Mi spruzzavo in testa una laccaccia argentata comprata dal ferramenta e attraversavo la città in Lambretta, purtroppo senza casco perché non si usava, vergognandomi come un ladro».
Nel 1971 i Gatti approdano al mitico Derby.
«Ninì Salerno e Franco Oppini erano in classe con me al liceo classico Scipione Maffei, Jerry Calà, più piccolo di un anno, lo abbiamo ripescato più tardi, quando già studiavo Giurisprudenza all’università, scegliendo con cura tutti gli esami più facili — mi sono fermato a quindici — ma prima siamo passati per Roma. Dovevano scritturarci per una serie di spot sull’educazione stradale del ministero dei Trasporti. Ci presentammo a casa dei funzionari Rai per fare i provini in calzamaglia nera, tipo I Gufi, non se ne fece niente. La svolta arrivò con Cino Tortorella».
Il Mago Zurlì?
«Lui. Ci invitò nella sua villa di Milano a cantare qualche canzone, quindi ci portò prima a mangiare — sia benedetto — e poi al Derby. Fummo letteralmente buttati sul palco, la gente si divertì. Il proprietario ci pagò 5 mila lire a testa. “Ora scrivete qualcosa di nuovo e saranno 10 mila”. Restammo due mesi chiusi in casa».
Andò subito alla grande.
«Momenti irripetibili, con Paolo Villaggio, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, mostri di bravura. Eravamo i più piccoli, i cocchi di mamma».
Abatantuono era il vostro tecnico delle luci.
«Avrà avuto diciassette anni e di studiare non aveva più voglia. Possedevamo un riflettore solo, il suo massimo compito era premere un pulsante, tic, acceso e tic, spento. Sarebbe stato anche il nostro autista, però non si decideva mai a prendere la patente, perciò guidavo io, e Diego era seduto accanto a me, perché eravamo i più grossi, gli altri tre si schiacciavano sul sedile di dietro del catorcio di turno. Era Jerry che provvedeva all’acquisto, sempre a prezzi stracciati, perciò regolarmente si fondeva il motore».
Il successo in tv con «Non stop», programma cult di Raiuno dal 1977 al ’79.
«Di nuovo fu merito di Mago Zurlì. Vivevamo in una specie di comune di artisti in via Venini, a Milano. Cino ci chiamò come ospiti nel suo programma per ragazzi, dove ci notarono gli agenti di Pippo Baudo, Gentile e Marangoni, che ci presero nel cast assieme a Massimo Troisi, Enzo Decaro e Lello Arena, ai Giancattivi, a Carlo Verdone, a Gaspare e Zuzzurro, si girava a Torino».
Regia di Enzo Trapani, che — lo ha raccontato Jerry — portava sempre una pistola nella fondina sotto l’ascella.
«Un vezzo, non gli abbiamo mai chiesto perché, purtroppo alla fine l’ha usata».
Cantavate: «Hai provato a dire basta all’aumento della pasta. E bagnare poi di lacrime il ragù». Carlo Verdone ha ricordato: «Il primo a credere in me fu Umberto Smaila. Era spiritoso e tirava su il morale a tutti, non sentiva invidie o gelosie. Fu il mio antidepressivo».
«Con Carlo si faceva comunella, gli provavo i pezzi in camerino e gli consigliai di puntare sul capellone in tunica bianca che distribuisce i volantini dei Bambini di Dio. “Diventerai il nuovo Sordi”. “Io? Ma che stai a di’?”»
Nel 1981 Jerry va per conto suo e lei la prende malissimo. Non vi siete parlati per anni. Rancoroso?
«Leale. Ci eravamo giurati una sorta di eterno amore, fu una pugnalata. Poi però mi capitò la stessa cosa e lì ho capito che quando il treno passa, ci sali. Dopo ci siamo chiariti e adesso ci sentiamo tutti i giorni, a Pasquetta ci ritroveremo noi quattro al solito ristorante di Verona».
Nel 1987 e per 4 stagioni scandalizzò l’Italia con gli spogliarelli piccantini delle ragazze Cin Cin a Colpo Grosso su Italia 7.
«Non mi aspettavo un successo del genere, altrimenti avrei firmato un altro contratto. Girammo 800 puntate, fu venduto in tutto il mondo e replicato per 18 anni consecutivi, passava il tempo e io restavo sempre giovane, un miracolo».
Le femministe la inseguivano col forcone.
«Più che altro si indignarono i benpensanti, i codini, i borghesi, però lo guardavano eccome. Conservo religiosamente le recensioni entusiaste di Beniamino Placido e Oreste Del Buono».
Ma è vero che pure Mikhail Gorbaciov, padre della Perestrojka, era un appassionato?
«Si fece mandare le videocassette in albergo e credo se le sia portate al Cremlino, forse saranno in un cassetto di Putin».
Già che c’era, ha mai preso una scuffia per una Cin Cin?
«No, guardavo e basta, ero già sposato e padre. E poi non c’erano grandi pause per socializzare, si giravano quattro puntate al giorno, mi facevano un male i piedi, avevo di quei calli...».
Ai tempi dei Gatti i due rimorchioni eravate lei e Jerry.
«Avevamo un discreto successo. Io puntavo sul pianoforte... “September morn” di Neil Diamond era infallibile... più qualche citazione colta di Calvino o Céline buttata lì... che poi spesso la corteggiata chiedeva perplessa: “E chi sarebbe?”, ma sorvolavo».
Ha desiderato essere più magro?
«No, del peso non mi importa. Ora purtroppo mi tocca stare a dieta perché mi sono rotto due volte il femore, in un bagno turco alle Bahamas e su un tapis roulant alla Malpensa, perciò niente vino, grappa e birra, niente pasta, pane, salumi, devo tenermi in forma... così da poter correre in scioltezza al ristorante».
Incontri artistici folgoranti?
«Con Elton John, quando facevo “Buona Domenica” su Canale 5 con Gerry Scotti e Gabriella Carlucci, nel 1993. Era il mio idolo, mi buttai in ginocchio davanti a lui e lui — divino — si inginocchiò con me, conservo la foto come un santino di Padre Pio. E poi James Brown, non so se mi spiego. Cantò “I feel good” solo per me».
E infine venne l’era dei suoi Smaila’s e delle vippissime serate di musica dal vivo.
«Il primo aprì nel 1991 a Poltu Quatu, in Sardegna. Poi quello di Sharm el Sheikh. Ne restano due, a Tropea e a Porto Rotondo».
Ha fatto da Gran Cupido.
«Per Francesco Totti e Ilary Blasi. Idem per Simona Ventura e Stefano Bettarini. Ricordo un Niki Lauda insospettabile ballerino. E Mike Tyson, che convinsi a cantare “My Way” . Solo che a cena aveva mangiato spaghetti alle vongole con un chilo d’aglio, mamma mia, stavo svenendo. Aggrappato al suo braccione, soffrii in silenzio».
I duetti con Silvio Berlusconi.
«La prima volta a Poltu Quatu fece un recital alla Aznavour. Qualche anno fa è tornato allo Smaila’s di Porto Rotondo, portandomi in dono tre cravatte delle sue, quelle napoletane».
E vi siete esibiti con «I migliori anni della nostra vita» di Renato Zero.
«Chi non lo conosce non sa che tipo è. Straordinario. Gli sarò eternamente grato, mi ha dato da lavorare e come presidente del Milan è indimenticabile. Non ci sentiamo spesso, ma lui sa che, se occorre, io ci sono, e io so che lui c’è per me. Silvio è Silvio»
Umberto Smaila, 71 anni, è nato a Verona. È attore e cantante. Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.
Riproponiamo per la serie «Le interviste più lette del 2021» quella a Umberto Smaila (pubblicata a luglio), poliedrico artista e co-fondatore dei Gatti di Vicolo Miracoli con Jerry Calà, Franco Oppini e Ninì Salerno.
L’esperienza con i Gatti di Vicoli Miracoli, la televisione (con il cult di «Colpo grosso») e i piano bar in Sardegna, il rapporto con Silvio Berlusconi. La vita (artistica) di Umberto Smaila è un caleidoscopio di innumerevoli prismi, di saliscendi vertiginosi, di accostamenti di peso (con Fred Buscaglione).
Quando ha conosciuto Jerry Calà?
«A Verona lo incrociavo in Via Mazzini che faceva su è giù per la mitica “vasca”. Lui aveva il suo clan, io il mio. Lui suonava nei Pick Up, il gruppo più giovane d’Italia: in tre non facevano trent’anni. Io nei Killjoys, I ragazzi dai capelli d’argento, con gli amici di Borgo Venezia».
Capelli d’argento…?
«C’era un gruppo di Padova, “I ragazzi dai capelli verdi”. Il proprietario del “Toresela”, il locale sulle Torricelle di Verona dove andavamo a suonare, ci disse “Allora si fa così: loro verdi e voi d’argento”. Così ci facemmo i capelli argentati. A casa passavo lo spray argentato sulla chioma, poi in Lambretta salivo con immensa vergogna sulle Torricelle per la serata. Tornavo a casa, e prima di andare dormire mi facevo lo shampoo».
Come nacquero i Gatti di Vicolo Miracoli?
«Con Jerry ci si incontrava ai concertini e poi a scuola al liceo classico Maffei. Io ero in classe con Franco Oppini e all’ultimo anno anche con Nini Salerno. Mettemmo in piedi un complesso, Studio 24, poi nacquero I Gatti. Dovevamo darci un nome; Vicolo Miracoli era una nostra canzone. Decidemmo per I Gatti, animali liberi e a volte graffianti».
Com’è stata la sua adolescenza alle Golosine, quartiere operaio di Verona?
«Le Golosine, dette “Go-Los Angeles”. Mio padre era operaio. Alle Golosine sono stato dai quattro ai dieci anni per le scuole elementari, poi ci trasferimmo in Borgo Milano. I miei genitori erano entrambi esuli fiumani: la nostra casa in via Emilio Piccono Della Valle era una di quella riservate agli esuli. C’erano anche i miei zii, tutta la famiglia».
Ricordi di Fiume?
«Bellissimi; sin dai primi anni Cinquanta siamo sempre tornati per le vacanze estive; mare azzurro, una città magnifica. Estati stupende. Mi è rimasto il timbro mitteleuropeo, l’amore per il mare e l’avventura».
Torniamo a noi. Verona Beat, canzone manifesto di una generazione, ma uno di quei brani consegnati all’eternità.
«Eh già. Mi ha da poco chiamato mio amico di Verona per dirmi che da casa sentiva la gente cantare Verona Beat a una festa nelle vicinanze. È poi diventata anche la canzone dello scudetto del Verona; fu anche la canzone principale del film “Arrivano I Gatti” di Carlo Vanzina»
Come prendeste lei, Nini e Franco, la svolta solista di Jerry?
«Piuttosto male. Non ci sentimmo per un po’. Poi facemmo pace. La stessa cosa capitò a me quando mi chiesero di fare programmi televisivi da solo. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra».
Inizi di carriera in Rai, poi sulle reti Fininvest. Il suo rapporto con Silvio Berlusconi?
«Fummo i primi a entrare nel cast dei programmi sulle reti Fininvest. Conducevamo il primo programma domenicale su Canale 5, un contenitore simile a Domenica In. Ho lavorato in Fininvest per un decennio. Sono legato a Berlusconi da un rapporto di amicizia e riconoscenza. Non ci incontravamo spesso, ma ogni volta è sempre stato un piacere. E poi ci accomuna la passione per il Milan»
Nomini Umberto Smaila e spuntano le Ragazze Cin Cin di Colpo Grosso. «Andavamo in onda con due puntate a sera, alle undici e mezza e quindi all’una e mezza di notte. Fu un successo epocale. Ancora oggi mi identificano con quel programma»
La identificano anche con Fred Buscaglione…
«E mi fa molto piacere. Fred Buscaglione l’ho portato nei teatri. Mi sono immedesimato in lui anche grazie a una certa somiglianza fisica. Un artista originale e innovativo, che fece della trasgressione il suo modo di essere. Un Vasco Rossi degli anni Cinquanta. Non c’è più stato nessuno come lui».
Cinema e televisione: dove si è divertito di più?
«Io mi diverto a far tutto. Amo la musica: ho scritto oltre trenta colonne sonore per i film, tra i quali “I miei primi quarant’anni”, “Soldati - 365 all’alba”, “Caramelle da uno sconosciuto”, “I mitici - colpo gobbo a Milano”»
Con lei hanno cantato un po’ tutti, anche Mike Tyson.
«Non era male come cantante. Credo però avesse mangiato spaghetti alle vongole con mezzo chilo di aglio quella sera. Una roba da svenire. Quando gli feci cantare “My way” son rimasto vivo per miracolo. Il suo staff mi aveva proibito di avvicinarmi; io me ne fregai e gli volli dedicare “My way”, la sua canzone, per uno come lui che nella vita ha sempre fatto a modo suo. Sotto quella spinta emotiva si mise a cantare. Alito a parte, fu molto divertente. Un ragazzo molto gentile»
Rudy Smaila segue le orme paterne. Contento?
«Rudy sta avendo successo con la sua orchestra. A volte suoniamo insieme, altre volte separati. Per me è motivo di grande orgoglio».
· Umberto Tozzi.
Umberto Tozzi: «Sono guarito da un tumore. Mi sentivo perso e impaurito, mia moglie mi ha dato forza». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022
Il cantautore: «Torno sul palco, ho temuto di non riuscirci più». L’infanzia: «Volevo fare il calciatore: avevo vinto una settimana premio a Coverciano, ma dopo una pagella orribile mio padre mi proibì di andarci». Le donne: «Non sono mai stato un playboy»
Come sta?
«Bene, adesso».
Prima no?
«Prima no. Ho avuto un problema di salute importante. Un tumore alla vescica. E poi, durante la chemio, ho preso il Covid per la terza volta. E mi è venuta una grave infiammazione polmonare».
Giorni durissimi.
«Ad aprile il mio cardiologo mi ha prescritto un’ecografia addominale. Doveva essere routine. Invece mi hanno trovato il male. È stato un periodo davvero difficile, adesso per fortuna ne sono fuori, un mese e mezzo fa mi hanno detto che sono guarito e incrociamo le dita».
I primi momenti.
«Queste cose qui ti cambiano la vita. La tua e di chi ti sta accanto. Mi sentivo perso, avevo paura di non poter mai più salire su un palco. Mia moglie Monica è stata fondamentale. Non mi sono mai arreso. Prima e dopo l’intervento, durante le terapie, che non sono una passeggiata. Finché non accade a te, il cancro sembra un problema lontano. Poi nella testa si resetta tutto: i valori, le priorità, le cose che contano. E anche quando guarisci, il trauma ti resta dentro».
Ha scoperto di sé qualcosa che non sapeva?
«Mi credevo debole, ho scoperto di avere coraggio. Mi ha stupito la serenità con cui sono riuscito ad affrontare la malattia. Ho messo da parte la paura, cercando di essere ottimista».
A vederla, qui davanti a me, sta benissimo.
«E mi sento davvero bene, a dicembre riprendo il tour “Gloria Forever” e non vedo l’ora. Però sono cambiato, noto in me una positività diversa. Apprezzo tutto ciò che ho e che mi circonda, dal momento in cui apro gli occhi, mentre recito le mie preghiere. Un gusto della vita che prima non avevo». E sorride, Umberto Tozzi, 70 anni e oltre 80 milioni di dischi venduti, i capelli più corti tra il grigio e il biondo («Da ragazzino, secondo la prof di italiano, erano rosso Tiziano, ne andavo fierissimo»), ma quando attacca con Ti amo e Gloria non ce n’è ancora per nessuno.
Bambino complicato, l’Umberto.
«Ribelle, facevo tutto il contrario di quello che mi raccomandavano i miei, andavo male a scuola. Volevo fare il ferroviere, come zio Matteo».
Papà Nicola era guardia notturna.
«Ha fatto tanti sacrifici per noi, lo vedevo giusto qualche volta che cenava a casa. Soldi, pochi. Il filetto l’ho mangiato per la prima volta a 18 anni. Ero sempre in strada. E mi cacciavo nei guai. Meglio sorvolare. Come minimo spaccavo qualche vetro. I vigili, con quei capelli, mi riconoscevano da lontano, pure al buio».
Prima chitarra al collo a 12 anni.
«L’aveva lasciata da noi un amico di mio fratello Franco, otto anni più grande, era lui che studiava musica. L’ho presa in mano e ho provato un’emozione strana, la sentivo mia. Misi su una band con amici della parrocchia, si andava di Beatles e Rolling Stones».
Lei ce l’ha fatta, suo fratello no. Ci è rimasto male?
«No, nessuna rivalità tra noi, quando ho cominciavo sul serio, lui aveva già smesso».
Dimenticati i treni, il sogno era diventare calciatore.
«Centrocampista con il fiuto del gol, avevo due piedi buoni. A 14 vinsi una settimana premio a Coverciano, papà mi proibì di andare perché avevo una pagella orribile. Ci soffrii molto, anche se no, non avete perso un grande campione, tranquilli».
Mito pallonaro di riferimento?
«L’unico a cui ho mai chiesto un autografo è stato Gianni Rivera. Lo incontrai in un’osteria di Milano frequentata dai calciatori di Inter e Milan e gli corsi dietro all’uscita. Purtroppo quel foglietto di carta l’ho perso. In famiglia erano tutti del Toro, io non ho una squadra del cuore. Ho amato Baggio e Del Piero, a prescindere. Da ragazzino tifavo Fiorentina perché c’era Kurt Hamrin con la maglia n. 7. Da grande ci ho giocato insieme con la nazionale cantanti».
Non le piaceva la sua voce.
«Ci ho messo decenni per apprezzarla, ora mi stimo. Alle prime registrazioni mi sembrava orribile. Pure Mick Jagger ha raccontato che nella sua non ci trova niente di così speciale, tantomeno di sensuale, eppure».
Nel 1974, a 22 anni, compose «Un corpo e un’anima» per Wess e Dori Ghezzi.
«Un giorno io e Damiano Dattoli ci siamo messi lì a scrivere e boh, ci è venuta questa cosa qui. Vinse Canzonissima, ma lo scoprii dal tg. Non pensavo di cantare, mi convinse Alfredo Cerruti della Cgd di Caterina Caselli. Andai a Firenze da Giancarlo Bigazzi, buttammo giù qualche canzone. “Un disco? Io? No, grazie”. Non avevo nessuna voglia di fare la star».
Però «Donna amante mia» fu un successo.
«Un fiasco, vorrà dire. L’ellepì vendette 5 mila copie, un disastro. Per il secondo album però puntai i piedi: “Gli arrangiamenti li faccio io”. Mi chiusi in studio con quattro musicisti e un cartello scritto col pennarello “No disturb” appeso fuori, sennò ogni minuto entrava qualcuno. “Se non va bene, questi qui ci buttano giù dal quarto piano”, scherzò Bigatti, ma mica tanto. Andò bene, un cu... pazzesco, tra i pezzi c’era Ti amo».
Estate 1977. Una dedica per qualcuna?
«No, suonava bene, anche ripetuto così tante volte. La scrissi in un pomeriggio. Le canzoni non nascono da niente di particolare, nascono e basta. Certo ci vuole il talento, ma anche fortuna. Non esiste una ricetta, come per una salsa».
Per «Fammi abbracciare una donna che stira cantando...» è stato ripetutamente messo in croce.
«È una bella frase invece, mi piace ancora, mai stato antifemminista in vita mia. Era un flash, rivedevo mamma Immacolata».
Agli esordi incrociò Lucio Battisti.
«Alla Ricordi di Milano, primi anni Settanta. Era e resta uno dei più grandi. Io e i miei compagni eravamo dei ragazzini venuti da Torino, non so come riuscimmo a infilarci in quel gruppo. “Siete dei bei paraculi”, osservò Lucio».
Il suo amico Raf sostiene che lei è un ritardatario cronico.
«Vero. Ma è esattamente quello che racconto anch’io di lui. Per questo andiamo d’accordo. Ci vogliamo bene, però ci diciamo le peggio cose, così si fa. Senti chi parla, poi. Quando andammo a Bruxelles per l’Eurofestival con Gente di mare, era il 1987, eravamo tutti giù ad aspettarlo nella hall dell’hotel, ma di Raf nessuna traccia. Non rispondeva nemmeno al telefono della stanza. Mandarono me a cercarlo. Bussai forte alla porta. Mi aprì dopo qualche minuto, quasi stupito. Si stava asciugando i capelli con il phon».
Dice pure che a tavola è lungo come una quaresima.
«Vero pure questo, perché mastico piano, mi gusto il cibo. Anche a calcio ero sempre l’ultimo a uscire dagli spogliatoi, quando gli altri erano già sul pullman. Portavo i capelli lunghi, ci voleva tempo».
Ma è vero che in ritiro con la nazionale cantanti vi tenevano a dieta e il coprifuoco, la sera prima del match, scattava alle dieci ?
«Sì, ma non l’ho mai rispettato. Ero nel gruppetto di quelli che scappavano dalla finestra, per questo chiedevamo sempre le stanze al piano terra. Però dai, ho segnato una cinquantina di gol, 12 volte capocannoniere».
Il fallaccio più scorretto mai subito?
«Da Riccardo Patrese, durante una partita sotto la pioggia a Padova. Non ho mai capito perché. A gioco fermo, bofonchiando qualcosa che non capii, mi sferrò un calcione negli stinchi. Ma anch’io certo ero una testa calda, quando ero rosso poi ancora di più. Se guardo le foto di Jannick Sinner, sempre scarruffato, mi sembra di vedere me alla sua età».
Amici tra i colleghi ne ha?
«Pochi. Con Gianni Morandi e Enrico Ruggeri ci siamo frequentati, certo. E pure con tutti quelli della nazionale cantanti. Ma Raf l’ho vissuto di più».
Che in altri sia scattata l’invidia?
«No, non credo. Io non ne provo per nessuno, invidiare il prossimo è stupido, si vive male».
Risiede a Montecarlo ed è tra le poche teste non coronate ammesse a Palazzo.
«Conosco abbastanza bene il principe Alberto. Fuori dal protocollo, i reali sono persone assolutamente normali. Lui poi è un vero fan di Gloria, è venuto pure a sentirmi in concerto allo Sporting».
«Con le donne ho preso un sacco di batoste», ha confessato.
«Mai detto. O hanno frainteso. Le ho lasciate sempre io».
Io non ti merito, tu sei troppo per me, le solite scuse?
«No, giuro. Ero un gentleman educato, mai stato un playboy. Anzi, non capivo bene perché si innamorassero di me».
Lei e Monica vi siete sposati quattro volte: in comune, in chiesa, alle Mauritius e a Montecarlo.
«E vorrei rifarlo una quinta, ma non so se lei a questo punto vorrà risposare me. Sono stato molto fortunato a incontrarla, stiamo insieme da 36 anni».
Un uomo che ama le cerimonie, i preparativi, il pranzo, i parenti...
«No, no, ci siamo sempre sposati senza troppi rituali, l’ultima volta siamo andati a pranzo in sei: noi due, i miei figli e sua sorella. Adesso ho tre nipoti, certo, ma ce la caviamo al massimo con un tavolo per dieci».
Si è messo a dipingere.
«Mi piace, vorrei fare una mostra, ma non sono né Gauguin né Van Gogh eh. Ho cominciato dal nulla, da autodidatta, io che non sapevo nemmeno fare un cerchio con il bicchiere. Mi sono appassionato, mi è venuto naturale. Non credevo di poter trovare una forma d’arte che mi prendesse tanto quanto la musica. Quando compongo non mangio e non bevo, sono troppo concentrato. Resto una pippa come pittore, sia chiaro, mi contento, ma al Tozzi gli si vuole bene lo stesso, dai».
Umberto Tozzi compie 70 anni: «Con mia moglie ci siamo sposati quattro volte. Scrivo una canzone in meno di tre ore». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
Umberto Tozzi, il 4 marzo è il suo compleanno: che effetto fanno 70 anni e più di 80 milioni di dischi venduti?
«Invecchiare non mi ha mai fatto piacere, ma sono contento della carriera che ho avuto e il vantaggio di essere musicista è che il palco ti fa dimenticare l’anagrafe. Sto finendo il tour con Raf con dispiacere, perché mi sono divertito tanto».
Il primo grande successo è «Ti Amo». Era il 1977 e poi l’ha cantata Berlino nella «Casa di Carta 4», la serie tv più vista al mondo. Mentre «Gloria» l’ha voluta Martin Scorsese in «The wolf of Wall Street». Perché certi suoi brani funzionano nel tempo e anche all’estero?
«Forse perché ascoltavo i Beatles e la musica anglosassone e ho assorbito quella metrica. Per me, vale più il suono che la parola, ci sono frasi che stanno lì perché boh, ma suonano. Fui il primo a farlo e Lucio Battisti disse che, dopo di lui, l’unica cosa nuova era la mia musica».
Tozzi bambino sognava di diventare cantante?
«No, calciatore. Sono nato a Torino, mamma casalinga, papà guardia notturna per ventidue anni per mantenere tre figli e dopo aver vissuto due guerre. Stavamo in cinque in una camera e cucina, io vivevo per strada. Poi, imbracciai per caso una chitarra e cominciai a uscire non per giocare a pallone ma per suonare sulle panchine. Dopo, ho fatto per anni il chitarrista freelance, mangiando panini, ospitato a Milano a turno da amici musicisti. Ero timido e mi vergognavo della mia voce. Quando scrissi delle canzoni con Giancarlo Bigazzi e Alfredo Cerruti mi chiese di cantarle, non volevo saperne».
Cantare quando cominciò piacerle?
«Ho iniziato a capire che la mia voce dava emozioni solo una ventina d’anni fa e, da allora, me la sono goduta».
Eppure, spopolava.
«Soprattutto all’estero. Ho fatto tournée ovunque nel mondo, eccetto in Oriente: sono stato in aereo più io che un pilota di Alitalia. E ho vissuto l’emozione di vedere grandi artisti cantare i miei brani, come Laura Branigan con la cover di Gloria. E cantare Ti amo con Anastasia mi ha fatto quasi piangere».
Solo «quasi»?
«Pensi che quando nell’82 vinsi il Golden Globe, manco volevo andare a ritirarlo. Mi commuovono di più altre cose: l’amore, il mio cane...».
Del Sanremo vinto nell’87 con Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e «Si può dare di più» che ricorda?
«Che fu splendido perché c’era un rapporto strettissimo: eravamo insieme nella Nazionale cantanti. Mogol e poi Morandi facevano giocare solo quelli che vendevano di più anche se a pallone erano schiappe, ma io sono stato capocannoniere per 12 anni».
Sanremo, i vincitori: da Claudio Villa alla carneade Gilda fino ai Pooh. Ma ve li ricordate tutti?
Neanche allora i critici le diedero tregua: amavano di più i cantautori impegnati.
«Non sopportavano che vendessi milioni di copie. Ci provavo a spiegare che non erano solo canzonette per un’estate al mare, poi, la verità l’ha dimostrata il tempo».
Come festeggia i 70 anni?
«Con un concerto in Belgio ad aprile e altri all’estero, con un tour quest’inverno nei teatri delle grandi città, fra cui, Torino, Milano e Roma. E Sugar ha rilevato il mio repertorio e porterà cose belle sul mercato che non posso dire».
Come nasce una canzone?
«Tutto il talento sta nel buttare giù tre accordi forti. Dopo, è matematica, la conseguenza logica di tre che accordi devono quadrare. In matematica sono scarso, ma sulla musica ho un istinto naturale, scrivo una canzone in massimo tre ore. Poi, dopo, la miglioro, ma non sono uno che passa mesi in studio. Sono anche pigro. Anni fa, dovevo scrivere con Mogol. Mi disse: però io non lavoro più di due ore al giorno. E io: io pure meno!».
Se lavora così poco, cosa fa tutto il giorno?
«Prima, giocavo a calcio, poi a tennis, poi ho avuto problemi al ginocchio e ora nuoto. Faccio la spesa, cucino, mi piace, ho tre nipoti. Nel mio studio, vado solo se ho un’idea, magari non ci entro per un mese».
Quali sono i suoi brani che ama di più?
«Quelli del Grido, un grande insuccesso del ’96. Dentro ci sono testi che mi rappresentano moltissimo. E anche tanto attuali: le “facce di angeli luridi” sono i politici che si nascondono dietro la faccia d’angelo. E c’è E ti voglio, dedicata a mia moglie Monica. Dice: forse un paradiso e io voglio viverlo con te».
L’ha conosciuta nell’86, l’ha sposata tre volte, in Municipio nel ’95, in chiesa l’anno dopo, e poi a Mauritius.
«Se n’è aggiunta una quarta, a Montecarlo, dove abbiamo sempre vissuto coi nostri due figli. E vorrei risposarla una quinta volta, ma per convincerla devo trovare una location che la possa stimolare».
Anni fa, raccontò che crede nella reincarnazione, che è stato un antico romano sbranato dai leoni e poi un nazista e che questa vita dovrebbe durare fino a 72 anni.
«Ci sono vicino, mamma mia… Non me lo ricordavo. Ho conosciuto tante persone di tutti i tipi e spesso medium o affini, che non vado a cercarmi io, ma che ascolto: penso sempre che potrebbero avere un dono che noi non capiamo. Io ho il dono di comporre musica con facilità, come se mi arrivasse e dovessi solo trascriverla. Le confesserò una cosa: a 16 anni, vidi all’osteria Gustavo Rol, il famoso sensitivo che faceva apparire cose e persone dal nulla; mi guardò per cinque secondi e i suoi occhi mi abbagliarono al punto che ho sempre pensato che quell’incontro possa aver influito sulla mia creatività. Anni dopo, ho conosciuto sua nipote e, non so perché, mi ha regalato il portapennelli che lui usava per dipingere quadri senza toccare i pennelli».
Ultimo in concerto al Circo Massimo e a San Siro: «Mi sento incompreso nonostante il successo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.
Il cantautore romano (Niccolò Moriconi all’anagrafe) si prepara per i nuovi appuntamenti del suo tour.
Ultimo, si sente meno «Solo», come dice invece il titolo dell’ultimo album, con 650mila persone che vengono a vedere il suo tour negli stadi in arrivo oggi a Roma al Circo Massimo e poi a San Siro il 23 e 24?
«È bella questa conferma. Quel “solo” del titolo si riferiva a una cosa più interiore, non mi sento così per l’amore e la connessione emotiva che provo. Il rapporto con il pubblico si cura faccia a faccia, è più umano che digitale».
Il tour avrebbe dovuto essere nel 2020. Si ricorda cosa ha fatto il giorno in cui avrebbe dovuto debuttare?
«Era il 29 maggio 2020. Stavo facendo la doccia e ho sentito una canzone, “The Great Escape” di Patrick Watson. Non la conoscevo e mi ha dato una sensazione di malinconia che mi ha spinto a dire: “la voglio risentire quando tornerò sul palco”. L’ho fatto veramente al debutto a Bibione».
Spenta quella canzone è salito sul palco. Sensazioni?
«La prima canzone della scaletta è “Buongiorno vita”. L’ho scritta in pandemia come augurio di un ritorno alla normalità e la reazione della gente è quella. Il palco è il 95 per cento del mio lavoro. Sono come un calciatore: se non si sta in campo gli manca la terra sotto i piedi».
Non che lei sia un animale da social, ma in 2 anni la si è vista poco... Al debutto del tour con un post ha ricordato le voci che giravano: «Ultimo è finito, non regge il successo...»
«Tendo a vivere certe cose in solitudine, ho scritto molto per raccontare cosa ci stava dando e togliendo quel periodo. A un certo punto mi era presa la fissa di stare su Tik Tok e vedevo un sacco di video che dicevano queste cose su di me... Mi è presa paura. Per questo ringrazio per la dimostrazione d’affetto di chi ha tenuto il biglietto».
È arrivato agli stadi prima degli altri: che rapporto ha con il successo?
«Sembra che oggi tutti ci possano arrivare, ma nessuno pensi a rimanere. Sono a 6 anni dal mio primo singolo e adesso comincia la verità».
La generazione trap è criticata per i concerti con le basi e anche, vedi Rhove, per gli insulti al pubblico se non c’è entusiasmo...
«Cerco la verità, nel bene e nel male. Dal vivo anche l’errore rende umana un’esibizione. Non punto il dito su chi usa le basi, ma per gli insulti ai fan, invece, sono d’accordo con i Pinguini Tattici Nucleari: sta a noi far divertire».
Altra tendenza di oggi: tutti hanno uno stylist...
«Io no. Non do importanza a come mi vesto. Se metti attenzione su altro togli una percentuale alla musica».
Da «Niente»: «Il mio non è un nome d’arte/ è il nome che ha scelto quel giorno per me la realtà». Che intende?
«Che non l’ho studiato, è la foto di quello che avevo dentro. Mi sentivo “ultimo”, ai margini e lasciato fuori. Non ha un significato solo sociale, non mi riferisco ai clochard, ma anche alla condizione mentale di chi non è capito».
Chi sono gli ultimi oggi?
«Chi crede si possano vivere emozioni e sentimenti veri. Sembra scontato ma oggi la vita è velocissima, non ci si ascolta, se una relazione dura 5 anni è da eroi. I miei nonni sono stati assieme una vita. Ma io stesso son parte del problema: a cena con gli amici mi distraggo su Twitter...».
E nelle relazioni? Si vede nonno, a fianco della stessa donna e con figli?
«Mi immagino così».
Ricorda gli esordi?
«Passavo i pomeriggi al parcheggio sotto casa a far sentire la mia musica agli amici. Un giorno uno di loro si fa accompagnare a un contest al Barrio’s a Milano: in palio un contratto discografico con Honiro, etichetta hip hop. Mi iscrissi con 10-15 euro... Erano tutti rapper: con le mie ballad superai tutte le fasi. In finale vinsi contro il favorito, l’amico. Da lì il contratto e Sanremo Giovani».
E l’amico?
«Non lo sento più».
Tornerebbe a Sanremo?
«Ci vuole il pezzo giusto. Però sarò sempre riconoscente e grato a quel palco».
Nel 2019 se la prese con tutti, la stampa, Mahmood, per il secondo posto...
«Mi sono calmato, non succederebbe più...».
Uto Ughi: «I Måneskin? La musica è altro. Bertinotti mi disse: non so più per chi votare». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
«Al concerto della band a Roma mi sono annoiato. Non sono “dannosi”, come certa trap, ma Mina e Lucio Dalla erano meglio».
Uto Ughi, fra i massimi esponenti della scuola violinistica italiana, è nato a Busto Arsizio nel 1944. Qui in un ritratto di Ferdinando Scianna scattato a Firenze (1984)
Uto Ughi, lei suona il violino da quando aveva cinque anni. Praticamente da una vita?
«E anche oggi, che ne ho 78, studio per almeno due ore ogni giorno. Anzi, sarebbe meglio dire che “mi alleno”, perché la nostra vita non è così diversa da quella degli sportivi. La musica è anche e soprattutto un fatto fisico».
Non si stanca?
«Certo, ma il violino è una lotta pure se si è giovani. È faticoso perché ti sembra sempre di non essere all’altezza, anche se suoni da decenni come faccio io. Una lotta meravigliosa fino all’ultima nota. Paganini diceva: “Se non studio un giorno me ne accorgo io, ma se non studio per due giorni se ne accorge il pubblico”».
A 7 anni si è esibito per la prima volta in pubblico eseguendo la Ciaccona dalla Partita n°2 di Bach. Possiamo definirla un bambino prodigio?
«Questa è un’espressione popolare in Italia: si vede un bambino che suona bene e si pensa al miracolo. Ma se andiamo, per esempio, in Giappone, scopriamo che è una cosa normale. Questione di metodo: lì adottano il Suzuki, una didattica che parte dal presupposto che l’essere umano sia un animale musicale. Che tutti, insomma, nasciamo con la musica nei geni. Basta una buona educazione musicale, cosa che purtroppo in Italia non è così tenuta in considerazione».
Maestro, com’è stata la sua infanzia?
«Sono cresciuto in un ambiente colto e molto attento all’educazione. Mio padre Bruno era di origini istriane e in qualche modo, in casa, aveva ricreato un’atmosfera mitteleuropea. A cena venivano musicisti come il primo violino della Scala sotto Toscanini, scrittori, scienziati. Ho cominciato a suonare molto presto e mi sono formato a Parigi con George Enescu e con Corrado Romano a Ginevra. Poi l’Accademia Chigiana, le grandi orchestre come quella del Concertgebouw di Amsterdam, la Boston Symphony Orchestra, la Philadelphia Orchestra, la New York Philharmonic, la Washington Symphony Orchestra e molte altre, le tournée in giro per il mondo. Suono da sempre, il violino per me è creazione continua».
«ABBADO NON L’HO MAI VISTO VECCHIO. E BORGES CON ME SCHERZÒ SUL NOBEL MANCATO: “FORSE PENSANO DI AVERMELO GIÀ DATO”»
È stato diretto anche da grandi nomi.
«Ne menziono alcuni, sapendo di fare un torto a tanti non citandoli, ma sono troppi: Rostropovich, Celibidache, Maazel, Mehta, Sinopoli. Se devo menzionare un grandissimo italiano, dico Giulini».
Lei possiede diversi esemplari rari dello strumento, è così?
«Mi piace citarne due su tutti: il Kreutzer 1701 di Antonio Stradivari e il Guarneri del Gesù “ex Grumiaux” 1744. Sono strumenti unici, specie il Guarneri, uno degli ultimi modelli realizzati. Io li paragono a Raffaello e a Caravaggio: lo Stradivari è apollineo, il Guarneri è dionisiaco. Il primo ha un suono cristallino e limpido, il secondo è più tormentato, complesso. Lo Stradivari è denominato “Kreutzer” perché appartenuto all’omonimo violinista a cui Beethoven aveva dedicato la famosa Sonata. Vede che tutto si tiene? Musica, arte, letteratura».
Già, perché poi Sonataa Kreutzerè diventata anche un romanzo di Tolstoj.
«Precisamente».
È questa la sua vera identità? Multiforme?
«Sì, sono un lettore infaticabile, un viaggiatore curioso, un musicista che non si accontenta mai solo della musica. Se ci concentriamo solo su un’attività o su una passione diventiamo aridi e schiavi della tecnica. È così bello essere curiosi e appassionarsi anche a cose apparentemente lontanissime da noi».
«CI SONO MUSICISTI FELICI E MUSICISTI CHE CERCANO LA FELICITÀ. MOZART, PER ESEMPIO, ERA UN ARTISTA FELICE, QUESTO STATO DI GRAZIA FACEVA PARTE DELLA SUA IDENTITÀ»
Per esempio, nel suo caso, la musica leggera?
«Dipende da che cosa intendiamo per musica leggera».
Faccia lei qualche esempio.
«E va bene. Se penso ai Beatles, io penso a nobili ascendenze, perché nel loro repertorio si ritrovano anche antichi canti elisabettiani, un genere popolare ma ricco, vario, molto bello. Se penso ai Måneskin, invece...».
Maestro, sta parlando della band del momento, fenomeno planetario. Che cosa pensa davvero di loro?
«Io penso che loro siano un fenomeno sociale, forse di moda, ma con la musica c’entrano poco».
Una questione di originalità di testi e arrangiamenti?
«Guardi, ho seguito una mezz’ora del loro concerto qui a Roma e mi sono annoiato. Non dico che siano “dannosi” come certi esponenti della cosiddetta trap o del rap, ma dico che la musica è un’altra cosa. Modugno era meglio, ecco, per fare un esempio».
Addirittura?
«Ma anche Lucio Dalla, per non parlare della grandissima Mina. La musica leggera ha un suo spessore e, anche se io sono cresciuto con Bach o Paganini, riesco a riconoscere un pezzo fatto bene. Perché so riconoscere l’idea di fondo, l’originalità, la purezza dell’esecuzione, la bravura nel canto. A me i Måneskin sembrano una band capace di fare tendenza, ma niente di più».
Lei non crede che, in passato, fratture clamorose come quella tra musica dodecafonica e tonale abbiano prodotto un’idea troppo astratta e cerebrale della musica e abbia allontanato così molti potenziali appassionati?
«Certamente la frattura è stata clamorosa, ma io preferisco vederla come una fonte di sperimentazione che ha prodotto anche risultati straordinari. Stravinsky, Bàrtok, Shostakovich, Schönberg, Alan Berg».
Alcune cose però sono francamente insopportabili. È come se si volesse creare una barriera tra chi fa musica e chi la ascolta, una barriera di incomprensibilità. Non è d’accordo?
«Be’, questi esperimenti così radicali sono dimenticabili».
Molti grandi violinisti sono stati però dimenticati ugualmente.
«E in modo profondamente ingiusto. In Italia abbiamo avuto una donna straordinaria, Gioconda De Vito. Quando è morta ho visto solo un paio di righe sul Corriere della Sera e basta. Ma le pare giusto?».
Oggi, alla sua età, che cosa è per lei il concetto di ricchezza?
«Per esempio i grandi incontri di una vita».
Claudio Abbado?
«Pensi che lo conobbi in Venezuela, a un evento organizzato da El Sistema, il progetto messo in piedi da José Antonio Abreu, quello che ha permesso di strappare alla strada e alla criminalità numerosi giovani grazie alla musica. Claudio era felice in mezzo ai giovani: è stato sempre giovane, non l’ho mai visto vecchio».
Un grande scrittore?
«Ho avuto la fortuna di conoscere Jorge Luis Borges. Mi trovavo in Argentina per lavoro e pensai che non potevo ripartire senza incontrarlo. Ebbi l’impressione di un uomo molto semplice e anche umile. Mi disse che non era degno di ascoltare il violino perché non capiva abbastanza di musica. Ma ci rendiamo conto? Uno come Borges, una delle persone più colte che il mondo abbia mai avuto. Quando oggi abbiamo gente che solo per aver scritto un libro si sente simile a un padreterno».
Borges forse era convinto di non sapere nulla di musica perché sapeva tutto di letteratura?
«Possibile. L’impressione che ne ricavai fu quella di un uomo che aveva una grande familiarità con le cose più alte. Diceva: “Dante ha detto questo”, “Leopardi la pensava così”. Questi giganti per lui erano come dei parenti, degli amici che andava a visitare ogni tanto. E poi era dotato di un’ironia sottilissima. Mi disse: “Vede maestro, io mi sono persuaso che non mi abbiano mai dato un premio Nobel per il semplice fatto che sono convinti di avermelo già dato”».
Un grande politico che ha incontrato?
«Giulio Andreotti. Era un habitué dei miei concerti. Be’, però devo menzionare anche Fausto Bertinotti, che una volta mi rese testimone involontario di un suo cruccio. Ci incontrammo, ci mettemmo a parlare e dopo un po’ mi confessò: “Caro Ughi, ma lo sa che ormai io non so più nemmeno chi votare?”».
Che cosa rappresenta per lei l’idea di felicità?
«Forse si avvicina alla serenità. Ma nella musica è diverso, sa. Ci sono musicisti felici e musicisti che cercano la felicità. Mozart, per esempio, era un artista felice, questo stato di grazia faceva parte della sua identità. I suoi manoscritti non contengono correzioni perché tutto, in lui, faceva parte di un flusso benedetto e inarrestabile. Nulla era forzato. Beethoven, al contrario, era un artista che cercava disperatamente la felicità e, non trovandola, finiva per soffrire. Penso che entrambi rappresentino una grande lezione di vita. La musica non è solo partitura, ma è anche la vita, la biografia degli artisti. E se a scuola la musica non venisse considerata solo un accessorio, ma uno strumento di crescita, penso che la salute e il benessere dei nostri ragazzi se ne avvantaggerebbe molto».
Barbara Costa per Dagospia il 18 settembre 2022.
E ci credo che Amber Heard voleva l’annullamento del processo perso contro Johnny Depp! Non ce li ha, 10 milioni di dollari, da dargli! Povera Amber, nemmeno in famiglia trova comprensione: ha chiesto aiuto al suo fratellastro, ma quello niente, taccagno, manco un dollaro le ha sganciato, e dire che a garanzia Amber è stata di bocca larga, p*mpini a iosa, e si è fatta toccare ovunque, e ovunque ha leccato e si è fatta leccare, e copulare! Ehi, scherzo, non c’è nessuna Amber Heard incestuosa!
E però una “blonde celebrity, star di Hollywood”, in aula scornata dall’ex marito in un processo per diffamazione… nel porno c’è, in un video, dove un fratellastro se lo sc*pa, fratellastro che in realtà è suo marito vero nella vita vera… Benvenuti nell’allegro bislacco mondo di "StepHouseXXX.com", sito porno di Valentina Bellucci, la prima a intendere i succosi guadagni di una parodia in chiave porno della sentenza Depp vs. Heard. Ma chi è Valentina Bellucci? Non sono nome né cognome reali di questa 35enne ex danzatrice del ventre ora attrice porno cougar che più che italiana si professa europea, cresciuta in Sicilia ma che da anni vive negli USA, a Tampa, in Florida, col marito Vincent, in porno arte Mad Vince.
Marito con cui sotto il titolo di "Mrs. Valentina" firma scene porno di giochi di ruolo, ma la gran parte sono porno di fantasie proibite poiché (finto) incestuose, e senza fronzoli. Scene pensate e scritte con Vince e girate non sempre e non solo con Vince su StepHouseXXX, per porno autoprodotti e di ottima qualità.
Fatti con colleghi professionisti e no: “Il nostro pubblico vuol vedere in azione sia performer imponenti, con peni sopra la media”, spiega Vince, “sia uomini e donne con fisici normali, rilassati, non più giovanissimi. Il più netto divario sta nel dirigerli: i professionisti sanno ciò che devono fare, e come, gli altri no”.
Valentina e Vince sono ex scambisti. Ora si scambiano solo per lavoro, ma non lo negano: “Sia a me che a Vince”, dice Valentina, “piace guardarci con altri, e ci è sempre piaciuto fare sesso in pubblico”. Valentina lascia a casa il marito quando sono studios porno di punta a reclamarla per lavori come "Bacio Inappropriato", da lei portato a termine a pieni voti. Le forme burrose di Valentina sono tra le più richieste per i ruoli di matrigna, ziastra, sorellastra, parente acquisita scegli tu quale, basta che non abbia legami di sangue con chi (o coloro) deve far sesso ma neppure sul copione perché, ci hai fatto caso? Nel porno step, l’incesto… mai è incesto vero!
Voglio dire: va da sé che quelli lì sono porno attori e attrici che interpretano una parte, mica sono parenti sul serio, ovvio, ma… attenzione: in nessuna sceneggiatura, dalla più sciocca alla più elaborata, i personaggi sono parenti naturali. Mai!!! E infatti: la calda matrigna, il patrigno inf*iato, la figliastra più insolente, il figliastro o il nipastro o il cuginastro a cui nelle mutande pulsa, scoppia… non sono mai secondo copione uniti dal minimo legame di sangue. La matrigna sc*pa il figliastro, la figliastra sc*pa il patrigno, la nipotastra la nonnastra… e così via.
Questo perché –e soprattutto negli USA – l’incesto riguardante legami di sangue seppur alla lontanissima, è il tabù dei tabù: è intoccabile, è invalicabile, è talmente inviolabile che neanche il porno lo sfiora. Sul web ci sono, è vero, dei porno che ostentano legami di sangue veri, con performer presentate come sorelle o cugine o mamma e figlia tali nella vita reale, ma la verità è che non lo sono, o, se lo sono, nei porno MAI vengono al pur lieve, accidentale contatto.
Il tabù porno step al momento è "ostaggio" di Valentina Bellucci, la cui personificazione della signora in calore che, se nota ragazzi imberbi, ma che siano maggiorenni, e meglio se sono a lei (finto) imparentati… non si tiene, impazzisce, si toglie tutto e non ci sta a pensare, se li monta e si fa montare, per togliersi ogni sfizio di liscia pelle maschia…
Non vi sono dubbi: Mrs. Valentina piace, e piace il suo corpo pieno, il suo davanzale generoso, il suo lato B sul quale lei si allena sodo a sodo pomparlo. E Valentina ce lo promette: la porno parodia su Amber Heard è la prima di altre, e che mireranno a persone famose, anche ai politici. E Valentina e Vince hanno questo porno sogno: vorrebbero girare un reality, un porno Big Brother dove chiusi in una casa grande e lussuosa, si sc*pi h24, tra professionisti e no. E se non un reality, un porno documentario su come il porno è, incide sulla vita di chi lo fa, da diversi punti di vista. Sia chiaro, non sarebbero i primi, eppure feedback positivissimi a questi progetti gli arrivano.
Valentina Cervi: «I miei fantasmi... e il ricordo del nonno Gino». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.
L’attrice, nipote di Gino Cervi, è protagonista con Anna Bonaiuto dello spettacolo teatrale «Addio fantasmi», tratto dal romanzo omonimo di Nadia Terranova.
Figlia di un attore-regista, Tonino Cervi, della produttrice Marina Gefter e nipote del grande Gino Cervi. Valentina Cervi il teatro e il cinema ce l’ha nel Dna. In questi giorni è protagonista con Anna Bonaiuto di Addio fantasmi, tratto dal romanzo omonimo di Nadia Terranova.
«I fantasmi del titolo - spiega l’attrice - sono quelli che Ida, il mio personaggio, si porta appresso sin da bambina, quando il padre, malato di depressione, a un certo punto scompare. Il confronto con la madre, impersonata dalla grande Bonaiuto, e con cui non si vede da anni, è conflittuale: dice alla figlia “dimentica”, ma la figlia non vuole dimenticare, bensì capire il motivo di quella scomparsa per fare i conti con il trauma subito. Non si scoprirà mai che fine abbia fatto il padre e le due donne, come due cani randagi, tenteranno di ricongiungersi nella loro incolmabile diversità. Una storia che, curiosamente, ha un po’ a che fare con la mia storia familiare».
Ovvero?
«Mio padre è morto quando avevo 25 anni, ma non è stato mai molto presente nella mia vita, anche nel mio percorso professionale. A parte il fatto che io, quando lui è mancato, mi trovavo in un momento ancora molto acerbo sotto il profilo artistico, mentre oggi mi sarei confrontata con lui in modo più produttivo. E poi papà non intendeva molto certificare con il suo assenso la mia scelta lavorativa che, nei primi anni, ho vissuto come un mio segreto».
E sua madre?
«Era molto critica e avevamo un rapporto conflittuale. Diceva: non sei abbastanza bella per fare l’attrice, non sei brava, ma se proprio vuoi, fallo. Temeva che avrei sofferto. Quindi all’inizio ho svolto un tragitto non condiviso con la famiglia: i miei genitori non si impicciavano ed ero contenta».
Però poi, grazie a sua madre produttrice, ha fatto incontri importanti.
«Lei viveva a Parigi e a casa sua incontravo lo star system: Brian De Palma, Antonio Banderas, Francis Ford Coppola... non li vedevo come miti hollywoodiani, ma come amici di mia madre, per me veniva prima la persona, poi il grande talento, pur mettendomi in ascolto di questi personaggi, per capire di che pasta sono fatti».
E dal talento Coppola è stata diretta.
«Mi scritturò per lo spot pubblicitario di una nota marca di caffè. Un’esperienza straordinaria, vissuta con semplicità. Lo ricordo come un mangione simpatico, un grande regista che non ti fa pesare la sua grandezza, ti mette a tuo agio».
Poi è stata diretta da Jane Campion, Spike Lee, Peter Greenaway... ha condiviso i set con Nicole Kidman, John John Malkovich, John Turturro...
«La verità è che ho respirato quest’aria sin da piccola, mi sono sempre sentita sul set,la mia famiglia, senza volerlo, mi ha passato il testimone».
A cominciare dal nonno Gino?
«È scomparso due anni prima della mia nascita, ma l’ho conosciuto sin da ragazzina attraverso i ricordi della gente, che mi fermava per strada per raccontarmi la sua grandezza: dagli spettatori affezionati alla sarta che gli cuciva gli abiti di scena. Poi in casa vedevo le sue foto e ho visto tutti i suoi film... Quando ho deciso di fare questo mestiere l’ho “incontrato” come attore, l’ho osservato attentamente, mi sono sentita illuminata dal suo talento e, se il Dna ha una sua verità, ho cercato di comprendere se mi ha trasmesso qualcosa».
I suoi film che ama maggiormente?
«Tra i tanti, 4 passi tra le nuvole, La corona di ferro, Il Cardinale Lambertini, naturalmente Don Camillo e Peppone e il commissario Maigret. Sento la sua vulcanicità simile alla mia indole. Inoltre, mi affascinava la sua voce».
E pensare che suo nonno ha iniziato giovanissimo...
«In piccoli ruoli e suo padre, il mio bisnonno, Antonio Cervi, importante critico teatrale, vedendolo in scena gli disse: Gino, sei un cane! Però poi venne scritturato da Luigi Pirandello come attor giovane per Sei personaggi in cerca d’autore, accanto a Marta Abba, Lamberto Picasso, Ruggero Ruggeri! Non ci posso credere, la sua una predestinazione: wahoo! Un gigante con un carisma innato, che è stato tale anche quando interpretò il carosello per il Vecchia Romagna etichetta nera, il brandy che crea un’atmosfera... Ce ne fossero oggi attori di quella caratura, capaci di fare pubblicità con la sua classe, la sua eleganza».
Valeria Bruni Tedeschi: «Posso ancora prendermi rischi in amore». «Avvicinarsi al fuoco? Me la sento» spiega l’attrice e regista, che in "Forever Young" rievoca un amor fou giovanile dal finale tragico e che, nella vita, ha una relazione con il protagonista del suo film, Sofiane Benaccer, accusato di violenze. «È vittima di un linciaggio mediatico» dice, con la fiducia di «un marinaio che ha vissuto tante tempeste e che, quando gliene arriva un’altra, non è così spaventato: riconosce la burrasca, la paura, il vuoto e sa che, bene o male, ne uscirà». MARIA LAURA GIOVAGNINI su Io Donna il 25 Novembre 2022.
«Valeria Bruni Tedeschi un po’ parla, un po’ ansima. E la linea telefonica un po’ regge, un po’ va. «Sto correndo» spiega. «Jogging e intervista, due cose allo stesso tempo. Esattamente il contrario di quella presenza consapevole che consiglia il mio amato Thich Nhat Hanh, il maestro buddista scomparso a gennaio. Sono davvero lontana da quella saggezza che mi sono prefissa come scopo (ride)!».
Una scuola leggendaria
Sul lavoro, invece, la lezione l’ha già imparata: per Forever Young, nei nostri cinema dal 1° dicembre, è rimasta solo dietro la macchina da presa. È la prima pellicola da regista – dopo È più facile per un cammello..., Attrici, Un castello in Italia, I villeggianti – in cui non appare anche come protagonista. Ma la storia, come nei casi precedenti, resta (in parte) autobiografica: stavolta ripercorre – senza sconti – l’esperienza di metà anni ’80 alla leggendaria scuola teatrale di Patrice Chéreau e Pierre Romans, Les Amandiers a Nanterre. Compreso l’amore dal finale tragico con un altro collega di corso (Thierry Ravel, morto di overdose), che è impersonato dal suo attuale compagno, Sofiane Bennacer, accusato di violenze («ln realtà è vittima di un linciaggio mediatico» dice sicura).
Perché per lei è tanto importante partire dal vissuto?
Non lo decido, mi viene così: rielaboro il materiale personale, “rubo” dai racconti di altri e – assieme a Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy (le cosceneggiatrici, ndr) – lo rendo finzione. Pure quando ho girato un film per la tv, un adattamento delle Tre sorelle di Čechov, ho cercato una chiave nelle mie esperienze: ho immaginato che ci fosse un segreto di famiglia, tema che conosco e su cui ho lavorato in È più facile per un cammello... (il fatto che la sorella Carla non sia figlia di Alberto Bruni Tedeschi, ndr).
Suo padre nel Cammello, suo fratello Virginio in Un castello in Italia, il suo fidanzato in Forever Young… Per Valeria Bruni Tedeschi i film sono un modo per “trattenere” i fantasmi?
Il cinema ci permette di convocare persone che non ci sono più, di offrire loro la parola, di conversare di nuovo: è una delle ragioni che mi spinge a girare. Non perdere la comunicazione, né con i vivi né con i morti.
“Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita” sosteneva Paul Nizan. Concorda?
Non è la più gradevole, vero, ma è profonda, potente, coraggiosa. Vibrante. I miei vent’anni sono stati segnati dalla presenza della morte nel quotidiano, tra droghe e Aids: ho cercato di rappresentare questa dualità, Eros e Thanatos. C’era slancio amoroso verso il mondo: sentivamo, seppur in modo confuso, che i nostri destini si stavano giocando.
Qualche rimpianto per quei tempi?
Ho due figli (Oumy, 14 anni, adottata con Louis Garrel, e Noè, 8, adottato da single, ndr) che danno un senso alla mia vita, e quindi no: preferisco l’oggi.
Cosa rimane della ragazza che frequentava Les Amandiers?
Se non esistessero specchi, non percepirei nessuna differenza (ride)! La mia ricerca è sempre stata la stessa: la verità. Avere il coraggio di essere me stessa con verità. Mi sforzo di mantenere un certo candore, a volte ho l’aria stupida e mi va bene: voglio restare stupita e – foss’anche – un filo stupida. Odio avere preconcetti, arrivare sapendo già: mi interessa non sapere e lasciarmi invadere dagli eventi. Come, appunto, i ragazzi di Forever Young.
La relazione descritta nel film è una sorta di amor fou. Se la sente ancora di avvicinarsi al fuoco.
Penso di potermi ancora prendere rischi per amore, sì. Bella la parola fuoco: se non fosse già stato il titolo di un capolavoro (l’autobiografia di Marina Cvetaeva, ndr), avrei scelto proprio Vivre dans le feu, Vivere nel fuoco.
Nella scena dell’esame d’ammissione viene chiesto a tutti perché aspirino a diventare attori. La sua risposta quale fu?
Non ricordo esattamente, ma quella che dà la protagonista mi risuona: avvertivo che stavo sprecando la mia giovinezza. Studiavo letteratura all’università, scrivevo poesie, mi dedicavo alla danza classica benché consapevole di aver inziato troppo tardi per il professionismo… È stata una ricerca lunga, non sono una che sognava di recitare sin da bambina. Mi sentivo sola e ho avuto l’idea, per restare in contatto con i testi ma incontrando coetanei, di iscrivermi a un corso di teatro. E dopo poco sono arrivata a Les Amandiers.
Il maggiordomo della protagonista di Forever Young la avverte: le attrici rischiano di impazzire e di morire tristi e sole.
In realtà furono le parole della mia professoressa di francese all’università, sperava che continuassi con il percorso accademico. La frase mi ha molto colpita.
E non l’ha bloccata, “sabotata”?
No, anzi: gli ostacoli rafforzano il desiderio, come in amore. I miei genitori non mi avrebbero mai frenato, erano artisti – compositore papà, pianista mia madre: a loro andava benissimo che scegliessi il mestiere dell’attrice.
Oggi è pure regista: un’anima divisa in due?
Mi piace sentirmi un’attrice che dirige dei film: trovo che la mia identità e il mio percorso siano da attrice. Poi, comunque, il significato di “recitare” cambia a seconda delle fasi. Ci sono stati periodi in cui non ero più intenzionata a continuare. Adesso, invece, rappresenta il divertimento puro, come andare a ballare. Sono sul set di L’arte della gioia, una serie diretta dalla mia amica Valeria (Valeria Golino, che l’ha tratta dal romanzo di Goliarda Sapienza, ndr): impersono una nonna cattiva, pazza, un personaggio meraviglioso! Praticamente è la mia festa, non me la spassavo altrettanto dalle riprese di La balia di Marco Bellocchio. Nella vita io non mi diverto, tranne quando sto con i miei bambini.
Per quale motivo? Se lo sarà chiesto.
Ho un Super-io assai forte che me lo impedisce (ride). Mi prende spesso un senso di colpa se me la godo, ritenendo che dovrei concentrarmi su una cosa più importante e più seria. Quando lavoro mi diverto, quando non lavoro sono… al lavoro.
L’analisi non l’ha aiutata a sbloccare il Super-io tiranno?
No, forse non si sbloccherà mai: la psicoanalisi non serve a cambiare, serve a “funzionare” come si è. Mi accontenterei di sopportarmi un filo di più. Non è che alla mia età abbia tante speranze di riuscire a raddrizzare le mie cose storte. Come uno con i denti storti: difficile da adulti vederli tornare dritti (ride)! Lo stesso per le nevrosi: quel che potevo fare, l’ho fatto. Posso aspirare al massimo a diventare saggia.
Ecco cosa l’ha portata a Thich Nhat Hanh.
Sì, lo adoro, trovo veramente che sia un genio. Non pratico la meditazione, per quanto lui insista che è essenziale: non ci riesco. Lavorare per me è la cosa che più si avvicina alla mindfulness, oppure ripetere un pezzo quando suono il piano. Però sottolineo con l’evidenziatore tutti i suoi saggi, con la buona volontà della bambina brava a scuola. Mi basta leggere i suoi consigli per tranquillizzarmi, mi rassicura avere i suoi testi sul comodino. Talvolta sono lì che esito tra qualche pagina di Thich Nhat Hanh e un ansiolitico. Non sempre vince l’ansiolitico. Qualche sera metto un suo libro sotto il cuscino: la meditazione mi compenetra in qualche modo (ride).
Pare la scena di un suo film… Ora che è a quota cinque, ora che Filippo Timi la definisce “l’anello mancante tra Woody Allen e Nanni Moretti”, ora che dedicano addirittura saggi al suo cinema – Le tourbillon de la vie di Benedetta Pallavidino, edito da Bietti – finalmente si sentirà “adeguata”.
Non mi pongo la domanda. Al massimo mi chiedo: cosa faccio oggi, cosa domani? Non sono mai nel passato, il passato non mi dà nessuna legittimità. Al limite, mi sento come il marinaio che ha vissuto tante tempeste e che, quando gliene arriva un’altra, non è così spaventato: riconosce la burrasca, la paura, il vuoto e sa che, bene o male, ne uscirà. La sindrome dell’impostore? Trovo che non ci sia niente di male a sentirsi un impostore: è qualcosa di interessante, ti lascia in bilico e fa sì che tu non sia arrogante. Oddio, magari mentre parlo del non essere arrogante è il momento in cui lo sono…
Complicato… Sua madre anni fa ce lo aveva detto: Carla è naturalmente portata alla felicità, Valeria ai tormenti.
(ride di gusto) Non è che io coltivi i tormenti, però penso che siano parte della vita e non li sfuggo, non ci piazzo un coperchio sopra. Mia madre con questa frase mi appiccica un’etichetta e devo fare attenzione a non lasciarmi suggestionare: anch’io desidero la felicità. O forse no: non la felicità, che effettivamente mi spaventa, mi angoscia il pensiero che possa svanire in un attimo. I momenti più felici della mia vita non sono quelli di felicità, sono quelli di serenità. Adesso conto su Thich Nhat Hanh (ride). Io Donna.it
Accusato di stupro l'attore del film di Valeria Bruni Tedeschi. La regista: "Sapevamo della denuncia: questo è linciaggio mediatico". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.
Polemica in Francia sulle accuse, mosse da quattro donne, a Sofiane Bennacer. Oggi la regista a Roma per presentare il film: "Ora non parliamo di questo. Parliamo del film"
Il giovane attore francese Sofiane Bennacer, rivelazione del film Forever young (Les amandiers) di Valeria Bruni Tedeschi, è stato accusato e incriminato - il mese scorso - per i presunti stupri e violenze come denunciato da quattro donne. A rivelarlo il procuratore della Repubblica Edwige Roux-Morizot. L'attore è sotto controllo giudiziario (non può recarsi in determinati luoghi e non può incontrare denuncianti e testimoni), mentre il magistrato aveva inizialmente chiesto per lui la custodia cautelare.
Bonnacer è l'attuale compagno della regista e attrice. Che commenta: "Sapevamo che era stata presentata una denuncia. Questa mattina, sono indignata nel vedere che un giornale come Libération possa calpestare a tal punto il principio della presunzione di innocenza, ostentare vergognosamente questa vicenda, e mettere in prima pagina la foto di un giovane uomo con del sangue sulle mani. Ad oggi, è chiaro a tutti che non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è secondo me altro che un puro linciaggio mediatico".
I fatti si sarebbero verificati tra il 2018 e il 2019 a Mulhouse, Strasburgo e Parigi. L'attore avrebbe conosciuto una delle sue accusatrici alla scuola teatrale Le filature, dove si sarebbero messi insieme, ma le presunte vittime descrivono una relazione durante la quale - secondo Le Parisien - avrebbero avuto rapporti non consensuali. Il Teatro Nazionale di Strasburgo aveva presentato una relazione al ministero della Cutlura e Bennacer si era dimesso, il 19 febbraio del 2021, a seguito delle accuse. Per lui si tratta di false testimonianze: "Sono innocente. La presunzione di innocenza esiste ancora? O siamo in uno stato di non diritto, in cui una semplice accusa infondata può distruggere una vita? - ha scritto su Instagram - potrei essere boicottato dal cinema e comunque sono stato umiliato fin nel fondo dell'anima. Sarò libero tra qualche mese, perchè non ho fatto nulla. Se ci fossero le minime prove contro di me, non semplici testimonianze false ma prove vere, sarei già in prigione". L'attore è stato escluso dalla corsa ai César, i prestigiosi premi del cinema francese, era tra i 32 attori selezionati a metà novembre come talenti emergenti dal comitato Rivelazione dell'Accademia. "Ma io vorrei continuare a competere", ha fatto sapere Bennacer.
Valeria Bruni Tedeschi, attuale compagna di Bennacer, è a Roma per accompagnare l'uscita italiana del film Forever young (Les amandiers), in sala con Lucky Red dal primo dicembre. Il film racconta di un gruppo di giovani allievi della prestigiosa scuola di cinema francese guidata da Garrel che interpreta Patrice Chéreau.
Valeria Bruni Tedeschi: "Sono sicura delle sue qualità umane. Adesso parliamo del film".
Ecco la nota integrale rilasciata da Valeria Bruni Tedeschi: "Oggi è la giornata contro la violenza sulle donne. Tengo ad esprimere, innanzitutto, il mio grande rispetto per la libertà di parola delle donne e il mio profondo attaccamento al fatto che possano essere ascoltate. Sono stata io stessa vittima di abusi durante la mia infanzia e conosco il dolore di non essere stata presa sul serio. Ho dei figli ed è fondamentale per me, più di ogni altra cosa, che vivano in una società che li ascolti e li protegga. Ciò non mi impedisce, tuttavia, di essere sbalordita, leggendo il quotidiano Libération di oggi, di vedere il trattamento riservato a un giovane uomo oggetto di un'indagine penale in corso, senza alcun rispetto per le persone che stanno lavorando su questa indagine, né per il principio di presunzione di innocenza. Sono rimasta artisticamente impressionata da Sofiane Bennacer sin dal primo secondo del casting del mio film e ho fortemente voluto che ne fosse l'attore principale nonostante le voci che circolavano, di cui ero a conoscenza. I miei produttori hanno espresso timori e riserve, ma gli ho comunicato che queste voci non dovevano mettere in discussione questa scelta e che era impensabile per me fare il film senza di lui. Mi hanno dato fiducia, nel rispetto che dimostrano per le scelte artistiche delle loro registe e dei loro registi. Li ringrazio e mi assumo la piena responsabilità della mia scelta".
L'attrice poi ricostruisce l'intreccio tra la vicenda giudiziaria e la lavorazione del film: "Successivamente, abbiamo saputo che era stata presentata una denuncia. Le riprese erano allora iniziate, e cambiare attore avrebbe creato ostacoli giuridici insuperabili. Per quel che mi riguarda, avevo avuto modo di conoscere Sofiane Bennacer da diversi mesi sul lavoro, in particolare durante il lungo periodo delle prove, ed ero completamente sicura delle sue qualità umane: quando filmi qualcuno, "vedi" chi hai di fronte a te. Questa mattina, sono indignata nel vedere che un giornale come Libération possa calpestare a tal punto il principio della presunzione di innocenza, ostentare vergognosamente questa vicenda, e mettere in prima pagina la foto di un giovane uomo con del sangue sulle mani. Ad oggi, è chiaro a tutti che non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è secondo me altro che un puro linciaggio mediatico, ben lontano dalla volontà di informare in modo obiettivo e imparziale. Aggiungerei che decine e decine di persone si sono dedicate con passione e impegno totale al film, e che questo approccio è profondamente irrispettoso di tutto il loro meraviglioso lavoro. Non devo esprimermi sulla mia vita privata, ma visto che sono tenuta a renderne conto, voglio dire che abbiamo effettivamente una relazione amorosa, ma questo rapporto è iniziato molto dopo la fine delle riprese, ed è basato innanzitutto su un’amicizia profonda. Ora, non vorrei più parlare di questo, parliamo del film".
Estratto dell’articolo di Anais Ginori per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.
[…] Nelle vacanze nella casa di villeggiatura a Cap Nègre dove un tempo Alberto Bruni Tedeschi suonava il pianoforte, si è provato a tenere lontano l'eco mediatico, con Valeria che non era per forza allineata sulla politica di Sarkozy, ma intanto è riuscita a ottenere un canale privilegiato per impedire l'estradizione dell'ex Br Marina Petrella. Un gesto umanitario che l'attrice e regista ha continuato a rivendicare, senza però farne una bandiera.
Estratto dell’articolo di Benedetta Perilli per repubblica.it il 26 novembre 2022.
[…] Il giorno dopo il caso è ancora vivo in Francia, e non soltanto negli ambienti del cinema, e Libération sceglie di tornare sulla vicenda pubblicando non un editoriale o un commento ma una notizia sulle polemiche. "La nostra inchiesta sulle testimonianze che riguardano Sofiane Bennacer, l'attore de Les Amandiers sotto inchiesta per stupro e violenze su congiunti ha suscitato delle accese reazioni", scrivono.
Vengono riportate le voci di Valeria Bruni Tedeschi, espresse in un comunicato letto durante la presentazione romana del film, e qui il quotidiano accusa la regista di aver omesso di precisare che nello scrivere l'inchiesta era stata data la possibilità di commentare sia a lei che a Sofiane Bennacer.
[…] Più avanti Libération parla della reazione del gruppo #MeTooTheatre che sostiene le persone che hanno denunciato Sofiane Bennacer ricordando che l'inchiesta è stata realizzata in accordo con le tre donne che hanno testimoniato e dichiarandosi fiducioso nella giustizia. Ammonendo infine gli attacchi razzisti subiti da Bennacer dopo la notizia dell'indagine, come lo stesso attore ha denunciato sui social dichiarandosi innocente.
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2022.
All'ultimo festival di Cannes aveva colpito al cuore critica e pubblico nei panni del tormentato Etienne nel film di Valeria Bruni Tedeschi Les Amandiers , in gara sulla Croisette, racconto molto ravvicinato, in pieni anni Ottanta, della scuola di teatro creata da Patrice Chéreau e Pierre Romans, di cui la regista fu allieva.
L'Accademia dei César, gli Oscar francesi, lo aveva inserito nella lista dei 32 attori giovani da tenere d'occhio. Ieri Sofiane Bennacer, 25 anni, è finito sulla prima pagina di Libération - che da tempo indagava sul caso - con un'accusa atroce: stupro e violenza. La magistratura francese lo ha incriminato in seguito alle dichiarazioni di quattro donne.
Valeria Bruni Tedeschi, arrivata ieri a Roma a presentare il film per l'uscita italiana (il 1° dicembre con Lucky Red) non ha dubbi e difende l'attore, attualmente suo compagno.
Una dichiarazione unica per la stampa italiana e francese. In un una data simbolica, il 25 novembre.
«Oggi è la giornata contro la violenza sulle donne. Tengo ad esprimere, innanzitutto, il mio grande rispetto per la libertà di parola delle donne. Sono stata io stessa vittima di abusi durante la mia infanzia e conosco il dolore di non essere stata presa sul serio. Ciò non mi impedisce, tuttavia, di essere sbalordita, leggendo Libération , di vedere il trattamento riservato a un giovane uomo oggetto di un'indagine penale in corso, senza alcun rispetto per le persone che stanno lavorando su questa indagine, né per il principio di presunzione di innocenza».
Rivendica la scelta fatta, nonostante già fosse emerso qualcosa. «Sono rimasta artisticamente impressionata da Bennacer sin dal primo secondo del casting del mio film e ho fortemente voluto che ne fosse l'attore principale nonostante le voci che circolavano, di cui ero a conoscenza.
I miei produttori hanno espresso timori e riserve, ma gli ho comunicato che queste voci non dovevano mettere in discussione questa scelta: era impensabile per me fare il film senza di lui. Ad oggi, è chiaro a tutti che non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è secondo me altro che un puro linciaggio mediatico, ben lontano dalla volontà di informare in modo obiettivo e imparziale».
Conferma quello che i giornali d'oltralpe (il primo è stato Le Parisien ) avevano scritto del loro legame. «Non devo esprimermi sulla mia vita privata, ma visto che sono tenuta a renderne conto, voglio dire che abbiamo effettivamente una relazione amorosa, ma questo rapporto è iniziato molto dopo la fine delle riprese, ed è basato innanzitutto su un'amicizia profonda. Ora, non vorrei più parlare di questo, parliamo del film». Con lei si è schierata la sorella Carla Bruni.
«Senza la presunzione di innocenza, tutta la giustizia è incerta, discutibile e forse corrotta.
Vergognatevi Libération : quando crocifiggete qualcuno sulla vostra prima pagina senza sapere se è davvero colpevole, vi fate beffe della democrazia. Dovreste cambiare il vostro nome: la libertà non è più il vostro business», il suo commento su Instagram.
Sofiane Bennacer si dichiara innocente. Su di lui pendono diverse incriminazioni.
Due per stupro da parte di ex fidanzate e una «imputazione per violenza contro il coniuge». Per una quarta denuncia, l'attore è stato sottoposto al più favorevole status di «testimone assistito», come ha detto la pm Edwige Roux-Morizot. Le accuse, secondo Libération , sarebbero confermate da diversi testimoni.
Scritto da Bruni Tedeschi con Noémie Lvovsky e Agnès De Sacy, Les Amadiers è uscito in Francia il 16 novembre, già visto da oltre 100 mila spettatori. Per i giovani protagonisti - Nadia Tereszkiewicz e Bennacer, soprattutto - un ingresso trionfale nel cinema francese. Che da lui ora prende le distanze. L'Accademia dei César tre giorni fa ha prontamente cancellato il suo nome.
"Ha stuprato tre donne" Bruni Tedeschi lo difende. Storia di Maria Sorbi su Il Giornale il 26 novembre 2022.
Ha aspettato la giornata contro la violenza alle donne la redazione di Liberation per pubblicare la copertina choc che probabilmente aveva in caldo da un po': un'immagine dell'attore Sofiane Bennacer con le mani insanguinate e lo strillo sull'indagine in corso per accuse di stupro.
Lui è uno dei protagonisti di Forever Young, il film di Valeria Bruni Tedeschi applaudito a Cannes e già di culto in Francia. La pellicola sta per uscire anche in Italia, il primo dicembre, e di sicuro quella di Liberation non è una bella pubblicità. Anche perchè il presunto scoop piomba sulle teste del cast proprio nel giorno in cui la regista ha presentato il suo lavoro. Una doppia batosta per la Bruni Tedeschi, che per di più ha una relazione con Bennacer.
Ieri, tesissima, ce l'ha messa tutta per difendere il compagno e soprattutto per evitare che lo scandalo compromettesse l'uscita del film. «È la giornata contro la violenza sulle donne. Sono stata io stessa vittima di abusi durante la mia infanzia e conosco il dolore di non essere stata presa sul serio. Ciò non mi impedisce, tuttavia, di essere sbalordita, leggendo il quotidiano Libération, di vedere il trattamento riservato a un giovane uomo oggetto di un'indagine penale in corso, senza alcun rispetto per le persone che stanno lavorando su questa indagine, né per il principio di presunzione di innocenza».
Bruni Tedeschi ammette di essere stata colpita fin dall'inizio dall'attore: «Ho fortemente voluto che fosse l'attore principale nonostante le voci che circolavano, di cui ero a conoscenza». Spiega poi che i produttori le hanno «espresso timori e riserve, ma gli ho comunicato che queste voci non dovevano mettere in discussione questa scelta e che era impensabile per me fare il film senza di lui». E chiarisce: «Mi assumo la piena responsabilità della mia scelta».
L'attrice e regista ha saputo successivamente che era stata presentata una denuncia: «Le riprese erano allora iniziate, e cambiare attore avrebbe creato ostacoli giuridici insuperabili. Per quel che mi riguarda avevo avuto modo di conoscere Sofiane Bennacer da diversi mesi sul lavoro, in particolare durante il lungo periodo delle prove, ed ero completamente sicura delle sue qualità umane. E poi la stoccata al giornale francese: «Non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è secondo me altro che un puro linciaggio mediatico, ben lontano dalla volontà di informare in modo obiettivo e imparziale».
Ci sono stati altri casi in cui le donne hanno ingoiato il boccone amaro, si sono fatte forza e hanno difeso il compagno, sia in una relazione - come questa - fresca, sia in rapporti più consolidati. Come nel caso di Claudia, moglie del regista Fausto Brizzi: «Mio marito ha ribadito, più volte, di non aver mai avuto rapporti non consenzienti - aveva dichiarato - In questo momento gli sono vicina perché così avviene tra una moglie e un marito quando si affrontano periodi difficili. Queste accuse formulate in tv, nei salotti televisivi di trasmissioni di gossip, senza nessuna garanzia, possono distruggere la carriera di un uomo, il suo matrimonio e la sua esistenza». E ancora, Emmanuelle Seigner, moglie del regista Roman Polanski: «Mio marito non aveva bisogno di stuprare, c'era la fila di donne che volevano andare al letto con lui». Ma stavolta la difesa va oltre il perdono all'interno di una relazione di coppia. C'è in ballo anche la vita professionale.
Valeria Graci svela il retroscena su Katia Follesa: "Ormai è tardi. Ecco cosa mi ha fatto..." Libero Quotidiano il 07 maggio 2022
Valeria Graci non ha usato giri di parole. Ospite del podcast "One more Time" ha deciso di rivelare i motivi che hanno portato alla rottura di una amicizia solida con Katia Follesa. Un sodalizio interrotto bruscamente 10 anni fa. Insieme per diversi anni hanno fatto sorridere il pubblico costituendo una coppia comica affiatata sul palco di Zelig con le parodie di Uomini e Donne e Miss Italia.
Le parole usate dalla Graci sono piuttosto chiare: "Ho un ricordo positivo dei dieci anni assieme a Katia. Ma a un certo punto nella vita accadono delle cose, si subiscono delle interferenze, si ha voglia di fare delle scelte diverse. Qualcosa si è rotto". E ancora: "Lei veniva a vedere alcuni miei spettacoli a Milano. Era una mia fan. Ci siamo dette: perché non fare qualcosa insieme? È nato tutto per caso. E la nostra prima idea è stata parodiare le pubblicità televisive".
Nel 2012 arriva la clamorosa rottura tra le due: "Noi - ha continuato - eravamo gestite da un'agenzia che "se una è incinta lavora l'altra" e viceversa. Anche questo non è stato giusto, è stata una scorrettezza, perché se siamo un duo facciamo le cose insieme... Ero incinta, non avevo voglia di arrabbiarmi, così ho lasciato correre... In un momento delicato avrei avuto bisogno che Katia ci fosse: invece non c'è stata. C'è stato un bel po' di tempo in cui non ci siamo né viste né sentite. Poi ci siamo riviste e chiarite, ma ormai era tardi". Infine una conclusione amara che lascia spazio anche a qualche rimpianto per questa amicizia perduta e finita nel nulla: "Quello che avevamo creato in 10 anni io l'ho perso tutto, questa è la verità. Mettici le interferenze, mettici che eravamo magari ingenue, mettici che magari una si fida più di quello che dice una terza persona: quel noi è finito. E vederla sul palco con qualcun altro o qualcun’altra fa un po' male... Sono capace di perdonare, però non dimentico. Se ci fosse la possibilità di uno spettacolo insieme lo farei molto volentieri, ma sono fiera di aver ricostruito una carriera da solista in un momento difficile".
Valeria Marini: «Volevo entrare in convento ma poi ho cambiato idea. Sordi? Rimasi senza parole». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.
L’artista: «Per aiutare Cecchi Gori ho venduto una casa». I registi: «Sul mio fondoschiena Federico Fellini scrisse: “Ho deciso abito qui”. Zeffirelli? Ho avuto la fortuna di frequentare casa sua, si entrava in un mondo incantato»
Quand’è l’ultima volta che si è confessata?
«Un paio di mesi fa».
E che è andata a messa?
«Due settimane fa, alla Madonna del Pozzo a Roma: è la mia chiesa preferita assieme al Santuario della Madonna del Miracolo».
Prega?
«Tutte le sere: Ave Maria, Padre nostro e Gloria al padre. Ma va bene anche una preghiera che ti viene dal cuore a seconda del momento: essere forte, non farmi prendere dallo sconforto, la salute di mia madre... Non c’è domenica che non senta l’Angelus, spesso lo condivido anche sui social: questo papa è un santo, vorrei tanto conoscerlo».
Sono colpita.
«Guardi che la fede è un dono che ho da quando ero bambina e mia madre ci mandava i montagna ai Kinderheim: io stavo sempre in chiesa».
Ha anche pensato di farsi suora?
«Veramente a quello ci ho pensato un anno fa, dopo tante difficoltà. Mi sono detta: ora prendo i voti e mi chiudo in convento. Ne ho parlato con mia mamma e con un sacerdote. Ma poi ho capito che questa scelta non può essere una fuga dalle difficoltà, non sarebbe giusto. La scelta giusta è pregare, aiutare gli altri ed essere una cattolica praticante».
E come la mettiamo con la castità fuori dal matrimonio?
«La religione ci pone dei limiti e poi sta a noi rispettarli. Per me la regola più importante è: rispetta il prossimo come te stesso. Comunque, sinceramente, la castità è contro natura...».
Valeria Marini si presenta all’appuntamento a Milano (in ritardo) con un mini abito rosso a pois bianchi e sandali da schiava che indossa a meraviglia in un pomeriggio dal caldo assassino. Dolcissima, sbatte le ciglia quando è contenta, risponde in dosi omeopatiche se l’argomento non le piace. È entusiasta perché può finalmente dire che farà parte del cast di Tale e quale show , in onda su Rai 1 dal 30 settembre con la conduzione di Carlo Conti. «Ho studiato canto per il provino», ammette seria. «E continuerò a prendere lezioni». Nel frattempo si allena con i Baci stellari, la canzone con cui ha lanciato la sfida social al miglior balletto (i fan le mandano esecuzioni casalinghe o di gruppo dai centri vacanze, che poi lei condivide su Instagram e TikTok).
Se le chiedono che lavoro fa, cosa risponde?
«Faccio l’artista: sono una donna di spettacolo».
Ed è il lavoro che voleva fare da bambina?
«No, da piccola volevo salvare gli animali. Ho tanti ricordi belli nella tenuta dei miei nonni materni a Cagliari, con i coniglietti, le galline...».
Lei però è nata a Roma.
«Sono una sarda nata a Roma. In Sardegna mi sono trasferita a 7 anni dopo la separazione dei miei genitori. Ma io sono molto orgogliosa di essere sarda e di averne assimilato i valori».
Per esempio?
«La lealtà, la forza di volontà, il rispetto per gli altri, la testardaggine, la generosità di condividere quello che hai conquistato».
E da suo padre Mario cosa ha ereditato?
«Lui era un uomo fantastico, aveva un’azienda di autoricambi. Mi ha trasmesso l’etica del lavoro, ma soprattutto una grande dolcezza. L’ho vissuto poco, per via della separazione, ma ricordo le sue “sgnoccolate”: erano i nostri abbracci».
Suo fratello e sua sorella frequentano il suo mondo?
«No, sono riservatissimi. Fabio è avvocato e commercialista, Claudia gestisce un hotel a Roma. Siamo molto uniti, anche se poi ci vediamo tutti insieme solo a Natale, con le mie nipoti: Marta, Emma e Sara».
E a questi raduni le dispiace andare da sola?
«Per me il vero amore deve essere suggellato in chiesa e io, purtroppo, ho fatto un inciampo non indifferente...».
Il matrimonio con l’imprenditore Giovanni Cottone.
«Ho ottenuto l’annullamento dalla Sacra Rota. L’unica nota positiva è che al posto dei regali, avevo chiesto agli invitati delle donazioni per l’Amri, l’Associazione per le malattie reumatiche infantili del Gaslini, e la Fondazione Artemisia, che sostiene la ricerca sulle patologie della gestante e del feto. Sono stati raccolti 200 mila euro: almeno qualcosa di buono è stato fatto».
Oggi è innamorata?
Sbatte le ciglia. «Sì, ma non voglio dire il nome».
Le cronache rosa scrivono Eddy Siniscalchi, imprenditore napoletano. Avete vent’anni di differenza: lui ne ha 35.
«L’età è solo un numero. È meraviglioso, mi fa sognare, mi chiama “Vita mia”. Facciamo l’amore dalla mattina alla sera».
Pensa di essere stata sfortunata finora?
«Ho pagato lo scotto della mia popolarità».
Vittorio Cecchi Gori sembrava un grande amore.
«Lo è stato. Gli ho voluto bene, ho affrontato grosse difficoltà al suo fianco. Ma non è una medaglietta da mettere al petto, amore è anche questo».
È vero che ha venduto un appartamento per aiutarlo economicamente?
«Era già un po’ in difficoltà quando l’ho incontrato. E sì, è vero. Ma anche adesso, se ha bisogno, io per lui ci sono».
Almeno quei soldi glieli ha restituiti?
«Parliamo d’altro».
Il lavoro è sempre stato un punto fermo. Di cosa è più orgogliosa?
«Intanto non posso dimenticare il Bagaglino di Pingitore, che mi ha lanciata. Poi, forse, se devo scegliere altre due esperienze, di sicuro una è il film con Alberto Sordi e l’altra Sanremo con Mike Bongiorno e Piero Chiambretti».
Com’è lavorare con Sordi?
«Era un uomo di una simpatia travolgente, aveva dentro di sé tutti i personaggi. I suoi film nascevano dalla lettura dei giornali: vedeva una notizia, chiamava il suo sceneggiatore, Rodolfo Sonego, e scriveva il film».
La chiamò per l’ultimo: «Incontri Proibiti».
«Quando mi arrivò la telefonata pensai a uno scherzo, ero in America. Poi, mi diede appuntamento da Rocchetti, dove doveva provare delle parrucche, e mi aprì lui la porta: non riuscii a spiccicare parola. Mi chiamava “Bella mia”. Durante le riprese, quando guidavo io la macchina, mi diceva sempre di stare attenta! Per due anni sono stata la donna più premiata d’Italia: mi voleva al suo fianco».
Sanremo lo rifarebbe con Amadeus?
«Mi piacerebbe da morire. Ho un bellissimo ricordo di quello con Mike e Piero. Prima di andare sul palco mi facevo sempre il segno della croce. I momenti più belli erano quelli improvvisati: l’idea di chiedere a un gobbo vero di reggere il copione era esilarante. Quando mi avvisarono per affidarmi la conduzione telefonai subito a mia madre: ero felicissima».
Mamma Gianna.
«Il grande amore della mia vita, la regina: il podio dei miei affetti è suo».
Com’è stato lavorare con Sofia Coppola?
«Beh, era solo un cameo: doveva farlo Raffaella Carrà, ma non poteva e hanno chiamato me. Girammo allo Smeraldo a Milano: mi colpì il silenzio sul set. Lei è molto dolce: entrambe festeggiamo il compleanno il 14 maggio, mi portò a cena fuori».
Zeffirelli?
«Un faro. Ho avuto la fortuna di frequentare la sua casa: era come entrare in un mondo incantato, arricchiva l’anima».
Fellini?
«Ho un ritratto di Rinaldo Geleng: sul mio fondoschiena Federico scrisse “Ho deciso abito qui”».
Giuseppe Patroni Griffi?
«Mi scelse come protagonista femminile di Nata ieri. A dieci giorni dal debutto non sapevo a memoria il copione e lui si arrabbiò moltissimo. Però io sono veloce e infatti la volta dopo lo sapevo alla perfezione. Allora mi minacciò: “Se ti vedo ancora in tv ti sparo alle gambe”. Replicai che se non mi avesse vista in tv non mi avrebbe mai chiamata».
Proposte indecenti?
«Le ho sempre evitate. Se arrivano, e sono arrivate, sta a te girare i tacchi e andartene».
I suoi fan cosa le regalano?
«Fiori, gioielli, madonnine, rosari... Accetto tutto, perché mi sembra di offenderli se li rifiuto».
Dica la verità: nel suo guardaroba c’è almeno una tuta da ginnastica?
«Certo! In casa indosso fuseaux e magliettine».
Prosegue la sua attività di stilista?
«Sì, ho appena firmato una nuova linea da red carpet con Antonio Notaro, per far brillare le donne come le stelle».
Un suo pregio e un difetto.
«Il pregio è che non porto rancore, mi dimentico delle cose brutte, le vivo con distacco. Il difetto, per gli altri, è che sono ritardataria: in realtà voglio fare tante cose».
Cosa piacerebbe fare, che non ha fatto?
«Una bella fiction di donne, tipo Desperate Housewives. La Bond girl di 007: ancora il fisico regge. E poi un film con Ferzan Özpetek e Pedro Almodóvar».
Ma scusi, non li conosce ormai?
«Sì sì».
E non gliel’ha detto?
«Ehh...».
Come stanno i suoi gatti?
«Benissimo. Sono due Chinchillà: Sexy Star e Sua Maestà, il fidanzato».
Si sente più Jessica Rabbit o Marilyn Monroe?
«Mi sento Valeria Marini».
La confessione choc di Valeria Marini: "Cosa mi ha fatto fare mia madre". Novella Toloni il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.
La showgirl ha raccontato il dramma vissuto quando era un'adolescente. Una scelta, quella di abortire, fatta non da lei ma da sua madre, che la Marini oggi ringrazia: "Mi ha cambiato la vita".
Sono rivelazioni importanti e a tratti dolorose quelle fatte da Valeria Marini a Belve, la trasmissione di Francesca Fagnani in onda su Rai Due. La showgirl è protagonista dell'intervista esclusiva, che andrà in onda venerdì 18 marzo e dalla quale trapelano le prime indiscrezioni.
Oltre a ripercorrere le tappe più importanti della sua carriera nel mondo dello spettacolo, Valeria Marini ha affrontato temi importanti a Belve, parlando di episodio dolorosi della sua vita per lungo tempo taciuti. Come l'interruzione di gravidanza subita quando aveva poco più di 14 anni. Un aborto deciso dalla madre, che oggi lei ringrazia. La showgirl ha raccontato di avere vissuto un amore "turbato" quando era un'adolescente, innamorata di un uomo molto più grande di lei, del quale rimase incinta. La gravidanza, però, non è mai stata portata a termine per decisione della madre di Valeria Marini.
"Non sapevo che avrei fatto un'interruzione di gravidanza. Ero molto ragazzina, però mia mamma l'ha fatto proprio per il mio bene perché questo amore che avevo per questa persona era un amore non sano, turbato. Lui era una persona molto violenta", ha confessato Valeria Marini a Francesca Fagnani, nell'estratto dell'intervista anticipato in esclusiva dal portale DavideMaggio.it.
"Ho avuto paura...": la confessione di Valeria Marini
La showgirl di quel periodo doloroso non ricorda quasi niente. L'episodio è stato quasi cancellato dalla memoria come meccanismo di difesa da una sofferenza troppo grossa, ha confessato alla conduttrice quando le ha chiesto: "Quando lei si è svegliata e le hanno detto di avere abortito, cosa ha pensato?". La Marini non ha mai accusato la madre, Gianna Orru, per la scelta fatta. "Sua madre ha deciso per lei, non è stata una violenza?", ha chiesto Francesca Fagnani all'ospite, che ha chiarito: "No, perché mi ha cambiato la vita. Mi ha dato la possibilità di allontanarmi, di non rimanere imprigionata con una persona che non mi amava, che mi faceva del male. Non posso far altro che ringraziarla". Nonostante l'età, Valeria Marini nutre ancora il desiderio di poter diventare mamma. Il passato, anche se doloroso, non le ha fatto perdere l'istinto materno.
Dagospia il 18 marzo 2022. COMUNICATO STAMPA
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti
Valeria Marini non appena si siede sullo sgabello, sollecitata dalle domande delle Fagnani, fa subito luce un aspetto doloroso e inedito della sua storia. Da ragazzina, all’età di 15 anni, ha avuto un’interruzione di gravidanza, ma a sua insaputa, perché la mamma ha deciso per lei: “non sapevo che avrei avuto un’interruzione di gravidanza, sono andata in una clinica privata sì, ero molto ragazzina, però mia mamma l’ha fatto per il mio bene, perché comunque questo amore che avevo per questa persona no era sano, lui era una persona molto violenta, quindi diciamo che è stato un atto d’amore di mia madre.
La Fagnani chiede: ”Ma quando lei si è svegliata e le hanno detto non ha più il suo bambino... ti abbiamo operato, hai abortito... “Ho cancellato dalla memoria” risponde la Marini. “perché ho sofferto molto sia fisicamente sia psicologicamente, sicuramente è stata una cosa che poi mi è rimasta dentro, una ferita, io sono contro l’aborto assolutamente, però ci sono delle situazioni...” Fagnani: ma Il fatto che sua mamma avesse deciso per lei non le è sembrato una violenza”.
Marini risponde con decisione: “No, perché mi ha cambiato la vita, mi ha dato la possibilità di allontanarmi, di non rimanere imprigionata a una persona che non mi amava e mi faceva del male e quindi non posso fare altro che ringraziarla. Più avanti nell’intervista Valeria Marini dichiara il suo desiderio di aver ancora dei figli.
Con un divertente, allegro e spesso malinconico botta e risposta con Francesca Fagnani, Valeria Marini ripercorre tutta la sua vita, dagli esordi al successo del Bagaglino fino ai tanti reality a cui ha partecipato, raccontando degli alti e dei bassi della carriera. Non manca di precisare la sua versione dei fatti sulla famosa lite con Pamela Prati:” sì sì, mi ha graffiato, e porto ancora i segni, ma non voglio parlarne”.
Ritorna al film scabroso girato con Bigas Luna, Bambola, nel quale si svolge la famosa scena delle anguille al cui ricordo Valeria Marini dice:” doveva essere una scena erotica, mamma mia allucinante...Che puzza il pesce”. Spiega poi il suo rapporto d’amore e di dipendenza con la mamma e ricorda nel finale, commuovendosi il rapporto mancato col padre. Insomma, per dirla alla Valeria Marini: una puntata “stellare”.
Valerio Mastandrea compie 50 anni: l’amore per la Garbatella, gli inizi al Maurizio Costanzo Show, 9 segreti su di lui. Arianna Ascione il 14 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.
L’ispettore Ginko di Diabolik, la voce dell’Armadillo di Zerocalcare, i mille volti dell’attore romano nato il 14 febbraio.
Nato e cresciuto alla Garbatella
«Ho 50 anni, ho fatto pace con tante cose, compreso il fatto che recitare è il mio lavoro. Forse smetterò proprio perché ci ho fatto pace». Lo diceva qualche mese fa Valerio Mastandrea al Corriere (il suo compleanno cade proprio oggi, 14 febbraio). Nel corso dell’ultimo anno lo abbiamo visto interpretare l’ispettore Ginko, a caccia di Diabolik nell’omonimo film diretto dai Manetti Bros., e incarnare alla perfezione la voce dell’Armadillo - la coscienza del protagonista - in «Strappare lungo i bordi», la serie animata scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare. Sono soltanto i capitoli più recenti della carriera dell’attore romano nato e cresciuto alla Garbatella («un quartiere a misura d’uomo che conserva una sua identità»), iniziata negli anni Novanta.
Lanciato dal Maurizio Costanzo Show
«A 19 anni ho scritto a Maurizio Costanzo, volevo andare a raccontare i fatti miei. M’hanno chiamato». È iniziata così la carriera di Valerio Mastandrea, che non rinnega le sue prime esperienze televisive al Maurizio Costanzo Show: «Ho toccato con mano le potenzialità televisive. Un passaggio utile a farmi allontanare da quel periodo della vita mia ragionandoci. Avevo fatto il botto, mi sono messo paura, attacchi di panico. Da lì ho cominciato a scrivere e a recitare al teatro Argot di Roma. Era il 1993». In seguito l’attore è approdato quasi per caso alla carriera cinematografica con il film «Ladri di cinema» (1994) di Piero Natoli. Si è fatto poi notare nel 1996-97 grazie ai ruoli di Tarcisio, in «Palermo Milano - Solo andata» di Claudio Fragasso, e di Walter in «Tutti giù per terra» di Davide Ferrario (interpretazione che gli è valsa la Grolla d'oro come miglior attore e il Pardo al Festival di Locarno).
Rugantino
La carriera di Valerio Mastandrea è legata anche ad un importante ruolo teatrale: nel 1998 ha recitato accanto a Sabrina Ferilli e Maurizio Mattioli nella commedia musicale «Rugantino» di Pietro Garinei.
Ha vinto quattro David di Donatello
Il curriculum di Valerio Mastandrea è ricco di pellicole apprezzate da pubblico e critica, come «In barca a vela contromano», «N - Io e Napoleone», «Non pensarci», «Viola bacia tutti», «Tito e gli alieni», «Tutta la vita davanti», «Un giorno perfetto», «Romanzo di una strage», «Perfetti sconosciuti», «Figli». Per le sue interpretazioni l’attore ha ottenuto dieci candidature ai David di Donatello (più una candidatura per il miglior produttore), vincendo per quattro volte: «La prima cosa bella», «Gli equilibristi», «Viva la libertà» e «Fiore».
«Non essere cattivo»
Nel 2015 Valerio Mastandrea ha realizzato il sogno del suo amico regista Claudio Caligari (con cui aveva lavorato ne «L'odore della notte»): ha prodotto «Non essere cattivo», con Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Per riuscirci ha persino scritto una lettera aperta, pubblicata dal quotidiano Il Messaggero, indirizzata al regista Martin Scorsese: «Caro Martino, ti scrivo per una ragione semplice. Tu ami profondamente il Cinema. In Italia c’è un Regista che ama il Cinema quanto te. Forse anche più di te. Certo non basta amarlo per farlo bene, il Cinema, ma questo signore prossimo ai 70 ha avuto poche opportunità per dimostrare il suo valore. Quando le ha avute, lo ha fatto. La sua filmografia fai presto a leggerla: Amore tossico, 1983, L’odore della notte, 1998. Ti scrivo perché, dopo tanti anni di “resistenza umana” alla vita, a questo mestiere e alle sue dinamiche, questo signore ha avuto il coraggio di scrivere un nuovo copione, e di provare a girare un nuovo film». La pellicola, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è stata poi scelta per rappresentare l’Italia nella selezione per il miglior film in lingua straniera per la corsa agli Oscar 2016, ma Caligari non ha potuto godersi il successo: malato di cancro già da diverso tempo è morto poco dopo il termine delle riprese.
Il debutto alla regia
«Il debutto alla regia mi ha fatto venire voglia di fare l’attore per sempre - ha detto, scherzando, al Corriere -. Recitare è uno dei mestieri più comodi che c’è nel cinema di fronte allo stress che si vive a seguire tutta la genesi di un’opera». Il riferimento è al film «Ride», uscito nel 2018. Come regista Mastandrea ha diretto anche due videoclip di Daniele Silvestri, «A bocca chiusa» (2013) e «Scusate se non piango» (2019).
L’amicizia e il sodalizio artistico con Mattia Torre
È un legame fortissimo quello tra Valerio Mastandrea e Mattia Torre, sceneggiatore, drammaturgo e regista morto nel 2019 a 47 anni. Nel 2020, a un anno dalla scomparsa, l’attore ha scritto una commovente lettera all’amico, autore del celebre monologo «I figli invecchiano» (che ha poi ispirato il film «Figli»). Mastandrea, oltre a fare una comparsata in «Boris» (cult ideato da Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo), ha interpretato il protagonista nella serie «La linea verticale», basata sull'omonimo libro autobiografico nel quale lo sceneggiatore ha raccontato la sua esperienza con il tumore che l’aveva colpito.
Vita privata
Per quanto riguarda la vita privata (di cui l’attore ha sempre parlato pochissimo) Mastandrea vent’anni fa ha avuto una relazione con l'attrice Paola Cortellesi, con cui è rimasto in ottimi rapporti (i due sono stati direttori artistici del Quarticciolo, un piccolo teatro nella periferia di Roma, e hanno recitato insieme nel film «Figli» di Giuseppe Bonito). Ha poi sposato l’autrice televisiva e attrice Valentina Avenia, da cui nel 2010 ha avuto il figlio Giordano, e dal 2016 ha una nuova compagna, l'attrice Chiara Martegiani. Dalla relazione lo scorso anno è nato il piccolo Ercole.
La poesia per la Roma
Mastandrea è un acceso tifoso della Roma. Sul tema ha anche composto una poesia dal titolo «L'antiromanismo spiegato a mio figlio».
Valerio Scanu: «Non ho mai voluto dire a tutti che ero gay. Ma ora sposo Luigi, sono felice e lui è gelosissimo». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.
Il cantante e il coming out con l’ingegnere della Sapienza di Roma. «A 20 anni dissi ai miei genitori che ero omosessuale. In passato sono stato legato anche a donne». Le nozze: «A metà strada tra Sicilia e Sardegna, per non scontentare nessuno»
Due telefonini riprendevano tutto: lo sbalordimento di Luigi Calcara davanti all’astuccio aperto con l’anello e la tenerezza di Valerio Scanu che in ginocchio gli chiedeva di sposarlo. In sottofondo, Ti sposerò perché di Eros Ramazzotti. Una sorpresa per tutti. Anche per le fan del cantante maddalenino 32enne, già vincitore del Festival di Sanremo nel 2010, che non aveva mai dichiarato la sua omosessualità.
Valerio, perché ora?
«In realtà ho semplicemente fatto la proposta di matrimonio all’uomo che amo. Non ho mai voluto etichettarmi in un modo o nell’altro, men che meno ho pensato di sfruttare a mio vantaggio un eventuale coming out».
Ha avuto storie con donne?
«Sì, la più lunga di quasi un anno».
E la prima con un uomo?
«A 19 anni, vivevo a Roma. Lui era di origine pugliese».
Ai suoi genitori quando lo disse?
«Ne ho sentito il bisogno a 20 anni. Ho pensato che se portavo nella loro casa una persona era giusto che sapessero quale ruolo ricopriva nella mia vita».
Come la presero?
«Ricordo che il mattino dopo mio padre doveva riaccompagnare all’aeroporto una mia amica. Lei alle 6 lo trovò che piangeva in cucina. Provò a consolarlo: “Non faccia così, tante coppie gay vivono felici”. E lui: “Io piango al pensiero che mio figlio si sia tenuto tutto dentro e abbia temuto di non essere amato da noi”».
A sua madre quando ha annunciato la proposta?
«Dopo averla fatta, sabato sera al compleanno di Luigi: ho mandato il video alla chat di famiglia. Mia mamma mi ha detto che è un passo importante, che bisogna essere sicuri, che lei non lo era ancora dopo anni. Figuriamoci. Per fortuna mia nonna è una donna di spirito e le ha risposto: “Infatti lui ti ha lasciato”».
Oddio, suo padre è mancato due anni fa per il Covid...
«Sì lo so, humour nero. Ma è anche un modo per sdrammatizzare. Va bene così».
La madre di Luigi, invece, come ha reagito?
«Era sorpresa. Ha replicato che dovevamo dirlo insieme al padre. Così lo abbiamo videochiamato: abbiamo un buon rapporto, siamo come il gatto e la volpe, lo prendo in giro dicendogli che l’olio della Puglia è più buono di quello che fa lui in Sicilia. L’ho minacciato che per pagarci il matrimonio dovrà vendere i terreni».
Un siciliano e un sardo dove si possono sposare?
«Lo faremo nel 2023, non abbiamo deciso quando. E sarà a metà strada, per non scontentare nessuno».
Luigi Calcara, 32 anni di Castelvetrano, insegna Ingegneria elettronica alla Sapienza. Come vi siete conosciuti?
«Mi aveva scritto su Instagram commentando una foto a luglio 2020. Ha un profilo privato e siccome non eravamo amici ho trovato il messaggio per caso. Abbiamo cominciato a chattare e il giorno stesso ci siamo conosciuti di persona».
Suo padre ha fatto in tempo a conoscerlo?
«Sì, anche se non sono entrati in gran confidenza, come con mia madre: adesso se Luigi va in Sardegna per un convegno passa a salutarla anche senza di me».
Vivete insieme?
«Un po’ e un po’, abbiamo vite indipendenti. Io ho appena finito di sistemare la mia casa ai Castelli Romani, lui vive a Roma. Credo che anche dopo continueremo a stare da lui in settimana e da me nel weekend».
Chi è più geloso?
«Lui, ovvio! È siculo! Mi diverte provocarlo: “Guarda come mi guarda quello...”. E lui subito cambia espressione».
Che tipo è?
«Riservato, semplice, molto buono. Mi ricorda mio padre: è una persona di cuore, di sani principi».
Litigate?
«Sì, per sciocchezze. Tipo: “Stanotte non mi hai abbracciato abbastanza”, “Ma come fai a dirlo che dormivi?”».
Ha mai seguito una sua lezione all’università?
«Solo quando ha avuto il Covid e ha lavorato da casa. Gli facevo le smorfie per deconcentrarlo. Nemmeno lui è mai venuto a vedere i miei esami; solo alla laurea».
A proposito. Vuole esercitare la professione di avvocato?
«Perché no? Da un mese sto facendo la pratica forense».
E la musica?
«C’è sempre. Vivo di quello. il 7 dicembre al Teatro Roma farò il concerto di Natale. E ho un singolo in uscita».
Da fanpage.it il 28 luglio 2022.
Valerio Scanu si è laureato in Giurisprudenza all’Università Giustino Fortunato di Benevento, con il massimo dei voti. Il cantante, vincitore del Festival di Sanremo 2010 ha festeggiato il suo traguardo da 100 e lode insieme ai suoi amici e alla famiglia alla quale oggi dedica il suo successo: “A babbo e mamma, alla mia famiglia e ai miei affetti, a chi ha sempre creduto in me”, ha scritto a corredo dello scatto con la corona di alloro.
Il processo per diffamazione nel 2018
Solo pochi mesi prima Scanu aveva comunicato ai suoi fan di aver intrapreso un percorso di studi in legge e di essere prossimo alla laurea. In un’intervista rilasciata a Roma Today, aveva raccontato il motivo che lo aveva spinto a voler studiare, ovvero la denuncia per diffamazione che lo ha coinvolto nel 2018.
“Alla fine si è chiusa con un’archiviazione perché è stato dimostrato che quanto avevo sostenuto poteva essere considerato polemico, ma non diffamatorio”, ha chiarito. “Però a quel punto sono nati in me la curiosità e il desiderio di capire sino a che punto avrei potuto spingermi in ambito legale e ho iniziato a studiare”, ha spiegato Scanu che con la pandemia ha iniziato a seguire le lezioni a distanza, in via telematica.
La laurea dedicata al padre scomparso
In questa giornata di traguardi Scanu ha dedicato un pensiero speciale a suo padre morto proprio durante la pandemia. Un periodo difficile e doloroso che nonostante tutto il cantante è riuscito ad affrontare nel migliore dei modi, pensando che il padre sarebbe stato orgoglioso di lui.
La musica continua ad essere la componente principale della sua vita, ma non nasconde che in un futuro prossimo gli piacerebbe mantenere parallelamente l’attività di avvocato: “Mi piacerebbe esercitare proprio a Roma. In passato ho collaborato con diverse associazioni e onlus specializzate in temi sociali, mi piacerebbe continuare a faro nelle vesti di avvocato”.
Antonella Latilla per gossipetv.com il 21 gennaio 2022.
Valerio Scanu ha momentaneamente abbandonato il mondo della musica. A breve il cantante – visto due anni fa a Il Cantante Mascherato – prenderà la laurea in Giurisprudenza. L’artista ha dato l’annuncio in un’intervista a Roma Today: discuterà la tesi tra sei mesi e molto probabilmente intraprenderà la carriera di avvocato. In questo periodo il 31enne è impegnato con il tirocinio, che sta svolgendo al Tribunale Piazzale Clodio.
Valerio Scanu è iscritto dal 2018 all’UniFortunato di Benevento. In cantiere ha una tesi sulla vulnerabilità e l’obiettivo è quello di diventare dottore in Giurisprudenza entro la fine del 2022 sfruttando la sessione estiva. L’ex concorrente di Amici di Maria De Filippi ha spiegato a Roma Today che la decisione di riprendere gli studi è arrivata dopo una denuncia per diffamazione. Scanu ha iniziato a interessarsi alla materia e si è così iscritto all’università.
A quanto pare Valerio Scanu è pronto a cambiare la sua vita dopo la laurea in Giurisprudenza:
“Mi piacerebbe esercitare proprio a Roma. In passato ho collaborato con diverse associazioni e onlus specializzate in diversi temi sociali e mi piacerebbe continuare a farlo anche nelle vesti di avvocato. E poi credo di avere la ‘verve’ necessaria”.
Valerio Scanu oggi ha cambiato vita
Un anno fa Valerio Scanu ha dovuto fare i conti con un terribile lutto: il padre è scomparso a causa del Covid-19. Una morte che ha segnato l’esistenza del vincitore del Festival di Sanremo 2010, che nell’ultimo periodo è stato più volte ospite dell’amica Eleonora Daniele a Storie Italiane.
La pandemia ha indubbiamente penalizzato il percorso musicale di Valerio Scanu. L’ultimo tour risale al 2019 mentre l’album più recente è uscito nel 2018. Nel 2020, prima dello scoppio dell’emergenza Coronavirus, Scanu ha partecipato alla prima edizione de Il Cantante Mascherato di Milly Carlucci.
Nel curriculum di Valerio Scanu anche una partecipazione all’Isola dei Famosi e a Tale e Quale Show. Senza dimenticare le incursioni a Ballando con le Stelle nelle vesti di co-conduttore e il ruolo di giurato al Festival di Castrocaro.
Dopo la vittoria sul palco dell’Ariston con il pezzo cult Per tutte le volte che Valerio Scanu si è ripresentato al Festival di Sanremo nel 2016 con la canzone Finalmente piove ma non è andato oltre il 13esimo posto (quell’anno hanno trionfato gli Stadio con Un giorno mi dirai).
Anticipazione da "Oggi" l'1 ottobre 2022.
«Stanno emergendo posizioni assurde su temi sensibili e diritti che dovrebbero essere ormai acquisiti. Mai avere paura di difendere la propria libertà e quella degli altri, se sono in pericolo o negate». Dalla copertina del settimanale OGGI in edicola da giovedì 29 settembre, Vanessa Incontrada dice perché, dopo essersi trattenuta per anni, ha deciso di dire come la pensa su diritti e politica: «Oggi non ho più paura del giudizio degli altri e delle etichette che ti cuciono addosso. Penso di vivere in una democrazia - o almeno lo spero - in cui non bisogna temere che prendere posizione abbia conseguenze sgradite».
Incontrada, che è cresciuta tra Spagna e Italia, fa anche un parallelo: «La tendenza a creare categorie in cui si pretende di rinchiudere gli altri, omosessuali, extracomunitari, è molto italiana. La Spagna ha fatto su diritti e tolleranza un salto che all’Italia non è riuscito. Ora però anche lì l’aria è un po’ cambiata, credo dipenda dalla crescita di Vox: l’estrema destra ha problemi con la libertà».
Alla vigilia di un anno in cui si dividerà tra tv, teatro e cinema, Incontrada torna anche sulla separazione dal compagno Rossano Laurini: «È un momento di grande riflessione. Ma con lui non si alzerà mai un muro, la nostra storia non sarà mai finita. Abbiamo un figlio, siamo e saremo legati a vita perché avremo sempre un presente».
Renato Franco per corriere.it il 7 settembre 2022.
L’agenda di Vanessa Incontrada non ha buchi liberi da qui a fine 2023. Il via è con i Tim Music Awards (venerdì e sabato su Rai1), Striscia la notizia a ottobre, Zelig a novembre, il teatro, la fiction Fosca Innocenti , un film. «Quello dei Musica Awards è un palco su cui sono a mio agio, sono una festa, non li vivo come l’Oscar della musica, come una gara rigorosa, ma come un premio a chi ha venduto di più. Tra me e Carlo Conti (conducono insieme da 11 anni) si è istaurato un rapporto speciale, lui non è abituato alla coppia, di solito conduce da solo, ma abbiamo trovato un’alchimia magica».
Cosa la colpisce di Carlo Conti?
«La sua capacità di non tradire mai emozioni, dice sempre che è super-tranquillo. Io invece provo sempre l’adrenalina del via, il nervosismo dei primi minuti. Lui sembra impermeabile, è perfetto, molto tecnico, preciso; io cerco di destabilizzarlo con la mia improvvisazione, il gobbo non lo leggo mai. Mi piace mandarlo fuori gioco». Ride. «Se gli devo trovare un difetto dico che è troppo abbronzato».
Con Siani farete ancora coppia a «Striscia»...
«Alessandro sa lavorare benissimo in coppia, non è incentrato su se stesso. Ed è così anche a luci spente, porta ogni giorno dolci a tutti, a tutto lo staff. Se dici che hai voglia di una bottiglia di vino, lui il giorno dopo ne porta quattro. È di una generosità incredibile, sia nel lavoro sia nella vita privata».
Poi «Zelig». Claudio Bisio è un marito mancato?
«Sì, il mio Claudio è proprio un marito mancato. Ci sono cresciuta con lui, tutto quello che so l’ho imparato da lui, abbiamo un rapporto molto intenso, abbiamo vissuto mesi e mesi di lavoro, ci lega un affetto enorme. Professionalmente ha una capacità unica di ascolto — è un dono, mica si impara —, sa essere sempre attento a quello che uno dice, è da lì che arrivano le sue battute. È un improvvisatore nato».
Lei come gestisce la sua popolarità?
«Sembra un paradosso per chi fa il mio mestiere, ma per carattere non cerco di stare al centro dell’attenzione; anche a scuola, da ragazzina, per scelta mi mettevo sempre come ultima della fila. Ovvio che facendo questo tipo di lavoro un po’ di egocentrismo devi averlo, ma ci sono diversi modi di essere egocentrici. Io ho scelto una vita molto diversa, ho preferito vivere in un piccolo centro (Follonica): personalmente mi fa stare più tranquilla sulla mia vita privata, sulla gestione di mio figlio quando viaggio per lavoro; mi piace stare in un ambiente protetto, un posto piccolo, dove conosco tutti. Faccio una vita tranquilla, alle serate di gala non vado perché ci devo essere, ma solo se c’è un motivo preciso. Non bisogna essere per forza onnipresenti».
Tra poco ci sono le elezioni. Una donna potrebbe essere finalmente a capo del governo...
«Giorgia Meloni mi fa molta paura, non amo e non condivido il suo tipo di politica. La manifestazione a cui ha partecipato in Spagna con Vox mi ha scosso molto, perché conosco bene Vox, portavoce di un estremismo di destra per me inconcepibile. Da una donna io mi aspetto libertà, apertura mentale, invece sento discorsi che me la fanno sembrare un politico del 1920. Io credo anche nelle regole, ci devono essere, ma su certi temi — l’aborto, l’inseminazione artificiale, l’adozione, le famiglie che non devono essere per forza uomo-donna — dovremmo essere già avanti, invece percepisco che con un politico come lei retrocediamo. E mi spaventa. Vorrei ascoltare parole di libertà, non solo libertà di parola».
Ida Di Grazia per leggo.it il 27 agosto 2022.
Dopo le polemiche con Valeria Marini, Selvaggia Lucarelli parte all'attacco di un altro volto televisivo, Vanessa Incontrada. Nulla a che vedere con la politica, ma solo una bella stoccata da parte della giornalista nei confronti dell'attrice che le ha mandato dei messaggi che non le sono particolarmente piaciuti.
Selvaggia Lucarelli svela i messaggi ricevuti da Vanessa Incontrada
Vanessa Incontrada è stata spesso attaccata sui social ma anche da alcune testate a causa della suo forma fisica. Bodyshamig in piena regola a cui l'attrice ha risposto sempre con classe e un meraviglioso sorriso raccogliendo il plauso del pubblico e di tanti vip che hanno visto in lei un "paladina" dell'accettazione del proprio corpo.
Anche la Lucarelli si è sempre espressa a favore dell'attrice, fino allo scorso agosto quando la Incontrada è apparsa sulla copertina di Vanity Fair. Secco il commento del giudice di Ballando con le stelle «Sei grassa, no sei magra, “guardatemi nuda, io vado bene così”, no non va bene così, quella copertina è bodyshaming, no è solo una sua foto in costume, e allora io vado in tv e mi mangio una mozzarella così faccio vedere che me ne frego, dai diciamole che è bellissima, ok per la copertina in cui mi dite bellissima, non parliamo più del corpo della Incontrada però mi raccomando parliamo del corpo di Vanessa Incontrada fingendo di parlare d’altro. Posso dire? Questa storia ha rotto il cazz*». Finito qui? Neanche per sogno.
Stando a quanto affermato da Selvaggia Lucarelli nelle sue storie Instragram Vanessa Incontrada l'avrebbe contattata via messaggi chiedendole di non parlare più di lei. Apriti cielo. Selvaggia ha deciso di risponderle a tono utilizzando però le sue storie Instagram: «Siccome dopo anni in cui la difendo, anche in alcuni dei miei libri (non la conosco), recentemente mi sono permessa di scrivere che Vanessa Incontrada, forse, dovrebbe smettere di rispondere a commenti sul suo corpo piazzandosi su copertine che mettono al centro il suo corpo… Perché è comunque alimentare un sistema sbagliato e perverso… Mi succede di ricevere un suo messaggio di spiegazioni confuse (i cui contenuti giustamente tengo per me), che si chiude (questo invece lo dico) con un “gradirei non essere più nominata nei tuoi post”».
Richiesta respinta al mittente con la Lucarelli che prosegue: «Ora , al di là del fatto che non ho ben capito se almeno posso nominarla negli articoli, chiarisco che i giornalisti non sono megafoni buoni solo quando devono lisciarti nell’intervista per l’ennesima copertina vittimistica. Per cui, gentile Vanessa Incontrada, non permetterti di chiedere a un giornalista di non nominarti, se non nei toni che gradisci tu. Non funziona così, dopo anni di luminosa carriera dovresti saperlo. Così come dovresti sapere che alla quarta copertina per dire “non parlate del mio corpo”, parlando del tuo corpo, può succedere che qualcuno a cui magari eri anche simpatica ti dica che ci stai marciando».
«Senza rancore - chiude ironicamente la Lucarelli - però, eh, magari, pensaci su».
Napoli contro il body shaming. Concerto Gigi D’Alessio, la piazza canta “sei bellissima” a Vanessa Incontrada: lei mangia una mozzarella. Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Giugno 2022.
Lei è salita sul palco di Gigi D’Alessio in una piazza del Plebiscito stracolma con un abito aderente a fiori rossi. Nemmeno il tempo di dire “buonasera” che la piazza già cantava “sei bellissima”. È questo l’omaggio che Napoli ha voluto fare a Vanessa Incontrada, un manifesto di quello che i napoletani pensano del body shaming e delle curve. La show girl in settimana è stata nuovamente vittima di polemiche legate alla sua forma fisica. Ma i napoletani non ci stanno e in coro hanno voluto rendere omaggio a quella forma fisica che è appunto “bellissima”.
L’emozionante omaggio è successo sul palco in piazza Plebiscito in occasione del concerto di Gigi D’Alessio per festeggiare i suoi 30 anni di carriera. Incontrada e il cantante hanno lavorato insieme in passato. Anche da D’Alessio è arrivata la solidarietà a modo suo con un simpatico sketch a cui la showgirl si è prestata di buon grado. Quando lui l’ha raggiunta sul palco aveva in mano un piattino di mozzarella che ha offerto alla Incontrada. Lei ha accettato, davanti a tutta la piazza e in diretta su Rai uno, con molta allegria di mangiare le specialità locali, rispondendo ancora una volta con ironia alle polemiche.
La polemica era scoppiata dopo la pubblicazione di alcune foto di Vanessa Incontrada in bikini, al mare a Follonica. Si è scatenata una pioggia di critiche sulla sua forma fisica e anche di chi invece supporta la battaglia che da anni porta avanti contro il body shaming. Non è infatti la prima volta che le succede di trovarsi al centro di commenti sgradevoli per le sue curve molto femminili. Qualche anno fa aveva colpito per un suo monologo in Tv sul fatto che la perfezione non esiste.
“La perfezione non esiste. Esistono le persone, ad alcuni puoi piacere, ad altri no, conta solo quello che pensi di te stessa quando ti guardi nello specchio”, aveva detto Vanessa Incontrada a “20 anni che siamo italiani”, la trasmissione che condusse proprio con Gigi D’Alessio su Rai1. Secondo Incontrada, criticata spesso dai giornali di gossip e dagli haters sui social per le sue forme femminili, ritiene che dovrebbero insegnare il concetto che la perfezione non esiste insieme a quelli basici di “lavati le mani prima di mangiare” e “non dire le parolacce”.
“Io pensavo di dover essere perfetta per trovare l’uomo della mia vita, per piacergli. Alla fine ho trovato un uomo molto speciale, lui, Rossano, mio marito, che mi ha detto una cosa che mi ha fatto molto ragionare: devi sorridere per i tuoi difetti. Ed è vero. E si è preso il pacchetto intero, pregi e difetti. E io ho fatto la stessa cosa con lui”. Se potesse, la Incontrada, conduttrice e attrice di successo, darebbe un consiglio alla se stessa di 20 anni fa: “Smetti di voler essere diversa da quello che sei. Volevo essere un po’ più così, un po’ più cosà…tutti mi volevano diversa. Ma tutti chi? Ho perso tempo cercando di essere giusta, dimenticandomi di essere felice”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Maria Francesca Troisi per mowmag.com l'11 giugno 2022.
Dopo il putiferio mediatico che ha investito il settimanale Nuovo per aver pubblicato, in strillo di copertina, le foto di Vanessa Incontrada in spiaggia a Follonica, con chili superflui e imperfezioni al vento, è Riccardo Signoretti, direttore della rivista, a replicare. E lo fa tramite MOW, rispedendo al mittente tutte le accuse sollevate dagli utenti social. Gli stessi, a onor del vero, che hanno reso le immagini virali, associandole al concetto di body shaming.
E a polemizzare sullo scatto rubato si allega, tra gli altri, anche Selvaggia Lucarelli, che correla, in senso volutamente dispregiativo, il valore di Nuovo al parere del barista sotto casa. Insinuazione a cui Signoretti replica con un secco: "No comment!". Passando poi alla questione principale, ossia l'allusione a foto datate. "Il servizio è del 23 maggio", fa sapere. E reagisce all'accusa: "Sono paparazzate, non è mai successo niente del genere. Se poi non possiamo più immortalarli quando non sono truccati e in posa... Questo è razzismo estetico al contrario...".
Nel frattempo la showgirl italo-spagnola ha limitato i commenti sui post social, segno che non gradisce pareri estranei sul suo aspetto. E pubblicato un nuovo selfie, proprio in versione balneare.
Signoretti, avete suscitato un gran clamore con la foto in bikini della Incontrada…
Sono vent’anni e più che pubblico i personaggi al mare, e non è mai successo niente del genere. Ma l’avete letto l’articolo di Nuovo?
Il servizio fotografico è attuale?
Attualissimo, le foto sono del 23 maggio. E la signora in questione è indubbiamente Vanessa Incontrada, nella foto dove mangia il gelato si nota anche il tatuaggio sul polso. Chiaramente è una paparazzata, non sono foto posate. Ma in vent’anni, ho pubblicato tante foto di questo tipo. Anche di vip a pranzo, con la bocca aperta, e situazioni analoghe. Cosa vi aspettate dalle foto dei paparazzi? Anche i lettori sono consapevoli.
E allora, perché tutto questo putiferio?
Perché l’ho pubblicata anche sui social, e nel momento in cui l’ho postata si sono scatenati, e anche con commenti violenti e offensivi contro di me, di un livello inimmaginabile. Con realtà che vengono capovolte solo per confermare il falso.
Come interpreta la foto social, di qualche giorno prima, in cui appariva più asciutta?
Mi limito a commentare il mio…
La Lucarelli sostiene che il vostro settimanale vale come il parere del barista sotto casa. Come risponde?
No comment. Non mi interessa, se dovessi dare importanza a tutti i pareri che leggo…
E come replica all’accusa di body shaming?
Prima di tutto preciso che non è una copertina, ma uno strillo di copertina. Tornando al nostro giornale, il suo tema cardine sono i sentimenti, la vita di coppia dei vip, in cui anche i lettori possono identificarsi. E quindi abbiamo messo in luce il rapporto in crisi della conduttrice col compagno Rossano Laurini. Siccome la Incontrada era al mare da sola, le foto hanno significato in questa direzione, ossia avvalorare la sua nuova condizione da single, “prima estate da single”. E l’articolo verte proprio su questo, anzi compaiono anche le sue dichiarazioni sull’importanza dell’accettazione di sé. Quindi il messaggio è più che positivo. Se poi non si possono più pubblicare persone al mare che non sono truccate, pettinate, e perfettamente in posa, allora diventa razzismo estetico al contrario. E diciamo agli stabilimenti balneari che le persone in sovrappeso non possono più accedere? Vogliamo arrivare a questo? Sottolineo infine che l’accusa di body shaming è un reato, come incolpare di furto, omicidio e simili.
Ed è proprio l’accusa di body shaming che ha reso le immagini virali.
E certo, hanno fatto tutto loro, mica io. La solita imitazione del web, tizio scrive un commento, e gli altri seguono a ruota, anche senza sapere. Ma in questo stesso numero ci sono anche altri personaggi al mare, è davvero inspiegabile quanto successo per lei. Per restare in tema spiaggia, un polverone inutile.
Da repubblica.it il 9 giugno 2022.
La rivista di gossip Nuovo pubblica in copertina la foto di un paparazzo di Vanessa Incontrada in spiaggia a Follonica sollevando molte critiche per la scelta di uno scatto che oltre ad essere rubato, come spesso accade in questi casi, è al limite del body shaming. E c'è chi pensa che non sia neppure l'attrice.
La conduttrice e attrice in passato si è molto battuta contro contro i pregiudizi nei confronti del suo aspetto fisico che è cambiato dopo la gravidanza. Incontrada ha scelto di sfilare per la casa di moda Elena Mirò (nata negli anni Ottanta come stilista per le "taglie forti") ed è stata protagonista di un commuovente e potente monologo sull'accettazione in cui invitava le donne a smettere di sentirsi inadeguate. "Sei una ragazza? Devi essere magra, bella, perfetta, altrimenti diventi un bersaglio per offese e sberleffi, diventi "una grassa", come fosse un marchio infamante.
E tu? Tu vivi nella paura di essere sbagliata. Sono cose che conosco e che per fortuna ho superato. Per questo mi sono detta: basta, adesso voglio dire la mia". Iniziava così il monologo su Rai 1, nel programma 20 anni che siamo italiani con Gigi D'Alessio, nel dicembre del 2019.
Questa scelta di impegno su un tema così importante soprattutto per le ragazze più giovani le ha sicuramente attirato la stima e il sostegno di tanti sui social ma non l'ha resa esente da critiche. Sul suo profilo Instagram qualche giorno fa ha pubblicato uno scatto mentre corre con il messaggio "Avanti tuttaaaaaaa". Sotto quel post c'è stato chi ha fatto dell'ironia e chi invece ha continuato a sostenerla. "Criticarla perché corre... - ha scritto un follower - Fare un po' di sport è salutare per corpo e mente, e non tutti diventiamo atleti fisicati che devono fare le olimpiadi. Fermiamoci qui senza andare oltre. Brava Vanessa!”.
Valeria Arnaldi, Elena Gadeschi per leggo.it il 10 Giugno 2022.
Vanessa Incontrada immortalata in bikini a Follonica, ma lo scatto suscita le polemiche. La conduttrice televisiva è stata fotografata in un momento di relax in vacanza ed è finita sulla prima pagina del settimanale Nuovo. Lo scatto rubato però, secondo alcuni, sarebbe al limite del body shaming. Le immagini non renderebbero giustizia a Vanessa spesso criticata per la sua fisicità.
D'Agostino: «Sbagliato drammatizzare, dobbiamo ritrovare il sorriso»
Uno scatto «ai limiti del body shaming», così alcuni hanno definito la foto di Vanessa Incontrada pubblicata sulla rivista Nuovo. Roberto D’Agostino cosa ne pensa?
«La celebrità porta gloria e a volte anche qualche problema. Non si può avere la moglie drogata e la siringa piena. Essere personaggi di rilievo mediatico fa sì che ogni tanto ci si riveda pure in foto nelle quali si sbadiglia, ci si gratta la testa e via dicendo. Rientra nelle regole del gioco. Poi, certo, qualcuno esagera su certe smagliature della vita e anche dei fianchi».
Talune foto, però, sembrano fatte appositamente per dare una brutta immagine del soggetto ritratto.
«Non credo. Non si cercano foto brutte».
Il body shaming, dunque, non è nelle immagini ma soltanto nei commenti?
«Una volta la gente faceva battute pesanti al bar nella piazza del paese e rimanevano lì, oggi la piazza è digitale. Ci sono tanti che non hanno nulla da fare o hanno bisogno di distruggere ciò che amano. Sono cose che vanno viste come goliardia, malcostume, idiozia o quant’altro, ma senza farne una tragedia. Bisogna smetterla di drammatizzare tutto. Si devono affrontare questi episodi con il sorriso. Una foto brutta su un giornale? I giornali vivono quel giorno e muoiono la sera. Non conta un rotolo in più alla vita. I problemi dell’esistenza sono altri».
Collovati: «Non mi piace il termine body shaming, ma quella foto è brutta»
Una foto ingenerosa dell’attrice spagnola, paparazzata in bikini in una situazione che non rende giustizia alle sue forme, al punto che in molti hanno stentato a riconoscerla. Caterina Collovati, il tema del body shaming non finisce mai?
«Mi ha colpito, non è una bella foto. Si poteva evitare. Ma “body shaming non” è un termine che non mi piace utilizzare. Di certo se non vuoi fare del male a una persona quella foto non la metti. Usciamo dall’ipocrisia di piacersi a tutti i costi, quello scatto non piacerebbe a nessuno».
Si dice di voler normalizzare il corpo femminile in tutte le sue forme e poi ci si scandalizza quando accade, perché?
«Il rispetto deve esserci sempre, a maggior ragione per le donne, spesso bersaglio sui social. Ma non bisogna nemmeno esagerare nel dire che chi è sovrappeso si piace a prescindere perché sono convinta che non sia vero».
In che senso?
«Dimagrire poi è anche una questione di salute e ammetterlo è una forma di attenzione verso le nuove generazioni: facciamo di tutto per migliorare l’alimentazione nelle scuole e poi colpevolizziamo chi vuole tenersi in forma?».
Vanessa Incontrada, "non è lei", colpo di scena sulla foto in spiaggia: cosa ha scoperto Deianira Marzano. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.
Le foto di Vanessa Incontrada, che è sulla copertina del settimanale Nuovo diretto da Riccardo Signoretti, fanno molto clamore. In pratica, di lei si parla molto spesso negli ultimi giorni dopo la posa al mare, in bikini a prendere il sole. E sui social accade di tutto. Una parte del web si sarebbe indignato per la scelta di "sbattere" in prima pagina quelle foto in cui la Incontrada - che è sempre una bella donna.
Qualcuno in Rete, sicuramente esagerando, dice: “Non è lei”. Deianira Marzano, influencer, ipotizza che addirittura quella in foto non sia lei: “Vergognoso che un settimanale sbatta in prima pagina l’immagine di una donna al solo scopo di mostrarne il corpo per la sua rotondità con la scusa del ‘Follonica’. Vergogna. Tra l’altro questa in copertina non è lei ma sembrerebbe l’attrice Kirstie Halley.” Ma la Marzano prende una gigantesca cantonata perché un settimanale così importante come Nuovo non sbaglierebbe mai. Mai. Più facile immaginare che possa sbagliare un'influencer rispetto ad un professionista della comunicazione.
Solo poche settimane fa la Incontrada aveva confessato ungrande doloreper la scomparsa dei suoi amati cani, che poi sono stati ritrovati sani e salvi. Dopo il caos sui social per quelle foto, invece, la Incontrada preferisce non commentare. Ed anche gli haters dovrebbero stare zitti. Oppure dovrebbero usare il cervello.
"Non è lei". La foto di Vanessa Incontrada fa esplodere la polemica. Novella Toloni il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'attrice spagnola è stata pizzicata dai paparazzi al mare in un momento di relax. Ma la foto finita sulla copertina di una nota rivista di gossip ha scatenato un putiferio.
Se l'intento era quello di fare discutere, allora il settimanale Nuovo ha colpito nel segno. La foto di Vanessa Incontrada in bikini, mentre si gode una giornata di relax sulla spiaggia di Follonica, ha scatenato un'ampia discussione sul web su cosa sia opportuno o meno pubblicare. Le sue forme generose sono finite in prima pagina e hanno provocato una serie di reazioni tra gli utenti dei social network.
La popolare rivista di gossip ha dedicato la cover story a Vanessa Incontrada che, in una pausa dalle riprese della fiction "Fosca Innocenti 2", si è concessa una giornata al mare con il figlio. "Primo sole per Vanessa Incontrada. - si legge nell'anteprima del servizio pubblicata su Instagram dal direttore Riccardo Signoretti - L'attrice di Barcellona approfitta di una pausa dalle riprese di Fosca Innocenti 2 per mettersi in bikini nella sua Follonica. Col caldo che fa, Vanessa cerca un filo di brezza sul bagnasciuga. E ricomincia dopo la crisi con Rossano Laurini, padre di suo figlio".
Ad attirare l'attenzione del pubblico è stata, però, la foto scelta. Uno scatto "rubato" dell'attrice che mostra le sue forme generose. Lei non ha mai fatto mistero di amare il suo corpo, cambiato nel tempo anche per le gravidanze, ma la foto in cui Vanessa Incontrada si mostra in costume ha scatenato le polemiche: "Questa foto non le rende giustizia!", "L'ho vista da poco non è assolutamente così!! È morbida femminile, piena di curve genuine.. affascinante per il suo sorriso unico per la sua eleganza ed educazione.. forse sarà uno scatto riuscito male", "Scatto impietoso per fare parlare. Lei rimane bellissima".
Le lacrime e l'appello sui social: cosa è successo a Vanessa Incontrada
E se da un lato qualcuno parla di bodyshaming, dall'altra c'è chi crede che quella nella foto non sia davvero lei: "Non è l'Incontrada! Vergogna", "Non è Vanessa, aggiornatevi", "Lei non è così e anche se fosse io la trovo bellissima". Mentre altri hanno difeso l'attrice trovandola molto femmile e sempre affascinante, la polemica ha aperto una discussione su quanto l'aspetto esteriore conti oggi sia quando si è troppo magri sia quando si è in sovrappeso.
Pochi giorni fa, infatti, sull'account della Incontrada si era scatenata una polemica opposta. L'attrice aveva pubblicato una foto, nella quale si mostrava in un momento di allenamento, decisamente più magra rispetto alle ultime apparizioni. Se la foto sia vecchia (come ha ipotizzato qualcuno) o recente poco importa. Anche in quell'occasione il popolo del web si è diviso. Da una parte alcuni l'hanno elogiata per essersi rimessa in forma, dall'altra l'hanno critica per avere ceduto a chi le diceva di dimagrire, "tradendo" la sua natura curvy. Insomma, come la fai la fai, sui social si è sempre criticati.
Le lacrime e l'appello sui social: cosa è successo a Vanessa Incontrada. Novella Toloni il 6 Giugno 2022 su Il Giornale.
Nelle scorse ore l'attrice è apparsa in lacrime su Instagram, chiendendo aiuto ai follower toscani per ritrovare i suoi due golden retriever scappati da casa.
"Non riusciamo a trovarli, se li vedete o qualcuno li vede vi prego di richiamarmi". Con queste parole Vanessa Incontrata ha chiesto aiuto ai suoi fan sui social network per ritrovare i suoi cani - due Golden Retriever - scappati dall'abitazione di Follonica domenica pomeriggio. E è proprio grazie al tam tam scatenatosi sul web che l'attrice spagnola è riuscita, alla fine, a ritrovare i suoi due cani.
Tutto è cominciato nella tarda mattinata del 5 giugno, quando Vanessa Incontrada ha pubblicato nelle storie del suo profilo Instagram alcuni video, nei quali è apparsa visibilmente provata e in lacrime. Nei filmati l'attrice chiedeva aiuto ai suoi follower per ritrovare Zilik e Tokio, due esemplari di Golden Retriever, che si erano allontanati dall'abitazione in cui l'attrice vive insieme al compagno e al figlio a Follonica sul litorale toscano.
"Ho un'emergenza e non potevo non usare Instagram - ha esordito la Incontrada facendo il suo appello - ho perso i miei cani non riusciamo più a trovarli. Chi li vede ci chiami. Sul collare ci sono i nostri numeri". Il popolo del web si è immediatamente mobilitato e mentre l'attrice perlustrava le zone vicino alla sua abitazione, il follower facevano girare il video per aiutare a diffondere la notizia e aumentare le probabilità di un ritrovamento, che è avvenuto ore dopo.
Vanessa Incontrada diventa vicequestore
In serata Vanessa Incontrada è tornata sulla piattaforma social per parlare con i suoi seguaci e informarli della buona notizia: "Finalmente sono stati ritrovati dopo ore. Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato a cercarli. Li ho ritrovati molto stanchi e provati erano a più di cinque chilometri di distanza da casa". L'attrice spagnola ha voluto ringraziare tutti coloro che l'hanno sostenuta e aiutata nelle ricerche, in particolare la coppia che ha trovato i due Golden Retriever a svariati chilometri di distanza da casa. "Un grazie speciale va a loro che li hanno trovati e che mi ha telefonato subito. Grazie di cuore, finalmente ora respiro", ha concluso Vanessa Incontrada dopo avere cancellato i video dell'appello pubblicato poche ore prima in cui chiedeva aiuto.
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 6 giugno 2022.
“Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai. Tu sempre pietre in faccia prenderai” cantava Antoine nel 1967. E nel 2022 possiamo dire che aveva già capito tutto. Una sorta di evoluzione post-ideologica (o post-religiosa) – e decisamente più pragmatica - del monito di Gesù “chi tra voi è senza peccato scagli la pietra per primo”. Oggi che nessuno è più convinto di peccare, ma tutti di avere ragione, le pietre vengono scagliate a ripetizione e con la velocità di un click attraverso i social e il risultato, spesso, è traumatico tanto quanto nella realtà.
Se ne sta accorgendo in queste ore Vanessa Incontrada, la showgirl italo-spagnola che lo scorso anno è diventata un simbolo del body positive dopo la copertina in total nude su Vanity Fair dove, con orgoglio, non nascondeva qualche chilo in più. L’attrice e presentatrice, nonostante fosse incontestabilmente bella, brava e simpatica, da quando si era presentata in pubblico con una silhouette un po’ arrotondata, lamentava di essere vittima di body shaming e, anche per questo, si era prestata allo shooting senza veli sul noto settimanale. Il body positive, d’altronde, è un movimento sociale incentrato sulla promozione dell'accettazione di tutti i corpi a prescindere da taglia, forma, colore della pelle, genere e abilità fisica, e sul contestare gli standard di bellezza attuali come un “valore” sociale da abbandonare. Tutto bene, tutto politicamente corretto, tutto in trend positivo. Peccato che...
Peccato che nelle ultime ore, la stessa Vanessa Incontrada sia stata investita da un’altra pioggia di critiche sui social, ma per il motivo esattamente opposto: perché si sta allenando per rimettersi in forma. È bastata una foto che la ritrae mentre fa jogging a Follonica, decisamente più asciutta rispetto al passato, e con una didascalia motivazionale (“Avanti tuttaaaaaaa”), per scatenare un cortocircuito dello stesso movimento che l’aveva scelta come nuova icona. Migliaia i commenti, molti dei quali la accusano di aver tradito i “valori” del body positive predicati fino a poco tempo fa: “Alla fine stanno manipolando anche te con la storia del peso? - scrive una follower - io ero felice xke almeno tu eri una di noi ‘normale’ … Invece oggi .. ti vedo in questa foto a cercare di essere più magra xke lo dice lo stereotipo televisivo …”.
E tra un “brava”, “bella” e “simpatica”, caratteristiche che da sempre la caratterizzano – chilo più o chilo meno -, è anche tutto un profluvio di delusione per la decisione di “non accettarsi” così com’era: “Ecco un altra persona perseguitata che deve stare alle regole. Alla fine vincono sempre i doveri. Nessuno può essere com'è. Devi essere” scrive un’altra che si sente “tradita” dalla svolta salutista della showgirl, alla quale fa eco chi la taccia persino di essere stata disonesta: “Diceva di stare bene con qualche chilo in più e invece sta facendo di tutto per ritornare magra... evidentemente predicava bene e razzolava male...che delusione...”.
Per ora la Incontrada non ha risposto direttamente alle critiche, se non pubblicando un’altra foto in primo piano dove scrive “Eterna giovinezza”. Sarà un segnale? Come a dire: io so’ sempre io, e voi nun siete un ca**o. Chissà. Di certo, come in passato, se le critiche per il suo nuovo look proseguiranno potrebbe decidere di parlarne pubblicamente. Ma le consigliamo, qualunque cosa farà, di non dimenticare l’insegnamento del filosofo più sottovalutato della storia, il cantautore Antoine, che infatti nel brano che lo ha consegnato all'immortalità concludeva: “Tu sei bello e ti tirano le pietre. Tu sei brutto e ti tirano le pietre. E il giorno che vorrai, difenderti vedrai, che tante pietre in faccia prenderai!”.
Vanessa Incontrada diventa vicequestore. La crisi matrimoniale con l’imprenditore. Maria Volpe su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022.
L’attrice dall’11 febbraio su Canale 5 è protagonista della fiction «Fosca Innocenti» con Francesco Arca.
Vanessa diventa Fosca
Vanessa Incontrada attrice molto amata sia negli show che nelle fiction, questa volta è protagonista di una miniserie «Fosca Innocenti» - in onda in prima serata su Canale 5 dall’11 febbraio - dove interpreta un vice questore che ha un fiuto speciale per le indagini. E non in senso metaforico, ma proprio letteralmente: ha un olfatto molto sviluppato e ogni odore che percepisce diventa subito un indizio chiave per le indagini in corso...Un genere crime, leggero: Fosca deve risolvere una serie di situazioni intricate, con il suo carattere indipendente e ironico. Tutta la sua squadra è composta da donne, c’è un solo maschio, Cosimo (il bel Francesco Arca), migliore amico di Fosca e titolare di un’enoteca vicina al commissariato. E tra i due sembra esserci del tenero... Il vicequestore Fosca, proprio come Vanessa ama la campagna, infatti vive all’interno di un casolare e durante il tempo libero adora dedicarsi alle passeggiate a cavallo.
Vanessa e l’indiscrezione sulla fine del matrimonio
Tra Vanessa Incontrada e Rossano Laurini è finita? L’indiscrezione è del settimanale «Diva e Donna» che ha scritto che dopo 15 anni d’amore e Isal, il figlio di 13 anni, l’attrice e l’imprenditore, si sarebbero allontanati, pare definitivamente. Sembra che la crisi sia cominciata con il primo lockdown, passato nella loro casa di campagna a Follonica. Nessuno dei due conferma o smentisce. L’unico indizio è che sui loro profili social non appaiono più insieme da tempo.
Una passione intensa nata 15 anni fa
L’inizio dell’amore tra Vanessa e Rossano fu al centro di qualche gossip. Lui era legato a Chiara Palmieri, madre di sua figlia Diletta, e grande amica di Vanessa. Nonostante l’amicizia tra le due donne, la passione vinse su tutto, ed effettivamente il legame tra Estrada e Laurini si trasformò presto in un solido e grande amore. Ai tempi, Vanessa venne accusata di essersi intromessa nel matrimonio dell’amica Chiara, ma nel 2011 in un’intervista spiegò con chiarezza: «L’amore non si ruba. Le uniche due cose della vita che non possiamo controllare sono l’amore e la morte. È così l’amore. Bello perché imprevedibile».
Lui in vacanza alle Maldive con i due figli
Come sempre i social, ci raccontano molto delle vite delle star e delle loro famiglie. Sul profilo Instagram di Rossano vediamo splendide foto del mare delle Maldive dove lui si sta godendo i suoi due figli: Diletta, la primogenita avuta da Chiara, e Isal avuto da Vanessa. Dell’attrice spagnola invece non c’è traccia nè nelle foto, nè nei commenti. In compenso sul profilo Instagram della Incontrada possiamo leggere messaggi tipo: «Risparmia i tuoi sentimenti per qualcuno a cui importi». Chissà se pensava a qualcuno in particolare mentre scriveva...
La somiglianza con il figlio
Vanessa Incontrada, molto riservata, è sempre attenta a non sovraesporre il figlio Isal. Tuttavia, qualche volta, le piace condividere immagini del suo bambino, ormai ragazzo, con i suoi follower. E, in ogni scatto, è del tutto evidente, l’amore e la complicità che li lega, e la straordinaria somiglianza fisica. Stesso sguardo, stesso sorriso. Il desiderio dell’attrice è sempre stato quello di far crescere suo figlio in un ambiente più normale possibile: per questo Vanessa ha deciso di lasciare il caos della città per vivere a Follonica. Ed è qui che Isal - che mamma talvolta chiama «il mio principe» - frequenta la scuola media.
La lotta al bodyshaming
Fece tanto parlare (soprattutto in positivo) la copertina dove Vanessa appariva senza veli su Vanity Fair. Una foto che aveva un significato molto preciso. Quella copertina voleva essere il simbolo della bodypositivity. Ed era frutto di un percorso cominciato una decina di anni prima per combattere quello che oggi si chiama bodyshaming ovvero la presa in giro del corpo (quasi sempre delle donne). Quando dopo la nascita di suo figlio Isàl - nel 2008 - in molti hanno iniziato a prenderla di mira per il peso: veniva definita «fuori forma», se non «grassa». Lei spiegò a Vanity fair che con la maternità si trasforma il proprio corpo . E disse: «Ero delusa e disorientata: ma perché essere così cattivi?». Da allora cominciò la sua lotta al bodyshaming
Elogio dell’imperfezione
Siamo nel 2019 e Vanessa dopo anni di «lotte» contro chi chiede la perfezione del corpo delle donne, propone in tv un monologo rimasto impresso nella memoria di tutti . Un vero elogio all’imperfezione. «La perfezione non esiste e so che non dico una grande novità. Ma io lo voglio dire, lo voglio urlare». Così si apriva il monologo nella prima puntata di «20 Anni che Siamo Italiani», il varietà di Rai1 condotto con Gigi D’Alessio. Continuava così: «Magari l’avessero detto prima a me, sapete... Bisognerebbe inserirlo tra i primi insegnamenti che ci danno: lavati le mani prima di mangiare, non dire le parolacce, la perfezione non esiste. Sai quanto tempo perso a cercarla... E’ come in amore: io pensavo di dover essere perfetta per trovare l’uomo della mia vita, per piacergli, per farlo innamorare di me. Alla fine ho trovato un uomo molto speciale, mio marito, Rossano. Mi ha detto una cosa che mi ha fatto ragionare molto: “Devi sorridere per i tuoi difetti”». E ancora: «A volte vorrei parlare alla Vanessa di 20 anni fa e vorrei darle un consiglio: Vani, smetti di voler essere diversa da quello che sei. Perché tanto la perfezione non esiste. Io volevo diventare ciò che non sono, tutti mi volevano diversa. Tutti. Ma tutti chi? Ho perso tempo a cercare di essere giusta, dimenticando di essere felice. Perché pensavo di essere sbagliata agli occhi degli altri. Se fossi nata negli anni ‘30 o negli anni ‘50, quando il modello femminile era morbido, sarei stata perfetta. Però vivo nel 2000 e avere le forme è ritenuto sbagliato. E per questo dovrei vergognarmi? Adesso riesco a sorridere, ma non è sempre stato così. Perché a volte le critiche feriscono». E infine, commossa: «Esistono le persone, ad alcuni puoi piacere e ad altri no. Conta solo quello che pensi di te stessa quando ti guardi nello specchio: beh io sono molto orgogliosa di quello che vedo. A volte mi piaccio, a volte no. Ma voglio bene alla persona che ho di fronte e penso sia importante circondarsi di persone che ci vogliono bene per quello che siamo e che ci spingono ad essere noi stessi. Perché tanto, nella vita, la perfezione non esiste».
Gli esordi e la coppia televisiva con Bisio
Vanessa Incontrada nasce a Barcellona il 24 novembre 1978: padre italiano, Filippo Incontrada (romano della Garbatella di origini napoletane, e madre spagnola, precisamente catalana, Alicia Soler Noguera, cresce fra Barcellona e Follonica. Inizia la carriera di indossatrice all’età di 17 anni e nel 1996 si trasferisce a Milano, dove continua a lavorare come modella. Nel 1998 esordisce in televisione con il programma musicale Super in onda su Italia 1 e da lì è in continua attività sul piccolo e grande schermo, tra show e film impegnati, fiction televisive e teatro. Un programma tv a cui è legata e che le ha dato grandissima notorietà è stato certamente «Zelig», grazie anche alla fortissima complicità artistica che la lega a Claudio Bisio.
· Vanessa Scalera.
Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 14 novembre 2022.
«L'Italia è un Paese che fa invecchiare i talenti». A dirlo - ma soprattutto a viverlo sulla propria pelle - è Vanessa Scalera, la star della serie tv Imma Tataranni: un'attrice carismatica, che ora tutti si contendono (per dire, Sky l'ha assoldata come super villain nel film d'avventura I viaggiatori, in onda il 21 novembre su Sky Cinema) ma che prima nessuno si filava. Cinema e tv l'hanno infatti scoperta quando la nostra aveva ormai superato i 40 anni. Quindi, sì, tardi. E lo ammette persino lei, tanto che, tra il serio e il faceto, assicura: «Io sono una Sestrieri dell'arte».
La Sestrieri è il sopracitato cattivone del film I viaggiatori: una ricercatrice anziana, visionaria e geniale, in grado addirittura di costruire una macchina del tempo, ma che nonostante tutto è incompresa dalla propria epoca. A un passo dal successo vogliono infatti chiuderle il laboratorio. La nostra quindi torna indietro nel tempo, alla Roma fascista del 1939. Qui conosce Mussolini e ottiene i suoi favori.
Certo, il Duce non è esattamente la reference dei suoi sogni ma almeno la valorizza (o così lei pensa). «La Sestrieri è l'emblema del nostro Paese dove i quarantenni sono i nuovi giovani... capite bene che qualcosa non quadra», spiega, ribadendo che viviamo in una società dove «la bravura non viene riconosciuta o, se accade, succede molto tardi quando ormai è già depressa. Perché anche il talento invecchia».
L'attrice ne sarebbe l'esempio vivente: «Ho iniziato a recitare nel '96 vivendo in pieno il ventennio Berlusconiano che ha affossato culturalmente questo Paese. Il teatro era in mano a pochi, anzi a pochissimi. Ho avuto difficoltà enormi a entrare negli Stabili - infatti non ci sono entrata- così come a recitare perché lavoravano sempre gli stessi. E dire che film e prodotti tv erano davvero brutti a quei tempi...».
Il clima era tale che Scalera arrivava sul palco «già depressa, sostenendo così dei pessimi provini». Poi c'è stata la svolta con il film Lea di Marco Tullio Giordana e, soprattutto, con la fiction Imma Tataranni: «Un colpo di fortuna? No, ho trovato un regista che credeva in me». Il che dovrebbe essere il minimo sindacale, nel mondo dello spettacolo, invece... «Sento di avere un passato che ribolle perché non ho potuto esprimere fino in fondo la mia vivacità di attrice». Adesso comunque sta recuperando con gli interessi: oltre alla svolta dark in I viaggiatori, l'abbiamo vista in Romulus e prossimamente sarà nella serie tv Avetrana-qui non è Hollywood e nel film tv Filumena Marturano.
L’attrice Vanessa Scalera: «Io famosa dopo i 40 anni, ho sfatato un mito del cinema». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.
La protagonista di «Imma Tataranni» è tra i tanti volti che si alterneranno a «Fuoricinema», in programma al parco Biblioteca degli alberi dal 9 all’11 settembre
«Non ho avuto nessuna folgorazione particolare, semplicemente, fin da piccola, sentivo di volermi esprimere su un palcoscenico». E dire che Vanessa Scalera — attrice la cui fama è esplosa con la serie Rai Imma Tataranni, ospite della settima edizione di Fuoricinema, in programma da oggi a domenica al parco Biblioteca degli alberi, a Milano — non è cresciuta a pane e teatro: «Vengo da un paesino in provincia di Brindisi dove non esiste un cinema e il teatro c’è ma è chiuso. Non ho avuto un humus fertile, ma da quella aridità è nata la mia curiosità e la mia voglia di conoscere qualcosa che puoi solo desiderare».
Trasformare una passione in desiderio non è però un’equazione: «Affatto. E sapevo bene, fin dall’inizio, che il mio è un mestiere fatto di alti e bassi: ci sono mesi di vuoto lavorativo, ma avevo messo in conto che avrei dovuto penare un po’. E poi è arrivato il grosso picco». Il riferimento è alla serie in cui interpreta il sostituto procuratore: «Mi ha dato la possibilità di esplodere e farmi conoscere a un’età in cui si pensa che un’attrice, ormai, non lo possa più fare». Scalera è nata nel 1977 e «Imma Tataranni» ha debuttato nel 2019. «Ho sfatato un mito. Negli anni Duemila — anni in cui in generale il talento faticava ad emergere — si diceva che se non sfondavi dai venti ai trent’anni non era possibile succedesse dopo. Invece... Devo dire però che non ho mai proiettato il mio percorso nel futuro, ho sempre badato all’oggi, al massimo al domani, pensando non a diventare famosa ma a poter campare di questo mestiere».
Per arrivare a questo ruolo ha fatto «sei provini. Il regista, Francesco Amato, mi ha fortemente voluta e ha convinto anche gli altri. Avevo beccato delle corde del personaggio e intercettato la sua visione... quando convinci un regista te ne accordi subito, gli cambia di colpo lo sguardo». E quando non succede? «Sono tantissimi i provini andati male e, anche lì, lo capisci dalla prima battuta. Questo personaggio ha cambiato le cose: se entri in casa del pubblico da sconosciuta e piaci, beh quella è la cosa più bella del mondo». Anche se la fama non è andata di pari passo con la riconoscibilità: «Quella di Imma è una maschera, io sono molto diversa da lei, non ho quei colori. Però poi sono arrivati anche tanti altri ruoli e le persone hanno iniziato a capire chi fossi».
Se deve dire grazie a qualcuno, sceglie Marco Tullio Giordana: «Con lui ho avuto la possibilità di fare la prima protagonista della mia vita, in Lea. Era la prima volta che qualcuno credeva in me e, facendolo, mi ha lasciato una grossa eredità. Dopo tanta fatica un grande maestro mi stava dicendo: io mi fido di te. Gli devo tanto». Un altro stereotipo abbattuto è quello che divideva il cinema dalla tv. «Ormai anche i più grandi registi sbarcano sulle piattaforme, non ha senso creare divisioni». Vorrebbe lavorare con qualcuno di loro? «Più che altro vorrei leggere sceneggiature belle... e poi magari farle». E ne ha lette? «In effetti si... e per fortuna le sto anche facendo».
Chiara Severgnini per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022.
Vasco Rossi è unico, ma l'Italia pullula di Vaschi. Al plurale. Uomini che fanno Vasco, a vario titolo: imitatori, sosia, fan passati dall'idolatria all'emulazione, cantanti di cover band che conoscono il suo repertorio a menadito. Non usurpatori, né macchiette, ma tributi umani, viventi e consapevoli, a un uomo che per loro non è solo un grande interprete o un vip, ma molto di più.
«Vasco è il nostro Elvis», sintetizza Ray Banhoff, insegnante e fotografo, autore del libro Vasco dentro (Crowdbooks). Nessuno conosce i Vaschi meglio di lui, che tra 2016 e 2019 ha girato l'Italia per ritrarli. «Ho iniziato con i cantanti delle cover band - racconta - poi ho incontrato anche persone che si vestono come Vasco ai concerti o nel quotidiano. Per alcuni è un lavoro, per tutti è un'ancora di salvezza se non una missione. Loro vivono nei suoi testi, sono i suoi apostoli». Se i Vaschi - per professione o per hobby - sono così numerosi è merito della musica. Ma non solo.
«Agli esordi Vasco veniva snobbato», ricorda Banhoff, «c'era chi lo considerava un modello negativo. Ma lui ha continuato a raccontare emozioni a modo suo e ha conquistato tutti, tanto che oggi è un'istituzione. E, riscattandosi, ha riscattato anche i diversi come lui, quelli che, molto prima dei musicologi, hanno saputo vedere l'uomo saggio dietro l'aspetto un po' sconvolto del Vasco delle origini».
Saverio Amato, 53 anni, è uno di loro. Lui ha scoperto Vasco a 12 anni, quando l'ha sentito cantare Vado al massimo a Sanremo, nel 1982. «Ce l'ho scolpito nella memoria.
Ho capito subito che la sua musica sarebbe stata la colonna sonora della mia vita», racconta. Amato si definisce «trasformista»: fa l'imitatore, sul palco veste i panni di vari personaggi della musica italiana. «Vasco, però, è il mio preferito: con lui mi identifico totalmente - confessa -. Per me, è la più grande rockstar del mondo. Un artista puro, ma anche uno in cui ci si può rispecchiare, come un fratello maggiore».
Anche Pasquale «Pass» Milella ha scoperto Vasco all'inizio degli anni '80 e non lo ha più abbandonato. «Sono cresciuto con la sua musica - racconta - è una droga positiva, di quelle che non fanno male». Napoletano di origine ma vicentino d'adozione, Pass ha 54 anni e da 23 ha una band - Sensazioni Forti, basata in Veneto - con cui porta la musica del suo mito in giro per l'Italia. «Nel 2002 ho smesso di lavorare in fabbrica e la band è diventata il mio lavoro principale. Nonostante le difficoltà, non mi sono mai pentito». Quello che prova per il cantautore che interpreta si può riassumere in una parola: gratitudine. «I suoi brani sono fulmini che aprono l'anima. Mi hanno indirizzato su quello che volevo, che non è tanto interpretare Vasco, ma essere una persona migliore».Per Adelino Alfieri, classe 1947, ex arredatore di alberghi ora in pensione, spiegare la sua passione per Vasco è impossibile: «È come il calcio: ognuno ha la sua squadra del cuore e non sa dire perché. Io ascolto anche altri cantanti, ma Vasco ce l'ho nel sangue. E la somiglianza mi dà la carica». In effetti, guardandolo si capisce subito perché porta - con orgoglio - il soprannome di «AdeVasco»: gli somiglia, e parecchio. «Me l'hanno fatto notare gli altri - racconta - una sera, da giovane, ero in discoteca con occhiali e berretto e ho sentito una persona esclamare: "C'è Vasco!".
Da lì ho iniziato a guardarmi con occhi diversi». E, ben presto, si è messo a imitare i cambi di look del Blasco: «Avevo i capelli lunghi, come lui, ora ho il pizzetto, come lui. Mi sono appena procurato degli occhiali uguali ai suoi». Non si esibisce, né come sosia, né in una cover band. Porta Vasco addosso, e basta. È contento quando, in uno dei bar della sua Este, gli scrivono «Vasco» sul cappuccino. E ricorda con orgoglio quella volta che, in tribuna a San Siro, tutti si alzarono vedendolo arrivare. Ma il suo, più che ego, è spirito di comunità. «Quando posso vado a Zocca, dove ci ritroviamo tutti noi fan. Ho tanti amici, tra loro. Amici veri».
Come Roberto Costanzini, 68 anni, modenese: anche lui è quasi identico a Vasco. «Somigliargli mi piace - chiarisce - ma non in modo narcisistico. Per me non è solo una questione estetica, ma anche condivisione di valori. Vasco - prosegue - è sempre stato un paladino della libertà, della tolleranza, dei diritti dell'uomo e della donna, e questa è una delle cose che più me lo fa apprezzare». Neanche Costanzini ha fatto della sua somiglianza con Vasco una professione. Cercare e perfezionare abiti e accessori per renderli identici ai suoi, per lui, è un hobby. Ora che è in pensione, vi può dedicare più tempo.
«Lavoravo nel ramo grafico e pubblicitario, prima come dipendente, poi come imprenditore - racconta - all'inizio, sul lavoro, mi vestivo in giacca e cravatta, credevo fosse consono al mio ruolo, poi mi son detto: sono stanco, voglio apparire come sono». Il rapporto di Costantini con Vasco è viscerale: «Nella sua musica - spiega - io mi sono riconosciuto. Ti tira fuori cose che non sapevi neanche di avere, come il coraggio».
Per Simone "Red" Corbetta, 47 anni, di professione fuochista manutentore meccanico, tutto è iniziato con una scommessa. «Avevo 16 anni - ricorda - ero al karaoke e mi sfidarono a cantare Una canzone per te». Fu la prima volta che si esibì, ma non l'ultima: ha continuato, prima come solista, poi con la band Red Vasco Revolution, incentrata sui brani degli anni '90.
«Mi reputo un piccolo artista - dice - mi piace imitare personaggi come Vasco, ma anche Celentano, Cutugno...». Negli anni, ha fatto appassionare a Vasco anche la moglie Giulia: «Quando ci siamo conosciuti sapeva due canzoni, ora è una fan sfegatata: andando in viaggio di nozze siamo anche passati da Zocca e Vasco in persona ci ha fatto gli auguri!».
Cantare, per lui, era più un divertimento che un secondo lavoro. «Con i compensi delle serate si cercava giusto di rientrare dalle spese», spiega. Nel 2021, dopo 16 anni, la Red Vasco Revolution ha sospeso l'attività, «un po' per il Covid, un po' per problemi interni. Ma nel 2023 vorrei ripartire - dice - anche se, non so bene perché, mi sono tagliato i capelli... Ma non importa: mica canto con i capelli. Quello che conta è sentire Vasco dentro».
Una (bella) botta di rock davanti a 120mila fan Vasco rimane senza età. Paolo Giordano il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.
Alla Trentino Music Arena partito un tour da 660mila biglietti. L'urlo: "Fuck the war".
Poi gli basta uno sguardo, giusto uno sguardo ai 120mila davanti a lui, e Vasco è subito Vasco. «Finalmente, finalmenteeee». E inizia l'XI Comandamento, una sventola rock tanto per capire che in questa piana tra i monti di Trento lo spirito è quello di sempre, due poli, da una parte il rocker, dall'altra i suoi fan che parlano la stessa lingua che non cambia nel tempo. Dopo oltre due anni senza concerti Vasco Rossi ha messo in piedi un palco dei suoi (ideato da Giò Forma), roba che viene il fiatone a percorrerlo tutto perché è largo 90 metri e profondo 26, praticamente un parcheggio. Per capirci il sistema audio arriva a 750mila watt e ci sono 20 torri di ritardo audio (Delay towers) per consentire all'oceano di persone di ascoltare tutte la stessa musica nello stesso istante. Solo per portare il necessario, gli autoarticolati coinvolti avrebbero potuto formare in autostrada una coda lunga tre chilometri.
«Finalmente, finalmenteeee».
A guardarlo bene sul palco, Vasco Rossi è uno schiaffo ai luoghi comuni. «Mai visto così in forma» aveva detto poco prima del concerto il promoter Roberto De Luca di Live Nation, che produce i suoi concerti da tanto tempo. In effetti.
Vasco ha 70 anni ma sul palco non li dimostra, la voce talvolta deraglia ma chissenefrega, questo è un saliscendi di emozioni e lui nel suo giubbotto di pelle nera girovaga tra la voglia di festa e l'invito alla consapevolezza. Ti prendo e ti porto via. Se ti potessi dire. Senza parole. «Benvenuti negli anni '80, quando si parlava in discoteca», aveva detto durante le prove generali dell'altra sera presentando Amore aiuto. D'accordo che viviamo proiettati nel futuro ma io vi canto un mio brano pressoché sconosciuto che non ho mai portato sul palco. E il pubblico ha impiegato un po' a riconoscerlo, mica è un superclassico come C'è chi dice no che qui è priva di tante belle sfumature perché è frontale, molto rock, forse troppo. Per scoprire il nuovo Vasco ci vuole La pioggia alla domenica, il brano con Marracash che il pubblico manda già a memoria: «Come la pioggia alla domenica, come un Natale che non nevica».
Poi ovvio c'è la band, anche questa un saliscendi. Molto più funk e corale nella prima parte e molto più rock fino alla fine con Vince Pastano e Stef Burns alla chitarra (quanto Alice Cooper nei suoi assoli) che svisano come se fossimo davvero tornati negli anni Novanta. Certo, poi il basso de Gli spari sopra mette a posto tutti. Un volume impressionante. E un boato del pubblico perché quei versi «Sorridete, gli spari sopra sono per noi» oggi bruciano davvero nella cronaca. Non a caso, prima di iniziare i bis con Sballi ravvicinati del terzo tipo, Vasco si prende un tappeto sonoro per ripetere, come aveva detto in prova, «fuck the war», vaffan... alla guerra, che è «contro i bambini, contro le donne, contro gli anziani». Un passo avanti ancora più globale, ma anche più generico, rispetto al «Fuck Putin» dei Maneskin che ha fatto il giro del mondo. Dopotutto a Vasco non piacciono le posizioni politiche sul palco, non ha mai cercato il linguaggio da slogan social (cui si era riferito prima di Tu ce l'hai con me) perché in fondo le sue parole sono state social prima dei network. Dopo Toffee (con Claudio Gallo Golinelli come ospite) e Sally, arrivano Siamo solo noi, Vita spericolata, Albachiara (introdotta da Canzone), che sono gli ultimi brani dei bis ma restano i primi veri hashtag degli anni Ottanta, quelli che identificano una generazione anche quattro decenni dopo. «Finalmente, finalmenteeee».
A parte un «interludio» di virtuosismi molto prog rock, Vasco rimane in scena per quasi due ore e mezza ed è questo, nella strapiena Trentino Music Arena costruita a tempo di record, il suo biglietto da visita per gli altri 540mila spettatori che andranno a vederlo, dal 24 maggio a Milano fino al 30 giugno a Torino, per rendersi conto ancora una volta che Vasco resta senza età.
Leonardo Iannacci per “Libero Quotidiano” il 22 maggio 2022.
Dopo due anni l'astinenza è tanta, ma qui si parla soltanto di musica. Passata la tempesta dei divieti causa Covid, l'eccitazione per il ritorno ai grandi live sotto le stelle, con ammucchiate festose sotto un palco, si è scatenata e ha assunto contorni quasi grotteschi.
A prescindere dai prezzi dei biglietti che, stando a quanto riportano i botteghini on-line, sono ormai surreali visto che si va un ticket-prato da 50-60 euro a settori Gold che sfiorano le 120 euro e oltre. Un conto salatissimo da pagare visto che, in media, rispetto alle stagioni pre-covid, gli aumenti sono sull'ordine del 20-25 per cento. Stile bollette di luce e gas.
Eppure, la frenesia è tanta. Lo si è toccato con mano ieri sera a Trento dove Vasco ha dato il via al suo Live 022 con uno show colossale, se non altro per i fedeli che ha radunato sotto il palco lungo 88 metri, allestito nel segno di una grandeur degna del suo ego: 120.000 i fans accorsi, numeri simili a quelli che vedremo in altre sue date del tour, a cominciare da sabato prossimo a Imola quando il rocker di Zocca si esibirà all'interno dell'autodromo. Le messe laiche del Komandante proseguiranno, poi, a Milano e Torino, per scendere verso il Sud e fare tappa a Roma con due appuntamenti al Circo Massimo.
Non da meno sarà il suo nemico-amico Ligabue che risponderà al Blasco nella tana di Campovolo: per lo show 30 anni in un giorno, previsto il 4 giugno nella nuova RCF Arena, sono stati 100.000 i biglietti venduti. Liga, poi, proseguirà a settembre, con una raffica di show all'Arena di Verona.
Sempre a Campovolo, l'11 giugno, maxi-concertone con tematica sociale contro la violenza di genere: sette artiste donne (Pausini, Elisa e Giorgia tra queste) si esibiranno in duetto con sette colleghi. E poi Cesare Cremonini: occuperà stadi e arene con vernissage a San Siro il 13 giugno e rombante chiusura all'autodromo di Imola il 2 luglio.
Ha invece scelto location cultural-artistiche Claudio Baglioni, dopo i noti rinvii causa Covid: dal 3 giugno via al tour Dodici Note Tutti Su! che, partendo dalle Terme di Caracalla, proseguirà al Teatro di Siracusa e all'Arena di Verona. La nuova coppia Venditti-DeGregori, invece, ha scelto lo stadio Olimpico (18 giugno).
Jovanotti, bermuda e camicette floreali, va in spiaggia per il suo Beach Party 2022 e, per l'occasione, si porterà dietro in alcune date il suo nuovo compagno di bisbocce canore: Gianni Morandi. Via il 2 luglio da Lignano Sabbiadoro.
Non solo concerto, il suo, ma anche happening lungo tutta la giornata con bagni di mare, show improvvisati e altro. E i Maneskin? Mettetevi il cuore in pace per lo special event del 9 luglio al Circo Massimo: dei 70.000 biglietti disponibili è rimasta soltanto la matrice, tutto è andato sold-out. Capitolo big stranieri: e qui torna il discorso dei biglietti d'oro.
Per assistere all'unico concerto italiano dei Rolling Stones a San Siro (21 giugno) sono rimasti ticket per settori da nababbi con prezzi che variano da 172 a 253 euro! Niente da fare e sold-out per lo show allo stadio milanese di un altra giovane promessa, il 76enne Elton John.
Mentre si consiglia vivamente di rovistare sul web e cercare ticket per altri show imperdibili: quelli dei Pearl Jam a Imola (25 giugno), di Dua Lipa (25 e 26 maggio Milano, 28 maggio a Bologna) o dei Green Day (15 giugno a Milano).
Oppure per il ritorno di Justin Biber (31 luglio a Lucca). Mentre Eric Clapton, ostinato no-vax e restio ai vaccini, che ha fatto? Si è beccato il Covid e ha rimandato tutte le date previste. Ci fermiamo qui. Il calendario squaderna altre decine di show in questa bollente estate italiana nella quale i prezzi per vedere le stelle sono andati, appunto, tutti alle stelle.
Federica Zaniboni per “Il Messaggero” il 22 maggio 2022.
Il concerto li aspettava. Di lì a poche ore Vasco Rossi sarebbe salito sul palco del Trentino Music Arena e tra il pubblico, in mezzo a quelle 120mila persone, avrebbero dovuto esserci anche loro. Ma Ugo Beltrammi e Silvia Ruscelli - marito e moglie di 48 e 47 anni - non sono mai arrivati alla festa.
Un terribile incidente in moto ha stroncato le loro vite sulla strada statale 45 bis della Gardesana, dove hanno impattato violentemente contro un camion. I coniugi, genitori di tre figlie, erano partiti quel giorno stesso da Sarsina, in provincia di Forlì Cesena, e sono morti sul colpo davanti agli occhi di una coppia di amici che viaggiava insieme a loro su un'altra moto.
Lo schianto è avvenuto intorno alle 17, fra Dro e Pietramurata (Trento), mentre i quattro si stavano dirigendo verso il maxi concerto. Erano arrivati in zona alcune ore prima e dopo avere lasciato i bagagli nell'hotel in cui avrebbero dovuto trascorrere la notte, si erano rimessi in viaggio.
Nei pressi della curva del Sass del Diaol, le due moto si sono fermate allo stop prima di immettersi sulla statale, senza accorgersi, però, di un camion in arrivo. L'autoarticolato, che già percorreva la carreggiata, viaggiava nello stesso senso di marcia delle due moto e negli istanti subito prima dell'impatto, in prossimità della fine del rettilineo, aveva iniziato regolarmente a decelerare. Gli amici Giacomo e Bea sono partiti per primi, riuscendo a schivare il mezzo pesante.
Ugo e Silvia, subito dietro di loro, non hanno fatto in tempo. Secondo alcuni testimoni, la loro Kawasaki Ninja 1000 avrebbe impennato poco prima dello scontro, forse a causa di un'improvvisa accelerazione effettuata dal marito - che si trovava alla guida della motocicletta - quando si è reso conto del pericolo.
Ma proprio quell'innalzamento della ruota anteriore avrebbe reso lo schianto ancora più violento e le due vittime sono finite direttamente contro il rimorchio del camion, venendo mutilate e sbalzate sull'asfalto.
Entrambi sono morti sul colpo a pochi chilometri dal primo live di Vasco dopo lo stop della pandemia. E all'arrivo dei soccorsi - giunti sul posto con anche un elicottero -, i medici non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.
A dare l'allarme sarebbero stati l'autista del mezzo pesante e un'altra persona che aveva assistito alla scena. «È stato terrificante» ha detto il testimone, «All'improvviso ho visto alzarsi in aria delle sagome che sono poi ricadute a terra. Ho creduto che il camion avesse perduto una parte del suo carico. Poi ho udito le urla strazianti degli amici, sono sceso dall'auto e mi sono reso conto che erano due persone. Insieme al camionista abbiamo cercato di portare i primi soccorsi ma non c'era nulla da fare».
Oltre agli operatori del 118, sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e i carabinieri di Riva cel Garda, che hanno raccolto le testimonianze dei due amici per ricostruire la dinamica dell'incidente. L'uomo alla guida dell'autotrasportatore ha riferito di essersi reso conto dell'accaduto soltanto dopo, guardando nello specchietto retrovisore.
Marito e moglie lasciano le tre figlie di 17, 12 e 9 anni, con le quali vivevano nel piccolo comune in provincia di Forlì Cesena. Silvia Ruscelli era oncologa all'Istituto romagnolo per lo studio dei tumori (Irst) di Meldola e sono tanti i messaggi di cordoglio lasciati sui social network da ex pazienti.
Ugo Beltrammi, invece, era geometra al Comune di Mercato Saraceno e guidava il teatro Silvio Pellico del paesino in cui abitava. Il Comune di Sarsina fa sapere che sarà «proclamato, nella giornata delle esequie, il lutto cittadino e sino ad allora le bandiere del municipio saranno tenute a mezz’asta».
Come prosegue il messaggio, «è con estremo dolore che l'Amministrazione comunale, a nome di tutti i cittadini, si stringe al dolore delle figlie, delle famiglie e degli amici di Ugo e Silvia. È un giorno doloroso per tutta la comunità».
Franco Giubilei per “Specchio - La Stampa” il 9 maggio 2022.
Il Bibap è un grande american bar con sala concerti e un soffitto a stelle e strisce ornato, di fianco al bancone, di una vecchia foto con Vasco. «Anni 70, quando la gente qui a Zocca lo guardava strano e noi tutti eravamo considerati dei fuori di testa», ricorda il proprietario Marco Manzini, uno dei pochissimi amici di allora rimasti qui.
Da sempre Vasco Rossi ha portato nelle sue canzoni il rapporto travagliato col suo paese, segnato dalle inquietudini di un ragazzo afflitto dalla noia della vita di provincia: le relazioni complicate con gli adulti, gli amori giovanili nati in queste strade, i bar in cui facciamo colazione con un toast del resto, da Siamo solo noi. Tutto questo rivive nei testi di Vasco così come nei ricordi degli amici più cari.
Di cinque anni più giovane di Vasco, Manzini nel 1975 ha condiviso con lui la fondazione di Punto Radio, fra le prime emittenti libere dell'epoca: «La prima sede era in una villetta a Monteombraro, una frazione. Poi ci spostammo in paese. Ci sentivano fino a Ferrara, tanto che la curia si prese la frequenza più vicina per oscurarci. Vasco metteva su soprattutto musica da discoteca in un programma che si chiamava Sound on sound, e poi i cantautori: Bennato, Venditti e molto Guccini».
Se i compaesani lo guardavano con sospetto, invece «le donne stravedevano per lui: suonava, aveva sempre con sé la chitarra». Poi arrivò il successo e il signor Rossi lasciò il paese, i bar e la noia e se ne andò a Bologna dove divenne Vasco e basta. Il legame con Zocca però non si è mai sciolto e il cantante ha continuato a tornarci ogni estate, a fine tour. «Quando viene qui, il sabato sera andiamo fuori a cena con gli amici del paese», racconta Manzini.
In questo paesino di 4500 abitanti sull'appennino modenese, le tracce della devozione per Vasco coprono il cartello «Zocca» all'ingresso, oltre a cancelli e muri esterni della villa materna a Verucchia. Ma nel pellegrinaggio dei fan una tappa obbligata è anche la tomba del chitarrista Massimino Riva: era l'amico più piccolo che con la sua chitarra ritmica lo ha accompagnato fin dagli inizi.
Morì di eroina nel 1999 a 36 anni nella casa di Bologna dove si era trasferito. La sorella Claudia, nel libro Massimo Riva vive!(Baldini e Castoldi), racconta che da ragazzino Massimo faceva di tutto pur di entrare nella corte di Vasco.
Foto dall'album dei ricordi In paese molte foto li ritraggono insieme, mentre suonano su qualche palco: nel bar Trieste come nella pizzeria di Carla Dallari, alla fine del corso. Carla apre l'album dei ricordi spargendo vecchie fotografie su un tavolo del locale: «Conosco Vasco fin da piccola, la prima volta mi si presentò come "Vasco de Gama" e aveva già carisma allora».
Come altre ragazze conosciute in quei primi anni di carriera, da Susanna a Sally alla protagonista di Albachiara, anche lei è entrata in una sua canzone, «ma non dico quale, perché non l'ha mai cantata, è una cosa nostra».
Un'amicizia vera, durata cinquant' anni e trasmessa pure alle nuove generazioni: «Massimo Riva usciva con le mie figlie e anche Vasco faceva lo stesso. Era bellissimo non doversi alzare di notte per andarle a prendere in discoteca perché ci pensava lui». Andavano a ballare alla Buca di Montese, un paese vicino, oppure nei locali della Riviera. «Vasco lo vedevo per casa, era uno di famiglia. Quando lo vidi suonare per la prima volta all'Olimpico non potevo crederci che fosse la stessa persona».
Foto in bianco e nero documentano il premio canoro che vinse da bambino proprio a Zocca, il primo della sua vita, così come l'unico concerto che Vasco tenne nel suo paese: era l'agosto del 1982, l'anno prima di Vita spericolata a Sanremo e del decollo definitivo. «Noi amici andavamo per il paese ad attaccare i manifesti abusivi del concerto, che avevamo organizzato per ripagare i debiti dell'impianto sciistico dove si insegnava a sciare ai bambini - racconta Carla -. Vasco, con quello spettacolo, ci diede una mano a trovare i soldi».
L'abbraccio all'albero
Un'altra immagine ritrae il rocker montanaro in un atteggiamento inconsueto, mentre abbraccia un albero: «Lo fa anche adesso - dice Carla -, gli è sempre piaciuto». La ricerca di un contatto spirituale con un altro essere vivente, il Vasco che non ti aspetti sotto la scorza del musicista che fin dai primi tempi si presentava in tv non proprio lucidissimo, per voglia di provocare o per la ben nota timidezza. Ma è passeggiando per le vie di Zocca che si afferrano gli elementi che ne hanno fatto un poeta del rock' n'roll che non ha mai smesso di essere un montanaro irredento, una star che persino sul palco ha mantenuto movimenti e posture da ragazzotto di paese.
La Zocca che ha conosciuto lui, come altri paesi che si trovavano lungo la linea gotica durante la guerra, venne bombardata e ricostruita, dunque ha l'aspetto anonimo che i geometri conferirono a mezza Italia. Ma se si fa lo sforzo di immaginarla negli Anni 70, quando Vasco era un ragazzo, se ne può ritrovare l'atmosfera nella canzone Fegato spappolato: La festa ha sempre il solito sapore/ il gusto di campane non è neanche male.
Ora che mancano poche settimane al tour (partenza il 20 maggio a Trento) che precede anche il suo ritorno in paese per il riposo del guerriero, il labirinto di scritte multicolori che ricopre la strada della villa di Verucchia, dove nessun altro abita nel resto dell'anno, sta lì a ricordare che quando Vasco c'è la via si riempie di fan adoranti. Lui apprezza molto e ricambia, esce a firmare autografi, si fa abbracciare. L'amore dei tifosi divampò con qualche rischio per la salute anche all'inaugurazione di una bella mostra di foto alcuni anni fa, proprio al municipio di Zocca: si chiamava «Vasco Vintage», a cura di Alessandro Pizzarotti e Tommaso De Luca.
C'era lui e i fan accorsero a migliaia, inseguendolo per le sale della mostra. Per salvarsi dovette chiudersi in uno sgabuzzino sotto l'ala protettrice del guardaspalle, che allora era il fido Roccia, ma era chiaro che la situazione gli piaceva: come molti timidi, ha un modo di comunicare col prossimo tutto suo. «Timido lo è di sicuro», conferma Carla Dallari richiudendo l'album delle foto.
Fuori il sole splende e un vento fresco accarezza i luoghi della sua adolescenza inquieta. È un'altra Zocca, ma anche se il mondo è cambiato una certezza rimane inossidabile: i fan sono invecchiati insieme a lui condividendone idealmente le peripezie, e qui torneranno puntuali anche il prossimo luglio, a imbrattare del loro amore la recinzione della casa di Verucchia.
Donatello Baldo per il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.
Previsto per il prossimo 20 maggio, il concerto di Vasco Rossi a Trento sta generando una raffica di polemiche. La sfida del governatore leghista Maurizio Fugatti, salviniano della prima ora, è quella di portare 120 mila persone all'interno di una città che conta 117 mila abitanti. Una folla concentrata in un'area di 27 ettari, a sud della città, racchiusa tra montagne, ferrovia e fiume. L'onda delle polemiche si è riversata inevitabilmente sulla Provincia, accusata di voler mettere le mani in una vicenda - l'organizzazione di un concerto - che non appartiene alle proprie peculiarità, nemmeno autonomistiche.
Ma la giunta a trazione leghista tira dritto: se a Modena sono riusciti a muovere 225 mila spettatori, fa sapere, ce la faremo anche noi. Maurizio Fugatti sul concerto di Vasco Rossi, a un anno dalle elezioni provinciali, si gioca molto. Una sfida a tutto campo, costi quel che costi.
Con soluzioni anche azzardate come quella di bloccare il traffico ferroviario lungo l'asse del Brennero per garantire agli spettatori una via di fuga in caso di emergenza. Fin dall'inizio questo scenario era sembrato in verità molto complicato. Fermare i treni vorrebbe dire tenere chiusa una linea ferroviaria strategica per molte ore, non solo quelle relative al live di Vasco. E infatti l'altro giorno dal ministero dei Trasporti è giunto l'altolà: «Non si può fare».
Una doccia gelata per la Provincia che adesso dovrà rivedere parte del piano legato alla gestione della sicurezza. Treni a parte, per consentire il concerto, dovranno essere chiuse diverse strade, tra cui la tangenziale, l'arteria più importante dopo l'autostrada del Brennero, che sarà resa completamente pedonabile e tutta illuminata per oltre dieci chilometri.
Alla Provincia viene poi imputato il fatto di «aver ceduto a richieste esorbitanti» da parte dello staff di Vasco Rossi, con un contratto di ingaggio che prevede che il cantante sia ospitato per una settimana in Trentino a spese dell'ente pubblico, con la disponibilità di un elicottero per gli spostamenti interni, che gli sia intitolata una via o una piazza e che gli venga concessa un'onorificenza.
Solo per l'ospitalità in albergo la spesa prevista è di 300 mila euro. A oltre tre mesi dall'evento, la vicenda si sta ingarbugliando non poco. Intanto, nei giorni scorsi, lo stesso Vasco ha pubblicato sui social una foto dell'area di Trento accompagnato da un commento: «La Musik Arena prende forma, 27 ettari rock».
Il compleanno. I 70 anni di Vasco Rossi, la Vita Spericolata e la benedizione di De André: “È l’unico credibile nel ruolo di rocker in Italia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Febbraio 2022.
Il più bel regalo che riceverà Vasco Rossi – salvo altri boom di contagi e successive restrizioni – sarà un regalo lungo dal 20 maggio, quando inaugurerà il suo tour alla Trentino Music Arena, fino al 30 giugno, quando chiuderà all’Olimpico di Torino. Tutto sold out. Finalmente a suonare dal vivo, negli stadi, dopo lo stop per l’emergenza coronavirus. Prima, oggi: tutto l’affetto per i suoi 70 anni. Social invasi e la sua pagina invasa dai messaggi di altri artisti.
Rossi ha pubblicato delle stories: da Bologna, in strada, tutto imbacuccato e nascosto, e un video piuttosto esplicativo. Lui che prende un ascensore, per il 70esimo piano e la corsa a intervalli più o meno regolari si interrompe: al 14esimo un ragazzino della provincia, di Zocca, con la sua chitarra; al 23esimo un giovane alla sua radio libera Punto Radio; al 32esimo al Festival di Sanremo; al 41esimo rockstar affermata, giubbotto di pelle, bandana e occhiali da sole; al 52esimo mattatore degli stadi italiani; al 64esimo rocker ancora in sella; al 70esimo una torta multipiani con una chitarra e la scritta Siamo qui, il titolo del suo ultimo disco.
Di lui ha detto Fabrizio De André che “è l’unico credibile nel ruolo di rocker in Italia. L’unico ad essere riuscito a portare la canzone d’autore nel rock”. Il cantautore genovese, tra i miti di Rossi, fu l’unico della scena musicale italiana, ad andarlo a trovare in carcere nel 1984, quando venne arrestato e incarcerato per 22 giorni – cinque in isolamento – a Pesaro per “detenzione di non modiche quantità di sostanze stupefacenti e spaccio non a scopo di lucro di modiche quantità”. Il processo lo avrebbe scagionato dall’accusa di spaccio ma condannato a due anni e otto mesi con la condizionale per detenzione di sostanze stupefacenti. Gli sarebbe rimasta per sempre addosso l’immagine del rocker maudit.
Un’esperienza che non ha mai dimenticato. E che ha ricordato nel suo messaggio di solidarietà ai detenuti in occasione della maratona oratoria organizzata dalla Camera Penale ‘Franco Bricola’, in collaborazione con l’Osservatorio del Carcere. “Questa pandemia globale ha messo in ginocchio il mondo ed è stata una tragedia epocale, è stata dura per noi fuori, posso immaginare come sia stata per voi dentro. Oltre alla condizione dell’essere in carcere che tra l’altro conosco, perché è una condizione che ho provato e quindi capisco la vostra rabbia e tristezza. Io ho cercato di fare tesoro di quell’esperienza, per cercare di diventare più forte per affrontare poi i problemi che ci sono nella vita. Vi consiglio di fare altrettanto, di dare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha”.
Cantava che non era facile vivere con lui. Non è stato neanche semplice vivere come lui: troppa vita, e spericolata, e troppa notorietà. Ricordare record su record è piuttosto pleonastico: è stato premiato da Fernanda Pivano; suoi il miglior disco di sempre, Bollicine, e la miglior canzone di sempre, Siamo solo noi, secondo la rivista rock-oriented Rolling Stone ;suo il record mondiale di spettatori (225mila) per un concerto solista con il Modena Park 2017. 4 album, di cui 18 in studio, 11 dal vivo e 5 raccolte ufficiali, oltre a due EP e un’opera audiovisiva, per un totale di 191 canzoni.
Migliaia di persone si sono tatuate le frasi delle sue canzoni. Certo: resta divisivo per molti che non trovano quella magia, la poesia nella malinconia e il graffio dell’energia che ha stregato migliaia di “vasconvolti” e altri fanatici. Lui non ha mai cercato di piacere a tutti: e forse è stato questo il segreto. E il concedersi completamente alle canzoni, mettersi a nudo. Sempre più artisti, anche lontani dal rock, lo prendono come riferimento. Dopo anni di Vita Spericolata oggi vive con Laura Schmidt, la sua compagna con la quale ha avuto il figlio Luca – con Stefania Trucillo aveva avuto Davide e Lorenzo. Scalpita per tornare sul palco. “Piace perché, nonostante riempia ancora oggi gli stadi, è un artista che racconta la solitudine dell’uomo”, ha detto a La Repubblica il filosofo e amico Stefano Bonaga.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Vasco Rossi compie 70 anni, ma sarà sempre giovane. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 07 febbraio 2022.
Un traguardo «assurdo» pensando all’età di Andreotti o Cossiga nei loro momenti topici. Perché il rocker, tra rabbia, malinconia e rock, non conosce il concetto di invecchiamento.
Sto parlando di Vasco Rossi che, assurdamente, compie settanta anni . Quando Fanfani ha perso la campagna contro il divorzio aveva 62 anni, quando Cossiga è diventato Presidente della Repubblica ne aveva 57, quando Andreotti presiedeva il Consiglio dei ministri, ai tempi del rapimento Moro, aveva da poco festeggiato il cinquantanovesimo compleanno.
Vasco, oggi, è più anziano di loro. Assurdo, sembra il figlio o il nipote. Vasco è un settantenne di questi tempi senza tempo. In cui le persone sono incomparabilmente più giovani dei loro «coetanei» di quando si era ragazzi. Io avevo una professoressa di italiano, alle medie, che veniva in classe con un vestito nero, la veletta, dei guanti per togliere i quali impegnava metà lezione. Mi sembrava vecchissima. Poi ho fatto due conti e mi sono reso conto che, per l’età che aveva, oggi potrebbe essere scartata a «The Voice senior» perché troppo giovane. Vasco ha settanta anni. Chi ci può credere. Certe volte la matematica è un’opinione. Come i 77 di quella meraviglia umana che è Gianni Morandi. Burle dell’anagrafe.
Vasco ha iniziato tardi a fare musica, rispetto ai suoi coetanei. Quando ha iniziato a scrivere canzoni aveva certamente ascoltato Paoli e De Andrè, ma alle sue orecchie erano già arrivate «Come è profondo il mare» di Lucio Dalla, «Santa Lucia» di Francesco De Gregori, «L’avvelenata» di Francesco Guccini, «Le cose della vita» di Antonello Venditti, insomma la migliore musica della prima parte degli anni Settanta, quella che precede l’anno in cui Vasco ha iniziato a incidere dischi, il fatidico 1977.Quegli anni sono stati particolari. Per la politica, i giovani e anche per la musica. Nei primi anni Settanta erano maturate tante speranze di un cambiamento vicino e possibile. E non parlo solo dal punto di vista politico. Il grande cambiamento dei costumi degli anni del boom reclamava una discontinuità che non si determinò. Anzi, tornò Andreotti e tutto sembrò irriformabile, eterno.
A me Vasco Rossi è sempre sembrato, forse senza volerlo, uno dei più capaci a rappresentare questo tempo lacerato, nel quale personale e politico riscrivevano le loro rispettive grandezze, e un confuso, ma diffuso, desiderio di nuovo sbatteva contro porte serrate, facendosi male, molto male. È il dolore che si trova in «Siamo solo noi». Vasco parla dei ragazzi di quel tempo come di una «Generazione di sconvolti che non han più santi né eroi». «Siamo solo noi che non abbiamo vita regolare che non ci sappiamo limitare /siamo solo noi che non abbiamo più rispetto per niente neanche per la mente /siamo solo noi... quelli che poi muoiono presto quelli che però è lo stesso/ siamo solo noi che non abbiamo più niente da dire dobbiamo solo vomitare /siamo solo noi che non vi stiamo neanche più ad ascoltare».
Ho sempre trovato nelle sue canzoni una grande malinconia, una specie di solitudine. Più disperazione, non rassegnata, che rabbia. Ma Vasco Rossi è anche un grande musicista, capace di far vivere, con un rock che usa tutta intera la propria dimensione epica, emozioni profonde alle centinaia di migliaia di persone che hanno ascoltato i suoi mitici concerti. Dinne una, se ci riesci. Ti aiuto. Ce ne sono decine che resteranno, e questa è la prova del nove, nella storia della musica italiana. Ma ti ho detto una, una sola. Non voglio sfuggire. Scelgo «Sally». La ragione? Mi afferra il cuore ogni volta che dice: «Perché la vita è un brivido che vola via/è tutto un equilibrio sopra la follia». Auguri, Vasco. Hai settant’anni. Ma converrai che è assurdo.
Vasco Rossi compie 70 anni: il mito Steve McQueen, gli inizi nelle radio libere, l’esperienza in carcere e gli altri segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 07 febbraio 2022.
Una raccolta di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z, per celebrare il compleanno del rocker nato a Zocca il 7 febbraio.
A di Albachiara
«Sono 70 volte che la terra mi fa girare intorno al sole e la testa non mi gira ancora»: il 7 febbraio Vasco Rossi compie 70 anni. Nato nel 1952 a Zocca è uno degli artisti italiani di maggiore successo: dall'inizio della sua carriera ha pubblicato 34 album, ha scritto oltre 190 canzoni (insieme a numerosi testi e musiche per altri interpreti) e ha venduto quasi 40 milioni di dischi. Per festeggiare questo importante compleanno abbiamo raccolto una serie di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z. Partendo dalla A di «Albachiara», la canzone che il Blasco scrisse per «Giovanna, una ragazza che vedevo scendere dall’autobus a Zocca - ha raccontato nel 2017 nell’intervista di Aldo Cazzullo per il Corriere -. Era un pezzo provocatorio, con quel finale sulla masturbazione femminile, allora tabù, anche per le mie amiche. Ma Giovanna non credeva che l’avessi composto per lei, pensava fosse un modo per intortarla, e allora scrissi “Una canzone per te”. Alla fine una storia l’abbiamo avuta, e ci mancherebbe altro, dopo due canzoni così…».
B di Bollicine (e Battaglia, Dodi)
«Bollicine», sesto album (in sei anni), uscì il 14 aprile 1983. Inserito dalla rivista Rolling Stone al primo posto tra i 100 dischi italiani più belli di sempre consacrò definitivamente Vasco come icona del rock italiano. Contiene il singolo omonimo provocatorio, allusivo e farcito di slogan e frasi ad effetto (la canzone voleva essere un pungente attacco alla pubblicità), «Vita spericolata» e un brano - «Una canzone per te» - in cui la chitarra viene suonata dall’amico Dodi Battaglia dei Pooh. Con «Bollicine» Vasco vincerà anche il Festivalbar.
C di Censura
Parlando di Vasco non si può non nominare la censura: quando ad esempio fu pubblicato, nel 1980, il terzo album, «Colpa d'Alfredo» il brano omonimo non fu utilizzato come singolo per via di alcune parti del testo (al suo posto fu scelto «Non l’hai mica capito»). Altro episodio: il titolo della canzone «Ieri ho sgozzato mio figlio» (contenuta nel disco «Siamo solo noi» del 1981) fu riportato sul disco censurato («Ieri ho sg. mio figlio»).
D di Droga (quando finì in carcere nel 1984)
Il 20 aprile 1984 il rocker di Zocca fu fermato in una discoteca nei pressi di Bologna e arrestato. Durante la perquisizione del casolare di Casalecchio in cui abitava insieme ad altri componenti della sua band furono trovati 26 grammi di cocaina. Vasco finì così in carcere: trascorse 22 giorni (di cui 5 in isolamento) presso il carcere di Rocca Costanza a Pesaro, con l'accusa di detenzione di cocaina e spaccio non a scopo di lucro. Nel corso della detenzione gli unici artisti che lo andarono a trovare furono Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Il 12 maggio Vasco ottenne la libertà provvisoria. In seguito fu scagionato dall'accusa di spaccio ma fu condannato a due anni e otto mesi con la condizionale per detenzione di sostanze stupefacenti. «Il carcere fu un modo per disintossicarmi, e anche per resettarmi. Fino ad allora ero convinto di bruciare in fretta, di morire giovane. Mi dissi che dalla sofferenza non si fugge, ed era meglio andare sino in fondo alla vita, per vedere come va a finire questa bella storia. E sono ancora qua» raccontava nel 2017 il cantautore al Corriere.
E di Economia e Commercio
Dopo aver conseguito il diploma da ragioniere Vasco nell’autunno del 1972 si iscrisse alla facoltà di Economia e Commercio all'Università di Bologna (avrebbe voluto frequentare il DAMS, ma suo padre non approvava l’idea). Due anni dopo cambiò indirizzo, da Economia e Commercio a Pedagogia, ma interruppe gli studi a otto esami dalla laurea. Ma Vasco è comunque riuscito a diventare «dottore»: l'11 maggio 2005 lo IULM di Milano gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, dedicata dal cantautore alla madre e agli studi universitari interrotti tanti anni prima.
F di Figli
Vasco Rossi ha tre figli: Davide (nato nel 1986 dalla relazione con Stefania Trucillo), Lorenzo (avuto nello stesso anno da Gabriella Sturani, la famosa «Gabri» a cui il Blasco ha dedicato una celebre canzone, e riconosciuto dopo aver effettuato il test del DNA nel 2003) e Luca (nato nel 1991 dall’amore con Laura Schmidt). Davide e Lorenzo hanno reso il cantautore nonno, rispettivamente nel 2014 e nel 2017.
G di Gaetano Curreri
La collaborazione tra Vasco e Gaetano Curreri è di lunga, anzi lunghissima, data. I due, che insieme hanno firmato capolavori come «E dimmi che non vuoi morire» (portata al successo da Patty Pravo, che la cantò per la prima volta al Festival di Sanremo 1997), «La tua ragazza sempre» (interpretata da Irene Grandi) e «Vuoto a perdere» (cantata da Noemi), sono amici praticamente da sempre. E fu proprio Curreri a spingere il cantautore nel 1977 ad incidere il suo primo 45 giri.
H di (Stupido) Hotel
Il 2001 è l'anno di «Stupido hotel», che risulterà il secondo album più venduto dell'anno. Con la canzone «Ti prendo e ti porto via» (oggi un grande classico del repertorio del Blasco) conquisterà la sua terza vittoria al Festivalbar.
I di Inter
È l’Inter la squadra del cuore di Vasco Rossi. «Per una semplice questione di colori e di eleganza. Fin da piccolo preferivo il neroazzurro al rossonero e al bianconero...Ma non ho mai seguito il calcio e solo da qualche anno ho cominciato a guardare le partite in televisione» raccontava a Sportweek nel 2007.
L di Laura Schmidt
Il grande amore di Vasco Rossi: Laura Schmidt. Se negli anni prima di incontrarla la sua vita sentimentale è stata «spericolata» (ha avuto una relazione anche con la conduttrice televisiva Barbara D'Urso negli anni Ottanta) con lei ha trovato finalmente la stabilità. E il 7 luglio 2012 l’ha sposata (per una questione burocratica, ha poi spiegato Rossi, perché continua a non credere nell’istituzione del matrimonio).
M di Massimo Riva
Più che un compagno di avventura (nonché suo chitarrista) Massimo Riva fu per Vasco Rossi quasi un fratello. Componente della Steve Rogers Band, che ha accompagnato Vasco fino al 1987, ha condiviso gli anni del successo con il rocker di Zocca e negli anni Novanta ha intrapreso la carriera solista. È morto prematuramente, il 31 maggio 1999, a causa di un’overdose di eroina. Aveva soltanto 36 anni e da allora, in ogni concerto, Vasco lo ricorda.
N di No
Il «no» ritorna in molte canzoni del rocker di Zocca («Io no», «C'è chi dice no»), che nel corso della sua carriera di «no» ne ha pronunciati parecchi. Il più clamoroso: nel 1990 il promoter italiano dei Rolling Stones gli propose di aprire i due concerti romani della band. Ma Vasco declinò l'invito.
O di Ottantadue (l’anno del primo Sanremo)
Il 29 gennaio 1982, quarant’anni fa, Vasco Rossi saliva per la prima volta sul palco del Festival di Sanremo con la canzone «Vado al massimo»: «Mi butto nella gara e...arrivo in finale. Tra gli ultimi nella classifica ma, come si sa, “beati gli ultimi” e io ero beatissimo del mio successo, avevo fatto centro. Ci andai perché Ravera in persona (il factotum del Festival di allora) mi offriva la platea nazionale della televisione garantendomi soprattutto la libertà di fare quello che volevo. Geniale Ravera, aveva capito che la musica nell’aria stava cambiando e che io rappresentavo il nuovo. Per questo accettai l’invito e ci andai. Da solo, perché nessuno dei miei fidati collaboratori di allora, leggi Guido Elmi in primis, volle accompagnarmi, non ci credevano». Per lui, quei pochi minuti di esibizione, più che una sfida rappresentavano «un’occasione unica per farmi notare da più gente possibile. Della gara, a me, non m’importava nulla e tantomeno di vestirmi “elegante”, io avevo il mio look da concerto, jeans e giacca in pelle. Ricordo che dietro le quinte mi guardavano tutti come se io fossi un alieno quando per me gli alieni erano loro che si stravestivano e si truccavano, a me interessava solo salire sul palco e nient’altro. L’anno dopo ci sono tornato a Sanremo, per riconoscenza nei confronti di Gianni Ravera che mi aveva dato carta bianca, e solo perché avevo la canzone giusta: “Vita spericolata”, una bomba».
P di (Fernanda) Pivano
Nel 1999 la giuria del Premio Lunezia, presieduta da Fernanda Pivano, ha conferito a Vasco il prestigioso riconoscimento in qualità di «poeta del rock» per il testo della canzone «Quanti anni hai». Qualche anno dopo, nel 2004, la scrittrice - all’epoca 86enne - dedicò al cantautore tramite la rivista Vanity Fair una lettera colma d’affetto e stima.
Q di Questa storia qua
«Questa storia qua» (2011) è il documentario diretto da Alessandro Paris e Sibylle Righetti ispirato alla vita ed alle canzoni di Vasco Rossi, un ritratto privato e introverso del cantautore costruito con materiale di repertorio inedito, racconti e le immancabili canzoni. Il film è stato presentato in anteprima alla 68ª Mostra del Cinema di Venezia (fuori concorso).
R di (Punto) Radio
Punto Radio è l’emittente che Vasco fondò a Zocca insieme ad un gruppo di amici. Fu la prima Radio libera dopo la sentenza del pretore di Vignola del 1976 (che dichiarò incostituzionale il monopolio della Rai) e trasmette ancora oggi. L’esperienza della radio, citata da Pupi Avati nel suo film «Gli amici del bar Margherita», è stata decisiva per la carriera del cantautore. A Punto Radio infatti, oltre a fare esperienza (nelle serate-evento organizzate nei locali emiliani Vasco ha iniziato ad imbracciare la chitarra e a cantare al pubblico alcune sue canzoni), conobbe una serie di persone fondamentali nella sua futura carriera come Gaetano Curreri, Maurizio Solieri, Massimo Riva e Red Ronnie.
S di Steve McQueen
«Lui andava in giro a cavallo della sua moto, con una birra in mano, era bello ma senza finzioni. Era l’evasione, quella de La Grande Fuga, il film che mi ha travolto. Era la voglia di libertà sfrenata, un uomo senza confini, senza paura e pieno di guai. Esagerato e vivo». Steve McQueen è un vero e proprio mito per il Blasco, che ha citato l’attore in uno dei suoi brani più famosi: «Vita spericolata». A proposito di questa canzone c’è un divertente aneddoto, che Vasco ha raccontato su Facebook: «Mi chiesero anche di tradurla in tedesco. Va bene, dissi. Quando mi mandarono la traduzione, non credevo a quello che stavo leggendo. Invece di "voglio una vita spericolata /voglio una vita come Steve McQueen" c'era "voglio una vita spericolata /voglio una vita come Erroll Flynn". Ma si può? È mica la stessa cosa. Loro dissero che in Germania Erroll Flynn era come Steve McQueen in Italia. Non diedi il permesso, ovviamente».
T di Tour
Vasco Rossi nella sua carriera si è esibito in più di 800 concerti e detiene il record mondiale di spettatori paganti in un concerto solista (225173 a Modena Park 2017). Sarà in tour anche nel 2022: si parte da Trento, il prossimo 20 maggio.
U di Usignolo d'oro
L'Usignolo d'oro è la manifestazione canora modenese che Vasco vinse a 13 anni con il brano «Come nelle fiabe». «Votavano dieci ragazzini con la paletta - ha raccontato a distanza di anni il cantautore -. Canta una bimba carinissima di Finale Emilia, molto brava, e prende tutti 10 e un 9: io vado fuori pensando che abbia già vinto lei. Canto anch'io e, quando torno dietro le quinte, comincio a sentire: Dieci, dieci, dieci, dieci, dieci...Tutti dieci, cento su cento. Mi regalarono una bicicletta, ero contento come un matto, ed ebbi il mio primo incontro con i giornalisti».
V di Vasco
Il nome Vasco gli è stato dato dal padre Giovanni Carlo, autotrasportatore, in ricordo di un compagno di prigionia in Germania durante la seconda guerra mondiale. «Mi chiamo Vasco come un compagno di prigionia di mio padre - ha raccontato ad Aldo Cazzullo -. Dopo l’8 settembre i tedeschi lo portarono nel campo vicino a Dortmund, in Germania. Papà, che si chiamava Giovanni Carlo, fu uno dei 600 mila che preferirono restare nei lager piuttosto che combattere al fianco dei nazisti. Il campo fu bombardato, lui cadde nel cratere di una bomba, questo Vasco lo tirò su, gli salvò la vita. Non si rividero più, non so se sia sopravvissuto. Tanti suoi amici morirono di fatica. Papà tornò a casa dopo due anni. Pesava 35 chili. Ci è rimasto il suo diario. Non riusciva a vedere i film sull’Olocausto, erano emozioni troppo forti per lui».
Z di Zocca
Zocca oggi è la Mecca dei fan di Vasco Rossi che - nonostante il successo - non si è mai voluto allontanare dal paesino di 4500 abitanti (+1, lui) sull’Appennino emiliano in cui è nato e cresciuto.
Anticipazione di “Oggi” il 4 febbraio 2022.
«È il compleanno del mio amico Vasco: cosa regalo a quest’uomo senza età? Tra l’altro non farà neanche una festa. A lui piace che siano gli altri a far festa», scrive Milena Gabanelli sul settimanale OGGI in edicola da domani, in un omaggio al re del rock, che il 7 febbraio compie 70 anni.
E conclude sognando di poter regalare a Vasco la data del primo concerto dopo la pandemia: «Mezzo milione di persone che lavorano attorno ai concerti sono a casa da due anni. Ci siamo vaccinati, abbiamo seguito le regole, ridateci la musica dal vivo! Ridateci un po’ di leggerezza… ce la siamo meritata».
Sempre a OGGI racconta in esclusiva Claudia Gerini: «Vasco Rossi lo amo col cuore, con la testa, coi piedi che ballano, col fegato spappolato, con le orecchie che godono, specie ai concerti. Lo amo con tutta me stessa.
E racconta che il suo primo film è stato proprio legato al rocker di Zocca: «Girai “Ciao ma’”… Era un musicarello, con un concerto di Vasco che faceva da sfondo e da pretesto per una “collana” di amori adolescenziali. Lui interpretava se stesso, l’avrò visto quattro o cinque volte, mai da vicino. Eppure mi strabiliava: le gambe tremavano, ero piena di elettricità». E spiega: «Vasco è unico anche perché ha attraversato varie generazioni senza perdere un grammo di fascino e credibilità. Mi ha avvicinato ancor di più a mia figlia Rosa… Auguri per ogni volta che non mi hai fatto sentire sola. Auguri per ogni volta che mi hai fatto sentire bella e desiderata. Auguri per ogni volta che mi hai fatto sentire unica».
Vasco Rossi: 40 anni da “Vado al massimo” a Sanremo. archivio storico Vasco Rossi, noto anche semplicemente come Vasco o con l'appellativo Blasco (Zocca, 7 febbraio 1952), è un cantautore italiano. nella foto: Vasco Rossi autografa il suo libro Busta n° 9877. VASCO ROSSI, Cantautore, su Il Domani il 29 gennaio 2022.
«Per quello che ho da fare… Vado al massimo… Vado a Sanremo: mi butto nella gara e… arrivo alla finale del sabato sera. Poi tra gli ultimi della classifica finale ma, come si sa, “beati gli ultimi” e io ero beatissimo del mio successo, avevo fatto centro». Il ricordo del cantautore
Per quello che ho da fare… Vado al massimo… Vado a Sanremo: mi butto nella gara e… arrivo alla finale del sabato sera. Poi tra gli ultimi della classifica finale ma, come si sa, “beati gli ultimi” e io ero beatissimo del mio successo, avevo fatto centro.
Ci andai perché Ravera in persona (il factotum del festival allora) mi offriva la platea nazionale della televisione garantendomi soprattutto la libertà di di fare quello che volevo.
Geniale Ravera, aveva capito che la musica nell’aria stava cambiando e che io rappresentavo il nuovo. Per questo accettai l’invito e ci andai.
Ci andai da solo, perché nessuno dei miei fidati collaboratori di allora, leggi Guido Elmi in primis, volle accompagnarmi, non ci credevano. Io, invece, sapevo bene quello che facevo. Avevo già scritto canzoni come Jenny, Albachiara, La noia, La nostra relazione, Colpa d’Alfredo… Siamo solo noi. I miei primi 4 album rock erano fuori. Andavo bene con i concerti, ma mi conoscevano per lo più a livello regionale, in Emilia, un po’ in Lombardia e un po’ in Piemonte.
La platea nazionale mi serviva, certo. Ma quello che volevo io soprattutto, era sbalordirli, provocarli, scuotere in loro un’emozione, dissacrare quel palco con ironia e provocazione : «Vado al massimo… vado al massimo… vado a gonfie vele...» (che non era per niente vero, in realtà).
Ero certo che avrei colpito e, nel bene o nel male affondato, chi dalla platea del teatro a quella della tv, mi guardava (anche se pochi allora dichiaravano di guardare il festival, in realtà tutti mi avevano visto..).
Più che una sfida, quei 3 minuti di esibizione, lo spazio di una canzone, rappresentavano per me un’occasione unica per farmi notare da più gente possibile.
IMPORTAVA SOLO IL PALCO
Della gara, a me, non m’importava nulla e tantomeno di vestirmi “elegante”, io avevo il mio look da concerto, jeans e giacca in pelle. Ricordo che dietro le quinte mi guardavano tutti come se io fossi un alieno quando per me gli alieni erano loro che si stravestivano e si truccavano, a me interessava solo salire sul palco e nient’altro.
Alla finale del sabato sera ci sono arrivato e questo a me bastava e avanzava. Ormai è storia che nella classifica finale ero in fondo ma fuori da lì cominciò davvero la mia straordinaria avventura live. Nell’aprile usciva il mio quinto album - Vado al massimo - con pezzi molto provocatori come Sono ancora in coma, Cosa ti fai, e brani del peso di Ogni volta e Canzone e il calendario di date live si infittiva.
L’ANNO DOPO
L’anno dopo ci sono tornato a Sanremo, per riconoscenza nei confronti di Gianni Ravera che mi aveva dato carta bianca, e solo perché avevo la canzone giusta: Vita spericolata, una bomba, che avevo appena finito di scrivere.
Devo tutto alla musica che non fa distinzioni di sorta, non è il passare del tempo che conta, ma come lo usi. Intrigante è il viaggio che la musica ti permette tra fortissime emozioni, splendide illusioni e tremende delusioni. Sono 70 volte che la terra mi fa girare intorno al sole e… la testa non mi gira ancora.
VASCO ROSSI, Cantautore
"È fuggito ignorando le vittime": così è stato condannato il figlio di Vasco. Massimo Balsamo il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel 2016 Davide Rossi aveva travolto un'auto con a bordo due donne, rimaste ferite: pronto il ricorso in Appello.
“Ha provocato l’incidente ed è scappato”: rese note le motivazioni della condanna a un anno e dieci mesi nei confronti di Davide Rossi, figlio di Vasco. Lo scontro risale al settembre del 2016, in zona Balduina a Roma: a bordo della sua Audi insieme a due amici, l’attore 35enne aveva ignorato uno stop e travolto una Fiat Punto, senza prestare soccorso alle due donne che si trovavano all’interno del mezzo.
La condanna nei confronti di Davide Rossi risale allo scorso ottobre, con l’accusa di lesioni personali stradali gravi e di omissione di soccorso. Secondo quanto stabilito dal giudice, che ha escluso la concessione delle attenuanti generiche, il figlio di Vasco si è allontanato dalla scena per sottrarsi all’identificazione e ad eventuali rilievi del tasso alcolico o dell’assunzione di stupefacenti, disinteressandosi dello stato di salute delle due ragazze coinvolte nello scontro, entrambe “scioccate e chiaramente bisognose di sostegno”.
Il giudice, inoltre, ha posto l’accento sull’allontanamento “immediato” dal luogo dell’incidente di Davide Rossi, rimarcando che da “un personaggio appartenente al mondo dello spettacolo” ci si sarebbe aspettato “un maggior senso civico e rispetto degli altri”. L’attore, invece, ha accettato “consapevolmente” il rischio che le due persone coinvolte nello scontro potessero aver riportato lesioni.
La sentenza ha coinvolto anche Simone Spadano, amico di Davide Rossi e in macchina con lui al momento dell’incidente. Il 37enne è stato condannato a nove mesi con l’accusa di favoreggiamento: l’uomo si era preso la colpa del sinistro, firmando la constatazione amichevole per avvalorare la versione.
Il figlio di Vasco non ci sta ed è pronto a fare ricorso in appello. “Una sentenza moralista”, il commento tranchant dell’avvocato Carla Serra ai microfoni del Corriere della Sera. "C'è una contraddizione che il giudice non spiega", il parere di Fabrizio Consiglio, difensore di Simone Spadano: "Subito dopo l’incidente è stato firmato un Cid dove viene riconosciuto che a guidare era Spadano". Massimo Balsamo
Da blitzquotidiano.it il 10 novembre 2022.
Il racconto dell’arresto è legato a un litigio con Henry Harris, musicista e padre di suo figlio Maximus. L’uomo avrebbe chiamato l’hotel dove soggiornavano con la richiesta di un cerotto per tamponare una ferita dovuta alla rottura di un vaso durante il litigio in questione, e invece del cerotto sarebbe arrivata la polizia. “Per fortuna avevo la carta di credito, ho passato momenti davvero brutti”, ha dichiarato.
Nella sua vita privata ha avuto più di 60 uomini, “ormai ho perso il conto, non mi sono mai sentita così importante da non dovermi donare a qualcuno” ha dichiarato, aggiungendo il particolare già noto di aver avuto anche esperienze omosessuali. che hanno messo a dura prova l’amore di sua madre. “Ti devi sentire put*ana per mandare queste energie agli altri”, così ha spiegato a Francesca Fagnani il “segreto” del suo successo a letto con entrambi i sessi.
“Ho provato tutte le droghe, la differenza fra me e gli altri è che io le dico. Ho provato più o meno tutto, non mi sono fatta mancare niente. Ma le provavo quando stavo bene, non ho mai usato la droga come anestetico del dolore, i miei dolori me li sono sentiti tutti. Ma non ho mai sentito nessuna dipendenza verso nessuna droga. […]”, ha spiegato ancora l’attrice.
Ma c’è dell’altro: “Ho menato gli uomini quando vado fuori di testa, non da mandarli all’ospedale, ma un calcio mi è capitato. Quando non capiscono perdo la pazienza. Un uomo mi ha detto ‘mi hai menato in aeroporto’ ma se l’è cercate! Era Jedà, sì. Litigavamo su cose che non voleva capire, poi mi ha fatto una velata minaccia. Ed io gli ho detto ‘ti ammazzo, ti corco di botte!’”.
Federica Bandirali per corriere.it il 10 novembre 2022.
L’attrice e personaggio televisivo Vera Gemma è stata ospite al programma di Francesca Fagnani, «Belve», in onda giovedì sera. Tante le confessioni choc della figlia di Giuliano Gemma: per la prima volta ha svelato di aver accettato proposte compromettenti e di essere finita in carcere per una notte (dopo una lite con il padre di suo figlio).
«Sono stata arrestata a Las Vegas per violenza domestica, stavo litigando col padre di mio figlio: lui ha chiamato per un cerotto ed in camera è piombata la security ed ho passato un giorno e una notte in carcere. Là ho conosciuto personaggi meravigliosi, poi ho pagato 3 mila dollari di cauzione e sono uscita. Altri reati? Un po’ cleptomane da piccola, ho rubato un po’ di rossetti», ha detto in televisione.
Gemma ha inoltre svelato di essere arrivata alle mani con alcuni dei suoi ex partner (come Jeda, personaggio che in Italia il pubblico ha imparato a conoscere all’Isola dei Famosi quando lei era naufraga in Honduras) e ha ammesso di aver avuto una relazione con un uomo che sarebbe stato solito regalarle somme in denaro:
«Proposte indecenti? Qualcuna l’ho accettata. C’era uno a Los Angeles che mi invitava a cena e voleva passare del tempo con me. Mi faceva dei regali e sganciava ogni tanto del cash. A livello fisico non pretendeva tanto, facevamo cene, parlavamo e mi chiedeva ‘ma questo mese ce li hai i soldi per l’affitto?’, io dicevo no e mi sganciava il cash», ha detto senza freni la figlia d’arte le cui dichiarazioni stanno facendo il giro dei social e del web.
Vera Gemma: «La mia vita è tutta un film, ora la porto in gara alla Mostra». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022.
La figlia di Giuliano è protagonista di «Vera» di Tizza Covi e Rainer Frimmel, in concorso nella sezione Orizzonti. Nel cast anche l’amica del cuore, Asia Argento.
A farli incontrare è stato Mister Universo. «Tizza stava lavorando a quel doc sul circo a quattro mani con Rainer Frimmel e io ero in un tendone alle porte di Roma, a allenarmi come domatrice. Si è incuriosita. Abbiamo iniziato a parlare, è scattata la complicità. Ho visto i loro film e mi sono piaciuti. Per scherzo ho detto: per voi farei anche la comparsa. Quando mi ha comunicato che stava scrivendo un film con me protagonista non volevo crederci». Avrebbe dovuto farlo. Ora Vera di Covi e Frimmel è in concorso a Venezia 79 nella sezione Orizzonti. Protagonista Vera Gemma. Una che, racconta al Corriere, fa fatica a distinguere tra vita vissuta e cinema. Cosa che capita anche a chi la ascolta, a onor del vero. Romana, 52 anni, figlia di Giuliano Gemma e della prima moglie Natalia Roberti, ha esordito a 6 anni ne Il grande attacco di Umberto Lenzi, accanto al padre (e a Henry Fonda e John Huston). «L’unica volta con papà — ci tiene a sottolineare —, insieme a mia sorella. Lo convinse il regista, era una scena in cui tornava in famiglia dalle figlie. Pur apprezzandomi, non ha mi mai spinto: la strada è la tua, mi diceva». In curriculum vanta diversi lavori, tutti rivendicati con orgoglio: attrice, regista, scrittrice, spogliarellista, domatrice di tigri e leoni, concorrente di reality tv. Una vita da (più di un) romanzo che spinto Covi e Frimmel a elaborarne alcuni frammenti. Il film, di produzione austriaca, è stato girato a Roma. «Prende ispirazione da alcune cose che mi sono successe. Io che mi allontano dal mondo ipocrita dello spettacolo in cui non vengo capita. Mai presa ai provini, sei non la bellona o la bruttina cha fa ridere spesso non trovi collocazione. Nel film Vera si allontana dal suo ambiente per buttarsi in mondo di borgata in cerca verità». È molto orgogliosa del lavoro fatto. «Ho dato l’anima, ho fatto anche la costumista di me stessa, come risulta dai titoli di coda».
Asia, l’amica di sempre
Nel cast, accanto a Daniel de Palma, Sebastian Descalu, c’è la complice di sempre, Asia Argento. «Fa la mia amica del cuore. Lo siamo diventate quando lei aveva 11 anni e io 15. Ho capito subito la sua assoluta genialità. Leggevamo poesie, piangevamo insieme sui versi di Herman Hesse. Non ci siamo mai separate, mi conosce anche più di mia sorella, senza togliere nulla alla mia». C’è stata sempre, sottolinea, l’ha seguita lungo tutti suoi tornanti. «Il teatro innanzitutto nelle cantine dell’allora underground romano». Il cinema, con Dario Argento, Pupi Avati, Sergio Citti, Paolo Virzì. «Piccole parti con grandi registi, ne vado fiera. Ma mi dispiace non averne fatto di più, è stato il mio pane quotidiano». Poi la parentesi americana. «sapevo che Tarantino ammirava mio padre. E tramite un regista amico di Asia, Eli Roth, ho avuto il contatto. Gli ho detto che ero pronta a cucinare per lui. Dopo un mese arriva l’invito. Sono partita con il guanciale sotto vuoto per fargli la carbonara». Per mantenersi ha fatto la spogliarellista, per un annetto. Quindi l’incontro con il padre di suo figlio, un cantante blues. E il ritorno in Italia. «Era morto mio padre, l’ultima volta che l’ho visto era a Los Angeles, per presentare il mio doc su di lui. Ne era felice». Anche il lavoro nel circo è legato a Giuliano. «Lo amava molto, ci andavo con lui. Diceva che avrebbe fatto tutto, salvo entrare nella gabbia dei leoni. Ci sono entrata io, anche per dimostrargli che non mi manca il coraggio». Il 2 settembre avrebbe compiuto 84 anni. «E io sarò al Lido con il film. Lui alla Mostra non ci andò mai. Mi piace pensare che veglierà su di me».
Veronica Pivetti: «Mia sorella Irene non ha aiutato la mia carriera. La depressione? Colpa di farmaci sbagliati». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.
L’attrice, che ha pubblicato un nuovo libro, si racconta a tutto tondo: dagli esordi da bimba a successi e cadute da adulta.
Sognava di fare la ballerina. «Sì, ma ero troppo alta, troppo magra e con i piedi troppo lunghi. Mia madre mi disse: quando alzi le braccia sembri un cavatappi. Il paragone mi fece capire che ero smisurata». Il sogno di Veronica Pivetti, dopo aver frequentato per tre anni una scuola di danza, svanì e cambiò direzione: «Ero convinta di fare la pittrice, infatti dopo il liceo artistico, mi sono diplomata all’Accademia di Brera e ho anche lavorato, per un periodo, nella bottega di un pittore».
Ma allora quando, come e perché ha iniziato a fare doppiaggio e poi l’attrice?
«È una storia che parte da lontano. Avevo 6 anni, ero figlia di un regista e di un’attrice, sin da piccola bazzicavo l’ambiente. Vengo notata da Bruno Bozzetto, che doveva girare uno spot pubblicitario con Maurizio Nichetti. Gli serviva una ragazzina che doveva aggirarsi, con aria spaesata, in una festa di adulti, dove per la prima volta venivano offerte olive snocciolate, le Saclà. Gli piaceva la mia faccetta assurda e mi scritturò. Ero molto divertita da questa nuova avventura, però terrorizzata dal dover mangiare le olive: le detestavo! Comunque fu il mio debutto da attrice, anche se, sempre da bambina ho iniziato il doppiaggio. La cosa curiosa era che, essendo piccola, per raggiungere il leggio troppo alto per me, venivo sistemata su una panca. È stata una vera e propria scuola, mi ha insegnato varie cose».
Quali?
«Il rigore assoluto di un lavoro serio e il dover aderire al personaggio che doppiavo: se tossiva dovevo tossire, se sbadigliava dovevo sbadigliare, se rideva dovevo saper ridere... Mi ha insegnato il buio della sala che è quanto di meno egocentrico possa esistere. Quando sei da solo, la tua faccia non la vede nessuno e l’unica cosa che conta è la tua voce, ti fa capire che sei al servizio del compito che ti è stato assegnato. Non ho mai avvertito la frustrazione del doppiaggio, è stato un impegno di grande dignità e divertente».
Gli episodi più divertenti?
«Siamo nel 1994, mia sorella era stata da poco eletta presidente della Camera. Adriano Celentano doveva fare la pubblicità delle ferrovie dello Stato e, nello spot, aveva bisogno di una voce femminile, quindi ascolta la semplice registrazione di tre voci: sceglie la mia. Lui non mi conosceva e, quando mi presento con nome e cognome, mi chiese scherzando: sei la cugina di Irene Pivetti? Rispondo, veramente sono la sorella. Era piuttosto strano che la sorella di un personaggio politico facesse il mio tipo di mestiere, comunque ho continuato a farlo e qualche anno dopo mi capita un altro episodio curioso: fare doppiaggio per il bellissimo film Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar. Il regista cercava una voce per il personaggio di Agrado, un transessuale, e fecero fare un provino sia a me, sia a un vero trans: bè, Almodóvar scelse me».
Il ruolo pubblico di sua sorella era ingombrante oppure le ha facilitato la carriera?
«Né l’una né l’altra cosa. Se avessi voluto anche io intraprendere la carriera politica, certo, la figura di Irene sarebbe stata ingombrante, basti dire che ancora adesso si sbagliano e mi chiamano Irene, ma ero impegnatissima su altro e cominciai ad avere belle occasioni, di cui lei non sapeva assolutamente nulla. Quando venni chiamata da Fabio Fazio per fare l’inviata a Quelli che... il calcio, furono i commessi della Camera a dirle che mi avevano visto in tv. Non mi sono mai sentita facilitata e nemmeno a disagio per il mestiere che svolgevo distante dal suo. E poi, diciamo la verità: nel mio ambiente è una tale lotta al coltello che darmi i ruoli solo perché ero la sorella di... mi pare davvero improbabile».
Allora è stata facilitata dai genitori, regista e attrice?
«Per carità! L’unica cosa che mi ripetevano era di star lontano dal loro lavoro, lo definivano un ambientaccio e hanno sempre minimizzato le mie performance, non volevano che mi montassi la testa».
La svolta arriva con Carlo Verdone in «Viaggi di nozze».
«Una pietra miliare. Ho avuto la fortuna non solo di lavorare con Carlo, ma di beccare un film diventato poi un cult e un personaggio, Fosca, che mi piaceva da pazzi, permettendomi di esternare la mia naturale timidezza. Quella moglie vittima di quel marito assurdo, vessata e dall’aria bastonata, mi ha sdoganato come attrice comica, dandomi la possibilità di mascherarmi in una figura avvilita, sfigata... E infatti, poi, mi arriva un altro ruolo da sfigata nella serie Commesse».
Un successo che la porterà poi a condurre con Raimondo Vianello ed Eva Herzigova, il Festival di Sanremo.
«Vengo scelta io vicino a Eva, una donna talmente bella, una modella conosciuta in tutto il mondo, inutile fare paragoni tra lei e me. E lavorare con un vero signore, divertente, spiritoso come Vianello. Tra noi tre un rapporto sul velluto, andavamo insieme a mangiare la minestrina nel ristorante vicino al nostro albergo».
Come mai, subito dopo quella esperienza straordinaria, l’hanno beccata a rubare in un supermercato a Roma?
«Follia pura. Ero reduce da un Festival stratosferico, dove mi avevano visto milioni di persone e io rubo un pacco di sottilette. Ma mi hanno beccato subito! Mi fermano all’uscita chiedendomi: signora cos’ha nella borsa? Ovviamente ho immediatamente tirato fuori il malloppo e pagato quello che dovevo, scusandomi».
Un attacco di cleptomania?
«Macché! La classica bravata da idiota, che figura di m...».
E pensare che, in seguito, è stata protagonista proprio della serie «La ladra».
«Sì, ma lì rubavo a fin di bene, per regalare le cose alle persone bisognose».
Tanti successi, tra cinema, tv, teatro, libri... Perché venne colpita dalla depressione che racconta proprio nel suo primo libro «Ho smesso di piangere»?
«Come carattere, sono apparentemente un’estroversa, una mattacchiona, in verità sono un orso, mai stata socievole sin da ragazzina, al contrario di Irene che è leader di natura, socializzava subito. La depressione mi è venuta a causa di un problema alla tiroide: sono stata curata male, con un abuso di farmaci sbagliati. Però ho continuato sempre a lavorare. In quel periodo ero nel Maresciallo Rocca, con il mitico Gigi Proietti».
Depressa in una fiction-commedia: come ha fatto?
«Riuscivo a sdoppiarmi, fingevo e proprio questo mi ha aiutato: immergermi in un personaggio tutt’altro che drammatico, mi faceva uscire dal mio stato depressivo. Tra un ciak e l’altro, però, un fiume di lacrime e la mia truccatrice mi inseguiva per riattaccarmi sulle palpebre le ciglia finte».
E i compagni sul set se ne sono accorti?
«No, nemmeno Gigi se ne accorse. Nella depressione non ti frega niente di niente, invece io avevo un compito da svolgere ed è stato salvifico».
Perché poi ha pubblicato un altro libro intitolato «Mai all’altezza». All’altezza di chi?
«Di chiunque! È il racconto dell’inadeguatezza costante in cui mi dibatto sin da quando sono nata. Pur essendo conscia del mio valore, quando si tratta di relazionarmi con il prossimo mi sento sempre di meno. Pur avvertendo il calore del pubblico, non sono mai sicura di me stessa... è un imprinting che mi porto dietro sin da bambina. Ma nella seconda parte della mia vita, mi dedico all’esercizio di essere più in pace con me stessa».
La separazione da suo marito e il non aver avuto figli sono in qualche modo legati al suo carattere solitario?
«Niente di tutto ciò. Quello che abbiamo è quello che vogliamo. La separazione è una cosa che accade. Non ho avuto figli forse perché non li volevo così tanto. Se fossero venuti, penso che sarei stata contenta, ma l’importante è sentirsi liberi nelle scelte».
Nel suo terzo libro pubblicato l’anno scorso, «Per sole donne», ha parlato proprio di libertà, anche sessuale.
«È stato un romanzo spudorato, mi sono divertita a usare un linguaggio esplicito, usando termini proibiti. Oltrepassati i 50 anni ho sentito la voglia di parlare di sesso dal punto di vista femminile, perché non è vero che con la menopausa sei uno straccio sporco e tutto finisce... si vive la sessualità in maniera diversa. E poi ho raccontato anche di donne assatanate di libidine, di donne omosessuali... La cosa curiosa è che mi hanno detto: sembra un libro scritto da un uomo. Solo gli uomini possono parlare di sesso?».
E il nuovo romanzo è addirittura un giallo messicano: «Tequila bang bang».
«Mi sono posta il problema: sarò in grado di scriverlo? Una prova pazzesca perché in un giallo i conti devono tornare. Tutto è nato dal mio cellulare, il Nokia 3310, che è quello usato dai narcotrafficanti, perché non è intercettabile, ci puoi solo telefonare. E questo genere di cellulare è diventato protagonista della storia, ambientata in Messico. Nella storia che racconto, ci sono tanti omicidi, muore tanta gente, è molto sanguinario, splatter... sono un’ammiratrice di Tarantino. Lo definirei un noir comico».
Tanti libri e anche tanto teatro. Forse non a caso lo spettacolo con cui è in tournée adesso è «Stanno sparando sulla nostra canzone».
«È ambientato negli anni Venti, un secolo fa, e impersono Jenny Talento, una fioraia di giorno, spacciatrice di oppio la notte... e si parla anche, guarda caso, dell’epidemia della Spagnola».
È stata oppure è tuttora spaventata dal Covid?
«In genere, non ho paura delle malattie. Certo, la pandemia esiste, ma non mi ha preoccupato più di tanto. Mi preoccupa molto di più la guerra in corso. Se avessi Putin davanti, gli direi: dopo il Covid pure le bombe? Bè adesso basta!».
Veronica Pivetti: quando cantava la sigla di un cartoon, l’incendio che le ha cambiato la vita e altri 9 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
Gli inizi
Giovedì 17 marzo alle 21.20 su Rai 3 torna Amore criminale. Al timone del programma di Matilde D’Errico, Luciano Palmerino e Maurizio Iannelli dedicato alle donne vittime di violenza domestica e femminicidio ci sarà ancora una volta Veronica Pivetti. L’attrice, protagonista di fiction di successo, doppiatrice di talento e conduttrice, è nata a Milano il 19 febbraio 1965 (è sorella minore dell’ex Presidente della Camera Irene, figlia del regista Paolo e dell’attrice e doppiatrice Grazia Gabrielli). Forse non tutti sanno che prima di avvicinarsi al mondo dello spettacolo ha frequentato il liceo artistico dalle Orsoline e, dopo il diploma, l’Accademia di Brera. In seguito ha lavorato per un periodo presso la bottega di un pittore.
Voce di Goldie Hawn e Fran Drescher
Veronica Pivetti ha alle spalle una lunghissima carriera come come doppiatrice, iniziata quando aveva soltanto sette anni. Ha prestato la voce a moltissimi personaggi di cartoon (come la Regina Periglia di Sailor Moon) e a volti noti di cinema e tv come Goldie Hawn nel film «Il club delle prime mogli» e Fran Drescher - la mitica Tata Francesca - in «L'amore è un trucco».
Con Carlo Verdone in «Viaggi di nozze»
Quando nel 1993 partecipa come ospite fissa alla trasmissione televisiva «Quelli che... il calcio, accanto a Fabio Fazio, viene notata da Carlo Verdone che la vuole accanto a sè - per interpretare la remissiva e sottomessa Fosca - nel film «Viaggi di nozze» (1995). È il suo debutto nel cinema, e l’anno successivo viene diretta da Lina Wertmuller in «Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica», in cui è protagonista (nei panni di una parrucchiera leghista di ferro) insieme a Tullio Solenghi (un metalmeccanico di fede comunista).
Sul palco dell’Ariston
Nel 1998 ha condotto insieme a Raimondo Vianello ed Eva Herzigova il Festival di Sanremo, edizione vinta da Annalisa Minetti con il brano «Senza te o con te» (che trionfò sia tra i Giovani sia fra i Campioni). A proposito di canzoni forse non tutti sanno che nel passato di Veronica Pivetti c’è anche un singolo, «Danguard/Danguard al decimo pianeta» (sigla dell’omonimo anime), pubblicato col solo nome di battesimo nel 1979.
Da commessa a prof
Nel 1999 è una delle protagoniste della popolare fiction «Commesse», che lancia la sua carriera in televisione: tra il 2003 e il 2005 succede a Stefania Sandrelli nel ruolo di compagna di Gigi Proietti nella quarta e nella quinta stagione de «Il maresciallo Rocca» e, sempre nel 2005, prende il via la serie di successo «Provaci ancora prof!» (2005-2017). Nel 2009 veste i panni di Beniamina Volò, pronipote di una Befana del passato, in «Miacarabefana.it» (e nel sequel del 2011 «S.O.S. Befana») mentre nel 2010 interpreta una donna dalla doppia vita in «La ladra».
L’impegno contro la violenza sulle donne
Giovedì 17 marzo alle 21.20 su Rai 3 torna Amore criminale. Al timone del programma di Matilde D’Errico, Luciano Palmerino e Maurizio Iannelli dedicato alle donne vittime di violenza domestica e femminicidio ci sarà ancora una volta Veronica Pivetti. L’attrice, protagonista di fiction di successo, doppiatrice di talento e conduttrice, è nata a Milano il 19 febbraio 1965 (è sorella minore dell’ex Presidente della Camera Irene, figlia del regista Paolo e dell’attrice e doppiatrice Grazia Gabrielli). Forse non tutti sanno che prima di avvicinarsi al mondo dello spettacolo ha frequentato il liceo artistico dalle Orsoline e, dopo il diploma, l’Accademia di Brera. In seguito ha lavorato per un periodo presso la bottega di un pittore.
Tra libri e talk
Tra il 2012 e il 2013 ha guidato il gioco «Per un pugno di libri» in onda su Rai3, uno dei pochi spazi televisivi espressamente dedicati ai libri e alla lettura. Sullo stesso canale dal 2019 è una presenza fissa del talk di Massimo Gramellini «Le parole della settimana».
Il teatro
Nel corso della sua carriera Veronica Pivetti si è anche dedicata al teatro, dallo spettacolo «Sorelle d’Italia: avanspettacolo fondamentalista» di Cristina Pezzoli (2011) a «Viktor und Viktoria» (portato in scena dal 2018 fino allo scorso anno). Attualmente è impegnata con «Stanno sparando sulla nostra canzone», una black story musicale di Giovanna Gra ambientata nell’America dei mitici anni Venti.
La lotta contro la depressione
L’attrice ha lottato per sei anni contro la depressione: «La depressione colpisce tante persone, è molto ‘democratica’ - raccontava nel 2020 a Domenica In -, Quasi sempre viene sottovalutata ma, datemi retta, se ne può uscire. La cosa più sbagliata è vergognarsi, nascondersi. Siamo tutti imperfetti e tutti possiamo attraversare un momento di difficoltà. La depressione non è uno stato d’animo, è una malattia e va curata come tale. Io ne sono uscita dopo un percorso molto difficile. Preparatevi, da molte persone non verrete capiti». Ha parlato pubblicamente per la prima volta del suo difficile percorso nel libro «Ho smesso di piangere. La mia odissea per uscire dalla depressione» (2013).
L’incendio che le ha cambiato la vita
«Non so come sia stato possibile, mi stavo facendo un tè con un pentolino sul fuoco e all’improvviso si è alzata dal fornello una fiammata enorme. Ho avuto la prontezza di spirito di prendere i miei due cani e scappare». Così Veronica Pivetti raccontava nel 2014 l’incendio che ha distrutto la sua casa romana. «Sono sotto choc - ha aggiunto - viva per miracolo, la mia casa non esiste più, mi rimangono solo i vestiti che ho addosso, una maglietta e un paio di pantaloni. Per fortuna non sono scappata sul terrazzo, mi hanno detto i vigili del fuoco, altrimenti sarei morta». L’attrice ha perso ogni cosa, compreso il pc con cui stava scrivendo il libro «Mai all’altezza» (che poi ha riscritto e pubblicato nel 2017): come ha rivelato in numerose interviste questo evento ha fatto da spartiacque, dividendo la sua vita in un «prima» e un «dopo».
Vita privata
Della vita privata di Veronica Pivetti, tolto il matrimonio con il collega attore Giorgio Ginex (durato dal 1996 al 2000) si sa molto poco: l’attrice infatti ha sempre mantenuto il più stretto riserbo su questo genere di informazioni. Nel 2017, quando in un’intervista ha parlato del rapporto con la sua amica Giordana con cui conviveva («Il mio rapporto con lei è serio, sincero, profondo, intenso. Vivo con lei e due cani, siamo una famiglia, non potrei desiderare di più. Gli uomini mi hanno delusa. Oggi sono felice così»), le sue parole sono state interpretate come un coming out, subito smentito: «Scrivere a caratteri cubitali “Basta con gli uomini, vivo con un’amica” fa presupporre che io abbia sostituito gli uomini con le donne. È anche abbastanza evidente il desiderio pruriginoso di far intendere una relazione che vada oltre l’amicizia». Nel 2019, parlando con il settimanale Chi, ha rivelato che una volta ha scoperto il tradimento di un suo ex perché un vicino di casa, fermandola sul pianerottolo, le aveva raccontato che il suo compagno la tradiva con sua moglie: «In amore ho sempre sbagliato, sono una donna che ha dato le cosiddette perle ai porci».
Victoria Cabello: «X Factor? Ero la panchinara di Simona Ventura. Cattelan guida malissimo. Che litigio con Russel Crowe». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 4 Agosto 2022.
La conduttrice si racconta: «Simona Ventura con me non è stata generosa»
Di cosa si è pentita?
«Di non essere andata in vacanza con Dario Argento, uno dei personaggi più divertenti che abbia mai intervistato, ironico, uno che si presta a qualunque cosa. Siccome andavamo molto d’accordo mi propose di fare una vacanza insieme. Io pensavo al sole, al mare e lui mi dice: dobbiamo andare in un posto dove piove sempre. Mi sembrava troppo, ma con l’età ho iniziato ad apprezzare anche io un certo tipo di luoghi. Adesso sarei pronta».
Ironica e sfacciata, tagliente e caustica, imprevedibile con un tocco di sana follia, Victoria Cabello ha costruito la sua carriera televisiva sull’estro della sua vis comica. Pezzo forte, le incursioni da Iena e le interviste alla David Letterman (quando nessuno, come ora, sapeva chi era, ma lei lo ha fatto prima).
L’incontro che non si è realizzato?
«Ai tempi di Victor Victoria preparavo delle sigle reinterpretando videoclip musicali famosi. Avevo in mente di farne uno dei Bee Gees: ero riuscita a convincere Favino, io facevo l’altro Bee Gees, per il terzo, quello depresso, volevo coinvolgere Nanni Moretti, che adoro. L’ho chiamato alle 9 del mattino, ma stava guardando un film russo e mi ha richiamato quando è finito, quindi sette ore dopo... Mi disse che la richiesta era talmente folle che non poteva non rispondermi personalmente, abbiamo chiacchierato molto al telefono e abbiamo scoperto di avere una passione comune: lui adora cercare case in vendita, io mi addormento tutte le sere su immobiliare.it, guardando case che non potrò mai permettermi».
Il suo debutto nel mondo dello spettacolo fu nel cinema, nel film «Ragazzi della notte» di Jerry Calà.
«Io ero la bacchettona sfigata del gruppo, lui era già oltre la fase della “libidine coi fiocchi”, faceva la regia, quindi posso dire di aver lavorato con il Woody Allen italiano».
Il Woody Allen vero lo ha intervistato.
«Gli dissi che avevo delle ottime doti, che ero un talento sprecato e gli feci vedere un mio reel del meglio — o forse era il peggio — che avevo fatto. Purtroppo non mi ha ancora preso...».
Velo bianco, lo scambio degli anelli, Pif come finto prete: alla Mostra del Cinema di Venezia ha sposato George Clooney.
«Ho pensato che era la cosa che tutte le donne avrebbero voluto fare con lui. Mi ero rotta la gamba il giorno prima e avevo chiesto di non ingessarmela, che sarei tornata il giorno dopo perché dovevo mettermi l’abito da Iena. Fu una follia».
A Sanremo invece ha baciato Orlando Bloom.
«Credo che si sia lasciato con la fidanzata dopo che l’ho limonato sul palco. In quell’occasione un po’ di lingua l’ho messa davvero, mi sono fatta trascinare dal momento».
Sempre al Festival si è fatta massaggiare i piedi da John Travolta.
«All’epoca ero fidanzata con Maurizio Cattelan che ha l’ossessione per la piscina, ci va tutti i giorni; quindi mi convinco che potrebbe fare bene anche a me, pur detestandola. Ci vado una sola volta e ovviamente prendo un fungo, all’alluce. È il meno, perché mentre faccio la pedicure per preparare la gag mi si stacca completamente l’unghia. Ottimo. Ci pensa la mia truccatrice e me la risistema con l’Attak: per tutto il tempo dell’intervista avevo il terrore che si staccasse. Spero almeno che lui non abbia preso una micosi alla mano».
Era il Sanremo di Panariello con Ilary Blasi.
«Io ero l’outsider, arrivavo da Mtv, quando hanno fatto il mio nome molti si erano chiesti: ma chi cavolo è? La Cabello? Chi? Sono stata scelta da Panariello che probabilmente soffriva di insonnia e guardava Mtv di notte. Da outsider puoi permetterti di fare e dire qualunque cosa, me la sono goduta perché il peso non era sulle mie spalle. A Sanremo tornerei subito».
L’intervista più deludente?
«Russell Crowe ai tempi di Mtv. Ci ho litigato perché ha trattato malissimo la mia crew, era nervoso, è stato sgradevole, se ne è uscito con un “voi italiani siete lenti”. L’intervista era partita male, non ha preso bene una mia domanda e mi ha risposto fuck you and fuck Mtv. Io ho ricambiato...».
Da dove le viene questa faccia tosta?
«Faccio certe cose e le rimuovo. Come il toro che vede rosso, vado, eseguo le peggio azioni e dimentico. Se mi riguardassi mi vergognerei, ma non rivedo quasi mai quello che faccio perché mi detesto. La verità è che ho avuto un gran culo nella vita, dando sfogo a tutte le scemenze che mi venivano in mente. Sono stata molto fortunata».
L’ironia invece da chi l’ha presa?
«Con mio padre condividevo la passione di programmi di satira che ero così piccola da non comprendere, come Lupo solitario, con Patrizio Roversi e Syusy Blady. Adoravo Anna Finocchiaro. E Sabina Guzzanti, facevo le imitazioni delle sue imitazioni. Il mio mito assoluto però era Serena Dandini, da piccola sognavo di essere lei».
Perché era affascinata da Serena Dandini?
«Mi piaceva il fatto che tenesse le fila di quella compagnia di giro, era l’orchestratrice. Io penso di non saper fare bene niente, faccio solo cazzate. Se dovessi pensare a un mio talento francamente non mi viene in mente. Mi riconosco però la facilità di trovare il talento negli altri, come in Victor Victoria, dove creammo un grande gruppo con Geppi Cucciari, Virginia Raffele, Arisa. O a Quelli che il calcio, sempre con Virginia, Ubaldo Pantani, Lillo e Greg».
Mamma inglese di origine irlandese e papà italiano.
«Si sono conosciuti su un’isola nella Manica durante una vacanza, la classica cosa dell’italiano che rimorchia l’inglese e alla fine fanno due figli».
È cresciuta a Valsolda, 1400 persone in provincia di Como.
«È il piccolo mondo antico di Fogazzaro, crescere lì è bello per un weekend, poi te ne vuoi andare...».
La sua biografia dice anche che ha studiato con il maestro giapponese Kuniaki Ida.
«È un docente di recitazione della Paolo Grassi a Milano. Era il preparatore di Milva, passava metà lezione a parlare di lei. Era un personaggio incredibile, se ne usciva con frasi tipo, qua bento, e dovevi interpretare cosa diceva, come se avesse l’Invisalign, l’apparecchio per i denti. Aveva un metodo molto fisico, impegnativo, alla quarta lezione mi sono spaccata il naso in un esercizio in cui io e un compagno vestito da clown dovevamo fare il vento; dovevi fidarti del tuo compagno, il gioco era cercare di anticipare e muoversi nello spazio, io e il clown abbiamo sbagliato e mi ha spaccato il naso, alla fine sembravo Rocky dopo un incontro di pugilato».
In «Il cosmo sul comò» con Aldo, Giovanni e Giacomo lei era la «Dama con l’ermellino».
«Peccato che i tre avessero omesso il piccolo dettaglio che non mi avrebbero dato un animale impagliato, ma un furetto vero. Ecco, se c’è una animale di cui ho il terrore, è il furetto. Volevano farmi familiarizzare con lui e me l’hanno messo in braccio, ma è della famiglia delle puzzole e quando è nervoso secerne un odore pestilenziale che ti rimane addosso una settimana. Loro poi rovinavano apposta i ciak, il furetto era inquieto e alla fine non si è trattenuto e mi ha lasciato i suoi ricordi più intimi. Una grande interpretazione».
Non se lo ricorda nessuno, ma lei è stata giudice di «X Factor».
«In effetti lo avevo quasi rimosso anche io... Queste esperienze ti insegnano cosa non sai fare e dove non devi andare. Mi sentivo male a dover dare dei giudizi su ragazzini carichi di sogni, lì poi è una lotta interna, c’è un ego tra i giudici che ciao. Io non sono portata per fare la televisione urlata, quello è uno show dove per farti valere devi alzare i toni: ma se lo fa un uomo è un figo, se lo fa una donna è una stronza isterica. In quel contesto mi sono proprio bloccata».
Era in giuria con Morgan, Fedez e Mika. Chi aveva più ego?
«Benvenuti nel mio ego, scelga lei».
Lei ha preso due volte il posto di Simona Ventura, a «Quelli che il calcio» e a «X Factor». In che rapporti siete?
«Mi sa che sono la sua riserva, la panchinara. Me lo avevano proposto anche una terza volta per Il contadino cerca moglie, ma ho detto no grazie: dai ragazzi, è troppo. Per altro credo lo avessero chiesto a chiunque, anche alla mia vicina di casa. Ho sempre stimato tantissimo Simona Ventura, è stata una di quelle donne che ha sdoganato un certo modo di fare televisione. Il suo Sanremo era modernissimo, c’era un mondo dentro, certo non c’erano gli ospiti purtroppo... ma non per colpa sua. Poi Simona non è stata generosissima con me, però pazienza, sottoscrivo quello che ho sempre detto: era avanti, coraggiosa, moderna nel linguaggio, ha fatto scuola».
Ha fatto (e vinto) «Pechino Express» da concorrente.
«Una delle esperienze più folli e divertenti che ti possano capitare nella vita. Per dire: ho anche mangiato un pene di montone, cosa che non capita tutti i giorni. Ma lo rifarei ogni anno».
È stata fidanzata con Maurizio Cattelan.
«Lui guida malissimo, io invece da Dio, contrariamente a quello che si dice delle donne. Lui per girare abbassava il finestrino e tirava fuori il braccio; in autostrada stava in corsia di sorpasso a 80 all’ora e io cercavo di spiegargli che non era il caso. Spesso e volentieri venivamo insultati, così abbiamo messo nel lunotto posteriore una mano che faceva il dito medio, una di quelle con la molla, per salutare quelli che ci mandavano a quel paese».
Il dito medio davanti alla Borsa di Milano è un messaggio per lei?
«In effetti continuo a pensare che sia dedicato a me, o per lo meno l’ho ispirato...».
Da Oggi il 9 giugno 2022.
«I medici mi dicevano che ero pazza, depressa, che mi dovevo trovare un fidanzato. La borreliosi è una malattia subdola, ti dà mille sintomi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, un puzzle di schifezze…».
E poi, dopo la diagnosi e la lunga cura: «La paura di stare male mi aveva fatto chiudere in una bolla, non riuscivo più a lavorare. Poi mi sono detta basta, so di essere guarita, devo solo provarlo a me stessa, e ho detto sì a Pechino Express. La mia analista non vedeva l’ora».
Victoria Cabello, spiega così, in un’intervista al settimanale Oggi in edicola giovedì, i lunghi anni lontano dalla tv dopo essere guarita dalla borreliosi di Lyme, la malattia infettiva che l’ha colpita nel 2015. «Facevo fatica a scandire le parole, a camminare, non ricordavo una chiamata fatta il giorno prima. Stavo male, ma nessuno mi credeva».
Con Oggi, la vincitrice di Pechino Express accanto all’amico Paride Vitale si confida per la prima volta sul suo rapporto con la madre Josephine: «È inglese, in Italia non si è mai integrata davvero, da piccola ero io il suo tramite col mondo». E parla anche del suo rapporto con gli uomini: «Innamorata? Non mi capita da tanto. Un tempo mi piacevano gli stronzi. Ora ho una nuova tecnica: individuare lo stronzo e fidanzarmi con quello di fianco a lui».
Francesca D'angelo per “Libero Quotidiano” il 15 maggio 2022.
Parliamoci chiaro: è tutto bellissimo, ma questa cosa di Victoria Cabello tanto brava, rinata dalla malattia, che vince Pechino Express (è successo giovedì scorso) non può finire così, con una pacca sulla spalla e un sentito "arrivederci e grazie". Insomma, l'avete vista? È davvero Pazzesca. Non è umanamente comprensibile che qualcuno non si sia già attaccato al telefono per offrirle un programma tutto suo. Sky, ma pure Mediaset, Rai, Discovery o una piattaforma streaming a caso, cosa state aspettando? In un mondo dove Tommaso Zorzi è l'astro nascente della tv, una come la Cabello dovrebbe andare in onda perlomeno a reti unificate. E no, non stiamo esagerando.
Prendete per esempio proprio il caso di Pechino Express. Com' è noto a marzo il programma ha traslocato da Rai Due su SkyUno ma, nel momento esatto in cui è stato annunciato il cast, dello scippo eclatante non fregava più niente a nessuno. L'unica, vera, notizia era: «È tornata la Cabello in tv». La nostra mancava infatti da tre anni, che a noi però sono sembrati mezzo lustro. D'altronde lei era nostra signora di Mtv, la Very Victoria che si era inventata di sana pianta un nuovo modello di talk.
VUOTO INCOLMABILE A chi volete infatti che si siano ispirati il buon Valerio Lundini o Alessandro Cattelan (il primo facendo molto bene, il secondo meno)? Loro non sono altro che i "bimbi di Vicky", per dirla alla maniera social, ma l'originale resta imbattibile.
Andandosene Vicky aveva insomma lasciato un vuoto incolmabile, sebbene non per sua scelta.
Ad allontanarla dalle telecamere è stata infatti la malattia di Lyme: una patologia infettiva, trasmessa dalle zecche, che può avere grosse complicazioni neurologiche se non viene presa in tempo.
E qui si impone un inciso: quando sei famoso e un malessere insidia la tua carriera, l'imperativo categorico è non farsi dimenticare.
L'oblìo è la morte della carriera. Di norma il manuale delle pr raccomanda pertanto la seguente terapia professionale: rilasciare interviste strappalacrime durante la degenza e poi, quando stai un po' meglio, andare in una Casa o su un'Isola a dire «ora sto un po' meglio». Ebbene, Vicky non ha fatto né l'uno né l'altro.
Nei tre anni di assenza si è limitata a dare un nome alla sua malattia, e poi basta: non si è messa a ravanare nel torbido. Non ha cavalcato l'effetto pietà, ma si è ritirata nell'oblìo. Poi, quando ne è venuta fuori, ha preso lo zaino in spalla e si è fatta qualcosa come 7mila kilometri a piedi e in autostop. Settemila. «Non sarei mai partita senza Paride», ha più volte assicurato la Cabello che, per l'appunto, a Pechino Express gareggiava con il suo amico di sempre. Insieme i due formavano la squadra dei Pazzeschi.
Il bello è che la Cabello non se l'è tirata nemmeno quando ha vinto: «Il fattore c... è l'unica cosa che fa la differenza», ha spiegato lei, chiarendo che molto dipende dalla fortuna di trovare velocemente dei passaggi. In parte è vero, ma non nel senso che intende lei: la buona stella non c'entra, Vicky ha vinto perché si è fatta un c..o così.
Non ha mai mollato ed è stata sempre esilarante: tra i momenti più iconici, quello del wc portatile. Sì, esatto. Cabello si è premurata di risolvere il problema "sosta pipì" scovando questo gadget in rete. Fossi in Amazon, congederei Fedez e Achille Lauro seduta stante e arruolerei lei come testimonial. Ma mica è finita qui. Nossignori.
SHOW NELLO SHOW Durante la messa in onda di Pechino, la Cabello ha creato uno show nello show sui social: il giorno dopo la puntata, postava su Instagram un video dove dialogava con Alexa. Puntualmente l'aggeggio elettronico la massacrava, elargendo commenti sprezzanti sulla sua prestazione a Pechino Express. Se quindi lo show ha ottenuto una media d'ascolto pari a 474.000 spettatori medi e il 2% di share, è anche merito suo (e di Alexa, ovviamente). Quindi, ora: capiamoci. Alla luce di tutto ciò, vogliamo davvero mandarla a casa così?
All'Ansa, la conduttrice ha detto che con Sky stanno «chiacchierando». Scusate, ma non ci basta: pretendiamo un comunicato ufficiale che ci rassicuri che la Cabello è tornata per restare. «Mi piacerebbe proseguire nel mondo viaggi, magari facendo qualcosa insieme a Paride», ha buttato lì lei. Per quel che vale, per noi ha carta bianca: Victoria ha fatto quasi sempre bene, da Mtv a Sanremo. Giusto a X factor, come giudice, non è stata indimenticabile ma uno scivolone non fa che renderla più umana. Broadcaster, datevi da fare.
Giovanni Audiffredi per D-la Repubblica il 9 marzo 2022.
Al vertice della piramide della felicità, per il ritorno in televisione di Victoria Cabello, c’è la sua analista: «Ha pensato di prendermi a calci pur di farmi salire sull’aereo di Pechino Express».
Al secondo posto, con una dose di letizia ancora da smaltire, si piazza Paride Vitale, fondatore dell’omonima agenzia di comunicazione, istrionico esponente della gauche più o meno caviar milanese, funambolico organizzatore di eventi a cavallo tra arte, design e spirito burlesque: «Senza Paride a fare squadra con me, non sarei mai partita. L’ho invitato io. È l’amico fraterno con l’adeguato tasso di follia necessario. Insieme formiamo il team de: I Pazzeschi».
Invece le orecchie di Silvano, il compagno di vita di Victoria, sono tuttora basse. Il suo animo da cocker albino non si è ancora riavuto dallo shock della privazione di amore incondizionato per un numero misterioso di settimane. Infatti, per evitare spoiler, è calata una cortina di adamantio su Pechino Express, la Rotta dei sultani, che dal 10 marzo, ogni giovedì in prima serata su Sky e in streaming su Now, attraverserà 7mila chilometri a partire dalla Turchia e poi verso Uzbekistan, Giordania ed Emirati Arabi, fino al gran finale tra le torri di Dubai. I bookmaker del travel reality show, giunto alla nona edizione e condotto da Costantino della Gherardesca, quotano tra le probabili coppie vittoriose proprio quella Cabello-Vitale.
Ma essendo una gara a eliminazione, non è dato sapere fin dove i concorrenti si siano spinti. E poi nel programma – produzione Sky Original realizzata da Banijay Italia – sono in gara altri 9 team, con alcuni nomi di eccellenti giocatori. Per citare i più noti: Rita Rusic, Alex Schwazer, Natasha Stefanenko, Ciro Ferarra, Bugo. Il format è scritto nella pietra: zaino in spalla, un euro al giorno in valuta locale e adios. Chi meglio alloggia e si nutre lo deve solo all’arte di arrangiarsi.
Cabello, definisca Pechino Express a telespettatori neofiti.
«È un programma politico. Nel senso che si incarica di ribaltare gli stereotipi culturali di al- cune aree del mondo, dove beccarsi una telecamera in faccia non rende proprio felicioni. Invece, Pechino mostra l’umanità dei popoli e questa edizione mediorientale riserverà inediti orizzonti. Come direbbe Kim Kardashian: Is life changing».
Venti camere, 3.500 ore di riprese montate in 13mila ore di lavoro. Quanto c’è di autentico?
«Troppo. Onestamente pensavo che una volta spenta la telecamera, scattasse l’aiutino. Invece dormi per terra e chiedi l’elemosina a persone che vorresti parlassero inglese, anche solo come Matteo Renzi. Sempre pensato di avere spirito di sopravvivenza, eppure ho vacillato».
Le è piaciuto?
«Tantissimo. Non ho grandi talenti, ma ho il dono dell’empatia. È da quando facevo l’inviata a Le Iene che in borsa tengo un paio di mutande e lo spazzolino. Attitudine: pronta a partire».
Eppure, ci ha pensato tanto prima di accettare?
«È noto che ho avuto la sindrome di Lyme (grave infezione trasmessa dalle zecche che altera sistema neurologico, cardiaco e articolare, ndr). Ho pensato di morire e ho affrontato un lungo percorso riabilitativo. Ora è passata, ma quell’essere stata in ginocchio condiziona ancora la mia vita.
È un malessere profondo, ma anche una scusa per fingere di non volere uscire dalla comfort zone faticosamente raggiunta. Comunque, lo step gigante da fare è svegliarsi una mattina e non sentirsi più una persona malata. Pechino è stato un calcio in culo che mi ha dato la grinta per svoltare. Di dimostrare a me stessa che sto bene e ce la posso fare».
Timore anche di mostrarsi al pubblico dopo tanto tempo?
«Baratro del giudizio. Ho sempre scritto i miei programmi e detesto non avere il controllo. Ma una volta ho sentito Marina Abramovich al MaXXI raccontare in base a cosa sceglie i suoi progetti. Ha detto: “Se mi terrorizza vuol dire che è giusto, che mi metterà alla prova e dovrò andare oltre me stessa”. Ecco, supererò le critiche dei social e ‘sti cazzi».
Avrà faticato a tenere in riga la sua frangetta?
«Be’, sembro Linda Blair ne L’esorcista. Michelle Hunziker direbbe: “ma amo me”».
I Pazzeschi hanno anche litigato tra loro?
«Almeno due vaffa al giorno. Ma entrambi sappiamo andare oltre in fretta. Però a Paride la cartina non l’ho lasciata: l’avrebbe persa in un secondo».
Vi siete allenati all’avventura?
«Ho studiato inutilmente geografia. Paride ha svaligiato Technogym e si è presentato con un fisicone. Per la quantità di gin tonic che ha bevuto nella vita dovrebbe essere morto».
Cabello, con i miei occhi l’ho vista ballare facendo twerking a testa in giù.
«Confesso: sono una party animal senza ritegno. Questo fa punteggio a Pechino e non solo».
Oggi la tv interessante, quella delle piattaforme, si paga.
«Ballando con le stelle, Amici, C’è posta per te, sono intrattenimenti di grande qualità non on demand. Se parliamo di ricerca dell’audience, limiterei la performance ai grandi eventi tipo Sanremo. Per cose che fanno parlare: Pechino e Lol. In generale ha senso spendere per la tv».
Gruppo d’ascolto per la prima puntata di Pechino con dei suoi ex. Cosa direbbero?
«Tutti in un solo salotto non ci entrano».
Limitiamoci ai molto famosi di cui è rimasta buona amica.
«Maurizio Cattelan, che nella vita avrebbe voluto fare l’autore tv, mi vedrà come una performer che lancia messaggi dirompenti. Marco Balich, specialista del “ciao come sto” direbbe “brava” e poi userebbe la parola Pechino per parlarmi della sua prossima cerimonia olimpica. Andrea Rosso si gaserebbe per lo styling definendo il mood: unfuckable. E Barù, sulla cui ferma eterosessualità vorrei rassicurare tutti, si limiterebbe a: “Mi dicono che da quelle parti si mangi divinamente”».
Vincenzo Salemme: «Ho iniziato a recitare per nascondere i miei tic. Al pubblico chiedo io i selfie». Valerio Cappelli Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.
L’attore: «Casa mia sono tutti i palcoscenici. Una volta recitavo a Vienna con Carlo Buccirosso e venne giù la sala per gli applausi. Lavorare con Eduardo? Nelle pause mi fulminava. Alle Feste dell’Unità doveva spacciare per freschi i calamari surgelati».
La prima cosa che caratterizza Vincenzo Salemme è la gentilezza, l’accoglienza, l’ospitalità. Poi viene tutto il resto, compreso il talento. Non lo dice ma si capisce che rivendica il suo diritto alla normalità. L’antidivismo di un attore si ritrova nella sua casa: poche foto dei suoi successi, l’«Io» tenuto nel cassetto. Ha un senso di gratitudine e di vera riconoscenza, alla fine del suo spettacolo, Napoletano? E famme ‘na pizza! quando chiede di fare un selfie col pubblico, gli attori sul palco e la platea alle spalle.
Perché fa il selfie?
«Perché io devo il successo, come accade a pochi attori, a loro. Non ho avuto un riconoscimento diciamo istituzionale. Dopo le chiusure della pandemia ho ritrovato gli spettatori ed ero spaventato. Mi dicevo: ma non è che si sono scordati di me? Al debutto della tournée ho dovuto trattenere le lacrime. E poi, stare seduti due ore con la mascherina e ridere, mica è facile».
Perché dice che manca l’altro riconoscimento... Ha girato 12 film, mai vinto un David?
«Mai. Manca la considerazione di quello che faccio, la critica nazionale non viene mai a vedermi. Ma non mi lamento, sono contento e appagato. Mi spiace non tanto per me, ma per chi esce di casa e va a teatro; mi spiace per il panorama italiano».
Perché succede?
«Forse perché non somiglio a nessuno ed è difficile darmi un’etichetta. A volte mi dicono: hai recitato con Eduardo De Filippo, con Nanni Moretti, e poi fai queste cose a teatro? Ma io per fare queste cose ho avuto bisogno degli insegnamenti di Eduardo. L’attore prima di tutto ha il dovere di vivere. Devi essere autentico. Vivere e amare fino in fondo. E tutto questo finisce in palcoscenico».
Eduardo com’era?
«Ho recitato in tre sue commedie in tv. Malgrado l’austerità e l’aspetto severo, era un uomo semplice. Nelle pause mi fulminava. Io restavo lì per vedere se mi diceva qualcosa. Voi lo sapete, mi diceva, perché mi viene a vedere tutta questa gente? Aspettano che io muoia. Così possono raccontare: l’ho visto morire. Il teatro è quello, è l’attimo in cui arriva, non è né prima né dopo».
Nel suo spettacolo prende di petto i luoghi comuni su Napoli, la pizza, il caffè che deve essere bollente, gli scippi...
«C’è anche un luogo comune che mi riguarda. Quando mi presentano in tv dicono: attore comico napoletano. Ma non lo dicono di un milanese. Del napoletano, invece, sì».
È nato a Bacoli.
«Mamma maestra elementare, papà avvocato. A Napoli andai al liceo Umberto. Trenta chilometri, un altro mondo. Mi sentivo fuori posto. Essere provinciale negli Anni 70 era diverso. Oggi c’è Internet... Se mi prendevano in giro? Beh sì, a Bacoli parliamo a cantilena, la u al posto della o, ‘u pane, ‘i femmene».
Che tipo era?
«Ero e sono un solitario. Cambiavo comitive. Sempre nomade, mai stanziale. A Bacoli frequentavo il cinema di mio prozio. Nei giorni feriali eravamo io, un sordomuto, un ragazzo down e Mimmotto ’o mostro, chiamato così per via di un incidente. Al tempo non c’era rispetto della diversità. Sono cresciuto con i peplum, Maciste, Ursus, i primi western, robaccia...».
A Napoli vendeva pesce alle Feste dell’Unità.
«Da ragazzo dovevo spacciare per freschi i calamari surgelati, a mille lire. Io dissentivo. Mi veniva risposto da un dirigente del partito: che t’importa, è un prezzo politico... Obiettai: ma noi siamo la verità. E lui: se gli dici la verità, il pesce non se lo comprano più. Qualche riflessione sulla sinistra andrebbe fatta».
Quando ha cominciato a recitare?
«Alle elementari dalle suore c’era la recita per il vescovo, mi piaceva il palcoscenico, potevo mostrarmi come non ero nella realtà. Avevo molti tic. Per esempio, dopo cinque metri mi giravo su me stesso. Per non impensierire mia madre, girandomi fingevo di salutarla. Recitavo per essere accettato. È qualcosa che ti rimane addosso. Alla seconda liceo recitai Napoli milionaria, una ragazza era amica di Sergio Solli che lavorava con Eduardo e mi fece fare uno spettacolino più professionale con Marisa Laurito. Poi un altro con Tato Russo. Avevo 17 anni. A 19, a Eduardo servivano comparse e mi diede due battute per la paga da attore. Mi vedeva così magro che pensava non avessi i soldi per il cibo».
«Incontrò Monica Vitti grazie a Eduardo...
Era Il cilindro. Al buio, lei di spalle a tutti, era proprio davanti a me, in calze nere. Restai di sasso. Mi disse: sai perché diventerai un grande attore? Perché quando reciti non hai i tic».
Lei recita per la borghesia, a cui appartiene.
«No, io mi considero piccolo borghese. La più bella borghesia è quella milanese: illuminata. A Napoli è feudale, più materiale; a Roma c’è la pancia della borghesia».
Ma c’è un pubblico che la fa sentire a casa?
«Casa mia sono tutti i palcoscenici. Una volta recitavo a Vienna con Carlo Buccirosso e venne giù la sala per gli applausi. Maurizio Casagrande disse: ma questi non capiscono nulla, come fanno a ridere?».
Quali sono gli altri cliché?
«A Napoli siamo noi che teniamo a rendere immortali cose che ci appartengono. La pizza, la mozzarella. O il rapporto pagano con San Gennaro. A Torino una signora mi disse: non capisco chi ha paura di andare a Napoli. Basta uscire senza mettersi l’orologio. Mi faceva i complimenti e fu razzista senza rendersene conto».
Pulcinella cosa rappresenta?
«Lo sognavo. Io ero seduto, appariva dall’alto, tutta una macchia di sangue che saliva, saliva e diventava una macchia bianca. E diventavo io Pulcinella. Ho scritto per il teatro per superare le mie paure e rappresentare i miei fantasmi. Il terrore, come dicevo prima, di non essere accettato, di essere abbandonato. È una cosa nata quando ero bambino sonnambulo, mi alzavo di notte e parlavo all’incontrario».
Sembra avere un bell’universo onirico.
«Felliniano, le donne prosperose...».
È andato mai in analisi?
«Psicologi, psichiatri. Freudiani, junghiani, li ho provati tutti. Il freudiano diceva che era l’incapacità di restare solo, è vero, è un mio difetto».
È apparso in tre film di Nanni Moretti.
«Dopo avermi visto a teatro mi disse: perché non vieni a trovarmi sul set? Girava Sogni d’oro, mi diede due scene. Poi ci furono Bianca e La messa è finita, dove sono un terrorista. Eravamo in confidenza, tra una frittata con i maccheroni che si preparava a casa mia e una nuotata. Ma non era un’amicizia così stretta. Non credo mi amasse molto come attore».
Lui a volte è vittima di sé stesso.
«È molto competitivo. A calcio balilla, Nanni, litigava anche con i bambini».
Com’è stato lavorare con Fabio Fazio?
«Andavamo all’impronta, io entravo in studio a programma già iniziato, facevo quello che viene preso in giro. La cosa bizzarra è che ancora oggi, dopo tre anni che sono andato via, la gente per strada mi dice: t’ho visto ieri da Fazio, eri fortissimo. Stessa cosa nel programma di Stefano De Martino, dove non sono mai andato».
Il cinema l’ha ripagata?
«Fino a un certo punto, forse non sono riuscito a essere me stesso fino in fondo. A teatro il successo è enorme».
Cosa ricorda del suo primo film?
«L’amico del cuore. Vittorio Cecchi Gori mi convocò a Cannes. Aveva la barca lì, mi diede il numero dell’ormeggio. Io arrivai al porto con un’auto mezza scassata. Non vidi nessuno. A un certo punto due giganti mi chiesero: lei è Salemme? Erano le guardie del corpo di Vittorio Cecchi Gori. Stavo cercando la sua barca. Loro mi fanno il gesto di dire, è questa. Alzai lo sguardo. Non era uno yacht: era una cosa davvero esagerata. Pensavo fosse un traghetto».
Fantastico. C’era Herzigova in quel film.
«Era nel pieno della sua bellezza, e molto simpatica. Tempo dopo ero a New York le telefonai, le diedi appuntamento nel ristorante dove andavo ogni sera dopo i musical di Broadway. Lei arrivò prima di me. Il proprietario mi guardò con gli occhi di fuori, per lui ero diventato un’altra persona, come se fossi stato Alain Delon».
Lei rivendica la sua normalità.
«Gli attori spesso si prendono troppo sul serio. Come se dovessimo cambiare il mondo. L’universo ha 13 miliardi e 800 mila anni... L’unica cosa che abbiamo è l’occasione di vivere».
È un autore rossiniano: anche lei ricorre agli autoimprestiti, riutilizza e rimonta battute prese da altre sue commedie...
«Recitare però è evocazione, l’opposto della musica che è matematica. Se chiude gli occhi, io imito Nino Manfredi o Totò e lei li risente. Oggi le voci sono tutte uguali. L’istruzione può essere un grande inganno. Siamo tutti più colti e più ignoranti».
Benigni, Zalone: cosa vorrebbe di loro?
«Di Zalone la feroce sfacciataggine; Benigni è geniale nell’intelligenza».
Benigni è diventato una statua, un monumento, si è marmizzato.
«Mi piacerebbe che accanto agli spettacoli su Dante e la Costituzione tornasse l’altro Benigni, e girasse uno dei suoi film. Mi piacerebbe questo Benigni e quell’altro Benigni. Mi manca Massimo Troisi, che purtroppo non ho conosciuto: aveva una dolcezza quasi femminile, pur essendo lui maschilissimo. Ma si possono dire queste cose, col politicamente corretto?».
Cos’è Napoli per lei?
«È Francia, Spagna, Grecia; è nobiltà barbona, ricchezza polverosa, astuzia senza luce; è una cacofonia armoniosa di suoni e di voci di paura. Napoli è tanta roba, la perdo di giorno e la ritrovo in sogno».
Ma lei la pizza la mangia?
«È il mio piatto preferito».
Pizzeria preferita di Napoli?
«E come faccio a dirglielo? Se faccio un nome, gli altri mi ammazzano».
Da ilnapolista.it il 2 febbraio 2022.
La Stampa intervista Vincenzo Salemme, in scena al teatro Alfieri di Torino, da giovedì, con lo spettacolo «Napoletano? E famme ‘na pizza!», tratto dal suo libro omonimo, del 2020. Uno spettacolo sugli stereotipi legati alla napoletanità. Gli viene chiesto cosa è, per lui, Napoli.
«Napoli è davvero mille cose, ma la curiosità è capire cosa implica esserci nati. Il napoletano è l’unico al mondo che non lo deve solo “essere”, ma lo deve “fare”. Se sei napoletano, devi bere il caffè bollente in tazzine arroventate, essere devoto a San Gennaro e tifoso sfegatato del Napoli, oltre che fanatico per pizza e mozzarella.
Devi sapere “A livella” a memoria e non essere mai di malumore, perché se no che napoletano sei? Guai a farmi scappare che a Napoli ho una casa in affitto perché la mia residenza è in Toscana. Mi darebbero del traditore. Insomma, una serie di cliché che a volte un po’ imprigionano».
Stefano Giani per “il Giornale” il 17 aprile 2022.
I quarti di autentica nobiltà partenopea, Vincenzo Salemme li ha tutti. Tifa Napoli, adora la pizza, non ha mai lasciato la città e beve il caffè in una tazzulella bollente. Per la verità ce ne sarebbe anche un quinto, che pesa più di tutti gli altri messi insieme. È figlio - artisticamente parlando - di Eduardo. Uno rema invece contro. È puntualissimo. Tratto non proprio distintivo della napoletanità nell'immaginario collettivo. Luoghi comuni, d'accordo.
Eppure sugli stereotipi ha costruito uno spettacolo, quel «Napoletano? E famme 'na pizza», battuta che fa parte di un'altra commedia «E fuori nevica» - diventata anche un film. Perché Salemme non è solo un attore di successo con numeri altissimi al botteghino ma è anche un autore. Cioè scrive quello che rappresenta, come questa pièce, partita da Milano, in tournée in tutta Italia, che chiuderà il ciclo di recite in aprile a Roma. Cioè a casa.
«Veramente abito sia nella Capitale sia a Napoli».
Preferibilmente...
«Quando mi incontrano in città, mi ringraziano di essere rimasto sotto il Vesuvio».
Primo simbolo.
«Tutto sommato il più scontato, come quelli geografici in generale».
E tra i più buffi...
«Un'equazione. Se sei napoletano, sei anche un po' imbroglione. Più che altro per le conseguenze comiche di questo concetto. Qualche tempo fa mi hanno rubato il telefonino. E non ero in città. Quando l'ho detto ai miei amici mi sono sentito rispondere: "Ma come, ti sei fatto fregare. Che razza di napoletano sei". Come se fosse un deterrente per i ladri».
Prigionieri dei pregiudizi.
«A Milano, se dici di aver mangiato un buon risotto a Palermo, nessuno si offende. Da noi, guai a dire che hai trovato una pizza buona a Roma. Ti rispondono: "Ma fammi il piacere, la pizza è buona solo a Napoli". Non lo accettano, sembra un tradimento».
È campanilismo.
«Fino a un certo punto. Effettivamente, un napoletano che fa la pizza a Milano lo trovi ma nessuno ha aperto una risotteria a Napoli. Eppure io, napoletano, amo il risotto. E stasera, con il brodo del bollito, me lo cucino alla milanese. Alla faccia della geografia, anche se nel mio caso conta».
In che senso?
«Quando mi presentano in tv, a festival o rassegne, parte sempre la dicitura per esteso "L'attore comico napoletano Vincenzo Salemme". Non accade per nessun'altra regionalità. Come se fosse garanzia di risate assicurate».
Colpa di quell'estrosità geniale e divertente spesso attribuita ai suoi concittadini.
«La verità è che un napoletano non può essere normale. Deve risultare simpatico, avere la battuta pronta. Un po' buffone, insomma. D'altronde fu proprio Eduardo a definire la nostra città un "palcoscenico a cielo aperto". E, oggettivamente, lo è».
Eduardo, un padre artistico.
«Con me aveva la dolcezza di un nonno. Quando sono entrato nella sua compagnia non avevo ancora vent' anni. Ero mingherlino. Magrissimo. Lui ne aveva 77 ed era un mito. Ma si era convinto che soffrissi la fame. Insomma che non mangiassi. Al primo passaggio in televisione mi fece dire qualche battuta, così dovettero darmi una paga da attore. E avrei avuto un pasto decente, secondo lui».
Invece...
«Non ero così povero, fortunatamente. Anche se a casa puntarono tutto sui miei fratelli. Mia madre disse: "Vincenzo è un randagio, se la caverà". Ha avuto ragione. A Eduardo credo di essere piaciuto, era affettuoso e aveva molta fiducia».
E lei, giovane di belle speranze davanti a un genio...
«Nutrivo una riverenza assoluta ma dolce. Gli ho voluto bene come se fosse stato il mio, di nonno».
Eppure si diceva che fosse cattivo.
«Era severo, questo sì. Pretendeva impegno. Ma era un uomo solo. La sua era la solitudine dei grandi. Isabella Quarantotti, sposata quell'anno, e Luca, anch' egli attore, gli volevano bene. Tuttavia Eduardo è uno di quelli destinati a restare soli perché è difficile stargli vicino senza essere condizionati dalla loro grandezza».
Sono personaggi inarrivabili però il talento non dovrebbe intralciare i rapporti.
«Conviveva con il dolore. E la voce che si spezzava continuamente sottolineava la sofferenza. Si portava dentro tutte le interruzioni della vita. Il suo trauma più grande fu la morte della figlia Luisella a dodici anni. Non la superò mai».
Come qualsiasi genitore che sopravvive a un bambino. «Purtroppo non ho avuto la gioia della paternità ma posso immaginare. Lui si legò al teatro ancora di più. Anche dopo il ritiro dalle scene. Con disperazione».
Lei invece rimase con Luca De Filippo.
«Era una compagnia di giovani, provavamo mille volte gli spettacoli e, di colpo, il palcoscenico si zittiva. Stava arrivando Eduardo. Silenziosissimo. Forse per rispetto verso di noi, impietriti. Un giorno si accorse che eravamo paralizzati e ci disse: "Ma pecché tenete paura 'e me...". Si portava addosso la leggenda che era e non se ne rendeva conto».
Oggi quel mondo è tramontato.
«Napoli è una città in fermento ma molti giovani disertano i teatri e recitano sul web. Sul palco non ne vedo molti come online».
È un segno dei tempi?
«Lo spettacolo dal vivo però è un'altra cosa. Conosco registi che, rivedendo in sala i loro film, avrebbero voluto cambiarli. Il teatro è profumi. Odori. Sapori. E anche la possibilità di correggere in corsa un punto rivelatosi debole».
Come se ne accorge? Nato in provincia di Napoli il 24 luglio 1957, Vincenzo Salemme è un attore comico, ma è anche regista di gran parte dei suoi film ed autore di molte commedie teatrali. Il suo debutto in teatro avviene nel 1976. In quegli anni si trasferisce a Roma dove entra a far parte della compagnia teatrale di Eduardo De Filippo, con il quale stabilisce un intenso rapporto personale.
Dopo la morte di Eduardo e dopo aver trascorso alcuni anni nella compagnia, sotto la direzione di Luca De Filippo, Salemme decide di mettersi in proprio, fondando una compagnia tutta sua. Il pubblico italiano però conosce Salemme soltanto quando esce il suo primo film diretto da lui stesso, «L'Amico del Cuore», del 1998. Salemme è anche scrittore: nel 2018 è uscito «La bomba di Maradona», nel 2020 «Napoletano? E famme 'na pizza!» (Baldini e Castoldi) guida ironica per sfuggire ai luoghi comuni partenopei.
«È il pubblico a indicarlo. Quando tossisce, si muove sulla poltrona, sbadiglia o smette di seguire vuol dire che qualcosa va rivisto».
Con i classici però è vietato ritoccare.
«Ma con i testi di Salemme si può. O meglio, io posso. Le mie commedie non sono tipiche della tradizione napoletana. Non valgono certo le opere di Eduardo che peraltro non fanno recitare a me».
Deluso?
«Affatto. Bisogna andare avanti. Fermarsi al passato non aiuta autori né attori. Tanto meno il teatro in generale. Se si chiede agli artisti di ancorarsi alle loro tradizioni non nascerà mai niente di nuovo. E di buono».
E questa ripresa ha il sapore di un secondo esordio.
«Ho debuttato a fine novembre a Orvieto dopo la pandemia. Quando si è alzato il sipario è scoppiato un applauso che mi ha commosso. Lo confesso, mi è spuntata una lacrima. Quei battimani mi hanno rimesso al mondo».
Che cosa le fa paura oggi?
«Ho il terrore di essere dimenticato. Prima che il virus bloccasse tutto, alla fine di ogni spettacolo, salutavo dicendo "Noi artisti, senza voi pubblico, non esistiamo"».
E, rientrando in scena, che cosa pensa fra sé e sé?
«Chissà se si ricorderanno ancora di me...».
Eredità del Covid.
«Ho avuto la fortuna di non perdere nessuno ma mi è rimasta la sensazione di scomparire. Il timore che, al di là dell'affetto, possa non rimanere nulla».
Stefania Ulivi per corriere.it il 19 giugno 2022.
L’arma segreta di Vinicio Marchioni è una bottega in un’area di quello che un tempo era l’agro romano, alle spalle del Vaticano. «Era di mio suocero, falegname, maestro d’ascia, restauratore, antiquario, a cui ero molto legato. Ho bisogno di sentire la fatica, sono uno che se non suda non sono soddisfatto. Quando ho bisogno di silenzio, mi chiudo lì e inizio a faticare». Ogni tanto i risultati li posta sui suoi profili, come le sedie con un’intelaiatura in acciaio che l’ha fatto patire.
O i lavori di manovalanza al servizio della moglie Milena Mancini. «È lei l’artista di casa, io magari metto sui social, lei bada al concreto. La passione per la manualità l’ha trasmessa anche ai nostri figli», precisa. «Il pezzo di cui vado più fiero? Non l’ho ancora realizzato. Vorrei fare uno di quei tavoloni con grandi tavole di legno e resine, prima o poi ci riesco». 47 anni il prossimo agosto, sposato da una decina con Milena, padre di Marco e Marcello, ha i suoi buoni motivi per chiudersi a scartavetrare.
Tra teatro (Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella, I soliti ignoti di cui ha curato la regia), cinema (Supereroi di Paolo Genovese, Ghiaccio di Fabrizio Moro e Alessio de Leonardiis, Siccità di Paolo Virzì, L’ombra di Caravaggio di Michele Placido, Vicini di casa di Paolo Costella, Buon Viaggio ragazzi di Riccardo Milani) e tv (la serie Django di Francesca Comencini) ha alle spalle mesi di una stagione intensa. «Per due anni non mi sono fermato un giorno. Ora ho bisogno di lavoro fisico, sapere che devo dipingere dal punto A al punto B. Niente di meglio per me».
Come è arrivato a fare l’attore?
«Per sbaglio. Ero iscritto a Lettere, ma avevo anche fatto domanda al Centro sperimentale, per regia e sceneggiatura, mi immaginavo raccontatore di storie. Lungi da me fare l’attore. Per la seconda annualità di storia del teatro chiesi al professore di consigliarmi un posto dove vedere la pratica. Mi diede alcuni indirizzi e mi trovai a via degli Zingari in uno strano luogo, la Libera accademia dello spettacolo, direttore Riccardo Garrone, e lì mi sentii a casa. Non me ne sono più andato. Per pagarmela ho fatto il segretario e poi sono entrato in compagnia: da quelle tournée è iniziato tutto il resto».
Che cosa l’ha fatta sentire a casa?
«Cercavo l’espressione di me, credo. Il fatto che io sia balbuziente conta: già a scuola mi sono reso conto che non lo facevo più alle recite ma ancora non pensavo di fare l’attore. Dopo è esploso il mondo: i classici, i libri, la musica, la consapevolezza di sé, gli incontri».
A casa come l’hanno presa?
«Mia madre mi ha sempre lasciato fare tutto. Ho sempre voluto raccontare, sono un grafomane, scrivevo diari fin da bambino, sentivo la necessità di ricreare dei mondi. Mi ha sempre lasciato fare anche a costo di sbatterci le corna. Un solo consiglio da lei: segui l’istinto».
È cresciuto a Fidene, periferia nordest di Roma.
«Mio nonno e mio padre la chiamavano Montesecco perché non c’era l’acqua ed era più alta rispetto a via dei Prati Fiscali. Il nonno era arrivato da un paesino in provincia di Rieti in cerca di fortuna, scavando le fondamenta per costruire una casa di famiglia. Trovò una vena d’acqua e da una baracca di blocchetti costruì quattro appartamenti dove sono cresciuto con le zie. I ricordi d’infanzia sono di una famiglia unitissima, di origine agricola e di operai.
Il nonno poi, stufo di stare in mezzo agli altri, si prese un pezzo di terra verso Palombara sulla Salaria, con fattoria e animali. Oggi dici fattoria e pensi a una cosa chic, no quella era fatta con i blocchetti, quello che si trovava, con la puzza degli escrementi delle galline. Vera cultura contadina. Quando ci fu l’incidente di Chernobyl, a scuola comprensibilmente c’era un’aria di catastrofe. Andammo lì nel fine settimana, e mia nonna: “Che ci frega, noi abbiamo la cantina piena”. Mi ricordo quel senso di protezione. Poi con gli anni ho capito».
Cosa?
«Mio nonno era uno di quegli uomini che trattava meglio gli animali di figli e nipoti, come tanti dell’epoca. L’ho apprezzato con il tempo, ci faceva assaggiare la terra per sapere se ci si poteva coltivare, si tagliava i capelli con la luna calante, non faceva niente se non guardava la luna. Ho una mentalità diversa dalla sua ma ancora oggi ho un forte contatto con la natura, mi ricarica. Mi ricordo da dove vengo».
E suo padre?
«Un uomo eccentrico. Era il segretario personale di Amintore Fanfani, poi si è licenziato, ha comprato un camion e si è messo fare l’autotrasportatore. Dopo la sua morte è stato il disastro completo. Io e mio fratello eravamo ragazzi, si è sfasciato tutto, anche la mia idea di famiglia».
Con Milena Mancini ne ha costruita una che dà l’idea di solidità.
«Abbiamo avuto fortuna, ci teniamo. Le camere oscure le abbiamo tutti, per mestiere frequentiamo luoghi dell’anima pericolosi. Ci siamo conosciuti ai tempi della seconda stagione di Romanzo criminale, lei venne per i provini. L’ho vista e mi sono fermato lì, c’è poco da dire. Ho messo in moto anche cose subdole per rivederla. Eravamo tutti e due in un momento abbastanza complesso sentimentalmente. Nella coppia è fondamentale il rispetto, la stima. Guardarla e pensare: mamma mia che brava. Io mi innamoro dei talenti, follemente. Sei mesi dopo stavo da lei. Dopo un anno mezzo è arrivato il nostro primo figlio, poi il secondo. Una storia semplice la nostra».
Ha citato «Romanzo criminale». Molti lo considerano il suo inizio, in realtà c’era già stato altro, per esempio Luca Ronconi.
«Nel 2005, dopo quattro anni di tournée con la compagnia, spettacoli in teatri off. Sono arrivato da Ronconi al Centro Santa Cristina ancora ingenuo, senza neanche un agente. Avevo solo capito cosa non volevo fare: mettermi in situazioni non mie. Con lui ho vissuto un’esperienza straordinaria. È stato un grande maestro di autorevolezza, mi ha insegnato il carisma che questo mestiere può avere. Cosa voglia dire essere interprete, ovvero riportare in vita lettera morta, fare da tramite per chi non conosce quella lingua. Sono stato due anni in compagnia con lui».
Poi è arrivata la serie di Sollima.
«Uno tsunami. Prima avevo fatto giusto tre pose per Distretto di polizia che ricordo come l’esperienza più terrorizzante della mia vita».
Oddio, perché?
«Non avevo idea di cosa significassero macchina da presa, regole e tempi del set, mi sembravano tutti matti. Non capivo, ero l’ultima ruota del carro. Azione! Stop! Io stavo facendo le prove con Roberto Latini per uno spettacolo e mi chiamarono per i provini della serie. Merito di Placido che era venuto a vedere un mio spettacolo anni prima e mi aveva chiamato per i provini per “ll Freddo” del film. Poi non mi ha preso. Però Michele fece da supervisore per i provini per la serie e la parte fu mia. Me lo ricordo come un sogno. Scioccato da gigantografie sui palazzi di Roma: ma che sono io? Mi ha insegnato la volatilità di questo mestiere. Interviste, titoli, attenzione ma era come se mi avessero trovato per strada. Io pensavo: voi non lo sapete ma io esistevo pure prima, ho fatto altro. E dopo, per reazione, sono tornato in palcoscenico, ho rifiutato altre serie, ho scritto un monologo su Dino Campana e mi sono chiuso in un teatrino».
Con gli altri della banda siete rimasti legati?
«Certo. Come se avessimo fatto il militare insieme, abbiamo condiviso sette mesi il primo anno, sette il secondo più le prove. Se non avessi avuto l’esperienza teatrale non ci avrei messo quell’intensità. Mi addormentavo la sera sulle scene per il giorno dopo. Una faticaccia. Ma set straordinario».
Ha ritrovato Placido per il suo Caravaggio.
«È un grandissimo. Sapevo che prima o poi avremmo lavorato insieme. Caravaggio lo stava studiando da anni. Nel cast ci sono Louis Garrell e Isabelle Huppert. Bellissimo. Quelli bravi sono pratici, semplici».
Com’è stata l’esperienza di «Chi ha paura di Virginia Woolf»?
«Come entrare in un consesso straordinario con grandi come Antonio Latella e Sonia Bergamasco che ti aprono porte. Lei ha insistito che fossi io. Ci stimavamo molto. Sonia è un’attrice stratosferica e fa troppo ridere, è la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via, mette in moto energie. Nei Paesi anglosassoni alternare teatro e cinema è sinonimo di orgoglio e qualità, qui ancora mi chiedono se preferisco cinema o teatro. Andatelo a chiedere a Benedict Cumberbatch, rispondo».
Il suo più grande errore?
«Non c’è. Le cose vanno come devono andare. Se non rientri nell’immaginario di un regista, pazienza».
Molto zen.
«No, molto calabrese. È la mia parte materna, chi mi ha sempre fatto stare tranquillo sulle mie possibilità. È andato male questo provino? Ne arriverà un altro. Non devi mettere in giro energia brutta, ma lasciare andare le cose e cercarne altre. Il paese di mia madre è Torre Melissa, lo frequento fin da piccolo. Lì stanno i miei migliori amici. Sono quattro, ci conosciamo da 40 anni.
Uno è fotografo e nei tempi bui, quando non succedeva niente e pensavo di mollare tutto e trasferirmi in Calabria, gli facevo da assistente ai matrimoni. Mi dispiace che nessuno ricordi che sono mezzo calabrese. Solo Fabio Mollo con cui ho fatto Il sud è niente, bellissimo film girato a Reggio. Faccio un appello: parlo bene il dialetto. Anche altri in verità».
In «Django» è un colonnello sudista italiano.
«È la seconda serie che faccio. È un’operazione pazzesca, in costume, attori di tutte le nazionalità, grandi mezzi, prove. Un’esperienzona».
Programmi?
«Ora mi prendo il lusso di fermarmi un po’. Il progetto giusto, il regista giusto, i colleghi giusti. Tornare indietro, ma perché?».
Alla peggio costruirà un nuovo mobile.
«Ma infatti. Se mi cercate sono qua».
Marco Consoli per “La Stampa” il 20 maggio 2022.
Ha vinto un Emmy nel 2015 per la serie tv Le regole del delitto perfetto e un Oscar due anni dopo con il film Barriere. Viola Davis, 56 anni, presenza scenica indimenticabile e voce calda e profonda, non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure a Cannes, durante l'incontro Women in Motion sull'emancipazione femminile e l'inclusività organizzato da Kering, non si è vergognata a dire che il successo è un'illusione che si percepisce solo per chi guarda gli scintillanti red carpet.
«Tutti pensano che quando vinci un Oscar ti puoi sedere comodamente, chiamare il tuo agente e dire: voglio fare un film d'azione con Tom Cruise - dice mentre la platea di giornalisti ride, ignara dell'amara verità -. Non mi vergogno ad ammettere che nella mia carriera non ho scelto un solo ruolo, neanche quando ero all'apice e anzi spesso ho dovuto adattarmi a parti scritte male, cercando di usare tutta la mia professionalità per fare sembrare i personaggi più tridimensionali e interessanti di quanto fossero.
Se sei donna, hai la pelle nera e hai più di 50 anni, Hollywood ti snobba. Quando ero giovane ho perso molti ruoli perché i dirigenti degli Studios non riescono ad associare il fatto che sei nera all'idea che tu possa essere sexy, un elemento imprescindibile per recitare nel cinema americano e che mi manda in bestia.
Ho avuto un'infanzia difficile e spesso ho sentito che non ero degna, perché non ero abbastanza bella o semplicemente non meritavo qualcosa, e quando questi episodi hanno risvegliato in me quella sofferenza ho reagito nell'unico modo in cui sono abituata ad affrontare le difficoltà: buttarsi tutto alle spalle e andare avanti». Se anche ottieni la parte, ha raccontato poi Davis, i colleghi spesso sul set ti sottopongono a piccole cattiverie. «Ricordo, 30 anni fa, che un regista che conoscevo da anni mi chiamava durante le riprese Louise. Mi chiedevo perché, finché non ho scoperto che era il nome della sua collaboratrice familiare».
Una domestica esposta al razzismo nel Mississippi degli Anni 60 in The Help è proprio il ruolo che ha dato a Viola Davis una vasta popolarità. «Poi dopo quell'exploit mi chiamavano solo per interpretare ruoli simili». Per fortuna non è stato sempre così e infatti Davis è stata ingaggiata poi per interpretare l'avvocatessa penalista Annalise Keating in Le regole del delitto perfetto, prodotto dalla potente Shonda Rhimes, che ha avuto un enorme seguito ma, per l'attrice, «si è rivelata una delle pochissime serie della tv generalista non interpretate da una protagonista bionda, giovane e col naso perfetto».
Per questo Davis ha deciso di fondare col marito la casa di produzione JuVee Productions, «in modo da realizzare tutte quelle storie che gli Studios non vogliono produrre», come ad esempio il prossimo The Woman King, dove interpreterà Nanisca, generale di un esercito di amazzoni nel regno africano d'inizio 900 del Dahomey, temute per la loro ferocia.
«Certo se il pubblico scegliesse di andare a vedere anche i film che parlano di donne vere e non soltanto i film Marvel (l'attrice ha interpretato Suicide Squad ma in abiti civili, ndr.) le cose andrebbero meglio». Nel frattempo sta per concludersi negli Usa su Showtime la serie The First Lady, in cui interpreta Michelle Obama. «Quando Obama è stato eletto ho provato come tutti i neri un moto di speranza che le cose potessero cambiare - conclude l'attrice - ma purtroppo io e tanti altri siamo rimasti delusi: qualche passo avanti è stato fatto, ma Hollywood non è molto diversa oggi rispetto a prima della sua elezione».
Barbara Costa per Dagospia il 22 ottobre 2022.
Beccati! Ma che, sul serio pensavate di farla franca? E di fregare chi, Pornhub??? Non ci pensate nemmeno, ché Pornhub sa ogni mossa che i suoi carissimi utenti fanno… e allora??? Chi è stato? Si faccia avanti, e senza vergogna lo confessi: chi ha permesso che la signorina Violet Myers facesse questo incredibile balzo in classifica? Come niente in un mese è volata ai primi posti, è tra le pornostar più viste… dunque, chi con lei e alla grande si è sollazzato?
Certo non pochi, e non poche volte, viste le accanite visite ai suoi video, e i milioni di sguardi – inesorabilmente rapiti – al suo sesso pelosissimo… Dai, mani fuori dalle mutande: chi si svaga con le bocce di Violet? E col suo bel c*lo… Ehi, inutile che il vostro amichetto tra le gambe faccia lo gnorri, Violet gli piace, e parecchio! Ma bravo, ma bravi, siete la mia fierezza, continuate così che la ragazza è contenta, lei non aspetta altro, lei non vuole altro!
Lei, Violet Myers, vuole farvi tantissimo divertire, sui siti porno come sui suoi social. Violet vi vuole sfacciati, e che la aiutate a sbrigliare il dilemma che la assilla: quale sua parte è più arrapante, il lato a, o il lato b? E la si può aiutare in concreto "assaporandone" sesso e sedere masturbandosi coi sex toys (un po’ cari, 80 dollari…) che li riproducono in modo esattissimo.
Tutta roba naturale – dice lei, del suo corpo, e io il seno ci credo il c*lo non so – per una 25enne che sfoggia una femminilità così prorompente fin dalla pubertà. I seni a Violet sono sbocciati in quinta elementare, come è in quinta elementare che ha avuto le prime mestruazioni. Uno sviluppo precoce per una ragazza nata a Los Angeles, e allevata da una famiglia di sole donne, mamma, zie e nonna le quali accettano appieno che Violet abbia mollato il college alla vigilia degli esami finali… per il porno!
Anche perché Violet vive ancora con loro: da casa si sposta per girare e per furoreggiare nei porno qualità "latina", sebbene Violet sia un mix di messicano, turco e pakistano. Violet è cresciuta in un gineceo che mai l’ha frenata nel suo vivere, ed è stato per sua scelta che ha perso la verginità a 18 anni con un compagno di scuola, ed è per sua scelta che ha puntato sul porno, ed è nel porno che Violet ha concretizzato la sua attrazione per le donne, e è sui set che le ha "assaggiate" la prima volta: nella vita reale era troppo timida per approcciarle.
Se ora, in 4 anni di porno sudate, ha sconfitto la timidezza di pornare pure con uomini mooooolto più grandi di lei, e ha di netto migliorato la sua destrezza nei p*mpini (prima non usava le mani, soltanto la bocca, e sono stati i suoi partner di scena a insegnarle tecniche e segreti), è tuttavia quando gira lesbico, o con un uomo e un’altra donna, che Violet riscuote più gradimento.
E pure italico fervore, svela lo share!!! Sul podio di Pornhub si segue la coerenza delle tette voluminose, perché sono i lesbo di Violet con attrici dal suo stesso calibro mammario i più cercati! E molti mi pare mi abbiano seguito, come me attirati dal vedere Violet con Dredd, pornostar dal pene oversize: “Girare con Dredd mi preoccupava”, ci rivela Violet, “non mi era mai capitato prima un attrezzo simile! Tuttora è il più grande ch’abbia preso. 30 cm colpiscono punti sconosciuti di una donna…”.
L’esperienza deve essere stata mitica, visto che Violet l’ha ripetuta, invitando Dredd a farlo di nuovo con lei su OnlyFans, e è sempre il penone di Dredd che fa tremolare Violet in sostenuti threesome. Dopo prove simili, per la nostra beniamina, che volete sia stata una gang-bang con 12 peni a media 26 cm, in "High Gear – Orgia a 18", porno che qui su Dagospia vi ho già con cura presentato?
E ci sono fan di Violet che vengono allo scoperto e lo ammettono: si son di Violet porno appassionati perché gli ricorda il loro porno indimenticato amore: Mia Khalifa! Pornostar mediorientale che ha lasciato il porno da anni ma che non c’è modo di strappare dal favore dei pornomani i più incalliti, che radiosi si gettano su ogni nuovo video con Mia che i siti rilasciano, e video che inediti non sono, bensì rimontaggi!
Va bene, al pene in fatto di porno non si comanda, si sa… e infatti Violet Myers è stata protagonista di video in cui impersonava l’islamica con velo e pudori ma di sesso non digiuna. Le cose stanno così: il porno è alla fervida ricerca di attrici per il "muslim porn", i porno a tema islamico, e per questa evidenza: se per ragioni socio-religiose sono quasi nulle le donne islamiche che prediligono il porno come professione, sono invece straripanti gli utenti musulmani che il porno se lo guardano, ne sono avidi, e specie di muslim porn… Ve l’ho detto: a Pornhub, di ciò che fanno i suoi consumatori, nulla sfugge!
Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 14 dicembre 2022.
Virginia Raffaele è emozionata quando sale sul palco del Piccolo Teatro Grassi per ricevere il Premio Duse: sente di avere sfondato il tetto di cristallo del comico cui è finalmente riconosciuto di essere attore. Con unica l'eccezione dell'eterna Franca Valeri, è la prima che ce la fa.
Le altre premiate son tutte gran dive del teatro drammatico. Lo spettacolo per cui riceve il premio, "Samusà", con cui sarà in tournée fino a febbraio, è eminentemente comico seppure con momenti di grande pathos. È un intero mondo, quello dei giostrai da cui proviene, che fa rivivere con le sue doti istrioniche: imitazioni, vocette, gran fisicità frenetica, arti snodati da marionetta, e una marea di idee e trasformismi da fare invidia anche a Brachetti.
Nelle motivazioni del premio si dice che è «attrice» e «anche una grande comica», riconoscendole altresì la fatica per una donna di «trovare la via della risata sulla scena quasi fosse appannaggio solo degli uomini».
«La fatica è dei comici, tutti, a essere riconosciuti come attori e non ghettizzati in uno specifico che è ancora considerato serie B. Certo la comicità ce l'ho nel sangue. All'epoca della scuola ero strana, buffa, con 'ste gambe lunghe, il corpo piccolo, l'apparecchio, gli occhiali. Mi sentivo un Gremlin. Ero la compagnona, la buffona, quella che stava simpatica a tutti. Riuscire a far ridere gli altri mi fa stare bene, e questo mi ha aiutato a superare anche i miei momenti difficili».
Però lei nasce a teatro, vero?
«Ho iniziato a studiare recitazione a 18 anni e a teatro ho debuttato, facendo poi una lunga gavetta. Anche se poi sono passata alla radio e alla televisione, è questo il mio posto. Cosa che finalmente mi viene riconosciuta. Questo premio è, nel mio cuore, come la ciambellina che si chiude».
È attrice poliedrica, cantante, ballerina....
«E all'occorrenza faccio pure sgombero cantine e una buona amatriciana».
Molti però la relegherebbero al mondo degli imitatori. Le più famose tra le sue imitazioni: papa Woytila, Patty Pravo, Carla Fracci, Sabrina Ferilli e financo Giorgia Meloni, inevitabile «omaggio» all'attualità politica e a certa romanità.
«Fu la Gialappa's a farmi tentare questa strada: avevano notato la mobilità della mia voce, la sua capacità di variare, mi proposero di riprodurre quelle di gente famosa. Le mie non sono parodie ma maschere teatrali: esseri umani che mi piace ricostruire dopo averci lungamente girato intorno. Con Ornella Vanoni è come se avessi fatto l'amore...».
Samosà parla della sua vita prima di diventare attrice e contemporaneamente ricrea un mondo.
«Quello della gente del circo e dei giostrai, da cui la mia famiglia discende da almeno quattro generazioni e che ho nel sangue. Il bancone del tiro a segno è stato il mio primo palcoscenico. Al LunEur Park fondato da nonno (e che oggi purtroppo non esiste più) sono cresciuta. Nelle notti d'estate dormendo nelle macchinine dell'autoscontro, e di giorno studiando sulla nave pirata».
All'ultima replica prima dell'estate, al Brancaccio pieno di gente, si è anche commossa, vero?
«Erano presenti i miei genitori. Li ho invitati sul palco, quindi ho "chiamato" l'applauso del pubblico: quel luogo, di cui nel mio show celebro di fatto il funerale, era innanzitutto il loro posto. Giusto che condividessero con me l'omaggio della loro città».
Virginia Raffaele: “Una donna può essere completa anche senza figli” – esclusivo.
Sul numero di Oggi in edicola il 7 Dicembre 2022 racconta un regalo inatteso che le ha fatto il lockdown, il superpotere che usa contro le avances sgradite e la gavetta che l’ha portata a poter raccontare, in scena, la bambina che è stata
Virginia Raffaele, che sta girando l’Italia con lo spettacolo Samusà e il primo gennaio sarà su Rai1 a Danza con me di Roberto Bolle, sbarca al cinema (sempre il primo gennaio) con Tre di troppo, accanto a Fabio De Luigi (che firma anche la regia). È la storia di una coppia felicemente senza figli che una mattina se ne ritrova tre: «Pur con gli eccessi della commedia, il film mette in scena il cambiare idea, che è una cosa normale nella vita, anche su cose così importanti come i figli», dice nell’intervista esclusiva al settimanale Oggi in edicola da domani.
DI MATERNITÀ - E a proposito di maternità, lei che figli per ora non ne ha, dice: «Si può essere madri anche senza esserlo biologicamente». E aggiunge: «La maternità è ancora vista come il completamento della vita di una donna. E questo nonostante i tempi che viviamo, i diritti e le libertà che abbiamo, abbiano chiarito che una donna può essere felice e completa anche se non ha figli». A Oggi racconta un regalo inatteso che le ha fatto il lockdown, il superpotere che usa contro le avances sgradite e la gavetta che l’ha portata a poter raccontare, in scena, la bambina che è stata: «Quando al Luna Park dei miei nonni, al bancone, guardavo girare la ruota coi pesciolini appesi, sognavo di fare questo mestiere. Ora che faccio questo mestiere, parlo di quando ero su quel bancone a guardare i pesciolini. Dentro di me, se non un cerchio è una ciambellina che si chiude».
Virginia Raffaele: “Perché ho accettato di partecipare a Lol 2”. Alice Coppa l'1/03/2022 su Notizie.it.
Virginia Raffaele, assente dai programmi tv dal 2018, ha svelato i motivi per cui avrebbe deciso di prendere parte al format di Prime Video Lol 2 – Chi ride è fuori.
“Quando spieghi il format in due parole vuol dire che funziona: chi ride va fuori, finito. Era da tanto tempo che non facevo qualcosa in tv, è un’esperienza vera, di pancia, mi piace anche mostrare una parte umana. Devo dire che non sapevo chi avrei incontrato, poi purtroppo i miei incubi hanno preso forma e corpo. L’avversario più difficile si è rivelato il Mago Forest, mi fa ridere anche se sta fermo”, ha dichiarato l’attrice, che da circa 2 anni è tornata in teatro.
I concorrenti di Lol 2
Insieme a Virginia Raffaele in questa seconda edizione del format sono presenti Maccio Capatonda, Corrado Guzzanti, il Mago Forest, Gianmarco Pozzoli, Max Angioni, Virginia Raffaele, Maria Di Biase, Diana Del Bufalo, Alice Mangione e Tess Masazza. Dopo la messa in onda delle prime quattro puntate dello show, Fedez – conduttore del programma – ha svelato che le “risate” fatte da lui e Frank Matano durante lo show sarebbero state montate in maniera “errata” (e dunque sembrerebbero più esagerate di quello che in realtà sono state).
Gli ottimi riscontri ottenuti dalla messa in onda della prima stagione hanno spinto Prime Video a pensare alla seconda (a cui hanno preso parte alcuni dei volti comici più famosi d’Italia).
Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 28 febbraio 2022.
«Sono nata e cresciuta dentro un luna park, facevo i compiti sulla nave pirata, cenavo caricando i fucili, il primo bacio l'ho dato dietro il bruco mela. Poi il parco ha chiuso e le giostre sono scappate». Sembra l'incipit dell'autobiografia di un bugiardo, quindi roba da non credere, invece la vita di Virginia Raffaele ha preso forma proprio lì, al luna park dell'Eur a Roma, fondato negli Anni 50 dai suoi nonni. Ladra di facce di professione, talenti da vera fuoriclasse, acrobazie vocali da trapezista, virtuosismi imitativi da funambolo.
Quando ha capito che sapeva far ridere? «Inconsapevolmente a tre anni. Montarono un palco ma i miei non mi permisero di salirci finché approfittando della loro distrazione salgo, prendo il microfono e tiro giù una bestemmia clamorosa... parte una risata collettiva, ovviamente i miei non si potevano arrabbiare, io l'avevo sentita lì da qualcuno. Fu un inizio molto rock 'n'roll».
Aveva raccontato di non voler fare l'imitatrice («non amavo fare le imitazioni, mi hanno convinto i tre della Gialappa' s»): le vive come una limitazione?
«Le imitazioni sono state incidentalmente il mio biglietto da visita, il mio successo è partito da lì, grazie ai Gialappi e a Mai dire grande fratello ho trovato il gusto della parodia, una chiave personale per reinterpretare il carattere di un personaggio pubblico. Però io ho studiato per fare l'attrice, è bello spaziare, è divertente variare, sei tu che rendi il tuo lavoro senza limiti».
Maria Elena Boschi eterea ed evanescente, Carla Fracci eterea ma per un altro motivo, Ornella Vanoni parecchio sciroccata, la criminologa Bruzzone assetata di horror, Donatella Versace un tanto al botox: c'è una parodia a cui è più affezionata?
«Le parodie dei personaggi veri stanno davvero su uno stesso piano; penso piuttosto a un personaggio inventato e non a un'imitazione vera : trovo la poetessa transessuale Paula Gilberto do Mar la mia creazione più divertente anche per il suo significato profondo. Mi piace il lavoro da attore che c'è dietro, quelli inventati sono personaggi che crei da zero».
Bruzzone, Belén e Vanoni non l'hanno presa bene...
«Sono cose che ho letto anche io suoi giornali. Con Ornella Vanoni adesso ci sentiamo, è venuta anche a vedere il mio nuovo spettacolo due volte in quattro giorni (si intitola Samusà, è in tour nei teatri fino a maggio)».
Carla Fracci un passo avanti invece...
«Quando la incontrai mi rivelò: "Chaplin mi disse" - e già capite il livello, Chaplin - "sarai famosa solo quando qualcuno ti imiterà"».
Le parodie come nascono?
«A parte Nicole Minetti che era sulla cresta dell'onda - onda anomala direi -, in genere non sono legate all'attualità. Le scelte nascono da quello che mi ispira di più, dal mondo che posso riprodurre. Mi piace chi ha una storia dietro, su quello puoi lavorare, come è successo per Carla Fracci e Donatella Versace».
La voce non è mai un problema?
«No, a parte quella della De Filippi che è stata progettata dal Kgb: è irriproducibile. Ma la voce non è un discrimine, quella della Polverini non era precisa ma faceva ridere nel contesto, anche la Fracci non era proprio così, timbro e colore non erano i suoi, ma la ricordavano in modo caricaturale».
Davvero faceva i compiti nella nave pirata?
«Non quelli di matematica, che facendo su e giù non era semplicissimo. Era per rendere l'idea. Per chi ci nasce e ci cresce il luna park con le sue attrazioni viene utilizzato come se fosse una casa: hai il salotto, la camera da letto, la cucina. Facevo merenda sulla panchina davanti allo stand dei miei genitori, il gelato lo prendevo davvero sulla nave pirata, ma ferma. Quando vivi lì lo stand diventa il luogo dove tutto succede».
I suoi genitori avevano due stand: quello del tiro al Cinzano con i fucili per colpire le bottiglie e quello dei pesci con le palline da lanciare nelle bocce d'acqua.
«Mio papà stava allo stand dei pesciolini, mentre io e mia mamma a quello del tiro. Preferivo i fucili e odiavo i pesci perché stavano in una rotonda ottagonale, faceva sempre freddo per l'umidità della vasca e dovevi girare come una trottola, da un banco all'altro. Io facevo da spola tra pesci e fucili, e mio padre mi chiamava con i fischi.
Per questo fischio così bene tanto da farne un numero nello spettacolo. Era una situazione surreale che poi è diventata normale, si crea uno strano confine tra chi sta al di qua e al di là del bancone. Per me era assurdo che un bambino stesse a casa con la nonna a fare i compiti, mia nonna era quella dei fucili. Ho vissuto tutto al contrario».
Il ricordo più tenero?
«Tanti... Ricordo mia nonna: faceva molto ridere, faceva di tutto per attrarre il pubblico, dal cantare al cercare di fare battute a chi passava. Mi vengono in mente anche i giri in bicicletta, quel profumo delle estati che stavo lì, con l'odore intenso dei tigli e il rumore delle cicale.
Nel mio nuovo spettacolo invito il pubblico a fare il verso delle cicale e mi sembra di tornare lì, in quelle domeniche assolate di noia perché la gente andava al mare ma noi stavamo all'Eur. Ricordo il brivido dei giri in bicicletta a mezzanotte, avevo otto anni e provavo una sensazione di libertà assoluta».
Ha vissuto anche il pregiudizio sui giostrai, «zingari» da stare alla larga?
«Quello è arrivato nella maturità, da piccola non lo sentivo. Non ho ricordi spiacevoli se non quando il luna park ha iniziato a chiudere, lo vedevo morire, lentamente abbandonato, metteva malinconia perché avevo vissuto feste di Natale e Carnevale meravigliose. A otto anni vinsi il primo premio, mia madre mi aveva vestita da vecchia, infatti a dieci ho fatto testamento e ho lasciato le Barbie a mia cugina...».
Una nonna clown e cavallerizza che faceva il circo, la strada era già segnata? «Mia nonna era un personaggio stupendo: metteva in scena macchiette, faceva avanspettacolo e parodie, mi raccontava poesie, mi leggeva Petrolini. Diceva sempre: fateme fa' tutto ma non fateme sta' a casa con la ragazzina . Era un'artista e sbroccava perché voleva stare a intrattenere il pubblico dello stand. Cresciuta così non ho mai pensato di fare un altro lavoro».
Cosa le hanno insegnato i suoi genitori?
«A non essere invidiosa, che è una grande qualità sia in questo ambiente sia in generale. Loro magari pensavano che potessi vedere le altre bambine come più fortunate, ma ho capito presto che l'invidia non porta a niente».
Lei è maniacale...
«È vero. Mi prendono in giro perché a fine spettacolo magari chiedo: ma perché la luce a destra non è partita al momento giusto... è come se registrassi tutto quello che faccio e mi succede intorno».
Comicità di testa o di pancia?
«Tutte e due. L'alternanza è micidiale, è quello che funziona. A volte basta una pausa, una faccia, un'espressione a far esplodere la risata. Oppure è divertente portare il pubblico con la parola da una parte e farlo ripiombare da un'altra: l'effetto comico arriva all'improvviso».
È nel cast della seconda stagione di «Lol» in streaming su Prime Video: cosa l'ha spinta a partecipare?
«Quando spieghi il format in due parole vuol dire che funziona: chi ride va fuori, finito. È da tanto tempo che non facevo qualcosa in tv, è un'esperienza vera, di pancia, mi piace anche mostrare una parte umana. Devo dire che non sapevo chi avrei incontrato, poi purtroppo i miei incubi hanno preso forma e corpo. L'avversario più difficile si è rivelato il Mago Forest, mi fa ridere anche se sta fermo».
Con che modelli è cresciuta?
«Ho consumato A me gli occhi, please di Proietti e In principio era il Trio di Marchesini, Solenghi, Lopez, avevo le videocassette vhs e le so ancora a memoria. Quando sento Massimo gli cito dei pezzi e lui mi chiede come faccio a ricordarmeli. Una donna che mi ha sempre affascinato da morire è Monica Vitti, per la sua ironica sensualità, la buffa bellezza, un insieme di stupende contraddizioni; e poi ovviamente Franca Valeri e Bice Valori per alcuni dei personaggi meravigliosi che hanno creato».
L'incontro da ricordare?
«A 15 anni andai a vedere Anna Marchesini a teatro e alla fine mi sforzai di spingermi in camerino per farmi fare un autografo. Quando le dissi che mi chiamavo Virginia, rispose che anche sua figlia si chiamava così: ho pensato come una scema che fosse un segno del destino.
Di Gigi Proietti invece ero completamente innamorata, la sua risata la riconoscevo tra tutte. Quando mi bussò al camerino dopo uno spettacolo con Lillo e Greg mi misi a piangere dall'emozione. Poi ci siamo anche frequentati e gli chiesi se aveva ancora la Saab blu targata AL641Y, da piccola fuori dall'Olimpico mi dissero che quella era la sua macchina e io memorizzai la targa».
Con Checco Zalone siete amici.
«Molto amici, ci vediamo, passiamo serate in compagnia sul divano con la chitarra, è una persona vera, sincera, colta, molto intelligente e piacevole».
Ha un incubo ricorrente?
«Faccio piuttosto fatica a dormire, la testa non si spegne mai».
A 60 anni la vedremo ancora con il cerone a far parodie?
«Il comico deve fare gli aggiornamenti come l'iPhone. Per rimanere fedele alla comicità devi anche avere la capacità e lo sguardo di evolverti perché se no arriva un momento in cui ti dicono: ma ancora le parodie? Devi ampliare la strada se no resti incastrato. Quello che so è che a quell'età sicuramente va comunque messo un bel po' di fondotinta».
'Lol2', Virginia Raffaele e l'irresistibile 'performance' di Marina Abramovic. Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 28 febbraio 2022.
Nello show di Prime Video la comica romana ha riproposto uno dei suoi personaggi migliori. E non ridere, per i colleghi, è una prova difficilissima da superare.
Virginia Raffaele, ovvero il "generatore automatico di personaggi", come ha definito la comica Fedez presentandola in apertura di Lol2, si è messo in moto è ha regalato al pubblico dello show comico di Amazon Prime Video, una delle sue interpretazioni migliori: Marina Abramovic che, diciamolo subito ove mai qualcuno avesse dubbi, non c'azzecca nulla con il miliardario russo Roman Abramovich, amico di Putin e proprietario della squadra di calcio inglese del Chelsea. Qui non si fa politica, si ride e pure tanto.
Chi è Marina Abramovic
Il personaggio di cui si è 'appropriata' la comica romana è una celebre artista statunitense di origine serba, nata nel 1948 a Belgrado ma attiva fin dagli anni Sessanta. Oggi è riconosciuta come la principale esponente dell’arte performativa, un una forma di arte contemporanea che, coinvolgendo teatro e recitazione, prevede una performance, appunto, davanti a un pubblico. E la chiave usata da Virginia Raffaele nella sua imitazione è tutta lì, nella "performance".
Marina Abramovic in The Artist is present
"Performance" (attenzione, spoiler)
Marina/Virginia appare all'improvviso, vestita di rosso, con una sorta di abito tunica lungo fino ai piedi. Le braccia alzate verso il cielo. "Ma è Yoko Ono?", bisbiglia Diana Del Bufalo, in un momento di comicità involontaria che lascia sgomenti Maccio Capatonda e il Mago Forest.
"Sono Marina Abramovic e faccio arte contemporanea - chiarisce Virginia Raffaele con tono severo - non tutti posso fare arte contemporanea, non tutti possono capire arte contemporanea, ma tutti possono pagare per arte contemporanea", dice tendendo la mano destra verso gli altri colleghi/concorrenti di Lol, impegnati a cercarsi soldi nelle tasche, nello sforzo sovrumano di non ridere. "Performance? No performance?", continua.
Ed è grazie alla "performance", parola ripetuta a tormentone, che Virginia/Marina riesce a far diventare arte contemporanea alcuni gesti assolutamente banali: un grido, il verso di un uccello e una formidabile imitazione di Totò. "Credo di essermi procurato un crampo agli addominali per resistere", rivela Corrado Guzzanti. Poi, il momento più alto.
Il colpo di teatro
"Fiducia performance. Vieni con me. Performance", dice rivolto a Guzzanti. Poi i due, sedendo ad un tavolo rivolti una di fronte all'altro, ricreano The artist is present, la "performance" che Marina Abramovic, quella vera, ha realizzato al Moma di New York nel 2010. Una esibizione storica e una delle performance artistiche più lunghe di sempre: 700 ore. Ma, stavolta, l'esito è diverso e Virginia Raffaele sfodera un colpo di teatro di grande effetto e da applausi. "Performance!".
Dagospia il 13 febbraio 2022. “Stavo lì le ore a defecare in un Vietnam di tappi di gomma” – Virginia Raffaele racconta a “Radio Deejay” la sua infanzia in un luna park, allo stand dei fucili: “Quando dovevo fare i bisognini mia madre apriva un paravento, metteva lì il vasino e io stavo lì le ore. Provateci voi a farla con 30 persone che sparano, il mio incubo era che cadesse il paravento. Dietro le spalle avevo un frigo con bitter e succhi di frutti da dare in premio. Mentre stavo lì, mia madre mi chiedeva: “Passami un bitter, passami un succo” e non riuscivo ad andare in bagno”.
“Quindi cacca e succhi di frutta, un saluto ai Nas”, la battuta di Nicola Savino. “Ma i succhi di frutta erano chiusi e poi avevo tre anni, era cacca santa”, riprende Virginia Raffaele impegnata in teatro con “Samusà”. “Il regalo della vita è stato quello, il luna park l’ho anche odiato, dovevi stare al chiodo sempre, anche quando venivano i miei amici, dovevo stare lì al bancone…”
Da deejay.it il 13 febbraio 2022.
Dopo la brusca interruzione dovuta alla pandemia che ha bloccato la partenza del tour proprio al suo inizio nel 2020, Virginia Raffaele torna finalmente nei teatri con Samusà, il suo nuovo spettacolo. Dal 9 al 13 febbraio è in scena a Milano al Teatro Lirico Giorgio Gaber.
Il racconto di Samusà si nutre dei ricordi di Virginia e di quel mondo fantastico in cui è ambientata la sua infanzia reale, il luna park e da lì si sviluppa in quel modo tutto della Raffaele di divertire ed emozionare, stupire e performare, commuovere e far ridere a crepapelle.
“Sono nata e cresciuta dentro un luna park, facevo i compiti sulla nave pirata, cenavo caricando i fucili, il primo bacio l’ho dato dietro il bruco mela. Poi il parco ha chiuso, le giostre sono scappate e adesso sono ovunque: le attrazioni sono io e siete voi. Tutto quello che siamo diventati stupisce quanto un giro sulle montagne russe e confonde più di una passeggiata tra gli specchi deformanti”.
Ospite a Deejay chiama Italia, la splendida attrice 41enne ha presentato lo spettacolo e svelato qualche curiosità. “Samusà nel gergo dei giostrai sul dire fai silenzio” ha detto in diretta. Virginia ha poi parlato della sua infanzia “al contrario” dentro un Luna Park e di cosa questa esperienza le ha insegnato. I suoi nonni negli anni ’50 fondarono il luna park dell’Eur, il LunEur, a Roma, dove Raffaele è praticamente cresciuta.
Dagospia il 9 febbraio 2022. Da I Lunatici Rai Radio2
Virginia Raffaele è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì da mezzanotte e le quattro, tra la mezzanotte e quaranta e le due e trenta circa live anche su Rai 2.
Virginia Raffaele, tornata a teatro con lo spettacolo 'Samusà', ha parlato un po' di se: "Sono stati due anni pesanti, avevamo debuttato due anni fa, avevamo fatto una decina di date quando il 23 febbraio del 2020 mi dissero che aveva chiuso la Scala di Milano. Da lì ci siamo fermati, quest'anno siamo ripartiti, il pubblico viene, non è affatto scontato, quando vedo il teatro pieno sono contentissima. Tutti precisi, con le mascherine, i green pass, seduti, a teatro non succede niente".
Virginia ha parlato della sua infanzia: "Sono figlia di giostrai, sono cresciuta in un luna park. Luna park di Roma, fu fondato dai miei nonni negli anni '50, i miei genitori ci hanno lavorato, io ci ho passato una vita. Ho iniziato a far teatro a 20 anni, ma fino ai 25 anni passavo il sabato e la domenica e vedevo se c'era da dare una mano ai miei genitori. Per me il luna park era casa, facevo i compiti nella nave pirata, ho dato il primo bacio dietro al brucomela.
Eravamo lì dietro, c'era una specie di boscaglia con una scalinata che scendeva. Una tenerezza. Eravamo una comunità, una famiglia. Mentre tutti i bambini pregavano tutti i genitori di portarli al luna park io li pregavo per rimanere a casa. Lo dico per scherzo, ma un po' era vero. Mi ricordo un giorno in cui chiesi a mia madre quando mi avrebbe portato sulle altalene ai giardinetti.
Lei mi rispose 'dai, andiamo oggi'. Ricordo quel giorno come se fosse stato il regalo della vita. Al luna park avevo a disposizione uno spazio enorme, ma era come se fosse scontato. Normale. Una volta mi portarono ai giardinetti sull'altalena e mi sentii una bambina super fortunata".
Sulla popolarità: "Quando è arrivata la popolarità? Tante persone mi dicono che mi seguono dai tempi di Lillo e Greg. Non posso dire quale sia stato il passaggio, da quando ho 20 anni lavoro, ho aggiunto tassello dopo tassello. Ovviamente una botta notevole è stato Sanremo.
La prima volta andai come ospite interpretando Ornella Vanoni, poi arrivò il Sanremo in conduzione con le maschere, quello del 2016. Finii Sanremo il sabato sera, la domenica iniziai un tour teatrale, neanche mi rendevo conto di quello che succedeva, solo che era sold out in tutta Italia. A livello del grande pubblico, il Sanremo del 2016 è stato un veicolo molto forte e veloce.
Ma io credo che sia più difficile rimanerci al successo, che arrivarci. Comunque al giorno d'oggi non è difficilissimo essere un attimo, per un po', conosciuti. Ma poi fare sempre un lavoro nuovo. La gavetta che ho fatto mi ha sostenuto. Se arrivi preparato al successo, è meglio".
Sulla pandemia: "Siamo partiti due anni fa con una positività eccessiva. Dicevamo che saremmo migliorati, che ne saremmo usciti migliori. Ma l'essere umano dimentica. Poi a un certo punto ci siamo incattiviti, non si sapeva a chi dare retta, c'è stata una comunicazione troppo confusa.
L'essere umano è difficile come animale, perché cambia. Adesso ci saremmo dovuti ricordare che dovevamo essere migliori. Avevamo detto che saremmo stati grati a qualsiasi cosa di normalità sarebbe tornata nella vita. Non potevamo uscire di casa, abbiamo vissuto un incubo a occhi aperti. Essere migliori? Già essere umani sarebbe tanto".
Virginia Raffaele: «Io, una diva buffona». Essere la più divertente di tutti è una vocazione, ma per lei anche una necessità. Ora che si esibisce nello show comico più atteso, Virginia Raffaele racconta il lato malinconico di una vita sul palco. VALENTINA COLOSIMO su Vanity Fair.it il 15 febbraio 2022.
Questo articolo è pubblicato sul numero 8 di Vanity Fair in edicola fino al 22 febbraio 2022
Virginia Raffaele sta scorrendo le immagini sullo smartphone, vuole mostrarmi i suoi disegni: c’è il pappagallo, c’è la scimmia, c’è il cane. Li ha fatti durante il primo lockdown e ora fanno parte della scenografia dello spettacolo teatrale che sta portando in giro per l’Italia, Samusà. Ha frequentato il liceo artistico negli anni Novanta ma non aveva mai più buttato giù neanche uno schizzo, e adesso è contenta di questa riscoperta, questo altro talento che si è rifatto vivo e che si somma a quello sfolgorante e indiscutibile di comica, imitatrice, trasformista, entertainer completa, all’americana. Una donna del Rinascimento: recita, scrive, balla, canta e disegna pure, si tenta una battuta con la più simpatica di tutte, un rischio. Lei ridacchia, è gentile. Mentre si racconta sorride tanto, e quando ride lo fa con tutta la bocca e tutti gli occhi, buttando la testa all’indietro. Poi nel rullino delle immagini spuntano alcune foto dei genitori Paola e Mario da giovani: lei ha gli occhialoni, lui i pantaloni a zampa d’elefante, sono in posa su un prato e poi davanti a un’auto, nei colori sbiaditi e negli inconfondibili toni del giallo e del marrone degli anni Settanta. Indica: «Guarda che fico Marione». Commenta: «Quanto erano belli». E poi all’improvviso si commuove. Piange. Si asciuga le lacrime: «Ma che ce facciamo con ’sta sensibilità?». Che ci facciamo? «Eh… la buffona. Almeno qualcosa arriva agli altri».
Agli altri, negli anni, di certo è arrivata la comicità irresistibile delle imitazioni che l’hanno resa famosa – Ornella Vanoni, Sabrina Ferilli, Patty Pravo, Belén Rodríguez – così come le gag, le maschere, i Sanremo che ha condotto e i programmi che ha portato in tv. Al curriculum si aggiunge ora lo spettacolo teatrale Samusà, appunto, parola che nel gergo dei giostrai significa «silenzio» e che ripercorre il passato al luna park, vera palestra di comicità: l’infanzia inusuale, il mondo parallelo, lo spettacolo di umanità varia a cui si assisteva dallo stand del tiro al Cinzano. E poi Lol - Chi ride è fuori, il programma comico di Prime Video, che torna dopo l’exploit della prima stagione dal 24 febbraio con un cast ricchissimo – tra gli altri, Corrado Guzzanti e il Mago Forest – e la stessa regola di ingaggio: una decina di comici si sfidano a colpi di gag, vince chi non ride.
Perché la commuovono i suoi genitori?
«Ma chi lo sa? Forse perché in quelle foto li vedo così giovani e felici… mia mamma mi somiglia, non trova? Penso: ma guarda quella ragazza così bella… E poi mi fa impressione vederli a 30 anni, più piccoli dell’età che ho io adesso. Ormai mi commuovo subito come gli anziani. E poi forse c’entra anche il Covid».
È preoccupata?
«Sono stata tanto in ansia per loro, soprattutto durante la prima ondata, temevo per le loro vite, per la loro salute. E anche oggi non riesco a baciarli e ad abbracciarli senza mascherina purtroppo, sono ancora bloccata».
Parliamo dei suoi genitori?
«Mio padre è la persona che più mi fa ridere al mondo, in realtà. È buffo. Anche mia madre è molto divertente. Io sono una crasi tra i due. Mario è nato comico, ha il dono della simpatia naturale».
Come lei.
«Forse di più. Apparentemente è un orso, e io ho preso molto questa parte di lui, il bisogno della solitudine e la chiusura. Ma in realtà per farti ridere gli basta uno sguardo, un silenzio, ha i tempi comici perfetti. E mia madre è una grande imitatrice. Quando ero piccola andavo da lei a chiederle: mi fai la Vanoni? E lei attaccava e la faceva perfetta. Più di me. Insieme da giovani si ammazzavano dalle risate».
Sono i suoi maestri di comicità?
«Li ho assorbiti molto di più di quel che penso. Oggi se li osservo, come faccio con tutte le persone che mi capitano a tiro, mi accorgo di tante cose, gesti, tratti della personalità, movimenti che ho preso da uno o dall’altra, più cresco e più le vedo le somiglianze».
Invecchiando si tende ad assomigliare ai genitori?
«Non volevo dirlo, ho detto “crescere” apposta». Ride.
E lei com’era da ragazza?
«Ero la buffona del gruppo. Purtroppo. Sono cresciuta con in casa una nonna clown e cavallerizza che faceva il circo, l’avanspettacolo, le macchiette e le parodie. Passavo i miei pomeriggi con lei che faceva le cose buffe apposta, anche se l’unico pubblico ero io. Questa voglia di ridicolizzarsi e di far ridere gli altri penso me l’abbia passata consapevolmente o inconsapevolmente».
Perché quel «purtroppo»?
«Perché da adolescente ero una specie di Gremlin, una nerd, con gli occhiali, l’apparecchio, la frangetta e le gambe lunghe lunghe con il busto corto…».
Scusi, stiamo parlando delle stesse gambe?
«Sì, da grande queste gambe mi sono anche servite, ma allora erano motivo di scherno: mi chiamavano Papà Gambalunga».
Non mi capacito.
«Il punto è che mi sono sempre sentita diversa, fuori luogo, non ero come le altre. Per sopperire a questa mancanza tiravo fuori il mio talento: ero la più simpatica».
Funzionava?
«Sì, era il mio modo di farmi accettare: far ridere gli altri. E poi anche invitarli al luna park, sulle giostre, io ero il veicolo per farli divertire. Solo così trovavo un senso a me stessa. Per capire chi ero ho fatto questo percorso nella comicità, da bambina a oggi».
È un bel percorso?
«È stupendo. Mostrandomi, ho trovato la mia patente per essere».
Prima non l’aveva?
«Non tanto. Io da ragazza non andavo mai alle feste o alle cene se non conoscevo nessuno. Mi vergognavo anche a entrare in un bar a prendere un caffè».
Perché?
«Timidezza, ansia di essere vista, giudicata sbagliata».
Adesso ci va al bar?
«Sì, perché quando entro oggi gli altri sanno chi sono e io non devo dimostrare più niente, non devo superare alcun giudizio».
«Perché ci sono più comici uomini? Le femmine smettono con le bambole a 12 anni, i maschi giocano a pallone fino a 60»
Diceva che non si piaceva.
«Non mi sono mai accettata definitivamente, no».
Oggi non sa di essere bellissima?
«Non lo sono in realtà, e non lo dico per fare complimenti. Non mi ci sento. Poi sull’aspetto lavoro, mi alleno, ma quando mi dicono: ma perché stai a dieta che sei magra? Io sono magra perché sto a dieta. È un lavoro».
La bellezza è un ostacolo alla comicità?
«Ma no, per me è ininfluente. Quando serve la cavalco, per esempio per imitare Bélen, ma quando non serve la oscuro».
Ma le comiche non devono essere un po’ buffe anche fisicamente?
«Il mio istinto da buffona di corte mi porta a essere buffa sempre. Mi sento sempre fuori luogo, con la maglietta sbagliata, la borsa sbagliata, qualcosa che non è perfetto».
È una perfezionista.
«Nella vita ho un animo zingaro, quindi il caos lo accetto. Nel lavoro deve essere tutto perfetto, studio e provo tantissimo».
Sa quando fermarsi?
«Me lo dicono da fuori a volte».
I colleghi non la sopportano?
«Infatti lavoro da sola».
Da dove viene il perfezionismo?
«I miei genitori non erano quelli che esaltavano la figlia, anzi, mi dicevano sempre: questo va bene, quest’altro così così. È un ancoraggio alla realtà di cui gli sono grata comunque».
I riconoscimenti esterni aiutano?
«Dal punto di vista professionale sì, tanto. Mi sento accettata ed è bellissimo stare sul palco con quella sensazione. Poi però c’è la parte privata, quella in cui dopo lo spettacolo torno in albergo».
E come ci torna?
«Sono sola».
Con la sua imitazione, a Patty Pravo fa dire che cerchiamo troppo l’amore quando basterebbe cercare la felicità. Condivide?
«Penso che l’amore sia un grande motore, ma la felicità, come diceva Totò, sono attimi di dimenticanza».
Ma non ha risposto alla domanda.
«Sono la reginetta delle super cazzole, visto? La verità è che ho un lato malinconico molto forte».
Che rapporto ha con la solitudine?
«Ho imparato a stare da sola e ne sono contenta, perché ho trovato l’indipendenza, però poi ci sono i vuoti. È come quando Alice cade giù, è spaventoso. Ci sono momenti davvero bui».
In questi ultimi due anni di pandemia com’è andata?
«Ho avuto periodi molto difficili, per la prima volta nella mia vita non riuscivo a ridere. Questo organo con i tubicini che abbiamo nel petto ha anche bisogno di carezze».
La simpatia straripante spaventa?
«Forse può dar fastidio ai colleghi, sugli uomini in generale la simpatia ha un effetto spiazzante. Può aiutare a entrare subito in comunicazione con gli altri o può spaventare. Ma l’uomo che un giorno mi amerà, amerà anche questa parte. Non può esserci competizione, non può esserci una gabbia, altrimenti non parliamo d’amore».
Perché in Italia ci sono poche comiche come lei, in grado di improvvisare? Quelle con il guizzo.
«Per me riuscire a far ridere è una vocazione più che un lavoro. Non voglio passare per invasata, ma è come il missionario che fa del bene: io mi sento bene quando faccio star bene gli altri».
Ma perché è un campo ancora così maschile?
«Forse mettersi in ridicolo appartiene più ai maschi perché le femmine, per una questione culturale, tengono di più al decoro. La comicità è vista come una cosa poco seria, e le donne vivono nello sforzo di farsi prendere sul serio. Poi per me la comicità non ha sesso, non faccio distinzioni».
Però i numeri sono numeri.
«La differenza forse è che le femmine smettono di giocare con le bambole a 12 anni, i maschi continuano a giocare a pallone fino a 60. La dimensione ludica loro non la abbandonano mai. Devo dire infatti che io ho tantissimi amici maschi e con loro mi diverto un po’ di più, c’è quel cameratismo che è perfetto per il cazzeggio. Con le donne è diverso».
Checco Zalone a Sanremo le è piaciuto?
«Poco ricco da morire. La gag sulla trans non l’ho vista, ma Luca (Medici, vero nome di Zalone, ndr) me l’aveva fatta al telefono e mi aveva fatto ridere. Noi ci chiamiamo “ami”, che sta per amici, come quelli che si chiamano “amo” invece di “amore”. Poi le critiche non le ho approfondite e non voglio intervenire, ma Luca è una persona colta e sa benissimo ciò di cui parla. Del resto, Salvini mi aveva accusato di satanismo per una gag».
Come si fa a fare la comica in tempi di politicamente corretto?
«È tutto un equilibrio sopra la follia… a volte bisogna un po’ fregarsene, se no che satira è? Chissà perché poi dai comici ci si aspetta la grande lezione morale, il famoso messaggio. Io sono qua solo a far ridere, e lo posso fare anche tirando una torta in faccia a un altro».
Lei non si fa alcuno scrupolo?
«Ho dei limiti: mi fermo prima dell’offesa e della sgradevolezza. E non uso mai informazioni personali per costruire le imitazioni. Se vado a cena con Ornella Vanoni o Sabrina Ferilli, sono solo Virginia, quello che succede resta lì».
Nelle imitazioni riesce sempre a trovare il punto debole degli altri.
«Sì».
Fa paura: è come guardarsi allo specchio.
«Una volta una ragazza – non famosa – di cui avevo fatto l’imitazione per scherzo si è messa a piangere e mi ha fatto giurare che non l’avrei mai imitata in tv. Mi è dispiaciuto tanto».
Com’è andata a Lol?
«Un atto di masochismo… è una violenza non ridere se sei ridanciana come me».
Imitare è un talento naturale?
«Osservo tantissimo le persone. La cosa più divertente è trovare quel punto debole e vedere l’altro che pensa: ah ecco, se n’è accorta. Anni fa avevo letto l’autobiografia di Carla Fracci. Alla fine di un capitolo lei scrive (imita la voce di Carla Fracci, ndr): “E quando arrivai a Nuova York, un uomo corse a portarmi le valigie in albergo, era Jack Nicholson”. Capito? Una che scrive così è una che quando ti stringe la mano poi se la pulisce. Io non faccio altro che unire i puntini».
Dove ha imparato?
«Al luna park. Pensi che ogni sera a teatro, quando mi siedo sul palco ed evoco il mio passato, dentro di me mi dico: ma quindi succede davvero? Ero al luna park e ora sono qui a fare questo spettacolo? Ogni sera mi stupisco ancora».
Sono passati in fretta questi anni?
«A me sembra sempre di stare agli inizi. Mi sento come la prima volta che venni a Milano a fare un provino con la Gialappa’s band. Andò bene. Al ritorno ero in treno che guardavo la mia immagine riflessa sul finestrino e pensavo: chissà se mi ricorderò questo momento. E me lo ricordo benissimo».
Vittoria Puccini: «E ora voglio farvi ridere». Dopo più di vent'anni dal primo film, l'attrice toscana continua a emozionarsi ogni volta che legge un nuovo copione. Ora, dopo diversi ruoli drammatici che le sono rimasti nel cuore, torna con una spassosa commedia che mette a confronto due coppie, una "congelata" e l'altra "bollente". E intanto, nella vita quotidiana, è impegnata in una serissima battaglia per i diritti della sua categoria. CRISTINA LACAVA su Io Donna.it il 19 Marzo 2022.
Una coppia stanca va avanti per inerzia, solidarietà, simpatia. Senza più passione, solo un generico affetto. Finché un giorno, a scombussolare gli equilibri e a rimescolare i sentimenti arriva nel palazzo un’altra coppia che si ama invece con veemenza e rumorosamente, senza imbarazzi. In Vicini di casa (prossimamente al cinema) si ride, finalmente, e di questi tempi ce n’è proprio bisogno. Si parla di sesso con allegria, si flirta, e soprattutto si fa. Nella parte della donna un po’ spenta c’è Vittoria Puccini, 40 anni, compagna del distratto Claudio Bisio (i loro “antagonisti” sono Vinicio Marchioni e Valentina Lodovini). Ed è bello ritrovare l’attrice toscana in un ruolo leggero, divertente, dopo averla vista interpretare personaggi drammatici e intensi, come Elena, la poliziotta che indaga sulla pedopornografia nella serie Rai Non mi lasciare.
Non le chiediamo di fare spoiler. Ma lei e Bisio nel film riuscirete a riavvicinarvi?
Posso dire questo: i vicini ci faranno una “proposta indecente” che ci metterà in discussione, perché noi abbiamo molti tabù, siamo “congelati” nei nostri rapporti, mentre loro vivono il sesso in modo più trasgressivo. Il confronto tra le coppie, che è davvero spassoso con tutti gli imbarazzi e gli equivoci del caso, mi aiuterà a capire che sono stufa della routine, e vorrei ritrovare la passione di una volta. Credo che tutti, a tutte le età, ci meritiamo che la fiamma resti accesa.
Era da tempo che non la vedevamo in una commedia. Di recente, oltre a Non mi lasciare, ha interpretato altri ruoli drammatici, come nella serie tv La fuggitiva e nel film 18 regali. Che effetto le fa?
Sì, è vero, dopo Tiramisù e Tutta colpa di Freud ho indossato più spesso i panni di donne non risolte, con delle fratture interiori, tormentate. Ora però interpreto ben tre commedie di fila! Oltre a Vicini di casa sarò anche in un film divertente con Riccardo Scamarcio, Praticamente orfano, e in un road movie, anche questo molto leggero. Sto recuperando, no? Per quanto, devo dire che tra tutti i miei lavori, quello che resta di più nel mio cuore è 18 regali.
Dove lei è Elisa, malata di tumore, che decide di lasciare alla figlia piccola un regalo per ogni compleanno, fino alla maggiore età. Una storia vera.
È stato davvero molto emozionante confrontarmi con la sua vera famiglia. Ma il film ha toccato anche le mie corde personali di madre e di figlia, perché di questo si parla: di come una madre deve trasmettere a sua figlia dei valori rispettando che sia altro da sé, e di come una figlia debba capire che i comportamenti di una madre nascono dall’amore. Anch’io ho perso mia madre per un tumore, è qualcosa che ho vissuto sulla mia pelle. Posso dire che solo dopo la sua scomparsa ho capito davvero chi era, perché si preoccupava per me.
E perché si preoccupava?
Perché temeva che questo lavoro – e il successo arrivato presto grazie a Elisa di Rivombrosa – mi avrebbero cambiata, che avrei dimenticato il rigore e la semplicità con i quali ero cresciuta. Io non la capivo, mi arrabbiavo perché pensavo che non avesse abbastanza fiducia in me. Solo dopo mi sono resa conto del fatto che grazie a lei ho sempre mantenuto i piedi per terra. Il fatto che qualcuno ti ricordi che ci sono dei rischi ti aiuta a evitarli.
Lei ha iniziato a lavorare presto, ed è diventata madre molto giovane. Non pensa di aver perso qualcosa, di quegli anni?
A 19 anni ho girato il primo film, Tutto l ‘amore che c’è di Sergio Rubini, e poco dopo è arrivata Elisa di Rivombrosa, che mi ha dato il successo. Le mie amiche facevano l’università e la sera uscivano. Io, quando finivano le riprese, crollavo stremata. Ma era quello che volevo fare, non mi pesava, mi sentivo felice. Quando è nata Elena la mia carriera era già avviata, e potevo portarmi la bambina sul set. Avevo una tata ma cercavo il più possibile di essere presente. Sa quante notti insonni ho passato, quando lei aveva la bronchite! Siamo cresciute insieme io ed Elena, siamo compagne di vita.
Dopo vent’anni, com’è cambiato il suo rapporto con il lavoro?
Non è cambiato, è solo diventato più maturo, consapevole. Mi emoziono già alla prima lettura di un copione, ogni volta è un regalo poter iniziare un progetto in cui credo, poter raccontare una donna in tutte le sue sfaccettature. Le emozioni continuano anche dopo, grazie ai rapporti umani che costruisci sul set, alla famiglia che si crea, anche se solo per il tempo delle riprese. C’è un concentrato potentissimo di sentimenti che mi scatena un’adrenalina pazzesca. Vale sia per i film, sia per le serie tv. Il cinema è magia, ma la serie è un lavoro più lungo che ti permette di approfondire il personaggio. Se penso a Elena di Non mi lasciare, è una donna che è rimasta dentro di me, le voglio bene.
Come sceglie i progetti?
Ogni lavoro dev’essere sfidante, deve permettermi di scandagliare situazioni che non conosco. Ma al tempo stesso devo capire che cosa muove il personaggio, perché compie le sue scelte. Altrimenti non fa per me.
In Non mi lasciare abbiamo visto una Venezia incredibilmente vuota. Avete girato durante il lockdown?
Era in zona arancione. La sera chiudeva tutto, non c’erano turisti. Avevo preso un appartamentino, perché siamo rimasti 10 settimane. Ora mi sento di dire che dopo Firenze, dove sono nata e dove sono le mie radici, e Roma, dove vivo, Venezia è la mia terza città del cuore.
Tra tanti ruoli, non ce n’è mai stato uno da cattiva. Non gliel’hanno proposto o non l’ha voluto?
Me ne avevano proposto uno cattivissimo in un’opera prima, un fantasy. C’è stato un ritardo causa pandemia ma sono fiduciosa, si farà.
Lei però non sembra una persona cattiva. O sbaglio?
Tutti noi abbiamo dentro una dose di cattiveria. Io però cerco sempre di rispettare gli altri, e di ascoltarli, mentre la cattiveria nasce dall’egoismo. Dal punto di vista artistico, la cattiveria è interessante quando ti dà la possibilità di spiegare cosa c’è dietro, basti pensare a Joker.
C’è qualcosa di sé che non le piace?
Ho sempre pensato di essere asociale, da ragazza sentivo che dovevo combattere questa mia inclinazione, forzarmi a essere più estroversa, a uscire. Poi, con la maturità, ho imparato ad accettarmi. Mi sono detta: perché dovrei essere diversa? Sono fatta così, con le mie imperfezioni. Certo, non bisogna esagerare altrimenti si diventa autodistruttivi. Ma uscire sempre e comunque solo per farlo, no.
Anche sui social lei è presente da poco tempo.
Non sono contraria, anzi. I social possono veicolare messaggi positivi importanti. Pubblico qualcosa quando ne ho voglia, sempre restando in ambito lavoro, e leggo tutti i commenti dei fan. Diverso è il discorso per i ragazzi. Là ci sono tanti pericoli e devo ringraziare la Rai per il coraggio di aver affrontato in Non mi lasciare il tema della pedopornografia, che riguarda tutti i genitori. La polizia postale me l’ha detto tante volte: bisogna che le mamme e i papà seguano i figli sui social. Io lo faccio, con Elena.
Qualche mese fa ha compiuto 40 anni. Come ha festeggiato?
Non festeggio mai i compleanni da quando ho compiuto i 18. Gli amici insistono sempre, ma resisto. In generale non mi ricordo mai i compleanni, a parte quello di mia figlia che ci tiene tantissimo. Non sono una che ama i bilanci, preferisco guardare avanti.
È in splendida forma. Come fa?
Nuoto tantissimo. Quando non sono sul set vado in piscina almeno tre volte a settimana, e resto in vasca un’ora, senza mai fermarmi. Non sento niente, mi rinchiudo nella mia bolla e mi rilasso. Ho sempre amato il nuoto e ho pianto molto vedendo Underwater, il bellissimo documentario su Federica Pellegrini.
Oltre al lavoro, si sta impegnando molto come presidente di Unita, l’Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo. Com’è nata l’associazione e con quali obiettivi?
È iniziato tutto durante la pandemia, da una chat che ho creato per le attrici e gli attori di cinema, teatro, tv. All’inizio eravamo 110, ora siamo 1300 iscritti. L’obiettivo era ed è dare voce alla categoria. Molti pensano che siamo dei privilegiati, ma sono pochissimi quelli che emergono davvero e tanti quelli che invece subiscono ingiustizie. Stiamo cercando di garantire a tutti gli stessi diritti.
Purtroppo le sale sono ancora vuote, o quasi. Torneremo a riempirle?
Sì, torneremo alle abitudini di prima, a ridere, a piangere, a emozionarci insieme. Le sale sono e dovranno essere sempre di più dei presidi di socialità, punti di aggregazione per i giovani, che dovrebbero potervi trovare spazi per studiare, ma anche luoghi di incontro e scambio tra generazioni diverse. Qualcuno lo sta già facendo con successo, a Roma e a Milano, altri sono più indietro ma un cambiamento è necessario se vogliamo vedere di nuovo le sale piene. Ci riusciremo, ne sono sicura.
Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 18 gennaio 2022.
Essendo figlia di un professore ordinario di diritto pubblico, si era appena iscritta a Giurisprudenza e lavorava per un'agenzia di moda, quando le viene proposto di fare il provino per un film.
«Effettivamente, dopo il liceo classico, la mia strada sembrava tracciata nella direzione dello studio giuridico, eppure la mia passione era altrove - spiega l'attrice Vittoria Puccini -. Il mio lavoro nella moda mi serviva solo per raggiungere un'indipendenza economica, non volevo dipendere dai miei. Ma fu proprio l'agenzia a propormi di tentare il provino per il film Tutto l'amore che c'è diretto da Sergio Rubini. Accettai di buon grado e, direi, con grande curiosità la proposta: sostenni varie prove, recitando le scene che mi venivano indicate dal regista e alla fine vengo scelta.
Prese il via un'esperienza che non sapevo dove mi avrebbe portato, però il primo giorno sul set mi sono subito sentita a mio agio e, nonostante la mia timidezza, ho capito di trovarmi nel posto giusto. Perché lì non ero Vittoria, avevo la protezione del personaggio che dovevo interpretare e in cui mi nascondevo. In altri termini potevo esprimere sentimenti ed emozioni senza espormi in prima persona, ma attraverso un ruolo che dovevo incarnare. Quella prima esperienza mi ha aperto un canale importante per dare sfogo alla mia emotività, che facevo fatica a portare all'esterno. È stata una scoperta, mi sono trasferita a Roma ed è partita la mia avventura».
Dunque la recitazione è stata in qualche modo un mezzo per combattere la sua timidezza, senza il bisogno di ricorrere al lettino dello psicoanalista?
«Una specie di training autogeno. Sin da bambina giocavo con la fantasia: prima di addormentarmi inventavo storie di principesse rapite, che poi riuscivano a fuggire... e quando viaggiavo in macchina, guardavo fuori dal finestrino, silenziosa, costruendo personaggi e intrighi bizzarri. I miei genitori mi chiedevano a cosa stessi pensando, ma non glielo dicevo... ero riservata, mai esibizionista, mai interessata a mostrare i miei sentimenti.
A volte, stare con i piedi piantati a terra nella realtà è faticoso e riuscire a uscirne, a staccare, a crearsi una propria realtà, allenando la fantasia, rende libera la tua mente dagli impedimenti sociali, dalle aspettative che gli altri nutrono nei tuoi confronti. Tuttavia sono sempre molto curiosa e aperta agli stimoli esterni che mi aiutavano, e mi aiutano, a conoscere il mondo che mi circondava, a vivere le mie esperienze in maniera energica. Pronta all'osservazione e all'ascolto: preferivo e tuttora preferisco ascoltare piuttosto che parlare di me ed essere ascoltata. Per gli altri sono un'ottima confidente, invece per me è una forma di pudore che protegge il mio privato, senza mettere tutto in piazza. Ma comunque non sono un tipo solitario, ho sempre avuto tanti amici».
Quando ha abbandonato gli studi, suo padre rimase male? Come reagì?
«Accettò la mia scelta, ma fu categorico dicendo: mi fido di te ma, se entro due anni non succede niente, ricominci a studiare. E fece bene a dirmelo, era il modo giusto per farmi capire che non dovevo galleggiare in un limbo. I miei genitori certamente erano un po' preoccupati, perché quello del cinema era un mondo che non conoscevano, comunque si sono fidati della mia determinazione, mi hanno dato forza e fiducia. All'uscita del mio primo film, organizzarono per me una bella sorpresa».
Quale?
«In quel periodo non ero a Firenze, dove sono nata e dove vivevo con la mia famiglia. Ma mia madre orchestrò una grande cena a casa, post proiezione, con tanti amici, parenti, conoscenti... All'ingresso di casa aveva inoltre posizionato un mega foglio, dove ognuno degli invitati poteva scrivere, poi, un suo pensiero, una sua valutazione non solo sul film, ma sul fatto che iniziavo il mio viaggio sul grande schermo. Tutte le testimonianze erano rigorosamente firmate».
Una sorta di pagelle?
«Sì, in maniera divertente e affettuosa. Ma l'iniziativa ancora più notevole, venne organizzata quando ero protagonista in tv con Elisa di Rivombrosa : mamma invitava tutti a vedere la puntata, facendo dei veri gruppi d'ascolto, messi in giro per casa. In ogni stanza, dove c'era un televisore, si riuniva un po' di gente, persino in cucina e in corridoio. E una volta feci io una sorpresa a loro, perché quella sera, mentre ero sul piccolo schermo, comparvi all'improvviso a tutti in carne e ossa... fu un'ovazione generale».
La celebre Elisa è stata in effetti la sua svolta mediatica.
«Non posso negarlo. Sono trascorsi vent' anni da quel personaggio, sono orgogliosa di averlo interpretato e non mi sembra giusto, adesso, affermare che mi impegno in altri ruoli per allontanarmene. Noi attori dobbiamo ovviamente misurarci sempre con nuovi personaggi e non dobbiamo pensare a diversificarci dal passato, semmai dobbiamo identificarci con il passato e andare oltre».
Lei è stata protagonista anche in palcoscenico, ne «La gatta sul tetto che scotta», testo impegnativo. Come mai non ha mai avvertito la necessità di frequentare una scuola di recitazione?
«In teatro le difficoltà tecniche sono decisamente maggiori, è stata un'esperienza straordinaria. Il motivo per cui non ho fatto scuole, è perché ho iniziato la mia carriera per caso e molto giovane mi sono ritrovata subito immersa nel lavoro: le scuole sono importanti, ma le devi fare subito altrimenti, dopo una certa età, diventa troppo tardi. Se tornassi indietro, le frequenterei e oggi consiglierei a un giovane attore di frequentarle, perché si acquisisce una struttura, si conquistano degli strumenti fondamentali, arrivi in scena con maggiore sicurezza, con le spalle larghe e più forti, mentre io ho dovuto imparare il mestiere sul campo... Naturalmente, di tanto in tanto, ho seguito degli stage con dei professionisti per imparare a usare la voce, il corpo, la gestualità... ma non una scuola vera e propria e, infatti, ho avuto maggiori problemi tecnici, rispetto ai colleghi che si erano formati in modo completo con veri maestri. Aggiungo, però, che ci sono cose che la scuola non ti insegna».
Per esempio?
«Come gestire le proprie capacità, incanalandole in una seria, severa, rigida disciplina: ci vuole autoregolamentazione per stare 12-13 ore al giorno sul set, poi studiare le scene successive e, quando torni davanti alla cinepresa, devi essere pronta, mai in affanno. Un allenamento continuo, che costa sacrificio, che non mi ha fatto vivere la giovinezza. Mentre io da ragazza impersonavo Elisa, le mie amiche si godevano una vita spensierata, uscivano la sera, si divertivano. Io la sera tornavo a casa dal set, mi infilavo sotto la doccia, mangiavo qualcosa e andavo a dormire. Sentivo la responsabilità di ricoprire un ruolo da protagonista e, in quanto tale, avevo pure il compito di trascinare gli altri interpreti con una energia contagiosa, affinché tutti dessero il meglio sul campo».
Sul campo, qual è stato il suo primo maestro?
«Ovviamente Sergio Rubini, un punto di riferimento importante, mi ha insegnato molto. In particolare, ricordo una sua raccomandazione che si riferiva al mio aspetto etereo, troppo pulito. E allora mi ripeteva: devi sporcarti, devi avere il coraggio di rompere qualcosa dentro di te... Poi, ho avuto altri punti di riferimento: una passione smisurata per Mariangela Melato e per Meryl Streep, non per copiarle, solo ammirarle».
Il personaggio più difficile da incarnare?
«Più di uno, ma certamente impersonare Oriana Fallaci è stata un'esperienza unica. Innanzitutto, ero in tutte le scene del copione, poi abbiamo girato la miniserie televisiva nei posti più incredibili: Tunisia, Grecia, Vietnam... una lavorazione complicata in condizioni non sempre ottimali. Inoltre tante ore di trucco faticoso, quando è stato necessario l'invecchiamento... Ricordo quando girammo una scena in una località tunisina: nel copione doveva sembrare estate, invece era il mese di novembre e insieme a Vinicio Marchioni, che impersonava Panagulis, abbiamo dovuto immergerci in un mare ghiacciato... una autentica sfida climatica».
L'Oriana, una fiorentina come lei...
«Sì, una donna complessa, amata e odiata. Grande provocatrice, una Cassandra che ha previsto tanti fatti, come il terrorismo islamico, che poi si sono verificati. La definirei una Forrest Gump al femminile, solo che il personaggio impersonato da Tom Hanks si trovava per caso in certe situazioni, mentre l'Oriana se le andava a cercare, voleva esserci per raccontare quello che succedeva con forte spirito di avventura».
Adesso nella fiction «Non mi lasciare», in onda fino al 31 gennaio su Rai1, è Elena Zonin, una poliziotta specializzata in crimini informatici e, soprattutto, in reati contro l'infanzia.
«Una storia ambientata in una Venezia segreta, città ricca di mistero che, per la prima volta, diventa la location di un thriller, dove si affronta una tematica molto importante, che riguarda pericoli terribili che corrono i bambini, per esempio con la pedopornografia online: il web è un macrocosmo complesso e loro non hanno gli strumenti per comprenderne i gravi rischi. Anche i genitori vanno messi in guardia, devono controllare con molta attenzione le frequentazioni virtuali dei propri figli».
Lei è la mamma di una quindicenne, Elena...
«La seguo su Instagram e lei ne è molto contenta».
È contenta anche quando vede la mamma protagonista sul piccolo o sul grande schermo?
«Be', il più bel complimento l'ho ricevuto recentemente proprio da lei. Dopo che è andata in onda la prima puntata di Non mi lasciare, la mattina seguente a colazione mi guardava senza proferire parola, finché si è palesata, dicendo: mamma mi sei piaciuta e seguirò le puntate successive. Non era tanto scontato... una figlia adolescente i complimenti non te li regala per farti piacere...».
Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti e il messaggio per Shalla e Mikaela. Libero Quotidiano il 14 agosto 2022
Vittorio Brumotti si racconta. L'inviato di Striscia la Notizia in un'intervista a Vero Tv parla della sua vita privata e del suo amore per gli animali. Così ha voluto parlare dei suoi cani che lo accompagnano nella vita di tutti i giorni: "Patricio e Cecilia fanno dei danni pazzeschi a casa. Sono tremendi. E quando li sgridi nemmeno si sentono in colpa. Non so davvero come abbiano fatto a trovare dietro la tv la grotta da scavare".
Poi parla anche di Striscia e delle sue compagne di viaggio, Shalla e Mikaela: "Queste ragazze sono dei veri trattori, non si fermano mai. Evviva le nuove generazioni, anche perchè io ne faccio parte. Anche a 42 anni con la mia bici sono sempre in mezzo ai pischelli".
Insomma Brumotti guarda al futuro ed elogia le nuove generazioni che a suo dire possono dare un contributo importante. Infine parla anche del suo futuro e della sua carriera in tv con il ritorno certo a Striscia con l'apertura della nuova stagione del tg satirico di canale 5: "Sono un inviato che rischia in prima persona con inchieste pericolose, con Striscia non ci si annoi mai". I telespettatori attendono i suoi nuovi servizi per scovare le ingiustizie del nostro Paese.
Striscia la Notizia, questo Vittorio Brumotti? No, ecco il suo volto oggi: un sospetto pazzesco. Libero Quotidiano il 23 giugno 2022
Qualcosa non torna in Vittorio Brumotti: a sollevare i dubbi il suo "nuovo" volto. Sono molti i telespettatori che hanno notato un notevole cambiamento nel viso dell'inviato di Striscia la Notizia oggi al timone di Paperissima Sprint. Tra questi l'attentissimo Ivan Rota. È lui, nella rubrica "Pillole di Gossip" e sulle colonne di Dagospia, ad avanzare un'ipotesi: "Brumotti appare alquanto cambiato in viso. In molti si chiedono se abbia ricorso alla chirurgia estetica. Se confrontate le foto di pochi anni fa con quelle di oggi potete darvi una risposta".
Un sospetto che sembra avere un fondamento. Guardando le immagini del passato, si vede un naso abbastanza importante se confrontato a quello alla francese che il biker vanta adesso. Che Brumotti si sia sottoposto alla chirurgia estetica non è dato sapersi. Lui stesso sui social non ha mai affrontato l'argomento. Certo è che sono state tante le aggressioni da lui subite in questi anni.
La lotto contro lo spaccio per il tg satirico di Canale 5 lo ha messo a serio rischio. Spesso l'inviato è stato aggredito riportando diversi traumi facciali. Per questo, è la più plausibile delle ipotesi, Brumotti potrebbe essere stato costretto a finire sotto i ferri.
Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti e gli spacciatori? Ecco che cosa c'è dietro davvero. Libero Quotidiano il 05 giugno 2022
Vittorio Brumotti e gli "spaccini": ormai è un genere cinematografico a sé, metà action movie all'americana, stile "Fast & furious" (su due ruote), metà poliziottesco all'italiana anni Settanta (qualcuno ricorda "Milano odia: la poliza non può sparare?"). A Striscia la notizia, su Canale 5, con cadenza settimanale il ciclista estremo entra come inviato nei fortini dello spaccio di droga italiani, a ogni latitudine. Dai quartieri-ghetto ci cittadine campane o pugliesi fino alle grandi metropoli, Roma e Milano. Da Sud a Nord, senso di impunità, degrado e violenza: una fotografia adrenalinica di quello che accade sotto i nostri occhi distratti.
Il format funziona. In 5 minuti, si passa dalla ricognizione con telecamera nascosta sul luogo del crimine, l'abboccamento con gli spacciatori, spesso immigrati, che offrono la mercanzia con nonchalance. Poi Brumotti e il cameraman tornano sul posto seguendo le forze dell'ordine arrivate per una perquisizione. Non è stato l'inviato di Striscia a denunciare, ma qualche residente esasperato. Qui però arriva il "twist" del servizio: spacciatori e immigrati, un mucchione di decine di persone, se la prendono con lui al grido di "infame", lo inseguono, gli tirano bottiglie, cercano di rubargli il girato. Nell'ultima puntata di questo True reality-crime in pillole (forse l'unico in Italia) Brumotti è al Parco Sempione, in pieno centro a Milano. Polmone verde che è anche centrale di stupefacenti. Dopo aver avvicinato i fornitori di droga informandosi su quantità e prezzi, scatta il blitz degli agenti. E qui si scatena il dramma: il parco diventa un dedalo di viuzze, luoghi perfetti per un agguato della gang.
Il ciclista, circondato, inizia a prenderle. «Ti tiro un calcio qua e muore, non me ne fot**e niente», lo avverte un energumeno. Non resta che scappare, a rotta di collo. Le riprese in soggettiva della bici che sfreccia a velocità folle tra alberi, aiuole, marciapiedi giù giù fino alla strada e lungo i rotai del tram, fino alla "salvezza", valgono da sole il prezzo del film, anche se viste e riviste (purtroppo) centinaia di volte.
Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti: "Pistola in bocca", terrore a Los Angeles. Libero Quotidiano il 14 agosto 2022
Una disavventura drammatica per Vittorio Brumotti. "Sono stati attimi di terrore quelli vissuti da Vittorio Brumotti, la fidanzata Annachiara Zoppas e due loro amici sabato pomeriggio a Los Angeles, dove si trovavano per una vacanza. Il conduttore di Paperissima Sprint e inviato biker di Striscia la notizia, purtroppo abituato a subire aggressioni per via dei suoi servizi contro la droga, è stato rapinato nella cittadina californiana, in pieno giorno".
A renderlo noto è una nota di Mediaset. "Sono qui in vacanza con Annachiara - racconta Brumotti - Stavo girando dei video con la bici sulla Pacific, la via principale della costa, e in lontananza vedo due ragazzi che si stanno picchiando. Decido di allontanarmi, di cambiare strada, ma poco dopo mi accorgo che ci sono quattro persone che mi seguono in bici". A questo punto il racconto si fa più drammatico: "Mentre cerco di allontanare un mio amico e Annachiara - prosegue Brumotti - mi colpiscono in testa con il calcio di una pistola, mi buttano per terra, mi riempiono di calci e pugni, mi mettono un’altra pistola in bocca e mi levano l’orologio e lo zaino.
Poi si girano verso Annachiara: io cerco di reagire, ma ero mezzo svenuto. Loro a quel punto decidono di scappare, lanciano via una delle pistole, che poi trovo io. Per fortuna, nel giro di poco tempo, interviene la polizia con diverse pattuglie e addirittura un elicottero. Annachiara era terrorizzata, ma è ok. Evidentemente mi stavano marcando da tempo: erano quattro ragazzi di colore, di circa 20 anni. Io sono un pò abituato alle aggressioni, ma quello che è successo oggi è sicuramente il record di violenza che abbia mai subito".
Vittorio Brumotti, terrore e rapina a Los Angeles per l’inviato di "Striscia”. La Stampa il 15 agosto 2022.
Sono stati attimi di terrore quelli vissuti da Vittorio Brumotti, la fidanzata Annachiara Zoppas e due loro amici sabato pomeriggio a Los Angeles, dove si trovavano per una vacanza. Il conduttore di Paperissima Sprint e inviato biker di Striscia la notizia, purtroppo abituato a subire aggressioni per via dei suoi servizi contro la droga, è stato rapinato nella cittadina californiana, in pieno giorno. "Mi hanno dato il calcio di una pistola in testa e mi sono svegliato per terra con un'altra pistola infilata in bocca, è stato un momento terribile", racconta Brumotti. «Sono qui in vacanza con Annachiara. Stavo girando dei video con la bici sulla Pacific, la via principale della costa, e in lontananza vedo due ragazzi che si stanno picchiando. Decido di allontanarmi, di cambiare strada, ma poco dopo mi accorgo che ci sono quattro persone che mi seguono in bici», aggiunge Brumotti. Poi, nel giro di poche frazioni di secondo, succede di tutto: «Mentre cerco di allontanare un mio amico e Annachiara mi colpiscono in testa con il calcio di una pistola, mi buttano per terra, mi riempiono di calci e pugni, mi mettono un'altra pistola in bocca e mi levano l'orologio e lo zaino. Poi si girano verso Annachiara: io cerco di reagire, ma ero mezzo svenuto. Loro a quel punto decidono di scappare, lanciano via una delle pistole, che poi trovo io. Per fortuna, nel giro di poco tempo, interviene la polizia con diverse pattuglie e addirittura un elicottero. Annachiara era terrorizzata, ma è ok. Evidentemente mi stavano "marcando" da tempo: erano quattro ragazzi di colore, di circa 20 anni. Io sono un po' abituato alle aggressioni, ma quello che è successo oggi è sicuramente il record di violenza che abbia mai subito», conclude Brumotti.
Adriana Marmiroli per “La Stampa” il 18 agosto 2022.
Il pericolo è il suo mestiere. Vittorio Brumotti ci ha abituato a una vita in diretta tv tra percorsi estremi in precario equilibrio sul vuoto e «braccio armato di videocamera» nelle strade più malfamate d’Italia. Spesso finisce a botte... Anche quando non è in missione per il tg satirico di Antonio Ricci.
Qualche giorno fa, per esempio, è arrivata la notizia e il video su Instagram di una rapina a mano armata subita in quel di Venice, località turistica alla periferia di Los Angeles, piena di gente e in pieno giorno. Brutta avventura davvero quella americana, Brumotti. Eppure scrive su Twitter: «Il viaggio continua, nonostante l’intoppo».
Non è un po’ troppo eufemistico definire intoppo l’aggressione di cui è stato vittima?
«Non un’aggressione ma una rapina a mano armata. C’è chi va dallo psicologo per queste cose… Il sottoscritto purtroppo è abituato a subire fatti simili, ma fa parte del mio carattere sdrammatizzare. Quindi: il fatto era molto grave, ma faccio sempre un sorriso. Sono fatto così».
Subito dopo ha postato un video su instagram: voce rotta, sotto shock, eppure non ha perso la freddezza di raccontare l’accaduto. Un riflesso automatico dopo tanti anni di tv e di situazioni rischiose?
«Chiaramente, mi viene automatico. Mi hanno rapinato, malmenato, puntato la pistola in bocca e dato un colpo in testa con un’altra pistola, ma ho avuto la prontezza di inseguire gli aggressori per 500 metri fino a che hanno perso la pistola e un telefono, che sono riuscito in un secondo momento a recuperare. Con la mia fidanzata era presente un’amica: è lei ad avere girato il video in cui ho raccontato l’accaduto. Con il mio lavoro, documentare mi viene naturale: l’informazione prima di tutto».
Era una situazione a rischio in qualche modo prevedibile?
«Anche se mi ero accorto che ci stavano seguendo, non abbiamo percepito la pericolosità della situazione perché era un quartiere molto tranquillo. Tuttavia Los Angeles è una città pericolosa: i casi di criminalità sono quasi all’ordine del giorno, come in altre città in America. Anche di giorno, anche in luoghi affollati. Per dire: il giorno dopo, in una via centralissima e frequentatissima, mentre mangiavo in un ristorante, ho sentito 4 colpi di pistola: una tentata rapina».
Il web come al solito si è diviso. Quale è stato il commento che più le è spiaciuto?
«Sentirmi dire che non presentavo alcuna ferita, che non era possibile che avessi fatto il video con il mio telefono, che avessi utilizzando foto vecchie e che fosse quindi una situazione creata e pilotata da me. La cosa che mi fa più rabbia è vedere le persone che mettono in discussione quello che ho subito. Ma la maggior parte della gente è stata invece molto carina e gentile».
C’è chi dice, sostanzialmente: te la sei andata a cercare. Cosa risponde?
«Non ce la siamo andati a cercare proprio per niente. Il nostro era un semplice viaggio di piacere, una situazione di vacanza con amici per fare i video con la mia bici».
Non le è venuto di pensare: accidenti, anche in vacanza?
«Nel momento in cui si sono avvicinati non pensavo a una rapina, sinceramente pensavo a qualcosa di legato al mio lavoro… È avvenuto tutto molto velocemente ma sono riuscito a mantenere la freddezza. Io ormai sono fatto di gomma e sono abituato a queste situazioni. La cosa che mi ha fatto più male era vedere la mia compagna Annachiara terrorizzata a pochi passi da me. Le sue urla e quelle della nostra amica, mi hanno fatto capire cosa stava davvero accadendo. A quel punto sono anche riuscito a portare i due sotto una telecamera: probabilmente riusciremo ad averne le immagini».
Ci lamentiamo della violenza che c’è da noi in Italia, quanto accaduto le ha fatto fare qualche riflessione in merito?
«A Los Angeles tante droghe sono facilmente reperibili e girano davvero ovunque, anche nel centro della città. Droga e alcool sono all’ordine del giorno e questo fa da “innesco” a situazioni come quella che mi è accaduta. Quindi, sì, la situazione la vedo molto più problematica che non in Italia: bene o male sotto questo aspetto da noi c’è qualche regola in più».
La avevano mai minacciata con una pistola?
«Una volta mi hanno sparato due colpi a San Basilio. A Palermo invece avevano sparato alla portiera dell’auto che fortunatamente era blindata. E al Quarticciolo avevano aggredito me e le forze dell’ordine, con uno degli aggressori che cercava di sfilare la pistola a un carabiniere. Però una pistola in bocca non mi era mai capitata: ti passa veramente la vita davanti... In quel momento però ero più preoccupato per Annachiara che era a due passi: temevo che facessero qualcosa a lei. D’istinto tendo a preoccuparmi più per gli altri».
Come mai era negli States?
«Devo restare una ventina di giorni qua negli Stati Uniti perché devo fare dei video in bici nei Canyon e a Los Angeles… Per me non cambia nulla, sono abituato a questo genere di situazioni, ci so convivere, invece il mio amico, per lo spavento, ha prenotato subito un volo per tornare in Italia. Non ci ha rovinato affatto il percorso anzi eravamo pronti ed entusiasti di continuare le nostre tappe. Ci spiace solo per il ragazzo che è rientrato in Italia».
A Paperissima in questi giorni vediamo un Brumotti diverso. Il programma è (anche) un modo per preparare un percorso alternativo per quando non potrà più macinare record e rischi come ora?
«Io mi definisco un Peter Pan, Paperissima fa parte di me: faccio da 10 anni questo programma. Mi dà tanto: l’ironia e la voglia di sorridere sempre. Che è poi il modo in cui io interpreto la vita: sempre con un sorriso. Antonio Ricci mi ha insegnato a gestire la situazione con la telecamera, con un microfono, purtroppo, a volte anche nelle situazioni più critiche. Ringrazierò sempre lui e lo staff di Striscia la notizia per avermi forgiato. Ma i salti in bici li farò per sempre».
C’è anche il Brumotti che lancia un appello per l'acquisto di un fluoroscopio per curare i bambini dell’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Ci sono altre charity con cui è impegnato?
«Al Regina Margherita ero stato con la mia bicicletta per la Kennedy Foundation insieme a FORMA Onlus, successivamente abbiamo fatto la raccolta per il fluoroscopico. Ogni tanto mi piace fare due salti in reparto oncologia, si disinfettano le ruote, si salta, si porta un po’ di buonumore e si conoscono i veri supereroi che hanno bisogno di un po’ di adrenalina. Da poco ho conosciuto il piccolo Brian che sta al Regina Margherita da tanti anni, forse troppi anni, ma è speciale e siamo diventati molto amici. Inoltre sono molto legato alla fondazione famiglie SMA (atrofia muscolare spinale) dove con i soldi che raccogliamo, anche grazie a Striscia, è stato trovato il farmaco per cercare di curare questa rara malattia».
Come e dove si vede tra 10 anni, o anche solo 8, al compimento dei fatidici 50? O tanto i 50 oggi sono i 30 di ieri, e quindi non ci pensa affatto?
«Come mi vedo io a cinquant’anni? Sempre in bici, alimentazione corretta, zero alcol e tanto stretching per far sì che il corpo sia come quello di un trentenne… tante energie positive e poi ovviamente mi vedo ancora a Paperissima !»
Ha tanti tatuaggi. Ne farà uno che documenti questa brutta storia losangelina?
«Niente nuovi tatuaggi: è da tanti anni che non ne faccio più. Ma solo perché non ho più tempo. Penso che il mio corpo sia la mia tela… Penso a quando sarò vecchio, chissà cosa mi dirò guardandomi: “Oh che orrore!” o “Questa è la mia vita!”?».
Striscia la Notizia, la confessione privata di Vittorio Brumotti: "Ecco perché non ho figli". Libero Quotidiano il 14 giugno 2022
Vittorio Brumotti si confessa. Il campione di bike inviato di Striscia la Notizia, in un'intervista a Grazia ha deciso di parlare del suo lato privato, la sua vita di coppia e di mostrare il Vittorio che in pochi conosciamo. Nella lunga chiacchierata apparsa sul settimanale, Brumotti spiega perché non ha ancora avuto dei figli. Le sue parole sono sincere e dirette: "Amo ciò che faccio e la mia vita è sempre stata a rischio. La mia paura non è legata a questo tipo di imprese, né alla morte. Ho paura delle brutte notizie che riguardano gli altri, sia le persone che amo e che mi sono vicine, sia quelle che non conosco. Vorrei mettere una rete per salvare tutti. Ho paura delle cose che non posso cambiare. Forse anche per questo non sono ancora padre e Annachiara non è ancora madre. Non so se reggerei a quel tipo di preoccupazioni che sono legate ai figli".
Poi spiega anche qual è il suo segreto per tenersi sempre in forma e avere un fisico scolpito: "Mangio ancora riso, pollo e verdure bollite. Un atleta deve stare attento. Sono ligure, amo anche la focaccia e Annachiara, la mia fidanzata, mi sprona ad assaggiare il cibo etnico, ma per avere gli addominali scolpiti e allenarmi bene, qualche sacrificio lo devo fare".
Infine parla anche delle sue ex: "Mi hanno aiutato a crescere e a migliorarmi. Ho avuto tre fidanzate importanti. La prima, Roberta Armani, nipote del grande stilista Giorgio, mi ha illuminato sul mondo, mi ha proiettato verso nuovi orizzonti. Erano i primi anni di Striscia e con lei ho viaggiato tanto e più conoscevo le altre culture, più al mio rientro in Italia mi sentivo piccolino. Motivo per cui non mi sono mai montato la testa. Finita quella relazione sono rimasto per anni legato all’Italia, quando stavo con la conduttrice Giorgia Palmas, ma sentivo il desiderio di tornare a viaggiare”.
Vittorio Brumotti, tre donne importanti: l’attuale compagna Annachiara Zoppas, Roberta Armani, Giorgia Palmas. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 giugno 2022.
Il campione di bike trial, inviato di «Striscia», da lunedì 13 giugno conduce la sua decima edizione di «Paperissima sprint» con le ex Veline Shaila Gatta e Mikaela Neaze Silva e il Gabibbo. Martedì compie 42 anni.
Brumotti torna a «Paperissima sprint»
Da lunedì 13 giugno, su Canale 5, alle 20.30 torna l’immancabile appuntamento con «Paperissima Sprint» varietà estivo di Antonio Ricci. Per Vittorio Brumotti è la decima edizione (non consecutiva, la prima risale al 2011) ed è la quarta consecutiva insieme alla stessa affiatata squadra: le ex Veline Shaila Gatta e Mikaela Neaze Silva e il Gabibbo (presenza fissa dal 1990). La formula è invariata: sketch, inediti filmati di papere, gaffe ed errori tv da tutto il mondo. Vittorio Brumotti con la sua sana follia regala molta allegria al programma.
«Paperissima sprint» è diventata un cult estivo per grandi e piccini. Ecco la storia e i suoi punti di forza: il debutto risale al 1990 in onda su Italia 1 come uno speciale di Paperissima. Nel 1995 si trasferisce su Canale 5, dove è rimasto per 27 anni. I Il Gabibbo è l’unica presenza fissa del programma dalla prima puntata a oggi. Tra i conduttori che si sono susseguiti, stagione dopo stagione ricordiamo: Mike Bongiorno, Michelle Hunziker, Serena Grandi, Miriana Trevisan, Naike Rivelli, Antonella Mosetti, Eva Henger, Edelfa Chiara Masciotta, Juliana Moreira, Giorgia Palmas, Vittorio Brumotti, Valeria Graci, Alessia Reato, Maddalena Corvaglia, Roberta Lanfranchi, Shaila Gatta e Mikaela Neaze Silva. La sigla della prima edizione era “Il ballo del qua qua”, l’attuale sigla “Fritto misto” esiste dal 1997 ed è interpretata dal Gabibbo. Dal 2005 il programma non viene girato solo negli studi televisivi, ma anche all’aperto. La redazione di Paperissima Sprint nel periodo estivo riceve circa 150 filmati inediti al giorno.
L’amore con Giorgia Palmas
Paperissima Sprint non è stato solo lavoro per Vittorio Brumotti. Dal 2011 al 2014, Vittorio ha condotto il programma con la sua compagna di allora, Giorgia Palmas (ex velina, oggi sposata con il nuotatore Filippo Magnini). Infatti i due sono stati legati dal 2012 al 2017. Le strade di Vittorio Brumotti e Giorgia Palmas si erano già incrociate dietro le quinte dello Show dei Record. In quel periodo però l’ex Velina era incinta (e ancora innamorata di Bombardini). C’è voluto qualche anno, prima di incontrarsi di nuovo, e avvicinarsi, grazie alla complicità nata sul set: «Lavorativamente ci siamo trovati subito - raccontò Palmas a Barbara D’Urso - ci siamo avvicinati nel corso del tempo». Nel 2016 a proposito di un possibile matrimonio, l’ex velina raccontava a Vanity Fair: «Abbiamo il nostro equilibrio, siamo una coppia rock’n roll che funziona bene». In realtà un anello Brumotti glielo aveva già regalato: per sorprenderla lo aveva nascosto in una scarpa da tennis (lei lo aveva trovato indossandola). Ma i sogni di nozze, dopo sei anni di relazione adrenalinica, sono sfumati. Già nell’estate 2017 si mormorava di un loro allontanamento e un anno dopo, a Verissimo, è arrivata la conferma definitiva: «Non ho mai detto nulla sulla fine della storia con Vittorio Brumotti che è finita quasi un anno fa, inizio di giugno 2017. È una storia che aveva un termine, era da molto tempo già che le cose non andavano bene».
La storia con Roberta Armani
Prima di Giorgia Palmas, Brumotti ha avuto una relazione importante anche se non lunghissima - dal’ottobre 2009 al gennaio 2011 - con Roberta Armani, nipote del grande stilista Giorgio. Allora i rotocalchi di gossip impazzirono perchè non si potevano immaginare due personalità così diverse e appartenenti a mondi distanti. Invece la loro storia funzionò a meraviglia. Lui dice di lei: «Mi ha illuminato sul mondo, mi ha proiettato verso nuovi orizzonti. Erano i primi anni di Striscia e con lei ho viaggiato tanto e più conoscevo le altre culture, più al mio rientro in Italia mi sentivo piccolino. Motivo per cui non mi sono mai montato la testa. E non ringrazierò mai abbastanza Roberta Armani per avermi insegnato a stare al mondo, tant’è che siamo ancora in contatto». Lei di lui ammette: «Mi ha fatto scoprire una naturalezza e una spontaneità che prima non avevo»
L’attuale compagna Annachiara Zoppas
Dal 2018 è legato all’ereditiera Annachiara Zoppas, 12 anni più giovane di lui. Sull’attuale compagna il 42enne ha detto: «Quattro anni fa ho incontrato Annachiara, una donna pazzesca. E’ molto più giovane di me, ha solo 30 anni, e mi stupisce ogni giorno. E’ una tosta, legge tantissimo, ama il design e come me adora viaggiare. Lei è tante donne insieme e ha una visione ampia della vita. Il prossimo viaggio lo vorremmo fare in Bhutan, un piccolo stato himalayano, a studiare il buddhismo. Abbiamo tanti progetti, ma litighiamo anche, perché abbiamo idee diverse. Stiamo insieme da più di quattro anni e abbiamo messo su casa insieme». Annachiara dice di Vittorio: «Lui è po’ Peter Pan, ha sempre voglia di giocare. Ma è anche molto protettivo nei miei confronti. A volte mi guida perché ha più esperienza di me. Io sono giovane ma sono cresciuta in fretta: ho perso mia madre a 14 anni ed è stata dura. Mio padre aveva un’azienda e grandi responsabilità sulle spalle, ha cercato di starmi vicino come poteva ma spesso ho anche dovuto cavarmela da sola. È stato formativo». Un colpo di fulmine, che è diventato amore, ma che per ora non intende trasformarsi in matrimonio.
La passione per la bici
Vittorio Brumotti è nato a Finale Ligure il 14 giugno 1980 ed è un campione di bike trial. È entrato dieci volte nel Guinness dei Primati grazie a notevoli imprese sportive. Il 6 dicembre 2008, al Motor Show di Bologna, ha superato 28 sbarre con la ruota posteriore della sua bicicletta e il 17 maggio 2009 in Sardegna si è tuffato da 17 metri con la bici nelle acque antistanti le grotte del Bue Marino a Cala Gonone. Poco tempo dopo è tornato in Sardegna per un nuovo record: sulla sommità della guglia naturale di Punta Caroddi, un picco a circa 150 metri sul livello del mare, ha effettuato 71 saltelli sulla sola ruota posteriore. Nel 2012 Vittorio Brumotti ha ottenuto il Guinness World Record per aver risalito la Burj Khalifa, a Dubai, in bicicletta, in esattamente 2 ore e 20 minuti. Ogni tanto la sua compagna gli dice che passa troppo tempo sulla bici , ma lui replica «Non posso lasciarla. Se mi chiedessero che cosa porterei nell’aldilà risponderei la mia bike. C’è sempre stata in tutti i momenti di sconforto e se faccio un salto rischioso viene fuori l’istinto di sopravvivenza che mi fa imparare qualcosa di nuovo su di me».
Per ora niente figli
Vittorio Brumotti al settimanale “Grazia” ha svelato i motivi per cui non ha ancora avuto figli. «Amo ciò che faccio e la mia vita è sempre stata a rischio. La mia paura non è legata a questo tipo di imprese, né alla morte. Ho paura delle brutte notizie che riguardano gli altri, sia le persone che amo e che mi sono vicine, sia quelle che non conosco. Vorrei mettere una rete per salvare tutti. Ho paura delle cose che non posso cambiare. Forse anche per questo non sono ancora padre e Annachiara non è ancora madre. Non so se reggerei a quel tipo di preoccupazioni che sono legate ai figli».
La lotta contro la droga e le aggressioni
Vittorio Brumotti da tempo ormai è l’inviato di «Striscia la notizia» che non ha timore di andare a scovare le piazze dello spaccio di droga. E più di una volta la sua vita è stata in pericolo. Di recente, dopo avere ricevuto numerose richieste d’aiuto giunte dai residenti della zona Sempione a Milano, con la sua troupe è andato al parco Sempione, per sgominare una banda di spacciatori a due passi dal Castello Sforzesco.
Cecchi Gori: “Il giorno prima di morire Troisi mi disse…” Luca Forlani su Culturaidentità il 27 Aprile 2022.
Vittorio Cecchi Gori compie oggi 80 anni, praticamente una vita che è un film: gli anni d’oro, il matrimonio con Rita Rusic, istriana di Pola emigrata a Busto Arsizio sposata nel 1981 dopo il colpo di fulmine sul set del film Asso interpretato da Adriano Celentano, i successi al botteghino e la “conquista” della Fiorentina, ma dopo gli splendori per il Tycoon a un certo momento calano le tenebre, con un’escalation inarrestabile di guai: divorzio e (tanti) problemi finanziari e giudiziari. Figlio d’arte (il padre Mario è uno dei più grandi imprenditori cinematografici italiani), Vittorio Cecchi Gori contribuisce al successo dell’attività cinematografica familiare producendo film che sbancano il botteghino, come Il bisbetico domato, Mia moglie è una strega, Il tenente dei carabinieri, Io e mia sorella, Le vie del Signore sono finite, Il piccolo diavolo, Il muro di gomma, Johnny Stecchino solo per citare i più clamorosi. Nel 1991 vince il suo primo Oscar con Mediterraneo di Gabriele Salvatores, mentre con Il postino con l’indimenticato Massimo Troisi si candida all’Oscar e vince il Bafta come miglior film non in lingua inglese. Dalla seconda metà degli anni ’90 i film prodotti dalla Cecchi Gori Group sono campioni d’incasso, vedi Il ciclone di Leonardo Pieraccioni. Poi dal 2001 il declino, oltre alle ingentissime spese per il divorzio dalla Rusic (intanto si fidanza con Valeria Marini) arriva l’avviso di garanzia per concorso in riciclaggio e nel 2008 si scatena lo tsunami: bancarotta fraudolenta. Segue un iter giudiziario che si conclude il 27 febbraio 2020 con la Cassazione che conferma la condanna per il fallimento da 24 milioni di euro della Fin.Ma.Vi., commutata negli arresti domiciliari per l’età e il cattivo stato di salute del tycoon. Vi proponiamo l’intervista realizzata dal nostro Luca Forlani nel 2019 a un uomo che ha fatto la storia del cinema e non solo. Una vita al massimo. Quando si arriva così in alto è inevitabile rischiare di cadere, ma quello che conta è sapersi rialzare.
È membro dell’Academy. Cosa pensa dei vincitori degli Oscar 2019?
Sono contento per la vittoria di Green Book. Un film che fa bene all’anima. Condivido anche l’affermazione di Roma tra i film stranieri. Quest’ultimo rappresenta un caso distributivo che mostra il progressivo assottigliarsi delle differenze tra cinema le televisione.
Lei ha vinto tre Oscar…
In realtà quattro, ma ne L’ultimo imperatore subentrai all’ultimo, non facendomi inserire nei crediti. Ricevette nove premi Oscar, numeri da record.
Quando ha deciso che si sarebbe dedicato al cinema?
A cinque anni già stavo sui set sulle ginocchia di Eduardo De Filippo. Il destino poi mi ha permesso di lavorare con Massimo Troisi, eccellente erede della tradizione attoriale eduardiana.
Qual è il film della sua vita?
Il postino. Troisi era un vero genio. Durante le riprese era molto affaticato, parlava poco. Ricordo una discussione in merito alla morte del suo personaggio. Mi sembrava non fosse necessaria, temevo che il pubblico potesse non apprezzare questa scelta. Lui mi disse: “non ti preoccupare per il pubblico, Troisi non muore mai”. Massimo è morto il giorno successivo alla fine delle riprese. La forza di quest’uomo, che ha dedicato gli ultimi attimi della sua vita per realizzare un simile capolavoro, non finirà mai di commuovermi.
Il Postino non venne scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar…
Nemo propheta in patria. In questo Paese spesso non si fanno scelte nell’interesse del cinema. Io decisi di distribuire Il postino nei cinema americani, sottotitolandolo in inglese. Partimmo in un cinema d’essai di mia proprietà ma presto, grazie al passaparola, il film divenne un fenomeno negli Stati Uniti. L’anno successivo ricevette cinque nomination agli Oscar e concorse nella sezione “Miglior film”.
Rifarebbe l’esperienza politica?
Ne avrei potuto fare a meno. La politica non rispecchia il mio modus operandi. L’ultima volta ho concorso con la Lega. Mi sembrava un partito realmente interessato a tenere in vita il cinema italiano. Non conosco personalmente Salvini ma mi piacerebbe riprendere quel discorso. Il cinema ha anche un ruolo diplomatico e le istituzioni dovrebbero interessarsene.
Ci racconta un episodio Off della sua vita?
Molti pensano che Berlusconi sia il mio acerrimo nemico, ma non è così. La Penta Film è stata una delle migliori operazioni di imprenditoria cinematografica che io ricordi. Purtroppo la nostra collaborazione è finita troppo presto. Impazzì per Johnny Stecchino. Lo andò a vedere e mi chiamò per dirmi che non aveva mai riso tanto. Un’altra passione che ci accomunava era quella per il programma Colpo grosso. Ho una grande stima per Silvio Berlusconi e sarei felice di poterlo incontrare di nuovo.
E nel suo futuro cosa c’è?
Tra poco uscirà un documentario dedicato alla mia carriera. L’ha prodotto Giuseppe Lepore. Io, invece, sto lavorando al remake de Il sorpasso. Un meraviglioso ritratto del nostro Paese che in questa versione ambienterò ai giorni nostri.
Vittorio Cecchi Gori compie 80 anni: «Ornella Muti l’avrei sposata. Oggi invece sono solo e ho solo amiche». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.
Le relazioni con Rita Rusic e Valeria Marini, il patrimonio, il ricovero: l’ex produttore si racconta, tra successi cinematografici e sventure in serie.
«Parafrasando una pellicola che ho prodotto io, spero che questi siano “i miei primi 80 anni”». Vittorio Cecchi Gori sa ancora ridere, nonostante gli acciacchi dell’età e i dispiaceri di una vita che definisce da film. Il compleanno è oggi, 27 aprile. A gennaio era stato ricoverato, scontava ancora ai domiciliari un cumulo di pena definitivo di otto anni e cinque mesi per il crac della Safin cinematografica e della Fiorentina, pena poi sospesa per motivi di salute: «Il cuore ha fatto i capricci. Ora ho il fiato corto, posso fare tutto, ma da seduto». Nella casa ai Parioli che fu dei genitori, guarda Roma dalle vetrate: «Purtroppo, qualche agevolazione l’ho avuta, ma era meglio non averla, perché dipende dalle mie condizioni di salute». I guai giudiziari hanno azzerato un impero fatto di cinema, televisione, calcio. Chiedo: che errori si riconosce? «Avevo un ruolo in 48 società, qualcosa mi è sfuggito, ma non mi sono accorto di aver fatto niente di male, quel che è successo non lo so dire tuttora». Sospira: «Spero solo che il presidente Sergio Mattarella, così equanime e sereno, mi conceda l’onore della grazia». Buona parte del nostro cinema l’ha prodotta Vittorio Cecchi Gori, in principio con il papà Mario.
Primo set?
«Napoletani a Milano. Lo girammo nel ’52, avevo dieci anni. Eduardo De Filippo mi fece sedere sulle sue gambe. Brontolai: babbo, ha le ginocchia ossute».
L’ultimo set?
«Silence di Martin Scorsese, nel 2015. Di Scorsese ho coprodotto anche The Irishman, con Robert De Niro e Al Pacino, ma non sono potuto andare, stavo male. Con l’America ho continuato a lavorare perché lì le mie società non sono state coinvolte dal fallimento. Tuttora gli americani mi sollecitano a fare altro. Ho pronta la sceneggiatura del remake del Sorpasso, col figlio di Dino Risi, Marco, e magari con Alessandro Gassman, al quale però non va molto. Sono nella giuria degli Oscar, sento gli altri giurati, i remake vanno di moda. Devo solo stare bene, riprendere a muovermi. Un bel film vorrei ancora farlo».
Quanto le manca produrre?
«Io con la testa produco sempre. Tutto quello che vedo, nella mia testa, diventa un film. Oggi, mi sono svegliato pensando a Carlo Verdone, vorrei fare il remake di Io e mia sorella».
Verdone, Risi, Benigni, Pieraccioni, Tornatore hanno partecipato al docufilm del 2019 «Cecchi: Gori una famiglia italiana». I suoi registi le sono rimasti vicino?
«Io a loro voglio bene e credo che loro ne vogliano a me».
Il primo film dove ebbe un grosso ruolo?
«Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, del 1970. E ...Altrimenti ci arrabbiamo fu un’intuizione mia. Mio padre non l’aveva capito: tutti dicevano che Bud Spencer e Terence Hill senza gli spaghetti western non li avrebbe visti nessuno. Prima, papà non mi aveva mai fatto un complimento. Tanti gli dicevano: digli una volta che è bravo. E lui: che, siete matti? dopo, non lo controllo più! Anche l’ultimo film di Federico Fellini volli farlo io, ci tenevo a fare esperienza coi grandi. Resta famosa la battuta di Fellini a mio padre: tu ti sei sempre salvato, ci voleva tuo figlio per farmi fare un film con la Cecchi Gori».
Vedere il suo nome nella società di famiglia che soddisfazione fu?
«La devo a Sergio Corbucci e Monica Vitti, con Non ti conosco più amore, anno 1980. Con Monica siamo stati amici, quanti film insieme...».
Quanti film ha fatto in tutto?
«Anche 90 all’anno fra prodotti e distribuiti. Preferisco ancora i film alle serie: un film bello messo in tv non ha rivali. Ho rivisto Mediterraneo di Gabriele Salvatores, è ancora attuale».
È fra i tre Oscar che tiene nella libreria, assieme al «Postino» e alla «Vita è bella».
«Lo vinsi nel mio momento d’oro in America, dove avevo casa e credibilità. Fui bravo a promuovere il film. Purtroppo lasciai Los Angeles: troppo faticoso fare avanti e indietro. Donald Trump mi diceva di rimanere, forse sbagliai».
Era amico di Trump?
«Avevo comprato casa da lui a New York, attico e superattico su Central Park, come stare sospesi in mongolfiera, poi l’ho persa nei casini miei. Abbiamo fatto amicizia, era debordante, ma era un uomo semplice, capiva tutto al volo».
Altri incontri memorabili?
«Gabriel García Márquez. Eravamo amici, gli portai a Città del Messico Tornatore che voleva fare il film da Cent’anni di solitudine, ma i due non si presero. Poi, lui mi fece invitare da Fidel Castro a fare lezioni di cinema a L’Avana. Gabriel era simpaticissimo. I grandi hanno anche una semplicità quotidiana che li rende magnifici».
Altri grandi sorprendentemente semplici?
«Bill Gates venne a prendermi con la moglie in giardinetta».
Che ci faceva lei con Bill Gates?
«Lo conobbi alla Sun Valley Conference».
La cosiddetta «conferenza dei billionaire»?
«Ci andai per tre anni. Lavoravo a una piattaforma europea di contenuti a pagamento, molto prima che arrivassero Netflix e simili. Non essendo all’altezza come vedute tecniche, mi preoccupavo che gli schermi su cui si vedesse fossero grandi come quelli dei televisori. Con me e i Gates c’era il capo della Warner. Io dicevo: non ci credo che uno vede un film nel telefonino».
Gates, invece, ci credeva già?
«Era più avanti. Io, poi, sono stato messo fuori gioco per via giudiziaria».
In una conferenza stampa disse: «L’ordine è farmi fuori». Chi mai voleva farla fuori?
«Col passare del tempo, le cose si sono precisate. Avevo Tmc, stavo creando il terzo polo tv, avevo una quota di quella che sarebbe diventata Sky, una library di film sterminata e una squadra di calcio, per cui avevo capito l’importanza dei diritti tv di cinema e calcio. Successe, invece, una lotta con la tv generalista. Mi hanno portato via tutto, per un errore minimo rispetto alla vastità di ciò che amministravo. Ma tante vicende sono aperte e qualcosa conto di recuperare».
Come le venne in mente di dire che la cocaina che le trovarono in casa era zafferano?
«Chi lo sa? Certo non pensavo che sarei rimasto nella storia per la battuta sulla zafferano».
Degli altri due premi Oscar che ricorda?
«Benigni e Massimo Troisi erano meravigliosi, si volevano bene. Li misi io insieme in Non ci resta che piangere. Volevano sfondare entrambi in America: con Roberto ci riuscimmo, con Massimo pure, ma lui non fece in tempo a vederlo».
Morì appena finite le riprese del «Postino».
«Aveva la mentalità napoletana di De Filippo: lo spettacolo continua. Quando capì che si doveva operare al cuore, non lo disse, non si operò e volle continuare il film. Una sera, io e Verdone lo invitammo a cena e non volle venire per finire di doppiare. Il giorno dopo, se n’è andato».
Nel docufilm, Benigni racconta che, quando le spiegò il soggetto di «Johnny Stecchino», si impegnò, glielo mimò, ma lei dormì tutto il tempo. Poi, aprì gli occhi e gli disse cosa andava cambiato in ogni scena.
«Succedeva quando vivevo a Los Angeles e, con nove ore di jet lag, ero sempre stanco. Avevo affinato una tecnica per cui ascoltavo socchiudendo gli occhi e sembrava che dormissi».
Un grande a cui è stato molto legato?
«Vittorio Gassman è stato un secondo padre, gli stavo sempre attaccato. Andavamo a giocare a tennis, di qua, di là. In America ho avuto una grande amicizia con Jack Nicholson. Man Trouble doveva farlo con Meryl Streep. Lei venne a trovarmi, molto impaurita, per dirmi che era incinta. Io stappai lo champagne per festeggiarla. Meryl lo raccontò a tutti facendomi diventare noto e simpatico a tutta Los Angeles».
Diceva che la sua vita è un film. Il colpo di scena più bello?
«Il più simpatico è quando mi sposai con Rita Rusic: avevo per testimoni Verdone e Enrico Montesano. Mentre il prete celebrava, li vidi impettiti nei vestiti blu e mi venne in mente di fargli fare un film intitolato I due carabinieri. Glielo dissi, lì, mentre mi sposavo. Fu un successo».
Prima, i giornali rosa la descrivevano come «play boy che colleziona attrici, Maria Grazia Buccella, Maria Giovanna Elmi...».
«Playboy è chi nella vita fa solo quello. Io lavoravo. E lavorando conoscevo attrici. Maria Grazia è stato il mio grande amore, finì perché eravamo giovani, ma siamo ancora amici. A Natale 2017, fu lei a portarmi in ospedale con l’infarto».
Ornella Muti?
«Mi piaceva tanto. Mamma disse: ho capito che vuoi sposare un’attrice, sposa lei, è simpatica, è bellina. Ma ci lasciammo, fu una delusione: avrei voluto che finisse in un’altra maniera».
Davvero di Rita Rusic suo padre disse: quella il mi’ figliolo se lo ficca in saccoccia?
«Ero figlio unico, avevo 40 anni, consideri la frase in quel contesto. Io volevo sposarmi, mica potevo seguitare a far che? Ho messo su famiglia, abbiamo due figli straordinari, Mario si è laureato in Economia in America, Vittoria ha negozi a Miami. Il matrimonio è durato 20 anni».
Le cronache riportano che finì fra risse e tentativi di strangolamento reciproco.
«Quando le persone sono note il gossip è inevitabile e mi dispiace. Io non porto rancore a nessuno, io e Rita abbiamo un buon rapporto».
Le dava fastidio quando si dice che era stata lei a scoprire Pieraccioni o Panariello?
«L’ho messa io nella produzione. Aveva fatto una parte in Attila flagello di Dio, ma fare l’attrice non era la strada giusta per la moglie di un produttore. Le dissi: dammi una mano con la società. E lei ha imparato».
Valeria Marini, cinque anni insieme.
«Fu una bella storia, un po’ faticosa. Veniva a dormire alle sei del mattino perché aveva fatto una serata dall’altra parte dell’emisfero».
Ora ha una compagna?
«Sono solo, ormai. Ho qualche amica. A 80 anni, ho più bisogno di amicizia: non è che mi metto a fare l’imitazione di me stesso»
Da ilnapolista.it il 19 aprile 2022.
Bellissima intervista del Corriere Fiorentino (a firma Roberto De Ponti) all’ex presidente della Fiorentina (nonché produttore cinematografico) Vittorio Cecchi Gori. Che tra pochi giorni compirà 80 anni.
«La vita mi ha dato, mi ha dato tanto. Certo, qualche amarezza c’è stata, però la vita mi ha dato tanto. E quando riesci a fare le cose che ti piacciono, e le fai così bene che tutti te lo riconoscono, allora pensi che qualcosa di buono hai lasciato».
Parla del suo passato nel calcio, dello scudetto quasi vinto.
«Quel quasi mi dà fastidio tuttora. Come sempre succede nel campionato italiano, all’ultimo ci sono un po’ di influenze esterne che in qualche modo intaccano il risultato. Subimmo qualche torto, ci fu qualche speculazione sul fatto che Edmundo fosse tornato in Brasile per il carnevale. Non era vero, nel contratto era previsto che dovesse rientrare per presentarsi a un processo. Ci furono malumori. E Batistuta si fece male. E poi avevamo subito torti arbitrali anche in Europa, la squalifica del campo dopo il Barcellona, quell’assurdo petardo l’anno dopo a Salerno in campo neutro dopo aver vinto 2-0 all’andata».
Lei è sempre stato un terzo incomodo…
«Dappertutto. Io mi basavo sui successi in prima linea e non sulle banche, sulle alleanze, così ero facilmente colpibile. Oggi come allora vincono i grossi gruppi, i fondi, stranieri e non più italiani. Il calcio si presta a questo, però perde quella matrice vera che lo tiene in vita, che è il tifo della proprietà».
Parla del rapporto con suo padre Mario, che acquistò il club, che poi si trovò lui a dirigere.
«Io sono stato fortunato, perché fra me e mio padre c’erano vent’anni di differenza. Ero nato molto presto, diciamo così. E mi ha sempre portato con sé: a 12-13 anni io ero già un produttore in erba. Ed è stato così anche per il calcio. Così mi sono trovato preparato alla tenzone, e in più con la fiducia di mio padre».
Racconta di quando decise di comprare Batistuta.
«Ero a Los Angeles, mentre lavoravo per il cinema lo vidi in tv alla Coppa Libertadores e pensai: questo è perfetto per il calcio europeo. Allora dissi al nostro intermediario: portami Batistuta o non farti più vedere da me».
E Batistuta arrivò con Latorre e Mohamed.
«Fu un giro legato a Batistuta. Mi toccò prenderli. Ma giocavano come me...».
Il miglior giocatore acquistato, però, non fu Batistuta, dice, ma Rui Costa.
«Batistuta era un leone, un trascinatore. Rui Costa era talento purissimo».
Dopo 9 anni di permanenza in viola, vendette Batistuta alla Roma. Gli chiedono se avrebbe venduto Vlahovic alla Juventus, al posto di Commisso.
«Sì. Vlahovic non è Batistuta. Batistuta era decisivo, Vlahovic ti fa vincere contro le squadre medie, con le grandi devo ancora vederlo».
Sul rapporto con le donne:
«Guardi, a proposito di difetti della mia vita, se non ci fosse stato il gossip ne avrei solo guadagnato perché facendo cose così in vista il gossip ha preso il sopravvento su tutto. Sembro un facilone, e non è così. Le donne mi sono sempre piaciute, ma in maniera giusta, a prescindere delle campagne che si fanno oggi. Amare una donna significa rispettarla. E io avevo sempre bisogno di avere vicino una compagna, più che fare il Casanova. E le posso assicurare che io il divano del produttore non ce l’ho mai avuto».
Ha prodotto tanti film di successo. Gli chiedono cos’abbiano in comune il cinema e il calcio.
«Poco o nulla, a parte il materiale umano. E il regista, che nel calcio è l’allenatore».
Aurelio De Laurentiis ha seguito il suo percorso: dal cinema è arrivato al calcio.
«Ad Aurelio piaceva fare quello che facevo io. Quando io presi la Fiorentina si incaponì di prendere una squadra di calcio. Purtroppo lui prese il Napoli quando io persi la Fiorentina, così non ci siamo mai incrociati. Ma devo dire la verità: Aurelio è più bravo come presidente che come produttore. È un ottimo organizzatore, ha la stoffa».
Ritiene che la Fiorentina gli sia stata strappata di mano. Dice che hanno pesato i diritti tv.
«Hanno pesato i diritti tv. Io avevo un’enorme casa cinematografica, che poteva condizionare l’esistenza di una televisione. E quando si parla di comunicazione allora si toccano i vertici dello Stato. E il calcio aveva il problema dei diritti tv, cosa non risolta perché ancora oggi accadono le stesse cose che accadevano 30 anni fa. Ed è grave, perché io ci ho rimesso le penne per questo.
Mi misero contro la Rai, ma io non ce l’avevo con la Rai. Io ero un produttore di programmi, non un diffusore. La pay-tv era un concetto che mi piaceva, ma non decollava mai, tant’è vero che a un certo punto cullai l’idea di creare una piattaforma, europea ma con buoni rapporti con l’America. In realtà sulla carta era una partita vinta, però ho smosso troppi interessi».
Crollò tutto.
«Non lo so neanche che cosa è successo. Non era una questione di soldi, era una questione di potere. E chi non mi voleva bene mi ha massacrato. Se ci penso oggi, a distanza di tanti anni, penso: è vero, quando cadi nella polvere la riconoscenza scompare. Però è vero che con il tempo ho ritrovato persone che mi vogliono bene. In fondo nella mia vita ho fatto tante cose sbagliate ma anche qualcuna giusta».
Vittorio Cecchi Gori. "Ecco la verità sulla mia malattia". Roberta Damiata il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Ora che Vittorio Cecchi Gori è uscito dall'ospedale, ci tiene a fare chiarezza sulle tante cose dette sul suo ricovero. "Niente Covid e nessuna polmonite", racconta in esclusiva a ilGiornale.it
Nessuno sapeva quando, ma Vittorio Cecchi Gori è tornato a casa. Lo ha fatto in silenzio, per evitare di alimentare le tante false notizie che sono uscite sul suo stato di salute. Ora sta bene ma ci tiene a fare chiarezza, e in esclusiva a ilGiornale.it, racconta la verità che smentisce i titoli allarmanti che lo davano ricoverato in fin di vita. Allo stesso modo il suo ricordo va alla scomparsa di Monica Vitti, di cui era molto amico, e con la quale aveva lavorato in tre film. Lo incontriamo nella sua casa romana.
Sig. Cecchi Gori, la prima cosa che mi viene da dirle è bentornato a casa. Come si sente?
"Bene. Per fortuna, e come può vedere, le cose che sono state dette sulla mia malattia sono false. Sono stato male solo un paio di settimane, di cui una soltanto passata in ospedale".
Parla del fatto che sarebbe stato ricoverato per polmonite come conseguenza del Covid?
"Esatto, il Covid e la polmonite non c'entrano. Sono stato ricoverato per problemi di respirazione, dovuti forse a qualche chilo di troppo che premeva sul torace. Soprattutto nel periodo di Natale non mi sono mosso molto. Quando ha visto che non respiravo bene, Rita (Rusic ndr) ha insistito molto affinchè mi ricoverassi. Così come il professor Francesco Landi che mi tiene in cura da tre anni".
Eppure si era parlato di lei in fin di vita, e di situazione grave...
"Le sembro uno che è stato in fin di vita? Questi problemi respiratori li avevo da un po' come dicevo, e in ospedale mi hanno aiutato a superarli, rimettendomi in sesto. È vero che mi hanno somministrato l'ossigeno, ma è l'unica cosa in comune con il virus".
Vedo che in casa c'è una bombola d'ossigeno, è sempre sotto controllo?
"Solo per sicurezza. In realtà mi sento bene, ma il professor Landi mi dice sempre che a 80 anni bisogna stare sotto controllo".
Quanti messaggi ha ricevuto in ospedale?
"Molti che mi hanno fatto tanto piacere. Invece sono stato male per la scomparsa di Monica Vitti, che conoscevo bene e con cui ho lavorato tanto".
Che ricordo ha di lei?
"Nella via esistono i fuoriclasse, e lei era una fuoriclasse. Grande attrice e grande donna di cinema e spettacolo. Brava in tutto. Anche quando non li dirigeva lei, i film erano della Vitti. Ho ricordi bellissimi. Con lei ho lavorato nell'"Anatra all'arancia" con Ugo Tognazzi e la regia di Luciano Salce. Andai a Londra a comprare i diritti per farne una commedia che uscisse in lingua inglese. Lei era fantastica in questo, mi seguiva, avevamo lo stesso modo di vedere le cose e ci comprendevamo al volo. Per varie ragioni il film non si fece poi in inglese, ma fu un successo strepitoso ovunque".
Non è l'unico film che ha prodotto con lei...
"No infatti. Anche "Ti ho sposato per allegria". In realtà quello fu più merito di mio padre che mio. Un film tratto dal lavoro di Natalia Ginzburg. Modernissimo e molto avanti per l'epoca. Un film precursore dei tempi. Lei era meravigliosa anche in questo. Prima gli attori che come la Vitti avevano lavorato in pellicole considerate impegnate, ad esempio quelle di Antonioni, difficilmente poi si dedicavano alla commedia. Ma lei no. Per questo era una grande donna di spettacolo. Con lei si passava dal cinema, al teatro, alla letteratura in maniera veloce. È riuscita a fare grandi cose. Con lei feci anche un terzo film: "Non ti conosco più amore" con Gigi Proietti e Johnny Dorelli".
Che donna era fuori dal set?
"Una bella persona. Aveva solo una cosa dove era fissata, le foto. Per il resto una donna con cui potevi parlare di tutto"
In che senso?
"Quando si trattava di scegliere le foto, lei doveva dare la sua approvazione. Le ritagliava tutte con le forbici e da 100 foto al massimo se ne tiravano fuori cinque. Ci ridevo tanto su questa cosa".
Che cosa le ha lasciato?
"Ho imparato tanto da lei, come donna e come professionista. L'unica cosa in questa enorme mancanza è che si è tornati a parlare di lei e del suo lavoro. Credo che tutti noi dovremmo prendere la strada da lei indicata, per il bene del futuro del cinema".
Recitava anche in inglese?
"Parlava bene l'inglese, anche se farlo per la commedia era complicato".
Un ricordo personale tra voi due?
"Proprio sul film "Ti ho sposato per allegria", dove recitava anche Maria Grazia Buccella che all'epoca era la mia fidanzata. Lei tifava molto per la nostra coppia. La Buccella vinse come attrice non protagonista un David di Donatello, e Monica non faceva altro che dirmi quanto fossi fortunato ad averla e che bel carattere che aveva. Questo perché a me piaceva anche un'altra ragazza, ed ero indeciso con chi stare, e lei mi dava i consigli. Era unica anche umanamente. Mi è capitato anche con altri attori di pensare che erano meravigliosi sia nella vita che nella professione, ma a livello di donne solo lei. Nonostante la sua umiltà, non aveva bisogno che nessuno gli insegnasse niente, sapeva tutto da sola".
Quanto era bella?
"Non è la definizione che preferisco di lei. Monica era intensa. Nel grande momento della Loren, lei ha rappresentato l'intensità del genere femminile. Oltra al fatto che sì, era bellissima".
Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi.
Francesco Specchia per "Libero quotidiano" il 3 gennaio 2021. Vladimir Luxuria è in estasi. Respira il nuovo anno nelle strade ingobbite di San Francisco, in pellegrinaggio tra il quartiere gay di Castro e i luoghi dell'attivista Harvey Milk. È alla caparbia ricerca di una storia per Lovers, il suo festival cinematografico. Non so se l'ha trovata. Ma per telefono, scavando in un passato inedito, noi, di storia, si può riscoprire la sua. Wladimiro Guadagno in arte Vladimir Luxuria: due visioni contrapposte mi si pongono innanzi.
Da un lato c'è lei immersa nella storia dei diritti civili americani; dall'altro, in tv Italia1, che annuncia (per il 4 gennaio in prime time) Back to school, il programma di Nicola Savino in cui lei e altri 24 concorrenti venite massacrati da maestrini over 10 che vi costringono a rifare l'esame di quinta elementare. Uno iato culturale...
«Capisco il suo imbarazzo. L'ho avuto pure io in Back to school. All'inizio l'ho presa con molta leggerezza, poi questi bambini che noi chiamiamo i "maestrini" ci impartivano lezioni per niente intimoriti, anzi. Ed è finita che mi sono messa a studiare durante l'estate come una pazza, con mia madre che mi interrogava, ci sono nozioni delle elementari completamente dimenticate, io per esempio, ho dei problemi con le date storiche».
Eppure dal suo curriculum scolastico lei risulta laureata con 110 e lode in letteratura inglese, laurea su Youth di Conrad, il «Kafka uscito all'aperto». Che c'azzecca lei con Conrad?
«Conrad rappresenta un mondo oscuro, completamente diverso dal mio. Eppure, era in grado di passare dall'indagine nella profondità dell'essere umano di Cuore di tenebra alla sfida al mare del vecchio che naviga su un guscio di noce di Youth, verso l'ignoto in balia delle onde. Che - ci ho pensato dopo - era un po' la mia condizione esistenziale».
Non ci credo, Vladi. Mi sta facendo la lezioncina di letteratura?
«A me piaceva insegnare. L'ho perfino fatto per due mesi, negli anni 90, al liceo scientifico Galilei di Civitavecchia. Quando il Preside si accorse della mia "fluidità" si offrì di accompagnarmi in classe per evitare che gli studenti prendessero il sopravvento sulla/sul supplente. Li conquistai facendo loro l'esegesi del testo di Like a Virgin di Madonna».
Cioè, lei era un intellettuale. Mi è sempre sfuggito, però il suo passaggio alle feste, le Drag Queen, la stagione gay del Muccassassina, il locale romano da lei diretto. E, soprattutto, che ci faceva Bertinotti che da lì la candidò alla Camera per Rifondazione Comunista?
«Il Muccassassina è stata una palestra. Ci si divertiva ma alla fine ci si trovava sempre a discutere di temi come la lotta all'aids e i primi Gay Pride. È una mia piccola vittoria quella di consentire anche l'ingresso degli etero; i gay ortodossi tendevano a rinchiudersi in un recinto da soli, era una sorta di discriminazione al contrario. Da lì l'incontro con Fausto Bertinotti che volle che portassi in Parlamento le istanze del mondo gay».
Non crede che tutti i piumaggi e le paillettes dei Gay Pride possano nuocere alla vera, seria battaglia sui vostri diritti civili?
«Al Pride non si deve mica andare vestiti come a una riunione della Cgil. L'idea era quella del "voi fate finta di non accorgevi di noi? E allora noi ci facciamo notare il più possibile". Non sono mai stata ad un Gay Pride funereo se non in Russia; lì niente paillettes, sembravamo tutti becchini. Ma ci menarono lo stesso. E una volta, se solo qualcuno parlava di figlio matrimonio gli sputavano in un occhio; fino agli anni 70 gli happening finivano con una scopata collettiva. Oggi sembrano riunioni di condominio, con bambini, famiglie Arcobaleno. Senza contare che il Pride conviene a tutti. A Roma nel 2000 i soldi arrivarono da lì, più che dal Giubileo: i pellegrini se la cavavano con un panino. Gli omo sono pink money, flussi di denaro che girano».
Ma non si era riconvertita al cattolicesimo?
«Sì. Con la morte di Don Gallo, grazie ad alcuni amici preti e al nuovo approccio di Papa Francesco. Mi ha migliorato la qualità della vita. In fondo l'inclusione sessuale nella fede religiosa è il prossimo traguardo: in questo i valdesi, gli anglicani e i buddisti sono più avanti dei cattolici che sono meglio dei musulmani e degli ortodossi».
Però l'inclusione prevede anche compromessi politici. Prendiamo la legge Zan: non è stata un'occasione perduta, un harakiri di Pd e M5S?
«Zan era riuscito a far approvare anche un emendamento di Forza Italia. La lega, Italia Viva: erano tutti d'accordo col testo presentato alla Camera. Quando il Vaticano si è opposto, lì ho capito che era finita. Ma credo che prima o poi un testo sull'omotransfobia passerà; non so se sarebbe stato meglio votare il testo Scalfarotto, lì era stato tolto il concetto "identità di genere", chissà poi perché fa così paura».
La paura è umana. Non è forse per paura che lei - dopo rinoplastiche e mastoplastiche varie - non ha mai voluto fare il passo decisivo per diventare del tutto donna? Non aveva detto "adeguo la mia esteriorità alla mia intimità"?
«L'anestesia mi terrorizza. Anche se poi è vero: mi sono rifatta naso, labbra e seno in una botta sola. E, a dire il vero, attiravo l'attenzione degli uomini più come trans. La transizione richiede vari fasi: avendo piena proprietà del corpo si può fermare in qualsiasi momento. Ma anche andare avanti; non è detto che non cambi sesso del tutto. La pensava così anche Eva Robin's».
Sfogliavo i suoi alti rendimenti da parlamentare: quasi il 90% di presenze, 55 progetti di legge presentati dal ritiro dall'Iraq all'industria cinematografica. Leggo di un ddl sulla sicurezza negli stadi, presentato assieme a Giorgetti. Non le dà fastidio essere ricordata solo per il «meglio fascista che frocio» della Mussolini o di «per colpa di Guadagno nessuno va più in bagno» della Gardini scandalizzata di averla trovata nelle toilette?
«Certo. Anche se poi la Mussolini s' è scusata e nel caso della Gardini, almeno ho creato un precedente con i questori della Camera; ci fosse un altro trans può scegliere la toilette più adatta al suo genere».
E vero che è contro l'utero in affitto?
«Sì. Sono per una legge che, in Italia, agevoli le adozioni. Eliminerebbe anche la pratica dell'utero in affitto. È una battaglia che ho cuore da quando, vinta l'Isola e versati 100mila euro all'Unicef, mi chiamo l'allora Presidente Spadafora e mi chiede di andare in Mozambico a vedere a chi fossero destinati i miei soldi. E lì, in mezzo a bambini disperati che si aggrappano con gli occhi a te nella speranza che li porti via, be', sono entrata in crisi. Mi è venuta una voglia di maternità/paternità, a riempire un vuoto che evidentemente ho. Poi ci sono vari metodi per aver figli: anche Gesù Bambino è nato in un modo non del tutto tradizionale».
Ci sono cose che non rifarebbe? Tipo prostituirsi per «potersi mantenere in una città come Roma» (non era meglio fare la commessa, scusi)?
«Non mi prostituirei un'altra volta. Non posso dire di essermi pentita, era un periodo della mia vita. L'ho trascorso con lunghe sedute dall'analista; avevo passato talmente tante delusioni con gli uomini che, per ripicca, nella mia testa, decisi: non mi date niente e vi vergognate di me? Almeno datemi i soldi».
Aldo Busi le ha dato del «gay filogovernativo e trans di regime».
«Non me l'aveva mai detto nessuno. Ma amo troppo Aldo Busi per arrabbiarmi. Come Vittorio Sgarbi che è un genio, ma uno stronzo quando fa battute sul mio pene».
A leggere la sua biografia a volte sembra la Piccola fiammiferaia. C'è almeno un ricordo piacevole inaspettato nella sua vita affollata?
«Ma sa, c'è quella frase di Tennessee Williams sulla bontà degli sconosciuti. Mi ricorderò sempre di un mio amico di destra, Giorgio, che, completamente disinteressato mi prestò i soldi per comprarmi la casa al Pigneto senza farmi accendere il mutuo. Ovviamente restituii tutto. Ma venni travolta. Non era abituata ad essere trattata così...».
Dagospia l’8 novembre 2022. Estratto pubblica su “Il Fatto Quotidiano” di “Woody Allen su Woody Allen”, una raccolta di interviste del critico Stig Björkman, negli anni 80-90, in libreria con Cue Press
Stig Björkman:Il dittatore dello Stato libero di Bananas, il tuo secondo film, che è la satira di una rivoluzione in un immaginario Paese dell'America Latina, fu realizzato nel 1971, in un periodo in cui questo tipo di insurrezioni avveniva realmente. Era anche il periodo della guerra del Vietnam. Quali erano le tue idee politiche a quel tempo? Ti consideri politicizzato?
Woody Allen: No, non credo di esserlo. Sono fondamentalmente - al 99% - un democratico progressista. E più o meno lo ero anche allora, perché ero contrario alla guerra, come chiunque altro conoscessi. Fondamentalmente non sono molto politicizzato. Ho fatto delle campagne per certi politici, come talvolta fanno gli uomini di spettacolo.
SB: Chi hai sostenuto in questo modo?
WA: A suo tempo, quand'ero più giovane, sostenni Adlai Stevenson, George McGovern ed Eugene McCarthy. Tutta gente che ha perso. Ho sostenuto anche la candidatura presidenziale di Lyndon Johnson, poi Jimmy Carter e Michael Dukakis, e adesso mi sono unito ai sostenitori di Clinton. Sono fondamentalmente un democratico progressista.
SB: Te l'ho chiesto anche perché, in film successivi come Io e Annie e Manhattan, fai delle osservazioni ironiche sugli intellettuali di sinistra, un gruppo di cui presumo anche tu ritenga di far parte.
WA: Sì, e poi è un gruppo che osservo con attenzione...
SB: Penso che la velocità sia una delle caratteristiche distintive dei tuoi film...
WA: Ritengo che ciò abbia a che fare con il ritmo biologico naturale del regista. Senza che io cerchi di accorciare i miei film né di rispettare in essi una particolare durata, mi pare di sentire istintivamente, fisicamente, quale sia la durata giusta...
Poi penso che sia importante come si inizia un film. Questo proviene forse dalla mia formazione cabarettistica. È importante che l'inizio e la fine del film siano particolari, che abbiano qualcosa di teatrale, o comunque qualcosa che catturi immediatamente il pubblico.
Perciò credo che tutti i miei film inizino in maniera insolita. Per me è importante la prima immagine che appare sullo schermo. E questo non ha nulla a che fare con il ritmo. Potrebbe essere anche un inizio molto lento.
Ma si sente subito se il regista sa coinvolgerti nella sua storia o nel suo universo personale.
SB: Alla fine del Dittatore dello Stato libero di Bananas, c'è un'attrice nera che fa la parte di J. Edgar Hoover. È una delle pochissime parti nei tuoi film interpretate da attori neri. C'è, per esempio, il sergente nero in Amore e guerra, un personaggio di colore ne Il dormiglione e la cameriera nera ne La rosa purpurea del Cairo. Ma, a parte questi, non ci sono quasi per niente attori di colore nei tuoi film. Come mai?
WA: Non conosco l'esperienza dei neri abbastanza bene da poterne scrivere in maniera autentica. Di fatto, la maggior parte dei miei personaggi proviene da un ambito limitato. Sono perlopiù newyorchesi di ceto alto, colti, nevrotici. Questo è praticamente l'unico tipo di persone di cui parlo, perché è praticamente l'unico tipo di persone che conosco.
Non ne so abbastanza di esperienze di altro tipo. Non ho mai scritto nulla, per esempio, su una famiglia irlandese o italiana, perché non ne so abbastanza.
SB: Ho notato questo particolare anche perché nei film hollywoodiani dell'ultimo decennio è stato dato maggior spazio agli attori e ai personaggi di colore... Spesso il nero fa la classica parte dell'"amico". È quasi un luogo comune.
WA: Sì, oggi come oggi si tende effettivamente a usare più attori neri nel cinema. Ma, per esempio, quando feci Hannah e le sue sorelle, scrissi di un ambiente che conoscevo piuttosto bene. E misi una cameriera di colore perché in quelle famiglie il 90% delle volte si trova una cameriera di colore. Ho ricevuto molte lettere polemiche da parte di neri che dicevano: "Non usi mai attori neri, e quando ne usi uno gli fai fare un lavoro umile".
Ma io non penso a queste cose quando creo un personaggio. Nella mia vita politica - qualunque essa sia - sono sempre stato molto favorevole a tutti i candidati che vogliono ottenere condizioni di vita più favorevoli per i neri. Ho marciato con Martin Luther King. Ma quando scrivo non credo nelle pari opportunità né nella lotta contro i pregiudizi.
Nell'arte non puoi farlo. Perciò, dato che cercavo di ottenere una rappresentazione accurata e mi sembrava che quelle famiglie dell'Upper West Side avessero quasi sempre una domestica nera, nel film ne inserii una. Ma sono stato criticato per questo. Cerco soltanto di rappresentare la realtà nel modo in cui ne faccio esperienza, nella mia autenticità.
Allo stesso modo, se dovessi rappresentare una famiglia ebrea tipo quella in cui sono cresciuto, lo farei in maniera accurata, mettendoci cose lusinghiere e non. Ho ricevuto anche un sacco di critiche da gruppi di ebrei che ritengono che io sia stato molto duro, molto critico, o che li abbia denigrati. Insomma, c'è sempre molta suscettibilità in questioni del genere. Ma io mi sono sempre lasciato guidare soltanto dall'autenticità della scena.
Paolo Armelli per wired.it il 20 settembre 2022.
Negli scorsi giorni si era diffusa la notizia che Woody Allen volesse ritirarsi dal mondo del cinema. Molti giornali, infatti, avevano riportato una dichiarazione che il regista 86enne avrebbe rilasciato al quotidiano spagnolo La Vanguardia in cui affermava di volersi ritirare dopo la realizzazione del suo 50esimo film, Wasp 22. "La mia idea, in linea di principio, è quella di non fare più film e concentrarmi sulla scrittura di romanzi", era la frase che è rimbalzata su tantissimi mezzi d'informazione e in molti già aveva iniziato a commentare l'addio alle scene e qualcuno anche tentava di convincerlo mezzo stampa di ricrederci. Puntuale, però, nelle scorse ore è arrivata la smentita: il regista non ha nessuna intenzione di lasciare la cinepresa.
“Woody Allen non ha mai parlato del suo ritorno e nemmeno che stia scrivendo un altro romanzo. Ha detto che non pensava di fare film che andassero direttamente o molto velocemente sulle piattaforme di streaming, in quanto è un grande amante dell'esperienza nella sala”, si legge in un comunicato ufficiale: “Al momento non ha intenzione di ritirarsi e non vede l'ora di arrivare a Parigi per girare il suo nuovo film, che sarà il suo 50esimo”. Parole piuttosto decise insomma, che allontanano l'eventualità di un suo allontanamento dal mezzo filmico, anche se l'eventualità era stata già accarezzata lo scorso giugno in una diretta Instagram con l'attore Alec Baldwin, suo collaboratore ricorrente: durante il live aveva detto che aveva in programma uno o due altri film, perché “il brivido è andato”.
Insomma l'addio di Allen potrebbe essere vicino ma non imminente. Wasp 22 sarà appunto il suo nuovo film, anche se non si hanno tantissime notizie a riguardo: si dice che possa essere un thriller simile a Match Point, la sua pellicola del 2005 con Jonathan Rhys Meyers e Scarlett Johansson, e che doveva essere già girato nel 2020, ma rimandato per via della pandemia. Negli ultimi anni la fama di Allen, al di là degli esiti critici altalenanti dei suoi titoli più recenti, è stata particolarmente intaccata dal riemergere degli scandali relativi alla sua relazione con l'ex figlia adottiva e ora sua moglie Soon-Yi Previn, compresa la faida con l'ex moglie Mia Farrow.
L’annuncio di Woody Allen: «Lascio il cinema, Wasp 22 sarà il mio ultimo film». «La mia idea, in linea di principio, non è quella di fare più film e di concentrarmi sulla scrittura», ha spiegato l’86enne regista newyorchese. Il Dubbio il 19 settembre 2022.
Woody Allen ha annunciato che lascerà il cinema dopo l’uscita del suo prossimo film, Wasp 22, di cui inizierà la produzione in autunno. «La mia idea, in linea di principio, non è quella di fare più film e di concentrarmi sulla scrittura», ha spiegato l’86enne regista newyorchese in un’intervista al giornale spagnolo La Vanguardia precisando di voler scrivere un romanzo. Woody Allen dietro la cinepresa vanta 50 film girati, 4 premi oscar su 24 candidature, 4 Golden Globe, 2 premi al Festival del cinema di Venezia e altri riconoscimenti.
Già a giugno il regista di «Manhattan» e «Io e Annie» aveva dichiarato in una conversazione con Alec Baldwin su Instagram che avrebbe diretto al massimo massimo ancora «uno o due film» lamentando il fatto che ormai tutte le pellicole finiscono rapidamente sulle piattaforme streaming. Tra l’altro la sua ultima fatica, «Rifkin’s Festival» con Gina Gershon e Wallace Shawn uscito nel 2021, ha incassato solo 2,3 milioni di dollari. Nel 2021 sono anche riaffiorate le accuse di molestie alla figlia adottiva Dylan quando aveva solo sette anni da parte della sua ex compagna, Mia Farrow, accuse sempre respinte dal regista e per le quali non è mai stato incriminato
Estratto dell'articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 settembre 2022.
Woody Allen si ritira dal cinema e, nonostante per il resto del mondo sia un mito, con quattro premi Oscar e tre Golden Globe vinti, i grandi media americani praticamente lo ignorano.
Questa non è solo una visione distorta da giornalista, ma anche un metro di quanto effimera sia la gloria del mondo. E nel caso del regista di New York è abbondantemente passata, almeno agli occhi degli americani, non solo per le accuse di abusi verso i figli da cui non si è mai davvero risollevato, e le polemiche per il matrimonio con Soon-Yi, ma anche per la progressiva irrilevanza del suo lavoro. O magari per un misto delle due cose, che si sono inevitabilmente intrecciate e influenzate a vicenda. (…)
Interessante è stata anche la reazione dei media statunitensi che, tranne qualche eccezione, hanno quasi ignorato la notizia. Può darsi che il ritardo sia dovuto al fatto che l'ha data a un giornale spagnolo, oppure al precedente del giugno scorso, quando in sostanza aveva già preannunciato l'intenzione di ritirarsi dalle scene durante un'intervista con Alec Baldwin, trasmessa in streaming sulla pagina Instagram dell'attore: «Molto del "thrill" di fare cinema è andato.
Quando giravo un film, andava nelle sale in tutto il Paese. Adesso viene proiettato un paio di settimane, magari quattro o sei, e poi finisce nelle piattaforme streaming o pay per view. Non è più così piacevole per me».
Può darsi che sia davvero così, e la ragione è tutta qui, ma è impossibile separare questi giudizi dall'elefante nella stanza della sua vita. (…)
la sua vita privata ha finito per diventare più grande e ingombrante di quella artistica, oscurandola, insieme ad una produzione che negli ultimi anni non è stata comunque stellare, in un mondo cambiato non solo sul piano della tecnologia e la distribuzione.
La storia ormai la conoscono tutti. Woody aveva avuto una relazione con Mia Farrow, anche se in realtà non si erano mai sposati e non vivevano insieme. Avevano adottato insieme dei figli e messo al mondo Satchel, ora più noto come Ronan Farrow, ma nel 1992 l'attrice aveva trovato a casa di Allen foto nude di Soon-Yi, la ragazza sudcoreana che aveva adottato con André Previn.
Woody aveva ammesso di avere una relazione con lei e poi l'aveva sposata nel 1997, sostenendo che non solo non era mai stato suo padre in alcun senso della parola, ma praticamente quasi non la conosceva, prima di innamorarsi di lei. La storia era finita nelle mani degli avvocati, oltre che dei tabloid. Poi però era arrivata l'accusa di molestie sessuali da parte della figlia Dylan, e anche se Allen non è mai stato condannato, la sua reputazione è rimasta macchiata per sempre. Ci si può chiedere se sia stato giusto mescolare così la vita privata a quella artistica, ma gli americani sembrano aver già emesso il loro giudizio definitivo.
Giovanni Berruti per la Stampa il 18 settembre 2022.
Woody Allen ha annunciato il suo ritiro dal cinema. Intervistato dal giornale spagnolo La Vanguardia per la promozione della sua ultima raccolta di racconti, «Zero Gravity», il regista ottantaseienne ha confermato che dopo le riprese del suo prossimo film, il cinquantesimo, di non essere più intenzionato a mettersi dietro la macchina da presa. Ma non andrà del tutto in pensione: si dedicherà alla scrittura, possibilmente anche di un romanzo.
«La mia idea, in linea di principio, non è quella di fare più film e concentrarmi sulla scrittura di queste storie e, beh, ora sto pensando più a un romanzo», ha dichiarato Allen, aggiungendo che non prevede di pubblicare ulteriori memorie. Per quanto riguarda il suo ultimo film, noto col titolo provvisorio Wasp 22, il cineasta ha svelato che «le riprese cominceranno tra due settimane a Parigi». Girato interamente in francese, è stato descritto «simile a Match Point, eccitante, drammatico e anche molto sinistro».
Una carriera piena di successi quella di Woody Allen. Quattro premi Oscar, tre alla sceneggiatura e uno alla regia per Io e Annie, tra i suoi titoli più celebri. Il suo ultimo lavoro è stato Rifkin’s Festival, girato nel 2019, ma uscito in Italia nel 2021 a causa della pandemia. Più volte, soprattutto negli ultimi tempi, aveva parlato di voler chiudere la propria storia con il cinema. Complice anche la drammatica situazione in cui versano le sale, come svelato da una sua recente intervista su Instagram con Alec Baldwin: «Quando ho iniziato, si girava un film che veniva distribuito in una sala e nei cinema di tutto il paese e le persone andavano a centinaia, in gruppi numerosi per vederlo su un grande schermo. Ora fai un film e stai un paio di settimane in sala, forse sei o quattro settimane. E poi va direttamente in streaming o a pagamento, e le persone sono contente di sedersi a casa con i loro schermi e guardarlo sulle loro televisioni. Il risultato non è altrettanto apprezzabile per me».
Barbara Costa per Dagospia il 10 settembre 2022.
“Non me la racconti zocc*la!”, che non te la fai con quel cavallo, ma pure con quell’alano, e t’ho visto, che “strizzavi l’occhio a quel pesce rosso”, e che hai in rubrica, segnato, “il numero del merlo di tua cugina!”. E se a questo rimproverarti è la tua fidanzata, una che al primo appuntamento “mi tolse gonna e camicetta con l’occhio sinistro, e col destro la biancheria intima”, e con cui sc*pi “a letto con sopra uno specchio, e ce n’è uno sopra il divano, uno sopra il tavolo della sala da pranzo, nell’atrio del palazzo, e uno dell’ascensore”… una relazione così sadomaso e appassionata, la tronchi per il primo quadrupede o insetto o uccello che ti passa davanti?
Sì, e per pura strategia di pubblicità, se sei una starlet in rotta con la stampa che conta per aver dichiarato, sulla scia di Miley Cyrus, che sei una squinzia “letteralmente aperta a qualunque esperienza tra consenzienti purché non coinvolga animali”, e di colpo ritrovandoti senza followers bestiole.
Continua pure a leggermi, non sono impazzita, sto benissimo ma mille volte meglio di me sta Woody Allen che in "Zero Gravity" (La Nave di Teseo), suo ultimo libro, si conferma il genio che è. Un giorno, ma con calma eh, mister Allen va per gli 87 anni, fa lo scrittore di professione da quando ne aveva 15, e non in Francia dove lo celebrano, e non negli USA che come si sono criticamente ridotti già è tanto che Allen non lo mettano in galera, ma qui in Italia, quanto tempo ancora deve passare, prima che si onori ma appieno la rivoluzione e la scuola che, col suo stile di scrittura e metodo e contenuti, Woody Allen è maestro?
L’Italia ha una sua grande scusante che non la discolpa, anzi: da noi, una satira siffatta non esiste (ok, è in Franca Valeri, ineguagliabile signora di intelligenza e di libri e di scrittura, che difatti se lo diceva da sé, che “a me fa ridere solo me stessa, oltre Woody Allen”): da noi quella che si mettono in bocca non è satira ma sfottò, una arte diversa di cui l’Italia è – solo per me? – insopportabile puerpera.
"Zero Gravity" riporta i racconti che Woody Allen ha di recente scritto per il New Yorker più alcuni inediti, e stringo la mano a Alberto Pezzotta, traduttore che sa il fatto suo. A La Nave di Teseo hanno carattere nel pubblicare un libro impubblicabile per i canoni vigenti. Woody Allen è né sopra né sotto né accanto ogni politicamente corretto, le mode, ciò che meramente ti aspetti: lui è oltre, è sempre stato oltre, e solo Allen poteva sfornare un libro di surreale satira su quello che l’umanità occidentale è, nei suoi tremori, bollori, il chiodo fisso del sesso.
Non c’è fobia, follia, sozzeria pur zoofila che non esca dai tasti di Allen, lui umanizza aragoste, e mucche, pazze e assassine, e galline annoiate, cavalli quasi Rembrandt, e verga le donne, le donne che col MeToo sono tornate vergini, come no, ma in Allen fanno ciò che la gran parte fa e sa: introducono nella loro bocca, vagina, ma pure ano, il pene del potente di turno in ossequio a un patriarcato senza il quale, che farebbero…? La sapienza è sul “cofano filosofico d’una ciuccia benzina”… nella disillusione più umanamente concepibile, e no.
Non è la prima volta che Allen accoppia animali con gli umani, e sentimentalmente: ne "Tutto Quello che Avreste…", una pecora in lingerie è amante nel letto di Gene Wilder, ma i feticismi i più impronunciabili li trovi seminati nei film di Allen, scat compreso (in "Hannah e le Sue Sorelle", lo scat non lo vedi ma Allen te lo descrive e nei particolari… e ci ridi, passato il primo momento di orrore, che deve esserci, in te, spettatore, se un minimo di etica ti pulsa in cuore).
“C’è moralità se hai moralità”, dice non ricordo chi alla fine di "Radio Days". In Zero Gravity c’è quella alleniana. Che è amorale. Ovunque la si guardi. Zero Gravity ti vergognerai ad averlo tra le mani. Non ne parlerai agli amici. Men che mai al tuo partner. E però lo vorrai… Woody Allen è un dono. È titanico cervello. In azione. Su una macchina da scrivere. Lo confesso: io mi sono innamorata di lui quando dallo schermo mi ha detto che “le due parole più belle del mondo non sono ti amo, ma… è benigno!”. Ha torto??? Dai, ci puoi ridere: non ti guarda nessuno.
Woody Allen: tutto quello che avreste voluto sapere sul grande regista. Sul nuovo Robinson. La Repubblica il 3 Giugno 2022.
Il cinema, la letteratura, Manhattan, la faida con Mia Farrow e il senso della vita: un brutto affare che nonostante tutto vale la pena vivere. Lo ha intervistato a New York Antonio Monda mentre arriva in Italia una sua raccolta di racconti pieni di battute fulminanti.
La vita: un brutto affare concepito senza il nostro consenso che genera costantemente dolore ma che nonostante tutto vale la pena vivere. Lui: un piccolo ebreo goffo e impacciato che non ha nulla di eroico. A pochi mesi dall’ottantasettesimo compleanno, mentre ha iniziato a preparare il suo cinquantesimo film e in occasione dell’arrivo in Italia del suo nuovo libro, Woody Allen si racconta in esclusiva sulla copertina di Robinson in edicola da sabato 4 giugno.
Lo ha intervistato a New York Antonio Monda al quale il grande regista risponde con l’ironia che da sempre lo contraddistingue senza omettere nulla: il cinema, l’amore per Manhattan – che emerge anche da questi racconti, pieni di battute fulminanti, raccolti in Zero Gravity, in uscita in Italia per La nave di Teseo – e il politicamente corretto, la caccia alle streghe, la letteratura e la faida con l’ex compagna Mia Farrow. Di cui dice: “Non riuscirò mai a perdonarla. Tennessee Williams dice che la crudeltà deliberata è imperdonabile: io mi sforzo di non pensarci, ma quello che ha fatto nei miei confronti è malvagio e premeditato. Le sue accuse sono false, come ha decretato anche la giustizia”. E ancora una volta usa l’ironia come unica arma di fronte al mistero di una vita che, ci confessa, è “piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco” ma aggiunge “non significa per questo che non sia degna di essere vissuta”.
Continuano poi le cronache dal Bataclan di Emmanuel Carrère mentre l’autore da riscoprire questa settimana a grande richiesta dei lettori è Dante Troisi, giudice e scrittore, nel ritratto che fa per noi Giancarlo De Cataldo. Tra le recensioni ai libri in uscita questa settimana, da non perdere quella di Viola Ardone ai racconti di Maylis de Kerangal, una delle più importanti scrittrici francesi, raccolti in Canoe (Feltrinelli) che hanno come fil rouge il potere della voce: in libreria dal 7 giugno. E poi ancora Gabriele Romagnoli ha letto per noi Che razza di libro! (Nn editore) di Jason Mott, vincitore del National Book Award che tra il surreale e il fantastico fa qui i conti con il razzismo, il lutto e il senso della letteratura. Mentre Pablo Maurette recensisce la storia premiatissima e brutale raccontata dalla colombiana Pilar Quintana in La cagna (La Tartaruga). Infine, torna con una nuova avventura intitolata La carrozza della santa (Einaudi) la vicequestore Vanina Guarrasi, fortunata eroina della giallista Cristina Cassar Scalia, di cui ci dice tutto Stefania Parmeggiani.
Nelle pagine dedicate ai ragazzi, anticipiamo un brano dall’ultimo romanzo di Jason Reynolds, campione afroamericano della narrativa per i giovani, Stuntboy (pubblicato da Rizzoli) dove si racconta la storia di un ragazzino che vive in un palazzone di città e ha poteri molto speciali. Sempre per i più piccoli protagonista è anche Isotta (Lupoguido), intraprendente ragazzina giramondo nata dalla penna della scrittrice premio Andersen Annie M.G. Schmidt, considerata la Astrid Lindgren d’Olanda: ha recensito il libro e ci racconta la sua autrice, purtroppo scomparsa, Ilaria Zaffino.
La fotografia protagonista invece nelle pagine dell’arte con gli scatti di Shomei Tomatsu e Daido Moriyama in mostra al Maxxi di Roma che ci fanno vedere il ritmo pulsante di Tokyo, il suo cuore frenetico, le miserie e gli splendori, dal punto di vista inedito di un randagio. Ce li racconta Gregorio Botta. Mentre Raffaella De Santis ha visto la retrospettiva dedicata, sempre a Roma, alla pittrice Bice Lazzari, artista che scelse l’astratto durante il fascismo.
Per gli spettacoli, Anna Bandettini ha intervistato il coreografo israeliano Ohad Naharin che debutta in Italia mentre nei fumetti Luca Valtorta ha incontratro Vincenzo Filosa e Nicola Zurlo autori di un folle manga “nippocalabrase”, due mondi solo in apparenza lontanissimi. Infine, lo Straparlando di questa settimana è con lo scrittore Giuseppe Montesano, grande amante della letteratura francese e in particolare di Baudelaire.
Da Non è la Rai ai documentari: la nuova vita di Yvonne Scio. Carlo Lanna l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.
Negli anni '90 è stata una delle "ragazze" di Non è la Rai, oggi è una donna che è impegnata in diversi progetti. Yvonne Scio si racconta e svela il suo punto di vista sul mondo dello spettacolo.
Un vero e proprio tornado. Così si potrebbe descrivere la verve di Yvonne Scio. Donna dai mille talenti e dai mille impegni lavorativi, oggi è una mamma, un’attrice e una documentarista che racconta il mondo delle donne. Prima è stata una delle ragazze di Non è la Rai sulle reti Mediaset negli anni in cui c’era Antonella Elia. Oggi ha all’attivo diverse partecipazioni in serie italiane e americane – come La Tata e Nikita –, e ha diretto due documentari – Roxanne Lowit Magic Moments e Seven Women entrambi disponibili qui in Italia su RaiPlay – ma non ha alcuna intenzione di fermarsi, tanto da continuare a esplorare nuovi percorsi lavorativi. Abbiamo intervistato Yvonne Scio e con lei abbiamo parlato di tv, di social network e anche di attualità.
"Non era la Rai ma... una palestra di showgirl"
Lei ha esordito in tv con il programma di Non è la Rai. Come ha vissuto quell’esperienza?
"In realtà non ho esordito con il programma di Mediaset. Ho cominciato a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo fin da quando avevo cinque anni. Prima con un paio di fotografie per bambini e poi le pubblicità. E dopo un bel po’ di tempo sono arrivata a Non è La Rai. Senza dimenticare che ancora prima del programma di Boncompagni ho avuto una parte nel primo film di Carlo Verdone e ho lavorato anche con Proietti. Di quei mesi in tv conservo un bellissimo ricordo. Questo non lo posso negare. Ho un ricordo intenso di quello che ho fatto e che ho vissuto durante le prove e le registrazioni. E ho anche un bel ricordo di Gianni, di Antonella Elia e tutte quelle persone con cui ho lavorato. Di una cosa sono sbalordita: non avrei mai pensato a tutto il successo ottenuto dal programma. Dopotutto io sono stata una delle ragazze solo per quattro mesi. Avevo capito però che lo show avrebbe avuto un buon riscontro, ma mai a pensare che restasse nell’immaginario di tutti".
Oggi, invece, come si presenta la "nuova" Yvonne Scio?
"Ho qualche ruga in più, sicuramente. Se devo essere sincera, posso affermare di sentirmi più saggia. Non sono mai stata una persona in cerca di fama e successo. Volevo solo fare delle esperienze di vita. Sono sempre stata una spirito libero, mai dentro in certi canoni. Ho fatto tante cose come l’attrice di cinema, poi il teatro, poi sono passata dietro la macchina da presa. E ho viaggiato tra America e l’Italia. Mi sono creata io stessa un’altra carriera, dato che mi hanno offerto di partecipare ad alcuni programmi che non sono proprio nelle mie corde".
Poco fa ha affermato che lei si è cimentata nella carriera di regista e di documentarista. Come mai questa scelta?
"È stata una mia scelta quella di non apparire in video ma di restare dietro la macchina da presa. Delle volte nella vita non c’è bisogno di mettersi in mostra. In ciò che faccio e in ciò che racconto c’è tutta me stessa e tutto il mio vissuto. Quello che ho fatto è stato rappresentare un percorso della mia vita, con gli alti e bassi. È giusto così. Mi sento una donna impegnata con la voglia di creare".
Nel suo curriculum ci sono tante partecipazioni a serie televisive americane di successo, come La Tata. Cosa ha da raccontare su questa incredibile avventura?
"Non solo La Tata, che ancora oggi è molto apprezzata in Italia. Ho partecipato a Nikita che ha un fan base molto attivo nel Canada. Poi ho recitato anche in alcune serie per bambini. L’universo televisivo americano è un mondo bellissimo, totalmente diverso da quello italiano. È stata un’esperienza umana, stimolante e molto bella. Con la protagonista de La Tata, ad esempio, oggi siamo molto amiche tanto che ha partecipato a molti dei progetti che ho portato avanti nel corso del tempo. La sua storia mi ha sempre affascinato e per me è stata sempre fonte di grande ispirazione. Ora non sono più tanto giovane, ma ho diverse esperienze nel settore. Negli Usa tutto è molto più semplice, è come se fosse la terra delle opportunità. In Italia per raggiungere degli obbiettivi devi faticare molto. È tutto più difficile".
È anche molto attiva sui social, soprattutto su Instagram. Come si rapporta con i fan vecchi e nuovi?
"Sono molto onesta sull’argomento. Non mi posso paragonare a chi ha più follower di me. Ne ho appena 90mila. Raramente scoppiamo polemiche per un post che pubblico, oppure ricevo cattiverie gratuite. Forse perché ho capito in che modo posso sfruttare la forza di un social network. Vanno usati, ma sono loro che non possono usare te. Bisogna comunque lasciare un velo di umiltà e di privacy. Esporsi troppo può essere controproducente. Ad esempio, Instagram è molto bello perché ti permette di raccontare qualcosa attraverso un video o una foto. Basta saperlo usare".
Di recente si è esposta anche in diverse cause umanitarie, come per la guerra in Ucraina. E gli utenti come hanno reagito?
"È impossibile non parlare di ciò che sta accadendo e, soprattutto, di non prendere una posizione. Stiamo parlando di una guerra che è a ridosso dell’Europa, come è possibile restare indifferenti? Mi è stato detto che a volte mi espongo troppo ma non capisco il motivo. Non voglio parlare di politica, ma non posso e non si può restare a guadare senza provare a far qualcosa. Si parla di bambini morti, di donne violentate. È un fatto gravissimo".
"A Non è la Rai c'era un po' di bullismo"
Tornando a parlare del suo lavoro. Perché cimentarsi nei documentari e perché parlare di donne?
"Era da un po’ che volevo raccontare una storia, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Ho cercato di mettere su diversi progetti ma all’inizio non ci sono riuscita. Solo quando ho parlato con una mia cara amica fotografa, che mi segue e ci seguiamo da tempo, ho compreso cosa fare. Sono andata a dormire e ho fatto un sogno molto stano. E ho pensato che la sua storia, come quella di altre donne, aveva l’esigenza di essere raccontarla".
Progetti per il futuro?
"Ho qualcosa in ballo e sarò io ad apparire in video, ma per scaramanzia non dico altro".
Zucchero: «Amadeus non mi vuole a Sanremo, neanche in gara. Gli piacciono solo gli influencer». Storia di Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 18 novembre 2022.
Niente Sanremo. Zucchero ha esordito su quel palco, ci è tornato altre tre volte in gara e due da superospite. L’anno prossimo saranno 40 anni dal debutto discografico, ma non ci saranno celebrazioni al Festival. «Non mi vogliono. Nemmeno in gara. Con questa direzione (Amadeus è anche direttore artistico ndr) faccio fatica. Mi sembra che sarà il Sanremo degli influencer, le scelte sono mirate a fare audience», commenta il cantautore.
Così per festeggiare ha deciso di tornare a casa. Due concerti alla Rcf Arena, l’ex-pratone di Campovolo sistemato con un investimento da 14 milioni di euro e trasformato nella più grande Arena permanente d’Europa: 100 mila posti in piedi inaugurati la scorsa estate da Ligabue; 35 mila seduti, primo esperimento con Zu il 9 e 10 giugno. «Reggio è una delle città dove ho suonato meno: una volta su questo prato all’inizio della carriera e tre serate al Municipale in un tour teatrale di anni fa. Ho ribattezzato queste date il concerto dell’amore per la mia terra, le mie radici sono qui, ho un attaccamento viscerale a queste zone anche se a 11 anni e mezzo i miei mi portarono via. Ne ho sofferto e non ho mai elaborato». I ricordi più belli sono legati alla gente. «Tempi duri, ma c’era solidarietà. A Roncocesi, frazione di Reggio dove sono nato, la gente era genuina, piena di ironia e sarcasmo. Fra amici ci si dice “ch’ a ‘t vègna ‘n cancher”, ti venga un cancro. Volevo chiamare così il concerto, ma nel resto dell’Italia non si sarebbe capito…».
Presto per i dettagli dello show. E chissà se nella scaletta ci sarà quella «Partigiano reggiano» che spiega bene da che parte stia Zucchero: «Qui in zona volevano togliere da una casa colonica dove sono stati uccisi dei partigiani una scritta gigante col testo della canzone perché qualcuno, facile immaginare chi, diceva che distraeva gli automobilisti. A poca distanza c’era un cartellone con il lato b di una modella… Comunque la scritta è rimasta al suo posto». Zucchero guarda con disillusione alla situazione politica del dopo elezioni. «Siamo in democrazia e la gente ha scelto. Le abbiamo provate tutte, proviamo anche questa. Chissà quanto dureranno… Qualche segnale però lo hanno già mandato, tipo il decreto sui rave… non è che è pensato perché non si possono fare le Feste dell’Unità? (ride…)». A differenza di Laura Pausini che non l’ha voluto fare in tv, lui darebbe voce a «Bella ciao»: «L’ho cantata e la canterei ancora senza farmi menate. Non divide, è una canzone bellissima, però bisogna saperla cantare con lo spirito giusto. Ognuno poi fa quello che si sente di fare. Negli ultimi anni ho visto tutti i colleghi diventare buoni, redenzioni patetiche. Io non le faccio. Gli artisti non devono accontentare tutti. Io divido».
A Campovolo avrà 35 mila davanti. ben diversa la prima volta da professionista 40 anni fa: «Dopo il primo Sanremo vedendo il mio manifesto pensai che ormai ce l’avevo fatta, che sarebbe partito tutto... Prima data, discoteca a Rosignano Solvay, pomeriggio e sera. Al primo appuntamento si presenta una sola persona che mi chiede dieci volte “Una notte che vola via”. Il proprietario dice che ci offre comunque la cena, ma che possiamo cancellare la serata. C’era solo un biglietto venduto. E sì, era ancora quel signore che mi ha chiesto ancora dieci volte quel brano».
Zucchero e 14 concerti all’Arena: «Quasi quasi canto Putin, che cazzo fai?» Andrea Laffranchi inviato a Verona, su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.
Il cantautore apre la serie di show a Verona: «Si fa politica anche scegliendo quali canzoni mettere in un live».
VERONA Questa volta la casa è veramente lì. È tradizione per Zucchero abbandonare il cappello sull’asta del microfono a fine concerto. Gesto accompagnato dal saluto, preso da Marvin Gaye, «ovunque poso il mio cappello quella è casa mia». La casa ha fondamenta solide: 14 serate all’Arena. Un record così ravvicinate. Sempre lui ne aveva fatte di più nello stesso tour, ma a distanza di mesi. «Ho suonato in altre arene romane, Nimes, Arles... ma nessuna è come quella di Verona. Sono più piccole e non ti sembra di toccare tutte le persone, non ti senti avvolto: l’Arena è come l’organo femminile», commenta a notte fonda dopo la prima serata scaligera che dopo Glasgow e Londra e apre all’infilata di oltre 150 date nel mondo in un anno e mezzo. «Suonerei anche il giorno di Natale. Dopo 3-4 giorni a casa mi rompo le scatole», ride.
Il concept di Zucchero è la musica suonata. Che si traduce in meno effetti speciali, visual e trovate da effetto wow e un investimento maggiore in musicisti internazionali e nelle prove di 50 brani fra cui poter scegliere i circa 30 delle due ore e mezza di ogni serata. Ce ne sono dieci sul palco con lui, diretti come sempre da Polo Jones. Il concerto è il centro della sua attenzione artistica. «Nella discografia non ci sono più persone che sanno osare e allora per gli adult contemporary come me si mette male. Farò ancora dischi, ma sbattendomene di quello che vogliono radio e marketing. Non è detto che funzioneranno ma non mi interessa. Non credo più nel disco come forma di espressione. Il futuro è nel live e voglio suonare ovunque mi chiamino, anche davanti a poche centinaia di persone».
La speranza del «vedere un mondo in festa» di «Spirito nel buio» apre la scaletta. Messaggio di speranza in linea con quel sole gigante che racchiude lo schermo centrale. «Il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna e...» è la prima scossa. Zucchero omaggia il 25 aprile su «Partigiano reggiano»: «Avrei vluto fare una versione acustica di Bella ciao, nostra canzone adorata in tutto il mondo. Ma non voglio essere quello che dalla cattedra indica col ditino, piuttosto sono il clown che dice le cose ma ci ride anche sopra». Non indica ma non si nasconde nemmeno. Prima dei bis, le immagini dell’Ucraina sotto le bombe introducono il «Niente di nuovo» di «Madre dolcissima» e le voci registrate dei tg non parlano più di morti albanesi ma ucraini. «Avevo date in Russia, Ucraina, Bielorussia e Moldavia... Non mi sembra il momento giusto per andarci. Il concerto ha delle canzoni che diventano inevitabilmente legate a come va il mondo oggi. Non mi piace fare il politico, ma voglio dire delle cose attraverso la scelta del repertorio. Però mi viene da dire, citando una mia canzone, “Putin che cazzo fai”».
Ci sono altri testi che ha modificato, ma non c’entra la politica. Un verso di «L’urlo» non parla più di «buco del...»: «Sono più apprezzato come musicista che come autore di testi. Qualche volta sono un po’ da trattoria, ma spero che prima o poi si capisca il senso: nel blues e nell’r&b il sesso è fondamentale. Uso quel linguaggio, fatto di doppi sensi e ironia, ma da noi è percepito come volgare e cheap. C’è un perbenismo da carità in Italia...». La psichedelica «Pene» e «Senza rimorso» sono delle rarità immerse in una sequenza di hit che hanno attraversato i decenni della canzone italiana: «Quelle due le avevo scritte in un momento non buono della vita. Sono uno che gode ma anche uno che soffre, altrimenti avrei fatto un genere diverso, non il blues».
Lungo il cammino in Europa ci sarà una data a Berlino con Eric Clapton il 29 maggio. Non lo imbarazzano le posizioni contro il vaccino del collega: «Nel 1989 mi offrì l’opportunità di aprire un suo tour dopo avermi visto suonare ad Agrigento dove lo portò Lory Del Santo: gliene sarò sempre riconoscente. È una persona ipersensibile e fragile, passato dall’alcolismo e da quelle cose che sapete. Dice di aver avuto reazioni alle mani che lo hanno preoccupato e da spirito libero quale è forse ha reagito a un’imposizione. Rispetto la sua posizione. Ho sentito altri parlare di reazioni avverse, ma a me dopo il vaccino non è successo nulla».