Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
SESTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Baldini.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Reya Sunshine.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Nada.
Nada: «Sono ancora qui, non mi arrendo e continuo a lottare». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.
L’urlo arriva alla fine della seconda canzone, Io sono qui. «Lo uso spesso — racconta Nada — può nascere da un’esigenza musicale, ma anche dalla disperazione… Guai se non ci fosse. L’arte e la creatività, parole che non mi riguardano perché come dice il mio nome io sono niente, devono inquietare, smuovere emozioni, porre domande. E poi, sì, è un modo per dire che ci sono, non mi arrendo e continuo a lottare. Percorro la mia strada, non sono mai andata via».
A tre anni di distanza da È un momento difficile, tesoro, Nada torna con La paura va via da sé se i pensieri brillano, in uscita venerdì. E il 21 ottobre partirà da Genova il suo tour nei club che si concluderà a Milano il 14 gennaio. «Il titolo dell’album — dice — è zen, una piccola riflessione. A volte serve aver paura, ci frena. Però non dobbiamo lasciarci sopraffare da lei, facendoci prendere dalle angosce, dalle ansie». Il disco è prodotto da John Parish (PJ Harvey, Eels, Tracy Chapman), alla terza avventura musicale con Nada. Ed è stato registrato e mixato in Inghilterra, fra Bath e Bristol. Contiene dieci canzoni che vivono di luci e ombre, sorrisi e turbamenti («Come tutti anche io ho i miei momenti di sconforto, ma è dal dolore che viene fuori la vita»), parlano dell’esistenza, come In mezzo al mare: «È una metafora, il mare del nostro vivere. Bisogna buttarcisi dentro e godere di quello che abbiamo».
Il nuovo singolo si intitola Chi non ha. «L’ingiustizia umana è egoismo, prepotenza, arroganza, cecità del potere. Causa sofferenza, dentro c’è tutto il male che vediamo intorno a noi. Non penso che siamo tutti uguali. Ognuno ha la sua vita, il suo percorso, i suoi valori, le sue qualità. Ma ci sarebbe bisogno di un minimo, oltre il quale non si scende. Non lo scopro io il divario sociale, esiste da tempo. Però è insopportabile. Ci sono persone che non hanno niente per poter affrontare la vita con dignità e migliorare la loro condizione culturalmente, socialmente, materialmente. E nessuno se ne frega».
Dall’adolescente che «non voleva cantare» — titolo del film tv basato sulla sua vita, girato da Costanza Quatriglio nel 2021 — che nonostante tutto conquistò il successo con Ma che freddo fa e Il cuore è uno zingaro, all’incontro con Piero Ciampi, cantautore con uno smisurato talento ma troppo spesso ignorato, che la spinse a scrivere. E ancora: la recitazione con Sandro Bolchi e Dario Fo, le vette delle classifiche pop (negli 80) e le sterzate verso la musica d’autore. Oggi, a 69 anni (li compirà il 17 novembre), Nada è una signora della musica italiana, padrona della sua arte. «Sono stata fra le prime a svincolarmi dalle case discografiche. Negli anni Novanta, quando c’erano le etichette indipendenti. Mi piaceva lavorare con qualcuno capace di sganciarsi da regole che a me stavano strette. Mancava il dialogo con le major, non ascoltavano. Ho smesso di frequentarle da allora. La libertà ha un prezzo e un valore. Ho fatto le mie scelte, a volte faticose. Mi dicono che sono incosciente... sarà, ma cambiare ora è dura. E non mi interessa, mi sento dalla parte giusta». Non si dà mai delle scadenze per incidere album o scrivere i suoi libri. «Sto lavorando a un nuovo romanzo da due anni, chissà quando sarà pronto».
Nada: «Mia mamma era depressa e io cantavo per farla felice». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 31 dicembre 2021.
La cantante ha scritto «Il mio cuore umano» da cui è tratto il film andato in onda su Rai1 nella primavera del 2021, «La bambina che non voleva cantare». Oggi racconta: «Ho avuto paura di ereditare la sua malattia».
Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2021, quella di Renato Franco alla cantautrice Nada, uscita nella primavera del 2021 in occasione della messa in onda del film Rai a lei dedicato, «La bambina che non voleva cantare».
La storia di Nada è quella di una bambina dalla voce straordinaria, diventata cantante per caso e per forza. Nel 1969 a soli 15 anni debutta a Sanremo con Ma che freddo fa (con i Rokes, subito un successo), due anni dopo vince in coppia con Nicola Di Bari (Il cuore è uno zingaro). Ora «La bambina che non voleva cantare» diventa un film, in onda in prima serata su Rai1.
Come fu gestire un successo così precoce?
«È stato complicato, ero troppo piccola e non avevo il fuoco sacro, l’inizio fu traumatico, lasciare il mio paese fu una tragedia, poi si è illuminato qualcosa. Aveva ragione la mia mamma che diceva a tutti che avevo talento».
Fu sua madre a spingerla a cantare.
«Il rapporto con mia mamma è stato bello perchè c’era un grande amore, ma complicato perché soffriva di depressione da quando sono nata. Ho sempre vissuto tra questi alti e bassi, sempre a rincorrere e capire l’amore di questa donna che mi sfuggiva continuamente perché aveva un problema molto serio».
Cantava per farla felice?
«Mia mamma nei momenti di lucidità si appassionò alla mia voce, l’interesse da parte sua nei miei confronti si accendeva solo quando cantavo. Cantavo per lei, non per me. Eppure non mollava, insisteva, ne aveva fatto una sua ragione di vita finché qualcuno mi ascoltò e da lì partì tutto».
E quando ha iniziato a cantare per se stessa e non per sua madre?
«Quando ho preso in mano la mia vita, a fare le mie scelte, a cantare perché lo volevo io... A quel punto mia mamma mi disse che non era più sicura, che aveva sbagliato a spingermi su quella strada. Non eravamo mai d’accordo con quella meravigliosa donna. Oggi però sono felice e grata a mia madre».
Ha avuto paura della depressione, che potesse soffrirne anche lei?
«Per anni ho avuto paura, anche perché eravamo una famiglia abbastanza provata, non c’era solo mia mamma a soffrirne... Io sembro leggera, ma ho molti alti e bassi da sempre. Sono stata fortunata e forte a superare tutte le difficoltà senza cadere in quell’abisso».
Il film è liberamente ispirato al suo libro «Il mio cuore umano» (edito da Blu Atlantide). Non è strano un film su una persona ancora in salute?
«Ero titubante anche io, perché insomma, sono ancora viva, ma la regista Costanza Quatriglio ha visto nella mia storia le dinamiche di una bambina che cresce e si trova a risolvere da sola problemi più grandi di lei perché intorno ci sono persone che non riescono a capirne le esigenze, distratti dalle incombenze degli adulti. È una bambina — mi fa effetto parlare di me in terza persona — che si barcamena e si trova coinvolta in qualcosa più grande di lei. Ecco la regista ha visto la dimensione umana, che è di tutti».
Perché ha sentito l’esigenza di raccontare la sua storia?
«Per le donne del paese (Gabbro, in provincia di Livorno) che curavano me bambina con la mamma malata. Ho sentito l’urgenza di scrivere questo libro proprio per loro, come ringraziamento, perché non avevo più avuto modo di incontrare queste persone in una maniera normale perché ormai mi vedevano come quella della televisione».
Le faceva male essere «quella delle televisione»?
«Mi faceva molto male, i rapporti si erano interrotti, l’amore era cambiato».
Eppure le sue radici sono ancora lì.
«Quel mondo semplice in cui sono cresciuta è stato importante perché mi ha tenuto sempre con i piedi per terra, mi ha fatto vedere la realtà del quotidiano più che l’illusione del mondo dello spettacolo. Con il tempo ho capito quanto per me è stata fondamentale quella dimensione, mi ha aiutato nei momenti di difficoltà, in cui mi sentivo persa, in balia di cose che non capivo, mi ha aiutato a prendere il coraggio di certe decisioni. Quando mi spaventavo perché non volevo fare una cosa che mi chiedevano di fare mi tornavano in mente queste donne semplici che nella vita avevano lavorato, faticato, combattuto. Il mio istinto di ribellione, il mio coraggio, sono nati lì, io sono così e così voglio essere. Scrivere è un viaggio nella memoria e scrivendo molte cose si chiariscono».
Nel libro le figure femminili sono centrali, il coraggio viene da lì?
«Mio padre era un uomo silenzioso, sempre presente e vicino, timido e importante per noi. Ma sono stata cresciuta da una famiglia di donne, le donne sono forse più incoscienti, prendono spesso le situazioni in mano, hanno più dimestichezza con il dolore».
In ogni suo album una canzone parla di sua madre... È riuscita a «perdonarla»?
«Quello con mia madre è stato un rapporto di dipendenza, soprattutto da parte mia; scrivere di lei mi è sempre venuto fuori spontaneamente, al di là che lo volessi fare o meno; sono cose che uno ha dentro ed escono prepotentemente, esistono, le hai. Nel mio ultimo disco O madre è quasi come una liberazione, credo che si concluda questo conflitto, come se alla fine avessi capito e avessi sposato tutte le cose buone o sbagliate che può fare una madre perché fa parte della vita, dei sentimenti grandi, degli amori veri. Quando uscirà il mio prossimo disco, non ci sarà nessuna canzone dedicata a lei».
Si riconosce in Tecla Insolia che la interpreta nel film?
«Guardando il film mi sono dimenticata di me, è una storia di emozioni, di sentimenti veri: non è importante la cantante, è la persona che conta. Ho capito che le cose che ho vissuto io le hanno vissute altre persone in contesti diversi. I sentimenti sono quelli, la forza dei libri è che narrano storie di altre persone in cui riconoscersi».
Come si convive con il talento?
«Faccio le cose che sento, che voglio fare. Ho scoperto che il mio nome significa suono in sanscrito. Ero predestinata, ho accettato questo mio destino e ho cercato di farlo diventare mio e non lasciarlo in mano agli altri».
Da liberoquotidiano.it il 24 novembre 2022.
Ci mancava Gabriel Garko. Nella sua esplosiva intervista a Belve, da Francesca Fagnani su Rai2, Nancy Brilli ha regalato perle e rivelazioni a tratti sconcertanti sulla sua vita e il rutilante mondo dello spettacolo italiano. Chiamando in causa colleghe e colleghi con dettagli, spezzo, compromettenti e imbarazzanti.
Dal punto di vista del gossip, un momento chiave è stato il passaggio dell'attrice romana dalla scuderia dell'agente dei vip Lele Mora alla potentissima (allora) Ares, l'agenzia creata da Alberto Tarallo che per molti anni ha di fatto dato le carte alla tv, producendo le fiction di maggior successo di Mediaset e creando da zero (e a volte distruggendo in poche settimane) le carriere di tanti divi. Tra questi, per esempio, Manuela Arcuri e Gabriel Garko, coppia su alcuni fortunati set e anche nella vita per qualche anno. Due anni fa però è venuta a galla la verità: Garko, dopo anni di voci sussurrate, ha ammesso di essere gay.
Su Tarallo invece è piovuta l'accusa di averlo manovrato e messo in scena finti fidanzamenti etero (dalla Arcuri alla giovane Adua Del Vesco - al secolo Rosalinda Cannavò) solo per fare pubblicità. La Arcuri ha sempre negato che la sua storia con Gabriel fosse falsa, ma la Brilli a Belve regala un passaggio "illuminante", per così dire: "Mi è stato proposto di fare un finto fidanzamento con Gabriel Garko, ma dissi di no. Non so neanche se Gabriel lo sapeva. Tarallo li chiamava ‘scoop’. Ma rifiutai. Me lo offrì anche con Garko, ma non so se lui lo sapesse. Gabriel veniva offerto come fidanzato a tutte? Sì".
Maria Giuseppina Buonanno per “Oggi” il 19 novembre 2022.
Nei giorni scorsi è tornata a casa, a Roma, dopo le riprese, sull’isola di Malta, del film “Un weekend particolare”. Intanto, Nancy Brilli, 58 anni, è al cinema con “Amici per la pelle” e si prepara a tornare in teatro, a febbraio, con “Manola”, testo tratto dal libro di Margaret Mazzantini.
L’attrice interpreta Anemone, donna sensuale e spumeggiante, e ha appena scattato delle foto un po’ osé. «Le ho fatte un po’ per gioco durante la tournée teatrale», dice Nancy. È decisamente sexy, ma non c’è un segreto particolare in questa sua essenza. «Credo conti molto imparare a volersi bene. Ho lavorato tanto con me stessa per superare la mancanza di autostima. Col tempo ho capito che, a partire da Francesco, mio figlio, ho fatto cose buone nella vita».
Dove porta la sua origine ucraina?
«Lontanissimo. Credo al bisnonno del bisnonno paterno. Mio padre era dirigente d’azienda, a Roma. Mia madre, segretaria in una casa discografica, era romana da otto generazioni. Comunque, alla pace tra Ucraina e Russia devo credere. La speranza deve illuminare».
A 10 anni ha perso sua madre, per un tumore: che cosa le è mancato di più di quella assenza?
«Ho perso lei e improvvisamente tutta la famiglia. La parte materna e quella paterna hanno cominciato a guerreggiare tra loro. Sono cresciuta pensando di non interessare a nessuno. Il periodo più difficile per me è stato quello dell’adolescenza. Non mi sentivo ascoltata. Volevo scappare, mi sentivo sbagliata. Mi dicevano che ero sbagliata. Sono andata via di casa a 18 anni. Molto dopo ho cercato di essere la madre che avrei voluto avere».
In Amici per la pelle è mamma di un ragazzo che affronta un trapianto di fegato. Il film si ispira a una storia vera e lei recita con Massimo Ghini, che interpreta suo marito e che nella vita lo è stato davvero: com’è questo intreccio di relazioni?
«Questo per me è un film di affetti. Nella vita, io e Massimo siamo amici dell’attore Rodolfo Laganà, padre di Filippo, protagonista del film nel ruolo di sé stesso. Io interpreto Gloria, madre di Filippo ed ex moglie del chirurgo Roy de Vita, che è stato mio compagno per 15 anni. In questo caso il cinema è vita vissuta, carne viva, sentimenti. Il set del film è stato emotivamente intenso. Filippo ci teneva a raccontare la sua storia, anche se ha riportato alla memoria sofferenza. E poi c’è Rodolfo, che combatte con la sclerosi multipla».
Come si è ammalato Filippo?
«Tre anni fa, durante un viaggio in America, Filippo, che oggi ha 28 anni, per una malattia congenita ha avuto un problema grave al fegato che ha richiesto il trapianto. Lo ha fatto in Italia. Gloria, figlia di un luminare della medicina, mi ha raccontato il loro dramma».
È per la donazione degli organi o non ci pensa?
«Ci ho già pensato. Sono favorevole».
Che rapporto ha lei con salute e malattia? È ipocondriaca, spensierata, razionale?
«Sono fatalista. Ma cerco di tenermi sotto controllo. Ho sempre combattuto con l'endometriosi che mi portava un ciclo mestruale continuo, anemia, e mi dava dolori forti, da cadere per terra. A 30 anni, per una cisti tumorale, mi hanno tolto un ovaio e una tuba. Ho fatto otto operazioni. Ma poi è nato Francesco. Sono stata fortunata».
Francesco è nato dal suo matrimonio con il regista Luca Manfredi, figlio di Nino.
«La gravidanza e la nascita di mio figlio hanno rappresentato il periodo più felice della mia vita. Non ci speravo, ero consapevole delle difficoltà. Per questioni ormonali, anche gli alti e bassi dell'umore scomparvero. Oggi Francesco, che ha 22 anni e mezzo e si è laureato a Londra in Fashion business con il massimo dei voti, sta facendo un tirocinio in un'azienda di moda italiana».
Lei e Massimo Ghini, coniugi nel film, siete stati moglie e marito dal 1987 al 1990: che effetto le ha fatto ritrovarlo in questo ruolo?
«lo e Massimo ci siamo sposati per allegria. Stavamo bene insieme, ridevamo molto e dopo sei mesi eravamo moglie e marito. Il matrimonio non è andato male, è andato corto».
Come mai?
«Diciamo che a me piace la fedeltà e lui era un tipo generoso nelle relazioni amorose. Il matrimonio è stato breve, ma felice. E siamo anche oggi buoni amici. Poi, quando ho sposato Luca, ho sentito un grande senso di famiglia. Ho creduto che il matrimonio potesse essere per sempre. Avevo "sposato" anche i suoceri. Invece, è finito tutto. Lui ha sempre altro da fare. Oggi fa la sua vita. Ha quattro figli».
Come erano i rapporti con i suoceri?
«Con Nino misurati: non era un uomo molto espansivo e affettuoso. A Erminia sono stata molto legata. Poi sono arrivati gli schieramenti contrapposti».
Ora è innamorata, fidanzata?
«Né innamorata, né fidanzata. L'ultima storia d'amore lunga è stata quella con Roy. Si dice che ci voglia la metà del tempo della durata di una relazione per superare la separazione. Non so se passeranno sette anni e mezzo. Ora sono a quattro. Ma non sono a caccia di nuovi amori. In questo periodo mi hanno corteggiata anche uomini sposati: mi fanno tristezza. La fedeltà è un valore importante. Il tradimento può capitare, ma non può essere uno stile di vita».
Le è capitato di tradire?
«Sono stata tradita spesso. E mi è capitato di chiudere una storia, anche da un giorno all’altro, perché mi piaceva un altro».
Con Roy de Vita che rapporti ha?
«Con Roy è rimasto un senso di famiglia tra mio figlio e suo figlio. Francesco va in vacanza con loro. Per il resto, gli auguro di essere felice. Se ci sono stati tradimenti? Con gli anni, si scelgono direzioni diverse. Lo abbiamo fatto entrambi».
La storia d'amore con il cantautore Ivano Fossati è stata tormentata...
«L'amore con Ivano è stato molto passionale, anche tumultuoso. Litigavamo spesso. Venivamo alle mani. Ma in maniera impulsiva, senza avere intenzione di farci del male. Eravamo innamorati pazzi. Ora non ci sentiamo più. Mi chiamò dopo la nascita di mio figlio. Aveva visto delle foto proprio su Oggi e mi telefonò per dirmi che era contento per me e per la mia maternità».
È stata compagna di classe di Vittoria Squitieri, figlia di Pasquale, che l'ha fatta debuttare nel 1984 nel film Claretta. Fare l'attrice era il suo sogno?
«Studiavo in un istituto d'arte, pensavo che mi sarei occupata di grafica pubblicitaria e fotografia. Poi il primo set non mi aveva particolarmente sedotta. Squitieri durante le riprese sapeva essere anche duro, violento. Aveva un rapporto complicato con la compagna, Claudia Cardinale. Mi sono innamorata della recitazione grazie al teatro, quando dopo cinque provini, fatti per sfida con un amico, sono stata scelta per il musical Se il tempo fosse un gambero. Recitare, cantare, ballare al Sistina è stata una rivelazione. Quando ho messo piede sulla passerella, ho pensato: io qui mi sento a casa».
Estratto dell'articolo di Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 31 ottobre 2022.
Al cinema da giovedì scorso con Amici per la pelle di Pierluigi Di Lallo, vincitore del Sorriso Diverso Roma Award, la 58enne romana Nancy Brilli si mette alla prova in un ruolo drammatico: quello di una madre che affronta, insieme al marito (Massimo Ghini), l'improvvisa malattia del figlio 25enne. [...]
Perché?
«Se hai fatto bene un ruolo, pare che devi ripeterlo per tutta la vita. Film di Natale ne ho fatto uno, Natale in crociera, ma sono tutti convinti che ne abbia girati 100. Il dramma non me lo offrono. Tempo fa è capitato, ma erano film con scene di sesso o di nudo. Che io non faccio».
Pentita?
«Nemmeno per sogno. Il nudo è una cosa che non so proprio gestire».
Nel dramma come si vede?
«Sono un'attrice, faccio quello che serve. Qui c'è una fotografia durissima, la mia faccia è inquadrata da vicino. Si vede che non ho le labbra strane. E che sono una signora».
Che intende?
«Che posso essere credibile anche come la mamma di un ragazzo di 25 anni. Invece continuano a mandarmi copioni da vecchia pin-up». [...]
I suoi problemi di salute li ha risolti?
«Ho avuto per tutta la vita una cisti endometriosica. Alla fine, dopo otto operazioni, ha vinto lei: ho risolto il problema asportando utero e ovaia».
Cosa l'ha aiutata in quei momenti?
«I libri più della famiglia. Ho studiato, mi sono documentata, sono stata in analisi. Oggi continuo a spendermi per chi ne soffre».
Selvaggia Lucarelli l'ha accusata, via social, di sostenere cause che non conosce.
«Ognuno è libero di parlare. Ma non mi faccio toccare se i post sono volgari o fuori contesto. Tanta gente commenta a vanvera». [...]
Le piacerebbe trasformarsi, alla Pierfrancesco Favino?
«Sono ingrassata per Caterina e le sue figlie (nel 2007, ndr) e in questo film, in alcune scene, sono un mostro. Ma va benissimo. Chissà perché si pensa che le attrici vogliano essere le belle figheire del film. Io non voglio fare la biondina col punto vita per sempre».
Le donne e il cinema: dopo il metoo va meglio?
«Mah, insomma. Prenda una come Paola Cortellesi, bravissima. Una che ha il suo gruppo di lavoro e che si è scritta i ruoli per sé: altrimenti col cavolo che le facevano fare la coatta o la borgatara. Un giorno De Laurentiis (il produttore, ndr) mi disse: Mettiti in testa che questo lavoro è maschilista, le donne non portano la gente al cinema. Io dissi: Scusa, ma se una come me riempie i teatri, forse al cinema manca solo il coraggio di scommettere, no?. Mi rispose: No. E finì lì».
Il cinema. E la tv?
«Non andavo a genio una persona, una donna, che mi chiuse la porta in faccia. Non dico chi. Ma sono 17 anni che non lavoro in Rai e sei che non lavoro a Mediaset».
E tornerebbe se?
«Se mi facessero condurre una seconda serata folle. Mi ci vedrei».
Però pochi giorni fa è stata a Drag Race, su Discovery. Nancy Brilli icona gay?
«Io adoro le drag, ma non so se sono un'icona. Ora si sentono tutte icone gay, autodefinirsi così va di moda. Ma sinceramente, o sei Patty Pravo, o meglio se fai un gran passo indietro».
Nancy Brilli: «Con Fossati ci siamo traditi, per gelosia e per ripicca. E quello schiaffo a Virzì mai chiarito». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.
L’attrice si racconta tra grandi amori, incontri sbagliati e prospettive future.
In alcuni artisti, vita e arte si intrecciano e si fondono. Sorprende di più quando accade a chi per professione deve mettere la gente di buonumore. Dopo la fine della storia col chirurgo plastico Roy De Vita, Nancy Brilli si prese del tempo per riflettere e riprendere possesso della vita.
Adesso a che punto è?
«Quel tempo è stato anche troppo lungo, poi è arrivato questo mostro, il Covid. Terribile. Ogni progetto iniziava e si bloccava. La tournée teatrale di A che servono gli uomini, con la regia di Lina Wertmüller, si è bloccata sul nascere. C’è stata una causa col produttore, tanti hanno preso la palla al balzo del lockdown, un tira e molla bestiale. Fino a quando ho ripensato a Manola di Margaret Mazzantini, che avevo portato in scena con lei 25 anni fa, la prima regia di suo marito, Sergio Castellitto. Tre anni di successi. Ora accanto a me c’è Chiara Noschese. Io sono Anemone, irriverente, gaudente, scopereccia; lei è Ortensia, profonda, rompiballe, vagamente iettatoria. Giriamo l’Italia, ne approfitto per fare la turista. E ho imparato a usare bene i social».
Lei era già su Instagram...
«Ma ho fatto un corso, volevo capire come vengo recepita. Al di là del brava e come ti mantieni bene, tutti mi parlano di umanità. La gente ha bisogno di essere ascoltata, c’è voglia di condividere anche cose banali. I corteggiatori? Sì ci sono ma quelli via, scialla, non rispondo. C’è un nutrito gruppo di feticisti dei miei piedi. Porto il 36. Mi mandano in continuazione scarpe strane, smaltate, uno mi ha regalato una cavigliera di diamanti. Gwyneth Paltrow ha prodotto una candela col profumo della sua patatina. Parliamo di un premio Oscar. Io, col piede, potrei aprire una piccola industria del piede».
Perché non le hanno più proposto film?
«Perché alcune dirigenze Rai hanno avuto i loro gusti, lì funziona così. La cosa particolare è che per tutto questo tempo mi è stato riconosciuto il ruolo di star, come cachet di ospite nelle prime serate. Non mi è stato negato il ruolo, però non mi arrivavano proposte. L’ex capo della Rai preposta a decidere era una donna: mi disse, le vere femmine non sono più le ragazze degli Anni 90. Cosa vuol dire? Io sono un’attrice che recita. Non c’è cosa peggiore delle donne di potere che imitano gli uomini peggiori».
Lei come reagì?
«All’inizio mi lasciò sconvolta».
Perché non s’è fatta avanti con i registi?
«Sorrentino fa come gli pare, ma tranne i fuoriclasse, sono le dirigenze a decidere i cast. Pensai che dovessi smettere questo mestiere, l’ho iniziato così presto, a 19 anni con Garinei al Sistina, è qualcosa che mi definisce come identità. Mi chiesi dove avessi sbagliato. Sono combattiva, ho recuperato energie ed eccomi in pista».
Brutti incontri sul sofà dei produttori?
«Ce n’è stato uno, con un produttore corpulento che non c’è più e non aveva rivali all’epoca. Una cosa becera, pesante, schifosa. Avevo un contratto di tre anni. Ho pagato caro il mio rifiuto, per molto tempo non ho lavorato. E non potevo farci niente. Non esisteva il Me Too».
Lei non ha mai fatto scene di nudo.
«Una foto può andare, ma nuda in movimento mi dà fastidio. Non sono mai stata disponibile alle scene di sesso».
Emma Thompson, 62 anni, in «Good luck to you» esibisce il suo primo nudo frontale. Non lo trova un gesto coraggioso, contro la tirannia dei corpi perfetti?
«Sì, e ha tutta la mia stima. È un guardarsi allo specchio senza giudicarsi. Io non riuscirei a mettere il filtro dell’attrice, sentirmi le mani addosso... È un mio limite. Infatti ho rifiutato tanti ruoli che prevedevano scene di nudità. La scena di Caos Calmo con Isabella Ferrari, così dura e forte, io non sarei mai stata in grado di farla».
Non è femme fatale e nemmeno nonna...
«Come ci siamo detti una volta? Al cinema sono troppo giovane per fare la vecchia e troppo vecchia per fare la giovane. Scavallati i 55 anni, sono pronta per interpretare la vecchia. Ma io non pongo mai il problema dell’età, sono gli altri a mettere l’accento».
Premesso che è ancora bellissima: la mascella riattaccata, il naso rotto due volte, un’anca piena di chiodi...
«Eh, ne mancano tante... Mancano le forbici per sistemarmi i capelli dimenticate e finite in una chiappa, una vertebra ruotata, una congiuntivite gigantesca che ha creato una bolla di siero in un occhio, un dito del piede rotto. E un brutto Covid. E sapesse quanto mi ha rotto le scatole la dirigenza Rai di cui sopra, siccome ero stata con un chirurgo plastico, era convinta che io fossi una specie di robot siliconato. Lei diceva di cercare donne vere. Discorsi di una bassezza...».
Lei ha avuto quattro grandi amori.
«Massimo Ghini, il mio primo marito, simpatico, genuino, farfallone, giocherellone; il secondo marito è stato Manfredi, piuttosto assente, comunque una persona perbene. E poi ha un sedere bellissimo. Evidentemente ci voleva l’ormone Manfredi per fare un figlio (Francesco, 22 anni appena compiuti), con una donna a cui avevano sempre detto che non poteva rimanere incinta. Con Roy De Vita per anni abbiamo costruito una famiglia, che di fatto sopravvive nei nostri figli: Francesco, Andrea che è figlio di Roy e Matteo, uno dei figli di Luca. Sono cresciuti insieme, si vedono sempre. Roy ama cose che io non amo, i salotti, frequentare... Quando i gusti di vita sono così diversi è difficile andare avanti. Prima di lui c’è stato un cantautore».
Ivano Fossati.
«Qualità di vita altissima di pensiero, un amore che si è cannibalizzato. Ci sono stati tradimenti. Mi ha tradita perché mi voleva sempre con lui, e io l’ho tradito per ripicca. Ci siamo infilati in un buco nero che ha portato tristezza e un gran male a tutti e due. I tradimenti non li sopporto nemmeno nell’amicizia. Quando hai la mia fiducia, è totale; è come l’onestà: o sei onesto o non lo sei».
Si può amare senza gelosia?
«No. Io ho subìto scenate di gelosia mostruose. Col senno di poi, chi le ha fatte predicava bene e razzolava male. Ho anche picchiato per amore, ma per difendermi, non per attaccare. Non sono una che sta lì a prenderle, se uno mi dà uno schiaffo cerco di ridarglielo».
Lei però diede uno schiaffo a un regista.
«A Paolo Virzì. Mi disse che non potevo fare l’operaia al cinema se andavo il sabato sera in tv da Pippo Baudo. Ero inferocita. Non c’è stata occasione di chiarire l’episodio. E mi spiace molto perché in Italia è diventato il regista più bravo a raccontare le donne».
Gli uomini sono un capitolo chiuso?
«Per un fidanzato al momento non ho pazienza, dovrebbe arrivare un supereroe; uomini ogni tanti li incontro; corteggiatori alcuni».
È stato facile gestire il clan Manfredi?
«Non c’è stato modo di gestirlo. Il racconto della grande famiglia unita è continuo: nella vita reale invece è piuttosto discontinuo. Conservo un affetto speciale per Erminia, la moglie di Nino, una donna grande e forte, spero che campi 150 anni. Ovviamente ci sono i parteggiamenti nel sangue. Avrei voluto che fossero più presenti con mio figlio. Non è qualcosa su cui si può contare. Ma quando si vedono si stanno simpatici».
Ma lei è davvero sicura di aver cercato di costruire quello che non ha mai avuto nell’infanzia, una famiglia?
«Sì, ma in modo sbagliato: da persona bisognosa. Da adulto ti puoi scegliere gli amici, le persone, e dunque la famiglia che vuoi. Io ho Giovanna, Simona, Fabio...».
Sua madre?
«La mia infanzia non la ricordo, di mamma niente, eppure avevo 10 anni quando la persi. Scomparsa dalla mia vita. Ho provato sotto ipnosi. Niente. Troppo dolore. Se guardo una sua foto, è come una sconosciuta. Sono cresciuta con nonna paterna e zie. L’adolescenza, il periodo più brutto della mia vita».
Va ancora in analisi?
«Non più. Ho cambiato tipologie. Ho risolto. Mi hanno aiutato le buone letture, L’uomo e i suoi simboli di Jung, Guarire la frammentazione del sé di Janina Fisher...».
Tornando al lavoro, perché non compie il percorso inverso a Monica Vitti?
«Cioè andare dal comico al drammatico? L’ho appena cominciato a fare. E mi diverte. Ho girato per Rai1 il film di Pierluigi Di Lallo. Si intitola Amici per la pelle, una storia vera, un ragazzo che ha avuto problemi fisici in America, rischia di lasciarci le penne, rientra in Italia, fa il trapianto di fegato. Io sono la mamma».
Gli incontri professionali della sua vita?
«A Pasquale Squitieri devo l’ingresso in questo mondo, anche se non ero convinta di fare l’attrice, mi sembravano tutti matti. Uomo colto, intelligente, aggressivo. Con uno strano rapporto con Claudia Cardinale, quasi sadomaso. Pietro Garinei al Sistina mi mise su un palco importante di cui non ero consapevole. Se aveva un atteggiamento paterno? Per niente, era distaccato, dava del lei a tutti; quando ho compiuto 40 anni mi ha detto: Signora Brilli, possiamo cominciare a chiamarci per nome. In Se il tempo fosse un gambero ho avuto un approccio gioioso e incosciente, il protagonista era Enrico Montesano, in scena era un drago. È diventato un leader dei No Vax? L’ho visto cambiare pelle tante volte, quand’è così significa che sei alla ricerca di qualcosa, che devi fare i conti con le tue insicurezze. Poi Carlo Verdone in Compagni di scuola: nessuno dirige gli attori come lui. Gigi Proietti, un genio: ricordo un viaggio in Sudafrica, aveva paura dell’aereo, mi disse: o mi ubriaco o ti parlo tutto il tempo... In quelle ore mi fece scoprire la fisica quantistica. Carlo Vanzina, adorato, misconosciuto, bistrattato, un tecnico eccezionale di questo lavoro su una certa volgarità dell’Italia, ma non l’ha inventata lui: l’ha raccontata».
Lei la mattina sorride, poi l’umore cambia.
«Lavoro su me stessa. Non è facile ma ci provo ad avere una stabilità, ad avere un atteggiamento positivo verso le cose».
Da fanpage.it l'11 giugno 2022.
Naomi De Crescenzo è la seconda italiana più famosa di OnlyFans. Ospite di "Zona Bianca", la sexy influencer ha raccontato il suo lavoro a Giuseppe Brindisi, conduttore del talk show che non le ha risparmiato le domande più importanti: guadagni, richieste particolari, paura dei rischi che si corrono in questo tipo di mestiere. Naomi, che su Instagram conta 620mila fan, ha i piedi ben piantati a terra: "Guadagno più di un politico e questo tipo di lavoro non mi preoccupa, ha dignità come tutti gli altri lavori". Paga regolarmente le tasse: "Più del 40% dei miei guadagni".
Le parole di Naomi De Crescenzo
Naomi De Crescenzo ha raccontato il suo lavoro alla presenza anche di una signora navigata dello spettacolo, come Iva Zanicchi, che non si è sorpresa quando ha sentito parlare di guadagni molto alti: «Guadagno molto, guadagno più di un politico. È un lavoro come gli altri, ha una dignità uguale. Le tasse? Il primo anno è stato forfettario, dal secondo in più quasi il 40% è tutto in tasse».
Le richieste particolari dei suoi fan
I fan che sono abbonati al servizio privato di Naomi De Crescenzo fanno richieste particolari, ma anche assolutamente lecite, come il voler semplicemente parlare. Altri, invece, pagano per essere telefonati e chiamati per nome.
Cosa fanno con me? Alcuni vogliono semplicemente parlare. Ma OnlyFans è un sito di intrattenimento. Potrei anche fare la chef, non è il mio caso. Io metto contenuti erotici. Quello che probabilmente mi differenzia rispetto ai pornoattori e alle pornoattrici, è il fatto che io sia reale, sia una di loro.
Naomi De Crescenzo non è una escort
Naomi si è detta consapevole del fatto che quello che lei fa, presuppone anche un rischio, ma sa di essere tutelata anche dalla piattaforma. Non è una escort: "La mia regola principale è non incontrare nessuno".
Sono molto consapevole di quello che faccio, è la mia parola chiave. Chi inizia a fare questo lavoro, deve essere consapevole di tutti i rischi. Il web è un mondo pericoloso. Richieste strane? Sì, assolutamente. Incontri personali, cose assurde, ma io non incontro. Non comunico e il sito mi tutela perché ognuno degli utenti è lì con documenti registrati.
Sempre più modelle professioniste stanno aprendo un profilo su Only Fans. Una delle ultime è stata Dayane Mello, ma c'è anche il profilo di Denis Dosio e della stessa Malena, la pornostar più famosa d'Italia.
Anticipazione da Oggi il 5 ottobre 2022.
«I reality? Me li hanno proposti tutti, non vedo perché dovrei andare in tv a mostrare le mie miserie». Nell’intervista rilasciata al settimanale OGGI in edicola giovedì, Natalia Estrada rivela di aver ricevuto (e rifiutato) molte offerte televisive. E di non avere nessun rimpianto. «So presentare discretamente, ballare, se volessi tornare in tv avrei altro da offrire. Ma il mio stile di vita non ha prezzo: abito in campagna, curo i miei cavalli e vivo col cappello da cowboy in testa, se lo tolgo mi sento a disagio».
Estrada, che vive in un ranch sulle colline forlivesi con il marito Andrea Mischianti, ha da poco compiuto 50 anni. «Li ho festeggiati in Colorado, con una torta a tema equino e una grande grigliata». Quando ha incontrato Andrea, all’inizio le stava antipatico, rivela Estrada, che su OGGI racconta anche della sua relazione con Paolo Berlusconi. La figlia Tali, avuta dall’ex marito Giorgio Mastrota, le ha dato due nipotini. «Nonna è solo un nome, come 50 è solo un numero. I bambini hanno già un pony, vengono con me a cavalcare. Sono la “nonna dei cavalli”».
Natalia Estrada compie 50 anni, dalla nuova vita in un ranch alla storia con Paolo Berlusconi. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.
La conduttrice e attrice, diventata famosa con il film “Il Ciclone” del 1997, oggi vive tra i cavalli con il marito Andrea Mischianti. Non ha i social e si sveglia ogni mattina alle cinque e mezzo
“Il ciclone”
Natalia Estrada compie 50 anni il 3 settembre. Nata in Spagna, a Gijón, la Estrada attualmente gestisce, insieme con il marito Andrea Mischianti, un maneggio in provincia di Asti. Ha dunque lasciato definitivamente il mondo dello spettacolo dopo esserne stata protagonista negli anni Novanta. Il grande successo lei arriva nel 1996, quando fa il suo debutto cinematografico nella commedia cult “Il ciclone”, al fianco di Leonardo Pieraccioni e Massimo Ceccherini.
La musica
Nel 1997 canta nella 34esima edizione del Festivalbar, con la canzone “Banana y Frambuesa”, versione spagnola della celebre “Banane e lampone” di Gianni Morandi e nel 1999 esce il suo primo album musicale, “Natalia”.
Le nozze con Mastrota
Nella vita privata Natalia Estrada è stata sposata con il conduttore televisivo Giorgio Mastrota, da cui si è separata nel 1998, dopo cinque anni di matrimonio. Un po’ inaspettatamente. Mastrota sta per risposarsi e Natalia non è stata invitata alle nozze.
Paolo Berlusconi
Archiviato il suo matrimonio nel 2000, Natalia ritrovò la serenità accanto a Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier Silvio, con cui è rimasta fino al 2006. La loro è stata una storia molto chiacchierata, negli anni della massima popolarità della conduttrice.
Il ranch
La passione per i cavalli è nata quasi per caso: Claudio Lippi la invitò in campagna dove per la prima volta salì in sella e «fu come un colpo di fulmine che ti succede o non ti succede» ha detto Natalia a Mara Venier. «Sveglia alle cinque e mezzo, monto due o tre cavalli, cucino, pranzo, e poi lavoriamo con gli allevamenti» ha dichiarato la Estrada raccontando la sua nuova vita.
Natalia Estrada: «I miei primi 50 anni: oggi vivo tra ranch e cavalli. Tornare in tv? No, basta distrazioni». CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.
Classe 1972, icona anni Novanta, quando imperversava al cinema e in tv (anche assieme a Giorgio Mastrota), Natalia Estrada oggi compie cinquant’anni e fa un bilancio: «Sono nonna di due nipoti, vivo senza schemi. Nella buona cucina, tra cavalli e musica country, ho trovato la mia dimensione. Il ritorno in tv? È finito il tempo delle distrazioni»
«I numeri non sono mai stati di grande interesse per me. Vero è che un cinque davanti può fare una certa impressione ma, se penso a quello che potevo fare e volevo fare trent’anni fa e quello che sto vivendo ora, ogni mia esperienza è stata e continua a essere frutto di scelte oculate, non certo di condizionamenti “anagrafici”».
Classe 1972, Natalia Estrada, attrice, ballerina e conduttrice televisiva spagnola naturalizzata italiana, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno,oggi 3 settembre, fa un bilancio dalla sua ranch academy in America.
«Che mi trovi a metà della vita oppure sia a godermi il mio ultimo giorno, senza fatalismi, credo che i conti vadano fatti pensando ai progetti, ai sogni da tramutare in realtà e all’impegno nel trasmettere ai più piccoli della famiglia — sono nonna di due nipoti, Marlo e Sasha, oltre che mamma di Natalia — una visione del mondo da cui ho tratto insegnamenti. Che metto al loro servizio affinché possano maturare una propria idea critica, affatto manipolata. In due parole non convenzionale».
Estrada mostra molta consapevolezza e nessun rimpianto dei tempi d’oro — la nostalgia, casomai, è nostra — , di quegli psichedelici anni Novanta che l’hanno vista protagonista della televisione e del cinema italiani.
Rispetto a Penelope de «Il Ciclone», film di Leonardo Pieraccioni campione di incassi nel 1996, le priorità sono cambiate.
«Dico spesso che ho vissuto vite diverse, tante pagine di un libro divise in capitoli: dalla danza classica alla tv, dai cavalli e dalla vita in campagna all’allevamento di bestiame brado, fino alla cucina sana, mai la stessa. Un libro, dicevo, che ha ancora ha tante pagine bianche da scrivere. Emozionante: mi fa sentire pronta, ogni giorno, a una nuova avventura».
Natalia, oggi la sua avventura qual è?
«Una, nessuna, centomila. Da anni mi occupo di cavalli, una passione sanguigna. Tanto quanto il desiderio di capire profondamente il loro comportamento e il modo che hanno, misterioso, di comunicare tra loro. Tutto questo mi ha portato ad approfondire in maniera compulsiva. Ho viaggiato in lungo e in largo e conosciuto il mondo da un’altra prospettiva. Grazie ai cavalli ho anche incontrato l’amore della vita, Drew (Mischianti, ndr): per loro ho deciso di voltare pagina e dedicarmi soltanto all’arte dell’equitare. Perché sì, l’equitare è un’arte che, oltretutto, ha molte analogie con la danza classica, il mio universo sin da bambina. Nel tempo ho trovato la giusta dimensione. Ho continuato a cercare, insieme a loro, l’armonia e la semplicità, la purezza e l’eleganza, l’equilibrio e la bellezza. I cavalli aiutano a prendere atto dei nostri punti deboli e della forza interiore. Lontano da speculazioni esistenziali, ci tengono ancorati alla natura, alla Terra con la T maiuscola, a quello che veramente conta: l’amore».
Guardando al passato, quali sono i suoi ricordi più belli?
«Tanti, tantissimi. Questo perché ogni mia esperienza ha avuto grande importanza e lasciato in me segni indelebili. Penso alla nascita di mia figlia Natalia nel 1995, quando mi trovavo nel turbinio “ciclonico” di tv e cinema. Penso anche ai viaggi in America, la prima volta in sella, un cowboy nella mia quotidianità, la bellezza di diventare “nonna Natalia che balla con i cavalli”… Una vita densa di avventure, lontana da routine e schemi fissi, che a un certo punto ho evitato con cura, senza eccessi o follie: non ne ho mai avuto bisogno».
Insomma, è felice. Rimpianti?
«Nessuno. Finché si vive con energia tutto è possibile, quindi anche un’opportunità persa o un desiderio sfumato si possono recuperare in corsa. Anzi, al galoppo e quando meno te l’aspetti».
Le suggerisco tre parole: animali, cibo e musica. Che cos’hanno in comune?
«Facile: l’essenzialità. I cavalli che alleviamo ed educhiamo con cura e dedizione aiutano me e mio marito Drew nella gestione delle mandrie di bovini che alleviamo allo stato brado in modo naturale, come si faceva una volta. La musica — classica, country e flamenco — è la colonna sonora di tutte le mie giornate. Il cibo l’elemento primario per mantenere mente e corpo sani e vigorosi. Ecco, se fossimo in cucina potrei dire che sono i tre ingredienti irrinunciabili per essere felici ogni giorno».
Restiamo in cucina. Come si alimenta l’equilibrio tra mente e corpo?
« Con costanza e curiosità. Io, sin da piccola, ho allenato naso e palato assaggiando di tutto, persino i fiori che trovavo in campagna. E poi frutti selvatici con in mezzo qualche insetto. Conosco molto bene il mal di pancia (ride, ndr). Però devo dire che mi è servito. Con mia figlia Natalia ho viaggiato in posti a rischio insieme a diverse Onlus, motivata dal desiderio di portare aiuti umanitari là dove c’era bisogno. Posti che sembravano dimenticati da tutto, senza acqua potabile e con scarse condizione igieniche. Ecco, la resistenza sviluppata da bambina ha fatto sì che, mentre altri si ammalavano ed erano costretti a profilassi, cure, vaccini e trattamenti, mia figlia e io ce la siamo sempre cavata. La routine alimentare, a mio parere, è sinonimo di chiusura. Parlo di culture e tradizioni che, oltre a essere fonti di ispirazione, aiutano a restare creativi e curiosi in maniera trasversale, non solo in cucina. Cucina che, peraltro, io amo e lo dimostro ogni volta che siedo a tavola. Mangio di tutti, mi piace, e tendo a variare spesso i menu. In tavola, a rotazione, metto carne, uova, latte, formaggio, verdure, pochi carboidrati e pochi zuccheri. Sto molto attenta alla provenienza delle materie prime: alcune le produciamo noi. Altre le acquistiamo direttamente da allevatori e agricoltori locali. Una scelta tutto sommato facile per una come me che vive in campagna. Ho amici più “urbani” che pur desiderandolo, non sempre riescono a comprare a km zero. A loro consiglio a chi rivolgersi, anche in città».
Un esempio di un menu giornaliero?
«Premetto che non ho una tabella di marcia fissa. Il mio essere non convenzionale mi porta a non avere schemi anche in cucina. Questione di coerenza. In linea di massima, se restiamo al ranch per un periodo lungo, prediligiamo la cena che resta il pasto più corposo della giornata. Meno impegnativo il pranzo a cui facciamo seguire una siesta rigenerante: bastano 20 o 30 minuti.
Cominciando dal mattino, la sveglia è alle 6 con una tazza di caffè, latte e dello yogurt fresco. Alle 9.30 è bread time, rigorosamente fatto in casa, con un velo di burro del pastore e della marmellata di frutti raccolti nel bosco. In alternativa qualcosa di salato: un piccolo assaggio di uova del pollaio e, magari, del bacon dai nostri maiali che pascolano liberi. A pranzo, ore 13 circa, ottima è la tartare oppure un hamburgerdella nostra prelibata Angus, con insalata dell’orto o patate di montagna. Quanto basta per arrivare all’aperitivo rurale delle 17: un bicchiere di vino biodinamico oppure un piccolo boccale di birra artigianale e “tapas” che preparo, in anticipo, al mattino. Infine la cena, intorno alle 20.30: un rito perché, in campagna, è il solo momento in cui ci si ferma a raccontarsi. In tavola c’è di tutto: le costate alla griglia, gli arrosti cucinati in pentola di ghisa, la selvaggina con contorno di spinaci; poi funghi di bosco, melanzane, carciofi e tutto ciò che di buono la stagione ha da offrire. E ancora, il mio “chili campero ”, una “tortilla” di patate, una zuppa di legumi asturiana, a volte un risotto, più raramente una pasta. Di tanto in tanto anche del salmone selvaggio che affumico su una tavoletta di cedro. E della pizza fatta in casa, lievitata lentamente e con cura, quindi cotta in un forno a legna speciale. Niente dolce: mio marito e io non li amiamo. Preferiamo concederci qualche buon formaggio di fattoria con il miele dell’apicoltore di fiducia».
Con una cena così, il vino è d’obbligo.
«Io arrivo dalla Spagna Celtica, Asturias, Gijòn per l’esattezza: la mia bibita ufficiale sarebbe la “sidra”, ma è difficile da reperire e richiede una grande tecnica nel versarla. Quando capita me la concedo. Diversamente mi do al vino: bevuto con moderazione giova a mente e corpo. Per i bianchimi affido a una lavorazione bio-dinamica con metodi tradizionali: non hanno solfiti aggiunti, quindi nessuna controindicazione. Castello di Tassarolo nella zona del Gavi produce i miei preferiti. Se, invece, penso all’aperitivo vado su un classico di Andalucia, il vino fino fatto con uve “palomino” che hanno dato il nome a uno dei mantelli equini più belli, il palomino, appunto. In quanto ai rossi, oltre agli spagnoli veraci de La Rioja, amo quelli del Sud Italia: da “masticare” come il Satyricon di Luigi Tecce della Cantina del Taburno. Inebriante».
Natalia, la cucina per lei è italiana o spagnola?
«Eh, amo gli assaggi e la varietà: per cui vince la cucina spagnola con il menu a base di tapas».
Ai fornelli chi sta, lei o suo marito?
«Dentro casa io, assolutamente io. Non che Drew non lo sappia fare. Diciamo che temo lo spettacolo apocalittico post cena: pentole e piatti ovunque. Lui si occupa del bbq all’aperto: griglie, affumicatori e via discorrendo sono il suo pane e il suo burro. È nato per vivere in libertà, lo amo anche per questo».
Il suo piatto preferito?
«La nostra carne in “tutte le salse” perché la seguo dall’inizio e so cosa comporta a livello di sforzo quotidiano, di cuore, di preoccupazioni, di etica e impegno. Quando si demonizza la proteina animale mi rendo conto di quanta disinformazione vi sia. Ma questo è un tema che meriterebbe una puntata a sé».
Il piatto del cuore?
«Huevos fritos con patatas y chorizo. Per voi in Italia, uova all’occhio di bue con patate fritte e salsiccia alla paprika».
Il piatto del ricordo?
« Il serpente a sonagli. L’ho mangiato in una piccola bettola in Arizona. Doveva essere una prova di coraggio gastronomico: superata senza problemi. Il gusto lo ricordo ancora oggi…».
Il piatto che proprio non le piace?
«Nessuno. Diciamo però che ho una certa antipatia per gli alimenti chiamati in modo improprio: latte di soia o hamburger vegano. Prodotti di origine vegetale che nulla hanno a che fare con latte o carne, ma che mantengono comunque un’immagine collegata a essi. Trovo che non sia corretto, si genera confusione».
Natalia, tornerà mai in tv?
«Vedo un futuro con le città in lontananza, senza muri intorno, senza sale prova, senza cene di lavoro, senza luci artificiali, senza routine, senza scadenze forzate. Dalla tv continuo a ricevere l’affetto e la nostalgia che programmi e film hanno lasciato nel cuore della gente, ma credo proprio che quella tappa durata ben 20 anni della mia vita — il primo programma tv in Spagna a 17 anni — si sia chiusa elegantemente e del tutto, anche se in questi ultimi mesi ci sono state offerte molto allettanti».
Qualche tentazione?
«Le rispondo citando Hemingway: “Sei nato per essere felice, non distrarti”. Accettare compromessi e galleggiare nell’attesa di scrivere una storia diversa da quella che stiamo vivendo — accontentandosi del solito e dell’ovvio —, costruirsi barricate di limiti attorno, credere che i sogni debbano restare nel cassetto ad ammuffire non ha molto senso. Per essere davvero appagati possiamo ancora cambiare il nostro mondo, basta volerlo. E io l’ho sempre voluto, con tutte le mie forze. Sono nata per essere felice… non mi distraggo. Non più».
L’attrice pronta a nuove sfide. La rivelazione di Natalie Portman: “Sono stata influenzata da Elena Ferrante”. Chiara Nicoletti su Il Riformista l'8 Luglio 2022
Nel mondo dei film tratti dai fumetti, i cosiddetti cinecomic, dove ormai le supereroine cominciano a farla da padrone, Natalie Portman non ci sta a tornare semplicemente a vestire i panni dell’astrofisica Jane Foster, ex amore del dio del tuono di Chris Hemsworth ed in Thor: love and thunder, dal 6 luglio al cinema, passa dall’essere “solo” una donna straordinaria ad avere poteri straordinari. L’attrice e regista israeliana, a Roma per presentare l’uscita di questo quarto capitolo dedicato a Thor e nuovo tassello dell’universo Marvel, conferma che la sua Jane acquisterà fisicità da supereroina e martello di Thor, combattendo al fianco di quest’ultimo un villain d’eccezione come Christian Bale nei panni di Gorr, il Macellatore di Dèi.
È dal 2011 che Natalie Portman veste i panni di Jane Foster e il suo personaggio, nei fumetti come al cinema, è in continua evoluzione. Chi mastica un po’ di mitologia nordica unita alla passione per i fumetti, saprà che in Love and Thunder, diretto nuovamente dal neozelandese Taika Waititi Jane diventerà Mighty Thor, l’unico essere umano degno di sollevare, brandire e usare il Mjolnir, il famosissimo martello del Dio del Tuono. Nell’incontro con la stampa, Natalie Portman parte dalla forza della sua Jane per aprirci le porte di questa nuova avventura supereroistica che la vede finalmente più protagonista.
Che può dirci di questo mix tra vulnerabilità e forza che caratterizza Jane Foster?
Devo dire che è quello che amo più di ogni altra cosa del personaggio. Personalmente trovo difficile rapportarmi con figure così dure e sempre così toste in ogni momento. Ammiro chi ha queste qualità ma non è una cosa che mi appartiene. Lei invece è più vera e anche più femminista se vogliamo, perché è una donna che ha paure, dubbi, sfide a cui far fronte e debolezze ma al tempo stesso è potente, dura, tosta e questo mi piace.
Che importanza ha che Jane prenda il martello di Thor e diventi una supereroina in questo particolare momento storico in cui il cinema finalmente riconosce il rilievo dei personaggi femminili?
È molto importante vedere come adesso le supereroine sono di più, anche se non basta ancora. Si sarebbe portati a dire che avere queste figure di donne come eroi abbia dell’incredibile ma invece non dovrebbe sorprenderci, perché questa dovrebbe essere la normalità. Certo, in questo film ho il piacere di avere, anche al mio fianco, il personaggio interpretato da Tessa Thompson e siamo una squadra al femminile. Questo è un messaggio importante anche per i giovani, i bambini, che devono potersi riconoscere in eroi e supereroi di qualunque genere. Vogliamo che si possano rapportare a questi personaggi per la loro personalità. Quando ero bambina c’era un solo riferimento per me nel panorama dei supereroi, invece ora ce ne sono tante.
Il personaggio di Jane Foster è stato introdotto 10 anni fa nel Marvel Cinematic Universe e ha subito un’evoluzione notevole. Come descriverebbe questo viaggio?
Devo dire che per me è stato un viaggio entusiasmante. Dieci anni fa, poter interpretare la parte di un astrofisica in un film di quelle dimensioni è stato straordinario, anche se il film non verteva su questo. Però, il fatto che ci sia stato questo personaggio, ha rappresentato una svolta, perché sappiamo che ancora adesso sono troppo poche le ragazze che scelgono di studiare scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, le cosiddette discipline stem. Tra l’altro, la Marvel ha avviato un programma negli Usa per sostenere le giovani che decidono di intraprendere questo percorso. È stato un dono fare un personaggio che fosse al tempo stesso astrofisica e supereroe. Aggiungo anche, a titolo personale, che quando stavamo girando questo film ho festeggiato i miei 40 anni e trovo rivoluzionario il fatto che Taika e la Marvel abbiano avuto la fantasia di voler dare questo ruolo e potere ad una mamma di due bambini, ebrea, quarantenne, alta 1.60 cm che si trasforma in una supereroina bionda. Devo dire di essere stata particolarmente contenta.
Come si è approcciata a questa nuova versione di Jane e all’evoluzione a Mighty Thor?
Ho studiato molto, ho riflettuto molto su questo personaggio e le sfide che potevano essere affrontate e ho capito che tutto questo me lo dovevo lasciare alle spalle perché si è trattato di improvvisare parecchio. Questo è quello che voleva Taika. Io ero agitata all’inizio ma poi ho capito che bisogna lasciarsi andare, bisogna essere aperti di mentalità, questa la lezione. È stato un po’ un ritrovare il senso proprio del nostro lavoro come attore, il gioco che dà sfogo a una fantasia infantile. In fondo, girare le scene di battaglia, con armi finte contro un nemico invisibile, ha richiesto che ci ricordassimo come giocavamo a 5 anni.
Ha intenzione di continuare anche con la carriera di regista?
Spero di riuscire a tornare alla regia. Ho voglia di nuove sfide, questo è indubbio. Voglio continuare a poter esplorare diverse modalità di espressione come nel caso della regia. Sto già ovviamente lavorando su un progetto che è Lady in the lake, una serie Apple TV, e questo è un modo diverso di utilizzare la mia voce perché per 30 anni, tutto sommato, ho fatto sempre la stessa cosa, sono stata l’acqua in un contenitore. Io ora vorrei essere colei che crea il contenitore.
Cosa le interesserebbe raccontare?
A me interessa l’esperienza, il punto di vista delle donne. In tal senso sono stata influenzata da scrittrici italiane come Natalia Ginzburg e Elena Ferrante e mi interessa la prospettiva che hanno. Scrittrici come queste per me hanno rappresentato un momento di rivelazione.
Quali sono i temi più importanti esplorati nel film?
Taika Waititi in questo film ci tiene molto a esplorare l’amore in tutte le sue forme e questo, diciamo, è ciò che credo sia la cosa più bella per tutti noi. L’amore , ripeto, in tutte le sue forme, quello romantico, tra amici, tra genitori e figli, per il lavoro, per se stessi, sono il modo per dare senso alla propria esistenza.
Chiara Nicoletti
Natasha Stefanenko, "Tu sei russa...": la frase che la imbarazza, poi reagisce così. Libero Quotidiano il 16 maggio 2022.
Natasha Stefanenko da tantissimi anni vive in Italia, ma ha origini russe, è nata in Russia. E così ieri durante una lunga chiacchierata con Francesca Fialdini nel salotto di Da noi a Ruota libera, si è lasciata andare a un commento su quanto sta succedendo in Ucraina. Dopo aver parlato della carriera e della sua famiglia, la Stefanenko ha dovuto rispondere in modo preciso a una domanda della Fialdini. La conduttrice rivolgendosi a lei ha pronunciato questa fase: "Tu sei russa e...". Subito l'ha interrotta la Stefanenko che ha precisato immediatamente: "Beh io sono anche italiana...". La Fialdini però ha proseguito: "Tu sei una donna russa, cosa significa in questo momento?".
La Stefanenko ha risposto così: 2Guarda per me è difficile parlarne, la guerra non va mai fatta, non si possono risolvere i problemi con la violenza". E ancora: "Io sono metà russa e metà ucraina, infatti il mio cognome finisce per ko che è tipico dei cognomi ucraini. Io ribadisco che la violenza non deve mai essere usata, ma voglio dire un'altra cosa".
A questo punto la Stefanenko lancia un messaggio chiaro: "La Russia non è solo questo, la Russia è anche arte, storia, scienza e tanto altro". Insomma la showgirl e attrice ha voluto rivendicare le sue origini provando a staccare l'immagine della Russia da quella di Putin. Purtroppo negli ultimi mesi le due cose camminano di pari passo...
Barbara Costa per Dagospia il 12 novembre 2022.
Il pene non c’è più. Al suo posto, una vagina. Nuova. Perfetta. E porno perfettamente funzionante!!! Natassia Dreams è pornostar nata maschio, vissuta 25 anni come trans, e da qualche mese femmina a tutti gli effetti. E scrivo femmina e non donna perché Natassia è ora una persona con un sesso femminile che se si sente donna buon per lei, ma donna è costruzione maschile, in sé e per sé concetto ancora dal principio costruire. E Natassia è una persona nata in un corpo altro, e oggi con seno e cure ormonali e assegnazione del sesso a cui sanamente sente di appartenere.
È una newyorchese, di 44 anni, bisex, con un sex appeal potente, e padrona di un fisico importante, che dispone tra porno e moda. Natassia non è la prima pornostar ex trans a essersi sottoposta a riaffermazione di genere: è però la prima a seguitare nel porno come prima.
Dopo il lungo e laborioso percorso di preparazione mentale e fisica all’operazione, l’articolata operazione in sé, e il seguente iter di recupero durato quello fisico sui tre mesi, quello psichico tuttora in corso con sedute dal terapeuta… dopo siffatta ascesa Natassia si è presentata sul set con la nuova "socia" di lavoro e l’ha fatta debuttare in "Single Black Female", porno con Kira Noir e dove la neo vagina è messa alla porno prova con sex toys, linguate, sforbiciate, lubrificata a volontà, e dita e ogni atto che le due si sono scoperte in agio a eseguire.
La stessa Natassia specifica che il rientro sui set non combacia con il battesimo del suo vergine sesso: lei dice di averla personalmente testata prima masturbandosi e poi con un uomo che l’ha penetrata ma solo con dita e le ha fatto sesso orale. La sua vagina risponde entusiasta.
Natassia è la prima ex trans che torna sui set dopo l’operazione e ne riscuote orgasmi e approvazione. Mi duole dirlo ma va forte denunciato: il porno è trans vecchio!!! O meglio, era trans vecchio prima che Natassia Dreams lo catapultasse nel presente: prima, alle pornostar trans era sconsigliatissimo togliere il pene, ovvero ciò per cui erano chiamate a lavorare.
Non importava che queste persone vivamente sentissero il bisogno di operarsi: la rimozione del loro sesso maschile segnava la fine del loro lavoro nel porno. Al pari della prostituzione trans, per cui la rimozione del pene significa la perdita considerevole dei clienti, così nel porno se sei trans sei – eri! – imprigionata al tuo pene. In massa le pornostar operate sono state dal porno rifiutate. Un rifiuto imperniato sul fatto che il porno è un business, e che la perdita del tuo pene equivale alla perdita di chi il tuo porno col tuo pene compra.
Natassia Dreams ha sconvolto questo assioma decimando guaste certezze. Sta scrollando il porno da fondamenta marce a cui s’era illuso e aggrappato. Natassia guida una rivoluzione che segue la scelta di attori etero di pornare con attrici trans sebbene solo da attivi. Il passivo lo fanno gli attori pansex, come Dante Colle, lui pure condottiero di un ribaltone senza precedenti: Dante gira con donne e uomini e gay e trans e chiunque tu sessualmente sia.
Non si fomenta il caos sessuale bensì si schiodano steccati semi arrugginiti! Natassia Dreams è nel porno da quasi 20 anni, cioè da quando il porno era tutt’altro: lei ha iniziato proprio quando il genere trans mutava da nicchia a produzione industriale, e però rimanendo al suo interno… un ghetto! Nell’ambiente porno chi si esibiva con performer trans finiva "macchiato": per troppo tempo i e le trans sono stati erroneamente percepiti a maggiore rischio contagio di malattie.
Sono stati gli attori porno a cambiar le cose, come Jessica Drake, tra le prime a crearsi il suo studios dove girare con chi le pare, trans comprese. Però tale porno di Drake e accoliti è oggi dequalificato a stereotipo: troppa enfasi sul pene trans e sulla sua turgidità ed erezione, e fin troppa enfasi sulla sottomissione del corpo trans.
La rivoluzione di Natassia Dreams marcia sul crollo dei cliché, cerca un nuovo pubblico, e lo trova: il riscontro del suo porno con Kira Noir e dei seguenti lo attestano. Le/i trans – ex e no – nel porno muovono affinché la categoria "trans" sia abolita, per performer che sono persone, con identità sessuale propria e tale nel loro privato ma che non deve motivare il porno che fanno. Quando Pornhub, nel 2017, ha posto i video trans come genere a sé e non più tra i feticismi, fu criticato per il ritardo. E ora, che fa? Quando trillerà la "trans non più" sveglia?
Nathaly Caldonazzo compie 53 anni: l’esordio al cinema, l’amore con Massimo Troisi, 9 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.
Tutto quello che c’è da sapere sulla showgirl - nata a Roma il 24 maggio 1969 - tra carriera e amori
Il provino per «Fratelli d'Italia»
Compie oggi 53 anni la showgirl Nathaly Caldonazzo: nata il 24 maggio 1969 a Roma è figlia della ballerina e coreografa olandese Leontine Snell (ex componente delle Bluebell, il corpo di ballo del Lido di Parigi) e dell'imprenditore romano Mario Caldonazzo. Dopo aver mosso i suoi primi passi come modella e ballerina in alcuni show della Rai (l’esordio nel 1989 a Stasera Lino) è arrivata al cinema quasi per caso. «Ho accompagnato una mia amica ad un provino del film Fratelli d’Italia con Christian De Sica. Io avevo appena fatto un incidente bruttissimo, avevo il gesso ma la accompagnai e rimasi lì, sul divano ad aspettarla, tutta timida. La mia amica invece tutta preparata e cotonata. Uscendo il regista si avvicina e mi chiede “E tu?” Io dissi che avevo solo accompagnato la mia amica ma lui mi disse “Voglio te”. E così è iniziata». Ma questa non l’unica curiosità su di lei.
Ha fatto parte del Bagaglino
«Il Bagaglino è stata un’esperienza super top che ho voluto fare per quello che faceva la mia mamma a Parigi, ne rimasi folgorata», ha raccontato qualche mese fa nella Casa del Grande Fratello Vip la showgirl, entrata nella compagnia di Pier Francesco Pingitore nel 1997. Nel 2001 Caldonazzo ha fatto parte del varietà televisivo Saloon, in onda in prima serata su Canale 5, come primadonna insieme a Eva Grimaldi, Milena Miconi e Pamela Prati.
Tra cinema, tv e teatro
Nathaly Caldonazzo negli anni si è alternata tra cinema («Paparazzi», «Romanzo di un giovane povero», «Abbronzatissimi»), tv («Fantastico 10», «Cocco», «CentoVetrine») e teatro («Orfeo a Manhattan», «Il malato immaginario», «Passo a due pas de deux»). Il suo impegno più recente è lo spettacolo teatrale «Parlami d'amore» di Philippe Claudel diretto da Francesco Branchetti.
I reality
Il 20 dicembre 2021 Nathaly Caldonazzo ha varcato la soglia del Grande Fratello VIP, condotto da Alfonso Signorini. Non è il suo primo reality: nel 2017 aveva partecipato come concorrente all’Isola dei Famosi.
L’infanzia difficile
Uscita dalla casa del Grande Fratello Vip, in un’intervista a Verissimo, la showgirl si è raccontata a cuore aperto: «Mio padre era molto bello, molto affascinante, molto forte. Vide mia madre in televisione e, non conoscendola, perché lei faceva parte delle Bluebell, disse “questa me la sposo” . Quindi la cercò, la trovò e lei si innamorò subito di lui, ma non fu una vita molto facile, perché lui si dimostrò subito abbastanza violento, emotivamente ma anche fisicamente. All’apparenza era per tutti un uomo simpaticissimo, però poi in casa, con mia madre soprattutto, aveva questa forma di violenza emotiva, era molto manipolatore. Purtroppo ho assistito molte volte a scene di violenza anche dentro casa, scene molto pesanti». In seguito alla prematura scomparsa del genitore Caldonazzo lo ha perdonato: «Mio padre l’ho amato e, al contempo, odiato. Lui con me è stato un padre molto severo, ogni tanto perdeva le staffe e alzava le mani e ricordo delle scene abbastanza brutte. Però a un certo punto, quando poi è morto, ed è morto giovane - a 53 anni - l’ho perdonato».
La passione per la pittura
Da diversi anni Nathaly Caldonazzo dipinge. L’arte si è rivelata una terapia per superare i difficili momenti vissuti in passato, come ha svelato al settimanale Nuovo: «Avevo la passione per la pittura da tempo, ma lo facevo solo per hobby. Di recente però ho cominciato a dipingere quadri piuttosto violenti che raffiguravano Barbie distrutte. Mi piace l’arte pop, perché con i colori molto accesi ti consente di sconvolgere e portare all’estremo la realtà. Purtroppo questa violenza l’ho subita sulla mia pelle da bambina. Ho subito questo odio da parte di un uomo: era mio padre, una persona violenta, sia con mia madre che con me. Mi ricordo che quando avevo fra i 6 e gli 8 anni, mi trovavo ad assistere a scene terribili. Avevo una reazione tremenda: prendevo le mie bambole e le sbattevo contro il muro per distruggerle. Non potete immaginare il senso di disperazione». Risale al 2021 il progetto Squartalized sul tema della violenza contro le donne, realizzato insieme all'artista Vito Bongiorno.
L’amore con Massimo Troisi
Nei primi anni Novanta Nathaly Caldonazzo ha vissuto una grande storia d’amore con Massimo Troisi: «Ci siamo conosciuti in un ristorante di Roma, Troisi mangiava e mi fissava - ha raccontato a Vieni Da Me nel 2019 -. Uscendo io l’ho salutato, perché mi aveva fissato per tutto il tempo. Lui è rimasto stupito. Poi mi ha cercato per una settimana ed è riuscito a trovare il mio numero di telefono, cosi siamo usciti a bere un caffè. Avevo 24 anni, lui 39. Siamo stati insieme i suoi ultimi due anni». La relazione purtroppo è stata funestata dai gravi problemi di salute dell’attore e regista. Nel 1993 la coppia ha trascorso un mese e mezzo a Houston, in Texas, ma l’intervento al cuore a cui Troisi si era sottoposto non era andato bene. Avrebbe avuto bisogno di un trapianto, sempre rimandato: «Massimo mi ha sempre detto che quando una persona viene operata al cuore dopo cambia. Se non avesse fatto “Il Postino” forse sarebbe ancora vivo: avrebbe dovuto subire un trapianto di cuore prima di fare questo film, ma lui diceva sempre che voleva fare il film con il suo cuore». Il 4 giugno 1994 Troisi ha chiuso gli occhi per sempre, 12 ore dopo aver terminato le riprese della pellicola: «È presto per una ragazza di 24 anni subire un lutto d’amore. Quando va via il tuo compagno di vita stai male. Ci ho messo tanto a riprendermi, ma sono contenta di averlo conosciuto. Aveva paura della morte, ma da buon napoletano esorcizzava, faceva finta di non avere quella patologia».
La figlia Mia
Con l’imprenditore napoletano Riccardo Sangiuliano nel 2004 Nathaly Caldonazzo ha avuto una figlia, Mia, chiamata così in onore di Mia Farrow. Mia è apparsa qualche mese fa al Gf Vip (ha fatto una visita a sorpresa a sua madre).
A Temptation Island VIP con l’ex
Nathaly Caldonazzo nel 2019 ha preso parte a Temptation Island Vip con l’allora fidanzato Andrea Ippoliti (con cui stava da tre anni), ma è uscita dal programma da single: Ippoliti infatti, nel corso del programma, si è avvicinato alla «tentatrice» Zoe Mallucci. «È stata la delusione più grande della mia vita - ha detto poi Nathaly a Vieni da Me a proposito della relazione -. Non pensavo di provare una sensazione da film horror. Una storia in cui credevo tantissimo, ho rinunciato al 90% di me stessa e mi sono ritrovata in una realtà scioccante».
Edoardo Semmola per corrierefiorentino.corriere.it il 16 agosto 2022.
«Quando ero bambino, vicino a casa, in Oltrarno, la sala parrocchiale degli Artigianelli con cento lire ti faceva vedere due film con un panino al pomodoro o un’acqua e zucchero. Non davano film di prima visione, e solo quelli approvati dalla censura del prete, ma quasi tutti i pomeriggi dei primi anni Sessanta, io e il figlio dell’editore Olschki, il mio migliore amico allora, ci siamo concessi molte proiezioni. Tiravi due calci al pallone dopo pranzo e poi dove andavi, se non al cinema? Ivanohe e Il Corsaro dell’Isola Verde li avrò visti dieci volte ciascuno. È grazie a loro che mi è rimasta la passione per i film di avventura».
Neri Parenti sulla sedia da regista è arrivato presto. Grazie soprattutto al suo essere bilingue: figlio del rettore dell’Ateneo fiorentino Giuseppe Parenti e di madre britannica, era tra i pochi a padroneggiare l’inglese così bene da trovarsi presto spalancate le porte di Cinecittà in una stagione, i primi Settanta, in cui il cinema italiano si stava aprendo agli attori stranieri. Due anni fa nel libro Due palle di Natale ha svelato come sia giunto per caso alla commedia. In realtà il suo sogno era diventare uno Spielberg italiano e dirigere film d’avventura. «Sognavo Indiana Jones. Ma non ho mai potuto nemmeno avvicinarmi, peccato — sospira — In Italia per via dei costi e di attori considerati poco credibili per quei ruoli, non c’era verso: su un Indiana Jones italiano non avrebbe scommesso nessuno».
Com’è entrato nel mondo del cinema?
«Era il 1967, avevo 17 anni, subito prima della contestazione, e partecipai a un concorso che tra Lazio, Emilia Romagna e Toscana metteva in palio degli apprendistato nel giornalismo. Mi classificai terzo. Il primo lo presero a LaNazione, il secondo al Resto del Carlino. Al terzo era riservata la Rai, a Roma. Per fortuna mio padre, docente di statistica e presidente dell’Inarcassa che aveva contribuito a creare l’Isolotto a Firenze e il Villaggio olimpico a Roma, aveva una casa là. Ma alla Rai non sapevano cosa farsene di un diciottenne fiorentino che nemmeno conosceva la città. Stavano co-producendo Addio fratello crudele di Patroni Griffi con Fabio Testi, Olivier Tobias e una giovane Charlotte Rampling, e mi mandarono a fare il reportage dal set. Non avevo mai visto realizzare un film. Ma da bilingue ero tra i pochissimi a capire cosa diceva la Rampling, sempre imbufalita, mentre si lamentava che il bagno era sporco, il cestino del pranzo faceva schifo, la costumista le aveva stretto troppo il vestito, o protestava perché voleva il weekend libero per visitare Firenze. Entrai nelle grazie dell’organizzazione e mi presero come braccio destro per altri film con attori americani. Poi una cosa tira l’altra».
La gavetta è stata fare da aiuto regista a Pasquale Festa Campanile...
«E poi con Steno con cui ho fatto la serie dei Piedoni con Bud Spencer. Quando girammo Piedone l’Africano in Namibia ci fu una tempesta di sabbia che mandò all’aria mezzo film e per rimediare venne deciso di dividere il lavoro in due unità: mi affidarono la parte inglese e sudafricana, di fatto realizzai da solo metà film».
Il suo debutto da regista però fu una parodia de La febbre del sabato sera...
«Mi offrirono questo John Travolto perché mi stavo specializzando nelle commedie. Era un film assurdo dove fu ingaggiato un cuoco, Giuseppe Spezia, che non sapeva recitare ma era un sosia perfetto di John Travolta. Fu un flop. Però venne venduto in tutto il mondo, perché Spezia era talmente uguale a Travolta che molti pensarono fosse quello vero. Così il produttore Goffredo Lombardo guadagnò moltissimi soldi e quando si trattò di affiancare Paolo Villaggio nella realizzazione dei vari Fantozzi, dopo che aveva divorziato da Salce e stavano lavorando al terzo film, chiamarono me: non si fidavano di Paolo Villaggio, volevano affiancargli qualcuno che sembrava innocuo. Cioè io».
Perché non si fidavano di Villaggio?
«Era un genio ma impossibile da gestire. Voleva per forza partecipare alla stesura della sceneggiatura con Benvenuti e De Bernardi che però potevano lavorare con noi solo la mattina, perché il pomeriggio scrivevano con Sergio Leone C’era una volta in America. Ma Villaggio la mattina non veniva mai. De Bernardi convinse Leone a invertire: lui la mattina, Villaggio al pomeriggio. Ma Paolo non si presentava nemmeno il pomeriggio. Quando gliene chiesero conto, da mascalzone geniale, rispose “preferisco non venire di pomeriggio”. E scappò via».
Addirittura scappò?
«Una volta in Kenya lo fece letteralmente. Mentre stavamo girando ci guardò e disse “devo andare un attimo in bagno”. Cinque minuti dopo alziamo lo sguardo e vediamo una mongolfiera che se ne andava con lui a bordo. Disse “eh, ormai l’avevo prenotata”».
Un rapporto complicato...
«Paolo diceva che eravamo come padre e figlio. Il punto però, era che lui era il figlio e io il padre. Ma alla fine abbiamo fatto 20 film».
Lei ha lavorato con tutti i mostri sacri della comicità anni Ottanta e Novanta: Villaggio, Lino Banfi, poi la stagione dei cinepanettoni con Boldi e De Sica. Un mondo che non esiste più…
«Ai tempi dei “mostri sacri” in Italia si giravano 300 film all’anno. Ora se ne fanno 30 e anche se abbiamo attori bravi, come Favino e Mastandrea, si è creato un solco tra il mondo della farsa, che facevamo io e i Vanzina, e i film da David di Donatello. Anche gli attori si sono spostati in quella direzione. La differenza è tutta nella quantità: Mastroianni girava Una giornata particolare e Ieri oggi e domani. Sordi faceva Il vedovo e Un borghese piccolo piccolo. Quando i film sono diventati pochi, è cambiato tutto».
Con i cinepanettoni si è attirato tante critiche. Si aspetta che vengano riscoperti in senso positivo come è avvenuto con Franco e Ciccio?
«Per Villaggio e i suoi Fantozzi è accaduto. Ma i cinepanettoni sono ancora considerati un’onta. Non siamo arrivati ad “accettare” il mondo Boldi-De Sica. Sono farse e vanno prese come tali. Penso che quei film siano stati uno specchio della nostra società di inizio millennio: noi italiani eravamo così, il berlusconismo, un certo cinismo, uno stile di vita. Erano film politicamente scorretti che facevano ridere. Oggi se proponi un film che fa ridere, ti guardano male. Non si possono più fare battute sugli omosessuali o le donne di facili costumi: ti salterebbero al collo. Tutto va trattato coi guanti bianchi, e se metti i guanti bianchi a quel tipo di commedia, l’ammazzi in partenza».
Il film che ha subito forse più polemiche di tutti è stato il prequel di Amici Miei ambientato nel Rinascimento...
«Eppure l’idea nacque molti anni prima, con Monicelli. E con gli attori originali. Poi, per vari motivi, tra cui la morte di Ugo Tognazzi, fu accantonato, ma il soggetto era scritto. Dieci anni dopo, lavorando con Benvenuti e De Bernardi, ci sembrava un’idea molto bella. Monicelli era ancora vivo e io avrei dovuto aiutarlo. Poi cambiò idea e Piero e Leo decisero di proporlo a De Laurentiis che volle rivoluzionare il cast: non più Alessandro Benvenuti, Marco Messeri e Gerard Depardieu come in origine, perché a suo dire non erano comici puri. Dovevamo iniziare a girare a Volterra quando De Laurentiis ebbe paura dei costi troppo alti e impose attori di cartello. Hanno detto che abbiamo profanato qualcosa di sacro, ma a noi non sembrava di profanare niente, con quelle premesse».
Di cosa va più orgoglioso?
«Di aver fatto 52 film avendo litigato con un solo attore».
Chi?
«Con Anna Maria Barbera, la “Sconsolata”, di Christmas in Love, dove c’è anche Ron Moss, il Ridge di Beautiful che ha un’amnesia e lei gli fa credere che siano sposati. A un certo punto iniziò a sostenere che Ron non mostrava abbastanza passione sul set, si sentiva colpita nel suo femminile, si impuntò e non voleva più dire le battute. Povero Ridge, non capiva l’italiano, non si rendeva conto di nulla. Per convincerla a finire il film è dovuto venire De Laurentiis con l’elicottero. Finimmo le riprese senza parlarci».
Alla sua passione per il calcio ha dedicato il film Tifosi...
«Sono tifosissimo della Fiorentina e quando Cecchi Gori era presidente avevo un’esclusiva con lui e andavamo sempre a parlare dei film alla Certosa del Galluzzo insieme alla squadra in ritiro. Ho avuto anche un rapporto particolare con Batistuta, grande amante della caccia che si lamentava di non riuscire ad andarci per la troppa burocrazia. Gli ho fatto conoscere una persona che si occupava di queste cose e così è riuscito a cacciare in Toscana».
Che progetti ha per il futuro?
«Con la gente che non va più al cinema, e col fatto che i generi che faccio io vivevano del supporto dell’incasso al botteghino, la vedo difficile... La tv ha costi e tempi diversi e le piattaforme come Netflix vogliono film da vendere a livello internazionale, la commedia che si capisce solo in Italia non la prendono. Ma di andare in pensione non ho voglia».
Steve della Casa per “La Stampa” il 15 giugno 2022.
«Come scelgo i nomi dei miei personaggi? Non ho un metodo. Nei cinepanettoni è chiaro che uno che si chiama Trivellone è sempre in caccia di donne, se invece è soprannominato Faina è un furbo di tre cotte mentre Zebrone tifa la Juve e Ciro 3000 è pazzo per il Napoli.
Ma non è sempre così semplice, spesso mi sono affidato al caso. I nomi dei personaggi de I pompieri sono... figli del raccordo anulare, nel senso che mi sono annotato tutti i nomi che vedevo scritti sui capannoni e li ho trasferiti nel film». A Neri Parenti piace minimizzare il suo lavoro, e questo non è che uno degli esempi possibili che si ricavano dalla sua divertente autobiografia Due palle di Natale.
Il 10 giugno sarà ospite del festival di Castiglione del Lago, che porterà nella bella cittadina sul lago Trasimeno molti protagonisti dello spettacolo italiano, da Neri Marcorè a Enrico Vanzina, da Giuseppe Piccioni a Margherita Buy. Ma il suo incontro è uno dei più attesi, perché l'esperienza di colui che prima con Fantozzi e poi con la coppia Boldi-De Sica ha realizzato forse gli incassi più alti degli ultimi 40 anni sarà oggetto di un'attenta analisi nel festival organizzato dall'Ente dello Spettacolo.
E di storie da raccontare Neri Parenti ne ha davvero tante. Per esempio quanto gli è accaduto in un giorno di settembre nel 2001, quando era all'aeroporto di Roma in attesa di partire per l'America con Boldi, De Sica e tutta la troupe che doveva girare Natale a New York.
Per non perdere tempo girarono molte scene nella sala Vip di Fiumicino, facendo finta che fosse altrove. Finite le riprese, lessero che il volo era cancellato. E non poteva non essere così: quel giorno era l'11 settembre 2001, le Torri Gemelle erano state attaccate, i voli sospesi. In tempo reale spostarono l'ambientazione da New York ad Amsterdam, girando nella capitale olandese solo gli esterni mentre gli interni furono realizzati in un albergo di Madrid.
Il titolo fu modificato in Merry Christmas, il film incassò 15 milioni di euro, New York fu cancellata. Ma non totalmente, perché se si guarda con attenzione il labiale di certe scene si capisce benissimo che gli attori dicono Amsterdam ma le labbra pronunciano New York.
Oppure il suo rapporto con Bruno Altissimi, il produttore che con lui ha fatto alcuni film di Fantozzi. Gli proponeva per la scenografia sedie «tonnate» che erano ovviamente Thonet, e viaggiava su un Boiler 747 che era in realtà un Boeing, e lavava la frutta perché era sta trattata con «l'anticristogamico»: però sul lavoro era preciso, puntuale, capace.
O anche il suo incontro con Paolo Villaggio, per il quale sarà il regista di ben 18 film.
Villaggio, dopo i primi due Fantozzi che erano stati diretti da Luciano Salce, aveva saputo che il regista non sarebbe più stato alla guida del prossimo Fantozzi. Gli proposero il suo aiuto, per l'appunto Neri Parenti, e Villaggio aderì entusiasta dicendo che la scelta gli piaceva.
Così Parenti si recò a casa di Villaggio per concludere l'accordo. Villaggio si presentò in sandali e caffetano, e gli chiese chi fosse. Parenti timidamente disse il suo nome, e Villaggio: «Ah, ma io credevo che Neri Parenti fosse un altro, te non ti conosco». Parenti mesto stava andandosene quando Villaggio lo apostrofò: «Beh, visto che sei venuto fin qui, prendiamo te». La loro storia iniziò così. E, come abbiamo detto, è una storia molto lunga, molto intensa. Insieme facevano scherzi crudeli, tipo quello al povero Filini (Gigi Reder) che era notoriamente superstizioso.
La macchina che gli veniva mandata per portarlo sul set spesso era un carro funebre adattato per l'occasione, con Reder che si profondeva in ogni tipo di scongiuro. Oppure a un giovane Massimo Boldi che iniziava a esibirsi al Derby di Milano e, avendo una gran paura del pubblico, chiese consiglio a Villaggio su come fare per vincerla. Villaggio gli consigliò di spremere due limoni, mescolarli con ghiaccio e tenerli il più possibile sotto la lingua. La paura non passò, in compenso la lingua fu come paralizzata togliendo al povero Boldi la fluidità di parola.
A Castiglione sul Lago Neri Parenti ritroverà Enrico Vanzina. «Ci credono rivali, siamo amicissimi. Io ho fatto l'assistente per Steno, suo padre, un gran signore. E tutti ci confondono, ogni tanto qualcuno si presenta e mi dice: signor Vanzina, mi fa l'autografo? Ho firmato più autografi con il suo nome di quanti ne abbia rilasciati con il mio, ma non è un problema».
Edoardo Semmola per corrierefiorentino.corriere.it il 4 aprile 2022.
Immaginare Enrico Brignano in versione Il Trono di Spade è qualcosa che sfida tutte le leggi del marketing cinematografico. Ma le vie della comicità sono infinite e un regista dalle spalle larghe e dallo sguardo lungo come Neri Parenti lo sa. E ci crede. Questo fantasy comico con protagonista Brignano lo gireranno a giugno. Uscirà nel 2023. Non ha ancora un titolo ma è sicuramente una sfida tra le più difficili che la commedia italiana si possa mettere in testa di provare.
È anche in un certo senso un regalo che il regista fiorentino di tanti cinepanettoni fa a se stesso: lui che ha girato solo farse ma che fin da bambino ha covato il sogno di fare film d’avventura. «Con le persone che non vanno più al cinema, e col fatto che i generi di cui mi occupo io vivono più del supporto dell’incasso al botteghino che dei contributi, la situazione è difficilissima. La tv poi, è inaccessibile: le piattaforme come Netflix vogliono film che possano essere venduti a livello internazionale, la commedia che si capisce solo in Italia non la prendono. Ma non voglio andare in pensione e a giugno girerò questo fantasy comico con Enrico Brignano per il 2023, sperando che non ci sia più il Covid».
Sono tempi bui, eh, Parenti...
«Nerissimi. Il remake di “Altrimenti ci arrabbiamo” di Bud Spencer e Terence Hill che è uscito ora incasserà meno del prezzo che avranno speso per il catering».
Perché questo sogno di fare un film d’avventura?
«Perché da bambino, negli anni Sessanta in Oltrarno a Firenze, passavo i pomeriggi agli Artigianelli dove con cento lire ti potevi vedere due film e mangiare un panino col pomodoro o un acqua e zucchero. Mi sarò visto una decina di volte “Ivanohe” e “Il Corsaro dell’Isola Verde”. Ed è grazie a loro che mi è rimasta la passione per i film di avventura».
Perché non ci ha mai provato?
«Gli attori italiani sono da sempre considerati poco credibili in quei ruoli: a un Indiana Jones italiano non ci avrebbe mai creduto nessuno».
Non aveva un Indiana Jones, ma ha fatto 20 film con Paolo Villaggio.
«Era un genio del tutto inaffidabile. Per il terzo Fantozzi voleva per forza partecipare alla stesura della sceneggiatura con Benvenuti e De Bernardi che però potevano lavorare con noi solo la mattina, perché il pomeriggio scrivevano con Sergio Leone. Villaggio la mattina non veniva mai. De Bernardi convinse Leone a invertire: lui la mattina, Villaggio al pomeriggio. Ma Paolo non si presentava nemmeno il pomeriggio. Da mascalzone geniale qual era, rispose “preferisco non venire di pomeriggio”. E scappò via».
Addirittura scappava?
«Una volta in Kenya mentre stavamo girando ci guardò e disse “devo andare un attimo in bagno”. Cinque minuti dopo alziamo lo sguardo e vediamo una mongolfiera che se ne andava con lui a bordo. Ci disse “eh, ormai l’avevo prenotata”».
Un rapporto complicato....
«Paolo diceva sempre che eravamo come padre e figlio. Ma il figlio era lui, io il padre».
Però nel tempo il vostro lavoro è stato anche rivalutato dalla critica.
«Quelli sì, i cinepanettoni invece sono ancora considerati un’onta. Eppure erano uno specchio preciso della nostra società nel primo decennio del nuovo millennio: il berlusconismo, un certo cinismo, uno stile di vita. Ci descrivevano come italiani. Facevano ridere ed erano politicamente scorretti. Oggi se fai delle battute sugli omosessuali o le donne di facili costumi ti saltano al collo. Tutto va trattato con i guanti bianchi, e se metti i guanti bianchi a un certo tipo di commedia l’ammazzi in partenza».
Barbara Costa per Dagospia il 20 agosto 2022.
Mi dicono: stai troppo sul porno americano. E faccio bene!!! Ma dove altro le peschi bellezze del genere??? Io qui in giro non ne vedo, voi sì? Beati voi, e poi lo voglio proprio confessare: dopo le vietnamite, le indios sono la mia passione! E da par suo indios è lo schianto in foto, il suo nome è Nia Nacci, ed è uno scandalo, una vera indecenza che non sia nei primi posti della classifica di Pornhub! Amori p*pparoli, che succede, si batte la porno fiacca? Una tale femmina non merita i vostri riguardi? State ben poco con lei, e non va bene! Solo a mio parere Nia Nacci detiene tra i corpi i più sensazionali in porno circolazione? Ma guardate che fulgore di seni e fianchi e gambe, dio santo… Non vi "smuovono" nulla?
Nia Nacci è un pericolo pubblico: ostenta le sue curve in tal modo attiranti dai 15 anni! Lei ne è fiera, e lo sa, il potere sessuale che ha: maliziosa ci tiene a dire che le sue forme – petto compreso – hanno fatto la sua comparsa già alla puberale età di 12 anni, per poi svilupparsi e così stazionarsi tre anni dopo. Nia Nacci è metà indios e metà afroamericana, ed è nata a Tulsa, in Oklahoma, e da una famiglia numerosa: lei ha sei tra fratelli e sorelle.
Nia e il suo visetto incantevole, perfettissimo per i porno facial, performance che lei gradisce e gira assai, han fatto il loro ingresso nel porno giovanissimi, a soli 18 anni perché, sebbene la cara Nia abbia perso la verginità a 17 anni, e sebbene prima di entrare nel porno abbia avuto solo due fidanzati, più un assaggio di rapporto lesbico, lei ha deciso di fare sul serio e di trovarsi un lavoro che la mantenesse appena preso il diploma superiore.
Nia ha girato qualche porno su smartphone col suo ex ragazzo, per divertimento ma, trovatosi un agente, ha lesta capito che girare porno sui set, a livello iper professionale, è tutto un altro mondo, tutto un altro discorso: “La prima volta sul set ero nervosissima e non per la mia nudità né per il sesso in sé, ma per il fatto che persone estranee mi guardavano, mi guidavano, mi dicevano che fare e come”.
Nia si inserisce e allarga la divaricazione che sta segando il porno in due filoni sì comunicanti e però sempre più rivali: il porno home-made e il porno fatto sui set. Il prodotto che si dà agli utenti è diverso per la modalità di svolgimento e per il contenuto, e chi fa porno professionista, se da una parte ha il suo canale OnlyFans e/o su piattaforme simili, non ci vuole più stare a far passare quali attrici e attori porno chi fa porno da sé. Sono per lo più esecutori, non attori. Tesi che sembra trovar conferme nell’evidenza che sono in numero esiguo i performer che passano dal porno homemade ai set, perché ciò che un set richiede è raro loro possano assolverlo, per lo meno a quei gradi di preparazione.
Nia Nacci ha un corpo tutto naturale di cui due sono i gioielli che fermano le attenzioni del pubblico: il suo viso "pulito", eccellente a sperma schizzarlo, e il suo lato b. Degno di nota il fatto che Nia non abbia mai provato l’anal nella sua vita privata, e che da quel versante abbia deciso di dire addio alla castità sul lavoro. E non si pensi a una passeggiata: Nia ha fatto l’anale due mesi dopo il suo esordio, ma sotto l’esperta guida del regista, e del partner di scena. Ancor più degno di nota che, se i porno lesbici di Nia sono nettamente seducenti e ti incollano al video, Nia Nacci è davvero una porno attrice rilevante perché… a lei le donne non piacciono!
L’ha ammesso, senza problemi, come senza problemi fa sesso con le partner a cui la abbinano. Non è insolito che una attrice porno faccia porno lesbico senza attrazione, l’orgasmo femminile si può e con convinzione recitare, e non è detto che femminei e sapienti istigazioni di lingua e dita, e abbinate a sex toys, non producano esplosioni di reale piacere, finanche squirtico.
Nia Nacci promette di rimanere nel porno a lungo e facciamo il pieno di buone notizie: non risulta nemmeno fidanzata. Uomini, fatevi avanti, e di ogni età: l’ultimo amore di Nia era un uomo di 30 anni più grande di lei, e uno che voleva farle da sugar daddy, ovvero mantenerla, e così tenerla legata a sé soddisfandone ogni capriccio. Nia lo ha mollato. La dignità e l’indipendenza di una tal donna sono fuori mercato.
Nicola Savino: «Con Linus un’alchimia che ti capita una volta ogni cento anni. Il mio problema? L’assenza di mio padre». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.
Il racconto del conduttore che parte dai genitori. «Il mio problema è l’assenza del padre: fino ai miei 14 anni non c’era mai. Poi si è ammalato gravemente di depressione»
Sembra l’amico che tutti vorrebbero avere. Quello simpatico, sorridente e gentile, divertente ma mai gradasso. «Ecco, mi viene in mente l’espressione di mia moglie quando incontro qualcuno per strada che mi dice cose come queste — commenta Nicola Savino —. Di solito mentre la gente parla c’è lei che fa: “Uhhhhh...”». In realtà, spiega: «Non sono una persona con cui è facile convivere. Sono piuttosto permaloso e ansioso... dormo anche poco e male, di base in due tempi: solitamente qualche ora, poi mi sveglio, magari leggo il giornale in piena notte e alla fine mi riaddormento». Il pieno prende forma grazie al vuoto e, nel caso di Savino, il vuoto si riassume in una parola: papà. «La sua assenza è il mio problema».
Come mai parla di assenza?
«Lui lavorava spesso all’estero, in Medio Oriente, per l’Eni. Quando tornava dai suoi lunghi viaggi mi portava delle radio, che io poi smontavo, forse nella speranza di trovarci dentro lui. Da quando sono nato ai miei 14 anni non c’è stato praticamente mai».
E poi?
«Ha avuto una depressione fortissima. Si è ammalato proprio quando sono nato io, ma poi è peggiorata. Non è semplice per un figlio crescere con un genitore gravemente depresso. Eppure posso dire con certezza che nonostante la malattia non ha mai fatto mancare a me e alle mie sorelle l’amore».
Quando ha realizzato che suo padre stava così male?
«Da piccolo non avevo gli strumenti per capire cosa fosse quello che allora chiamavano “l’esaurimento nervoso”. Tu vuoi che tuo padre giochi con te a pallone, ti porti a vedere la partita... vuoi insomma che sia un padre, ma questo non era possibile. Lo facevano i miei zii, forse provando anche un pizzico di compassione per quel bambino piuttosto solo, visto che le mie sorelle erano più grandi. Crescendo, mi è capitato poi di vedere mio papà in stato confusionale... momenti rari, per fortuna, ma sono successi. Cerco di non pensarci sempre perché mi dò fastidio da solo e l’analisi prova a lenire il problema, ma quando ti manca qualcosa di così importante da piccolo, superarlo non è semplice».
Ci è riuscito?
«Negli ultimi 15 anni della sua vita abbiamo recuperato. Con i primi guadagni di “Colorado” (la trasmissione che conduceva su Italia 1, ndr) gli ho comprato una piccola casetta vicino alla mia: l’ho seguito, accudito, stava bene. Per tutto quel tempo siamo stati molto vicini. Quattro mesi prima che morisse, nel 2014, c’è stata anche questa scena madre, da film, in cui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non sono stato un buon padre”. Gli ho risposto che era stato fantastico e l’ho abbracciato a mia volta... ed è davvero stato così. Lui amava me, io amavo lui. Lui ha avuto dei problemi».
E sua mamma?
«Era mamma ed era papà. Lavorava anche lei però doveva badare a tre figli. Adesso capisco tutta la fatica e ho grande stima e ammirazione per i miei. Mi hanno trasmesso una cultura profonda per il lavoro, un grande rispetto. Ancora oggi mi ci rivedo e mi piace anche».
Lei è mancata quando la sua carriera televisiva stava esplodendo.
«È successo poco prima del mio debutto a “Quelli che il calcio”, che era sicuramente la cosa professionalmente più importante che avessi fatto fino a quel momento. L’ho vissuta con addosso il lutto più tragico ma non ne parlavo con nessuno allora. Ero dentro un tunnel e non lo sapevo. Per tutti i primi mesi ero distrutto, come se mi avessero tolto la pelle dal corpo, ma dovevo spingere, andare avanti. I lutti sono difficilissimi da mettere nei cassetti: sono come un cerchio di fuoco attraverso cui tu passi. In quel periodo mi fu molto di conforto anche la religione, che adesso pratico meno. Ero in mezzo al mare e mi sono aggrappato anche a quella cosa».
Cultura del lavoro. Non a caso, lei ha sempre lavorato: in ruoli differenti, su media differenti...
«Ho fatto tutta la filiera, sì. Un passo alla volta, forse con un po’ troppa umiltà. E torno alla mia famiglia: eravamo borghesi, si può dire, eppure non vivevamo a Milano ma a San Donato. Avevamo una casa al mare con un giardinetto, ma piccolo e non a Forte dei Marmi ma a Lido di Camaiore. Insomma, il titolo di tutto era: “Ma non sarà troppo?”. Il che ti consegna un senso di colpa perenne... lo stesso per cui penso, a volte, di aver buttato via molto tempo, lavorativamente parlando, tra i miei venti e i trent’anni. Ma il risultato di cinque-sei anni di analista è che ora, almeno, vivo in centro».
Se dovesse invece descrivere i suoi vent’anni?
«Sono stati bellissimi. Ripenso a un gruppo di amici, che era quello formato da Claudio Cecchetto, tutti impegnati a far bene un mestiere, ancora una volta. La popolarità era quasi un effetto collaterale. Per tutti le star erano quelle sui giornali, non noi. Io poi, avevo il cartellino, facevo la regia. Avevo scritto il mio curriculum per Radio Deejay con la macchina da scrivere. In quegli anni poi, per la prima volta mi relazionavo seriamente e a lungo con delle figure maschili».
Come è stato?
«La lente era un po’ distorta. Sentivo le persone più grandi fare racconti diciamo da bar sulle loro serate e pensavo che il rapporto con le ragazze fosse quello... ci ho messo un po’ a capire che non era così. Ho avuto però la grande fortuna di incontrare Fiorello in quel periodo: eravamo gli ultimi arrivati, anche se lui a differenza mia andava in onda. Era in grado di fare amicizia con chiunque. Una volta esploso il suo successo lo accompagnavo quando faceva delle serate: ho visto cose che voi umani... ecco, è stato molto divertente e formativo. Ma è stato anche avere vent’anni, tanto che quando vedo oggi qualcuno della mia età che fa cose scomposte, dettate da Bacco, Tabacco e Venere, mi viene da sorridere e anche un po’ di compassione».
Quando ha realizzato che la sua voce era adatta per andare in onda?
«Nessuno me lo ha mai detto, in realtà. Mi sono sempre dilettato con le imitazioni. Per via di quel pudore che ho sempre avuto nel dire “sono bravo”, le imitazioni erano per me delle maschere con cui riuscivo a dire delle cose che altrimenti non sarebbero uscite. Ripenso a quando ho imitato Berlusconi, subito dopo l’annuncio della sua discesa in campo: non lo faceva nessuno. Vedevo la gente piangere dal ridere e non me ne capacitavo».
Poi è arrivato Linus...
«Casualmente. Ho l’ossessione per la didascalia, per la spiegazione di cose che altri danno per scontate, così, mentre lavoravo in redazione, come autore, ero interpellato da lui come “uomo della strada”. Tutto è iniziato in questo modo. La nostra è un’alchimia che ti capita una volta ogni cento anni. Penso che il segreto sia stato crescere assieme. Linus è cresciuto tantissimo, prima era molto più superficiale di adesso. Ora è veramente profondo e sensibile. Poi, a differenza mia, che leggo quasi solo giornali, lui legge molti libri. Io con i libri mi annoio, confesso. Ma ci arriverò. Intanto a casa tiene alta la bandiera mia moglie, che ne divora uno a settimana».
Cosa le è piaciuto di lei?
«La leggerezza d’animo. Poi la curiosità, il gusto, l’amore per i viaggi anche da ferma, magari ordinando del cibo etnico. Stiamo insieme da ventidue anni, sono tanti. E come dicevo, convivere con me non è una passeggiata. Avevo già un matrimonio alle spalle, dai 24 ai trent’anni. Quando è arrivata lei mi sono detto: basta».
Avete una figlia. Come è stato diventare padre?
«Esistono varie fasi. La prima è quella in cui vuoi fare finta che non sia cambiato nulla. Noi andavamo sempre a bere il caffè in un certo bar e ricordo che quando siamo tornati dall’ospedale, la prima cosa che abbiamo fatto, ancora prima di andare a casa, è stato fermarci lì con il trasportino. Che va bene, per carità, se non fosse che poi ti accorgi che c’è poco da fare, le cose cambiano. Sarebbe stato curioso e inedito confrontarmi con un figlio maschio, visto che sono sempre stato in un gineceo, ma va benissimo così».
Rivede i suoi genitori nel suo modo di essere genitore a sua volta?
«Accidenti, anche se pensi di esserti emancipato li devo tenere distanti con i secchi di olio bollente. L’adolescenza poi è un’esperienza molto intensa. Ti trovi di fronte a un essere umano che davvero perde la pelle e questo è doloroso. Inoltre, non ci sono istruzioni per l’uso. L’unica cosa da fare, penso, sia stare vicino a questi ragazzi. Che vuol dire anche chiedere: “Come va?” e sentirsi rispondere: “Vaff...”. È molto difficile. La sensazione è che i figli vogliano una sponda, vogliano sapere fino a dove possono andare. Dopodiché io vedo mia figlia straordinaria, speciale. Ha una sensibilità fuori dal comune, anche se un suo tormentone è: “Papi, non fai ridere”».
Ha qualche sogno professionale per il suo futuro?
«Intanto continuare con la radio finché Linus non avrà voglia di smettere. Perché, sia chiaro, io non smetterò mai. Tra noi c’è una specie di guerra di nervi alla base della domanda: quando finirà? Ecco, io non voglio essere quello che molla per primo».
E oltre alla radio?
«Chiedo spessissimo informazioni sul teatro, è una cosa che mi incuriosisce tanto. Non penso necessariamente al recital del personaggio televisivo, ma parlo proprio del teatro classico. Ecco, mi piacerebbe fare quella roba lì... poi non so bene se sia per la solita questione del pudore, se insomma non ho il coraggio di dirmi che vorrei fare il Nicola Savino show. Di certo con un Amleto ci sarebbe già pronto un buon copione, l’ha scritto uno bravo».
La rinascita di Nicolas Vaporidis, vincitore dell’Isola dei famosi. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022.
Il successo a 25 anni grazie ai film di Fausto Brizzi come «Notte prima degli esami», il matrimonio e il divorzio con Giorgia Surina, il silenzio, la crisi e ora la rivincita.
È stato l’idolo delle ragazzine, ha raggiunto la popolarità a soli 25 anni, grazie a film come Ti amo in tutte le lingue del mondo di Pieraccioni, ma soprattutto grazie ai 4 film di Fausto Brizzi Notte prima degli esami, Notte prima degli esami - Oggi, Maschi contro femmine, e Femmine contro maschi.
Nicolas Vaporidis, 41 anni, lunedì sera ha vinto «L’Isola dei famosi» resistendo 100 giorni in Honduras (l’edizione più lunga di tutte). Una vittoria che ha il sapore della rivincita dopo anni di silenzio. Anche se le sue prime parole dopo la vittoria sono state: «L’Isola è stata una sfida più che una rivincita, un’esperienza che se non avessi fatto, mi sarei pentito. Avevo paura. Cinque o dieci anni fa non sarei stato in grado di farla: avrei dato di matto. A quarant’anni ho fatto un percorso che mi ha aiutato a essere quello che già ero».
L’attore — che ha cominciato il reality il 21 marzo con il piede sbagliato, in modo aggressivo e superbo, per poi riprendere la rotta, diventando punto di riferimento per tutti i concorrenti — era consapevole di aver giocato male le sue carte. Tra il 2006 e il 2017, ha trascorso una decina d’anni al culmine del successo, lavorando incessantemente sul grande schermo, richiesto dai registi, amato dal pubblico, specie dalle giovanissime che lo avevano eletto idolo, per quella faccia da finto bravo ragazzo, in realtà canaglia, cui si perdona tutto. È stato fidanzato con bellissime colleghe: Cristina Capotondi, Ilaria Spada e poi Giorgia Surina sposata a Roma e anche a Mykonos con una cerimonia super romantica. Ma in amore — e non solo — è sempre stato irrequieto Nicolas. Tempo fa in un’intervista sulla sua popolarità, che lo ha sopraffatto giovanissimo, ammise di aver compiuto qualche errore di valutazione. Dichiarò: «Mi sono fatto travolgere da uno tsunami, invece di cavalcare l’onda l’ho presa in pieno».
Tanto che a un certo punto si allontana dal mondo dello spettacolo. Si trasferisce a Londra dove apre due locali. Uno è il suo ristorante del cuore: Taverna Trastevere London che propone piatti tipici della tradizione italiana e romana. Ma evidentemente la carbonara non è bastata a spegnere il sacro fuoco dell’artista e Vaporidis ha deciso di accettare la proposta e salpare sull’Isola, sapendo che poteva essere una rinascita. E chissà se Brizzi ha visto il reality.
"Il gioco e le scorrettezze...". Nicolas Vaporidis a gamba tesa dopo l'Isola. Francesca Galici il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.
Finita l'Isola dei famosi, Nicolas Vaporidis ne ha per tutti: dal fratello di Belen Rodriguez a Clemente e Laura Russo, naufraghi insieme a lui.
Nicolas Vaporidis è tornato dall'Isola dei famosi da vincitore, con molti chili in meno ma con una consapevolezza in più sulla sua personalità. È come se in Honduras l'attore di origine greca abbia mostrato i due lati diversi del suo carattere. In una prima fase del gioco, infatti, è stato quasi aggressivo sia con gli altri naufraghi che con gli opinionisti in studio. La discussione con Vladimir Luxuria, per esempio, avrebbe potuto incidere sul suo percorso. Poi ha come ammorbidito alcuni lati della sua personalità, pur senza cedere mai alla tentazione del buonismo e del volemose bene. Un modo di fare che, alla fine, ha pagato.
"Non ho dissimulato. Io sono così anche nella realtà. Il mio è uno scudo di difesa. La mia timidezza, il mio imbarazzo mi fanno sembrare teso, snob, altezzoso. Ma non sono così. Il tempo mi ha aiutato ad aprirmi. Anche i miei amici dicono che non sono facile agli inizi, ma quando poi mi apro è tutta un’altra storia", ha spiegato Nicolas Vaporidis al Corriere della sera. E questo suo modo di fare non gli ha comunque reso facile l'esperienza sull'Isola, viste le numerose liti di cui si è reso protagonista: "Nessuna affinità con Lory Del Santo: ho discusso tanto con lei. Non ho capito né condiviso il suo pensiero. Anche con Jeremias Rodriguez (fratello di Belén), Clemente Russo e la moglie Laura non c’è stata nessuna affinità. Abbiamo valori opposti". Sulla coppia sportiva, l'attore ha un giudizio piuttosto severo: "Sono giocatori veri, con profonda conoscenza delle dinamiche dei reality, io non avevo consapevolezza di ciò, sono entrato naif. Mi auguro solo che loro nella vita privata non siano come sull’Isola, anche se temo che il gioco e le scorrettezze che fai nel gioco, siano lo specchio di ciò che sei nella vita".
Diverso, invece, il rapporto con Carmen Di Pietro, iniziato in salita con qualche diffidenza e poi cambiato nel corso del gioco: "Io non avevo capito il suo registro e all’inizio l’ho osteggiata, criticata. Quando poi ho capito il suo genio comico, mi ha fatto morire dal ridere. È un Checco Zalone al femminile". Ancora più forte è stato il rapporto con Edoardo Tavassi: "Lui mi ha aiutato ad aprire la mia porta leggera, giocosa, ludica, meno seriosa".
Nicola Vaporidis, l’amore con Capotondi, Spada e il matrimonio (finito) con Surina. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.
L’attore di origine greca è ora un concorrente sull’«Isola dei famosi» dove si è reso protagonista di diversi litigi. Da tempo ha lasciato il cinema. E ha aperto un ristorante a Londra.
Nicola all’«Isola», naufrago litigioso
Nicola Vaporidis sta partecipando come concorrente alla sedicesima edizione de «L’isola dei famosi» condotta da Ilary Blasi su Canale 5. L’attore per la verità non sta dando il meglio di sè. E’ piuttosto litigioso , ha avuto scontri duri praticamente con quasi tutti i partecipanti, tende a lamentarsi o a fare la vittima. Sono rara i momenti in cui riusciamo a vedere un uomo sereno e appagato. Pochi giorni fa uno scontro anche con Vladimir Luxuria, opinionista del talent che gli ha detto: “Abbi rispetto delle opinioni degli altri“.
«in 13dici a tavola» primo film da protagonista
Nicolas Vaporidis nato a Roma il 22 dicembre 1981, da padre greco e madre romana. Da giovanissimo decide di trasferirsi a Londra, dove rimarrà più di un anno lavorando come cameriere, seguendo corsi di inglese e frequentando i corsi di recitazione presso lo Lee Strasberg Theatre Institute. Tornato in Italia frequenta soltanto per pochi mesi la scuola di recitazione Teatro Azione fino a che nel 2002 interpreta il primo film, Il ronzio delle mosche, regia di Dario D’Ambrosi, con Greta Scacchi. L’anno seguente Enrico Oldoini gli affida la parte di protagonista in 13dici a tavola (2004), con Giancarlo Giannini e Kasia Smutniak. Il film vincitore dei Los Angeles Italian Film Awards.
«Notte prima degli esami», l’amore con Capotondi
Nel 2006 è protagonista del film di grande successo Notte prima degli esami, diretto da Fausto Brizzi, nel quale recita accanto a Cristiana Capotondi, con la quale avrà una relazione di un anno. Vaporidis interpreta Luca Molinari, diciannovenne spensierato, non brillante a scuola, ragazzo gentile, simpatico, ed estroverso. I suoi migliori amici sono Massi, Riccardo, Alice e Simona. Si innamorerà di Claudia (Capotondi) , figlia del prof di lettere Martinelli (Giorgio Faletti) da lui odiato, ma che durante il film gli farà conoscere molte cose sulla vita fino a instaurare con lui un rapporto speciale. Nicolas Vaporidis e Cristiana Capotondi si sono innamorati sul set e sono stati insieme per alcuni mesi per rivedersi poi, sempre nei ruoli degli innamorati, in Come tu mi vuoi.. Alcuni anni dopo, Nicolas Vaporidis aveva svelato qualche retroscena sul loro rapporto: “Con Cristiana ci siamo scannati. Ci tiravamo i piatti, ci siamo mandati a quel paese. Ma è stato un grande amore. Anche se non siamo amici, le voglio bene e sono fiero dei suoi successi. È una bella persona. Con lei ho vissuto un momento importante della vita. Quando è finita è finita. Con Cristiana eravamo molto confusi, ma anche questo aiuta a crescere”.
La relazione con Ilaria Spada
Sempre su un set di un film, questa volta Questa notte è ancora nostra (2008), Nicola si innamora ancora: conosce Ilaria Spada (oggi felicemente sposata con il famoso attore Kim Rossi Stuart) e con lei vive una profonda storia d’amore, anche se durata pochi mesi, subito dopo essersi lasciato con Cristiana Capotondi.
Il matrimonio a Mykonos con Giorgia Surina
L’attore ha sposato la collega Giorgia Surina nel 2012, ma il loro amore è sfumato irreversibilmente dopo due anni. Giorgia Surina e Nicolas Vaporidis sono diventati marito e moglie con una romantica cerimonia a Mykonos: il loro è stato un grande amore, di quelli difficili da superare. «Ti crolla tutto e pensi di aver creduto in una favola. Mi sono lasciata attraversare dal dolore, senza combatterlo, come fosse un fulmine: così come è entrato, è anche uscito», aveva confessato lei a Vanity Fair dopo il divorzio.
Il film con Ridley Scott
Nel 2017 ha lavorato con Ridley Scott in Tutti i soldi del mondo. Poi ha lasciato piccolo e grande schermo, a parte un cameo nel 2019, nella pellicola di Volfango De Biasi “L’agenzia dei bugiardi”. Da allora Nicolas si è allontanato dalle scene, decidendo di dedicarsi prevalentemente alle produzioni teatrali.
Il suo ristorante a Londra e la sua paura della folla
Vaporidis è anche proprietario di un ristorante a Londra, Taverna Trastevere London, specializzato in cucina romana. Un uomo dunque dai tanti interessi e dai tanti volti. Uno emerso all’Isola è quello di una sua fragilità: Nicola soffre da molti anni di demofobia (Timore ossessivo degli affollamenti). «Crescendo la nevrosi è peggiorata, non riesco proprio a stare alle feste o alle occasioni pericolose. I miei amici sostengono che dovrei farmi curare…» ha detto l’attore.
La perdita dei capelli
In una vecchia intervista di Radio Club 19, Vaporidis ha raccontato come ha vissuto la perdita dei capelli: «È stato un trauma, un lutto con tanto di cerimonia annessa. I pochi rimasti li chiamo per nome e cognome. Li ho tagliati tutti e alé, la vita continua. E alla fine questo look piace e poi da ragazzino li portavo sempre così. È una decina d’anni più o meno che mi sono arreso, al massimo metto la protezione per il sole sulla testa quando c’è e mi ricordo. All’inizio rosichi un po’, poi ti arrendi e alla fine te ne sbatti e stai bene uguale. Non sei Sansone, non è nei capelli la tua forza».
Roberto Croci per “il Venerdì - la Repubblica” il 10 agosto 2022.
"Accettare questo ruolo è stata la decisione più pazza, più stupida che ho preso in vita mia". Un Oscar e un Golden Globe vinti per Via da Las Vegas, nel curriculum film come Rusty il selvaggio, Cotton Club, Peggy Sue si è sposata, Stregata dalla luna, Arizona Junior, Cuore selvaggio e poi action movie come Con Air e Face/Off, ritroviamo Nicolas Cage nel film sorpresa del festival SXSW Il talento di Mr. C, scritto e diretto da Tom Gormican, in cui interpreta con autoironia una versione parodistica di se stesso.
La trama: creativamente insoddisfatto e di fronte alla rovina finanziaria, l'attore Nick Cage (una versione romanzata dello stesso Cage) deve accettare un'offerta da un milione di dollari per partecipare al compleanno di un pericoloso super fan (Pedro Pascal). Le cose precipitano quando Cage è costretto a interpretare i propri personaggi più iconici e amati sullo schermo per salvare se stesso e i suoi cari. Già disponibile sulle piattaforme a pagamento e in homevideo, il 15 agosto alle 21.15 sarà su Sky Cinema Uno, in streaming su Now e on demand.
Lo aveva rifiutato quattro volte, perché alla fine ha scelto di fare il film?
"Perché quando Gormican mi ha spedito una lettera che assomigliava a un piccolo romanzo, con i dettagli per il ruolo, ho deciso che non potevo non farlo. Inizialmente ero spaventato dall'idea di interpretare un personaggio con il mio stesso nome, avevo paura che volesse fare una macchietta stile sketch di Saturday Night Live, dove sarei stato una patetica parodia di me stesso. Poi leggendo la lettera ho capito che Tom era un fan del mio lavoro, genuinamente entusiasta di raccontare attraverso una versione di me stesso alcune esperienze e incidenti di percorso dei miei primi film".
Ad esempio?
"Ho conversazioni immaginarie con una versione più giovane di Nick, modello Cuore selvaggio di Lynch. E ci sono riferimenti a The Rock, Via da Las Vegas, Face/Off, e anche al capolavoro Il gabinetto del dottor Caligari, con una sequenza di vignette. Piccoli momenti magici che mi hanno convinto".
E l'aspetto più difficile?
"È stato il ruolo più impegnativo della mia carriera, un bell'esercizio mentale. Il regista pensa che la versione nevrotica di Nick Cage sia il miglior Nick Cage che esista. Onestamente, non mi trovo così nevrotico, quando sono in famiglia sono molto tranquillo, faccio cose normali come tutti, guardo le news, leggo Murakami, mi occupo dei figli... Nick è un padre narcisista e distaccato, io sono proprio l'opposto. Ma alla fine mi sono incuriosito, volevo capire dove poter arrivare e anche ricordare al pubblico che ho delle forti doti comiche, sono un po' un buffone. Alla fine sono stato così coinvolto nel progetto che sono anche diventato produttore del film".
Nella carriera ha sempre scelto con grande coerenza i ruoli. Stavolta?
"Forse qui mi sono esposto come mai avevo fatto nella mia vita, oppure, per la prima volta, potrebbe essere vero anche il contrario. Quello che mi ispira di più di questo lavoro è proprio il fatto che non mi interessano le opinioni che Hollywood o i critici si fanno di me. Questo ruolo è stato terrificante sotto molti aspetti, perché era un'idea completamente nuova, non avevo mai fatto nulla del genere in quarant'anni di cinema. È per questo che sono diventato attore, perché sono e sarò sempre uno studente, sto ancora imparando il mestiere, spesso trovo che i ruoli di cui ho paura siano quelli migliori per me, con cui posso crescere".
Cosa pensa del fatto che la sua filmografia sia diventata un punto di riferimento della cultura pop?
"Non ci penso mai. Sono cresciuto amando il cinema, sono davvero un nerd, un cinefilo appassionato, e questo lo devo a Marlon Brando. Di lui mi ha sempre sconvolto la sua schiettezza, la sua originalità è tale che ho sempre pensato di essere l'unico a capirlo veramente, anche se ovviamente non è così. Dal punto di vista invece di icona pop... onestamente sono interessato a cosa pensa il pubblico, di quello che prova con la mia recitazione, desidero che abbia un contatto profondo e personale con quello che voglio trasmettere. Alla fine sono io il primo alla ricerca della verità, spero che gli spettatori sentano la mia sincerità e non pensino che stia solo recitando".
È anche grande appassionato di storia. Il suo periodo preferito?
"Gli Stati Uniti degli anni 50, con la nascita di Elvis Presley e il lavoro straordinario di James Dean e Marlon Brando. Certo era anche un periodo tragico per la gente di colore, ma musicalmente è stato molto divertente. Anche dal punto di vista del design eravamo all'avanguardia, basta pensare a Raymond Loewy e Harley Earl. E avevamo grandi romanzieri come Kerouac, Salinger, Bukowski, Fitzgerald".
Quanto ha influito sulla sua carriera lavorare con registi come David Lynch, i Coen, Oliver Stone, Paul Schrader, Werner Herzog?
"Sono stati fondamentali per rendermi imprevedibile, per non venire inscatolato negli stessi ruoli. Quando ho visto Blood Simple - Sangue Facile ho voluto lavorare con i fratelli Coen, ero talmente determinato che per Arizona Junior ho fatto almeno dieci audizioni. Herzog è stato molto importante perché quando ho lavorato con lui in Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans non stavo passando un bel periodo, ero confuso sulle scelte dei miei ruoli e Werner mi ha riportato ai film indipendenti, mi ha dato l'opportunità di scavare nelle mie radici, di riflettere sul mio lavoro e fare scelte più originali. Lynch... è un padre per me".
Per affinare la sua recitazione ha scelto di studiare Kabuki. Perché?
"Laurence Olivier diceva: 'Cosa è la recitazione se non menzogna e cosa è la buona recitazione se non una menzogna convincente?'. Io penso esattamente il contrario, quando recito sono alla ricerca della verità, e trovo che il teatro Kabuki sia la forma più libera di recitazione".
L'anno prossimo nel film Renfield interpretarà il conte Dracula. Che cos'ha portato di innovativo a un classico così iconico?
"E come potevo rifiutare Dracula? Ovviamente ho accettato perché avevo paura, anche perché è stato interpretato da grandi attori come Bela Lugosi, Christopher Lee, Frank Langella e lo stupendo Gary Oldman. È un ruolo difficile perché è facile farne una versione brutta e scontata, anche se la mia è più sul genere commedia horror come Un lupo mannaro americano a Londra, non è cupa come l'espressionista Nosferatu interpretato da Max Schreck, anche se mi sono ispirato al suo linguaggio del corpo. Per il tono di voce e l'accento invece mi sono modellato su mio padre, August Coppola".
Perché?
"Mio padre era un intellettuale, faceva simposi, scriveva libri. Non ha mai avuto il successo economico del fratello Francis, però amava darsi un'aria sofisticata, distinta e quindi imitava proprio Christopher Lee, a cui peraltro assomigliava moltissimo. Io non ho mai capito perché fingesse quell'accento, un giorno gli chiesi perché parlava strano. E lui mi disse che i soldi, o la mancanza di essi, non determinano l'importanza di una persona. Era bizzarro ma la sua motivazione mi ha convinto e quindi ho deciso di riportarlo in vita, come omaggio al suo istrionismo, che non credo di avere ereditato, ma forse apparirà avanzando con l'età!".
Nel cinema tutti vorrebbero il suo cognome, lei no. Perché lo ha cambiato?
"Legalmente mi chiamo ancora Nicolas Coppola, ma ho scelto Cage perché ho sempre ammirato il compositore John Cage, e poi Cage significa gabbia e io dovevo volare libero. Amo la mia famiglia, la mia scelta non è stata fatta mancando di rispetto alla loro genialità, ma all'inizio della mia carriera dovevo trovare la mia strada, non potevo presentarmi alle audizioni facendomi scegliere come raccomandato. Quando ho ottenuto il primo ruolo come Cage ho capito che mi avevano scelto per il mio talento, la cage-gabbia si è aperta e sono diventato l'attore che ho sempre sognato di essere".
Nicolas Cage compie 58 anni: le origini del nome d’arte, i cinque matrimoni e gli altri 7 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022. Nato il 7 gennaio 1964, figlio del professore August Coppola e della ballerina Joy Vogelsang, è nipote del regista Francis Ford Coppola e dell'attrice Talia Shire.
Non ama essere definito «attore»
«Dopo un paio di flop, mi sono reso conto di essere stato emarginato dagli studios e che non mi avrebbero più richiamato. Ho sempre saputo che per me ci voleva un giovane regista che si ricordasse di alcuni dei miei film, mi ritenesse adatto alla sua sceneggiatura e mi riscoprisse». Proprio qualche giorno fa Nicolas Cage si è sfogato sulle pagine di Variety in una lunga intervista, citando anche il nome del suo «salvatore» Michael Sarnoski, regista di uno dei film - «Pig» - che negli ultimi tempi ha fatto ritornare sulla cresta dell’onda la star (che il 7 gennaio compie 58 anni). Cage nel corso della stessa intervista ha dichiarato di non amare essere definito «attore»: «Per me implica sempre “oh, è un grande attore, quindi è un grande bugiardo”. Quindi, con il rischio di sembrare uno s****** pretenzioso, mi piace la parola “thespian” perché significa che ti stai dirigendo verso il tuo cuore, o nella tua immaginazione, o nei tuoi ricordi o nei tuoi sogni, per riportare qualcosa che ti permette di comunicare con il pubblico». Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Nipote di Francis Ford Coppola
Il vero nome dell’attore - figlio del professore August Coppola e della ballerina Joy Vogelsang - è Nicolas Kim Coppola. Il regista Francis Ford Coppola e l'attrice Talia Shire (pseudonimo di Talia Rose Coppola) sono suoi zii mentre Sofia Coppola, Jason Schwartzman, Robert Carmine e Roman Coppola sono suoi cugini. Ha adottato il suo nome d’arte agli inizi della sua carriera, e ha spiegato di aver cambiato il suo cognome in omaggio al personaggio dei fumetti Luke Cage.
Colleziona fumetti
A proposito di fumetti: Nicolas Cage è un grande appassionato. Negli anni ha acquistato (e rivenduto) molti albi rari e nel 2007 ha creato un fumetto con suo figlio Weston («Voodoo Child», poi pubblicato dalla Virgin Comics).
Ha recitato in circa 117 film (e ha vinto un Oscar)
Nel corso della sua carriera Nicolas Cage ha recitato in circa 117 film, tra cui «Rusty il selvaggio» (diretto da suo zio Francis Ford Coppola, in cui ebbe il suo primo ruolo di spicco), «Stregata dalla luna», «Face/Off», «Birdy - Le ali della libertà» e «Ghost Rider». Nel 1995 ha vinto l’Oscar come miglior attore per la sua interpretazione in «Via da Las Vegas», quinto attore più giovane di sempre ad ottenere l’ambito riconoscimento (aveva 32 anni).
Ex marito di Lisa Marie Presley (e non solo)
La vita privata di Nicolas Cage è sempre stata parecchio movimentata. È convolato a nozze per la prima volta nel 1995 con l’attrice Patricia Arquette (lui le aveva fatto la proposta lo stesso giorno in cui si erano incontrati per la prima volta, nei primi anni Ottanta). I due divorziarono nel 2000 e due anni dopo Cage sposò la figlia di Elvis e di Priscilla Presley, Lisa Marie. La coppia in seguito ruppe a un mese e mezzo dalle nozze. Nel 2004 un nuovo matrimonio: con Alice Kim, cameriera di un sushi bar, da cui Cage un anno dopo avrà il secondo figlio Kal-el (il primo figlio, Weston, era nato nel 1990 dalla relazione con la modella Christina Fulton). Con Alice Kim è durata fino al 2016. Nel 2019 l’attore è andato nuovamente all’altare, questa volta con la make up artist Erika Koike, ma quattro giorni dopo ha chiesto l’annullamento. Il 16 febbraio 2021 infine si è sposato a Las Vegas con la 26enne Riko Shibata.
È una delle star più generose di Hollywood
L’attore è stato definito come una delle star più generose di Hollywood: in passato ha donato 2 milioni di dollari ad Amnesty International e 1 milione di dollari alle vittime dell'uragano Katrina. Inoltre è stato insignito di un premio umanitario dalle Nazioni Unite e nominato ambasciatore delle Nazioni Unite per la giustizia globale nel 2009 e nel 2013.
Conti in rosso (e guai con il fisco)
Generosità, ma anche eccessi: Nicolas Cage negli ultimi anni ha attraversato diversi guai finanziari, dai problemi con il fisco nel 2018 (il debito ammontava a 14 milioni di dollari) al rischio bancarotta per aver sperperato buona parte della sua fortuna tra auto, jet privati, yacht, gioielli, proprietà immobiliari, opere d'arte, animali e persino un teschio di tarbosauro (poi restituito al governo mongolo in quanto risultato rubato).
Cacciato da un locale di Las Vegas
Qualche mese fa, nel settembre 2021, è stato cacciato dal Lawry's The Prime Rib, una lussuosa steak house di Las Vegas, dopo aver litigato con un membro del personale. Alcuni testimoni hanno raccontato che «era così ubriaco che riusciva a malapena a mettersi le infradito prima di essere scortato fuori» e che «era in un pessimo stato e andava in giro senza scarpe. Il personale ci ha detto che aveva bevuto shot di tequila e whisky Macallan 1980».
Doveva essere Superman (ma sarà Dracula)
Forse non tutti sanno che negli anni Novanta Tim Burton avrebbe dovuto girare un film su Superman con Cage nei panni del supereroe, ma poi il progetto non è andato in porto. Se non è riuscito ad interpretare il suo personaggio preferito l’attore (che non a caso ha chiamato suo figlio Kal-el, proprio come il supereroe di Krypton) potrà consolarsi con il conte Dracula: lo interpreterà nel film «Renfield», il suo prossimo impegno cinematografico.
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2022.
«Sono passati vent' anni. Certo, mi piacerebbe vincere, già sono contenta che se ne parli, era da anni che non succedeva». Quattro candidature agli Oscar, una sola vittoria, The Hours di Stephen Daldry, nei panni impegnativi di Virginia Woolf. Era il 2003. Ma quest' anno Nicole Kidman spera in un bis per un ruolo che, come quello della grande scrittrice, ha accettato con riluttanza, per timore di non farcela.
Quello di Lucille Ball in Being the Ricardos di Aaron Sorkin al fianco di Javier Bardem, per cui ha vinto il Golden Globe. Al telefono dalla sua casa australiana, Kidman non fa finta che non le interessi: «Ho dedicato la mia vita al cinema, alla recitazione, a girare il mondo alla ricerca di storie da raccontare, a supportare i registi.
È la mia passione, sono stata molto fortunata a farlo per così tanto tempo». Quarant' anni. Ha cominciato giovanissima, in curriculum ha una novantina di film, oltre alla tv e all'attività di produttrice. «Con Aaron e Javier, ci siamo detti: "Siamo arrivati fino a qui, e salteremo dal tetto insieme". Vedremo come va».
Sembra essersi divertita parecchio nelle scene brillanti, come quella in cui pigia l'uva. Più commedie all'orizzonte?
«Ne sarei felice. Ora sono in Australia a prendermi cura di mia madre, che non sta molto bene. Sto con mio marito, le mie figlie, non sto lavorando adesso, vivo la mia vita normale. Ma mi piacerebbe tanto fare qualcosa di divertente, è liberatorio.
Quando ho visto il film con il pubblico e li ho sentiti ridere, è stata la sensazione più bella che potessi provare. È qualcosa che non conoscevo bene, faccio più spesso ruoli drammatici. Con la pandemia è ancora più importante. E il nostro film va in profondità, parla di resilienza, ispirazione, capacità di gestire il fallimento e rialzarsi, far nascere un successo da ogni fallimento».
Lucille Ball era un'attrice, fondò la sua compagnia di produzione, la Desilu, cercò la quadra tra lavoro e famiglia, aveva un marito musicista. Le suona familiare?
«Mi sono sorpresa nel trovare così tante cose in comune con lei, in cui potermi immedesimare tra vita privata e carriera. È stata una pioniera, non c'erano molti comici, figurarsi comiche. Voleva creare una compagnia di produzione, ma non c'era nessuno a cui ispirarsi, nessuna lo aveva fatto prima.
E poi la sua relazione con il matrimonio, con Desi, davvero una grande storia d'amore, dal punto di vista creativo e romantico. Hanno avuto dei problemi, come molti altri, e non ha funzionato alla fine, ma è quello che chiamerei un matrimonio di successo per ciò che hanno creato, la loro arte e i loro figli».
Ha iniziato a recitare a 14 anni, ha tenuto testa ai più tosti registi del mondo, a partire da Stanley Kubrick. Non le è venuta voglia di mettersi al loro posto?
«Ho visto al lavoro i più grandi, conosciuto la loro ossessione, la loro energia, so cosa vuol dire essere un regista. Ho due figlie che sto crescendo, mio marito, la mia carriera da attrice e produttrice, e penso di non avere quella cosa lì.
Non ho l'occhio, semplicemente non è la mia passione. Cerco di fare attenzione a come impiego il mio tempo, è davvero prezioso. Faccio al meglio la mia parte, recitare».
Nel 2002 ha fondato la sua casa di produzione, si aspettava che la tv avrebbe dato grandi soddisfazioni con serie come «Big Little Lies» o «The Undoing»? Ora avete in cantiere «Roar» e «Expats»...
«Sinceramente no, è stata una sorpresa vedere quanto la tv sia diventata forte, come riesca a intercettare pubblico diverso in tutto il mondo. Quando si riesce a tenere il livello del cinema, è una grandissima opportunità per registi, attori e scrittori.
E sono moto fiera che siamo riusciti a far lavorare le persone durante la pandemia, anche se è molto stressante. Abbiamo trovato modo di raccontare storie, contro ogni previsione. I film, gli show sono ripartiti, magari in maniere diverse, ma sono ancora lì. Lo trovo davvero molto toccante, perché le storie e l'arte, non verranno mai fermati. Sono felice di esserne parte».
Parla spesso di amicizia e sorellanza. Con Jane Campion siete legate da decenni.
«Mi pare da sempre. Lei conosce molte cose, è un'amica saggia. È molto curiosa, entrambe amiamo l'Italia, ci abbiamo passato tantissimo tempo, è così bello anche solo camminare a Roma.
Condividiamo idee, arte, filosofia, mi ha fatto scoprire Elena Ferrante abbiamo un'amicizia davvero profonda, è la cosa che importa. Mi sento davvero di ringraziarla. Questa è la vera bellezza del nostro lavoro. Non è solo per un film, ma un viaggio insieme per tutta la vita». Ama l'Italia, dice. E il cinema? «Anche. Vorrei tantissimo lavorare con un vostro regista. Luca, Paolo (Guadagnino, Sorrentino, ndr ), io ci sono».
· Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
«Carla Fracci, poco prima di morire, ci ha insegnato l’amore con Giselle». Alessandro Cannavò su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.
L’unione dei numeri primi (ballerini) è stata rivelata all’arena: proposta di nozze sul palco (con regia di Bolle). Qui Nicoletta e Timofej raccontano tutto dall’inizio.
Nicoletta Manni, 31 anni, salentina e il futuro marito Timofej Andrijashenko, 28, originario di Riga: si sposeranno il prossimo anno
Due minuti di gioia e romanticismo. A rivedere su Youtube la proposta di matrimonio che Timofej Andrijashenko ha fatto a Nicoletta Manni sul palcoscenico dell’Arena di Verona il mese scorso, verrebbe voglia di autosospendersi dalle pressioni dell’attualità e abbandonarsi alle favole. E non è certo un caso che quel video continui a essere protagonista sulla Rete. Sì certo, Nico e Timo non sono stati i primi, nel mondo dello spettacolo, a suggellare platealmente il loro amore in quello scenario. Ma stavolta c’è stata qualcosa in più: la grazia, l’eleganza che scaturisce dal balletto classico. Lui, chiaro e biondo con gli occhi azzurri che si inchina come un principe, il piede davanti ruotato “en déhors”; lei, soave bellezza mediterranea, che gli si avvicina incredula e sorpresa, eterea e con le mani al petto («davvero non mi era venuto il pur minimo sospetto, eppure in teatro lo sapevano da tre mesi; tutti nello staff artistico-tecnico, e persino i nostri genitori, sono stati coinvolti nell’organizzazione»); e poi i baci affettuosi e prolungati, gli abbracci intensi. E sullo sfondo, gli applausi di Roberto Bolle, vero regista di uno show fuori programma, padrino artistico di questa coppia lettone-salentina, entrambi primi ballerini della Scala. Ora beniamini, insieme, di un pubblico ben più vasto dei ballettomani.
La loro estate
Timo e Nico si sono goduti le vacanze a casa della famiglia di lei, in Puglia. «A Santa Barbara, California» precisa Nicoletta ironicamente. «È una frazione di Galatina, provincia di Lecce. Non c’è nemmeno un bar». «Sembra di stare nel Far West» aggiunge lui divertito. «Una strada dritta e due file di case ai lati». I soliti riti: al mare sullo Jonio o sull’Adriatico a seconda del vento e della folla, qualche sgarro culinario tra ciceri e tria, friselle, il polpo alla pignata, cicorie e fave. Per un po’ niente musiche di Ciaikjovskij o Profofiev, nelle orecchie la voce di Giuliano Sangiorgi e di Diodato. «Abbiamo un’ammirazione per Raphael Gualazzi, conosciuto in una Notte della Taranta», dicono insieme. Nell’estate dei rimbombi di guerra, dell’incubo siccità, degli spettri energetici, bello pensare a questa voglia di normalità di una coppia che unisce il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest. In nome dell’amore. «Sì, ci dicono che abbiamo un’aura d’altri tempi» affermano insieme. «Forse perché siamo partner sul palcoscenico già prima di esserlo nella vita. Quel mondo di romanticismo in qualche modo influisce nella nostra vita quotidiana».
TIMO: «LA INVITAVO A CENA, L’ACCOMPAGNAVO AL TRAM, MA LEI NIENTE»
NICO: «NON AVEVO CAPITO! ORA LUI MI PARLA IN DIALETTO LECCESE»
Carattere d’acciaio
Fuori dalla scena, la bellezza e la nobiltà un po’ altera dei loro personaggi lascia il posto alla naturalezza di una coppia navigata. Giselle e Albrecht, Giulietta e Romeo, Marguerite e Armand diventano due fidanzati che si intendono con uno sguardo e si completano a vicenda le frasi . Nicoletta ora sfoggia al dito un bellissimo solitario: «La nostra professione si basa sulla disciplina, il rigore e su tanto allenamento fisico, ma io in più caratterialmente sono molto decisa, determinata, devo avere tutto sotto controllo. Ecco perché questa sorpresa della proposta di matrimonio mi ha spiazzato, mi ha messo in discussione. Lui no, lui è molto istintivo». Tosto Timo nel cercare di conquistare il cuore di Nicoletta. «L’ho corteggiata per un bel po’, le portavo fiori, la accompagnavo alla fermata del tram, la invitavo a cena. Ma lei niente…». «Io non avevo proprio capito» sorride lei. «Per me Timo era solo un compagno di lavoro con cui si era creata una grande amicizia. Poi alcuni colleghi mi hanno aperto gli occhi… Per un po’ mi sono distaccata, avevo paura che si rovinasse tutto. E poi ero in linea di principio contraria ad avere una storia con un collega...» Lui: «Ti sei allontanata un mesetto…» Lei: «No, di più». Lui (con un po’ di ironia): «Ho cercato di distrarmi in quel periodo ma il mio cuore rimaneva qui. E comunque è stato nulla rispetto al risultato che ho raggiunto».
I due ballerini fidanzati: Nicoletta viene dalla Puglia, Timofej è di Riga, in Lettonia, ma si è trasferito a Genova per studiare danza quando aveva 14 anni.
La determinazione di Timofej
La determinazione di Timofej è già nel suo perfetto italiano, attento ai congiuntivi, con una leggera cadenza meridionale. Gli piace fare le battute in salentino: Frate meu, nu sai ci sta passu, fratello mio, non sai che sto passando. «Neppure le parolacce gli vengono in russo» dice lei. «Io ho tentato di impararlo, anche perché quella lingua è una sonorità molto presente nel nostro lavoro». «Macché, hai fatto tre lezioni e i compiti te li completavo io», ribatte lui. La tempra di Timofej è stata forgiata a Riga, «bella città con il bosco a ridosso e il mare vicino. Ma il tempo è orribile. Al balletto ci sono arrivato per punizione. Alle elementari ero un bambino pigro e svogliato, non facevo i compiti, mi annoiavo a scrivere. Così i miei genitori mi spedirono all’Accademia statale di danza, nota per la sua disciplina militaresca. Insomma, fare il ballerino poteva essere una salvezza per raddrizzare il mio carattere, e poi avevo già fatto karate e possedevo una flessibilità fuori dal comune, riuscivo già nelle spaccate, tenevo la gamba dritta in alto ferma, per un bambino una cosa rara». Nessun pregiudizio dei compagni per la scelta della danza classica? «Altro che! Vivevamo in un complesso di palazzoni di periferia in stile sovietico, costruiti con un grande cortile comune. Quando dissi questa cosa ai miei amici di giochi, mi arrivò ogni tipo di insulto. I bambini sanno essere molto cattivi, noi poi eravamo lasciati un po’ allo stato brado, da mattina a sera in questo spazio condominiale. Fu pesante, poi però tra scuola e lezioni di danza non ebbi più tempo per giocare: sparii dalla circolazione».
Il salto di Nicoletta, a 12 anni da Lecce alla Scala di Milano
Anche Nicoletta è stata una bambina chiamata a scelte da adulta. Ma in questo caso per sua libera volontà. «Mia mamma è un’insegnante di danza che conduce due scuole a Mesagne e a Copertino, sono cresciuta col balletto. A 12 anni ho chiesto di poter fare l’esame di ammissione alla Scala. Siamo partiti tutta la famiglia col treno notturno: io, mamma, papà, che è un informatico della Sanità, e il mio fratellino di due anni, ne ha dieci anni meno di me. A scuola ero un anno avanti e dunque ho dovuto sostenere anche per la danza un esame destinato alle bambine più grandi di me. Andò bene. Stavo dalle suore. Tutto all’inizio mi sembrava meraviglioso, poi mi accorsi che le altre compagne ospiti, originarie di città non lontane da Milano, nel fine settimana tornavano a casa. Allora mi veniva la malinconia. Così ho cominciato a tornare a casa anch’io un weekend sì e uno no. Mamma prenotava il vagone letto per sole donne e si faceva passare al telefono tutte le occupanti».
Timofej, l’arrivo in Italia e il legame con la famiglia
Timo invece, scoperte le sue doti a Riga, arrivò in Italia a 14 anni per continuare gli studi al Russian College di Genova. «Mi accompagnò mio padre, che è morto dieci anni fa. A lui piaceva il balletto; a Mosca, da studente di medicina, andava a vederlo al Bolscioi, allo Stanislavskij, al Cremlino. La mamma no, lei ha lavorato come impiegata al dipartimento di Polizia di Riga. Viene agli spettacoli solo perché ci sono io. Bello, siete stati bravissimi, mi dice. A volte le chiedo: ma ci hai capito qualcosa? E la metto in crisi… Alla fine di ogni spettacolo, penso sempre a cosa avrebbe detto di me papà».
La guerra
Non è facile organizzare questo matrimonio che entusiasma il mondo della danza scaligero, «una famiglia con tante coppie». Agli impegni professionali si aggiungono le difficoltà della guerra in Ucraina nel far arrivare i parenti in Italia. Per Timofej, al di là della tragedia dei bombardamenti, si tratta di una crisi identitaria per tutto l’Est europeo. «Mio padre era di San Pietroburgo, ho parenti in Russia e in Kirghizistan, dove furono deportati da Stalin per popolare zone disabitate dell’Urss; e anche in Ucraina. Il governo della Lettonia vuole marcare la distinzione dalla Russia ma ora è difficile recidere il cordone ombelicale, bisognava pensarci quando abbiamo ottenuto l’indipendenza. E poi si sa che siamo un Paese off shore degli oligarchi di Mosca». «Mi ha colpito che a Riga nei negozi, Timo parla in russo come fanno tutti, ma le commesse sono obbligate a rispondere in lettone», aggiunge lei. Riprende Timo: «Quest’anno per il 9 maggio, giorno in cui si celebra la fine della seconda guerra mondiale, non è stato possibile deporre i fiori al monumento della Vittoria. Tutto transennato, sono stati i poliziotti a portarli sotto la statua e all’alba del giorno dopo le ruspe hanno spazzato via tutto. C’è stata una protesta pacifica, la gente ha riportato i fiori, sono avvenuti scontri e qualche arresto. Ma ognuno di noi ha da commemorare un padre o un nonno che ha combattuto in quella guerra. Non mi sembra giusto quello che è successo». E poi le polemiche sulla compresenza di ballerini russi e ucraini nei galà di beneficienza per le vittime della guerra. «Ci sono rimasto molto male, nella mia ingenuità ho sempre visto l’arte come una salvezza, uno strumento di pace e fratellanza». «Oltretutto si contestano artisti russi che vivono in Occidente e hanno dunque fatto una chiara scelta di distacco dalle autorità di Mosca», aggiunge Nicoletta.
L’equilibrio tra corpo e mente
È un mondo, quello del balletto classico, intriso di cultura russa: nelle storie danzate, nella tecnica, negli esempi. «Il personaggio che mi ha fatto crescere è stato Tatjana nell’ Oneghin insieme con Marguerite nella Dama delle camelie: richiedono maturità interpretativa più che tecnica», dice Nicoletta. E Timo: «Armand nella Dama: devo passare repentinamente dalla disperazione di vedere all’asta tutto il mondo di Marguerite alla felicità della rievocazione del loro amore. Un teatro nel teatro». Ma dove sta l’equilibrio tra forza e bellezza, tra corpo e mente? Qui i due anni e mezzo in più di Nicoletta rispetto a Timofej fanno la differenza. «A 31 anni sono nell’età in cui devo riuscire a raggiungere il massimo delle possibilità del corpo ma con l’esperienza artistica acquisita. È una finestra di tempo breve in una carriera peraltro molto corta». «Il corpo dotato è un’ottima base ma serve poco se non si sviluppa un’intelligenza motoria», dice Timofej, che non ritiene ancora di aver raggiunto i vertici delle sue potenzialità. E la concentrazione? Timo e Nico hanno a questo proposito un aneddoto legato alla serata dell’Arena. Racconta lei: «Abbiamo ballato il passo a due del Romeo e Giulietta di McMillan, un’opera passionale, spensierata e poi drammatica, dunque ancora più tragica nell’epilogo. Mia madre ogni volta si commuove e mi dice: basta, non voglio più vederti morire in scena. Ci sono anche dei momenti tecnici piuttosto complicati, lui a un certo punto è in ginocchio e lei si deve avvinghiare a un suo braccio teso». «Ma quella sera ero troppo concentrato sulla sorpresa di fine spettacolo» riprende Timo. «Ho avuto un black out, non ho teso il braccio». Lei: «Gliel’ho sussurrato… braccio!! Ma lui ha capito abbraccio!! E mi ha abbracciata…». Una variazione coreografica non proprio irrilevante.
La danza come sinonimo di libertà
Che valore ha la danza classica in un’epoca di talent, di nuovi sport, di visibilità social? Lei: «Per quanto possa essere associata al rigore, nelle costrizioni delle posizioni, dei passi accademici, per noi è sinonimo di libertà. Mi sento libera di essere me stessa o diversa da me stessa. Mi aiuta a conoscere la mia personalità». Lui: «Mi fa sentire vivo, anche quando sto male nell’immedesimarmi in certi personaggi. Faccio delle strategie per cambiare il loro carattere da una recita all’altra. Albrecht in Giselle lo posso rendere snob, un ragazzo che con Giselle vuole solo divertirsi; oppure in un’altra recita un giovane annoiato e triste di stare nella sua dimora ed è in cerca di un vero amore». Lei: «Non saremo mai popolari come i cantanti pop ma i social ci avvicinano molto al pubblico». Lui: «Commovente quando ti scrivono che abbiamo regalato momenti di bellezza in un periodo brutto della vita. Capisci che non facciamo solo intrattenimento».
Nicoletta Manni tra Roberto Bolle, guest artist al Royal Ballet, e Timofej Andrijshenko. Bolle è il primo ballerino al mondo a essere stato Etoile della Scala di Milano e Principal Dancer dell’America Theatre Ballet di New York.
Carla Fracci e Roberto Bolle
«Ragazzi, ricordatevi quanto in scena sia importante dare valore a ogni gesto, a ogni sguardo» disse loro la “signora Fracci”. «Trascorse un paio di settimane con noi in preparazione della nostra Giselle, poco prima di morire. Un dono inestimabile». E poi c’è Bolle: «Per me un’icona» dice Timofej. «Le sue variazioni sono un manuale della danza». «Un esempio di costanza, impegno e professionalità. E anche di umiltà. Mi ha invitata sin da molto giovane nei suoi spettacoli in tour e in tv, mi ha voluto come sua partner. Ha avuto coraggio», aggiunge Nicoletta.
Il matrimonio
Il matrimonio, si spera, nel 2023; più prudenza per l’orizzonte dei figli. Quanti ne vorreste? «Non veniamo da famiglie numerose: diciamo due». Per ora basta la casa sui Navigli che hanno messo su con meticolosa dedizione. Ma dove vi immaginate fra vent’anni, quando non ballerete più? «A Sud, al mare», dice subito Timo. «È lui che ha l’animo terrone» commenta Nicoletta. «In fondo, in Puglia ci sono tanti ragazzi normanni, biondi e con gli occhi azzurri: non è un marziano».
Il bacio tra i due ballerini dopo la proposta di matrimonio fatta da Timofej all’Arena di Verona.
· Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 23 maggio 2022.
«Le passo la signora», risponde dall'altra parte del telefono l'assistente di Patty Pravo. La cantante si avvicina alla cornetta una decina di secondi più tardi. «Buongiorno», dice con calma. Sono le 15.30. In questi giorni, a 74 anni, il suo calendario è pieno. La voce di Pazza idea sta girando l'Italia con il tour Minaccia bionda, condividendo i palchi dei teatri con l'amico Pino Strabioli per ripercorrere tra canzoni e aneddoti una straordinaria carriera ultracinquantennale da 120 milioni di dischi venduti (farà tappa al Parco della Musica di Roma giovedì).
Lo stesso Strabioli, nella prefazione al libro che dà il titolo alla tournée, l'ha definita «un'opera d'arte» vivente, capace di attrarre poeti come Léo Ferré e Vinícius de Moraes, artisti come Tano Festa e Mario Schifano (nel suo studio a Campo de' Fiori, nel 66, mentre Ragazzo triste si preparava a scalare le classifiche, incontrò pure degli strafatti Rolling Stones), musicisti come David Bowie e Jimi Hendrix (girarono per Roma di notte fumando una canna a bordo di una Cinquecento, prima di essere fermati dalla polizia lo racconta nel libro La cambio io la vita che). «Mai guardarsi indietro, nella vita», è la sua filosofia.
Non ha mai pensato di chiedere a qualche sceneggiatore di trasformare il libro in un film?
«Onestamente un'operazione del genere non mi interessa, nonostante il genere stia andando parecchio».
Perché?
«Non mi piace ripensare al mio passato. Non passo le giornate a guardarmi indietro. Guardo avanti, piuttosto».
Il suo presente com' è?
«Pieno di impegni. Sto lavorando a un nuovo disco, il primo dopo tre anni. Conterrà brani inediti».
L'attrice perfetta per il ruolo della protagonista di questo ipotetico film?
«Non ne ho la più pallida idea. Lei mi fa delle domande alle quali non so davvero come rispondere. Ma non dovevamo parlare dello spettacolo?».
Certo. Ma racconta il suo passato, e lei ha detto che preferisce guardare avanti.
«Il fatto è che non sono una nostalgica. C'è da dire, però, che a Roma sarà una serata speciale, quanto a ricordi. Gioco in casa. Avevo 17 anni quando arrivai al Piper».
Come ci arrivò?
«Partendo da Londra a bordo di un Maggiolino bianco. Mi aveva parlato del locale un ragazzo italiano che avevo conosciuto a Londra, dove mi ero trasferita per studiare la lingua. Erano gli anni dei Beatles. C'era un profumo particolare, che si percepiva in tutto: nei ragazzi, nella musica, nei club, nelle idee. Lo ritrovai tra le pareti del locale di via Tagliamento, che diventò nel giro di poco tempo il crocevia principale per la musica dal vivo in Italia».
È vero che al Piper litigò anche con i Pink Floyd?
«Sì. Vennero a suonare a Roma nel 68. Accusarono me e il dj Beppe Farnetti di avergli rubato l'idea di un effetto psichedelico di luci da proiettare sui muri durante i concerti. Uno di loro si avvicinò tutto serio: L'idea è nostra. Andai su tutte le furie». Come finì? «Capì che avevamo avuto la stessa pensata. Mi tese la mano: Piacere, Roger Waters».
Le hanno detto che Virginia Raffaele la imita a teatro? «Sì, l'ho saputo. È brava, no?». Non se l'è presa?
«Avrei dovuto?».
Ornella Vanoni non fu contentissima della sua imitazione: Mi fa passare per una rimbambita, disse.
«Io ci ho riso su. Ci siamo divertite insieme».
Le capita mai di passare davanti al Piper, oggi?
«È successo una volta e ho provato tristezza. La magia svanì già negli Anni '70, con la disco music. Buttarono via anche i dipinti di Warhol. Peccato che nessuno abbia fatto niente per valorizzarlo come luogo di culto, come il Cavern Club di Liverpool».
Alessio Poeta per Chi il 30 marzo 2022.
«Stia in silenzio e si guardi attorno. Poi, lentamente, chiuda gli occhi e si affidi totalmente alla bellezza». Un tramonto, il rumore del vento e il garrito incessante dei suoi amati gabbiani.
«Li sente?», domanda emozionata. È racchiuso qui, in una terrazza in pieno centro storico a Roma, a pochi passi dal Quirinale, il concetto di serenità di Patty Pravo. Creatura mitologica e ultima diva della musica italiana sospesa, da sempre, tra sacro e profano. Leggenda per molti, opera d’arte per altri, si prepara alla partenza della “sua” Minaccia Bionda: «Più che una tournée, un viaggio».
Domanda. Direzione?
Risposta. «La vita! Sarà uno spettacolo diverso. Un vagabondaggio continuo tra canzoni, aneddoti e filmati, con la voce narrante di Pino Strabioli. Chiudo qui, dopo un libro e una prima serata su RaiUno, un capitolo importante della mia vita».
D. Poi?
R. «Assisterò alla mia ennesima evoluzione».
D. Quante ne ha avute?
R. «Non ne ho memoria: i ricordi non fanno parte del mio Dna e lasciarsi catturare dalla nostalgia, mi creda, è soltanto uno spreco di energie. Sono sempre stata interessata a far capire ciò che sono e non quel che ero».
D. Per vivere bene, quindi, meglio rimuovere?
R. «Non cancello, ma voltarsi indietro può essere pericoloso, oltre che di una tristezza infinita. A oggi ho sempre seguito l’istinto e il mio faro è, tuttora, l’incoscienza».
D. Il 9 aprile compirà 74 anni.
R. «Lo scriva: in quei giorni sarò nel pieno delle prove. Chi mi conosce sa che la mia posizione sul compleanno non è poi così stabile. Gli auguri fanno piacere, per carità, ma potrei farne tranquillamente a meno. Solo una volta ci rimasi malissimo, salvo poi scoprire che non era il mio genetliaco. Avevo sbagliato data» (ride, ndr).
D. Da ragazzina era indecisa se morire nel pieno della vita o alla fine del cammino...
R. «La morte è un passaggio. Quella dichiarazione la feci agli inizi della mia carriera. Mi dissi: “È un miracolo se arriverò sana e salva ai 30 anni”».
D. Ribelle e rivoluzionaria, è stata la prima a parlare d’indipendenza, libertà sessuale, divorzio.
R. «La mia vita, in qualche modo, rispecchiava quei valori lì. La Bambola divenne un inno femminista a mia insaputa».
D. All’anagrafe lei è Nicola: nome maschile.
R. «Mai avvertito come un problema. A Venezia mi chiamavano tutti Nina. Successivamente diventai Nicoletta, Guy Magenta e, infine, Patty Pravo. Io, per dovere di cronaca, mi chiamo “la Strambelli”. Amo l’originalità del mio cognome: “strambi, ma belli”».
D. La sua sessualità, almeno all’inizio, era elemento di discussione...
R. «Pensavano tutti fossi un uomo! Andarono persino da mio padre per averne conferma».
D. E lei?
R. «Ci risi su. Del resto, anche se fosse, dove sarebbe stato il problema? Una smentita, poi, non è nient’altro che una notizia data due volte».
D. Così come una mancata smentita conferma una sconveniente verità..
R. «Hanno iniziato a scrivere di me quando avevo 17 anni e, a oggi, non hanno ancora smesso. Sa quante cose avrei dovuto rinnegare? È stato detto e scritto di tutto: eccessi, droghe mai viste, amori inesistenti, viaggi mai fatti. Oggi, forse, mi vogliono più bene, ma in passato, per disintossicarmi da certe chiacchiere, scappai persino all’estero».
D. Scrissero: “Patty Pravo alla deriva economica”.
R. «Mentre vivevo allo Chateau Marmont di Los Angeles!» (ride, ndr).
D. Libera e innamorata?
R. «Libera, sempre. Innamorata, talvolta».
D. Cos’ha capito dell’amore?
R. «Che non sono solo farfalle nello stomaco. L’amore è un mare profondo dove perdersi».
D. Cinque mariti non se li possono permettere tutti.
R. «Il primo fu Gordon Faggetter, il batterista dei Cyan Three. Ci promettemmo che se ci fossimo lasciati non avremmo mai avuto un figlio con nessun altro».
D. Rimpianti?
R. «Nessuno: un figlio non è possibile con la vita d’artista».
D. Poi?
R. «Seguì Franco Baldieri – l’unico che non aveva a che fare con la musica – Riccardo Fogli e i due Paul: Martinez e Jeffrey».
D. Con gli ultimi due fu un “threesome”, un triangolo...
R. «Casuale, nulla di voluto. Ai tempi sembrava impensabile, oggi è normalità. Vivevamo anche assieme. L’ultimo fu Jack Johnson: da lì tutte le chiacchiere su bigamia e trigamia».
D. Potrebbe sposarsi di nuovo...
R. «Ma per carità! L’amore si trasforma, mentre i matrimoni finiscono, tutti. Per onestà, agli uomini che ho amato ho mostrato subito il peggio di me, così da evitare brutte fregature».
D. Qual è il suo lato peggiore?
R. «Ho un carattere importante. Che poi, nell’ultimo periodo, mi sono anche piuttosto addolcita: la pandemia mi ha cambiata...».
D. In?
R. «Direi “in meglio”. Chieda a Simone (Folco, ndr), il mio braccio destro».
D. Quasi 50 anni in meno. È con lui che esercita la parte accuditiva?
R. «È il contrario: è lui che la esercita su di me, tenendo a bada il mio temperamento. Abbiamo un’affinità elettiva fuori dal comune. Un lampo amoroso di natura diversa».
D. Il primo?
R. «A 14 anni. Nevicava molto e, invece di andare a scuola, provai il sesso in un campo innevato. Piacere carnale e visivo. Poi tornai a casa, lo dissi ai nonni e chiesi loro se potevo tornarci nel pomeriggio. Ci tornai».
D. L’ultimo?
R. «Qualche tempo fa. Oggi ci sentiamo: telefonate, messaggi e niente più».
D. Lei è cresciuta con i nonni paterni.
R. «Infanzia felice, a riprova che la differenza la fa chi ti cresce e non ti chi ti mette al mondo».
D. I suoi genitori?
R. «Belli e sfortunati. Arrivo da un parto difficile e doloroso, nato da un amore prematuro, che portò mia madre a vivere fuori da tutto e tutti. La prima a prendermi in braccio fu proprio nonna Maria: donna speciale. Libera e liberale. Io e mamma ci ritrovammo superati i miei 50 anni».
D. Odio, rabbia e rancore nei suoi confronti?
R. «Tre sentimenti che non mi appartengono. L’amore trionfa, assolvo tutto e tutti».
D. La depressione l’ha conosciuta?
R. «Mai. Un solo attacco di panico nel 2014».
D. E ha mai dato un volto o un motivo a quel crollo emotivo?
R. «No, perché è arrivato così, d’emblée. Non ho chiamato nessuno e me la sono gestita in solitudine».
D. L’autodiagnosi?
R. «Stress».
D. Che cosa le genera ansia oggi?
R. «La guerra: mi sento male solo a parlarne. Che ne sarà di quei bambini, di quelle donne e di tutte quelle famiglie? E del domani?».
D. Lei, il suo domani, come se lo immagina?
R. «Vediamo cosa mi prospetterà il futuro. L’incoscienza è tutta qui».
D. Prega?
R. «Mai! Non ho fede. A monsignor Roncalli, che frequentava casa nostra prima di diventare Papa, dissi che non volevo entrare nell’esercito del Signore. Si fece una risata e invitò nonna a lasciarmi libera nei miei dubbi. “Avrà tempo di trovare le sue risposte”».
D. E a conti fatti?
R. «Non le ho ancora trovate, ma non è finita qui».
Niccolò Fabi, festa in Arena: «Una carriera di vita e verità». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.
Domenica 2 ottobre show per i 25 anni di musica: all’esordio non mi riconoscevo nel personaggio
Il toro non è il primo animale cui viene in mente di paragonare Niccolò Fabi. Più che alla potenza steroidea, alla forza virile, la musica del cantautore ha preferito affidarsi alla fragilità e alla delicatezza della ricerca sentimentale. Eppure è quello il parallelo che Niccolò si è scelto in «Di aratro e di arena», canzone inedita che ha voluto mettere a chiusura della scaletta dello show di domenica 2 ottobre all’Arena di Verona con cui ha celebrato 25 anni di carriera: «Una canzone astrologica più che zoologica — spiega il cantautore —. Anni fa qualcuno mi disse che nelle caratteristiche del mio segno zodiacale c’era una coesistenza fra due elementi distanti: il muscolare, l’essere votato alla fatica e all’impegno nell’ombra; e una predisposizione alla vanità, all’essere al centro dell’attenzione».
Al centro del palco dell’Arena c’è lui. In solitudine, voce, chitarre e racconto, per la prima parte del concerto, mentre nella seconda si fa accompagnare dall’orchestra Notturna Clandestina, diretta da Enrico Melozzi, e da Roberto Angelini (chitarra) e Filippo Cornaglia (batteria). «Il principio guida è stato quello di spingere sugli estremi e dare a livello emotivo il massimo sia per sottrazione che per addizione — racconta —. Ecco allora la sensazione di solitudine, l’uomo piccolo in un luogo così grande, le basi comunicative elementari, e l’opposto diametrale, il suono esponenziale dell’ensemble arricchito da elementi elettronici».
Gli anni rappresentati nella serata, però, sono solo 24, mancano del tutto le canzoni dell’album di debutto, quello lanciato da un tormentone come «Capelli» che Sanremo Giovani 1997 trasformò Niccolò in un teen idol... «La mia prima apparizione nel mondo spettacolo è stata traumatica. Si era costruito, attraverso radio e tv e per fortuna che all’epoca non c’erano i social, un personaggio mediatico con cui avevo difficoltà a colloquiare. Non reputo le canzoni di quel periodo al di sotto della dignità artistica, ma non era quello che volevo fare. Di “Capelli”, ad esempio, venne cambiato l’arrangiamento. Erano altri a guidare la macchina. Col secondo album mi sembrava di essere in un frullatore, ho messo la mano fuori dal finestrino e mi sono aggrappato al palo per fermare tutto: da quel momento le due rette, quella del personaggio con il mio nome e la mia si sono avvicinate».
Non è ancora il momento per far pace con quell’epoca. «Non so se capiterà mai. E anche rifare “Capelli” in un modo diverso, come mi sono sentito forzato a fare in passato, scontenterebbe tutti: quelli a cui piace e quelli che non la sopportano». «Di aratro e di arena» e la ballad «Andare oltre», uscita nelle scorse settimane, sono le due canzoni nuove che andranno a completare «Meno per meno», album in uscita il 2 dicembre, in cui Fabi rileggerà il suo repertorio con l’orchestra.
Ha abituato chi lo ascolta al cambiamento, al non affidarsi alla comfort zone: l’ultimo «Tradizione e tradimento» era cantautorato che si appoggiava a degli inserti elettronici; quello prima, «Una somma di piccole cose», era nato in una casa ed era poco più di voce e chitarra. In futuro potrebbe essere punk... «Sono curioso pure io, ma credo che ci dovrà essere una forte discontinuità... Non posso prescindere dalla verità e dalla vita, ma potrebbe essere qualcosa di spigoloso e acuminato, magari mettendo meno emotività per poter giocare di più». Nelle regole, però, non c’è un altra partecipazione a Sanremo, per chiudere il cerchio con il passato: «Non fa parte dei miei giochi. Il Festival è una cosa troppo seria per me».
Giulia Turco per fanpage.it il 3 novembre 2022.
Nina Moric fa impazzire Francesca Fagnani. Una lunga e confusa intervista quella andata in onda nella puntata di Belve di mercoledì 2 novembre, in cui la giornalista fatica a seguire il filo del discorso di Moric che si contraddice a distanza di pochi minuti, che afferma e smentisce se stessa ogni tre per due.
Dal suo passato e le presunte violenze subite dai genitori, il matrimonio travagliato con Fabrizio Corona e il rapporto di oggi con il figlio Carlos, fino al suo periodo di "estrema destra".
Le presunte violenze da parte dei genitori
Che belva si sente Nina Moric? "Una volta avrei detto pantera, oggi invece sono un essere umano, che è la bestia più feroce di tutte", spiega fiera della risposta. "
Mi sono sempre spogliata mettendomi a nudo, ma non ho mai perso la dignità. Sono fiera della donna che sono oggi. Il mio nome? L'ho tatuato sul braccio per paura di perdermi". È un susseguirsi di dichiarazioni delle quali è difficile tenere il filo. "Dicono che sono malata di mente, ma nessun medico me lo ha mai diagnosticato". Fagnani la mette davanti ad alcune sua dichiarazioni passate, quando ammise di aver subito violenze psicologiche, dalla sua famiglia. Ma di una cosa è certa: "Non sono una bugiarda, oggi dico la pura verità. In passato mi sono creata delle verità parallele".
Ogni volta in base a come mi sentivo davo una versione diversa, magari non è accaduto niente, magari devo solo ricordarmi che ho avuto due genitori che hanno fatto del loro meglio. Si tratta di auto flagellazione. Mi sono fatta soltanto del male da sola.
Il rapporto con Fabrizio Corona e il figlio Carlos
"Nella mia vita è sempre mancato un punto fermo, una famiglia", ammette. "Con Corona eravamo due persone infelici, entrambi molto fragili". Ecco perché la situazione sarebbe sfociata nel caos più totale. Tra gli episodi più dolorosi le accuse dell'ex marito di aver rubato 50mila euro. Corona coinvolse anche il figlio Carlos. "Da mio figlio non me l'aspettavo. Non ho mai rubato nulla. La cosa più triste è che mi abbia attribuito un valore economico, come se valessi quei soldi. Carlos non ha rancore nei miei confronti, ha solo paura del padre e come madre io non sento di aver sbagliato nulla".
La vicinanza a Casapound nel periodo Favoloso
Fagnani ripercorre il periodo di estrema destra di Nina Moric. “Ma quale donna di destra”, smentisce lei. “Sono dislessica, non so neanche qual è la destra e la sinistra. Ho abbracciato quella battaglia, ma non capivo niente. Sono stata manipolata per interessi di altri”.
Al suo fianco in quel periodo c’era Luigi Favoloso e la modella arrivò persino a volersi candidare per Casapound. La giornalista è spiazzata dai suoi continui giri di parole, che la confondono: “Lei si è sempre dichiarata di destra. Ora dice che lo ha fatto perché è stata manipolata, ma non gliene importava nulla. Però non lo rinnego”. Nina Moric sbotta: “Allora vedi che non mi segui”. Fagnani chiude con classe: “No no, ci sto provando, in tutti i modi”.
Dalla malattia della madre all'allontanamento del figlio: la crisi di Nina Moric. Novella Toloni il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.
La modella croata ha raccontato il difficile momento che sta attraversando tra la malattia della madre e i complicati rapporti con gli uomini e l'ex compagno.
Nina Moric torna in televisione e lo fa con un'intervista toccante e a tratti complicata. Difficile per lei parlare degli ultimi mesi, nei quali ha preso le distanze da Fabrizio Corona, è stata travolta dai gossip e si trova ad affrontare la malattia della madre. "Sono in una fase transitoria della mia vita. Sto tornando in Croazia perché mia mamma non sta bene: ha la demenza senile. Voglio starle vicino e cercare di dare un equilibrio alla mia vita", ha raccontato la Moric a Verissimo.
Ospite nel salotto televisivo di Silvia Toffanin, Nina Moric ha parlato degli ultimi mesi, un periodo che la sta mettendo a dura prova. La modella croata è stata lontana dalla televisione negli ultimi due anni e si è concentrata su se stessa e sul figlio Carlos Maria. Ma questo non l'ha tenuta lontano dalle difficoltà. "Il mio passato mi perseguita nonostante abbia cercato di nascondere i miei demoni. Non sempre si riescono a gestire le cose come si vorrebbe", ha confessato nell'intervista rilasciata a Verissimo in onda sabato 26 marzo.
Quella felicità ritrovata al fianco dell'ex compagno, Fabrizio Corona, e del figlio Carlos Maria - mostrata sulla prima pagina del settimanale Chi ad agosto 2020 - sembra essere solo un lontano ricordo. La modella ha rivelato di avere preso le distanze da Corona: "Con lui non ci sono rapporti. Per il mio benessere, mi devo voler bene. Se continuo con questa cosa non ci sarà mai un lieto fine". Complesso anche il rapporto con il figlio che oggi, ha confessato: "Non sta più studiando e questo mi spiace. Per lui sono e sarò sempre un porto sicuro, lo amo più della mia stessa vita".
Nina Moric: "A 16 anni sono andata via di casa"
Oggi Nina Moric è concentrata sulla madre e sulla sua salute. Parlare di amore e uomini non le interessa. Dopo la fine della tormentata relazione con Mario Luigi Favoloso e la storia con un ragazzo più giovane di lei, Nina ha messo da parte l'amore: "Non credo più di essere capace di essere una compagna. Ormai mi sono svuotata, sono diventata cinica. È meglio che gli uomini stiano lontano da me perché potrei essere soltanto un danno". La modella ha confessato di essere scesa più volte a compromessi pur di non sentirsi sola. Una scelta che oggi non vuole più fare.
Verissimo, Nina Moric furiosa: "Terzo grado?", la domanda scomoda sul figlio di Silvia Toffanin. Libero Quotidiano il 26 marzo 2022.
Non è mancato un momento di tensione nello studio di Verissimo tra Silvia Toffanin e Nina Moric. Quest’ultima mancava dalle scene televisive da un po’ di tempo e ha scelto in contenitore storico del sabato pomeriggio di Canale 5, anche se poi non ha gradito alcune delle domande, che erano doverose, dato che se si parla ancora della Moric è anche per via dei rapporti con il figlio Carlos e con l’ex Fabrizio Corona.
La 45enne croata è apparsa a tratti irrequieta, soprattutto quando si è parlato di suoi figlio, al punto da non aver voluto guardare le immagini che la ritraevano assieme a lui. Al rientro in studio la Toffanin ha provato a indagare su questo atteggiamento, provocando la reazione scomposta della Moric. “Ma è un terzo grado?”, ha affermato con un sorrisetto piuttosto infastidito. La Toffanin le ha risposto con il solito garbo che la contraddistingue: “No, non è un terzo grado. Se non ti va di parlarne…”. “Sono stufa di avere sempre questo bagaglio in ogni trasmissione”, ha aggiunto la Moric.
La quale poi ha provato a cambiare discorso: “Non voglio venire in tv in queste vesti da vittima. Io sono grande, emancipata ed evoluta. Ho 45 anni, non sono una ragazzina. Sono in una fase transitoria: sto tornando in Croazia perché mia madre non gode di buona salute, ha la demenza senile, ma alla fine sta meglio di noi perché meglio dimenticare certe cose”.
Andrea Pelagatti blitzquotidiano.it il 14 gennaio 2022.
Nel corso dell’ultima puntata del Grande Fratello Vip, il chirurgo Giacomo Urtis ha svelato una notizia di gossip ad un’altra concorrente Sophie Codegoni. Secondo il suo racconto, avrebbe avuto una relazione a tre con Fabrizio Corona e quella che all’epoca era sua moglie Nina Moric. Sulle sue dichiarazioni, è intervenuto lo stesso Corona. Infatti l’ex fotografo dei vip ha scritto sui social: “Amore mio unico grande e solo… era un nostro segreto… dai!”.
“Lui non ne ha mai fatto mistero. Vivevo in Sardegna e non conoscevo nessuno. Mi ha presentato tutti lui… Mi diceva di andare a vivere da lui. Ci siamo conosciuti in aeroporto. Ho visto un braccio tutuato, pieno di gioielli, mi sono girato e ho detto ‘Piacere Giacomo’, e lui ‘Piacere Fa….”.
La replica di Fabrizio Corona a Giacomo Urtis attraverso Instagram
Le dichiarazioni di Urtis hanno scatenato un polverone sul web e sui siti di gossip. Così Corona ha preso la palla al balzo e ha commentato nel seguente modo tramite Instagram: “Amore mio unico grande e solo… era un nostro segreto… dai!”.
Insomma, l’ex fotografo dei vip ci ha scherzato su ma allo stesso tempo non ha nemmeno smentito questa notizia di gossip. Purché se ne parli…
Dagonews il 14 gennaio 2022.
A tirare in ballo Nina Moric è stata quella pazzariella, dalla lingua biforcuta, di Giacomina Urtis. Nel corso dell’ultima puntata del Grande Fratello Vip, il "visagista delle dive", parlando con Sophie Codegoni, ha sostenuto di aver avuto una relazione a tre con Fabrizio Corona e quella che all’epoca era sua moglie, cioè Nina Moric.
Quella di Urtis è una vecchia storia di trasgressione o una millanteria da pavoncello botulinato? Dagospia lo ha chiesto direttamente alla Moric.
Ha sentito cosa ha rivelato Urtis: avete avuto una storia a tre, con Corona "condiviso"?
Lo giuro su mio figlio, non sono io il terzo incomodo di questa storia. Io a quell'epoca ero già separata da Fabrizio Corona, che già stava con Belen Rodriguez…
Facciamo ordine con le date…
Ho conosciuto Giacomo Urtis in Sardegna nel 2005. Ero in vacanza ed ebbi un incidente in mare: fui morsa dalle meduse. In quell'occasione mi fu presentato come estetista e dermatologo. A quell'epoca era ancora etero e mi fece conoscere la sua fidanzata.
Quindi niente sesso a tre?
Ma io ne so gestire a malapena uno, figuriamoci due! E poi mi viene il vomito al solo pensiero di vedere a letto Urtis e Fabrizio…
Allora perché Urtis ha raccontato questa storia?
Finché siamo stati insieme, Fabrizio neanche lo conosceva Urtis. Sì, Giacomo aveva il desiderio di agganciarlo ma sono diventati amici solo dopo dicembre 2008, quando noi ci siamo lasciati e Fabrizio stava già con Belen. Quindi non posso essere io la donna del triangolo…
Luigi Bolognini per “la Repubblica” il 23 febbraio 2022.
Estate 1985, Londra. Un gruppo di studenti valtellinesi, desiderosi di cibo vero, afflitti e stremati da giorni di agnello alla menta e pasticcio di rognone, è accolto dal gestore napoletano di una pizzeria con un accorato: "Ma voi che venite dall'Italia, è vero che Nino D'Angelo è morto in un incidente in motorino?".
La risposta a questa leggenda parte metropolitana e partenopea sta nel tour che Nino D'Angelo ha messo in piedi per il quarantennale del suo personaggio dello scugnizzo, il ragazzino col caschetto biondo 'Nu jeans e 'na maglietta che sfrecciava proprio in scooter per Napoli cantando l'amore per le ragazze e il calcio, soprattutto dopo l'arrivo di Maradona.
A marzo si parte il 3 da Pescara per toccare tra l'altro Palermo (9), Torino (18), Roma (27) e ad aprile Napoli (9), Milano (11) per chiudere a Parma il 7 maggio.
D'Angelo, altro che morte nel 1985: il caschetto biondo un po' è cascato e un po' si è incanutito, ma lei è sempre qui e anche se di anni ne ha quasi 65 continua a sentirsi come quel ragazzino di allora.
«Beh no, per fortuna sono cambiato, altrimenti sarebbe ben triste. Ma certo quel ragazzino mi sta molto simpatico per la sua leggerezza, la sua felicità, anche la sua povertà. E non sa quante leggende tipo quella londinese giravano: ogni due per tre venivo dato per morto. Forse mi hanno allungato la vita. Di sicuro io ricomincio a vivere adesso, con questo tour».
Fa male cancellare tutto e stare a casa in lockdown, vero?
«Una cosa esagerata, non ho mai aspettato di cantare come in questo momento, il pubblico è una droga, anche più di quanto pensassi. Il palco è come l'aria, il vaccino che ti leva la malattia.
Io sono stato abituato a girare, muovermi, recitare, cantare. Il mio lavoro è tutto, la mia vita. Se e quando mi ritirerò farò come quegli operai che vanno in pensione dopo 50 anni di lavoro, ma che già passate le prime 2-3 settimane si ritrovano a guardare i cantieri con gli altri vecchietti. Comedite, umarell, giusto?».
Giusto. Ma allora lei sa parlare. Glielo chiediamo perché il tour si intitola "Il poeta che non sa parlare", come la sua divertente autobiografia, edita da Baldini+ Castoldi.
«Nel libro spiego questo soprannome: me lo diede la professoressa di italiano delle medie. A scuola parlavo napoletano, non italiano, facevo errori grammaticali, ma secondo lei scrivevo cose profonde, capaci comunque di arrivare al cuore. All'inizio mi parve una cosa brutta, in realtà era un magnifico complimento.
Trasformerò tutto in uno spettacolo di teatro canzone alla Giorgio Gaber, raccontandomi grazie alle mie canzoni».
Ma quali canzoni? Ovvero, con una carriera così lunga come fa a sceglierle?
«Facile: non ci pensi, perché sai che comunque qualcuno scontenti se non fai un concerto di otto ore. Poi vai di equilibrio tra anni Ottanta, Novanta e Duemila. Di sicuro il periodo dello scugnizzo non può mancare mai, e non solo perché questo è un tour celebrativo: quelle sono le mie origini, lì c'è la mia povertà, che non rimpiango, ma neppure rinnego perché mi bastava poco per essere felice, E poi quelle canzoni furono davvero una rivoluzione».
Addirittura?
«Lei non è napoletano, vero?».
Non esattamente.
«Allora non può capire. Ma le spiego. Io dovevo essere, per sua stessa dichiarazione, l'erede di Mario Merola nella sceneggiata napoletana. Grandioso artista, grandioso genere, ma io volevo fare il pop. E le mie canzoni del periodo scugnizzo hanno portato i giovani napoletani ad amare la canzone della loro città. Le scrivevo mentre mia moglie faceva le pulizie per casa. Le dissi: "Che fortuna che hai, ti ho risolto i problemi con queste musiche". Anche se non fu facile».
Perché?
«Perché ero ostracizzato. Tanti prendevano posizione contro di me per pregiudizio, perché ero come mi vedevano. Io sono stato amatissimo da un certo pubblico e odiatissimo da quest' altro, che poi è passato ad amarmi quando c'è stata la mia rivalutazione.
Ma spesso in Italia alla lunga si viene rivalutati. Io volevo essere amato da tutti, essere figlio di tutta Napoli, invece mi dicevano "di una certa Napoli". Questo è stato per tanto tempo il mio errore, che mi ha buttato in depressione, ma dico sul serio.
Invece alla lunga ho avuto ragione io: ha cominciato a cambiare tutto quando sono andato a Sanremo con Senza giacca e cravatta. E ora ho un pubblico composito, il minimo del colto accanto al massimo del colto. E sono felice».
A proposito di felicità, qual è stato il suo momento più alto, nella sua vita artistica?
«Il concerto per i 60 anni allo stadio San Paolo. Mi è passata tutta la vita davanti agli occhi. Ed ero nella curva B, la mia curva, quella dove andavo a tifare Maradona. Uno che ha pagato i suoi errori con la vita, un campione, ma umile come me. Ecco, ovviamente non oso per nulla accostare il mio talento al suo, ma lui ci ha messo sempre la faccia, Come ho fatto e faccio io».
Luca Pallanch per “La Verità” il 3 novembre 2022.
Da quasi quarant' anni è un volto riconosciuto del mondo dello spettacolo, una presenza rassicurante per il pubblico di ogni età. Nino Frassica gioca sulla scena con le parole, coltivando l'arte del nonsense che nel mondo della musica ha avuto l'illustre precedente di Rino Gaetano. Due uomini del Sud che hanno fatto fortuna nella Capitale, non tradendo mai le loro origini, evocate nel caso del comico dal suo inconfondibile accento messinese.
Quali sono i suoi progetti?
«In questo momento sto aspettando l'uscita del mio nuovo libro, prevista per il 15 novembre».
Un altro libro?
«Sì, questa volta è un romanzo, diverso dai precedenti. Ci tengo molto, sono emozionato».
Come si intitola?
«Paola, sottotitolo Una storia vera (edito da Mondadori, ndr), però non è vero assolutamente niente. Mi sono sbizzarrito, ci ho messo dentro di tutto. È la storia surreale, di una donna alla quale succede qualsiasi cosa: ha genitori particolari, amici particolari, fidanzati particolari, vive in un luogo particolare, è tutto particolare!».
Come le è venuta in mente?
«Volevo uscire dal solito genere del gioco di parole, che non rinnego e continuerò a farò, e fare un racconto».
Quindi non è autobiografico «Per niente!». La sua autobiografia era molto ironica.
«Era 70 per cento vero, 80 per cento falso, per fare un titolo spiritoso, ma la verità è che era tutta falsa».
Quindi deve ancora scrivere un'autobiografia!
«Non la voglio fare. Voglio scherzare e basta».
Un'intervista ha sempre qualcosa di autobiografico. Ha avuto fin da piccolo questa vocazione alla spettacolo?
«C'era un momento in cui non avevo capito che cosa volessi fare: mi piaceva suonare e cantare, ma cantavo male, scrivere poesie e canzoni d'autore, ma non erano belle, poi siccome mi veniva facile far ridere, mi sono specializzato nella comicità».
Ricorda la prima volta che si è esibito in teatro?
«Come no: il 2 marzo 1970, il teatro Laudà, lo spettacolo si intitolava C'è, ci fu, ci sarà la scuola e l'ho scritto io, oltre a recitare insieme ad alcuni miei compagni di scuola».
Come è andata?
«Bene, naturalmente con tutte le ingenuità possibili di chi non ha mai fatto niente, però c'era senso dell'umorismo, la gente rideva. Non eravamo Gassman, però eravamo divertenti. Tra l'altro, ho scelto i miei compagni non tanto come attori, perché nessuno lo era, ma per le facce toste. Chi ha la faccia tosta ha qualcosa dell'attore. Ho trovato i più figli di buona madre e abbiamo fatto lo spettacolo».
Com' è riuscito a entrare nelle radio e tv private dell'epoca?
«Perché avevano bisogno di ragazzi per coprire il palinsesto. Di solito mettevano dischi e dicevano: "Ciao ciao", io invece tentavo di fare il varietà. Erano trasmissioni comiche torniamo all'impreparazione, all'ingenuità, però erano varietà.
Poi ha fatto una telefonata a Renzo Arbore
«Sì, per farmi conoscere, gli sono piaciuto e mi ha chiamato».
Che messaggio gli lasciato?
«Non gli chiedevo di lavorare, facevo lo spiritoso. La prima volta era: "Sono un ammiratore, al mio tre stacco tre". Ho staccato. Poi: "Non ti sto trovando. Magari provo a chiamarti alle quattro di mattina". Ovviamente non lo chiamavo. Poi finalmente ho lasciato detto: "Mi chiamo Frassica, sono di Messina, il mio numero di telefono è questo"». Lui mi ha chiamato per dirmi: "Sei forte, che fai, che non fai?"».
Come mai proprio Arbore?
«Perché facevo quella comicità là. Era più giusto lui rispetto a Corrado, Mike Bongiorno o Pippo Baudo, che facevano una tv più classica».
Il numero come lo avevi avuto?
«Sull'elenco del telefono. Arbore Lorenzo, via Bruno Bruni, la vecchia casa».
Per Quelli della notte le ha fatto un provino?
«No, lui aveva fatto il cast, insieme a Ugo Porcelli, chiamando le persone che voleva in quel salotto e io ero uno dei primi. Mi conosceva perché mi aveva chiamato per tre anni alla radio».
Aveva già fatto una particina nel film diretto da Arbore F.F.S.S. cioè «...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?».
«Sono andato a trovarlo alla Safa Palatino e lui mi ha buttato in mezzo, io non sapevo manco che dovevo fare!
Ha improvvisato. Mi ha detto: "Mettiti là, fai questo"». Che ricordi ha di Quelli della notte?
«All'inizio non capivamo niente di cosa stesse succedendo, poi piano piano è esploso il fenomeno Arbore. Con ognuno di noi lui faceva due passaggi solamente, perché poi c'erano la musica, tante rubriche, altre cose, e io al primo passaggio facevo il concorso cuore d'oro e al secondo il nanetto di Sani Gesualdi».
Quelli della notte le ha cambiato la vita. Come ha vissuto il successo?
«Cercavo di stare attento a scegliere bene perché mi facevano mille proposte».
Le hanno proposto subito di fare un film?
«Mica solo un produttore, tutti! Ho accettato la proposta di Giovanni Bertolucci perché mi ha detto: "Scegli tu con chi scriverlo e chi vuoi come regista". Ed è nato Il Bi e il Ba, diretto da Maurizio Nichetti».
Com' è stato accolto?
«È andato bene, però non è stato un successone, come penso meritasse, perché era troppo surreale, troppo diverso da tutta la comicità che si faceva in quel periodo. Forse perché era 30 anni, 40 anni avanti, forse doveva uscire ora».
In Indietro tutta! era la figura di raccordo di tutto il programma. Com' è nato?
«Arbore mi voleva nelle vesti di un presentatore di un programma sballato e, parlando parlando, è venuto fuori Indietro tutta!».
Improvvisavate?
«Il 90 per cento. La bellezza era quella. Il comune denominatore era la capacità di improvvisare. Tutti quelli che chiama, Renzo vuole che non si perdano d'animo e vadano avanti qualunque cosa succeda, e poi che abbiano lo stesso gusto suo, una comicità intelligente e moderna».
I giochi di parole li usava già prima di incontrare Arbore?
«Sì. La prima cosa che usa spesso il comico è storpiare, prendere fischi per fiaschi.
Io però non storpiavo le parole e basta: rovinavo la logica, le cose che dicevo erano assurde. Questa è la mia comicità. Io non faccio virtuosismi e cambiamenti di voce».
È tutto giocato sull'uso della lingua, quindi occorre una padronanza assoluta dell'italiano per sovvertirlo.
«No, basta la terza media! In realtà, la storpiatura non è così facile, ci vuole un'associazione di idee e suono: è musica».
Che studi aveva fatto?
«Ragioneria. Puntavo a essere promosso».
Ha mai guardato a qualche comico del passato come modello?
«Come no! Totò prima di tutti, poi Cochi e Renato, Mario Marenco, anche Diego Abatantuono».
A un certo punto ha intrapreso anche una carriera cinematografica. Che opinione ne ha?
«Cinematograficamente sono ancora in credito, credo di non aver dato quello che avrei potuto dare, in televisione sì, ne ho fatta tanta, forse ne potevo fare di meno».
Ha un ruolo al cinema che ama?
«In realtà, cerco di far somigliare il personaggio a me, fin quando si può, non lo caratterizzo. Il cinema naturalmente è diverso dal varietà, devi sottostare alla sceneggiatura, però anche sul set, se mi lasciano improvvisare, improvviso».
Qual è il film che le ha dato più soddisfazione?
«La scomparsa di Patò, dal romanzo di Andrea Camilleri».
I film natalizi?
«Il primo è stato Vacanze di Natale '91. Io non lo volevo fare, però mi hanno detto che c'era anche Alberto Sordi. Allora ho detto: "Se accetta Sordi". Poi ne ho fatti vari, anche perché mi piaceva lavorare con Enrico Oldoini e con Carlo Vanzina».
Negli ultimi anni ha lavorato spesso con Maccio Capatonda.
«Sono un suo ammiratore e lui è un mio ammiratore. Ci ammiriamo a vicenda Io l'ho chiamato alla radio, in una trasmissione della Rai, adesso ogni cosa che fa mi chiama e questo mi fa piacere».
Oltre a lui, chi apprezza tra i nuovi comici?
«Herbert Ballerina, Valerio Lundini, Massimo Bagnato, Ficarra e Picone, Checco Zalone. Mi piacciono quelli che fanno del surrealismo».
Ha mai pensato di passare alla regia?
«No, perché fisicamente non ce la farei. Il regista pensa a troppe cose: secondo me, è una cosa faticosissima. Mi piacerebbe però dirigere i colleghi».
Nella sua carriera cinematografica si è tolto varie soddisfazioni, come essere diretto da Sofia Coppola, che l'aveva scelta come presentatore in Somewhere.
«Lei da bambina era venuta con suo padre a Milano per la cerimonia dei Telegatti e voleva raccontare questo episodio della sua vita, quindi abbiamo simulato una serata di Telegatti in cui io e Simona Ventura presentavamo gli ospiti. Mi ha chiamato perché ha cercato su Youtube "presentatori italiani" e ha visto dei miei filmati da "bravo presentatore", pensando che io fossi veramente in quel modo!».
Poi ha inseguito Johnny Depp in The Tourist di Florian Henckel von Donnesmarck.
«Ho fatto un carabiniere. Il regista è tedesco e sua madre è una mia fan in Don Matteo, che viene trasmesso in televisione perché Terence Hill è molto popolare in Germania.
Il figlio le aveva promesso che "appena devo fare un film in Italia mi invento una cosa e lo chiamo".
Così è stato. Quella scena dell'inseguimento poteva farla anche un altro attore, invece ha voluto proprio me per fare un regalo a sua madre. Lo ha raccontato nella conferenza stampa».
Con Terence Hill ha legato umanamente?
«Siamo molto amici, ci sentiamo spesso. Abbiamo fatto 260 puntate assieme, grazie a Oldoini, che ha diretto la prima stagione di Don Matteo. Enrico mi apprezzava e mi ha voluto, dopo avermi diretto in varie commedie, come Anni 90 e Miracolo italiano».
Nino Frassica, tutte le curiosità: «Da ragazzo saltavo la scuola per andare al cinema. Poi l’incontro con Arbore e la carriera». Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022.
Dall’adolescenza ai messaggi in segreteria lasciati ad Arbore, dagli amori a quella volta che Terence Hill gli ha salvato la vita: tutto quello che c’è da sapere su Nino Frassica
Energia e passione
Attore, cabarettista, conduttore, volto amato della comicità italiana, Nino Frassica ha iniziato la sua carriera negli anni ‘80. Prima il teatro e la televisione a livello locale, poi il grande debutto nel 1985 nel varietà «Quelli della notte». In seguito la scalata verso il successo, alimentata da quell’energia e da quell’amore per la recitazione che gli hanno sempre donato una marcia in più. Nino Frassica è passato dal «bravo presentatore» di «Indietro tutta!» al cinema e alle serie tv, fino a interpretare il ruolo del Maresciallo Cecchini in «Don Matteo». Un’avventura iniziata nel 2000 con Terence Hill, che nei panni di Don Matteo mette il naso nelle indagini della polizia di Gubbio e regolarmente suggerisce quell’indizio indispensabile per risolvere il caso. I due personaggi sono amatissimi e da 22 anni lavorano sul set di «Don Matteo», una produzione alla quale Frassica è affezionato. D’altronde, come potrebbe non esserlo un attore che si è innamorato del mondo dello spettacolo quando era ancora un ragazzo?
Saltava le lezioni per andare al cinema
Nino Frassica è nato a Messina l’11 dicembre del 1950. Sin da giovane ha sempre avuto chiaro cosa significasse seguire la strada dei propri sogni. E lui iniziò a farlo da giovanissimo. La mattina, invece di uscire di casa e camminare sulla via che lo avrebbe portato a scuola, era solito a deviare il percorso e dirigersi verso il cinema. Lo ha raccontato lui stesso in un’intervista: «Mio padre voleva che facessi il geometra, a me non piaceva perché l’istituto era frequentato tutto da maschi, mentre la vicina scuola di ragioneria era piena di femmine - ha spiegato- Per ubbidienza frequentai il primo anno da geometra, venni bocciato per le assenze, perché la mattina mi chiudevo nei cinema a guardare film a ripetizione. In seguito passai alla ragioneria». E poi Nino Frassica passò alla scuola di Renzo Arbore, maestro che lo prese sotto braccio e lo accompagnò nei programmi televisivi più noti, a partire da «Quelli della notte».
I messaggi lasciati in segreteria telefonica ad Arbore
«Io ero cresciuto a pane e Alto gradimento, la mia scuola, la mia luce, ne ero un ammiratore sfegatato. L’idea di chiamare Arbore, il numero lo avevo trovato semplicemente sull’elenco telefonico, mi era venuta leggendo che Andy Luotto gli aveva telefonato e lo showman, dopo averlo ascoltato, lo aveva convocato e poi scritturato». Si potrebbe pensare che il rapporto professionale e di amicizia tra Renzo Arbore e Nino Frassica sia nato da una semplice chiamata. In realtà ricevere una risposta da Arbore non fu semplice, così l’attore adottò una strategia precisa: lasciare in segreteria dei messaggi particolari. «Per esempio, gli dicevo: sono un mio ammiratore, e questa è la mia segreteria telefonica... conto fino a tre, al tre stacco... Oppure: sono un comico dilettante e non cerco lavoro... Lui, incuriosito, mi richiama e dice: se ti trovi a passare da Roma, vieni a trovarmi. Io vivevo a Messina e, guarda caso, il giorno dopo mi capita di passare per Roma».
Gli amori
Così inizia ufficialmente la carriera sul piccolo schermo. Qualche tempo dopo, nel 1983, debutta al cinema con «FF.SS – Cioè…che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene». Due anni più tardi torna sul piccolo schermo per «Quelli della notte», dove interpreta Frante Antonino. Sempre nel 1985 si sposa con l’attrice Daniela Conti, un matrimonio che dura fino al ‘93. Il secondo matrimonio arriva nel 2018. A dire il fatidico «sì» a Frassica è Barbara Exignotis , ex attrice per fil m per adulti conosciuta con lo pseudonimo di Blondie. I due non hanno avuto figli insieme, anche se lei ha una figlia ormai grande avuta da una relazione precedente.
Terence Hill gli ha salvato la vita
In un’intervista al settimanale DiPiù Nino Frassica ha raccontato di un incidente sul set di «Don Matteo, dal quale è uscito incolume grazie alla prontezza di Terence Hill. «Ho rischiato di morire sul set, Terence mi ha salvato. Dovevamo girare una scena sopra il tetto di una casa, io e lui. Era pure notte. A un certo punto sono scivolato. Stavo per precipitare di sotto ma Terence mi ha immediatamente afferrato e mi ha salvato la vita». I due attori sono molto amici. «Don Matteo», in quell’occasione, era riuscito a tirar fuori dai guai il «Maresciallo Cecchini» ancora una volta. «Se fossi caduto di sotto sarei morto - aveva specificato - mi ha tenuto stretto e ancora oggi lo ringrazio e con me lo ringrazia anche mia moglie. Quando ricordiamo quell’episodio, le vengono i brividi».
Ha scritto un libro sui Vip(p)
Si intitola «Vipp. Tutta la Veritàne» l’ultimo libro di Nino Frassica, pubblicato nel 2021. In un’intervista rilasciata a «Da noi...a ruota libera» ha definito il testo come «un’antologia», raccontando che «così chi lo leggerà tra 50 anni saprà cosa succedeva negli anni ‘20». «Ho semplicemente scritto tutto quello che so» ha spiegato Frassica a Francesca Fialdini. La conduttrice sfoglia le pagine del libro e rivela che ci sono anche dei consigli su come raggiungere il successo: « Ad esempio io non sapevo che conviene chiamarsi Giovanna nella vita, perché chi si chiama Giovanna fa strada» spiega la conduttrice. Soprattutto è l’ironia che accompagna il racconto dei vip che Frassica ha incontrato nel suo percorso. La comicità è ben presente quando Frassica parla degli altri ma anche di sé (e delle sue esperienze passate): « Ho fatto il venditore di ostriche - scherza - l’ostetrica» e poi si mette a ridere anche lui.
Il linguaggio di Frassica
«Ho studiato l’ironia perché la comicità surreale non ha limiti, confini o barriere e può sorprenderti, mentre quella classica a un certo punto stanca» aveva raccontato in un’altra intervista. Il linguaggio di Nino Frassica ha una sua logica. Storpia le parole, inventa neologismi, crea relazioni che non ci si aspetta. Ma, sempre, raggiunge l’obiettivo della sua comunicazione, cioè quello di far ridere e sorridere. «Quando rovini la logica, la realtà, i luoghi comuni, il primo passo da fare è rovinare la lingua, l’italiano. La parola è più immediata, fa ridere subito, è il primo passaggio; quello successivo è destrutturare la logica: la gente pensa che una cosa si faccia in un determinato modo mentre io la faccio apparire in un altro, questa è la mia forza. Iniziare a dire una parola per un’altra e poi capire un concetto per un altro, significa vivere in un mondo diverso, in un universo alieno. Quando faccio l’artista io non sono terrestre». Così vede il mondo Nino Frassica, lo guarda come se fosse su una navicella e lo ricostruisce rovesciandolo e reinventandolo. E bisogna sempre farsi una risata perché é inutile «piangere sul latte macchiato».
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2022.
Nino Frassica, raccontiamo finalmente il contenuto della famosa telefonata che fece a Renzo Arbore, grazie alla quale entrò nella sua squadra. Che vi siete detti?
«Premetto che, quando ho iniziato, la tv era in bianco e nero, non esistevano i social e come era possibile farsi conoscere? Citofonando ai produttori, ai registi, agli attori famosi o... mandando messaggi dentro le bottiglie di vetro? Io ero cresciuto a pane e Alto gradimento , la mia scuola, la mia luce, ne ero un ammiratore sfegatato.
L'idea di chiamare Arbore, il numero lo avevo trovato semplicemente sull'elenco telefonico, mi era venuta leggendo che Andy Luotto gli aveva telefonato e lo showman, dopo averlo ascoltato, lo aveva convocato e poi scritturato.
All'epoca non esistevano i cellulari e non ci fu una vera e propria telefonata, mi limitavo a lasciargli vari messaggi sulla segreteria del telefono di casa. Per esempio, gli dicevo: sono un mio ammiratore, e questa è la mia segreteria telefonica... conto fino a tre, al tre stacco... Oppure: sono un comico dilettante e non cerco lavoro... Lui, incuriosito, mi richiama e dice: se ti trovi a passare da Roma, vieni a trovarmi. Io vivevo a Messina e, guarda caso, il giorno dopo mi capita di passare per Roma».
Tra voi, amore a prima vista?
«Mi guarda ed esclama: sembri un napoletano... non ho mai capito il perché della sua affermazione, ma era un complimento, i napoletani sono simpatici. Di sicuro, Renzo era colui che poteva capirmi meglio».
Rispetto a chi?
«Quando cercavo lavoro, non sono andato da Pippo Baudo, come facevano i siciliani cercando una complicità regionale e chiedendogli un aiuto... La mia era una comicità diversa, simile a quella degli attori di cui si serviva Arbore e con lui, Gianni Boncompagni, Mario Marenco, Bracardi, iniziai alla radio, nel programma Radio anghe noi , poi in tv: Quelli della notte e Indietro tutta! ».
Dove impersona il frate Antonino da Scasazza...
«Sì, mi propone di fare questo fratacchione, personaggio di cui non sapevo nulla, ma ho subito accettato: avrei detto sì anche se mi avesse proposto di impersonare un astronauta o un pompiere... Però dovevo prepararmi perché l'improvvisazione, che mi ha insegnato Renzo, non è mai veramente improvvisata. Nei suoi programmi non esisteva un copione, ma un canovaccio, sulla base del quale creare le tue battute. Insomma, il fascino della diretta, che però una volta poteva farmi finire davvero molto male».
Che cosa accadde?
«Mentre ci esibivamo in Cacao Meravigliao , mi metto in bocca una fetta di limone che, cantando e ballando, mi va per storto: stavo soffocando, ma gli altri pensavano che scherzassi, che facesse parte della scenetta. Per fortuna uno dei tecnici si è accorto che non era uno scherzo, mi ha assestato due botte sulla schiena e mi ha salvato».
Ma la sua vis comica, Frassica, dove, come e quando nasce? Da chi l'ha ereditata?
«Più da parte di padre, molto spiritoso, che di madre, ma soprattutto nasce come reazione alla noia della provincia dove sono nato, Galati Marina, alla periferia di Messina. Sono sempre stato pigro e nell'ozio mi piaceva organizzare degli scherzi. La mia carriera ha preso il via come "scherzista" nel bar Suaria del mio quartiere: lo scherzo, di per sé, è già una forma di teatro».
Per esempio?
«Negli anni della propaganda in cui la Dc cercava voti, organizzava camion pieni di pacchi regalo che distribuiva nei paesi. Un modo sfacciato per comprare i consensi degli elettori. Una volta, forse a Natale o a Pasqua, mi invento di fare una locandina, che appesi nella piazza della chiesa, dove si annunciava che la domenica bisognava presentarsi alle 9 del mattino, portando la carta d'identità. Sarebbe arrivato il camion con i regali da distribuire alla popolazione. I paesani si presentano puntuali, col documento in tasca, aspettando la "provvidenza", convinti di ricevere i pacchi... e invece c'ero io che, con i miei amici, ridevo a crepapelle. Un altro scherzo divertente, quello nella cabina telefonica...».
Cioè?
«Era un periodo in cui accadeva spesso, lì a Galati, che le cabine venivano massacrate da atti vandalici. Non se ne trovava più nessuna funzionante e allora io, un giorno, mi infilo in una che era un po' meno massacrata, sia pure col telefono sfasciato. Faccio finta di intrattenere una lunga telefonata, vengo avvistato da qualcuno che, convinto di aver trovato finalmente una cabina che non fosse fuori uso, aspetta il suo turno, si forma una fila... Io continuo a recitare il botta e risposta con il fantomatico interlocutore, mentre quelli fuori cominciano a sbuffare per l'attesa... A un certo punto, fingo di salutare il mio interlocutore, esco dalla cabina e scappo dietro l'angolo per assistere a una scena esilarante. I poveretti entravano dentro, componevano il numero, ma il telefono era morto... Non rendendosi conto della burla, dicevano: ma quello come ha fatto a telefonare?».
Altre cattiverie?
«Poco fuori il paese, c'era un torrente, la Fiumara, che era ormai secco, trascurato e ridotto a uno scarico di spazzatura. Con i soliti amici, andammo in giro a dire che proprio là ci era apparsa la Madonna... e qualcuno c'ha creduto».
Una delle caratteristiche della sua comicità è storpiare le parole, oppure capovolgere le frasi, dando un senso opposto a quello originale, un non senso tipo: beati gli ultimi perché saranno umiliati...
«La mia grande passione è il teatro dell'assurdo, tanto che da ragazzo chiamai la mia prima compagnia amatoriale a scuola I cantatori pelosi sono figli della cantatrice calva , un omaggio a Ionesco».
Che scuola ha frequentato?
«Mio padre voleva che facessi il geometra, a me non piaceva perché l'istituto era frequentato tutto da maschi, mentre la vicina scuola di ragioneria era piena di femmine».
E allora: geometra o ragioniere?
«Per ubbidienza frequentai il primo anno da geometra, venni bocciato per le assenze, perché la mattina mi chiudevo nei cinema a guardare film a ripetizione. Poi passai a ragioneria».
Il cinema lo ha frequentato poi non solo da spettatore, anche da attore in tanti film...
«A cominciare da quello di Arbore: FF.SS.- Cioè, che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? Che ricordo divertente».
Ma lei ha recitato anche in un film diretto da Sofia Coppola, Somewhere , e in The Tourist , con Johnny Depp e Angelina Jolie.
«Sì, quest' ultimo diretto da un regista tedesco con un nome difficilissimo: Florian Henckel von Donnersmarck... pronunciarlo, una fatica».
Coppola la scelse proprio per aver visto «Indietro tutta».
«Mi offrì un piccolo ruolo, dovevo impersonare un presentatore italiano pacchiano e lei pensava che lo fossi veramente! Solo che non aveva capito una cosa fondamentale: io per fare quel personaggio nel programma di Arbore, mi ero ispirato proprio ai presentatori pacchiani delle tv americane. Insomma, americaneggiavo , era una presa in giro della tv americana, e la Coppola volendo prendere in giro la tv italiana aveva scelto me: un circolo vizioso».
Con Depp e Jolie com' è andata?
«Venni scritturato perché la madre del regista, quello col nome difficile, era un'appassionata di Don Matteo , fiction molto nota in Germania, e le era piaciuto tanto il mio Maresciallo Cecchini. Quando il figlio doveva girare alcune scene del suo film in Italia, mi cercò per fare un omaggio alla madre e si inventò un ruolo per me: la guardia che insegue Depp a Venezia sul Canal Grande».
Come si è trovato sui set internazionali?
«Era come andare allo zoo, più che attore mi sentivo spettatore di quello che avveniva intorno a me e ho visto tanta esagerazione...».
In che senso?
«Per Depp e Jolie uno spiegamento di guardie del corpo da far invidia al presidente degli Stati Uniti e poi un catering eccessivo, sproporzionato. Tanto fanatici 'sti americani».
E con quale regista italiano vorrebbe lavorare?
«Paolo Sorrentino. Lo ammiro da spettatore e nei suoi film ho visto dei ruoli che mi sarebbe piaciuto fare».
Si è stancato di interpretare il Maresciallo di Don Matteo?
«No. Mi sarei stancato se il mio ruolo fosse limitato al militare che interroga i colpevoli, o insegue gli assassini. Invece l'evoluzione della commedia è un continuo stimolo a fare cose diverse. Mi piace il personaggio Cecchini nel suo aspetto del privato quotidiano e non dell'investigatore di polizia».
La più grande soddisfazione avuta nella sua carriera?
«Una piccola medaglia, che però ricordo con piacere. Erano i primi anni Ottanta, vado ai Giardini Naxos per assistere ai premi della regia televisiva. Per ben tre anni di seguito non riesco a entrare come spettatore, perché non avevo il biglietto, né un invito e, non essendo conosciuto, senza una raccomandazione non potevo essere ammesso. Ma nel 1985 succede il miracolo. Là dove non mi facevano entrare, quella sera c'era una marea di gente che inneggiava Nino! Nino! Nino! Ero diventato famoso in tv e... anch' io tra i premiati».
Lei ha pubblicato vari libri, non le è mai venuta voglia di scrivere una sua sceneggiatura?
«Come no! Ne ho scritta una a metà strada tra fiction e sit-com dove si improvvisa molto. Racconta di una "banda" scalcinata, una specie di "soliti ignoti" che vogliono rubare i soldi della lotteria... e l'ho intitolata "L'abanda"».
Nino Frassica: «Io rovino la lingua per smontare la logica comune: è liberatorio e fa ridere». di Renato Franco su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
La sua carriera è cominciata con un messaggio lasciato nella segreteria telefonica di Renzo Arbore: disse di essere un suo ammiratore (di Frassica, non di Arbore). «Ho studiato l’ironia perché la comicità surreale non ha limiti, confini o barriere e può sorprenderti, mentre quella classica a un certo punto stanca»
L’ amore per il surreale quando nasce?
«È una scelta. Ho studiato l’ironia e mi sono specializzato, ma la comicità classica, diciamo normale, a un certo punto stanca, mentre la comicità surreale può meravigliarti sempre; con il surreale non ci sono limiti, non ci sono ostacoli, confini, barriere. Io mi sento di appartenere al Pianeta Surreale».
Il sistema solare di Nino Frassica è diverso, come diverso è il suo approccio alla realtà perché sa cogliere il lato incongruente, il dettaglio che spiazza, l’angolo cieco che menti assuefatte alle logiche della convenzione hanno bisogno che qualcuno rischiari. Tutto è cominciato grazie a un messaggio che lasciò nella segreteria telefonica di Arbore: disse che era un suo ammiratore (suo di Frassica) e voleva parlare con lui (lui Arbore). Quasi 40 anni dopo è ancora un protagonista della tv, con Don Matteo, da Fazio, da Maria De Filippi dove ogni settimana propone il suo onirico Amici Senior («A che numero abita? Il 18? No, il 18 è poco, facciamo il 250»).
«HO STUDIATO RAGIONERIA PER FAR CONTENTI I MIEI: IN REALTÀ A SCUOLA ORGANIZZAVO SPETTACOLI E D’ESTATE GESTIVO UN DANCING»
Chi popola il Pianeta Surreale oltre a lei?
«Marenco, il più bravo con cui ho lavorato, Maccio Capatonda, Herbert Ballerina, il Mago Forest, Lillo e Greg, Valerio Lundini. Non siamo tantissimi, ma qualche abitante c’è. Anche loro sono di un altro pianeta, diciamo che siamo co-pianetisti, siamo della stessa razza. Io dovrei abitare lì, il mio posto non è Zelig, o Made in Sud, o Colorado. Il mio posto è stato Indietro Tutta e Quelli della notte, ora è il Tavolo di Fazio, sono i luoghi dove mi muovo immediatamente bene».
Fazio è il suo nuovo Arbore dunque?
«Fabio ha creato un momento che fa bene pure a lui. Prima tira un treno pesante, poi in quell’oretta finale, al Tavolo, stacca la spina e diventa un goliarda, trova il gusto del divertimento, torna giovane».
I suoi modelli?
«Il primo è stato Alto gradimento: quando la radio era tutta dischi, barzellette, al massimo un piccolo sketch e una battutina, sono arrivati Arbore, Boncompagni, Bracardi e Marenco ed è comparso il mio pianeta: hanno rivoluzionato la radio sovvertendo i luoghi comuni, sono stati come i Beatles per la musica, hanno dimostrato che si poteva fare anche altro. L’altro modello, in tv, erano Cochi e Renato, apparivano loro e si aprivano altre porte, nuovi universi: il loro surrealismo così chiaro e semplice è stata un’altra rivoluzione».
Quando ha capito di saper far ridere?
«È un talento naturale, o di famiglia: mio padre, mio fratello, gli zii, erano tutti spiritosi, con un gran senso dell’umorismo. E io sono come loro; loro però non se ne sono accorti e hanno vissuto facendo i simpatici con gli altri, io invece l’ho studiato e l’ho fatto diventare un mestiere».
Uno dei suoi pezzi forti è storpiare le parole...
«Quello è un vestito, non è il contenuto. Quando rovini la logica, la realtà, i luoghi comuni, il primo passo da fare è rovinare la lingua, l’italiano. La parola è più immediata, fa ridere subito, è il primo passaggio; quello successivo è destrutturare la logica: la gente pensa che una cosa si faccia in un determinato modo mentre io la faccio apparire in un altro, questa è la mia forza. Iniziare a dire una parola per un’altra e poi capire un concetto per un altro, significa vivere in un mondo diverso, in un universo alieno. Quando faccio l’artista io non sono terrestre».
Per luogo comune il ragioniere è l’opposto del comico: eppure lei è diplomato in ragioneria.
«Andavo a scuola per accontentare i miei genitori e prendere il famoso pezzo di carta. In realtà a scuola organizzavo gli spettacoli musicali e il teatro, mi occupavo del giornaletto; in estate invece gestivo un dancing, prendevo il microfono e cominciavo a dire le mie prime fesserie, del ragioniere non so che cosa è rimasto».
Attore, intrattenitore, comico: chi è Nino Frassica?
«Mi definirei un umorista che crea delle situazioni che fanno ridere. Poi le declino nel varietà, nella fiction, a teatro, al cinema. Mi piace far ridere e sorridere gli altri».
Ora declina il suo umorismo nella nuova stagione di «Don Matteo». Il suo maresciallo Cecchini è tra i protagonisti fin dall’inizio, era il 2000, e ora siamo alla 13ª stagione, quella della svolta: Terence Hill sparisce «sostituito» da Raoul Bova.
«In realtà don Matteo non va via definitivamente, non sparisce del tutto, non muore, ma si allontana. Nella puntata clou molti si faranno domande, fa parte del giallo. Arriva un nuovo prete (don Massimo, interpretato da Raoul Bova) e all’inizio il maresciallo non lo sopporta, non crede nemmeno che sia un prete, ma poi riuscirà a farsi amare».
Raoul Bova potrà mai sostituire Terence Hill?
«Raoul è un altro personaggio, non fa don Matteo. Nessuno può fare don Matteo come Terence, e infatti il nuovo personaggio interpretato da Raoul si chiama don Massimo. Piacerà? Penso di sì, non è Terence, ma ha un passato misterioso, un’apertura mentale spiccata, è un bel prete pure lui. Sul set ricordo la prima timidezza di Raoul che entrava in un mondo, in una famiglia, che non erano i suoi ma che ora lo sono diventati; umanamente è una bella persona, professionalmente un attore bravo. Poteva essere un punto interrogativo, invece è stato promosso a pieni voti».
Con Terence Hill vi conoscete da 20 anni.
«Non ho mai incontrato una persona come Terence, così cortese, aggettivo che non si usa mai. È veramente perbene, un gran signore. Noi siamo affiatati, ci basta poco, conosciamo i nostri personaggi e ci identifichiamo con loro, ci muoviamo liberamente, è come interpretare noi stessi. In fondo bisogna assomigliare al personaggio che si porta in scena e farlo da tanti anni aiuta: noi siamo entrati totalmente dentro il loro carattere... È logico che si sentirà la mancanza di Terence, ma la storia va avanti e gli autori si sono impegnati tantissimo sapendo che lui faceva solo quattro puntate...».
Certo che Cecchini senza don Matteo non ce la fa.
«Cecchini è uno di noi, è umano, arriva fino a un certo punto; don Matteo con l’aiuto dall’alto, dal Super Capitano, è avvantaggiato, in questo senso è raccomandato».
«LA PENSIONE? IL NOSTRO È UN LAVORO A OLTRANZA, NON SIAMO BALLERINI CHE A UN CERTO PUNTO SI DEVONO FERMARE, NOI BALLIAMO FINO ALL’ULTIMO RESPIRO»
Ascolti sempre altissimi da oltre 20 anni: se ci fosse un segreto sarebbe replicabile. Qui qual è l’alchimia che funziona?
«Ci rivolgiamo a un pubblico trasversale, a chi ama la commedia, a chi il giallo, a chi la linea rosa, a chi le storielle di ragazzini e adolescenti; gli ingredienti sono buoni per Rai1, poi certo rimane quel pezzo di mistero... magari è la nostra simpatia, perché no? O la nostra bravura, perché no?».
Lei che voto si dà?
«Il mio solito 8».
Fu preso da Woody Allen per «To Rome with Love» ma poi è stato tagliato dal film. Una rosicata.
«È rimasto il dispiacere del taglio ma conservo il piacere del ricordo, come uno spettacolo di cui non rimane traccia ma sei contento di aver vissuto; di quell’esperienza mi sono portato dietro solo tre o quattro foto. Anche se Woody Allen non capiva l’italiano e io non parlavo inglese, ho recitato con lui e l’ho fatto ridere: già mi basta quell’immagine, l’ho scolpita nella mente. Allen ha girato molto di più di quello che gli serviva, ha sforato di 50 minuti, chissà perché ha sbagliato così tanto...».
Sofia Coppola invece non ha sbagliato e l’ha tenuta nel ruolo del bravo presentatore pacchiano ed eccessivo.
«Quell’anno, nel 2010, ho recitato per quattro premi Oscar contemporaneamente: Sofia Coppola (Somewhere), Tornatore (Baarìa), Woody Allen e Florian Henckel von Donnersmarck (The Tourist con Depp e Jolie). Ma per me non c’è nessun Oscar, il mio meglio non l’ho dato certo là. In realtà le cose più belle le ho fatte in casa, non è la piccola partecipazione che fa di me un grande artista, quelle sono passeggiate di piacere. Però con quelle esperienze ho provato l’emozione del provinciale che va sul set americano».
Un regista con cui vorrebbe lavorare?
«Sorrentino, Garrone. E poi i grandi maestri come Bellocchio, Avati. Con i bravi registi mi piacerebbe sempre lavorare, ma è normale. È come dire: cosa preferisci? Un vestito buono o uno cattivo? Io dico sempre quello buono».
Il lato positivo del successo?
«Quando ti presenti in pubblico la gente è ben disposta. Faccio le stesse battute: ma da famoso hanno più successo che da sconosciuto».
Il lato negativo?
«La privacy. Ci sono posti dove non puoi andare perché tutti ti guardano, ti assalgono. Alla fine rinunci».
La pensione?
«Il nostro è un lavoro a oltranza, non siamo ballerini che a un certo punto si devono fermare, possiamo ballare fino all’ultimo».
Dagospia il 22 novembre 2022. COMUNICATO STAMPA
Noemi a “Belve” non si risparmia e con sincerità parla delle sue fragilità: la crisi a Sanremo 2018 quando dice di essersi resa conto di aver toccato il fondo. I suoi problemi con la vista durati molti anni e infine affronta il delicato tema del rapporto professionale col padre, suo manager per molti anni.
Noemi parla di quel Sanremo del 2018 quando, essendo in sovrappeso, venne presa in giro sui social con un meme, da una parte lei grassa e dall’altra Michelle Hunziker bellissima e filiforme: “Mi sono sentita ferita, in quella foto per la prima volta ho visto la mia sofferenza, perché ci sono persone che sono abbondanti ma tu vedi che quella fisicità gli appartiene. Mi sono fatto un pianto e quella è stata la prima volta in cui mi sono detta che dovevo fare qualcosa”.
Noemi parla anche dei problemi legati alla vista cominciati improvvisamente durante Sanremo del 2012: “soffrivo di derealizzazione, per anni ho visto come da un binocolo, mettevo distanza, era un modo che la mia testa aveva per dirmi: guarda che sei un fantasma, non hai la tua vita in mano.”
Infine, sollecitata dalla domanda della Fagnani che le chiede: “pensa che suo padre che lei ha assunto come manager abbia sempre agito per il suo interesse o qualche problema finanziario gliel’ha creato?” Noemi prima dice: “Senza dubbio delle cose non sono andate bene, ma non volevo che lui si sentisse responsabile”, poi quando la Fagnani insiste: “Ma lo era responsabile di alcuni problemi finanziari?”, noemi risponde: “Tante volte uno mette il cavallo dove vuole il padrone, ero io che gli avevo dato troppe responsabilità”.
La Fagnani le chiede quali sono state le conseguenze della scelta di lasciare suo padre come manager e nomi rivela: “Per la prima volta nella mia vita mi sono sentita sola, il mio grande consigliere era stato lui, per un paio di anni non sono riuscita ad avere un dialogo con il mio papà e la mia famiglia, non c’era modo di capirsi. Ora che ho recuperato percezione di quella che sono io nel mondo, quando ci vediamo lo vedo che è contento.”
Noemi e il body shaming: "Ho toccato il fondo vedendo la mia foto, in carne, accanto a quella di Michelle Hunziker magrissima". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 23 novembre 2022.
Nella trasmissione di Francesca Fagnani la cantante ha raccontato che il meme che la prendeva in giro sul suo aspetto fisico, dopo il festival del 2018, l'ha ferita profondamente
Noemi ospite di Belve, la trasmissione di Francesca Fagnani, ha raccontato l'esperienza traumatica della partecipazione al festival di Sanremo del 2018, dove la cantante portava Non smettere mai di cercarmi. Dopo la sua esibizione all'Ariston in rete sono comparsi dei meme in cui veniva paragonata a Michelle Hunziker che conduceva Sanremo.
Durante la lunga intervista andata in onda su Rai Due ieri sera Noemi ha parlato molto del suo cambio di immagine spiegando che la sua immagine pubblica era ben lontana rispetto a ciò che sentiva, motivo per cui ha deciso di modificarla. La conduttrice Francesca Fagnani le ha domandato: "Quando ha avuto la percezione di toccare il fondo?". E Noemi ha risposto: "A Sanremo 2018. Oggi si parla molto di body shaming, ma si vede che all'epoca non era di moda. Ero a Sanremo, ero molto in carne. C'era Michelle Hunziker che aveva un vestito simile al mio, aperto sul davanti. Hanno fatto un meme, da una parte lei e da una parte io: ‘Quando lo ordini su ‘Wish’ vs. Quando ti arriva a casa’". "Mi sono sentita ferita, in quella foto per la prima volta ho visto la mia sofferenza, perché ci sono persone che sono abbondanti ma tu vedi che quella fisicità gli appartiene - ha detto Noemi - Mi sono fatta un pianto e quella è stata la prima volta in cui mi sono detta che dovevo fare qualcosa".
"Ho lavorato tanto su me stessa, cercando di fare chiarezza, a un certo punto mi ero sentita totalmente fuori fuoco, chiusa in un vicolo cieco, e invece volevo tornare appassionata di me e di quello che mi circonda - ha raccontato poi Noemi nel 2021 a Gino Castaldo - A cominciare dal mio corpo, volevo sentirmi bene. Ero come un minatore che cerca la vena d'oro".
Noel Gallagher compie 55 anni: l’infanzia difficile con il padre alcolista, due matrimoni, 6 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.
Il cantautore - che con il fratello Liam ha dato vita ai compianti Oasis - è nato a Manchester il 29 maggio 1967.
Il successo con gli Oasis
«Il rock sarebbe morto senza di noi. Oggi tutti gli artisti sono così gentili tra loro. Meno male che ci siamo noi che ogni tanto agitiamo le acque». Così di sse in un’intervista a Q Magazine nel 2019 Liam Gallagher a proposito del rapporto tormentato con suo fratello Noel (che proprio oggi compie 55 anni). Liam e Noel alla fine degli anni Ottanta hanno dato vita agli Oasis, tra le band più amate e rappresentative del brit rock, avventura terminata dopo anni di successi nell’agosto del 2009 al culmine dell’ennesima lite. Ad oggi la reunion sembra ancora un miraggio: Liam nel 2020 ha accusato Noel di aver rifiutato – per «avidità» – 100 milioni di sterline per un tour insieme. Ma il secondogenito dei fratelli Gallagher (nato a Manchester il 29 maggio 1967) ha replicato: «A chiunque possa fregare qualcosa non sono stato informato di alcuna offerta da parte di nessuno per una qualsiasi somma di denaro per rimettere insieme la leggendaria rock band degli Oasis». Capitolo chiuso? Chi può dirlo quando ci sono di mezzo i fratelli Gallagher.
L’infanzia difficile
L’infanzia di Noel Gallagher, così come quella degli altri fratelli Paul (nato nel 1966) e Liam (1972) non è stata facile: la famiglia versava in condizioni economiche difficili e il padre Tommy era un alcolista, che spesso diventava violento con la moglie Peggy e con i tre figli. Nel 1976 Peggy avviò le pratiche per la separazione, ma riuscì soltanto nel 1982 a lasciare il marito violento, portando i bambini con sé.
Ha imparato a suonare la chitarra da autodidatta
Da adolescenti i fratelli Gallagher si mettevano spesso nei guai con la polizia. A 13 anni Noel fu condannato a sei mesi di libertà vigilata per furto in un negozio: fu proprio in quel periodo che imparò a suonare da autodidatta la chitarra che gli aveva regalato sua madre. La sua fonte di ispirazione? Johnny Marr degli Smiths: Noel vide la band esibirsi a Top of the Pops e - come ha poi raccontato - da quel giorno «voleva essere Johnny Marr».
Due matrimoni
Noel Gallagher si è sposato due volte: la prima con Meg Mathews a Las Vegas, in Nevada, il 5 giugno 1997. La coppia nel 2000 ha dato il benvenuto alla figlia Anais, ma pochi mesi dopo Noel e Meg si sono detti addio. Dopo la rottura Noel ha conosciuto in un club di Ibiza Sara MacDonald, con cui ha avuto i figli Donovan Rory MacDonald Gallagher (2007) e Sonny Patrick (2010). Le nozze invece sono arrivate nel 2011: testimone dello sposo è stato il comico, attore e conduttore Russell Brand. A Sara Noel ha dedicato «Waiting for the Rapture», canzone contenuta nell'album degli Oasis «Dig Out Your Soul».
L’incidente durante i festeggiamenti per il Manchester City
Che Noel Gallagher sia super tifoso del Manchester City è cosa nota. Forse però non tutti sanno che qualche giorno fa, per colpa dell’esultanza dopo il terzo gol segnato dalla squadra (risultata poi vincitrice della Premier League), il cantautore è finito in ospedale: il padre di Ruben Dias lo ha involontariamente colpito al volto con una testata. «Mi ritrovo per terra coperto di sangue e non vedo gli ultimi due minuti - ha raccontato -. Devo essere portato in ambulanza in ospedale per essere ricucito».
L’intervista a Che tempo che fa
Nel 2015 Noel Gallagher è stato ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Qualche giorno dopo il cantautore in un post pubblicato su Facebook ha definito l’intervista «un vero strazio. E non parlo del playback, ma dell’intervista. Hai una persona in carne e ossa davanti a te che ti fa delle domande in italiano, e un fantasma nell’orecchio che te le traduce in inglese. Di solito è una cosa piuttosto goffa e complicata, ma ecco cosa è successo. E tenete conto che avevo fatte le 5 di mattina, il giorno prima, a fare casino con Nancy».
Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera il 21 aprile 2022.
La festa dei 50 anni la farà in Italia. «In Sicilia. Di voi amo la gente, il cibo, i vestiti. ... e queste cose non le dico in ogni Paese». Liam Gallagher, icona brit anni 90, sta per pubblicare il terzo album solista. Esce il 27 maggio «C'mon You Know», canzoni che, pur con qualche esperimento - sax, cori di bambini, brani reggae e atmosfere gospel - tengono in vita eredità e attitudine rock (collabora anche Dave Grohl) degli Oasis.
Nella title track dice che tutto va bene, canta di sorrisi, di ritorno alla vita... Una reazione alla pandemia?
«Potrebbero essere cose scritte in qualsiasi momento, devi sempre pensare positivo... Che tu abbia 2 o 40 anni sta sempre accadendo qualcosa nel mondo in cui comunque finisci dentro. Quindi forse parla di pandemia... non lo so. Non mi metto mai a scrivere pensando a questo o quel tema. Dopo l'ultimo tour non avevo in progetto un disco nuovo. In lockdown mi sono ritrovato sul divano a fare nulla, ho giocato con la musica e sono nate le canzoni».
Ha pensato che «Moscow Rules», scritta con Ezra Koenig dei Vampire Weekend, è un titolo profetico?
«La canzone non ha nulla a che vedere con la forza di Mosca, è stata solo una questione di tempismo sbagliato».
Sui social ha postato la sua solidarietà all'Ucraina...
«Dovremmo vivere tutti in piena armonia e dire basta a petrolio, avarizia e puttanate del genere... Io sto con i fratelli e le sorelle ucraini. E anche con il popolo russo che starà pensando: "ci stiamo prendendo merda da tutti per colpa di questo vecchio pazzo". Non è la gente a bombardare, le guerre le fa chi governa».
Come vive il passaggio del mezzo secolo?
«Meglio compierne 50 che 60. E a 60 dirò meglio così che 70... Spirito e mente stanno bene. Mi alzo la mattina, faccio lunghe camminate, non bevo quanto penso che potrei riuscire a bere, idem con il fumo, ma amo questa vita».
Cambierebbe qualcosa?
«Mi sono divertito e avrei voluto che quei momenti durassero per sempre. Ho fatto errori, non puoi essere perfetto. Ma non cambierei nulla».
Nemmeno lo scioglimento degli Oasis?
«Non ci saremmo mai dovuti sciogliere».
Un gesto di pace verso suo fratello Noel?
«No, ma non doveva accadere. Avevamo lavorato molto per arrivare dove eravamo, ma non siamo mai stati grandissimi. Lo eravamo in Inghilterra, ma non altrove. Non eravamo la più grande rock band del mondo. C'era ancora molto da fare».
Lei ha detto che vi avrebbero offerto 100 milioni di sterline per la reunion, ma Noel ha smentito. Dice che a quella cifra l'avrebbe fatto...
«È un bugiardo. Non vuole condividere nulla. Ha paura che chiunque altro possa ricevere attenzione, non è in grado di gestire il tema».
È lui la rockstar noiosa e morente che cita in «Joker»?
«Non ho idea di chi sia, ma non è lui. Al mondo non c'è solo Noel Gallagher».
Lei è al terzo album solista, mentre per gli Oasis aveva scritto solo tre canzoni. Una crescita artistica?
«Mi manca essere in una band. Mi manca essere negli Oasis. Erano perfetti per come mi vesto, per come recito, per la camminata, per come parlo... Bisogna prendere quello che passa il convento, ma vorrei essere altrove. Sono stato umiliato. Non scrivevo perché Noel aveva una formula e un suono per gli Oasis: mi andava bene essere solo la rock star, non sono mai andato a dirgli di farmi scrivere. Oggi mi diverto a prendere la chitarra, ma non ho mai preso gusto nello scrivere».
Sarà presto in tour (in Italia a Lucca il 6 luglio): è diverso essere il frontman di se stessi?
«No, è lo stesso. Le canzoni non appartengono a nessuno. Arrivano da un qualcosa di spirituale, da un livello più alto, e passano attraverso noi».
Ha partecipato a un concerto per i lavoratori della sanità e a uno per il Teenage Cancer Trust... è in arrivo un Liam impegnato?
« Mi piace cantare dal vivo e se me lo chiedono per la causa giusta lo faccio. Ma non farei una canzone impegnata. Ho le mie idee, so che alla gente piacciono le canzoni politiche, ma non fanno per me».
Infine, «I' m Free» parte rock e diventa reggae. Sui social usa spesso slang giamaicano...
«Fumando sono arrivato alla marijuana e a Bob Marley. Non fumo ganja da 20 anni ma Marley rimane lassù con John Lennon. Un altro che c'è sempre».
· Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Massimo Iondini per “Avvenire” il 26 maggio 2022.
Una cavalcata tra i decenni e le più iconiche musiche di film e sceneggiati tv. Sul palco i loro autori, qui anche in veste di esecutori. Sono Guido e Maurizio De Angelis, ultrasettantenni e immortali Oliver Onions, il più celebre dei loro nomi d'arte. Il tour Future Memorabilia (disco uscito lo scorso ottobre) approda finalmente a Roma e a Milano: stasera al Teatro Brancaccio e il 6 giugno agli Arcimboldi.
Con loro una super band che vede sul palco Francesco Signorini (tastiere), Federico Paulovich (batteria), Riccardo di Vinci (basso), Giovanni Forestan (sax e percussioni), Filippo Piva e Andrea Garbo alle chiatarre e le coriste Rossana Carraro ed Elena Sbalchiero. A echeggiare le celeberrime note di colonne sonore dei film con Bud Spencer e Terence Hill, Zorro, Sandokan, Orzowei, raccogliendo l'entusiasmo e la nostalgia di almeno tre generazioni.
«Vorremmo fare un concerto di sei-sette ore per riassumere al meglio tutta la nostra carriera, ma siccome dobbiamo limitarci a due ore ecco che l'impresa è stata scremare il più possibile - dicono all'unisono i fratelli De Angelis, laziali di Rocca di Papa -. Suonare davanti a un pubblico che ci segue da decenni è adrenalina pura. Chi ha amato le nostre musiche dei film e degli sceneggiati degli anni Settanta adesso ha i capelli bianchi e per noi abbracciare tutte queste persone ha un valore che va oltre la semplice emozione».
Perché siete tornati a suonare dal vivo le vostre musiche?
La modalità del concerto è qualcosa che non avevamo mai coltivato prima, per una scelta di vita, per non dover andare in giro. Siamo sempre stati più per la sala di registrazione, mandavamo avanti anzitutto la nostra musica, non sentivamo l'esigenza di essere noi a proporla.
Poi nel novembre 2016 a Budapest, per ricordare Bud Spencer scomparso pochi mesi prima, siamo tornati a suonare live dopo oltre vent' anni, davanti a tredicimila persone con una band di 47 musicisti tra cui l'orchestra sinfonica di Budapest. Fu un fenomenale impatto e ora siamo qui per provare a riviverlo in teatro. A noi e al pubblico piace sentire dal vivo brani composti in una sorta di anonimato. Così ci mostriamo in musica e corpo.
Non tutte le vostre colonne sonore sono però uscite su disco...
Sì, perchè la caratteristica del comporre colonne sonore comporta che talvolta alcune non siano ritenute dai discografici adatte a uscire su cd. Non sarebbe vantaggioso economicamente.
Tranne nel caso di produzione di edizioni speciali soprattutto per amatori e collezionisti di colonne sonore, ma si tratta di modalità al di fuori dei normali circuiti commerciali.
Com' è iniziata la vostra carriera, con più di 120 colonne sonore realizzate?
Abbiamo iniziato alla Rca come arrangiatori, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 quando Morricone era già affermato con i film di Sergio Leone. Quello era davvero un periodo d'oro, ricco di fermento e prospettive. C'era una voglia matta da parte della discografia di scoprire e lanciare talenti, cantanti e cantautori. La Rca era un'autentica fucina di idee.
In quel periodo ci avevano assegnato alcuni artisti di cui curare gli arrangiamenti per più di un disco anche per dare una certa riconoscibilità sonora. Tra gli altri, avevamo avuto Gabriella Ferri. Poi c'erano cantanti che vendevano milioni di dischi come Gianni Morandi, Nicola Di Bari o Gino Paoli e ci s' imbatteva in personaggi che solo più tardi sarebbero diventati mostri sacri come Lucio Dalla, che viveva letteralmente alla Rca. Una volta lo trovammo persino addormentato in un ascensore.
Avevate lavorato anche con lui?
Con Lucio abbiamo avuto una bellissima collaborazione facendo gli arrangiamenti del suo secondo album, Terra di Gaiboladel 1970. C'è un brano, Africa, con suoni nostri e del suo gruppo, gli Idoli che fanno già pensare al nostro Sandokan, andato in onda su Rai 1 all'inizio del 1976.
Invece quando è arrivata la vostra prima colona sonora?
Abbiamo esordito nel 1971 con un grande attore ma al debutto da regista, Nino Manfredi. Componemmo le musiche del film Per grazia ricevuta, premiato a Cannes come migliore opera prima.
Musiche a tratti struggenti ben diverse dalle successive, scanzonate, per Bud Spencer e Terenche Hill...
Sì, contenevano tanta malinconia perché rispecchiavano il dramma della storia di Benedetto, Manfredi stesso: un uomo combattuto, incapace di avere fede e di amare. Così come c'era tanta malinconia in Quaranta giorni di libertà, uno sceneggiato del 1974.
Ma spesso nelle nostre composizioni c'è questa vena di atavica nostalgia, pur non essendo intenzionale.
Qual è la vostra "filosofia" compositiva?
Cerchiamo di trovare sempre un tema da portare avanti sino alla fine per sottolineare lo spirito della narrazione. Oggigiorno però quasi tutti i registi chiedono delle situazioni musicali più epidermiche. La tendenza attuale di cinema e fiction è di escludere un certo tipo di commento sonoro che sviluppi veri e propri temi musicali portanti. C'è la richiesta di brevi interventi sonori che non svolgano un ruolo di vero e proprio commento all'immagine, ma solo di leggero supporto. Si tende ad allontanare la musica dalla centralità della scena. Ma così facendo la si minimizza. Ma il film alla fine ne perde.
A quale collega avreste voluto carpire qualcosa?
Burt Bacharach, che ha appena compiuto 94 anni. Grande fonte di originalità. Ma all'ammirazione per Bacharach si affianca ovviamente quella per Ennio Morricone. Certo, sembra incredibile che gli abbiano dato l'Oscar per il film di Tarantino e non per i suoi veri capolavori, come Mission o C'era una volta in America. Morricone avrebbe dovuto vincere cinque Oscar. Ma anche questa è Hollywood.
Arianna Finos per “la Repubblica” il 24 giugno 2022.
Incontriamo Oliver Stone a mezzogiorno, maglietta rossa e pantaloncini, un caffè, nel salotto antico del Paragon di Ostuni. Il regista è all'Allora Festival che ospita tra gli altri Matt Dillon, Marisa Tomei, Jeremy Irons, Edward Norton, divi che si sono eclissati rinviando, poi disdicendo, le interviste fissate, per evitare di commentare la vicenda di Paul Haggis, ai domiciliari in una masseria con l'accusa di aver violentato una trentenne inglese. Ma il regista di JFK , 75 anni, non è uno che si tira indietro.
Il festival ha due direttrici, Silvia Bizio e Sol Costales Doulton, una rarità in un panorama mondiale appannaggio di delegati uomini: «Berlino, Cannes, Venezia sono festival grandi, questo è una delle piccole rassegne estive che mi portano in Italia a scoprire luoghi magnifici e a mostrare i miei film - dice Stone - qui proietto Bush al pubblico italiano e ne discutiamo. I miei film sono apprezzati in Francia, Germania, Italia. Anche negli Stati Uniti ho molti fan ma i media sono duri con me perché parlo troppo in libertà».
Come ha reagito quando ha saputo del fermo di Haggis?
«La notizia non poteva arrivare in un momento peggiore. So che è in corso un'indagine approfondita, nessuno vuole un caso alla Amanda Knox. La verità è che con l'era MeToo è aumentata la sensibilità sull'argomento, qualunque accusa su qualunque cosa. Ora è difficile per un uomo e una donna parlare in un ambiente intimo, privato, non sai mai cosa può seguirne. Meglio essere sempre in tre»
Ma nel caso di Haggis le accuse sono molto serie.
«Non conosco il sistema giudiziario italiano, non so se è come in Fuga di mezzanotte , ma mi pare di capire che i giudici hanno molto potere. So che in Brasile il potere dei giudici è forte, Lula è stato fatto fuori da un giudice».
Nel suo paese Bill Cosby è appena stato condannato a pagare un risarcimento di 500 mila dollari per violenza su Judy Huth, che nel 1975 aveva 16 anni.
«Ma non andrà in prigione, no? La cifra se la può permettere. Le indagini sono sempre complesse e approfondite. Come è stato complesso il lavoro per JFK Revisited , il documentario fatto trent' anni dopo l'uscita del film. Con nuovi materiali verificati da un'indagine ufficiale, federale, che i media americani hanno ignorato. È la nuova censura: omettere. I media tradizionali non cercano la verità. Hanno voluto vedere solo la mano di Lee Harvey Oswald. Era una cazzata allora e lo è oggi. C'è un altro lavoro appena finito a cui tengo molto, sull'energia nucleare».
È un sostenitore?
«Completamente. È simile a JFK Revisited , due anni di lavoro basato su fatti, quello che sappiamo, ciò che dicono gli scienziati, le paure della gente. È una forma di energia che venne respinta, andrebbe ripresa in considerazione. Mi piacciono le rinnovabili ma costano, richiedono spazi, vento e sole dipendono dalle condizioni atmosferiche, non offrono certezze e grandi volumi»
A parte i documentari lei lavora anche a "White Lies", un film personale su tre generazioni di una famiglia.
«Ho abbandonato il progetto per mancanza di finanziamenti. Ora ne ho un altro, ma non ne parlo finché non avrò maggiori certezze».
Neanche Francis Ford Coppola ha trovato un finanziatore per il suo "Megalopolis" e lo sta producendo da solo.
«Sì, ma i mei progetti non costano cento milioni».
Il suo amico Tom Cruise viaggia verso il miliardo di dollari per "Maverick". C'è futuro per il cinema in sala?
«Per film spettacolari come Maverick , per i cartoni, sì. Per altri generi è dura competere con gli schermi di casa, la cui visione è migliorata moltissimo. Le sale diminuiranno».
Lei puntò su Cruise nell'89 e gli fece guadagnare una candidatura all'Oscar con "Nato il 4 luglio".
«Ha talento, avrebbe potuto scegliere qualunque carriera ma è andato avanti sulla via del successo commerciale, funziona alla grande. Fa appello a un pubblico ampio e il militarismo americano ha il suo appeal. Non per me, penso che sia orribile, che l'America sia sulla strada dell'autodistruzione se non rinuncia all'idea della supremazia militare».
Lei ha realizzato un lungo documentario-intervista su Putin. Che impressione ha avuto a riflettori spenti?
«Quel che so di lui è quel che si vede nel documentario. Dopo, non l'ho visto più di una volta. Non so come il suo pensiero sia cambiato. Ma so che il mondo è diventato difficile per la Russia e che per l'occidente è un rischio usare le sanzioni per ferire gli interessi di altre nazioni. Non ha mai funzionato. Tutti i nostri presidenti, tra cui Obama, direbbero "cosa stiamo facendo?"».
Nel suo doc lei mostra "Il dottor Stranamore" a Putin, che non sembra comprenderlo appieno. Quel film evoca uno scenario che oggi fa paura.
«La nostra energia e la nostra fornitura di cibo dipendono molto dalla Russia. Tutto si ritorcerà contro di noi, lo vediamo già adesso con l'inflazione. L'Ucraina viene usata dagli Usa come arma contro la Russia. Dicono che è una guerra non provocata, io invece penso che lo sia stata. Siamo noi che controlliamo i bottoni. Ora in discussione c'è la leadership: John Kennedy non avrebbe fatto tutto questo, e penso neanche Obama».
Barbara Visentin per corriere.it il 4 aprile 2022.
Non c’erano molti dubbi su chi fosse la grande rivelazione musicale degli ultimi 12 mesi, nuova beniamina della Generazione Z, 8 miliardi di stream all’attivo, dischi d’oro e di platino che ne hanno fatto una regina delle classifiche. Ma i 64esimi Grammy Awards hanno consacrato Olivia Rodrigo mettendole tra le mani anche tre grammofoni d’oro: la cantautrice 19enne americana, pur non vincendo alcuni dei premi principali per cui era candidata, è stata incoronata Miglior nuova artista, ha vinto per il Miglior album pop con il suo disco di debutto «Sour» e si è aggiudicata anche la Miglior performance pop solista con «Drivers license», hit dei record che l’ha lanciata.
Sul palco della MGM Gran Garden Arena di Las Vegas, dove domenica notte si è tenuta la cerimonia, il pensiero della ex stellina Disney (ha debuttato nella serie tv «Bizaardvark» e poi in «High School Musical») è andato ai suoi genitori che l’hanno sempre incoraggiata, sia che si trattasse della musica sia di diventare una ginnasta olimpica, percorso che aveva intrapreso prima di virare verso le canzoni: «Questo è il mio più grande sogno che si avvera — ha detto nel ricevere i premi, lunghi capelli scuri e sorriso raggiante —. Voglio ringraziare mia mamma per aver sostenuto così tanto i miei sogni, non importa quanto fossero assurdi. Voglio ringraziare mia mamma e mio papà per essere fieri di me allo stesso modo sia per aver vinto un Grammy sia per quando ho imparato a fare la rovesciata all’indietro».
Classe 2003, brani con cui piangere per le prime delusioni d’amore («Ho 18 anni, di cosa dovrei scrivere, della compilazione delle tasse?», aveva replicato a chi la trovava monotematica e troppo adolescenziale), Rodrigo è nata e cresciuta in California, ma viene da una famiglia in parte filippina, in parte irlandese-tedesca. Figlia degli anni Zero e dell’America multietnica, erede ideale delle sue muse ispiratrici Lorde e Taylor Swift, artisticamente è «figlia» della pandemia che non le ha ancora dato la possibilità di far sentire dal vivo i brani di «Sour».
Per compensare alla mancanza di concerti, ha realizzato un documentario che racconta il dietro le quinte del disco, «Driving Home 2 U (A Sour Film)», uscito a fine marzo su Disney+. È già stata ospite della Casa Bianca ed è stata testimonial di alcuni video per invitare i giovanissimi a vaccinarsi contro il Covid-19.
Ma dopo un anno a seminare, ora è giunto il momento di raccogliere gli applausi perduti, con un fitto tour in partenza in questi giorni dagli States, sempre sold out, che fa tappa (esauritissima) anche a Milano il 16 giugno: Rodrigo ha messo insieme una band tutta al femminile che dal vivo ha un piglio più rock rispetto al pop del disco. Ne va fiera e reclama la necessità di vedere più donne nel rock: «Non ne ho viste abbastanza da piccola», ha dichiarato.
Proprio lei è stata anche la protagonista di uno dei momenti più virali dei Grammy, beccata dalle telecamere a «flirtare» con V (pseudonimo di Kim Taehyung), uno dei sette componenti dei BTS: i due si parlavano all’orecchio e anche se non c’è modo di sapere cosa si siano detti, sono bastati gli sguardi e le espressioni a far impazzire l’armata di fan del gruppo coreano, che ha reso il video uno dei momenti più condivisi sui social della serata.
Serata che, d’altro canto, ha incoronato anche un re, ovvero l’eclettico jazzista Jon Batiste: candidato a 11 premi, ne ha vinti ben cinque, incluso l’album dell’anno, «We Are», ispirato al movimento Black Lives Matter, a conferma di un talento già certificato dagli Oscar che in Italia ancora pochi conoscono. Trentacinque anni, attivista oltre che musicista, Batiste guida la lista dei più premiati davanti a un’altra coppia eccellente, quella dei Silk Sonic ovvero Bruno Mars e Anderson .Paak, quattro vittorie su quattro nomination con il loro «Leave the door open» incluse Registrazione dell’anno e Canzone dell’anno.
A mani vuote Billie Eilish che però è stata protagonista sul palco, dove ha cantato «Happier than ever», indossando una t-shirt nera con l’immagine di Taylor Hawkins, batterista dei Foo Fighters appena scomparso. A lui è stato tributato un sentito ricordo, mentre la rock band, comprensibilmente assente, si è aggiudicata tre Grammy. Altro tributo commovente, in una notte senza colpi di scena che ha bilanciato i clamori per lo «slapgate» degli Oscar, quello di Lady Gaga a Tony Bennett, ormai lontano dai riflettori a causa dell’Alzheimer. I due hanno vinto il Grammy per il Miglior album vocale pop tradizionale con «Love for sale» e Gaga ha cantato anche per il 95enne crooner, rimasto a casa.
Non poteva mancare, infine, un pensiero all’Ucraina: il presidente Volodymyr Zelensky è intervenuto con un video registrato (la stessa cosa era stata ipotizzata per gli Oscar, ma non si era infine concretizzata), prima che salisse sul palco John Legend insieme a due artiste e a una poetessa ucraine. «I nostri musicisti mettono il giubbotto antiproiettile invece dello smoking. Cantano per i feriti. Negli ospedali. Anche per quelli che non li possono sentire. Ma la musica riesce a sfondare comunque - ha detto Zelensky -. Riempite il silenzio con la vostra musica. Aiutateci in ogni modo, in ogni modo ma non con il silenzio. E verrà la pace»
· Olivia Wilde e Harry Styles.
Da rollingstone.it il 6 Settembre 2022.
C’era grande attesa a Venezia 79 per la premiere di Don’t Worry Darling, il film di Olivia Wilde interpretato, tra gli altri, dal suo compagno Harry Styles.
Il film, tra i più chiacchierati della kermesse, è arrivato a Venezia 79 con un bel carico di tensioni interne (in particolare per il possibile litigio tra Wilde e Florence Pugh, l’attrice protagonista della pellicola che non si è presentata – per impegni – alla conferenza stampa di presentazione), rispettando le aspettative, almeno quelle relative al gossip visto che il film, almeno per noi, ha deluso.
Ad alimentare ulteriormente il fuoco del pettegolezzo, infatti, è stata una clamorosa e inaspettata notizia che ci arriva direttamente dalla premiere: Harry Styles potrebbe aver sputato addosso a Chris Pine, co-protagonista della pellicola.
In un video apparso su Twitter, Styles sta raggiungendo la sua poltrona per assistere alla proiezione del film quando, prima di sedersi accanto a Pine, sembra lasciar cadere della saliva sull’attore. Pine, di reazione, blocca l’applauso e guarda incredulo verso il punto in cui la saliva di Styles potrebbe averlo colpito, rivolge gli occhi al cielo e sospira come incredulo, mantenendo un sorriso impassibile. I due non si rivolgono sguardi e Styles si accomoda in poltrona.
Non è chiaro, ed è probabilmente impossibile capirlo da questo video, se Styles abbia intenzionalmente sputato su Pine o se gli sia solamente sfuggita un po’ di saliva, ma di certo sui social lo Spitgate è iniziato, e il pubblico vuole sapere la verità. Su Twitter già si ironizza: meglio lo sputo o lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock?
L'amore femminista di Harry Styles e Olivia Wilde. Anna Lupini su La Repubblica il 6 Settembre 2022.
La coppia si è incontrata e innamorata sul set di Don't worry darling, secondo film da regista di lei, e si mostra per la prima volta insieme sul red carpet alla presentazione del film a Venezia, ma decide di non farlo in coppia. La Wilde ha dichiarato che del cantante e attore ama il fatto che con i suoi look fluidi abbia scardinato i codici di una mascolinità tossica. E che Styles non teme il successo della sua compagna: "la maggior parte degli attori maschi non vuole interpretare ruoli secondari nei film guidati da una regista" ha spiegato la diva. Insomma una coppia che incarna lo spirito del tempo
Olivia Wilde e Harry Styles, la coppia più "sottotraccia" dello star system sbarca a Venezia, e non smentisce lo stile low profile che li caratterizza sin dall'inizio della loro relazione.
L'amore è un delicato gioco di equilibrio. Figuriamoci per due star di calibro mondiale come loro, che sanno bene che nell'epoca del dominio dei social il passo falso è in agguato.
Harry Styles, 28 anni, e Olivia Wilde, 38, hanno iniziato a frequentarsi proprio durante le riprese del film fuori concorso a Venezia. Harry ha sostituito Shia Labeouf nel ruolo di protagonista, e l'annuncio del suo ingresso nel cast è stato fatto dalla stessa Wilde, che ha annunciato su IG di essere fiera di lavorare con Styles e Florence Pugh, che ha definito "bravi ragazzi". All'epoca l'attrice, divorziata dal suo primo marito, il musicista Tao Ruspoli, era ancora impegnata nella relazione con l'attore Jason Sudeikis, padre dei suoi due figli Otis e Daisy.
Nel corso della lavorazione del film, i due sono stati visti insieme a un matrimonio e al festival Coachella. I rumors sono diventati inarrestabili, la relazione di Olivia Wilde con Sudeikis è finita, ma da parte della coppia ancora bocche cucite.
La prima volta che Olivia parla pubblicamente di Harry è nel novembre del 2020, sempre a proposito del film. "Per me Harry è molto moderno davvero privo di qualsiasi traccia di mascolinità tossica, spero che questo sia indicativo della sua generazione e quindi del futuro del mondo", ed elogia la sua sensibilità per lo stile e l'abbigliamento, fondamentale per il film.
La coppia ufficializza la relazione solo a gennaio 2021 dopo essere stati fotografati mano nella mano a un matrimonio. Nel febbraio dello stesso anno, guarda caso il giorno di San Valentino, Olivia decide di elogiare pubblicamente il suo attore protagonista: "Fatto poco noto: la maggior parte degli attori maschi non vuole interpretare ruoli secondari nei film guidati da donne. L'industria li ha spinti a credere che riduca il loro potere (vale a dire il valore finanziario) accettare questi ruoli, che è uno dei motivi per cui è così difficile ottenere finanziamenti per film incentrati su storie femminili. Non è uno scherzo, è difficile trovare attori che riconoscano che vale la pena consentire a una donna di avere su di sé i riflettori. Ecco @harrystyles, il nostro 'Jack'. Non solo ha apprezzato l'opportunità di consentire alla brillante @florencepugh di tenere il centro della scena come la nostra "Alice", ma ha infuso ogni scena con un delicato senso di umanità. Non doveva unirsi al nostro carrozzone, ma è salito a bordo con umiltà e grazia e ci ha stupito ogni giorno con il suo talento, il suo calore e la sua capacità di guidare all’indietro".
Dopo la fine del film, e alcuni mesi di tranquilla vita di coppia a Londra, a giugno del 2021 la prima vacanza di coppia. E dove se non in Italia? Le immagini della coppia a Porto Ercole, in Toscana, ci hanno fatto sognare.
Non è mancata anche un'esternazione sulla differenza di età, una decina d'anni tra i due: è stata ancora una volta Olivia a parlare, dichiarando a Vogue: "Ovviamente verrebbe spontaneo correggere le falsità che si dicono sul proprio conto, ma penso quando sei davvero felice, non importa cosa pensano gli estranei di te. Tutto ciò che conta per te è ciò che è reale, ciò che ami e chi ami".
Sul film, Don't worry darling, aleggia anche aria di burrasca a causa dei presunti dissapori tra la regista Olivia Wilde e l'attrice protagonista Florence Pugh. E in questi dissapori sarebbe coinvolta proprio la relazione tra la regista e il suo attore protagonista.
Quest'ultima, che ha disertato ieri la conferenza stampa, contesterebbe alla Wilde proprio il comportamento sul set, a causa della relazione con Harry Styles. Comunque siano andate le cose, è certo che alla coppia conviene mantenere un basso, bassissimo profilo.
E' per questo che a Venezia, presenti alla mostra del cinema numero 79 per presentare il film, hanno scelto di arrivare separatamente, e percorrere il red carpet allo stesso modo, concedendosi alle foto insieme solo con il resto del cast. Sono attenti e concentrati a non permettere che la loro storia di coppia travolga il lavoro che stanno presentando, e fanno un passo indietro, scegliendo la via della discrezione.
Lui, una stella della musica prestata al cinema con un talento poliedrico e imprevedibile: l'anno scorso ha lanciato la sua linea di smalti, Pleasing, e ha firmato con Alessandro Michele una collezione di abiti firmati Gucci HA HA HA. E' stato il primo uomo a posare in abito da sera femminile sulla copertina di Vogue, in un servizio che ha fatto epoca, teso a ridicolizzare l'immagine della mascolinità tossica. Lei, oltre ad essere un'attrice bellissima e famosa, è un'attivista per i diritti delle donne e un'attenta sostenitrice della causa ambientalista, a cominciare dalla scelta di essere vegana. Impegnata su molti fronti e attiva come regista e produttrice, in un percorso comune a molte affermate stelle del cinema, sembra ben consapevole di quanto possa essere più accidentato per una donna.
Cosa accadrebbe se l'amore tra la regista e il primo attore diventasse il centro dell'attenzione? Ecco il probabile motivo della scelta. Per il photocall Harry, che già aveva incantato all'arrivo a Venezia in total loog Gucci con un fantastico set di valigie coordinate, ha scelto proprio un look di questa sua collaborazione con il brand italiano: blazer gessato color panna, pantaloni sartoriali blu con canotta bianca e foulard al collo. Ispirazione seventies e stile, anzi Styles.(ansa)
Olivia Wilde ha invece optato per un completo in tweed verde prato (colore tormentone della prossima stagione) della Fall Winter 2022 di Chanel composto da giacca corta e gonna A-line sotto il ginocchio con tasche e con bottoni gioiello, abbinato a un paio di stivali a gamba morbida, un modello che vedremo spesso per il prossimo autunno. Il completo era indossato senza top, e il reggiseno nero si intravedeva dalla giacca lasciata aperta.
Firmata Gucci la scelta di entrambi per il red carpet serale: Harry in completo blue navy on giacca doppiopetto e camicia con colletto a punta e occhiali da sole squadrati. Olivia in un regale abito giallo limone con lungo strascico e una cascata di fili di cristalli luminosi.
Matteo Crucco per corriere.it il 3 gennaio 2021. «A Capodanno ho visto per la nona volta Pulp Fiction, ma avrei preferito fare altro»: com’è dura la vita del rocker in pandemia, se c’è una categoria con cui il virus si è accanito più di altri, questa è quella dei musicisti. Come Omar Pedrini: aveva due concerti in Sardegna, spazzate via da Omicron: «Viviamo di serate- racconta l’ex leader dei Timoria- il danno economico è stato grande.
Con tutto l’amore che ho per Papa Francesco, non capisco perché i 20000 all’aperto per la messa di Natale (o gli affollatissimi impianti sciistici) sì e i concerti in piazza no: se l’emergenza è grande, come sembra, forse sarebbe stato meglio chiudere tutto. E invece paghiamo sempre e soltanto noi artisti».
Se il presente dice dunque male a Omar, il passato prossimo e remoto arridono invece assai a questo 54enne artista poliedrico e dal cuore matto. Che con i Timoria, appunto, ha scritto una pagina gloriosa del rock italiano negli anni 90, simboleggiata dal loro album capolavoro, Viaggio senza vento, anno 1993: il cantante lo ha celebrato prima con un tour («dovevano essere 8 date, sono diventate 49») e ora con un libro. Scritto con Federico Scarioni, corredato da belle foto e illustrazioni, «Dentro un viaggio senza vento» racconta prima i concerti e poi quel disco a raggi x. Evidentemente passato di generazione in generazione «visto che ai live ho visto un sacco di ventenni». Perché? «E’ la storia di un giovane in crisi, tra delusioni amorose e dipendenze tossiche, ma che non si arrende alla sconfitta. Valeva nel 1993, vale oggi».
Joe si chiamava quel ragazzo, sorta di rinnovato Tommy degli Who, un concept album (parola antica…) dove Joe ovviamente era Omar. Che si salvò per un pelo: «Nacque mio figlio Pablo, capii che mi sarei dovuto dare una regolata con le droghe pesanti e partii per l’India in un ashram». Un giro di vite che gli sarebbe servito poi quando una malattia congenita gli avrebbe sconquassato il cuore, a partire dal 2002, con diverse ricadute, l’ultima l’estate scorsa: «Sì, se non avessi smesso in tempo sarei morto».
E al microfono di questa avventura avrebbe rivoluto Francesco Renga che lasciò i Timoria per inseguire lidi più nazionalpopolari nel 1998: «Doveva andare a Sanremo e ha detto no. Ne aveva già fatti otto però, forse a uno poteva rinunciare. Siamo come i Beatles, l’unica rockband italiana a non aver fatto una reunion...» scherza un po’ amaro Omar.
Sanremo già, i Timoria furono tra i primi a cantarci nel 1991, tra i giovani, quando tra le rockband non usava e anzi era visto come un sacrilegio: «Sì, abbiamo aperto una strada». Un’autostrada vista la vittoria dei Måneskin. A Pedrini piacciono: «Non fanno parte di una scena, come ai nostri tempi, ma hanno la responsabilità morale di diventarne i leader. E se intanto sotto l’albero i ragazzini han chiesto una chitarra elettrica al posto di un telefonino, è sicuramente merito loro».
Orietta Berti: «Il vero fascino nella vita è l'età». Maurizio Caverzan su Panorama il 5 Novembre 2022.
Alla soglia degli 80 anni (il giugno prossimo) la cantante è un monumento della cultura pop italiana, ma anche una «prezzemolina» della contemporaneità. E vive una seconda giovinezza - come racconta in questa intervista - senza fermarsi mai, tra concerti, dischi, libri, tivù. Del resto, finché la barca va...
Un prodigio della natura. Una cantante tradizionale che surfa sulla modernità. Una matusa, antenata dei boomer, che intrattiene rapper e influencer. Voce e umore squillanti, la vita di Orietta Berti è sempre sull’otto volante. Ci sono i concerti, la promozione del nuovo cofanetto di sei cd (La mia vita è un film - 55 anni di musica), il libro di ricette in arrivo da Feltrinelli, le ospitate… Al Grande Fratello Vip, dove ne succedono di ogni, non s’è scomposta un attimo. Signora Berti, quand’era bambina cosa le dava da mangiare sua madre?
Lasagne, cappelletti, tortelli di zucca, gnocco fritto... la cucina emiliana. Nelle giornate di nebbia, la nonna mi metteva nel caffè un po’ di vino rosso al posto del latte perché diceva che teneva lontana la tosse. A volte, in classe, mi addormentavo sul banco vicino alla stufa rossa. Sa: il vino, il caldo... Ricordo che la maestra chiamò la mamma: «Quando c’è la nebbia questa bambina dorme sempre». Allora la mamma, che gestiva la pesa pubblica e andava al lavoro presto, ne parlò alla nonna e, da quella volta, basta vino. È quello il segreto di tanta energia? Ma no, ho sempre lavorato tanto e dormito poco. Cosa la tiene sveglia? Adesso ci sono tante televisioni. Una volta rompevo le scatole ai miei amici in America e in Canada, lì era giorno... Ho tanto da fare, anche ripassare il repertorio prima dei concerti, bisogna esercitarsi sempre per mantenere la voce. Quando ha scoperto questa capacità di cavalcare la contemporaneità? Ho avuto le occasioni. Tutto è cominciato con il primo libro, Tra bandiere rosse e acquasantiere (Rizzoli, ndr). Poi è venuta la partecipazione all’ultimo Sanremo con Rovazzi. La canzone con Hell Raton, quella con Fedez... Adesso abbiamo pubblicato il cofanetto che era rimasto in frigo un anno e mezzo. Si sta divertendo al Grande Fratello Vip? Sì. Anche se è impegnativo perché vado a Cinecittà il lunedì e torno a casa il martedì, poi di nuovo a Roma il giovedì e riparto il venerdì. Al sabato e la domenica ho i concerti... Che cosa le piace di più? Le storie delle persone che sembrano dei film, ogni vita lo è. Prenda Giovanni Ciacci e la sua sieropositività. Abbiamo consigliato ai giovani di non provare vergogna a parlarne perché se quella malattia non viene affrontata presto, poi non la si può più curare. Anche l’indifferenza verso i malati di depressione va combattuta. È il male del giorno. Non so se è una malattia o più una forma di disagio. A volte si scontra con l’indifferenza perché tutti siamo indaffarati e non c’è mai tempo. A una persona fragile può bastare una carezza, si può andare a trovare a nonna... Chi non ha avuto un caso in famiglia? Io stessa ne ho sofferto. Dopo il Festival di Sanremo e il suicidio di Luigi Tenco? Esatto. Ma io sono stata fortunata perché mio marito mi è stato vicino. E anche il pubblico. Trovavo tutte le porte chiuse. Solo due persone mi hanno aiutato, Gigi Vesigna e Antonio Lubrano, che difesero il successo di Io, tu e le rose. Gli altri giornalisti non mi potevano vedere. E pensare che proprio loro, nella giuria dei critici, non avevano ripescato la canzone di Tenco. Al Grande Fratello c’è qualcosa che non le piace? Il frasario, le parolacce. E le chiacchiere dietro le spalle. Io sono emiliana e se ho qualcosa da dire lo dico in faccia. Si sparla di uno e poi... ti voglio bene. Anche tutto questo bene va dosato, diciamo la verità. Cos’ha perso non andando più al Tavolo di Fabio Fazio su Rai 3?
Ci tornerò prima o poi per promuovere il cofanetto. L’anno scorso partecipavo anche a The Voice Senior su Rai 2, poi facevo una telenovela su Sky con Manuelito (Hell Raton, ndr) e Quelle brave ragazze. Ma mi piace cambiare, così sono tornata su Canale 5 dov’ero già stata con Maurizio Costanzo dal 2000 al 2005. Ha perso dei programmi, ma economicamente ci ha guadagnato. No, se calcola tutte le trasmissioni. Ho voluto fare qualcosa di nuovo. Tra poco esce anche il mio libro di cucina per Feltrinelli con le ricette afrodisiache. Ci sono quei cibi che fanno venire quel risolino un po’ stupido che fa sentire giovani. Ma afrodisiaco vuol dire un’altra cosa. Il vero afrodisiaco è l’età. Nel libro insegno come si fanno gli stuzzichini in cinque minuti da mangiare quando si fanno le ore piccole come facciamo noi dello spettacolo. E poi le ricette di mia nonna, di mia madre e di mia suocera... Come mai ha aspettato un anno e mezzo per pubblicare il cofanetto? Perché prima c’era il libro, poi a Natale avevo fatto Luna piena con Hell Raton, poi Sanremo. Con il Grande Fratello è venuto il momento giusto. Ha una bellissima copertina, creata da un ragazzo di Bologna che sul dipinto di Rubens di Anna d’Austria ha messo la mia faccia. L’ultimo cd è tutto di canzoni d’amore: l’amore per un cane, l’amore di una madre per il figlio gay, l’amore di una donna che sa di esser tradita, l’amore platonico. Nel quinto cd invece ci sono i duetti e le sigle... Come mai anche i ragazzini cantano le sue canzoni? Devo ringraziare Fedez e Achille Lauro che con Mille mi hanno aperto un mondo. A ogni concerto vedo che adolescenti e ragazzi le sanno a memoria. Un’esperienza bellissima. Parlando di rimpianti, il più grosso è non aver posato per Playboy? Quelle sono stupidaggini. Rimpianti di mancati guadagni. Ma no, sono una che va in giro senza un soldo. Non so neanche cosa prendo al Grande Fratello, fa tutto il mio manager. Non ho ancora firmato i contratti perché non ho mai tempo. E perché sono state scritte certe cifre? Non lo so neanch’io. Di vero c’è che Pier Silvio Berlusconi mi ha proposto uno special sulla mia carriera. Dovevo già farlo in Rai con Bibi Ballandi, ma dopo che è mancato non se n’è più parlato. A Mediaset mi sono sempre trovata bene perché trattano bene chi lavora per loro. Niente Playboy e anche niente Tinto Brass.
Neanche lui. Voleva propormi una parte in Monella, la sorella maggiore o la mamma di Serena Grandi. Non voleva farmi fare cose piccanti, ci mancherebbe altro. Lo sa che un po’ di anni fa il suo giornale mi aveva inserito nelle 20 donne più sexy d’Italia? Pensi un po’ , io... Credevo di essere sexy solo per mio marito. Pensa a lui quando in Mille canta «quando sei arrivato ti stavo aspettando»? Anche ai miei figli che non rispondono al cellulare e tornano a casa alle 3 di notte. È vero che ha anche il padre spirituale? Certo, prima era padre Ugolino, un cappuccino della Certosa di Firenze che è morto. Adesso ho don Guido Colombo, che ha l’età di mio figlio Omar. Anche lui di Firenze? No, lui sta a Roma, ha diverse lauree ed è ben introdotto in Vaticano. Dice messa in latino alla Radio Vaticana. E lei l’ascolta in latino? Anche in latino mi piace. Ma di solito la guardo su Tv2000, in italiano. Parlando del Grande Fratello, don Colombo le ha detto di portare un po’ di normalità: pensa che ci sta riuscendo? Dico la mia opinione con calma... In quel calderone. Ognuno vuole raccontare la sua storia. E quindi noi dobbiamo ascoltare, seguire il comportamento che hanno le persone. Quando Alfonso Signorini mi ha chiamato dopo avermi visto sulla nave a Sanremo, gli ho detto che non l’avevo mai visto. Meglio così, mi ha risposto. Ma cos’è la normalità oggi?
La normalità è non arrabbiarsi. Non parlare in fretta. Non offendere, rispettare sempre la persona che si ha davanti e parlare in modo che possano capire tutti. È contenta che una donna guidi il nuovo governo? Be’ sì, se fa le cose giuste. Largo alle donne, se sanno fare il proprio lavoro. Conta che sia uomo o donna? Conta che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in parte. Il fatto che non sia femminista la rende un po’ meno donna? Non si può andare bene a tutti, ognuno dice la propria opinione. Ma contano i fatti. Suo marito il Grande Fratello lo guarda fino all’una e mezza di notte o a un certo punto va a dormire? Lo guarda perché vuole vedere se faccio qualche gaffe. Poi io lo chiamo appena finita la puntata. Qualche volta le fa delle critiche? Finora no, non ho sbagliato i nomi e le cose che dovevo dire. È un giudice benevolo? Perché lei ha visto che ho sbagliato qualcosa? Osvaldo mi ha detto di contare fino a tre prima di parlare perché oggi se appena uno sbaglia viene subito ripreso da tutti. Dopo tutti questi programmi non possiamo nemmeno dire che le manca Sanremo. Quest’anno non ci sarei andata nemmeno se avessi avuto la canzone giusta. Magari potrebbe presentarlo con Amadeus? A chi non piacerebbe, ma Amadeus lo sa fare benissimo. Penso che debba essere un uomo a presentarlo.
L’han fatto tante donne, non sarà maschilista? No, anzi. Però, è una bella responsabilità scegliere le canzoni e fare un buon lavoro d’équipe. Ma lei è una forza della natura. Quando lavoro non mi ricordo quanti anni ho. È quando guardo la carta d’identità che mi spavento. Poi mi faccio una bella risata e vado avanti.
Marinella Venegoni per “la Stampa” il 6 ottobre 2022.
Cara Orietta Berti, siamo alla sua terza vita artistica. Opinionista e show woman commentata e inseguita, deragliante su tutti i binari della tv. «Cinque anni fa ero opinionista con Costanzo, e volevo tornare a Canale 5, dove sono di casa. Quando mi hanno proposto il GF Vip, Osvaldo ha approvato, ma mi sono accorta che dovevo lasciare tante cose, anche "The Voice" dov' ero giudice, e anche "Quelle brave ragazze" su Sky perché non ci sto con i tempi».
Al GF Vip per consolare Ginevra Lamborghini squalificata e piangente, ha raccontato di quando si è suicidato Tenco lasciando quel biglietto di protesta contro la giuria di Sanremo che mandava in finale "Io tu e le rose"...
«Ho sofferto molto, per fortuna mi hanno aiutata. La canzone aveva venduto un milione e mezzo di copie, ma ho avuto una sensazione di isolamento. La tv aveva solo due reti, fino al '68 non ci sono potuta tornare e tutti mi evitavano. Altra fortuna, il pubblico non mi ha mai mollata, ero giovane e alle prime armi... pensi ci fossero stati i social».
Qualche sera prima, da Costanzo, ha ricordato che Playboy la voleva nuda in copertina, e lei disse di no.
«Non solo per il pensiero che mia suocera mi avrebbe portato via mio marito. 55 anni fa, anche mia mamma era una marescialla. Mi dissero al tempo che con i soldi che avrei guadagnato avrei potuto comprare 4 appartamenti, ma intanto avrei messo nel ridicolo Osvaldo. In quel periodo facevano film un po' spinti, con attrici come Edwige Fenech.
Un giorno mi chiamò Tinto Brass, rispose mia mamma: "C'è quello che fa tutti quei film sporchi". Invece lui disse: "Non la faccio spogliare, deve fare la maggiore". Tante altre volte mi ha chiamata: "Ho una parte per lei". Avrei invece volentieri comprato un titolo nobiliare, andai dal marchese Manodori di Reggio Emilia con Osvaldo, sapevo che vendeva il titolo. E comprammo invece due quadri del Seicento che sono ancora nel salone. Lo sa che Serena Dandini è duchessa? Me lo ha detto lei».
E intanto è uscito il 16 settembre un suo monumentale cofanetto con 6 cd, "La mia vita è un film: 55 anni di musica", con 130 brani.
«Ho dovuto rinviarlo perché andava bene il vinile, e ho avuto tanti successi con Mille, e Luna Piena di El Raton mi ha fatto arrivare ai concerti ragazzi e bambini che sanno tutte le canzoni vecchie, Tipitipitì o In via dei ciclamini. Il cofanetto è da appassionati: nel quinto cd ci sono i duetti, con Platinette, Lodo dello Stato Sociale, Maurizio Ferrini; Malgioglio mi ha fatto stravolgere da un dj Innamoramento. Lo presento dovunque, anche fuori da Mediaset. A Verissimo son stata, poi sarò dalla Bortone, da Mara Venier: i soliti giri. Sei in esclusiva, ma per la promozione ti lasciano fare».
Le mancherà il Tavolo di Fazio? Prende il suo posto Mara Maionchi.
«Mi mancherà ma non sono pentita. Il GF mi piace, non credevo mi coinvolgesse. Leggi le bio, parli con gli autori, ci son persone con lati negativi, ma che hanno avuto i loro guai. A volte si lasciano andare, non sanno che sono sempre registrati. Questo patatrac del ragazzo andato in depressione è terribile, Ginevra è stata squalificata per la sua frase sul bullismo. C'è gente che per il bullismo si è tolta la vita. Il mio padre spirituale, che ha l'età di mio figlio Otis, mi ha detto: "Fai bene ad andare, devi portare la normalità". Io non dico bugie, offro la sensazione che mi danno le cose».
Qualche mese fa Natalia Aspesi ha parlato della sua fatica ad adattarsi al pensiero medio contemporaneo: "Far finta di non essere chic essendolo, di amare Orietta Berti se non la si ama". Che ne dice?
«Io sono una donna normale, e faccio questo lavoro da diva. Non ne ho mai avuto l'atteggiamento, però mi vesto da Nicolò Cerioni che veste i Måneskin ,Achille Lauro, Jovanotti. Mi vesto da diva, ma sono normale. Faccio notare che da 40 anni mi produco da sola, dischi e concerti. Se non mi vedete qui è perché canto all'estero.
Ammiro tantissimo Mina e cercavo di imitarla: ma Giorgio Calabrese, il suo autore che mi scoprì, mi disse: "Non devi imitare nessuno, hai una bella voce, usala come sei". Mi ha mandata a un'etichetta internazionale, la Philips. Bisogna essere intelligenti a decidere, con Osvaldo abbiamo sempre cercato di capire da quelli che ne sanno più di noi. È anche bello vivere nella normalità, pensi a quelli che debbono inventare tutto e poi non entrano nel personaggio che si sono creati».
Da leggo.it il 3 ottobre 2022.
Orietta Berti a domanda risponde. La cantante ama raccontarsi e, come è noto, quando si tratta di raccontare dettagli stravaganti o inediti sulla sua carriera non si tira mai indietro. È successo anche venerdì sera quando l'artista, ospite a Maurizio Costanzo Show, ha rivelato che in passato le offrirono molto denaro per posare senza veli per riviste quali Playmen e Playboy.
Orietta Berti senza veli: «Mi offrirono una cifra enorme per posare nuda»
A toccare l'argomento è lo stesso conduttore, al quale Orietta risponde: «Mi hanno proposto una cifra enorme per posare nuda. Con quei soldi, avrei potuto comprarmi quattro appartamenti». A quanto si apprende, l'usignolo di Cavriago non ha mai accettato quelle offerte, puntando sempre e solo sulla sua voce cristallina per farsi conoscere e apprezzare dal pubblico.
Le ragioni di quel rifiuto è la stessa cantante a spiegarle durante il programma: «Oltre a essere una donna che ha del pudore, non ho accettato soprattutto per mia suocera. Voi non l'avete conosciuta, ma lei era molto forte. Mi avrebbe tolto mio marito». Insomma, al successo facile preferì l'amore e da allora non se ne è mai pentita.
Totò Rizzo per leggo.it il 19 settembre 2022.
Per capire com’è caricata a molla Orietta Berti, sulla soglia degli 80 anni, basta farsi raccontare le sue ultime 48 ore. «L’altra sera ho avuto a cena degli amici (a Montecchio, Reggio Emilia, ndr.), ho messo l’ultimo piatto in lavastoviglie a mezzanotte e mezza, alle tre e mezza del mattino è arrivato l’autista per portarmi all’aeroporto di Bologna dove ho preso il volo per Brindisi perché la sera avevo lì un concerto.
L’indomani sono tornata a casa per fare interviste telefoniche sul cofanetto con 6 cd appena uscito che contiene tutta la mia carriera, 55 anni in 130 canzoni, compresi 20 inediti, e ne ho approfittato per leggere un po’ di biografie dei partecipanti al “Grande Fratello Vip”. Oggi mi vengono a prendere per portarmi a Roma negli studi Mediaset, domani invece…». Ecco, solo a pensarci uno stramazza al suolo, lei invece è una marcia trionfale.
Stasera su Canale 5 sbarca dunque alla corte di Alfonso Signorini come opinionista. «Mi hanno talmente corteggiata…», confessa non senza una punta di vanità. E così, ogni lunedì e giovedì scenderà in campo per tranciare giudizi sui concorrenti autoreclusi nella Casa di Cinecittà. L’altra opinionista sarà Sonia Bruganelli (un ritorno) che non ha certo lesinato “lanci di coltelli” ai partecipanti della scorsa edizione. Per cui, da Orietta, l’Italia affamata di reality si aspetta magari un contrappeso di caritatevole condiscendenza.
L’hanno chiamata per fare un po’ la Grande Mamma, lo ammetta.
«Per niente. Vediamo prima come si comportano e poi bacchetteremo o assolveremo. Non è detto che mi siano tutti simpatici ma cercherò d’essere imparziale».
Come l’ha convinta Signorini ad entrare in questo girone infernale?
«Con Alfonso ci conosciamo da decenni, mi ha sempre telefonato per gli auguri quando ho affrontato una nuova avventura televisiva o canora. E poi tutta Mediaset, sono stati carinissimi, dai dirigenti agli autori del programma. Per me è un ritorno, lì sono stata di casa per tanti anni con Maurizio Costanzo a “Buona domenica”».
La voglia di novità non la abbandona mai.
«Sono una Gemelli: curiosa, mai ferma. Mi annoierei a morte se facessi sempre le stesse cose. Quest’anno sono passata da “Che tempo che fa” con Fazio a “The Voice Senior” con la Clerici, da “Quelle brave ragazze” con la Maionchi e la Milo ai The Jackall per “Indovina la canzone”. Salto da un canale all’altro, sempre in movimento».
Allora al “GF Vip” non parteciperebbe mai come concorrente.
«Chiusa tra quattro mura per mesi? Mi basta il cachet da opinionista. Mi mancherebbe troppo la mia famiglia. Ho fatto voli di venti ore per tornare in Italia dall’estero e stare anche un solo giorno libero con mio marito e i miei figli».
Non si concederebbe nemmeno la tentazione di un flirt come tanti ne nascono là dentro…
«Un flirt? Io? Mi tengo il buono che ho scelto 55 anni fa, mio marito Osvaldo. Mi girano intorno tanti bei maschi ma ormai possono chiamarmi mamma o nonna».
Dei “vipponi” di Signorini conosce già qualcuno personalmente?
«Giovanni Ciacci. Tanti anni fa lavorava in una sartoria d’alta moda dove sceglievo gli abiti per le serate. Poi Wilma Goich: ci siamo sempre incrociate nei festival, in tv. Di molti, come le ho detto, sto ancora leggendo le biografie».
Di solito nella Casa del “GF” cucinano schifezze. Se Signorini la invitasse ad andare a preparare qualcosa?
«A me non piace stare ai fornelli, ho abbandonato le pentole tanti anni fa per il microfono. Però sono una brava improvvisatrice in cucina, ho l’estro dell’ultimo minuto. Magari entrerei nella Casa e chiederei: “Ragazzi, cosa avete nel frigo?”».
Parliamo del disco: 130 canzoni, 6 cd, un’autobiografia in note. Ha voluto fare le cose in grande. «La mia vita è un film. 55 ++ anni di musica». Scusi, ma quel ++?
«Sono i due anni che ci ha rubato la pandemia».
Ma anche in quei due anni lei mica si è fermata, ha fatto Sanremo, i tormentoni estivi…
«Si ma il disco sarebbe dovuto uscire molto prima, solo che in mezzo ci si son messi “Mille” con Fedez e Achille Lauro, poi questa estate “Luna piena” con Hell Raton…»
Orietta, da icona pop a icona rap… chi l’avrebbe mai detto?
(Ride). «Ma sa che adesso ho uno zoccolo duro di fans che vanno dagli 8 ai 15 anni? Prima magari venivano svogliatamente portati dalle mamme o dalle nonne, adesso sono i ragazzini a portarle ai miei concerti».
Anche icona gay. In uno dei cd ha voluto inserire il live di “Dietro un grande amore” la canzone di Paolo Limiti che ha cantato con i Tango Spleen alla festa per l’’unione civile dei suoi amici Nick Cerioni e Leandro Manuel Emede.
«Era una cosa improvvisata ma è venuta talmente bene che ho detto: mettiamola nel disco. Nick è il creatore che cura la mia immagine, Leandro un bravissimo regista. Non è la prima volta. In tempi in cui in Italia non si parlava ancora di unioni civili, proprio con Paolo Limiti abbiamo fatto da testimoni a due nostri amici italiani che si sono sposati a Los Angeles».
Nella copertina del cofanetto è raffigurata come la regina Anna d’Asburgo dipinta da Rubens.
«Un regalo che mi ha voluto fare un mio fan bolognese, un designer geniale, Andrea Antonucci, in arte Nero blk. Meglio vestita da regina che la classica foto posata».
Ma lei si sente un po’ regina, Orietta?
«Ma per carità, al massimo sono regina a casa mia, con mio marito, i miei figli, le mie nipotine, nove gatti e due molossi».
Per restare sul trono così a lungo, nella vita e nella musica, c’è un segreto?
««Spirito ottimista e fisico forte. Da noi, a tortellini, si viene su bene, sa?».
Da corriere.it il 18 settembre 2022.
Uno dei motivi per cui Orietta Berti sta unanimemente simpatica al pubblico è la sua candida sincerità. La cantante romagnola, 79 anni, l’ha sfoderata anche stavolta, alla vigilia della nuova edizione del «Grande Fratello Vip» su Canale 5 che la vede new entry fra gli opinionisti. In un’intervista al Messaggero, ha infatti spiegato come è stata convinta ad entrare nel programma condotto da Alfonso Signorini, abbandonando Fabio Fazio a «Che tempo che fa».
«Soldi. Tanti - ha detto Orietta senza mezzi termini -. E oltre al ruolo da opinionista al “Grande Fratello Vip” anche uno show tutto mio, in due puntate, di cui stiamo definendo i dettagli e la messa in onda. Sarà una festa per celebrare i 60 anni di carriera, tanti quanti ne sono passati dall’uscita del primo 45 giri, “Non ci sarò/Franchezza”. Era il 1962». Berti ha aggiunto che Fazio inizialmente non ha preso bene il suo addio: «Un po’ ci è rimasto male, gli ho spiegato che era un’offerta che non potevo rifiutare. Alla fine se ne è fatto una ragione», ha detto.
Orietta Berti e Osvaldo Paterlini: «Lui cercò di conquistarmi con una forma di Grana. Lo sento 20 volte al giorno». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.
La cantante racconta la lunga storia d’amore con il marito. «Ci sposammo perché io dovevo partire per l’America e lui non poteva accompagnarmi senza la fede al dito».
I loro sguardi si incrociarono per la prima volta a Montecchio Emilia, tra un pezzo di culatello e uno gnocco fritto, sullo sfondo di una sagra. E da quel lontano giorno del 1964, Orietta e Osvaldo non si sono più lasciati. Tre anni di fidanzamento, cinquantacinque di matrimonio, due figli (Omar e Otis), un numero incalcolabile di rose rosse che lui, ancora oggi, continua a farle trovare ogni volta che lei torna a casa, reduce da una serata, dalla registrazione di uno show televisivo, da un altro dei tanti appuntamenti di lavoro. Perché lei, Orietta Berti, sta vivendo una seconda giovinezza canora a 79 anni e lui, Osvaldo Paterlini, a 80, la guarda come se fosse il giorno del loro primo incontro.
Vi siete conosciuti alla mitica Fiera di San Simone a Montecchio Emilia, vero?
Orietta «Sì, io avevo da poco perso il papà, alcuni amici mi convinsero ad andare con loro per svagarmi. Osvaldo era lì. Magro, discreto. Non faceva il marpione e non raccontava le barzellette come la maggior parte dei miei coetanei di allora. Ma lo sa che in tanti si portavano dietro il libretto delle storielle?».
Osvaldo «Di lei mi piacque lo sguardo, ma anche il modo di fare, allegro e gentile».
Chi fece il primo passo?
Orietta «Lui mi fece sapere, tramite un amico, che avrebbe avuto piacere di venire a trovarmi a casa. Io abitavo con la mamma e la nonna: Osvaldo si presentò con una bella forma di Grana».
Osvaldo «Quello buono».
Orietta «No, non è vero e infatti io ebbi subito da ridire: quello buono lo facevamo noi, a Cavriago, con le vacche rosse».
Ma la mamma e la nonna, quando videro questo ragazzo taciturno e sobrio, che cosa dissero?
Orietta «Nonna mi prese da parte allarmata: “Lascia perdere, è troppo secco, mi sa che è malato”. All’epoca bisognava essere belli grassi per piacere a mamme e nonne. Non la ascoltai, per fortuna».
Osvaldo «Io però le capivo quelle donne e feci di tutto per dimostrare che a Orietta ci tenevo sul serio».
Per esempio?
Orietta «Be’, accettò di sposarmi per potermi accompagnare in America».
Racconti.
Orietta: «Ci siamo frequentati per tre anni. Poi, nel ‘67, Claudio Villa mi telefonò e mi invitò a fare una tournée con lui negli Stati Uniti. Un sogno per me. Ma mica potevo andarci da sola. Mamma non se la sentiva di affrontare quel viaggio, però la buttò lì: “Se Osvaldo ti sposa, ti può accompagnare lui”. Non era una cattiva idea, lui acconsentì».
Osvaldo «Ma c’era un problema: eravamo nel periodo della Quaresima».
Cioè: se vi foste sposati in quel periodo, tradizionalmente chiuso ai matrimoni, in paese avrebbero fatto illazioni su una presunta fretta di andare a nozze.
Orietta «Esattamente. Così andammo dal nostro don Gino Benevelli per esporgli il problema. Lui non fece una piega: “Domenica prossima venite su a Castelnovo, alla Pietra di Bismantova, c’è una chiesa meno frequentata, vi sposo lì”».
Osvaldo «Da allora io l’ho accompagnata dappertutto nella sua carriera. Ho smesso di fare il mestiere che facevo (il rappresentante di una ditta, ndr.). Da qualche anno, però, ho qualche problemino di salute: un brutto glaucoma, sono stato operato otto volte, da un occhio non ci vedo. Così con lei va nostro figlio Otis. Però ci telefoniamo venti volte al giorno».
Venti volte al giorno?
Osvaldo «Sì, ma è lei che è sempre in ansia. Se, per dire, se io vado dal barbiere, che sta a cento metri da casa, Orietta si preoccupa. Mi chiama, vuole sapere sempre dove sono».
Orietta «Lui esagera, io sono dei Gemelli, una esuberante, attiva. Agli inizi della nostra storia sentivo che eravamo molto diversi e avevamo sempre da ridire. Con il passare degli anni, però, abbiamo finito per assomigliarci e così oggi fatico a pensare di dovermi separare da lui, anche solo per qualche tempo».
Osvaldo «Se lei non è in casa per quattro o cinque giorni di fila, mi manca, sono triste. È una forma di gelosia ma non nel senso tradizionale della parola. Sono geloso del suo lavoro, del suo pubblico che può averla vicino. Mi manca fisicamente, voglio sentirla parlare, voglio sentire le sue mille idee quotidiane, alcune assurde, va detto, perché questa donna qui non smette mai di inventarsi cose. Una canzone, un programma, un video. Io cerco di placarla e di farle capire che tutto non si può fare, deve imparare scegliere».
E quando è arrivata la proposta di Fedez per cantare assieme, come l’avete presa?
Orietta «Un poco avevo timore, perché pensavo che la mia partecipazione sarebbe sembrata fuori luogo. Io sono di un’altra generazione, temevo il ridicolo. I nostri figli storcevano il naso: “Mamma, ma ti prenderanno in giro”. Poi però abbiamo capito che il progetto di Fedez rispettava la mia carriera e, soprattutto, la mia voce. È stato un successo enorme e quando si è aggiunto anche Achille Lauro (il terzo interprete del brano Mille, ndr). Ho capito che potevo fidarmi: questi ragazzi sono dei professionisti. Anche se hanno un modo tutto loro di lavorare, io sono di un’altra epoca».
Per esempio?
Orietta «Fanno tutto con i vocali su Whatsapp. Le proposte, le modifiche, le prove. È tutto un vocale con loro, io divento matta».
Ma negli ultimi tempi per lei ci sono stati il «Grande Fratello Vip», Sanremo, il road show «Quelle brave ragazze» su Sky con Maionchi e Milo, le serate, i premi. Ormai, Orietta, lei torna a casa raramente.
Orietta «E quando ci torno, Osvaldo mi fa trovare regali. Lui però mi regala spesso cose che potremo, un giorno, lasciare in eredità ai figli, come dei quadri. L’altro giorno gli ho detto: “No, adesso voglio una cosa solo per me”. Lui ha fatto una cosa bellissima: io avevo visto al polso della mia dottoressa un braccialetto bello e strano. Lui, in gran segreto, si è informato sull’artigiano che lo aveva fatto e me ne ha fatto fare uno uguale».
Osvaldo «Racconta però anche la faccenda delle rose».
Orietta «Ah, sì. Una volta mi ha regalato cinquanta rose rosse ma io non avevo un vaso abbastanza resistente e così quando le ho messe in acqua il vaso si è rotto».
Osvaldo, ma è vero che Orietta è una maniaca della pulizia in casa?
Osvaldo «Non me ne parli. Lei, ogni sera, mette tutto a lavare, dal maglione alle calze. Non viene a letto se non ha lavato tutto, fossero anche le tre di notte. Oddio, è vero che ormai dormiamo pochissimo. Io due o tre ore, lei anche. Quando dormiamo cinque ore per noi è un lusso».
Orietta «Ma io sono fatta così, d’altra parte non ho mai cercato il principe azzurro, que giorno è passato Osvaldo e me lo sono preso. Pace».
Avete avuto il Covid?
Orietta «Quando Osvaldo se lo è preso io sono stata chiara: se ricoverate lui, dovete ricoverare anche me. Io non lascio solo mio marito».
Per fortuna, con i vaccini, tutto bene.
Orietta «Sì ma io ho avuto il Fuoco di Sant’Antonio. Ce n’è sempre una».
Anticipazione da “Chi” il 12 luglio 2022.
Sul numero di Chi in edicola da mercoledì, Orietta Berti parla per la prima volta del suo ruolo di opinionista al Gfvip, il reality condotto da Alfonso Signorini che torna su Canale 5 a settembre. «Mi incuriosisce vedere tutta quella gente chiusa nello stesso posto per molto tempo.
Con il carattere che ho, non riuscirei. E poi, anche quando viaggio, devo avere almeno una persona della mia famiglia con me, nella stessa stanza. Ma capisco anche che chi vive da solo, e non ha una famiglia a volte possa stare meglio nella Casa che fuori».
A proposito del rapporto con l'altra opinionista, Sonia Bruganelli, che l'anno scorso fece scintille con Adriana Volpe, ecco cosa dice la Berti: «Ah, perché, c’è anche da litigare? Pensavo che si potesse discutere solo con i concorrenti. Con Sonia capiterà di non essere d’accordo, ogni persona ha la propria maniera di vedere le cose».
A proposito dei fenomeni come Fedez, i Maneskin, Achille Lauro, Rovazzi, la Berti dice: «Noi eravamo più timidi alla loro età, anche se ricordo Franco Battiato che si vestiva già in modo stravagante. Ma erano altri tempi.
Adesso, invece, te lo aspetti: quando vedi Achille Lauro con un completo e la cravatta ci rimani, perché te lo aspetti nudo. Ma i valori sono gli stessi. Fedez è un padre che si commuove quando sente la voce dei suoi figli. Ho fatto tante cose con questi ragazzi giovani, anche a Sanremo, e li vedo che si atteggiano, sembrano così sicuri, ma, quando parli con loro lontano dalle telecamere, sono dei cuccioloni che hanno voglia di arrivare per dare una gioia ai genitori o alla fidanzata. È sempre uguale, cambia solo il modo di atteggiarsi».
A proposito del Covid, che ha colpito lei e il marito, Osvaldo, nel 2020, la Berti ricorda: «Ci volevano portare in ospedale, ma Osvaldo disse: “Voglio morire qui, nel mio letto”, e io gli risposi “Ok, facciamolo, così siamo insieme”. Pensiamo sempre allo stesso modo, abbiamo vissuto così tanto tempo uniti che la sera non capita mai di dire “non sai cosa mi è successo oggi”».
E, sul rischio che i tanti concerti estivi possano aumentare la diffusione dei contagi da Covid, spiega: «Spostare un concerto a cui magari tante persone lavorano da un anno è una parola. E poi, se lo sposti di due settimane, cosa cambia? I rischi sono gli stessi, perché questa è una cosa lunga. Meglio andarci con le mascherine: bisogna convivere con il rischio. Sono una donna di spettacolo e magari qualcuno dirà “lo dici perché a voi conviene”. Ma, allora, se bisogna privilegiare la sicurezza, bisogna spostare i concerti avanti di mesi, e farlo con tutti».
Dario Salvatori per Dagospia l'1 giugno 2022.
A proposito dell’intervista di Pierluigi Diaco a “Ti sento”, in onda ieri su Raidue in coincidenza con il compleanno della cantante (79), tanti auguri, Orietta!, c’è da rilevare qualche passaggio.
Ha ragione la Berti a dire che i cantanti, almeno fino alla seconda metà degli anni Settanta, erano dei pupazzi nelle mani dei loro discografici. Soprattutto le donne, comprese le più popolari, da Mina a Milva, da Ornella Vanoni ala stessa Berti. Lei è stata legata per ben 18 anni al gruppo Polydor, ovvero la più potente major europea.
Dal 1962 al 1979 ha potuto fare una carriera straordinaria: 18 milioni di dischi venduti, la partecipazione a 10 Festival di Sanremo (poi ne sarebbero arrivati altri due nella maturità) e soprattutto un affiatatissimo combo autoriale: Pace-Panzeri-Pilat, ovvero la P3 della canzone. Pilat (Lorenzo Pilat), preferì abbandonare il Clan Celentano dove entrò fin dai primi mesi come Pilade,per abbracciare una carriera di autore. Fortunatissima.
Questi tre signori hanno venduto più di 400 milioni di dischi (estero compreso). Il debutto della Berti: fu rapidissimo: plurivincitrice a “Settevoci” di Pippo Baudo, vincitrice nel 1965 sia del “Disco per l’estate” (con “Tu sei quello”) e del Festival delle Rose (con “Voglio dirti grazie”), due rassegne in quel momento molto importanti, con due vittorie in due mesi.
Il suo brano, “Futuro”, non venne presentato al Festival di Sanremo del 1980, ma nell’edizione 1986, cogliendo un meritato 6° posto. Inoltre non era proprio un’artista “indipendente”: era passata discograficamente alla Emi ed editorialmente era tutela dalla Chappell. Quindi non proprio abbandonata. Anzi, il suo pubblico non la lasciò sola, visti i voti che ottenne: 1.381.726!
(ANSA l'1 giugno 2022) - Sfogo di Orietta Berti a "Ti sento": ospite dell'ultima puntata del programma di Pierluigi Diaco, andata in onda ieri 31 maggio in seconda serata su Rai2, la cantante si è tolta qualche sassolino dalla scarpa sul suo percorso professionale: "mi hanno trattata come un oggetto, nel 1980 mi sono ribellata".
"Più di una volta mi son sentita un oggetto - ha spiegato la cantante, sollecitata da Diaco -. Perché tu esprimi la tua voglia di fare una cosa e dall'altra parte ti dicono 'no, se facciamo così non c'è abbastanza guadagno'. Tu mi vuoi togliere un'orchestrazione, un maestro bravo per fare un arrangiamento perché dici che dopo non c'è abbastanza guadagno, una soddisfazione me la puoi anche dare".
Per scardinare questo meccanismo, Orietta Berti ha iniziato a prodursi da sola nel 1980. "Sono andata a Sanremo con 'Futuro' che mi producevo da sola. Sono stata una delle prime. Quando ti produci da sola è naturale che non puoi entrare più nelle classifiche perché non hai la forza di una major che ti fa entrare. Però dopo vedi il successo dai concerti che fai, vedi la gente che viene, che ti fa i complimenti che ti apprezza per quello che hai fatto. Io ho sempre avuto dalle persone il premio".
Nel corso dell'intervista, in concomitanza con la mezzanotte del 1 giugno, giorno del 79/o compleanno della cantante, Diaco le ha fatto gli auguri sorprendendola con un mazzo di fiori. Alla domanda "Cosa auguri a te stessa?", ha risposto "Mi auguro di avere una buona salute e di avere sempre questo entusiasmo per la vita e per il mio lavoro. Perché se io mi emoziono so che dopo darò delle emozioni a tante altre persone e le persone hanno bisogno di avere delle emozioni.
E poi, vedi, nella vita non bisogna mai desiderare le cose che non potrai mai avere. Io non ho mai desiderato le cose che sapevo non sarebbero mai arrivate, però arrivano sempre delle sorprese, e queste sorprese son dei regali che ti manda la vita". Terminata la terza stagione di Ti Sento - il suono delle emozioni, Diaco ha rinnovato l'appuntamento con la versione radiofonica su Rai Radio2 per tutta l'estate.
Orietta Berti: «79 anni? Non mi accorgo di averli. Dopo il suicidio di Tenco nessuno voleva vedermi». Mauro Giordano su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022. La cantante festeggerà il compleanno con il titolo di commendatrice: «Oggi i miei amici nella musica sono i giovani come Fedez, Rovazzi e i Maneskin. Ho conosciuto tre Papi e il Dalai Lama. I miei figli continuano la tradizione dei nomi in famiglia con le “O”»
Lo sfogo di Orietta Berti da Diaco: «Mi hanno tratta come un oggetto, nel 1980 mi sono ribellata». E Diaco la sorprende con gli auguri di compleanno. Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.
La cantante ospite di «Ti Sento» di Pierluigi Diaco, il martedì sera su Rai Due
Duro sfogo di Orietta Berti a «Ti sento»: ospite dell’ultima puntata del programma di Pierluigi Diaco, andata in onda ieri 31 maggio in seconda serata su Rai2, la cantante si è tolta qualche sassolino dalla scarpa, esternando una dichiarazione sul suo percorso professionale. «Ti sei sentita un oggetto per un periodo della tua vita?» ha chiesto Diaco. «Sì, una volta… più di una volta mi son sentita un oggetto. Perché tu esprimi la tua voglia di fare una cosa e dall’altra parte ti dicono «no, se facciamo così non c’è abbastanza guadagno» . Tu mi vuoi togliere un’orchestrazione, un maestro bravo per fare un arrangiamento perché dici che dopo non c’è abbastanza guadagno, una soddisfazione me la puoi anche dare».
Nel corso dell’intervista, in concomitanza con la mezzanotte del 1° giugno, giorno del 79° compleanno della cantante, Diaco le ha fatto gli auguri sorprendendola con un mazzo di fiori. Alla domanda «Cosa auguri a te stessa?», ha risposto: «Mi auguro di avere una buona salute e di avere sempre questo entusiasmo per la vita e per il mio lavoro. Perché se io mi emoziono so che dopo darò delle emozioni a tante altre persone e le persone hanno bisogno di avere delle emozioni. E poi, vedi, nella vita non bisogna mai desiderare le cose che non potrai mai avere. Io non ho mai desiderato le cose che sapevo non sarebbero mai arrivate, però arrivano sempre delle sorprese, e queste sorprese son dei regali che ti manda la vita». Terminata la terza stagione di «Ti Sento — il suono delle emozioni», Diaco ha rinnovato l’appuntamento con la versione radiofonica su Rai Radio2.
Orietta Berti compie 79 anni: la «regola della O», il no a Playboy, 8 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.
La cantante, soprannominata agli inizi della carriera l'Usignolo di Cavriago, è nata nel comune emiliano il 1º giugno 1943.
Il primo concorso canoro
Oltre sedici milioni di dischi venduti e quasi 60 anni di carriera tra «Tu sei quello», «Io, tu e le rose», «Fin che la barca va», «Tipitipitì» e «Mille», il singolo del 2021 cantato con Achille Lauro e Fedez che le ha regalato una nuova popolarità. Nata a Cavriago il 1°giugno 1943 Orietta Berti - che proprio oggi compie 79 anni- comincia a cantare giovanissima e a studiare musica e canto lirico, spronata dal padre Oreste. Nel 1961 partecipa alla sua prima manifestazione canora: il concorso Voci Nuove Disco d'Oro a Reggio Emilia. Canta «Il cielo in una stanza» di Gino Paoli e, in finale, arriva sesta dietro a Paola Neri (prima) e Iva Zanicchi (seconda). È proprio grazie a questo concorso che conosce l’allora direttore artistico della Karim, Giorgio Calabrese, che le propone un contratto discografico. Ma questa non è l’unica curiosità su di lei. Specialmente per quanto riguarda l’affaire Tenco che la segnò per diversi anni a venire, come vedremo
Sanremo 1967
Nel 1965 Orietta vince Un disco per l'estate con «Tu sei quello». L’anno dopo è per la prima volta al Festival di Sanremo con «Io ti darò di più», scritta da Alberto Testa e Memo Remigi. Partecipa alla kermesse anche nel 1967, edizione diventata tristemente famosa per il suicidio di Luigi Tenco, «atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose (la canzone con cui Berti era in gara, ndr.) in finale» si legge nel biglietto d’addio. «È un episodio che ha segnato me personalmente e la mia carriera - ha raccontato la cantante al Corriere -. C’è stato un periodo in cui nell’ambiente mi schivavano tutti, i giornalisti non volevano intervistarmi e pensare che erano stati loro a non ripescare la canzone di Tenco. Ma sono convinta che il biglietto non lo avesse scritto lui, c’erano due errori di ortografia che mai avrebbe fatto. Per quella storia sono stata messa nell’angolo. Sono sempre stata tartassata, i giornali non scrivevano una riga su di me, sembravo una cantante fantasma: eppure vendevo un sacco di dischi, eppure le mie canzoni sono state fatte in tutte le lingue, da gruppi famosi in tutta Europa».
Il pranzo con Luigi Tenco
Sempre a proposito del suicidio di Luigi Tenco (a cui Orietta Berti non ha mai creduto) intervistata da Marco Maisano qualche tempo fa la cantante ha raccontato che, nelle ore precedenti alla sua morte, il cantautore non ha mai criticato «Io, tu e le rose»: «Nel pomeriggio dopo aver fatto le prove, non mi sembrava turbato, siamo andati anche a mangiare. Il maestro Pataccini era con noi e mi ha detto: “Che bella questa canzone così semplice”. Lui era lì e non ha detto niente». Nella sua autobiografia «Tra bandiere rosse e acquasantiere» Berti scrive: «Strinsi la mano a Tenco e scambiammo due parole sul fatto che entrambi avevamo cantato in un locale in provincia di Padova, a Piove di Sacco. Più tardi lo rividi a pranzo: non so se fosse soddisfatto delle prove o meno, ma sembrava sereno. Ce l’avevo proprio alle spalle, era seduto vicino a Dalida».
La «regola della O»
Il 14 marzo 1967, tre anni dopo averlo conosciuto ad una fiera, Orietta Berti convola a nozze con Osvaldo Paterlini: «Osvaldo non ha detto "sì" - ha rivelato lei in una puntata di Che tempo che fa -, l’ha fatto solo con la testa, ma il prete l’ha preso per buono». La coppia ha avuto due figli, che si chiamano Omar e Otis: in famiglia infatti vige la cosiddetta «regola della O». Usanza che Otis ha rispettato quando si è sposato: le sue figlie infatti si chiamano Olivia e Ottavia (quest’ultima nata proprio alcune settimane fa).
Non amava «Fin che la barca va»
Orietta Berti inizialmente non voleva cantare «Fin che la barca va» (1970), diventata poi la sua canzone più conosciuta: «Io volevo una canzone d’amore e a me quel testo non piaceva - ha raccontato al Corriere -. L’ho fatta a malincuore, meno male che mi ha convinto mia mamma».
Diretta da Ettore Scola
Forse non tutti sanno che Orietta Berti è stata diretta da Ettore Scola nell’episodio «L'uccellino della Val Padana» del film del 1977 «I nuovi mostri». Ha recitato anche in «Quando c'era lui...caro lei!» (1978) accanto a Paolo Villaggio.
Il no a Playboy e Playmen
«Mi offrirono cifre da capogiro: ma chi l’avrebbe sentite poi mia madre e mia suocera», ha detto Orietta Berti al Corriere a proposito delle offerte che le fecero (per posare senza veli) le riviste Playmen e Playboy negli anni Settanta.
Orietta e la tv
Nel corso della sua carriera Orietta Berti è apparsa spesso in televisione, negli anni Settanta (La cugina Orietta, Aspettando l'alba, Stasera ti dico di no), ma soprattutto a partire dagli anni Novanta: ha partecipato a programmi come Domenica in, Quelli che il calcio, Anima mia e Buona domenica. Nel 2006 era tra i concorrenti di Ballando con le stelle, e nel 2011 è stata giurata di Ti lascio una canzone. Dal 2016 è ospite di Fabio Fazio nelle sue trasmissioni (Che fuori tempo che fa, Che tempo che fa - Il tavolo): «Ormai ci conosciamo da tanti anni, è come un terzo figlio. Ricordo la sua prima telefonata: ti piacerebbe venire a fare l’opinionista qui da me a Quelli che il calcio? Ma io non ho mai guardato per intero una partita di pallone, gli ho detto. È proprio quello che cerco io, mi ha risposto». Negli ultimi anni ha partecipato a Celebrity MasterChef Italia 2 (2018), Il cantante mascherato (2020) e Name That Tune - Indovina la canzone (2020-2021). È stata coach a Ora o mai più (2018-2019) e The Voice Senior (dal 2021) e da qualche settimana possiamo vederla insieme a Mara Maionchi e Sandra Milo nel viaggio on the road targato Sky Quelle brave ragazze.
Il successo dopo Sanremo 2021
«A chi mi chiede se questo è l’anno della mia rinascita rispondo che sono una miracolata». Nel 2021 Amadeus invita Orietta Berti al Festival di Sanremo. «E da lì è cominciato tutto» ovvero si è aperto un nuovo scintillante - come le sue mise - capitolo di successi. «Mille», il singolo cantato con Fedez e Achille Lauro, è stato il tormentone della scorsa estate. «È piaciuta a tutti: bimbi, ragazzi, mamme e nonne. Nessuno si aspettava un successo così clamoroso. Sul web abbiamo raggiunto 50 milioni di visualizzazioni, ma dobbiamo fare bene i conti». Il grande pubblico ha amato la cantante anche per le sue involontarie gaffe (come quando chiamò Ermal Meta e i Måneskin «Ermal Metal e i Naziskin») e per i suoi divertenti aneddoti come l’inseguimento della polizia durante il coprifuoco a Sanremo.
Orietta Berti, la rivincita: «C’è stato un tempo in cui mi schivavano tutti, ora non ho più un momento libero». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2022. La cantante 78enne Orietta Berti racconta un anno trionfale, culminato col countdown di Amadeus. La hit “Mille” con Fedez e Achille Lauro? «La canto sempre sotto la doccia». Dopo il discorso di Mattarella è arrivata lei a scandire il momento più istituzionale della serata: il countdown di fine anno su Rai1. Orietta Berti ha festeggiato davanti a 10 milioni di spettatori un anno che per lei è stato strepitoso e fucsia come il suo vestito. «Amadeus lo sa, mi ha invitato al Festival di Sanremo e da lì è cominciato tutto. Lì ho conosciuto Fedez che mi ha proposto Mille . Lì ho avuto l’incontro virtuale su Twitch con Manuelito (Hell Raton) ed è nata l’idea di una telenovela per i social, e poi ha voluto produrre la mia nuova canzone, Luna piena che nelle radio sta già andando forte».
Come si vive un successo così popolare in età matura?
«È il successo che arriva a un’età certa... ma non ho il tempo di godermelo fino in fondo, lavoro tutti i giorni, ho registrato spot pubblicitari, faccio tante trasmissioni tv: vado tutte le domeniche da Fazio, per Antonella Clerici sono la coach a The Voice Senior, e poi sono stata all’estero, dove ho girato delle puntate fantastiche con Sandra Milo e Mara Maionchi, il programma si intitola Quelle brave ragazze e sarà su Sky a primavera».
Lavora di più oggi che quando era giovane...
«Come contratti televisivi sì, perché un tempo c’erano meno canali e reti dove poter andare; come concerti ovviamente no, questi due anni di pandemia hanno fermato tutto».
Orietta (Galim)Berti, emiliana da Cavriago, 78 anni e non sentirli, 16 milioni di copie vendute, amata del pubblico, snobbata dalla critica. La prof di solfeggio disse che era stonata («ero come mio papà, talmente timida che non mi usciva la voce»), debuttò cantando le canzoni tradotte della cantautrice belga Suor Sorriso («avevo paura mi etichettassero come una suora»), il suicidio di Tenco ne segnò la carriera («c’è stato un periodo in cui nell’ambiente mi schivavano tutti»).
«Fin che la barca va» è la canzone che la identifica, eppure non le piaceva...
«Non diciamo quante copie ha venduto che poi sono sempre sottoposta a tasse in più... Io volevo una canzone d’amore e a me quel testo non piaceva. L’ho fatta a malincuore, meno male che mi ha convinto mia mamma».
Il testo — direbbe Franca Leosini — era birichino: «Vorrei aprire in fretta il mio cancello / Ma quel cancello io non l’apro mai...».
«Si parlava di tradimenti, quante occasioni si hanno da giovani... però bisogna avere l’intelligenza di scegliere: o il marito o l’amante. Io ho sempre scelto il marito».
Adesso son tempi diversi...
«Adesso la gente si annoia e vuole sempre cambiare. Ma a furia di cambiare non si finisce più».
Caterina Caselli l’ha definita «glaciale». Si riconosce in questo tratto?
«Sono una brava attrice... In realtà chi non si emoziona al Festival di Sanremo? In passato era la manifestazione più importante, la gara era serrata, mentre oggi puoi avere successo anche se non vinci, ci sono le radio per promuovere i brani, la pressione è minore. Io all’epoca mascheravo, ostentavo serenità, però dentro di me c’era un uragano, una tempesta, ma non lo facevo vedere... ma se una persona dentro di sé non si emoziona davvero come fa a emozionare il pubblico?».
C’è stato un periodo in cui la sua popolarità musicale è stata appannata. Ma la tv l’ha sempre cercata. Prima Fazio, poi Costanzo, poi ancora Fazio.
«Ho fatto tre volte Quelli che il calcio, cinque volte Buona Domenica, ora ancora Il tavolo con Fazio. Quando abbiamo finito il primo anno di Buona Domenica sono andato da Costanzo a ringraziarlo e lui mi ha detto: Orietta, in questo ambiente non devi ringraziare nessuno, perché se tu non mi facevi audience, se tu non mi facevi comodo, io ti avrei lasciata a casa e invece ti ho confermato anche per l’anno prossimo».
Con Fazio che rapporto ha?
«Ormai ci conosciamo da tanti anni, è come un terzo figlio. Ricordo la sua prima telefonata: ti piacerebbe venire a fare l’opinionista qui da me a Quelli che il calcio? Ma io non ho mai guardato per intero una partita di pallone, gli ho detto. È proprio quello che cerco io, mi ha risposto. La vita regala spesso grandi occasioni: vai a lavorare con una persona che non è tua coetanea, pensi di avere poche cose in comune, eppure scopri che ci vai d’accordo e la pensi allo stesso modo».
Si sente più spesso con Fedez o con Achille Lauro?
«Quest’estate mi vedevo più spesso con Fedez perché lui veniva alle promozioni di Mille, mentre Achille dava sempre buca. Invece adesso vedo più spesso Lauro, perché lo trovo sempre in ogni trasmissione tv in cui vado».
Cosa la colpisce di Fedez?
«È sempre sul pezzo, per lui il lavoro è molto importante, è sempre molto serio, in questo senso è proprio un vero milanese».
Achille è più romano?
«Ad alcuni può sembrare altezzoso per un suo certo distacco, invece è gentile e ben educato. Sembra sempre svampito, ma è artista, e soprattutto è molto intelligente. Mi trovo benissimo con lui, mi sembra di conoscerlo fin da quando era piccolo. Quando parliamo ho l’impressione di far parte della sua famiglia da sempre, di essere una sua zia alla lontana».
Dopo Fedez e Lauro è arrivato il brano prodotto da Hell Raton...
«Manuelito mi ha detto che voleva farmi cantare sotto cassa, ma io ho capito sotto casa... È il loro gergo, adesso sto imparando dei nuovi termini, moderni. Pensi che un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: Orietta sei proprio stata “gigi”. Ma guarda che Gigi è il mio gatto, che l’ho chiamato così in onore di Marzullo. E lui: ma no, “gg” vuol dire good game, una buona giocata, far qualcosa come si deve».
Lo farebbe un duetto con la sua celebre gaffe: i «Naziskin»...
«Con i Måneskin ho già cantato. Quando hanno fatto il tour europeo sono andata in un locale di Zurigo con loro — un locale dove ero stata anche io 20 anni prima, una festa di italo-svizzeri — e abbiamo cantato insieme. Certo che mi piacerebbe cantare con loro, chi non vorrebbe?».
Tra lei e i Måneskin è dura trovare un buco libero...
«Loro sono richiesti in tutto il mondo, se lo meritano; sono dei bei ragazzi, bravi, e fanno una buona musica».
Sfoggia sempre dei vestiti fenomenali, colorati.
«Mi veste da tanti anni Nicolò Cerioni, lo stesso stilista dei Måneskin, di Lauro, Nannini, Jovanotti... a ognuno dà il suo abito, immagina dei vestiti che rispecchiano il carattere e la personalità di chi li indossa. Così mi sento me stessa».
Iva Zanicchi ha proposto un trio: «Io, Berti e Vanoni, e andiamo con l’ossigeno».
«Beh Iva è sempre simpatica, ci sentiamo spesso. Il primo Sanremo invece l’ho fatto in coppia proprio con Ornella Vanoni, che non voleva farsi fotografare con me perché voleva un collega maschio. Adesso siamo amiche, ci sentiamo tutte le settimane... Io sono disposta a duettare con tutti; però quando i giovani ti propongono una canzone ti trasmettono la loro energia, ti viene voglia di cantare in maniera diversa anche perché devi adattarti alla loro ritmica, devi dire tante parole insieme. Quando poi assimili bene il testo è facile. Io Mille la canto di continuo sotto la doccia».
Orlando Bloom compie 45 anni: tutto quello che non sapete sul Legolas del «Signore degli Anelli». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022.
Sex symbol, star e volto «most wanted» dello showbiz, Orlando Bloom compie 45 anni il 13 gennaio. Ecco un identikit, tra vita professionale e privata, dell’ex Legolas del «Signore degli anelli», il suo ruolo forse più famoso.
Nell’infanzia una rivelazione shock
Orlando Jonathan Blanchard Bloom è nato a Canterbury, il 13 gennaio 1977. Bloom, che ha una sorella maggiore, Samantha, è stato chiamato così in omaggio al compositore del XVI secolo Orlando Gibbons. Bloom sempre creduto che suo padre fosse il marito di sua madre, il romanziere anti-apartheid di origine sudafricana Harry Bloom (1913–1981), morto quando il giovane Orlando aveva quattro anni. Quando aveva tredici anni la madre Sonia Constance Josephine gli rivelò invece che il suo padre biologico era in realtà Colin Stone, suo compagno e amico di famiglia, preside della scuola di lingue Concorde International, divenuto suo tutore legale dalla scomparsa di Harry Bloom.
1997: l’esordio al cinema
Bloom ha frequentato la St Peter’s Methodist Primary School di Canterbury, nel Kent. Affetto da dislessia, la madre lo ha incoraggiato a prendere lezioni di arte e recitazione. Dopo le esperienze al National Youth Theatre e alla British American Drama Academy, il giovane attore ha iniziato la carriera da professionista con piccoli ruoli televisivi in episodi di «Casualty» e «Midsomer Murders». Fino al debutto cinematografico in «Wilde» (1997), al fianco di Stephen Fry, prima di entrare alla Guildhall School of Music and Drama di Londra, dove comincia a studiare recitazione.
2001: Legolas, la svolta
Due giorni dopo essersi diplomato alla Guildhall nel 1999, Bloom è stato scelto per il suo primo ruolo importante: il regista Peter Jackson lo sceglie per interpretare Legolas, l’elfo della stirpe dei Sindar, nella trilogia del film «Il Signore degli Anelli» (2001-2003), benché inizialmente fosse candidato per la parte di Faramir (che non appare fino al secondo film). Il suo personaggio è diventato così popolare nel Regno Unito che ha perfino rilanciato il tiro con l’arco. Durante le riprese di una scena del primo episodio della saga, «La compagnia dell’Anello» (2001), l’attore si è rotto una costola dopo essere caduto da cavallo.
Salvate il soldato Bloom
Sempre nello stesso anno Bloom recita in un breve ruolo (è un marine che riporta una frattura alla schiena dopo una caduta dall’elicottero) nel film di guerra di Ridley Scott «Black Hawk Down». Nel 2002, «Teen People» lo inserisce nella lista delle 25 star più «bollenti» under 25. Nello stesso anno Bloom smette di fumare: una iniziativa lodevole, se non fosse che da quel momento comincia a mangiarsi le unghie. Nel 2004 «People» lo incorona invece lo scapolo più ambito di Hollywood. E lui si converte al Buddhismo di Nichiren, diventando membro del Soka Gakkai International, la cui filosofia si basa sull’idea che l’illuminazione può essere raggiunta in questa vita attraverso azioni corrette, uno stile di vita pacifico e rispettoso della Terra.
2003: arriva Will Turner
Bloom ha poi recitato al fianco di Keira Knightley e Johnny Depp in «Pirati dei Caraibi: La maledizione della perla nera» (2003), di cui è il co-protagonista nei panni del personaggio di Will Turner. L’anno dopo è Paride, l’eroe di origine frigia, figlio di Priamo e di Ecuba, causa prima della guerra e della caduta di Troia, nel blockbuster «Troy» con le star Brad Pitt, Eric Bana e Peter O’Toole
Miranda, il primo amore
Nel 2005, in una «pausa» dal legame molto on/off con l’attrice Kate Bosworth, Bloom ha cominciato a frequentare Kirsten Dunst, sua co-protagonista nel film «Elizabethtown» (nel frattempo legata alla star di «Brokeback Mountain» Jake Gyllenhaal), anche se l’attrice di «Marie Antoinette» ha negato la relazione. Dal 2007 al 2013 è stato compagno e marito della top model australiana Miranda Kerr, dalla quale ha avuto un figlio, Flynn, nato nel 2011. Si sono sposati nel 2010 e separati tre anni dopo. Bloom ha un tatuaggio della parola elfica «nove» sul polso destro, scritta nel raffinato alfabeto di Tengwar: un riferimento al suo coinvolgimento in «Lord of the Ring», in qualità di uno dei nove membri della Compagnia dell’Anello.
Katy e Daisy Dove, le ragazze di Bloom
Nel gennaio 2016 Bloom ha iniziato a frequentare la cantante e cantautrice americana Katy Perry. Una relazione che si è conclusa nel febbraio 2017 ed è poi ripresa un anno dopo, a cui è seguito il fidanzamento ufficiale il 14 febbraio 2019. Il 5 marzo 2020, nel video musicale della canzone di Perry «Never Worn White» veniva rivelato che la coppia aspettava il loro primo figlio. Il 26 agosto 2020 è nata la piccola Daisy Dove.
Uomo (nudo) in mare
Nell’estate 2016 la foto di Bloom al mare in Sardegna (finite su tutti i tabloid), mentre rema completamente nudo sulla tavola da Paddle, con l’allora fidanzata (poi diventata moglie) Katy Perry, rigorosamente in due pezzi, ha fatto il giro del mondo facendo impazzire social.
Ambientalista convinto
Dai primi anni 2000, Bloom fa parte di Global Green, un’azienda ambientale che opera a livello internazionale. Il divo tenta di vivere una vita veramente «verde» nella sua quotidianità, e ha ristrutturato la sua casa di Londra utilizzando pannelli solari, e incorporando materiali riciclati e lampadine a basso consumo energetico. Bloom è stato anche un partecipante attivo e ambasciatore di Global Green, organizzazione ambientalista internazionale indipendente, presente in più di 20 paesi, creata dall’ex presidente russo Mikhail Gorbaciov. L’organizzazione lavora principalmente per fornire acqua potabile pulita ai bisognosi in tutto il mondo ed eliminare le armi di distruzione di massa a livello globale. La star britannica ha anche marciato dietro il suo stendardo per fare pressione sul Presidente degli Stati Uniti affinché intraprenda un’azione più rigorosa e rapida sui cambiamenti climatici.
L’addio al suo amato barboncino
La star de «I pirati dei Caraibi» non si è mai arreso alla scomparsa, nel 2020, del suo migliore amico, Mighty, un barboncino toy. In una intervista al «Santa Barbara News Press» l’attore ha raccontato di averlo perso di vista un attimo mentre giocava con il cane di un’altra coppia. «Le mie due ipotesi sono — ha raccontato — che si sia allontanato ed è caduto in un fosso da cui non è riuscito ad uscire da solo o qualcuno lo ha incontrato e l’ha preso con sé». Nonostante la ricompensa di 5 milioni di dollari offerta dal divo, Mighty non è mai stato ritrovato. L’appello della star, che sui social ha invitato a cercare Mighty ovunque, ha commosso il web. Ma purtroppo non c’è stato un lieto fine. Sette giorni dopo la scomparsa del cagnetto, Bloom ha ritrovato il suo collare e ha capito che Mighty era morto. «Non ricordo una volta nella mia vita in cui abbia sofferto così tanto — ha detto Bloom —. In questi giorni e in queste notti sono stato sveglio pensando al mio ometto smarrito e terrorizzato. Sapendo di non poterlo proteggere, vivo un incubo. Mi sento impotente. Forse come molti di voi che in questo momento stanno perdendo i loro cari. Dobbiamo apprezzare i momenti che condividiamo con le persone che amiamo perché niente ci è promesso in eterno. Non abbiate paura dell’amore, né di poter perderlo. L’amore è eterno. Io sono un padre e un partner devoto. Ma c’è un motivo per cui si dice che il cane è il miglior amico dell’uomo». E per ricordare il suo amico peloso Bloom si è fatto tatuare il nome «Mighty» sul petto.
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2022.
«Ho debuttato al cinema a soli 14 anni e avevo perso mio padre tre anni prima. Avrei avuto bisogno di una figura maschile di riferimento e invece non ce l'avevo. Mi sono affacciata alla vita da "zoppa", senza sapere chi sono gli uomini».
Ornella Muti ha di sicuro il dono della sincerità e, pur essendo diventata una delle attrici di cinema, teatro e televisione più celebri, non nasconde le sue amarezze di donna. Fu Damiano Damiani a sceglierla, per un ruolo molto particolare, nel film La moglie più bella, che raccontava una storia vera.
«La dura vicenda umana di una vera combattente, Franca Viola, la prima donna siciliana che, nel 1965, si è ribellata al dogma del finto rapimento che sarebbe sfociato nel matrimonio riparatore. Con incredibile coraggio, disse: No, io non mi sposo e andate tutti al diavolo!».
Come e perché venne scelta lei, una ragazzina di 14 anni?
«Non mi ero candidata per quel film, avevo semplicemente accompagnato mia sorella Claudia, più grandi di me, a fare il provino. Venni scelta io proprio perché avevo l'età del personaggio».
E pure lo stesso nome della protagonista del film, Francesca...
«È stato Damiani a farmi cambiare nome, da Francesca Rivelli a Ornella Muti, un connubio che si rifà a due opere di Gabriele D'Annunzio: la Ornella della Figlia di Iorio e la Elena Muti del Piacere. Ma a me non è mai piaciuto. Oltretutto, ogni tanto su certi set qualcuno, i primi tempi, mi prendeva in giro, giocando su Muti la muta... vabbé, la cattiveria non manca mai... ci può stare...».
Quattro anni dopo è diventata madre.
«Ragazza madre. A 18 anni. Non è stato tanto facile».
Ha pensato all'aborto?
«Innanzitutto erano altri tempi, praticamente la preistoria rispetto a oggi, e poi non ho voluto. Mia madre però me lo chiese: anche se in Italia l'aborto era illegale, all'estero si poteva fare tranquillamente. Persino il mio agente cinematografico di quel periodo me lo consigliò, perché dovevo girare un film. Avrei dovuto abortire per fare un film? Assolutamente no! Quindi ho deciso di portare a termine la gravidanza, altrimenti il Signore mi avrebbe detto "pussa via!"... ed è nata Naike».
Una ragazza madre coraggiosa. Gli uomini l'hanno delusa?
«Sono una sognatrice, mi creo dei film in testa, mi costruisco dei racconti romantici, favole che non corrispondono alla realtà. Noi donne, a volte, veniamo messe sugli altari dagli uomini, altre volte ci comportiamo come le geishe. Io non appartengo né all'una, né all'altra categoria. L'importante è comunque credere nell'amore, però io sono cieca e vado sbattendo a destra e a manca: in certi casi nella mia testolina bacata non ho voluto vedere ciò che era evidente».
Nella sua professione ha contato di più la bellezza o la bravura?
«La bellezza mi ha portato avanti, aprendomi molte strade, impossibile negarlo, ma mi ha anche penalizzato, perché esiste il pregiudizio: pensano che sei bella e non brava, quindi devi impegnare il triplo della fatica per dimostrare che non è così. A volte ammetto di aver avuto la sensazione che alcuni registi mi abbiano usato solo per l'aspetto fisico senza preoccuparsi delle mie capacità artistiche».
Bell'aspetto fisico e voce sexy.
«Sarà pure sexy, ma non è un vezzo, ho un reale problema alle corde vocali. È persino capitato che al telefono mi scambiassero per un uomo».
E adesso è tornata in teatro con lo spettacolo «Mia moglie Penelope», liberamente tratto dal libro «Itaca per sempre» di Luigi Malerba, con Pino Quartullo nel ruolo di Ulisse.
«Interpretare Penelope, una donna che aspetta vent' anni il ritorno del marito, difendendosi dai Proci e proteggendo il figlio Telemaco, è una bella sfida. È una figura femminile forte, che nutre dei sacrosanti dubbi nei confronti di Ulisse, in un gioco di reciprocità. Infatti, anche lui sospetta che lei lo abbia tradito. Ma Penelope, sia pure rattristata dai sospetti del suo uomo, resta ferma nelle proprie convinzioni, è una che ha imparato a difendersi. Nell'impersonarla ci metto la mia anima. Le donne, in fondo, allora come oggi, devono sapersi difendere».
A lei è capitato spesso di doversi proteggere dalle molestie?
«Ovviamente sì, ogni donna, chi più chi meno, è oggetto di attenzioni sgradite. Voglio essere onesta: tutte abbiamo avuto avances, ma ho saputo difendermi. Quando avvertivo uno sgradito odore di piacioneria molesta, prima di tutto cercavo di non mettermi in condizioni tali per cui qualcuno potesse approfittarne e, quando proprio mi trovavo con le spalle al muro, recitavo la parte di quella che si sentiva male, un improvviso malore... e scappavo via. Il #MeToo è stato un movimento importante, perché le ragazze sono fragili agnelli in un mondo di lupi».
A proposito di uomini, lei ha lavorato con i più grandi registi. C'è stato fra loro qualcuno più duro con lei, al quale ha reagito dicendo basta?
«Il più duro fu proprio Damiani. Ero piccola, inesperta e mi ha buttato a fare un film drammaticissimo... devo dire che, in certi momenti, non è stato molto carino con me, inutilmente severo. Gli altri, per esempio Marco Ferreri, Mario Monicelli o Dino Risi, tutti registi con forti caratteri, capivano che ero molto ingenua, insicura ed erano accondiscendenti, sapevano che altrimenti sarei fuggita. Cercavano però di tirarmi fuori da quella che definivano la mia Disneyland, dicevano che amavo vedere il mondo come un parco giochi, altrimenti non ce l'avrei fatta a vederlo quant' è brutto».
E con le colleghe? È vero che Romy Schneider e Lisa Gastoni non la vollero nei loro film? Temevano il confronto?
«Ma no... sono pettegolezzi che mi sono stati riportati e chissà se sono veri, magari se li sono inventati gli agenti. Piuttosto, tornando nuovamente agli uomini, un tipo col carattere difficile era Alain Delon: bellissimo, con dei cani cattivissimi... una star che aveva potere e lo dimostrava, te lo faceva pesare. Mentre invece Woody Allen, quando mi scritturò per un minuscolo ruolo in To Rome with Love , mi disse: "Sono onorato di lavorare con te...". Non ci potevo credere che fosse onorato! L'ho trovato così educato, elegante...».
Lei ha mai avuto la tentazione di fare la diva?
«Cosa significa essere una diva? Non mi sono mai comportata così, non sono una che se la tira, se poi qualche volta appaio tale non lo faccio apposta, non appartiene al mio modo di essere. Sono una persona semplice. Non ho mica salvato milioni di vite, io ho solo fatto ridere o piangere il pubblico, tutto qui».
E la relazione amorosa, vera, con Adriano Celentano?
«Non è il caso di parlarne... Oltretutto è stato lui, una volta, a fare dichiarazioni in merito con sua moglie presente, un errore da parte sua e io sono rimasta francamente un po' sorpresa. Che ci vogliamo fare? Questo è l'universo maschile: io, a suo tempo, ho avuto rispetto della sua famiglia».
Abbiamo parlato di bellezza. E che dire degli anni che passano? Ha mai pensato alla chirurgia estetica?
«Il cammino esistenziale è una parabola e occorre farsene una ragione. Ovviamente cerco di mantenermi, faccio yoga facciale, rispetto una dieta seria, ma non è facile stare al passo col tempo che passa. Lo confesso, a volte non mi piaccio, sono molto esigente con me stessa, ma questa sono e non ci posso fare niente...Comunque, sdoganerei la chirurgia: tutti, donne e uomini, dicono che non si sono mai ritoccati, ma diamoci una calmata, e chi se ne importa se ti sei ritoccata. Nel mondo di oggi siamo bene o male tutti sempre esposti: bisogna essere perfetti ed è inutile far finta che l'aspetto esteriore non conti, conta eccome! Oltretutto la vita si è molto allungata e questo, diciamo, non aiuta. Non temo la vecchiaia, mi spaventa la malattia. L'importante è seminare bene gli affetti: io ho i figli e dei nipoti meravigliosi che, per fortuna, quando mi sveglio la mattina non mi dicono: "Nonna, oggi c'hai un occhio gonfio". Ti abbracciano, Ti baciano, Ti accolgono per quella che sei. Loro sono un autentico regalo».
Dagospia il 24 marzo 2022. COMUNICATO STAMPA.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti.
Puntata di Belve molto intensa, intima e sincera. La Fagnani chiede del rapporto che la Muti ha con la Russia: “Con la Russia ha un rapporto stretto, ha la residenza, ha casa, ha chiesto la cittadinanza, ha fatto spettacoli importanti, ha detto che ha un amore per il popolo russo ed è ricambiata: ecco, in questo momento?” “Sono confusa” ammette la Muti.
Allora la Fagnani ribatte: “Ha dubbi da quale parte stare rispetto alla guerra? “La guerra è inutile, cioè la guerra è sbagliata sempre” “Ma è confusa rispetto a cosa”? Chiede ancora la Fagnani. La Muti risponde” Sono confusa perché sono dispiaciuta, amo molto i russi e i russi mi amano tantissimo, ma...questa guerra è sbagliata” “Quindi” insiste ancora la Fagnani “Diciamo che siamo d’accordo su chi è l’aggressore e chi la vittima?” La Muti annuisce…è un sì.
Un botta e risposta tra Francesca Fagnani e Ornella Muti, durante la quale la nota attrice, considerata a lungo tra le donne più belle del mondo, ripercorre tutta la sua carriera, rivelando alcuni aspetti inediti, per esempio il suo rapporto col sesso: “Ancora stiamo a parlare di sesso, alla mia età!?” In questo momento ho escluso il sesso dalla mia vita” “Non sono mai stata un’esuberante sessuale, se il sesso è accompagnato dall’amore per me ha un senso, non farei mai una botta e via”.
Quando la Fagnani le chiede del presunto flirt con Celentano, ricordandole ciò che la Mori ha detto:” Non è stato un tradimento d’amore”, la Muti risponde che lei ha un altro ricordo...Incalzata dalla Fagnani, poi, torna sulla questione non risolta della paternità della figlia Naike e sulla rivelazione che il padre non è il produttore cinematografico spagnolo (José Luis Bermùdez de Castro Acaso).
Quando la Fagnani chiede: “Lei è rimasta sorpresa per la prova del DNA?” la Muti guardando la Fagnani risponde: “Non lo so...” Insomma, questa intervista è un viaggio nel tempo, a cavallo tra gli anni ’70 e l’oggi, tra conferme e rivelazioni, una puntata magnetica.
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 31 gennaio 2022.
Se la Muti quella sera era a cena con Putin rivogliamo il nostro cachet. È il Teatro di Pordenone ha violare la quarantena sanremese attorno alla celebre attrice che presenterà il Festival 2022 assieme ad Amadeus. Nel 2010 l’interprete di celebri commedie italiane come Innamorato Pazzo e Il Bisbetico domato aveva dato la propria disponibilità per una serata nel teatro friulano, ma all’ultimo istante non si era presentata adducendo ad impedimenti dovuti alla propria salute.
Secondo diverse fonti giornalistiche, invece, la Muti era corsa ad una serata di gala con cena, invitata direttamente dal presidente russo Vladimir Putin (ricordiamo che l’attrice ha la madre di origine russa ndr). La vicenda era finita davanti alla Corte di Cassazione che aveva condannato l’artista a sei mesi di reclusione, 500 euro di multa per truffa aggravata e un risarcimento di 30 mila euro per il teatro. Secondo quanto riportato dal Messaggero Veneto, la Muti avrebbe inviato ventuno bonifici da mille euro al mese per garantirsi la sospensione condizionale della pena. Nelle ultime ore, però, sarebbe intervenuto il legale dal Teatro di Pordenone, Antonio Malattia, comunicando l’auspicio che “il cachet di Ornella Muti a Sanremo venga utilizzato come risarcimento nei confronti del teatro”.
Silvana Palazzo per ilsussidiario.net il 31 gennaio 2022.
Giorgio Armani non vestirà Ornella Muti al Festival di Sanremo 2022. L’attrice ha deciso di indossare altro, anche se lo stilista le ha proposto una creazione delle sue, di alta moda. A svelare il retroscena è Naike Rivelli, secondo cui «sta finendo un pezzo di storia» e la conferma arriva proprio da questa edizione della kermesse. La figlia di Ornella Muti ha pubblicato un lungo post su Instagram in cui dice «addio vecchia moda, benvenuta ecofashion».
Velenoso il riferimento che viene fatto a “Re Giorgio”: «Siamo super fieri di aver rifiutato un look che non è in linea con le nostre scelte di oggi! Ci dispiace ma… anche no! Addio Giorgio Armani». Naike Rivelli quindi spiega che la madre ha deciso di optare «per coloro che hanno capito l’importanza delle nostre scelte in un mondo che sta cambiando, scelte che vanno al di là delle “vecchie amicizie”». A proposito dell’amicizia tra Ornella Muti e Giorgio Armani, la figlia dell’attrice ha spiegato che in generale «vuol dire rispettare le decisioni altrui, non solo quelle ecologiche, ma personali di stile e look».
Naike Rivelli non si è sbilanciata riguardo gli abiti e vestiti che indosserà la madre Ornella Muti al Festival di Sanremo 2022, ma ha assicurato che tutti coloro che si occuperanno del suo look «hanno proposto qualcosa di ecosostenibile che “potesse piacere alla mamma” anche brand che non lo avevano mai fatto prima!». Un post duro quello di Naike che però ha optato per un finale più dolce. «Ci tengo a precisare che nonostante Giorgio Armani faccia ecofashion, il look proposto non era giusto. Questo Sanremo sarà pieno di novità, modernità e addio vecchiume evviva #postleathergeneration. Poi ve lo farò vedere, vi faccio vedere il look scelto e mi direte voi».
Chissà come avrà reagito Giorgio Armani, ma comunque Ornella Muti non è l’unica ad aver rifiutato l’alta moda. Anche Drusilla Foer lo ha fatto, come annunciato a Repubblica: «Se qualcuno si aspetta di vedermi con un outfit di chissà quale brand, resterà deluso. Metterò un abito di un atelier di Firenze, di quelli dove in giro è tutto un ago e filo. E poi sfoggerò un paio di mise che ho già da tempo. Eleganza è anche saper ripescare nell’armadio».
Daniela Fedi per ilgiornale.it il 31 gennaio 2022.
Francesco Scognamiglio ha vestito chiunque nella sua carriera: Madonna, Beyoncè, Jennifer Lopez, Nicki Minaj, la famiglia Kardashian al gran completo e per ben 18 volte negli ultimi 14 anni Lady Gaga. “Eppure prima d'ora non ho mai fatto Sanremo” racconta emozionato come un ragazzino mentre sta per “sdifettare” via zoom il secondo dei due look che ha creato in esclusiva per Ornella Muti. La diva li indosserà sul palco dell'Ariston a San Remo nelle prime due serate di Festival e il designer sta lavorando senza sosta perché tutto sia perfetto. In questa intervista esclusiva il designer racconta il dietro le quinte di quello che è a tutti gli effetti il primo scandalo di questa edizione del Festival.
E' vero che Armani doveva fare il vestito che la Muti indosserà martedì sera e lei quello per la seconda serata?
Sì ed era giusto così: se c'è Armani deve essere il primo
D'accordo, ma pare che Armani non ci si più a causa di un commento postato sul profilo Instagram di Naike Rivelli molto critico sullo stile dell'outfit mandato da Re Giorgio alla madre...
Io so solo che dovevo fare il secondo look e invece faccio anche il primo
In ogni caso adesso il post è sparito, non le sembra molto probabile che qualcuno si sia arrabbiato?
Non voglio entrare in nessun tipo di polemica. Per me come per chiunque faccia questo mestiere Giorgio Armani è un mito. Senza designer come lui o come Gianni Versace con cui ho avuto l'onore d'iniziare la mia carriera nel 1994, non esisterebbe il fenomeno della moda italiana
Come mai è stato chiamato da Ornella Muti?
Siamo amici da tanti anni.
Lei si presenta molto poco in giro, è un tipo schivo e riservato, molto lontana dai soliti clichè della diva.
Quando mi ha chiamato non volevo crederci così come non credevo ai miei occhi quando ci siamo incontrati per discutere del look e prendere le misure. Ero convinto che fossero cambiate perché è inevitabile con il passare del tempo. Invece a 67 anni è sempre magrissima e bellissima, un corpo da modella con quel viso sensazionale che ha sempre avuto
Come l'ha vestita?
Non l'ho solo vestita, curo la sua immagine dalla punta dei capelli a quella dei piedi lavorando a stretto contatto con il suo team di truccatori e parrucchiere. Io la vedo come un eroina e visto che a San Remo parlerà di salvaguardia del pianeta ho scelto solo tessuti naturali a parte il neoprene del corpino per il primo modello che tecnicamente è un abito-scultura. Si tratta di un lungo peplo nero con un profondo spacco a sinistra montato sul bustier di neoprene interamente coperto di jais, ovvero i preziosi cristalli neri che la Regina Vittoria impose come unica decorazione agli abiti femminile dopo la morte del Principe Alberto
Insomma è come se Ornella fosse elegantemente in lutto per la sorte del pianeta
Si può leggere anche così. Il secondo invece è un deciso omaggio alla sensualità delle donne. Si tratta di una tunica in tulle evasione color carne interamente ricamata da canottiglie e Swarovsky nella stessa tinta che tecnicamente si chima Nude. Sotto ha un busto in raso sempre nude ricamato con cristalli 3D. Hanno un effetto pazzesco e il bustier accarezza meravigliosamente il seno di Ornella
Può dirci qualcosa anche sugli accessori?
Per ora sono sicuro solo dei gioielli appositamente fatti da Delfina Delettrez, figlia primogenita di Silvia Venturini Fendi
"Il tempo che passa non mi fa paura. Sì all'amore a 67 anni". Laura Rio il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'attrice che inaugurerà il Festival con Amadeus si confessa: "Mi mostro per quello che sono e mi godo la mia famiglia".
Su quel palco salirà una diva. Una delle poche del cinema italiano. Un mito, un sex symbol. Nella realtà, una donna che è rimasta semplice e disponibile. A lei spetta il compito di inaugurare il primo febbraio il Festival di Sanremo funestato per il secondo anno dalla pandemia, quando tutta Italia si collega per ritrovare un universale punto di aggregazione.
Signora Muti, si vede come portabandiera di un'Italia che cerca di uscire da un altro inverno durissimo?
«Ahi, che compito difficile, ne sono onorata e spero di essere all'altezza. Sanremo deve tornare a essere un appuntamento di normalità. Dopo tanti mesi di sconquasso fisico e mentale, la gente deve aprire il televisore e dire uau, che bello, ora si canta, per cinque giorni pensiamo solo a stare allegri».
Lei vorrebbe anche parlare di temi importanti.
«Se ci sarà spazio e mi daranno la possibilità mi piacerebbe riflettere su questa pandemia. Nel mio piccolo sto portando avanti una campagna per il rispetto dell'ambiente. Non voglio fare la Greta Thunberg, ma sono convinta che il Covid ci dovrebbe riportare a capire come dobbiamo comportarci con il pianeta che ci ospita. E, poi, oltre al virus ci sono tanti problemi che stiamo dimenticando. Il mio Sanremo sarà tutto ecologico».
Vestirà abiti, gioielli e borse eco-sostenibili.
«Sì, se ne occupa mia figlia Naike. È lei che porta avanti queste battaglie, è molto creativa e trova mille idee per le sue campagne».
Anche postare foto in cui è nuda.
«Per lei è un fatto naturale, un modo per esprimersi, non si vergogna del suo corpo, non ci sono intenti scabrosi. È una donna libera, esuberante, esagerata, provocatoria. Nel privato, poi, fa una vita discreta e serena».
Nella prima sera ci sarà lei come co-conduttrice e i Maneskin super ospiti. La bellezza eterea e il rock duro. Due mondi diversi, entrambi messaggeri dell'Italia nel mondo.
«Bello no? È giusto che Sanremo porti un mix di esperienze e temi diversi. I Maneskin mi piacciano molto, anche se la loro musica per le mie orecchie è un po' hard, hanno mostrato un grande coraggio. Vuol dire che i giovani che vogliono guardare loro saranno costretti a vedere anche me e al contrario i più grandi che cercano me ascolteranno loro».
Nelle serate successive, la seguiranno come presenze femminili Lorena Cesarini, Drusilla Foer, Maria Chiara Giannetta, Sabrina Ferilli.
«Scelte coraggiose. Che affrontano diversi temi, come quello della discriminazione nel caso di Lorena (di madre senegalese). Drusilla (alter ego di Gianluca Gori il cui invito ha suscitato qualche perplessità, ndr) è una grande artista che porta un mondo meno ligio alle etichette. La gente ha paura di quello che non conosce. Invece siamo tutti diversi e questo è meraviglioso».
Pochi giorni dopo il festival, il 9 marzo, lei compirà 67 anni. Per gran parte del pubblico resta la donna sensuale dei film di Monicelli, Ferreri, Risi, Damiani
«Non temo il tempo che passa. Mi mostro per quella che sono adesso, questa è la vita, si invecchia. Sono felice di essere nella mia pelle, sto attenta, cerco di mantenermi in forma, di fare passeggiate, vivere nella natura, avere tempo per riflettere, tenere giovane soprattutto la testa. E, soprattutto, di godermi la famiglia, che è la mia forza».
A breve nascerà il quarto nipotino.
«Sì, primogenito di mio figlio Andrea. Noi siamo una grande famiglia allargata. Oltre ai tre figli e tre nipoti, ci sono anche le due figlie del mio ex marito (Federico Fachinetti). Ancora mi domando perché mi sono lasciata con lui, però sono contenta perché dopo sono nate le sue bambine, Viola e Sofia».
Loro stanno a Roma e lei vive insieme a Naike in campagna, in Piemonte.
«Sì, con tre gatti, due cani e anche due maiali, due femmine di nome Chiara e Federica, che pure stanno in casa con noi. Diventano nervose quando hanno fame, ma basta stare attenti. La mia stampella è Naike, noi ci completiamo, se non ci fosse stata lei non sarei riuscita ad andare via da Roma e vivere da sola».
Dopo alcune relazioni, ora non ha un compagno. È ancora aperta all'amore?
«Mai dire mai. Io ho sempre cercato rapporti importanti, non sono la donna da una notte. Sono una romantica, sempre fedele, coerente con me stessa, anche con il me stessa pazzerella. Alcuni uomini mi hanno ferita, ma in quelle situazioni mi ci sono messa io: mi costruivo idee di quelle persone che non erano reali».
Con Naike ha creato un cannabis medical center.
«Sì, chiamiamola erba medica, così non facciamo confusione, non c'entra nulla con le sostanze illegali. L'obiettivo è quello di aiutare i malati a reperire in tempi brevi la cannabis prescritta da medici che può dare loro grande sollievo».
Ha lavorato con i più grandi registi e attori. Un ricordo che non ha ancora raccontato.
«Citto Maselli mi voleva per Codice privato, dove ero l'unica attrice, io da sola. Ero incinta di Andrea, gli dissi non posso, nasce tra poco. È stato il primo (dopo i familiari) a venirmi a trovare in ospedale, mi ha amato come i registi veri amano i loro attori: ho portato Andrea sul set appena nato e l'ho allattato per tre anni come tutti i miei figli».
Vorrebbe mai tornare a essere chiamata con il nome di battesimo: Francesca Rivelli?
«Chi mi conosce mi chiama così. Per il pubblico sono Ornella». Laura Rio
Ornella Muti, è polemica: foto social con ciondolo con foglie di marijuana. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.
È arrivata la prima polemica del Festival. Protagonista è la prima delle cinque co-conduttrici, scelta da Amadeus per la serata del debutto: Ornella Muti. Sul suo profilo Instagram, l’attrice ha postato una sua foto in bigodini, in una pausa delle prove al Teatro Ariston. E indossa una collanina con un ciondolo a forma di foglia di marijuana. Accanto a lei c’è la figlia Naike Rivelli: anche lei indossa una collanina con il ciondolo simile a quello della mamma; in più Naike ha anche un paio di orecchini con lo stesso tema. Gioiellini che non sono sfuggiti ai follower.
Subito se ne sono accorti i deputati di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, commissario di Vigilanza Rai, e Maria Teresa Bellucci, capogruppo in commissione Affari Sociali: «Riconosciamo in Ornella Muti una grande icona del cinema italiano, ma riteniamo improprio il sostegno alla liberalizzazione della cannabis espresso in un post da parte della co-conduttrice di Sanremo». Che aggiungono: «Non vorremmo che Sanremo possa diventare il megafono delle posizioni del fronte della cannabis libera e del referendum. Tanto più di fronte ai recenti fatti di cronaca che vedono coinvolta la sorella di Ornella Muti, Claudia, in una maxiretata per smercio di sostanze stupefacenti. La riteniamo un’esternazione impropria. L’uso della cannabis in Italia è illegale, se non per uso terapeutico».
La cannabis è una vera e propria battaglia per mamma e figlia. A settembre avevano lanciato una nuova linea di prodotti realizzati con la cannabis. Sui social avevano annunciato la nascita di una associazione che ha come obiettivo quello di dare supporto ai malati e proporre iniziative di «green economy». Si leggeva su Instagram: «Da oggi ci siamo anche noi! Ci sono 6 milioni di consumatori di cannabis che sono costretti a rivolgersi alle mafie. Noi vogliamo dare voce alle persone che i politici proibizionisti vorrebbero sbattere in galera!».
Non è mancato neppure il forte disappunto di Giovanardi: «E’ una cosa tristissima, vedere che si dà spazio a chi promuove questa cultura della morte».
Grazia Sambruna per mowmag.com il 18 gennaio 2022.
“Ci sono 6 milioni di consumatori di cannabis che ogni anno sono costretti a rivolgersi alle mafie. Vogliamo dare voce a tutte quelle persone che i politici proibizionisti vorrebbero sbattere in galera. Da oggi ci siamo anche noi!”. Questo l’annuncio con cui nel luglio scorso, Ornella Muti e la figlia Naike Rivelli hanno annunciato urbi et orbi l’apertura del loro primo The Hemp Club (notare il sottilissimo acronimo) nel Salento.
Per la precisione a Nardò, in provincia di Lecce. Praticamente non se ne era accorto nessuno (il profilo Instagram della struttura conta attualmente poche centinaia di follower), ma ora che l’attrice è stata annunciata da Amadeus come co-conduttrice della prima serata del prossimo Festival di Sanremo, viene fin troppo facile immaginarsi la faccia dei vertici Rai davanti a questo side project della famiglia Rivelli. I famosi (e famigerati) fiori di Sanremo non sono mai stati così green!
Sì, ma cosa diavolo sarebbe un Hemp Club? Arriviamo subito: si tratta di un’associazione culturale (con regolare statuto e possibilità di tesseramento) che si occupa della coltivazione di cannabis a scopo terapeutico. Con prescrizione medica, chiunque può entrare in uno di questi centri (il primo è stato aperto a Milano nel 2020, importando nome e strategia di business dall’omonima catena spagnola) e coltivare da sé oppure vedersi consegnare la dose di marijuana utile a lenire il dolore. All’interno di questi centri, sono previste anche attività come corsi di pasticceria (tutto, dai muffin alle torte) per preparare prelibatezze a base di THC.
L’Ornella Muti Hemp Club è attivo da luglio 2021 e nasce dalla sofferenza della madre dell’attrice, venuta a mancare l’anno prima a causa di un cancro. Vedendo mamma Ilse attraversare questo calvario, l’attrice ha scelto di scendere in campo affinché tale via crucis non potesse più capitare ad altri pazienti chemioterapici (o a cui basterebbe qualche foglia di cannabis per sentirsi fisicamente meglio).
Un gesto nobile da parte di Ornella e della figlia Naike, ma che, non ne dubitiamo, farà aggrottare più di un sopracciglio in casa Rai. Nel feed del profilo @ornellamutihempclub si trovano anche molti post a sostegno della raccolta firme per il referendum sulla legalizzazione della cannabis, nonché foto e video di Ornella e Naike che attraversano piantagioni di marijuana con aria trasognata. Davvero? Sì. E ne abbiamo le prove: Solo a ottobre scorso la sorella della Muti, Claudia Rivelli (71 anni!), è stata condannata agli arresti domiciliari per importazione illegale di Gbl (la droga dello stupro) dall’Olanda e per averla spedita, a cadenza regolare, in quel di Londra presso il civico del figlio. “A lui serviva per pulire la macchina, a me per lucidare l’argenteria”, ha spiegato la donna. Tale motivazione, però, non le ha evitato la condanna.
Quindi: Ornella Muti che attraversa sterminate piantagioni di marijuana nel Salento con aria estatica, la sorella Claudia che fino al mese scorso circolava a piede libero per il deepweb in cerca di Gbl da mandare al figlio in pratiche boccette a cui aggiungeva l’etichetta posticcia “shampoo” per eludere i controlli alla dogana. Naike Rivelli (clamorosamente vestita - ma non sempre, per tener fede al suo credo nudista) a impreziosire il tutto. Stiamo già vivendo il migliore dei Festivàl possibili. Non sappiamo quanti punti valga l’Ornellona in fame chimica sul palco dell’Ariston al Fantasanremo, ma daremmo tutti nostri Baudi pur di poterci scommettere sopra.
Dagospia il 17 febbraio 2022. Poche ore fa è stata rinviata a giudizio Naike Rivelli a seguito della denuncia per diffamazione della neo nonna Barbara D'Urso. La figlia di Ornella Muti in un post aveva scritto: "Voci di corridoio sostengono che la D'Urso abbia un amante a Mediaset". Come andrà a finire la storia? Ah saperlo...
Giada Oricchio per iltempo.it - articolo del 1-7-2020
È guerra senza quartiere tra Naike Rivelli e Barbara D'Urso: la conduttrice ha denunciato per diffamazione la figlia d'arte. "Mi ha mandato i carabinieri" ha detto Naike e Ornella Muti: "Barbara, ma non eravamo amiche?!". In piena estate scoppia una bomba: Naike Rivelli ha svelato, con un video su Instagram, di aver ricevuto una denuncia penale dalla conduttrice Mediaset.
Naike, vestita di pizzo trasparente, prima ha fatto la parodia del modo di condurre della D'Urso: "Mi sono vestita così per promuovere l'integrità della donna", poi ha sferrato l'attacco: "Nelle tue trasmissioni hai fatto venire gente di ogni genere e in ogni condizione, ricordo bene Francesco Nuti e hai fatto audience su questo. Hai parlato delle emozioni, della disperazione e degli equivoci, quindi cose che potrebbero non essere vere.
Hai creato mega gossip, non voglio entrare in merito al tipo di televisione che crei, però la fai... Quindi chi la fa l'aspetti...Diffamare significa affermare qualcosa di non vero su una persona. Nella trasmissione di Barbara D'Urso vengono affermate regolarmente cose che poi vanno verificate. Dunque nei suoi salotti si può dire di tutto, ma nei salotti di casa propria no e questo mi fa paura".
A questo punto, Naike ha rivelato cosa era successo: "Due indagini penali: una perché pare che io abbia sfruttato il suo nome e una perché l'avrei diffamata. Pare che si riferisca a quando scrissi un post in cui dicevo che voci di corridoio sostenevano che avesse un amante a Mediaset. Voci di corridoio. È venuto Sgarbi nella tua trasmissione e ha detto che sei una raccomandata! Ho riferito voci di corridoio, non ho detto che è così".
Ma la linguacciuta Rivelli chiude con una frecciatina: "Non è che hai la coda di paglia? Chi mette in gioco pubblicamente la vita e le emozioni degli altri non può prendersela quando tocca a lei, anzi dovrebbe affrontare la questione apertamente. Una giornalista vera, beh, parla pubblicamente, non manda delle letterine con i carabinieri. Io ho fatto dello humour su Barbara D'Urso e lei mi ha preso seriamente, va bene, si vedrà anche io ho ottimi legali che si occupano di queste cose.
Che ironia! Se qualcuno avesse il diritto di fare una diffida a qualcuno, dovremmo essere io e mia madre. Il nostro materiale è stato usato e strumentalizzato regolarmente nei programmi della D'Urso finché io non ho messo un punto. Che ironia, mentre pregava per noi dal pulpito della sua trasmissione, mandava le lettere di diffida. Santa, santa D'Urso non si fa così".
Il lungo filmato si chiude con l'intervento di Ornella Muti che sfoggiando un sorriso tra lo scettico e l'indignato ha detto: "Dai Barbara, davvero hai fatto una denuncia penale a Naike? Non ci posso credere. Ma non eravamo amiche?!".
In passato, Naike Rivelli è stata ospite di "Domenica Live" e i rapporti con la D'Urso sembravano ottimi finché la stessa Rivelli cambiò idea criticando aspramente quel tipo di televisione e dicendosi pentita di averne fatto parte: "Mai più, mai più. Aveva ragione mia mamma".
Andrea Ossino per repubblica.it il 10 aprile 2022.
Sono stati travolti dall'inchiesta che ha fermato le due bande di pusher che vendevano "Droga di Hitler" per permettere a un esercito di extracomunitari di lavorare nelle case dei romani senza accusare fame e stanchezza. Sono finiti a processo anche per aver fatto affari con il Ghb, la droga dello stupro.
E adesso corrono ai ripari. Ventinove delle trentadue persone coinvolte nell'indagine condotta dal pm Giulia Guccione, hanno infatti scelto di essere giudicate con rito abbreviato, una scelta che comporta la riduzione di un terzo dell'eventuale condanna che potrebbe essere emessa. E non è escluso che molti di loro scelgano di patteggiare la loro pena.
Tra i nomi degli indagati che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato c'è anche quello di Claudia Rivelli, la sorella 71enne dell'attrice Ornella Muti, che dichiarato di aver acquistato le nuove droghe per inviarle al figlio che, in Inghilterra, "le usa per pulire la macchina". Assistita dall'avvocato Teresa Mercurio, il prossimo 6 luglio sarà costretta a sedere nel banco riservato agli imputati, in un'aula del tribunale di piazzale Clodio.
Stessa sorte per Denny Beccaria. Dalla sua casa di via Coriolano, in zona Tuscolana, il trentaduenne romano coordinava la vendita delle sostanze, inclusa la droga dello stupro. "Il Ghb viene acquistata come droga dello sballo. Si diventa euforici, ci si sente leggeri e si dimentica anche dove ci si trova. Si associa spesso anche all'assunzione di Shaboo e Yaba, droghe molto in ascesa soprattutto dal Covid in poi", aveva spiegato il maggiore Fabio Valletta, della compagnia dei carabinieri di Roma Centro.
A processo, con rito abbreviato, anche il braccio destro del capo, la zarina del ghb, Clarissa Capone, che non sapendo di essere intercettata, aveva rivelato la sua storia con la "famiglia romana": "Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno... cioè ci stavano giornalisti... cioè ci stava di tutto e di più... e da là poi so... sono arrivata ad un politico...da che ti fai il giornalista la voce si espande, la voce è arrivata pure all'assistente del politico...".
Sarebbero stati proprio Clarissa Capone e Danny Beccaria a vendere "sostanza stupefacente del tipo cocaina a S.M. che la ordinava anche per conto di Tommaso Cerno", il parlamentare, si legge nel decreto di giudizio immediato. L'episodio si riferisce al 9 settembre del 2019, quando 930 euro di polvere bianca sarebbero finite nelle mani dell'onorevole. Un'altra vendita sarebbe avvenuta tre giorni dopo.
A processo andrà anche l'esercito di persone che ha comprato ingenti quantità su internet, almeno secondo i pm. Tutte accuse che i legali degli imputati, dall'avvocato Teresa Mercurio fino al collega Domenico Naccari passando per i penalisti Giuseppe De Nicola e Sabrina Visone, proveranno a smontare in aula.
(ANSA il 9 febbraio 2022) - La Procura di Roma ha chiesto ed ottenuto il giudizio immediato per una trentina di persone, tra cui anche Claudia Rivelli, attrice e sorella di Ornella Muti, nell'ambito dell'indagine sul traffico di droghe sintetiche (anche Gbl. nota come la droga dello stupro) acquistate sul dark web e dall'estero.
Il processo è stato fissato al prossimo 12 aprile davanti alla settima sezione penale.
Gli indagati erano stati raggiunti da una ordinanza cautelare il 27 ottobre scorso al culmine degli accertamenti svolti dal Nas. Per Rivelli erano stati disposti gli arresti domiciliari.
In particolare l'ex attrice di fotoromanzi è accusata di importazione e cessione di sostanze stupefacenti perché "illecitamente dall'Olanda - è detto nel capo di imputazione dell'ordinanza del gip - con cadenze trimestrali, importava vari flaconi di Gbl provvedendo a inviarne parte al figlio residente a Londra dopo averne sostituito confezione ed etichetta riportante indicazione 'shampoo' in modo da trarre in inganno la dogana"
Da ilgiorno.it il 12 luglio 2022.
Claudia Rivelli, sorella di Ornella Muti, patteggia una pena per le accuse di traffico di droga.
L'accordo prevede una pena di 1 anno e 5 mesi per Claudia Rivelli, attrice di fotoromanzi e sorella di Ornella Muti, nell'ambito dell'indagine su un traffico di droghe sintetiche (anche Gbl, nota come la droga dello stupro) acquistate sul dark web e dall'estero.
La pena, concordata con la Procura di Roma, verrà ratificata davanti al gup nei prossimi mesi.
L'ex attrice di fotoromanzi è accusata di importazione e cessione di sostanze stupefacenti perché "illecitamente dall'Olanda - è detto nel capo di imputazione dell'ordinanza del gip - con cadenze trimestrali, importava vari flaconi di Gbl provvedendo a inviarne parte al figlio residente a Londra dopo averne sostituito confezione ed etichetta riportante indicazione shampoo in modo da trarre in inganno la dogana".
Nel procedimento sono coinvolte una 39 imputati, tre hanno optato per il rito ordinario, gli altri per l'abbreviato e il patteggiamento. Tra chi ha concordato la pena (4 anni) anche Danny Beccaria ritenuto dagli inquirenti a capo della banda dei pusher.
Ilaria Sacchettoni per roma.corriere.it il 17 novembre 2022.
Ordinata su «Shop and Clean» sito di approvvigionamento di detersivi e accessori casalinghi, consegnata attraverso inconsapevoli rider come una qualunque pizza a domicilio, consumata a piacere a cifre variabili attorno ai 100 euro, la molecola di gammabutirrolattone (Gbl o Ghb) raggiungeva case, club privée ed eventi alla moda.
Finché non è scattata la sfida repressiva lanciata dalla Procura romana che, solo ieri, ha portato a 7 nuovi arresti, 60 perquisizioni e 200 iscrizioni sul registro degli indagati. Un secondo capitolo dopo il primo che, esattamente un anno fa, aveva partorito decine di arresti e accertamenti su tutto il territorio nazionale.
In carcere sono finiti il manager di Rcs pubblicità Francesco Supino, il finanziere Domenico Fazzari e il musicista Damyan Ilchegv Tudzharov mentre nei confronti di Emanuela Falconi, Gennaro Russo, Marco Locatelli e Gennaro Quasto gli agenti della Polaria hanno eseguito gli arresti domiciliari.
Quanto a Giovanni Maria Leone, nipote dell’ex presidente della Repubblica e figlio di Claudia Rivelli, sorella dell’attrice Ornella Muti (che ha patteggiato 1 anno e 5 mesi di reclusione per importazione e cessione di sostanze stupefacenti) la gip Francesca Ciranna non ha concesso gli arresti per i quali sarebbe stato necessario un mandato internazionale di cattura (è domiciliato a Londra) ma resta indagato.
La droga chimica viaggiava ovunque. Non mancava agli eventi ma compariva anche nelle circostanze meno sospette tipo gli uffici di dipendenti pubblici teoricamente immuni da dipendenze del genere. Veicolata alle serate del Gorilla’s, brand del mondo gay e nelle case di professionisti, manager e perfino politici. Nel precedente filone era emerso anche il nome di Tommaso Cerno (Pd) tra i destinatari non indagati di alcune spedizioni, salvo chiarire alla pm Giulia Guccione, titolare dell’altra maxi inchiesta, che non era direttamente lui a consumare questo tipo di sostanze ma un suo ex partner affetto da problemi di dipendenza.
Dal suo inizio l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo ha portato al censimento di nuovi preparati, fra i quali 16 sostanze oggi confluite nelle tabelle ministeriali di molecole vietate (non lo erano), mentre gli aggiornamenti degli elenchi pubblici sono tuttora in progress.
Droga dello stupro, negli atti il nome del senatore Tommaso Cerno. La replica: «Frequentavo una persona che incontrava i pusher». Redazione Roma su il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.
Nei loro contatti telefonici i pusher della «droga dello stupro» lo chiamavano «il senatore» o «il politico»: ad ascoltarli però c’erano i carabinieri del Nas che lo scorso ottobre, nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Giovanni Conzo, hanno arrestato oltre 30 persone. Tale indagine portò ai domiciliari tra gli altri Claudia Rivelli, 71 anni, attrice e sorella dell’attrice Ornella Muti, e nel corso degli accertamenti i militari si sono imbattuti anche nel nome del politico: si tratta di Tommaso Cerno, senatore e giornalista, che non è indagato. E non risulta avere avuto alcun contatto diretto con gli spacciatori. E adesso è lui stesso il primo a chiarire: «Tre settimane fa sono stato informato di questa vicenda e ho collaborato con i carabinieri. All’epoca ero fidanzato con un ragazzo che evidentemente - io l’ho scoperto soltanto adesso - aveva dei problemi. Quando non ero a casa è possibile che abbia ricevuto gli spacciatori presso la mia abitazione per farsi consegnare cocaina. Io non ne sapevo nulla, né ho mai avuto rapporti con nessuno di loro. Quando mi hanno avvisato, i carabinieri mi hanno anche detto di informarli se ci fossero stati problemi, ma nessuno mi ha mai avvicinato. Ho voluto bene a questa persona e sono molto dispiaciuto per lui anche se la nostra storia è finita da tempo».
I fatti sono avvenuti tra settembre e ottobre 2019. Uno dei presunti capi della banda di pusher e la sua complice sono accusati del reato di concorso in cessione di sostanze stupefacenti «perché in concorso tra loro, con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, cedevano sostanza stupefacente del tipo di cocaina» a un ragazzo amico di Tommaso Cerno. Nelle carte compaiono quattro cessioni di droga, tra cui una «corrispondente alla somma di 930 euro». Per il traffico di droghe sintetiche acquistate dall’estero sul web o sul darkweb la Procura la scorsa settimana ha chiesto e ottenuto il giudizio immediato per oltre 30 persone e il processo si aprirà il 12 aprile prossimo. Una vicenda però che ha toccato Cerno di striscio, indirettamente. Anche se il suo nome è comunque finito nelle carte. «Io non ho compiuto alcun reato e non c’entro nulla con questa inchiesta», precisa l’ex direttore dell’Espresso, oggi parlamentare del Pd.
Fulvio Fiano per il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2022.
Quattro consegne di cocaina tra settembre e ottobre del 2019 presso la sua abitazione. Quantitativi imprecisati, con l'eccezione di un caso dove è stato appurato il controvalore della merce: 930 euro. È Tommaso Cerno, del Pd, il senatore citato, ma non indagato, nell'inchiesta sul traffico internazionale di stupefacenti che coinvolge anche la sorella di Ornella Muti, Claudia Rivelli, 71 anni. Cerno compare come presunto cliente della cosiddetta «famiglia romana», nome d'arte del duo Danny Beccaria e Clarissa Capone.
Proprio quest' ultima effettua le consegne a domicilio presso l'abitazione del senatore, che non figura però come acquirente diretto bensì con il tramite di un altro soggetto identificato: «Sapevo tutto di questa vicenda rispetto alla quale sono completamente estraneo e ho collaborato subito con i carabinieri - ha spiegato lo stesso senatore del Pd, per chiarire il caso -. All'epoca ero fidanzato con un ragazzo che aveva dei problemi. Evidentemente quando non ero a casa ha ricevuto gli spacciatori presso la mia abitazione per farsi consegnare cocaina.
Io non ne sapevo nulla, né ho mai avuto rapporti con nessuno di loro. Quando mi hanno avvisato, i carabinieri mi hanno anche detto di informarli se ci fossero stati problemi, ma nessuno mi ha mai avvicinato. Ho voluto bene a questa persona e sono molto dispiaciuto per lui anche se la nostra storia è finita da tempo».
La sua versione trova conferma nella ricostruzione degli investigatori. A lui si è risaliti dall'indirizzo della consegna e dal telefono del ragazzo che ha materialmente effettuato le ordinazioni, dicendo che erano anche a nome suo. Mai i due pusher hanno svelato l'identità di Cerno negli interrogatori, mentre nelle intercettazioni dei carabinieri del Nas, coordinati dal pm Giulia Guccione e dall'aggiunto Giovanni Conzo, figurava come «il politico» o «il senatore».
Trentanove in totale le persone arrestate nell'ottobre 2019, cinque già mandate a processo con rito immediato, a cui se ne sono aggiunte altre trenta sei giorni fa, dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura. Come avveniva a casa di Tommaso Cerno, le consegne avvenivano a domicilio anche nel periodo di lockdown. Ma i centri di spaccio erano anche alcuni locali della Roma «bene».
La sostanza più richiesta era la cosiddetta «droga dello stupro», facilmente confondibile con altri liquidi cambiandone l'involucro. Un espedente usato anche da Claudia Rivelli, che la smistava al figlio a Londra camuffandola da shampoo (indizio di rilievo, secondo gli inquirenti, a carico dell'ex attrice). Coinvolti anche vigili urbani, funzionari di banca e dell'Agenzia regionale delle case popolari, un alto ufficiale dell'esercito che riceveva le consegne in caserma.
Nelle indagini i Nas hanno individuato e registrato 16 nuove sostanze mai giunte prima in Italia. In totale sono state 290 le spedizioni tracciate dagli investigatori per un volume d'affari stimabile in quasi 5 milioni di euro con importazioni da Olanda, Canada, Polonia, Francia, Croazia e Cina. Gli ordini di «Gilda», «Mafalda», «acqua» o «blue meth», ovvero la metanfetamina blu al centro della serie tv americana «Breaking Bad», erano continui: i clienti normali dovevano recarsi al domicilio dei pusher, quelli importanti invece potevano essere riforniti a casa o per appuntamento all'aperto.
Gli incontri avvenivano soprattutto fra piazza Venezia, piazza Navona e piazza Risorgimento: i corrieri viaggiavano in bici o monopattino travestiti da rider con tanto di borsone colorato per la consegna degli alimenti, dove invece c'era lo stupefacente della qualità richiesta.
Andrea Ossino per "la Repubblica - Edizione Roma" il 16 febbraio 2022.
Un avvocato morto per overdose e un diplomatico brasiliano deceduto dopo una serata a base di pratiche bondage e droghe sintetiche. Due casi diversi e un unico assassino: il Ghb, l'acido idrossibutirrico, la droga dello stupro.
Dopo le due indagini che hanno fermato il giro di fentanili e di nuove droghe, vendute a chi era in cerca di chemsex o a un esercito di extracomunitari che le assumevano per lavorare senza accusare fame e stanchezza, la procura di Roma apre una terza inchiesta. Fotografa nel modo più drammatico gli effetti delle nuove droghe, facilmente ordinabili su internet.
Il fascicolo aperto dal pm Giulia Guccione e dall'aggiunto Giovanni Conzo mira infatti ad approfondire le dinamiche che hanno portato alla morte due professionisti. Il primo è un avvocato deceduto per un'overdose. Il secondo è un funzionario dell'ambasciata brasiliana. Entrambi sono morti dopo aver assunto Ghb.
Per questo motivo adesso le indagini si concentrano su chi abbia venduto la sostanza, solitamente assunta per aumentare il piacere sessuale e spesso utilizzata per stordire le vittime di violenza sessuale.
Due morti e un unico fascicolo, il terzo che vede protagonista le droghe sintetiche, il primo in cui si ipotizza l'accusa di "morte come conseguenza di altro reato", dove per " altro reato" si intende lo spaccio di Ghb. Fascicoli diversi si sono intrecciati tra i corridoi della procura di Roma. L'indagine sul Ghb era ancora in corso quando sul tavolo del sostituto procuratore Maurizio Arcuri è arrivato il caso del diplomatico brasiliano.
Era il 7 aprile del 2020 e poche ore prima la moglie di A.S.G. aveva trovato il corpo del marito riverso sul letto, nudo, nella sua casa di Monteverde. Le indagini del pubblico ministero hanno permesso di risalire a due persone che non avrebbero tempestivamente allertato i soccorsi. Erano i due amici con cui la vittima si dilettava a praticare bondage, assumendo, a quanto pare, anche droghe sintetiche. Uno dei due è un ex capitano dei carabinieri che in passato, in Lombardia, aveva avuto già problemi con la droga. Le indagini, nel 2020, avevano permesso di risalire a chi, secondo la procura, avrebbe potuto salvare la vita del diplomatico e non ha mosso un dito e il procedimento è ancora in corso. Adesso, la nuova inchiesta punta a scoprire chi lo ha ucciso vendendogli quella droga tanto semplice da comprare quanto letale.
Agli atti delle due indagini con cui nella Capitale è stato fermato il giro di fentanili e di nuove sostanze psicotrope ci sono infatti le telefonate degli assuntori al 118. «Mi serve un'ambulanza, c'è un ragazzo che ha una crisi psicotica e sta facendo un casino terrificante..corre per tutto il bed and breakfast ho paura che si butta dalla finestra » , urla al telefono uno degli indagati intercettato il 9 dicembre 2019. «Il mondo delle nuove sostanze psicoattive - confermano gli atti - si contraddistingue per la rilevanza e diffusione di preoccupanti episodi di intossicazione acuta e reazioni avverse registrate in danno degli assuntori». Il fenomeno è inarrestabile.
Nei laboratori in giro per l'Europa vengono inventate sostanze sempre nuove, molecole che agli occhi della legge neanche esistono e che spesso vengono alla luce solamente in seguito all'intervento dei medici, quando una serata all'insegna dello sballo si trasforma in tragedia. È una corsa contro il tempo. Dal 2005 ad oggi gli inquirenti ne hanno classificate quasi 500.
L'inchiesta del pm Guccione ha però una peculiarità: è stata condotta su sostanze stupefacenti che in realtà non erano ancora state classificate come tali. "Aiuto, il ragazzo ha una crisi, si butta dalla finestra" Agli atti i pm hanno messo le telefonate al 118 degli assuntori di droga dello stupro Palazzo Madama Agli atti del pm la consegna di una bottiglia da 400ml di Gbl nei pressi del palazzo del Senato.
Tommaso Cerno, "Il senatore"
Gli spacciatori intercettati lo chiamano il "senatore" o "il politico". Ma negli atti viene rivelata la sua identità: è il parlamentare Tommaso Cerno. Senatore eletto con il Partito Democratico, quindi confluito nel Gruppo Misto e infine rientrato tra i ranghi del Pd, il politico viene citato dagli investigatori come un acquirente di cocaina.
È tutto scritto nelle carte. In quegli atti emerge che i clienti più importanti venivano coccolati recapitando la droga dalle parti di piazza Venezia, in piazza Navona o a due passi da Palazzo Madama, dove un corriere è stato fermato mentre vendeva 400 millilitri di Gbl.
Compaiono anche alcune compravendite di cocaina. Tra queste ce ne sono quattro che riguardano il senatore Cerno.
I capi della banda di pusher, Clarissa Capone e Danny Beccaria, "cedevano sostanza stupefacente del tipo cocaina a S.M. che la ordinava anche per conto di Tommaso Cerno", si legge negli atti. L'episodio si riferisce al 9 settembre del 2019, quando 930 euro di polvere bianca sarebbero finite nelle mani dell'onorevole.
Un'altra vendita sarebbe avvenuta tre giorni dopo. E poi ancora il 10 e il 25 ottobre, con due consegne a domicilio. Gli uomini del Nas hanno ricostruito l'identità del senatore partendo da alcune telefonate intercettate: "Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno... cioè ci stavano giornalisti... cioè ci stava di tutto e di più... e da là poi so... sono arrivata ad un politico...", diceva al telefono Clarissa Capone.
E ancora: "Sto andando dal politico che abita vicino la Cassazione", dice. E poi: "le consegne ai politici...si calcola che parlavo con l'assistente, poi quando arrivavo a casa ci stava lui, il politico".
La posizione di Cerno
Cerno, ascoltato dagli investigatori, ha chiarito la sua posizione. E ieri ha spiegato: "A quel tempo aveva una relazione con una persona che ha avuto problemi con la giustizia e che ha frequentato casa mia, ma non ho mai avuto rapporti con i pusher arrestati. Evidentemente non era la persona giusta ma io non ho compiuto alcun reato e non c'entro nulla con questa inchiesta".
Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 17 febbraio 2022.
Immagino di avere 16 anni e di essere indotta, per desiderio di piacere, a fare come fanno tutti: mostrare disinvoltura sessuale all'altezza dei video che tutti vedono, assumere droghe che abbattano le (credo) istintive resistenze ad unirsi nel sesso a moltitudini indistinte, procacciarle ad altri così da risultare al gruppo ancor più gradita.
Leggo di una ragazzina di sedici anni vittima di uno stupro di gruppo figlia, poniamo, di avvocati ambasciatori o insegnanti di violoncello e penso a quei disgraziati genitori, anche. Perché certo è una responsabilità non aver indotto nei propri figli il senso della tutela di sé e del limite, ma poi quando capita non riesco a pensare solo: è colpa loro.
Penso: poveri tutti. La "droga dello stupro", le pasticche, la cocaina come borotalco, tutto proprio come in quella serie tv così realistica, Euphoria , così utile da vedere per capire. Poi leggo di avvocati ambasciatori e insegnanti di violoncello che si fanno recapitare a casa le medesime droghe e provo a pensare povere le mogli, i mariti, i figli di costoro - inconsapevoli.
Da ultimo leggo che le mogli, i mariti, i figli fanno da corriere, mentono menzogne patetiche, l'argenteria da lucidare, addossano la colpa all'amico disgraziato ospitato in casa. Un senatore, un giornalista a suo tempo osannato come prodigio, un brillante uomo d'affari, una signora dedita al volontariato.
E dunque tutti, i loro figli i fratelli ma forse chissà anche i nonni, intere famiglie fanno uno di nascosto dall'altro ciò che condannano in pubblico e qui vacilla la qualità fondamentale del cronista, mettersi nei panni. Non so più immaginare dove sia, il bandolo. Forse la matassa è inestricabile, forse è da buttare.
Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2022.
Mai come oggi Tommaso Cerno apprezzerà di non essere un senatore leghista. E non per turbe ideologiche (l'uomo è parecchio intelligente, tanto da non votare il liberticida Ddl Zan nonostante sia omosessuale dichiarato). Ma per motivi assai più prosaici, dunque dirimenti, essendo la vita al 99% scritta in prosa.
Se avesse in tasca la tessera di Alberto da Giussano, non sarebbe infatti in una posizione comunicativamente antipatica ma tutelata. Si dibatterebbe piuttosto nel tritacarne, sarebbe già materia inerte, l'ennesima, a disposizione delle iene del circuito mediatico-giudiziario. Noi siamo contenti che non sia così, è ovvietà garantista e liberale. Ma quel che segue, a metacampo politica invertita, non sarebbe per nulla ovvio. Cerno spunta negli atti dell'inchiesta della Procura di Roma sul traffico internazionale di stupefacenti che coinvolge anche la sorella di Ornella Muti.
Cerno compare come "presunto" cliente (come correttamente precisa il Corriere della Sera, voi quante volte ricordate l'aggettivo sacrosanto nelle cronache della storia di Luca Morisi, certo diversa perché lo spin doctor era indagato, ma infarcita di toni splatter?). Il parlamentare democratico è citato, ma appunto non indagato.
Vengono riportate quattro consegne di cocaina, tra settembre e ottobre 2019, presso la sua abitazione. Cerno (che gli spacciatori intercettati chiamano "il senatore" o "il politico") non figura come acquirente diretto, bensì con il tramite di un altro soggetto identificato.
E infatti i cronisti danno ampio spazio alla sua versione (inutile chiedervi analogie di metodo col caso Morisi, non trovereste mezza riga), che peraltro per noi è quella vera: «Sapevo tutto di questa vicenda rispetto alla quale sono completamente estraneo. All'epoca ero fidanzato con un ragazzo che aveva dei problemi. Evidentemente quando non ero a casa ha ricevuto gli spacciatori».
Chiosa a testate unificate: «Non era la persona giusta ma io non ho compiuto alcun reato». Ne siamo certi, lo sono gli inquirenti, lo sono i colleghi, viva Beccaria e il manuale di giornalismo. Chiediamo solo al lettore un piccolo esperimento mentale: dimenticate Cerno, focalizzate l'attenzione su Mario Rossi, senatore della Lega. Pare che a casa di questo Mario Rossi venissero consegnate partite di cocaina, non una, non due, bensì quattro volte.
Lo mettono nero su bianco dei magistrati (categoria ben al di sopra degli evangelisti) che pare non escludano il Rossi fosse proprio uno dei destinatari («d'altronde abita lì!», sbraiterebbero le brutte copie di Travaglio sparse nelle redazioni, è più che sufficiente per montare la ghigliottina), seppur tramite intermediario. Non solo: ci è dentro talmente fino al collo, questo bifolco, che nelle intercettazioni (le quali non vanno mai contestualizzate, sono il Sacro Graal di noi puri al servizio del popolo, stonerebbe il coro tutto) i pusher lo scomodano, più volte.
E pensate, il Rossi ha perfino il fegato di scaricare l'allora fidanzato (sarà un gay omofobo, oltre che reazionario) come se fosse possibile che lui non ne sapesse nulla. Vergogna, dimissioni, morte sociale, nel sacco dell'indifferenziata giustizialista insieme a Morisi! Al massimo, può comparire in qualche vignetta di ottimo gusto del Fatto Quotidiano, come quella di ieri (lo stesso giorno del giusto trattamento morigerato per Cerno) su Salvini che lavora alla campagna anti-droga mentre un suo collaboratore gli assicura che quella gli cola dal naso è con tutta evidenza farina. Risate, sipario. Davvero, caro senatore Cerno, siamo lieti anche noi che lei non sia leghista.
Luca Monaco e Andrea Ossino per repubblica.it il 17 febbraio 2022.
"A quel tempo avevo una relazione con una persona che ha avuto problemi con la giustizia e che ha frequentato casa mia, ma non ho mai avuto rapporti con i pusher arrestati". È la replica a caldo del senatore Tommaso Cerno, eletto a palazzo Madama nelle liste del Pd, allora in quota renziana. Il suo nome (non è indagato) figura nelle carte dell'inchiesta sull'impressionante giro di Ghb nelle case dell'alta borghesia romana.
Gli inquirenti hanno ricostruito i traffici di cocaina e Ghb, scoprendo che delle dosi, "per uso personale", sono finite in casa del senatore, consegnate a domicilio da due indagati il 9 settembre, il 23 settembre, il 17 ottobre e il 25 ottobre del 2019.
Cerno non si è fatto nessuno scrupolo a scaricare tutte le responsabilità sul suo ex compagno. "Evidentemente - accusa Cerno - lui non era la persona giusta, ma io non ho compiuto alcun reato e non c'entro nulla con questa inchiesta". È agli atti che a fare da tramite con i pusher sarebbe stato Marco, un ragazzo romano di 35 anni che all'epoca lavorava come cameriere in un bar ristorante in via Cavour. Marco, raggiunto da Repubblica, allarga le spalle. Sembra quasi cadere dalle nuvole.
Premesso che lei non è indagato, secondo la ricostruzione degli inquirenti avrebbe ordinato per conto del senatore Cerno della cocaina a due indagati, i pusher Danny e Clarissa, che portavano le droghe, Ghb incluso, a domicilio dal senatore. Le risulta?
"Come dice? Sta scherzando. Assolutamente no, quando mai. Cado dalle nuvole, non so nulla di questa indagine. Ascolto le parole che mi sta dicendo e mi sembra tutta una grande bufala".
I pm hanno ricostruito quattro episodi nei quali Danny e Clarissa hanno recapitato la droga a casa Cerno.
"Io con Cerno non ho mai sentito parlare di cocaina, le assicuro. Né abbiamo mai fatto uso di Ghb".
Quando vi siete conosciuti con il senatore?
"Guardi si, con lui abbiamo un'amicizia. Ci siamo conosciuti al bar ristorante in via Cavour nel quale lavoravo all'epoca. Lui veniva come cliente. È una vita che non lo sento".
Da quanto tempo non avete più rapporti?
"Saranno otto mesi che non ci parlo. Io a metà del 2019 sono andato via da quel ristorante. Sono andato all'estero, a lavorare a Zanzibar".
A quell'epoca però intrattenevate una relazione, i fatti li conosce.
"Le ripeto, davvero non so nulla. È la prima volta che sento parlare di tutta questa storia. Adesso dovrò informarmi su cosa è successo, sul perché mi state contattando. Io ero all'estero nel 2019".
Però Danny lo conosce. Nell'inchiesta si annota che lei è andato più volte a casa di Cerno insieme a lui e a Clarissa. Lei ordinava la droga e loro la recapitavano.
"Io, con Danny, non sono mai stato a casa di Cerno. Non so di cosa parla".
Neanche del giro di Ghb ricorda nulla? Riguarda diversi personaggi noti in città.
"A casa di Cerno non abbiamo mai fatto uso di Ghb. Mi sembra assurdo, è la prima volta che sento parlare di cose del genere, ve lo assicuro".
"Mai usato coca con Cerno", parla l'ex fidanzato del parlamentare Pd. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 17 febbraio 2022.
«Io con Cerno non ho mai sentito parlare di cocaina, né abbiamo mai fatto uso di Ghb o Gbl». L’uomo con cui il senatore del Pd Tommaso Cerno avrebbe intrattenuto una relazione sembra cadere dal pero alla notizia che il suo nome compare, accostato a quello del parlamentare, nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Roma sul traffico di droghe sintetiche che lo scorso novembre ha portato all’arresto di 39 persone, tra cui Claudia Rivelli, la 71enne sorella dell’attrice Ornella Muti. È bene precisare che né Cerno, né M.S. (il suo ex) sono indagati. Gli inquirenti ritengono piuttosto che quest’ultimo, barman specializzato in cocktail, sia uno dei clienti a cui venivano vendute le sostanze stupefacenti.
Ai pusher Danny Beccaria e Clarissa Capone - che il prossimo 12 aprile si troveranno a processo insieme a un’altra trentina di persone - viene infatti contestato dal gip Roberto Saulino di aver ceduto cocaina a M.S. «che la ordinava anche per conto di Tommaso Cerno»: il 9 settembre 2019 «in un quantitativo imprecisato ma corrispondente alla somma di 930 euro»; il 12 settembre 2019, il 17 e il 25 ottobre 2019 altri quantitativi imprecisati di cocaina «destinati all’uso personale dei clienti» e «trasportati presso l’abitazione del Cerno». Proprio il 17 ottobre 2019, infatti, Danny Beccaria viene intercettato dai Nas mentre parla con Clarissa Capone «Sto andando dal politico… quello lì che abita davanti alla Corte di Cassazione». Capone: «Il senatore?». Beccaria: «Quello lì de... de lungotevere...». Capone: «Ah! Il politico...».
«A quel tempo avevo una relazione con una persona che ha avuto problemi con la giustizia e che ha frequentato casa mia - ha spiegato all’Adnkronos il senatore ed ex direttore dell’Espresso Tommaso Cerno - Ma non ho mai avuto rapporti con i pusher arrestati. Evidentemente non era la persona giusta, ma io non ho compiuto alcun reato e non c’entro nulla con questa inchiesta».
In sostanza il parlamentare ha scaricato tutte le responsabilità sul suo ex compagno, che però smentisce tutto: «È una bufala, non abbiamo mai fatto uso di droghe. Con il senatore ho un’amicizia: l’ho conosciuto al ristorante dove lavoravo, ma non lo sento da una vita... ossia da almeno 8 mesi. Anche perché alla fine del 2019 sono andato a Zanzibar».Le foto pubblicate su Instagram a dicembre 2019 ritraggono il barman sull’isola africana, è andato anche a visitare il museo dedicato a Freddie Mercury. «Non sapevo nemmeno di quest’indagine - conclude M.S. al telefono - mi informerò».
Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano l’11 Dicembre 2022.
Se nei prossimi due mesi siete o capitate a Milano, Brescia, Bologna, Torino, Perugia, Firenze, Genova, non perdetevi l'appuntamento con Ornella Vanoni e il suo concerto Le donne e la musica. Non se ne vedono tanti di questo livello e con queste emozioni.
L'altra sera a Roma, all'Auditorium della Conciliazione, non cadeva uno spillo e non volava una mosca. Il sipario s' è aperto su Ornella in abito bianco su una poltroncina di design dorata come i suoi ricci, e ci siamo detti: s' è rotta il femore due mesi fa, è un miracolo che sia sul palco, canterà da seduta. Invece, dopo il brano d'esordio Ornella si nasce (l'autoritratto firmato Renato Zero) e il primo monologo autobiografico ("Mi hanno detto di parlare tanto perché alla gente piace"), si arrampica sul cavalletto porta-microfono e fa quasi tutto il concerto in piedi.
Ogni tanto accenna pure a qualche mossa di danza. Ma ciò che conta è la voce, sussurrata, perfetta, se possibile migliorata dagli anni (sono tanti: quanti non sta bene dirlo).
Canzoni, musica, capricci e ironia: i suoi elisir di giovinezza. E infatti metà del pubblico è di giovani: uno balza sul palco per abbracciarla appena lei dice che il Covid le ha rubato gli incontri ravvicinati ("Oggi le ragazze mi dicono che i ragazzi sono tutti timidi, insicuri... Non si scopa mai! Ai miei tempi ci si incontrava, ci si piaceva e via. Meno male che sono nata prima"). L'accompagna una band di cinque jazziste donne messa su da Paolo Fresu, bravissime ma forse un po' troppo "presenti".
"Non è quota rosa, è quota bravura" dice lei, femmina da capo a piedi e femminista a modo suo, senza retorica ("Nella mia vita mi hanno punita più le donne degli uomini, ma le ho perdonate tutte: io sono sempre qui, loro dove sono?"). Passano leggere, essenziali, liofilizzate Mi sono innamorata di te, L'appuntamento, Tristezza ("La mia vita è stata un inferno! L'ho passata a piangere, mi piaceva tanto!"), La voglia e la pazzia, Musica musica, Io so che ti amerò, Una ragione di più, la trascinante Ti voglio... Due volte la sala balza in piedi per la standing ovation, ma lei fa cenno al quintetto di attaccare il brano successivo. I veri artisti l'emozione la dissimulano. Meglio l'ironia.
Angelo Carotenuto per “la Repubblica – Edizione Roma” il 5 dicembre 2022.
C'è un chilometro di distanza tra l'Auditorium della Conciliazione e Regina Coeli, una passeggiata d'una dozzina di minuti tra il palco di domani sera e le celle scure dove in fondo tutto è cominciato, dove 'na campana sona a tutti l'ore, il punto metaforico da cui è partita la parabola del successo di Ornella Vanoni. Giorgio Strehler, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi le avevano cucito addosso un repertorio e un personaggio, la cantante della mala. Era una 23enne reduce da un debutto in scena ne I Giacobini di Zardi.
Si inventò un genere, di cui era l'interprete ufficiale. I giornali dell'epoca parlavano di «voce interessante da mezzo soprano, calda e penetrante», di «capacità scenica non frequente» , e in uno dei pezzi più popolari cantava che le Mantellate so' delle suore, ma a Roma so' sortanto celle scure. Era stato costruito apposta perché sembrasse il recupero colto di una tradizione popolare. Invece Strehler era triestino, Amodei torinese, Carpi milanese come lei. Lo presentarono al festival dei due mondi di Spoleto.
Cantava il mondo chiuso dentro la sezione femminile del carcere di via Lungara, nato dalla trasformazione di un monastero seicentesco delle Carmelitane Scalze, ma di secolare nella canzone non c'era nulla, una fake-song, sebbene stesse bene pure nel repertorio folk di Gabriella Ferri e Lando Fiorini.
La giovane Ornella che aveva preso il diploma per fare l'estetista perché «avevo l'acne», si ritrovò cucita sulla pelle l'etichetta di cantante cerebrale. Nei titoli era accostata spesso così a Laura Betti, capace d'essere insieme sia felliniana sia pasoliniana, oltre che attrice preferita di Bellocchio. L'Ornella delle Mantellate sparì presto dalla scena. Divenne quasi subito molto altro, si diede alla prosa, al cinema, alla musica leggera.
Roma ebbe di nuovo un ruolo, venne per sposare l'impresario Lucio Ardenzi, uscendo dalla figura politicamente scorretta di cantante della mala, quelle esibizioni che erano state raccontate dai critici del 1959 come una "apparizione espressionista, cantava guardando il soffitto, pallida, gli occhi brucianti, le mani bianchissime e lunghe nelle nella semioscurità della sala».
Alla vigilia della tappa romana di questo nuovo tour, dopo il numero zero di Mantova e la prima uscita di Padova, Ornella Vanoni racconta al telefono che «a Roma ho vissuto per 11 anni, ho ricordi belli e brutti, ho fatto molta televisione. Ho abitato prima a Prati e poi sull'Appia Antica, una città bellissima». Anche una cinecittà di lì a poco, con una dozzina di film, il primo per la regia di Corbucci, si intitolava Romolo e Remo. «Se capita - dice in una pausa delle prove - mi rivedo volentieri. I film non sono sono tanti, non tutti sono stati belli ».
Un chilometro oltre le Mantellate e 63 anni più tardi, sul palco con lei c'è un quintetto di sole musiciste: Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani al violoncello, per una rilettura jazz del suo percorso, ogni sera una scaletta da montare e rimontare. « Ho lavorato in passato con jazzisti straordinari e sono eccezionali adesso le musiciste che mi accompagnano. Il fatto che siano tutte donne è per me un valore aggiunto. Sono stata certamente femminista negli anni Settanta, senza potermi dire militante.La mia militanza credo di averla fatta in musica, quando ho cantato Mi sono innamorata di te, il pezzo di Tenco, cambiando il concetto di ciò che a una donna in amore era consentito e cosa no, imponendo l'idea che anche una donna può pensare e dire certe cose in amore».
Tra le Mantellate e l'Auditorium ci sono stati 112 lavori in tutto, tra album originali e raccolte, 55 milioni di dischi venduti, 8 volte al festival di Sanremo, e un frammento di infanzia. « Nessuno cantava in casa mia, quando ero bambina. Forse solo la cameriera».
Libertà di parola. L'editoriale del direttore Maurizio Belpietro s Panorama il 23 Novembre
Adoro le persone avanti con l’età come Ornella Vanoni, perché superata una certa soglia non hanno più freni e dicono quel che pensano senza curarsi troppo di assoggettare le frasi alle regole del linguaggio politicamente corretto. Un esempio di libertà di parola lo fornisce in questo numero di Panorama Ornella Vanoni, che di anni ne ha 88 e dunque dall’alto della sua fama e della sua esperienza parla senza problemi e, soprattutto, senza compiacere questo o quello. L’intervista di Gianni Poglio comincia con il demolire, pur senza citarlo, il sindaco di Milano, Beppe Sala, il quale, in preda alla smania di trovare una collocazione politica prima che finisca il suo mandato, diventa di volta in volta Verde, inseguendo la dottrina di Greta Thunberg, ma anche democristiano, pronto ad abbracciare Luigi Di Maio sulla via di Impegno civico. In consiglio comunale si vede poco, al punto che qualcuno ha calcolato un tasso di presenza di appena il 17 per cento. Ma non è questo il punto: la questione è che la città è sempre più lasciata a sé stessa. E qui arriva Ornella, che le canta chiare, dicendo che «i marciapiedi sono una gruviera. Per non parlare poi delle biciclette che viaggiano sul marciapiede, come se la figura umana non fosse più prevista». Ma come? Milano non è la città a misura d’uomo, che sotto la regia di Sala ha visto spuntare piste ciclabili ovunque, anche là dove non servono e a prezzo di creare incredibili ingorghi? Non è il capoluogo che ha vietato la circolazione alle automobili più vecchie? Sì, ma forse si è dimenticato dei pedoni e dei loro diritti, di chi ha timore di essere investito da gente che sfreccia in monopattino senza rispetto del codice della strada. Ornella Vanoni, che era pronta a un tour nei teatri, proprio camminando lungo un marciapiede è caduta e si è rotta un femore e ora è indispettita dalla scarsa manutenzione municipale. Ma la donna che cantava Tristezza (per favore vai via) parla in libertà anche di altro. Per esempio, racconta del suo incontro con Gino Paoli e di come le avessero detto che l’interprete del Cielo in una stanza fosse «frocio». Sì, usa proprio questo sostantivo, che in bocca a chiunque altro rischierebbe di essere sanzionato in non politicamente corretto. «Frocio» è considerato un’offesa, anche se un tempo era solo un modo popolare di indicare una persona omosessuale. La volgarità era dovuta al tono con cui veniva pronunciata e alla carica di insulti che in qualche caso seguiva. In sé frocio è l’equivalente di gay, ma essendo gay un termine inglese che sembra più moderno e delicato, ecco che al pari di altri sostantivi di uso comune è stato cancellato dal vocabolario corrente. C’è un altro passaggio dell’intervista di Ornella che mi ha colpito molto. È quando racconta del suo rapporto con Giorgio Strehler, l’uomo che – sono parole sue – l’ha inventata come donna, come attrice e come artista. Si capisce la profondità del rapporto che la legava al grande regista teatrale. E tuttavia, dopo aver premesso che lui è stato l’uomo che l’ha amata di più, senza freni la Vanoni dice: «Da un certo punto in poi non ce l’ho più fatta a sopportare i suoi vizi. Lui, dopo la fine della nostra storia, mi ha stalkerato per anni sul telefono fisso». La chiamava per dirle: «Tu devi tornare con me, dove sei?». Storia di un grande amore, di una grande passione, ma anche probabilmente di un mal coltivato senso di possesso. Di questi tempi, probabilmente finirebbe con una denuncia per le telefonate persecutorie, ma Ornella non sembra neanche prendere in considerazione un comportamento che secondo il nostro Codice penale, se reiterato, rischia di essere un reato. Anzi, commenta: «Io plagiata da Giorgio? Non lo so, ma affascinata di sicuro». Che bello poter leggere cose normali, dirette, senza la mediazione di tutte le attenzioni oggi richieste per non urtare la suscettibilità del conformismo politico. Ce n’è anche su Bettino Craxi, che la Vanoni frequentò fino a essere inserita nell’Assemblea nazionale del Psi, quella che Rino Formica definì un circo di «nani e ballerine». Erano gli anni della Milano da bere, «anni in cui tutti credevamo di essere ricchi e felici. Bettino era un uomo carismatico, un carisma accentuato dal suo modo di parlare, lento e con grandi pause. L’ho frequentato, abbiamo anche trascorso una vacanza insieme con la sua famiglia e altri amici». Ornella precisa di non aver mai voluto entrare in politica, né di aver ricevuto favori in cambio di quella frequentazione, però non rinnega niente, neanche la stima per Craxi. Visto i tanti che, pur essendo stati miracolati dal leader socialista e poi, il giorno della sua caduta, si sono voltati dall’altra parte facendo finta di non conoscerlo, anche questo è un merito. «Una ragione in più» (titolo di un’altra famosa canzone di Vanoni) per inneggiare all’età che spazza via i freni, lasciando le opinioni autentiche e non quelle che 24/11/22, 09:04 Panorama https://www.panorama.it 7/11 p , p q si è costretti a recitare per convenienza. Auguri a lei, ai suoi 88 anni, nella speranza che il suo canto sia «senza fine». COSTUME Anche il sesso è in recessione 23 Novembre 2022 Eros in caduta libera. Dopo un’epoca di esibita, consumata (apparente?) libertà, oggi non ne abbiamo più né la voglia né il coraggio e neppure la fantasia. Un calo del desiderio che si diffonde anche tra i giovani. I motivi? Noia, vite di fretta, lavoro sopra tutto... E rapporti dove alla passione si preferisce il rifugio di una tiepida tenerezza.
Ernesto Assante per “la Repubblica” il 30 settembre 2022.
Canzoni, parole, qualche sorpresa. Ornella Vanoni ha scelto con cura gli ingredienti con i quali preparare lo spettacolo che la porterà in tour in Italia dal 10 novembre al 13 dicembre.
Divina interprete della migliore canzone italiana e internazionale, non vede l'ora che il giro cominci, forte dei suoi 88 anni, di un'invidiabile vivacità intellettuale e fisica, di un amore per la musica che non l'ha mai abbandonata. E anche di una compagnia completamente originale, una band di sole donne, Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani al violoncello. Il tour attraverserà l'Italia, un Paese che Ornella non ha mai abbandonato, anche quando ha avuto il grande successo internazionale, e che ancora ama, «nonostante il risultato delle elezioni - dice - sia stato molto deludente».
In prima linea in mille battaglie sociali e politiche, Vanoni confessa di capire poco gli italiani: «Non siamo più in grado di incazzarci, neanche quando bisognerebbe, quando le cose non funzionano, le promesse non vengono mantenute. È il paese del "faremo", poi del "ci siamo dimenticati di fare". Non capisco più gli italiani, nemmeno quello che dice la Meloni: "Ogni donna avrà il diritto di non abortire", che significa? Il nostro è proprio un Paese maschilista, anche la Spagna, che sono più latini di noi, non è al nostro livello di machismo». Per tutta risposta ha deciso di fare un tour con sole donne.
«Tutto è nato da una chiacchierata con Paolo Fresu, mi ha detto che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante ragazze bravissime, chitarriste, pianiste Mi sono detta: se sono così brave perché non fare un gruppo con cinque o sei di queste ragazze. All'estero succede da tempo. Le farò vestire in smoking, io sarò in lungo con i tacchi».
Perché in smoking?
"Gli italiani dicono che non riescono a suonare con lo smoking, ma io ricordo quando lavoravo con Gerry Mulligan, sassofonista baritono, che mi diceva: "Io suono uno strumento bestiale, pesantissimo, ma ho sempre lavorato in giacca". Perché i jazzisti italiani sono vestiti così male?».
Avete già fatto le prove?
«Ho visto la pianista, la bravissima Sade Mangiaracina. Ha tanti capelli neri e crespi ed è di una simpatia folle, non solo brava. Abbiamo parlato di quello che voglio fare, sta arrangiando tutto e poi lo metteremo in pratica».
Cosa la spinge ancora a farlo?
«La passione. Mi guida solo quella. Quando vado in scena sono felice. Posso essere stanca, aver fatto un viaggio pesante, avere un po' di febbriciattola, appena salgo sul palco rinasco. Mi diverto ancora a cantare, quando non sarà più così capirò che è ora di smettere».
Ha un repertorio prezioso e infinito. Come ha scelto i brani?
«Sono partita dai pezzi del mio ultimo album, Unica, come quello scritto da Gabbani, Un sorriso dentro al pianto o quello scritto da Giuliano Sangiorgi, Arcobaleno, vorrei proporre anche quella scritta da Renato Zero, Ornella si nasce. Poi penso di scegliere quelle canzoni che non sono super popolari come Il mio trenino va di Lavezzi, Il bambino sperduto che ha scritto Nada... Canzoni che amo molto, mi piace che la gente le ascolti».
Un modo per far scoprire Ornella Vanoni anche a chi la conosce già.
«Un modo per proporre belle canzoni sfuggendo al prevedibile».
Cerca ancora belle canzoni da cantare?
«Sì, mi muove la curiosità. Sono sempre stata curiosa, non mi piace non sapere quello che accade intorno a me».
Segue anche la nuova musica italiana?
«Certo, e penso che ci siano cose molto interessanti. Tra quelli del mondo hip hop Marracash è il migliore, penso sia giusto il Premio Tenco. Ma ascolto altre cose, mi piace Cosmo, mi piacciono i Maneskin anche se devono scrivere pezzi nuovi, come so che stanno facendo Ma una cosa su Damiano la devo dire».
Cosa?
«Non sono tipo che si scandalizza ma neanche Mick Jagger, il più peccaminoso dei cantanti, ha fatto vedere sul palco il suo culo nudo. A che serve far vedere le chiappe? Non è una cosa di buon gusto».
Qualche anno fa, quando la scena era dominata dai talent show, le piacevano?
«Il nostro è un paese piccolo, avere così tanti cantanti non va bene. Quelli della mia generazione ci mettevano del tempo a emergere, facevamo la gavetta, io, Mina, avevamo cominciato a lavorare presto per costruirci una carriera. Adesso dopo due mesi già fanno i palazzetti dello sport e io, dopo un po', non capisco più nemmeno chi sono».
Quando si sveglia al mattino, le piace ancora l'idea di essere Ornella Vanoni?
«Non provo alcuna soddisfazione a essere Ornella Vanoni, non sono mai stata superegocentrata. Ho il mio modo di essere, mi hanno preso per antipatica o snob, la verità è che avevo una timidezza e un'insicurezza mostruose. Le ho curate con il teatro e con Strehler, con il pubblico, la musica».
Una passione che le ha permesso di restare se stessa tutti questi anni
«Faccio solo le cose che mi piacciono, che mi fanno sentire a mio agio. Ne ho rifiutate tante, anche quando non mi trovavo in sintonia con gli altri. Se ciò che mi propongono non mi assomiglia tendo a rifiutare anche se ci sono soldi interessanti».
Andare in tour è un impegno considerevole.
«Sì, e ho anche una leggera ansietta ma c'è l'emozione che ti spinge a continuare. Alle volte hai voglia di farlo ma non ne hai la forza, allora vado in piscina, mi ricreo. Comunque sono date comode. Perché il cervello è lucido, ma la carcassa si stanca di più».
Ornella Vanoni compie 88 anni: Giorgio Strehler, Gino Paoli, tutti i suoi grandi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.
Le tappe della vita sentimentale della cantante di «Senza fine», nata a Milano il 22 settembre 1934
Il biopic
«Invecchiare è bello se emerge il proprio lato infantile, altrimenti la vecchiaia è un inferno». Così diceva Ornella Vanoni qualche mese fa a proposito del suo compleanno, che cade proprio oggi. 88 anni per la signora della canzone italiana, nata a Milano il 22 settembre 1934, protagonista quest’anno del biopic «Senza fine» di Elisa Fuksas, che ha raccontato tutti i suoi grandi amori da Strehler a Gino Paoli. «Da artista, sono felice della vita che ho avuto. Ma dall’amore, sono così delusa che sono sola da vent’anni», dichiarava nel 2019.
Giorgio Strehler
Nei primi anni Cinquanta, per vincere la timidezza, Ornella Vanoni si iscrive alla scuola di recitazione del Piccolo. È lì che incontra il regista Giorgio Strehler, di cui diventa compagna nel 1955. «Il primo anno seguiva in auto il mio tram. Poi mi accompagnò a casa e fu amore», ha rivelato al Corriere. Scoppia lo scandalo, per la differenza d’età (Vanoni all’epoca aveva vent’anni) e perché Strehler era sposato (il divorzio ancora non c’era): «È stato l’uomo che mi ha amata di più. L’ho lasciato, mi faceva soffrire, aveva vizi che non potevo sopportare, non potevo seguirlo nella droga. Però mi ha fatto scoprire la cultura. Lui parlava e io stavo zitta: avevo solo da imparare. Ha intuito che potevo cantare, mi ha fatto scrivere le canzoni della mala».
Gino Paoli
Nel 1960, alla Ricordi, Ornella Vanoni incontra Gino Paoli (all’epoca sposato) e inizia a frequentarlo. Insieme fanno «lunghe passeggiate - ha raccontato al Corriere -. Gino non aveva i soldi neanche per il biglietto del tram; così andavamo sempre a piedi, io gli trotterellavo dietro con i tacchi a spillo, sfinita. Fino a quando, appoggiati a un muretto, gli chiesi: “Ma tu sei frocio?”. Rispose: “No, perché?”. E io: “Mi avevano detto così”. E lui: “A me invece hanno detto che tu sei lesbica, canti male e porti male...”. Siamo scoppiati a ridere. E ci siamo dati il primo bacio». Paoli le scrive una canzone, dal titolo «Me in tutto il mondo», e successivamente le dedica un vero e proprio ritratto musicale: «Senza fine». Ma la storia d’amore tra i due sarà molto turbolenta, anche per via dei continui tradimenti di lui: «Non c’era mai. Sposato, sempre in giro. Uscivamo di casa ognuno con una borsa di gettoni e stavamo ore al telefono. Ora lui mi dice: “Ornella, ti ricordi le risate?”. Ma quali risate, io soffrivo da morire».
Lucio Ardenzi
Ornella pensa ancora a Gino Paoli quando, il 6 giugno del 1960, convola a nozze con il noto impresario teatrale nonché ex cantante Lucio Ardenzi: «Il giorno delle nozze non mi sarei dovuta presentare, avrei dovuto dire la verità, sarebbe stato più leale». Nel 1962 nasce il primo figlio della coppia, Cristiano, ma in quel periodo Ornella e Lucio sono già separati. «Non parlo volentieri di Lucio Ardenzi. L'ho sposato che avevo ventisei anni, l'età giusta, ma non l'uomo giusto. Non l'ho mai amato. Ero una donna sperduta. Avevo lasciato Strehler, mi ero ammalata di tisi, c'era Paoli di mezzo e lui, Lucio, era un uomo così vanitoso. Una vanità sproporzionata. Abbiamo avuto un figlio che amo, Cristiano, e questo giustifica ampiamente la nostra storia».
Sola per scelta
Negli anni Ornella Vanoni avrà altre storie importanti: negli anni Settanta si lega per lungo tempo a Danilo Sabatini (con cui fonderà la sua casa discografica, la Vanilla), mentre negli anni Novanta fa coppia con l'avvocato e manager veneziano Vittorio Usigli. Oggi è nonna di due nipoti, Matteo e Camilla, e da 25 anni vive sola: «Per scelta - ha spiegato lo scorso anno in questa intervista -. Sono rimasta terribilmente delusa da un uomo. Colpa mia: mi sono ostinata a cambiarlo; ma gli uomini non cambiano, se non in peggio; e all’appuntamento lui alla fine non viene. Questa persona ebbe un infarto e le salvai la vita: non aspettai l’ambulanza, la portai al Niguarda in taxi. Il giorno dopo mi odiava. Così sono rimasta con Ondina, il mio cane. Siamo due ragazzine sole. E poi ho due nipoti. Matteo è uno tsunami dolcissimo. È fidanzato con una ragazza stupenda, sono felici. Camilla ha il wanderlust, la gioia dell’andare, quella cosa che Virginia Woolf secondo la sua fidanzata aveva perso. Mia nipote non ancora. A 18 anni mi chiese i soldi per andare in Nuova Zelanda e si è fermata due anni. Ha fatto la cameriera, la baby-sitter, ha raccolto pomodori. Poi è andata in Cambogia e in India, ed è tornata rasta. Ora vive a Fuerteventura, alle Canarie».
Ornella Vanoni: «Gino Paoli era brutto e povero, ma mi piaceva. Strehler lo lasciai per i suoi vizi». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.
Intervista a Ornella Vanoni, protagonista al Vittoriale per il Festival della Bellezza, con un racconto di canzoni sulla sua storia artistica: «Mi definisco spregiudicata perché giro in mutande, ma soprattutto sono sempre stata una donna libera di vivere».
Ornella si nasce?
«Sì, penso di sì, ma all’inizio non si sa di esserlo e, nel mio caso, lo si diventa. La consapevolezza è arrivata tardiva». La grande Ornella Vanoni il 5 agosto sarà protagonista al Vittoriale per il Festival della Bellezza, con un racconto di canzoni sulla sua storia artistica e la sua presenza sulla scena culturale italiana.
La sua voce è inimitabile, ma qualcuno l’ha imitata?
«Sì, ci ha provato Loretta Goggi con una mia canzone... divertente».
Una vita avventurosa, la sua. Si è definita spudorata in amore, perché?
«Mi definisco spudorata, perché giro in mutande, ma soprattutto sono sempre stata una donna libera di vivere, di volteggiare in aria per poi cadere, e poi volteggiavo di nuovo e ricadevo: un’altalena. Una donna libera è quella che non ha bisogno di appoggiarsi al nome di un marito, può contare su sé stessa e basta. La libertà è complicata soprattutto per le donne, ma anche gli uomini non hanno tanta libertà».
E lei si è innamorata spesso di uomini che non avevano una lira.
«Nutrivo per loro un’attrazione fatale. Un uomo potente, ricco, non permette alla moglie o compagna di costruirsi una propria carriera, perché vuole una donna a fianco. Io mi sono innamorata di Gino Paoli quando non era ricco e mia madre mi diceva: come fai a essere innamorata di un uomo così cesso? Effettivamente non era bello, è migliorato invecchiando».
Una storia importante, quella con Giorgio Strehler...
«Con il quale non ho potuto nemmeno recitare: la nostra storia d’amore fu un grande scandalo. Io vivevo di Strehler ma lui non poteva far recitare la ragazza con cui aveva una relazione. Inoltre, mi diceva: amore hai un grande talento ma se sali sul palco è un miracolo, perché non hai i nervi per fare questo mestiere, e aveva ragione. Il vero problema era la mia timidezza, ho dovuto lottare per superarla, strisciavo lungo i muri, avevo paura persino del mio respiro».
Non poteva recitare, però poteva cantare...
«Infatti, mi faceva cantare delle ballate negli intervalli di tempo, mentre montavano le scene tra un atto e l’altro...Poi, son venute le Canzoni della mala, un grande successo».
Sua madre era contenta della relazione strehleriana?
«Insomma... quando mi vedeva in scena, mi criticava per i riflessi rossi sui capelli, diceva che solo le puttane li tingono di quel colore».
Perché finì la sua relazione con il maestro del Piccolo?
«Durò quattro anni, l’ho lasciato io: non avevo più voglia di seguire certi suoi vizi, che non potevo condividere, ero stufa. Tuttavia, con Giorgio sono stata una spugna: seguivo tutte le prove che faceva con gli attori e una volta gli dissi non sono una lavagna su cui tu puoi scrivere, sono una spugna che assorbe tutto quello che dici. Quando ci siamo lasciati, gli scrissi in una lettera: sono stata la tua migliore allieva, sono cresciuta e diventata brava senza di te».
E lui che le rispose?
«Niente. Non deve avergli fatto piacere e non mi ha risposto».
Con un importante impresario, Lucio Ardenzi, divenuto poi suo marito, invece ha potuto recitare.
«Sì, mi ha spinto a farlo. Al contrario di Giorgio, mi ripeteva: se porti sul palco il tuo lato infantile, sarai idolatrata. Quando interpretai L’idiota di Marcel Achard, il poeta Ignazio Buttitta venne a vedermi, fu entusiasta e andò a dire a Strehler che avevo recitato benissimo. Lui gli rispose: non è possibile».
Invece è stato possibile...
«Non posso lamentarmi della mia carriera, ho fatto di tutto, anche se venni considerata troppo sofisticata quando iniziai a occuparmi di musica leggera. Ero poco popolare. Sfondai la platea con l’Appuntamento: tanta gente mi confessò che si era innamorata del proprio partner grazie a quella canzone».
In quale momento ha capito di avere talento?
«Ne sono diventata cosciente intorno ai quarant’anni. Caterina Caselli mi diceva: tu non sei una cantante, sei un guerriero!».
E con Mina: amiche o nemiche?
«Assolutamente sempre amiche! Ha persino tentato di insegnarmi a giocare a poker, senza riuscirvi. Saper giocare a carte è una questione genetica: mia madre era bravissima, mio padre non sapeva tenere le carte in mano e io ho preso da lui, da cui mi sono sentita tanto protetta».
Quando, in particolare?
«Il ricordo più forte è da ragazzina durante la guerra. Il primo bombardamento a Milano, tutto bruciava, raggiungemmo la stazione per scappare, era un girone infernale e lui, con il suo grande cappotto, mi avvolgeva tra le braccia per proteggermi dalla bolgia. Io, come madre, ho il rammarico di non essere stata abbastanza vicina a mio figlio Cristiano quando era piccolo: troppo presa dal lavoro, e so che ne ha sofferto».
A settembre compirà 88 anni.
«Invecchiare è bello se emerge il proprio lato infantile, altrimenti la vecchiaia è un inferno, e io esprimo un desiderio. Anche Giorgio Armani compie 88 anni e, attraverso il Corriere, gli propongo: perché non festeggiamo insieme?».
Da “il Giornale” il 26 aprile 2022.
S' intitola Com' era bello l'inizio della fine. I grandi incontri della mia vita (in uscita oggi per Mondadori) ed è il nuovo libro di Vittorio Feltri che contiene il racconto dei suoi incontri con alcuni personaggi celebri: da Fausto Bertinotti a Umberto Veronesi, da Nadia Toffa ad Antonio Di Pietro fino a Giulio Giorello e molti altri. Per gentile concessione dell'editore e dell'autore, anticipiamo qui il ritratto di Ornella Vanoni.
Ornella Vanoni è sempre stata la mia cantante preferita, ero un ragazzino e lei già una cantante che cominciava ad affermarsi quando l'ho vista per la prima volta in tv, e subito ne sono rimasto colpito. La sua voce era tanto particolare che poteva sembrare un po' afona, in verità era molto melodica.
Allora amavo la musica leggera, invece oggi la detesto perché le canzoni mi risultano tutte uguali, ripetitive e noiose. Poi sono cresciuto, mi sono trasferito a Milano per lavoro e finalmente ho conosciuto di persona Ornella, della quale mi hanno affascinato anche l'eleganza, il tatto, il modo cortese di rapportarsi agli altri. Erano i primi anni Novanta quando siamo capitati in uno stesso ristorante e ci siamo salutati, lei mi conosceva per via della mia professione, abbiamo fatto quattro chiacchiere. Un giorno mi invitò a casa sua, in largo Treves, a Milano, un appartamento magnifico.
Quella sera eravamo soltanto in tre, oltre alla padrona di casa eravamo Maria Luisa Trussardi e io. Ornella era sola e tesseva anche un po' l'elogio della solitudine, sebbene poi avesse rammentato con malinconia e tenerezza alcuni dei suoi compagni, incluso il cantante Gino Paoli, di cui parlava con grande affetto.
Mi sono fatto l'idea in quel momento che Ornella Vanoni fosse immortale. Insomma, beveva il suo vino, fumava i suoi spinelli, come ci aveva confessato, era una donna completamente disinibita, talmente libera da non essere in sintonia con la sua generazione, una che se ti deve mandare a quel paese lo fa in due secondi lordi. Mi appariva una dea.
Si è creato tra noi un feeling, spesso la incontravo nei ristoranti, allora univamo le compagnie. Un giorno un club di Varese mi regalò un cavallo splendido, tra gli invitati alla cerimonia di consegna c'era anche Vanoni. A un certo punto, la dea, ancora nel bel mezzo della manifestazione, mi si avvicina e mi dice: «Vittorio, mi scappa la pipì, dove cazzo vado a farla?». Eravamo in un giardino e io, per scherzare, le ho risposto: «Ti posso dare un consiglio. Vedi, qui c'è un bel prato, lì una bella pianta, vai e sistema la pratica». E Ornella lo ha fatto.
Nascosta dietro la pianta che le avevo indicato si è sollevata la gonna e si è liberata. Va da sé che chiunque avrebbe potuto vederla, dato che l'arbusto la celava appena. E fece il tutto con una disinvoltura invidiabile. Da quel pomeriggio è lievitata enormemente la mia simpatia nei suoi confronti, pure perché quello di fare la pipì ovunque, senza scomporsi, è più un atteggiamento maschile che femminile, una donna che lo faccia con quella nonchalance, in mezzo a centinaia di persone ingessate, è del tutto inusuale e quindi pure divertente.
Adoro la sua brillantezza. Una volta ho partecipato a una trasmissione televisiva in cui lei avrebbe dovuto cantare, anch' io ero sul palco ed ecco che arriva un'altra confessione: «Vittorio, sai che non mi ricordo cosa cazzo devo cantare?». Ed ecco che arriva un altro mio consiglio: «Intona una canzone qualsiasi che ti venga in mente». Come sempre fu un successo clamoroso. Mi è capitato più volte di ascoltarla dal vivo e devo ammettere che è una dominatrice della scena, non soltanto per le sue qualità canore ma altresì per l'ironia, ha sempre la risposta pronta, è più rapida di un comico nel tirare fuori la battuta, tutto le riesce naturale. La sua spontaneità disarma. Osservandola mi sono persuaso che, se fossi nato donna, sarei stato Ornella Vanoni, mentre se Ornella Vanoni fosse nata uomo, sarebbe stata Vittorio Feltri. Entrambi ce ne infischiamo altamente di ciò che pensa la gente sul nostro conto.
Una sera ero a cena al Baretto e sul tavolino avevo il mio tablet con il quale ascoltavo un po' di musica per rilassarmi. Mi stavo deliziando con le note di una delle sue canzoni, L'appuntamento, la più struggente oltre che in assoluto la mia prediletta, quando entra nella sala proprio Ornella Vanoni. Allora io le faccio notare questa strana coincidenza e lei: «Vittorio, con tutte le canzoni belle che ho fatto mi rompi sempre i coglioni con questa!».
L'ho seguita anche al Festival di Sanremo del 2021, dove Ornella era ospite d'onore. Alla sua veneranda età conserva una voce potentissima nonché la spontaneità, la disinvoltura e l'ironia ineguagliabili. Oggi per me Vanoni è ancora una dea, quantunque l'abbia vista fare la pipì, cosa che dovrebbe renderla ai miei occhi più umana.
Spero che continui a cinguettare perché quando la sento cantare è come se io regredissi insieme a lei alla mia giovinezza, in quanto le sue note mi riportano a tempi che non rimpiango ma che pure erano pieni di piccole cose andate perdute che mi hanno dato gioia e conforto.
Ornella Vanoni mi ha insegnato che si possono canticchiare le cosiddette «canzonette» senza diventare stucchevoli, banali e melensi. Vanoni interpreta l'amore, però soprattutto la solitudine, quella che prova e vive ella stessa. La solitudine è anche la via per creare, è legata un po' a un dolore esistenziale, non specifico, e ti fornisce la carica per essere più umano. Ed è questa umanità, ossia questa sensibilità, a farti luccicare allo sguardo del pubblico
Luigi Bolognini per “la Repubblica” l'11 aprile 2022.
Forse c'è qualcosa nell'acqua che beve, o più probabilmente nel Dna, fatto sta che Ornella Vanoni, dopo la fantastica carriera che ha avuto (sottolineiamo più quella che gli anni, 87, perché è una signora, e che signora), non ha minimamente voglia di fermarsi.
E sta per compiere altri due passi dal valore simbolico notevole: il 24 aprile al Casinò di Sanremo riceverà il primo Premio speciale del Club Tenco, esattamente una settimana dopo debutterà sul palco del Concertone del Primo Maggio a Roma. E come sempre parlare con la cantante è tuffarsi in un magico mondo di ricordi, di pensieri e di sentimenti.
Iniziamo dal Club Tenco che inaugura con lei questo nuovo premio.
«Che gioia, ci siamo sempre voluti bene, mi hanno già premiata due volte nel 1981 come miglior disco (Duemilatrecentouno parole ) e nel 1984 come miglior interprete ( Uomini ).
E poi è sempre bello andarci perché non c'è gara, la musica non deve essere una gara, ma un incontro. Ci sono invece quelle favolose cene fino all'alba dove ridevo e scherzavo con gente come Guccini e Vecchioni. Sul palco questa volta canterò col pianista Fabio Valdemarin, l'autore e cantautore Fabio Ilacqua e Mauro Pagani per il quale non servono neppure definizioni».
Dal Tenco a Tenco. L'ha conosciuto bene?
«Abbastanza, non benissimo perché Luigi stava a Genova. Lo conobbi tramite Paoli, suonò per me il sax in Se qualcuno ti dirà , il lato B di Senza fine . Bellissimo, certo, e un gran talento, ma aveva sempre uno spirito soccombente, non pensava mai che ce l'avrebbe fatta, tanto quanto Gino era solare».
E nel 1967 c'era anche lei al Sanremo in cui morì.
«Dica pure che si uccise. Mai avuto dubbi sul suicidio. Sennò chi sarebbe stato, la Cia? Era uno straccio, in quei giorni. Gli dissi che doveva aprire gli occhi quando cantava, ma sembrava un gufo: era pieno di barbiturici e alcol, non reggeva l'emozione, credo che la Rai gli avesse tagliato un po' il testo di Ciao amore ciao e che l'amore per Dalida in quel momento lo turbasse, era tutto troppo per lui».
E non era forte di carattere come lei.
«Ma guardi che io non lo sono: ho quella che si chiama timidezza del bruco, che mi ha sempre fatto apparire come una donna snob, ma nessuno ha mai creduto che fossi timida. Sono migliorata con l'età, un po'. Mi aiuta anche pensare ai tanti magnifici incontri che ho fatto».
Alcuni li immaginiamo, Strehler, Paoli. Altri?
«Musicalmente di sicuro Sergio Bardotti, grazie a cui sono entrata in altri mondi: il Brasile col disco assieme a Toquinho, il pop con i New Trolls, il jazz con Argilla . Bardotti era una benedizione. Fuori dalla musica le dico Hugo Pratt, una persona magica da ascoltare, stavi ore coi suoi racconti di viaggio. Corto Maltese era lui. E poi Gianni Versace, che ho conosciuto agli esordi: per due anni ho indossato i suoi abiti di metallo. Non le sto a dire: d'estate schiattavo di caldo, d'inverno congelavo, ma erano magnifici».
Tanti bei ricordi. Ma la guerra attuale le evocherà anche quelli brutti, di bambina.
«Quando in tv sento le sirene dell'Ucraina penso a quelle che suonavano a Varese, dove ero sfollata. Allora dovevamo uscire di casa vestiti alla bell'e meglio e stare nei prati, con papà che mi proteggeva col corpo. E poi l'insegnante di matematica a cui dissi "a domani" e lei "penso di no, sono ebrea". Terribile.
Adesso mi torna in mente tutto questo, ma ci aggiungo il dolore per i giovani d'oggi, che hanno perso due anni di scuola, di incontri, di amicizie, e adesso si trovano pure la paura dell'atomica».
La musica non la consola?
«Come no: metto un disco qualsiasi di Lucio Dalla e sono felice. Ma so ascoltare anche la musica di oggi, perché dobbiamo vivere il nostro tempo. Mi piace Mahmood, mi piace Marracash, e che bella la sua collaborazione con Vasco.
Ecco, poi Vasco, ha sempre questa capacità di scrivere in modo semplice, che è difficilissimo, e così sa arrivare a tutti, che è quello che deve fare un artista».
E arriviamo al Primo Maggio. Un debutto, al concertone.
«Ma adesso è il momento giusto. E a proposito di Sergio Bardotti, porterò una magnifica canzone di Chico Buarque de Hollanda, che lui tradusse e io fui la prima a cantare in Italia: La costruzione . Una canzone dedicata a un operaio che muore cadendo da un'impalcatura. Dove altro potrei cantarla, se non alla Festa dei lavoratori?»
Da ilnapolista.it il 23 febbraio 2022.
Il Corriere Roma intervista Ornella Vanoni. Nel fine settimana esce «Senza fine», il film che racconta la sua vita, diretto da Elisa Fuksas. Ormai non è più solo una cantante, ma un’icona. Perché?
«Perché sono una sopravvissuta, molti colleghi che amavo non ci sono più. Jannacci, Gaber… Ma più di tutti mi manca Lucio Dalla. Pur essendo brutto aveva un fascino estremo. E una marcia in più. Molte ragazze mi fermano: voglio diventare come lei. Intanto bisogna soffrire molto. E diventare felici. E poi lasciarsi andare. Mi diverto e cerco di far divertire gli altri. Se lei mi chiama e io sto facendo la pipì, glielo dico e la faccio aspettare. La libertà è non essere vittime del proprio successo».
Sulla morte e la vecchiaia:
«Ci penso, però non ne sono terrorizzata. Sto vivendo una vecchiaia per niente angosciante, mi sono liberata da tabù e paure. Sono spudorata. Da ragazza ero timidissima. Come ho superato l’insicurezza sul palco? Mi dicevano che col mio fisico e la mia faccia era impossibile, mi davano della snob. Un giorno ho capito che ero brava e ho superato la timidezza».
Su Strehler, uno dei suoi grandi amori:
«Quando lo conobbi mi disse: hai talento ma non hai i nervi per reggere. Mi ha detto ti amo e ci siamo messi insieme. Lo accompagnavo alle opere, canticchiavo le arie, Gino Negri disse che ero intonata. Così vennero le canzoni della Mala. Ma a un certo punto mi sentii una bambina in un cappotto troppo grande».
E arrivò Gino Paoli.
«Suonava (male) Il cielo in una stanza. Mi dissero: è un frocio (all’epoca non si diceva gay) che scrive cagate. Gli chiesi di scrivere una canzone per me e aggiunsi: ma tu sei frocio? No. A me hanno detto che tu sei lesbica. E ridendo ci demmo il primo bacio».
Le chiedono come mai le donne che canta Mina siano diverse dalle sue.
«Io do voce a donne che se ne vanno, come me, se sto male con un uomo mi strappo un braccio ma non rimango. Mina è una donna che sessualmente subisce».
Sul figlio Cristiano, di cui parla nel film:
«Avrei voluto stargli vicino, ma ero sempre via, lavoravo tanto. Sai, vedere tua madre che preferisce un mondo rutilante. Sognava di mettermi sotto con la macchina. Ora grazie al cielo non più».
Cos’è la sensualità?
«Non il seno di fuori. Ci sono persone vestite da capo a piedi che lo sono, la gamba fuori l’ho usata anch’io, ma non è quello».
La canzone che ama e quella che detesta?
«L’appuntamento: non capisco perché piace, una sfigata che sotto la pioggia aspetta un amore che non arriva, mah. Quella che amo, ha presente: E’ uno di quei giorni che rivedo tutta la mia vita…»
Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica” il 20 febbraio 2022.
«Quando sono nervosa mi faccio un piatto di pasta da camionista». Ornella Vanoni racconta così a un nutrizionista la propria battaglia contro l'ansia nel documentario Senza fine, al cinema dal 24 febbraio dopo l'anteprima alla Mostra di Venezia.
È una delle rivelazioni di un'artista che a 87 anni inanella progetti, perché, come racconta al telefono dalla sua casa di Milano, «invecchiare non avendo niente che ti interessa veramente è mortale, perciò faccio le cose che mi piacciono».
Un esempio è il recente giallo al femminile 7 donne e un mistero e appunto questo curioso documentario in cui Ornella mescola fiction e chiacchierate con la regista Elisa Fuksas, ma anche con Vinicio Capossela, Samuele Bersani, Paolo Fresu. «Sono andata a Castrocaro Terme in questo albergo dove si fanno delle cure» spiega.
«È un posto interessante, costruito da Mussolini, e così ho chiamato Elisa e l'ho convinta a raggiungermi per girare qui». Perciò il film è un misto di nuotate, camminate, chiacchierate e siparietti in cui l'artista dice di essere esausta.
Guardando il film sembra che le piaccia un po' torturarsi, accettando impegni di cui magari si pente.
«Tutta la mia vita è stata così, fin da quando Strehler mi convinse a cantare le canzoni della mala e a recitare: dovevo andare in palcoscenico e mi tremavano le gambe. Poi però ogni volta costringevo me stessa ad affrontare la paura.
Per anni ho avuto un'insicurezza totale, poi è scattato qualcosa: mi sono resa conto che in fondo ero brava e paura e imbarazzo sono passati, ed è rimasta invece l'emozione dell'incontro col pubblico».
Nel documentario racconta di avere fatto l'amore in un androne travolta dalla passione. E negli anni non ha risparmiato dettagli sulla sua vita amorosa con i fedifraghi Strehler e Paoli. Prova il rimorso di essersi esposta troppo?
«Non ho mai condiviso i miei sentimenti più profondi, ma non mi pento di aver raccontato i fatti miei. Ero e sono spudorata, mi piace giocare, fare battute e girare ancora in mutande».
Ancora oggi si mostra senza tabù. Che rapporto ha col suo corpo?
«Quando andavo a fare le vacanze a Paraggi da ragazza, avevo un sacco di spasimanti che mi dicevano che avevo il culo d'oro. Per molti anni non ci ho pensato granché, finché non ho iniziato ad apprezzare almeno quella parte di me e ho capito che emanavo un certo erotismo».
Se le ricorda quelle vacanze?
«Facevo la spola tra Paraggi e Portofino, avevo degli amichetti ed ero molto corteggiata, ma ero molto timida. Ricordo che tra gli spasimanti c'era Alfonso di Borbone, che stava in una villa a Levanto e prendeva l'autobus per venirmi a trovare, anche se era un pretendente al trono. Mi portava in giro in barca a remi, era molto gentile, ma un giorno mi ha detto: sei molto carina, ma venire ogni volta a piedi da te è troppo pesante».
Parla sempre della sua timidezza, ma non è un controsenso posare per Playboy come fece nel 1977?
«Si scrisse che la Vanoni aveva posato nuda per Playboy, ma non era vero, perché in quelle foto io ero sempre coperta. Volevano pagarmi, ma io chiesi una sfera di Arnaldo Pomodoro esposta in una galleria di Milano. Solo che costava troppo. Arnaldo però, saputa la cosa, rinunciò al proprio compenso purché potessero comprarmela. E così siamo diventati grandi amici».
Nel film ci sono diverse sue canzoni. È vero, come dice alla regista, che non ama particolarmente L'appuntamento?
«È una battuta, ma non ho mai capito le coppie che mi dicevano: è la nostra canzone. La musica è incantevole, ma l'avete ascoltato il testo? Secondo me no, perché è dolorosissimo».
Le propongo un gioco. Io le dico la strofa di una sua canzone e lei mi dice a cosa la fa pensare: "Tristezza, per favore vai via".
«Tristezza l'ho sentita in Brasile, quando mi esibivo nei club: la cantava Jair, e ho deciso di portarla in Italia. Da ragazza non avevo capito che un giorno avrei avuto la depressione, da cui per fortuna poi sono uscita, però ho sempre vissuto una grande malinconia. Mi pare un brano attuale, perché viviamo un momento storico molto difficile».
Che ricordi ha del Brasile?
«Sergio Bardotti, che era un produttore artista, ne era innamorato. Ci siamo andati per convincere Vinicius De Moraes e Toquinho a fare un disco insieme (La voglia, la pazzia, l'incoscienza, l'allegria, ndr.). Mi sono molto divertita lì: facevo lunghe passeggiate a Copacabana con Caetano Veloso, che aveva 18 anni e portava una salopette. Un giorno fissai un appuntamento di lavoro con Chico Buarque, ma ci ubriacammo e alla fine non combinammo nulla».
Torniamo alle strofe: "Domani è un altro giorno si vedrà".
«La musica era inglese e fu affidata a Giorgio Calabrese, bravissimo paroliere, che scrisse un testo emblema dell'ottimismo».
Lei è ottimista?
«Né ottimista né pessimista, ma logica». "Costano, le donne costano". «Ricetta di donna l'abbiamo scritta io e Bardotti ed è venuta talmente bene che poi Vecchioni l'ha citata in un suo disco. E poi mi ha chiesto che volesse dire. Che per conquistare una donna non bastano gioielli o belle auto».
Delle canzoni che lei ha scritto, qual è quella a cui tiene di più?
«Sicuramente Lupo, dedicata a mio figlio Cristiano».
È vero che l'album che ama di più è Argilla?
«Sì, perché l'ho fatto in assoluta libertà creativa, con Paolo Fresu e altri. Abbiamo preso brani noti e li abbiamo stravolti, compreso I get along without you very well di Chet Baker che non avevo mai interpretato. Quando l'ho registrato piangevamo tutti. Ma il disco non ha venduto».
Qualche disco l'ha mai delusa?
«Non sono mai stati i dischi a deludermi, ma i produttori. Per esempio quando lavoravo all'Ariston, gestita da un signore (Alfredo Rossi, ndr) che non capiva niente, ho fatto una cosa che non fu apprezzata. Alla Mostra internazionale di musica leggera di Venezia, cantai Mi sono innamorato di te di Tenco.
Era la prima volta che una donna interpretava un brano maschile. Quell'esibizione ha cambiato per sempre il linguaggio della canzone femminile».
Le propongo un'altra strofa: "E se è finita corro dentro alla vita senza di te".
«Stella nascente è un brano molto bello di Lavezzi e Mogol. E descrive bene quello che ho fatto per tutta la vita: andare avanti anche senza gli uomini. Dopo aver subito una delusione tremenda a 63 anni sono rimasta senza un compagno. Se mi guardo indietro ho sbagliato a non pensare mai al futuro delle storie che stavo vivendo. Non ho mai lottato per trattenere un uomo».
Rimanere sola per lei è stata una conquista o una sconfitta?
«Una conquista, anche se ci vuole coraggio. Non bisogna attribuire agli uomini il compito di regalarci la felicità».
Le cito un'ultima canzone: "Il paradiso è la meta di chi non ci va".
«La musica di Isola è di Sakamoto e Samuele Bersani ha scritto un testo che è un capolavoro, perché lui è uno dei grandi cantautori che stanno invecchiando. Non so cosa sia l'aldilà, non so se l'energia che abbiamo dentro quando moriamo diventi qualcosa oppure nulla, come mi diceva Strehler, ma a qualcosa bisogna credere e io credo in Gesù: gli parlo e gli racconto un po' di cose».
Se esistessero paradiso e inferno, lei dove finirebbe?
«Sono stata una peccatrice, ma poi mi sono riscattata. Secondo me andrò in paradiso. Il bilancio è positivo».
Pamela Anderson, non solo bagnina di Baywatch: i 5 matrimoni e la passione per le case. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022.
Al via la docu-serie “Pamela's Garden of Eden”. L'attrice si mostra nell’impegno di ristrutturare la casa che era appartenuta alla nonna. Nel mentre, racconta la sua tormentata vita
La docu-serie
Nel corso degli anni è diventata un’icona. Sotto tanti punti di vista: Pamela Anderson è una modella, una star dello schermo e un'attivista che è stata un nome familiare per decenni. Ora è il momento di vedere Pamela sotto una luce completamente nuova mentre torna nella proprietà della sua famiglia sull'isola di Vancouver per restaurare, progettare e stabilirsi nella casa (che era di sua nonna). Il tutto in una docu-serie dal titolo “Pamela's Garden of Eden”.
Ritorno alle origini
Pamela viene dalla pittoresca cittadina della costa occidentale, Ladysmith. Ladysmith è una piccola città (con una popolazione inferiore a 9.000 abitanti) che dispone di un incantevole lungomare. Loyal Homes lo descrive come un luogo ideale per gli investitori immobiliari grazie agli splendidi paesaggi e alle affascinanti fette del lungomare. In“Pamela's Garden of Eden”, la star fa il suo trionfante ritorno a Ladysmith, per rinnovare la proprietà che ha acquistato 25 anni fa.
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Vegana
Vegetariana sin da quando era un'adolescente (anni prima che le diete a base vegetale diventassero popolari), Pamela vive da decenni uno stile di vita vegano.
Attivista
Pamela è una schietta sostenitrice dei diritti animali e ambientali. Ha collaborato con PETA a numerose campagne, inclusa la campagna "Tutti gli animali hanno le stesse parti" per fermare il traffico di animali. Ha fondato la Pamela Anderson Foundation che serve a proteggere il pianeta sostenendo “organizzazioni e individui che sono in prima linea nella protezione dei diritti umani, animali e ambientali”.
In libreria
L'impero di Pamela non si limita solo ai suoi crediti cinematografici e televisivi. Ha anche pubblicato diversi romanzi ispirati alla sua vita e alle sue esperienze, tra cui la sua autobiografia “Love”, “Pamela” e una serie di libri per bambini.
Bellezza mozzafiato
Pamela è ancora una volta un'icona di stile anche per la Generazione Z che ha trovato ispirazione dal suo look biondo platino, sopracciglia sottili e labbra scure. Posa spesso per servizi fotografici internazionali
La separazione dopo 12 giorni
Il 20 gennaio 2020 con una cerimonia privata a Malibù, Pamela Anderson ha sposato il produttore cinematografico Jon Peters, 74. Si tratta del quinto matrimonio per entrambi. Ma il sogno è durato poco: i due si separano dopo 12 giorni. «Ci prendiamo del tempo a parte per rivalutare ciò che vogliamo dalla vita e l’uno dall’altra» aveva dichiarato all’Hollywood Reporter la bagnina più famosa del mondo.
La confessione choc
Pamela Anderson ha ammesso in diretta tv, nel 2009, di aver sniffato cocaina in passato. Una rivelazione shock che ha colpito tutti anche il presentatore dello show, il britannico Jeremy Kyle. L'ex playmate aveva raccontato davanti all'occhio indiscreto delle telecamere il suo periodo di vita più difficile alle prese con la droga e l'alcool.
Tommy Lee
“Pam e Tommy” è la serie TV che sta andando in onda su Disney+ e racconta l’amore di Anderson e Tommy Lee, primo marito. Pamela Anderson e Tommy Lee si conobbero il 31 dicembre del ’94, in un locale di Los Angeles dov’erano andati a festeggiare con gli amici l’arrivo del nuovo anno. Si racconta che Lee rimase estasiato dalla bellezza di Pamela. All’epoca lui aveva 32 anni e la sua carriera era in stallo, mentre la Anderson, 21, stava sbocciando come attrice e personaggio televisivo.Il matrimonio di Pam e Tommy si celebrò il 19 febbraio 1995 sulla spiaggia di Cancun, alla presenza di sole otto persone. Anche il look degli sposi è passato alla storia: lei indossava un bikini bianco e nient’altro, mentre lui un paio di bermuda dello stesso colore.
Barbara Costa per Dagospia il 2 luglio 2022.
Il pene di Tommy Lee è “grande come un guantone da boxe, è un caz*o di arnese che in bocca nessuna groupie riesce a tenerne più d’un terzo. Mai vista una cosa del genere. Ce l’hai il porto d’armi per quell’affare, Tommy?”. Parola di Ozzy Osbourne. E allora è per questo, è per tali dimensioni, che Pamela Anderson continua a gemere che il suo ex Tommy Lee sarà per sempre l’amore suo!
Chissà se Tommy “la stanza con pareti imbottite e imbracature al soffitto, per sc*parci legati” l’ha mai divisa con Pamela, se vi ha mai sc*pata legata Pamela… e comunque auguri a Pamela, di buon compleanno, il 1 luglio sono 55… e però io insisto sulla sua fissa per il batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee: sui suoi cm penici non si discute, lui ce li ha fatti vedere, in quel sex tape che nei '90 fece sensazione: quel video di sesso rubato, in barca, tra Tommy e Pamela in luna di miele, sposati in bermuda lui, e in bikini bianco lei, dopo sole 96 ore che stavano insieme.
Video di recente riscoperto quale oggetto di una serie tv, e… perché sì che l’abbiamo guardato, quel video sboccato… Dai, su: i sex tape dei famosi li guardiamo perché curiosi marci di sapere come lo fanno loro. Cioè di scoprire che orgasmano come chiunque altro.
Tommy Lee e Pamela Anderson si sono conosciuti al veglione di Capodanno 1995. Lo nota prima Pam, e gli fa arrivare uno shot al suo tavolo. Sedutosi accanto a lei, strafatto di ecstasy, Tommy le ha… leccato la faccia a mo’ di cane!
Hanno concepito il primo figlio sullo stesso letto dove Pamela lo ha partorito, e Tommy lo ha tirato fuori dalla sua vagina insieme all’ostetrica. Dopo 3 anni e un secondo figlio, e un tentativo di suicidio di lei, Pamela ha mandato per 6 mesi in galera Tommy per violenza domestica (lui è andato fuori di testa perché non trovava la padella per friggere le verdure per cena). Uscito dal carcere, Pamela se l’è risc*pato, e di gusto, e più volte, ma poi l’ha di nuovo mollato, e hanno divorziato.
Si sono rimessi insieme nel 2008, ed è durata 2 anni. Varie groupie dicono che i Mötley Crüe hanno un’aurea sessuale prepotente e intossicante, e Pamelona lo sa bene: prima che con Tommy è uscita e ha sc*pato col cantante dei Mötley, Vince Neil. Lei nega - a Tommy l’ha negato - ma Nikki Sixx dice che è vero, e Nikki è il bassista dei Mötley e lui non ha subito il fascino letale di Pamela (“non me la sc*perei nemmeno coll’uccello di un altro”) ma sa che Pam è stata a letto con Vince: glielo ha detto Vince, e Vince conferma e rilancia che di quella sc*pata c’è pure un loro sex tape: ma quello che c’è sui siti porno, con Vince e due bionde, e una simile a Pamela… non è lei, bensì la ex pornostar Janine Lindemulder, tra le tante passate a letto e telecamera di Vince Neil, un serio cultore del genere…
Ma Pamela, a quella “caz*o di testa sottosviluppata” di Tommy (Tommy Lee dixit) come lo ha spiegato che, se non con Vince Neil, un altro sex tape con lei e un rocker c’è, esiste, e dura 4 minuti, ed è lei con Bret Michaels dei Poison? Che poi quei 4 minuti sono quelli che Pam coi suoi legali non è riuscita a bloccare, visto che un’ora è la versione integrale.
Raccontano che quando Tommy lo ha saputo, di lei e di Bret, ha dato di matto: evidentemente Bret non ce l’ha grosso come lui ma lo sa usare meglio… ma poi a Tommy che gli frega, di chi Pamela ha sc*pato prima o dopo di lui??? Tommy s’è preso schiaffoni dal secondo marito di Pam, il metal Kid Rock. Da tempo si vocifera di un sex tape pure tra Pam e Kid Rock, ma dove sta, esiste? Mai visto…
In ogni caso si è capito, che per Pamela Anderson è vizio, orgoglio, farsi filmare nelle sue abilità amatorie più goliardiche, e capirai, mica è la sola, bensì è la capostipite, di un metodo - il sex tape trafugato o finto tale - gradino di lancio per la fama mondiale. Kim Kardashian e Paris Hilton è in tal modo che sono diventate "qualcuno". E Rick Salomon, l’ex di Paris con Paris in un sex tape "rubato", Pamela se lo è di suo sposato, e mica una ma due volte, in terze e in quarte nozze…
Oh, non bestemmiamo! Non mettiamo nome e corpo della Hilton accanto a Pamela! Nessuna è Pamela, nessuna sarà mai Pamela. Le sue tettone sotto quel costume rosso da bagnina hanno fatto e registrato la Storia. Davvero qualcuno crede che nei '90 i cubani stessero ancora appresso a Castro??? Ma quando mai, stavano a trafficare sui balconi, e terrazzi, ovunque ci fosse posto e modo di celare l’antenna (tana migliore, i cassoni dell’acqua, svuotati) per collegarsi con la Florida, e vedersi Baywatch! E davvero c’è chi crede che gli iraniani stessero inchinati a quei religiosi barbuti che li ninnano?
Macché, stavano prodi a rimirarsi le tettoniche falcate della Anderson! Le tette sono pop e sono politica, il c*lo è politica: battono ogni repressione. Le tette di Pamela Anderson hanno avuto la loro parte nello smuover verso la libertà l’Europa Orientale. Nei '90 di cosa avevano tanta paura, al Cremlino, per lagnarsi a Hefner, il quale imponeva su Playboy Russia le forme nude di Pamela?! Che quelle tette, che quel c*lo, la gloria di quel corpo facessero fremere di libertà (e di sesso) le loro donne. Una libertà OCCIDENTALE. Che a parole gli ipocriti spregiano, ma poi, nel pratico…
In Inghilterra vietarono di affiggere i poster di Pamela in metropolitana perché… pericolosi per i viaggiatori! Ma la Anderson non ha mai spaventato nessuno, di sicuro non le donne, solo le donnette. Ecco Pamela Anderson secondo Natalia Aspesi: “Una radiosa e polposa creatura bionda, risata facile, seno debordante e dondolante, teleinventata, artificiale, disposta a farsi fotografare in bikini da un muro umano di professionisti disperati”. Gesù, l’invidia fa sragionare!
La verità è che le donne, quelle senza fisime, Pamela Anderson le ha armate. A migliaia l’hanno imitata, non per inferiorità, ma per p-o-t-e-r-e. Nessuna femminista anni '70, e struccata e inviperita, col suo reggiseno bruciato (e seni penduli) ha avuto un seguito pur minimamente paragonabile a quello di Pamela. Dice Pamela Anderson: “Io sono una professionista e sono indipendente. Ho la fortuna di fare il lavoro che mi piace, e guadagno bene. Siano benedetti hot pants e tacchi alti! Io mi sono sempre mantenuta da sola, e ho cresciuto due figli da madre single. Non ho bisogno di nessuno”.
Ehi, sarà vero che, nel 1989, al suo primo servizio per Playboy, per il nervoso, Pamela ha vomitato addosso alla truccatrice? E che è stata “amica intima” di Putin? Lo sapremo presto: a breve dovrebbe uscire l’autobiografia di Pamela, dove spero ci spieghi in dettaglio se, quando stava col calciatore Adil Rami, stava pure con Julian Assange, oppure no, era Rami ad avere una doppia vita, già una (ex) moglie, o una amante, o due, o che ne so.
Lucia Resta per gazzetta.it l'1 luglio 2022.
Una vita travagliata
Sex symbol per eccellenza negli anni '90, Pamela Anderson oggi compie 55 anni e vive una vita molto diversa rispetto al suo tumultuoso passato. Canadese naturalizzata statunitense, la star di Baywatch è passata dai servizi fotografici per Playboy alla tv e il cinema con alterne fortune e nel frattempo ha avuto cinque mariti e due figli. Proprio la sua storia con il primo marito Tommy Lee è diventata una serie tv (Pam & Tommy) in cui a ricoprire il ruolo di Pamela Denise Anderson c'è una irriconoscibile Lily James. Ma vediamo come la vera Pamela Anderson è cambiata negli anni e quanto è stato importante per lei essere una sportiva fin da giovanissima.
Giovane sportiva
Nata a Ladysmith, nella Columbia Britannica, in Canada, Pamela Anderson agli inizi degli anni '80 giocava nella squadra di pallavolo della École Highland Secondary School di Comox. Nel 1988 si è trasferita a Vancouver e iniziato a lavorare come istruttrice di fitness. L'anno dopo, mentre assisteva a una partita di football al BC Place Stadium, è stata inquadrata sul maxischermo mentre aveva addosso una maglietta di un noto brand di birra. Colpito dalla sua bellezza, il pubblico ha fatto un boato e l'azienda produttrice di quella birra l'ha ingaggiata come testimonial. La sua carriera è cominciata così. In seguito si è trasferita a Los Angeles e ha iniziato a posare per Playboy, poi dal 1992 al 1997 è stata una delle protagoniste di Baywatch ed è diventata famosissima in tutto il mondo.
Il veganesimo
Pamela Anderson è diventata vegetariana molto prima che questo regime alimentare fosse di moda a Hollywood. A spingerla a prendere questa decisione è stato un episodio molto particolare della sua adolescenza: ha visto suo padre mentre puliva un animale che aveva cacciato. In seguito è diventata vegana e negli anni ha partecipato a numerose campagne di sensibilizzazione sui diritti degli animali, schierandosi sempre contro le pellicce e gli allevamenti intensivi. Nel 2016 la PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) l'ha nominata "Persona dell'anno".
L'epatite C e l'eisoptrofobia
Nel corso della sua vita Pamela Anderson ha avuto dei problemi di salute. In particolare nel 2002 ha dichiarato di aver contratto l'epatite C a causa della condivisione degli aghi per un tatuaggio con Tommy Lee, che è stato suo marito dal 1995 al 1998 (sposato dopo soli quattro giorni di conoscenza) e dal quale ha avuto i suoi due figli Brandon Thomas e Dylan Jagger. Nel corso della loro storia, Tommy Lee è anche stato condannato a sei mesi di carcere per violenza domestica. Nel 2006 Pamela ha avuto un aborto spontaneo mentre era sposata con il cantante Kid Rock. Ha inoltre rivelato di soffrire di eisoptrofobia o spettrofobia, ossia la paura di guardarsi allo specchio. Nel 1990 si è sottoposta a un intervento di mastoplastica additiva, ma nel 1999 ha rimosso le protesi.
I 5 mariti
La vita sentimentale di Pamela Anderson è stata molto movimentata. Tutti conoscono la sua storia con Tommy Lee, il batterista dei Mötley Crüe, sposato nel giro di una settimana. Un loro video girato durante la prima notte di nozze è stato praticamente il primo caso di video diventato virale. Ma anche un altro video girato con il musicista Bret Michaels, prima che si mettesse con Lee, ma diffuso anni dopo (nel 1998) ebbe più o meno la stessa sorte.
Dopo la fine della storia con Lee, Pamela Anderson si è sposata altre quattro volte: nel 2006 con Kid Rock, divorziando circa tre mesi dopo il sì; nel 2007 con Rick Salomon, un produttore cinematografico, un matrimonio annullato quattro mesi dopo le nozze; nel 2014 un altro matrimonio con Salomon, finito con il divorzio poco più di un anno dopo; a gennaio del 2020 sono arrivate le nozze con un altro produttore cinematografico, Jon Peters, che Pamela conosceva però già da una trentina d'anni, ma il matrimonio è durato solo 12 giorni e anzi Anderson ha anche detto che non era un vero e proprio matrimonio, ma solo una rimpatriata tra amici; a dicembre del 2020 si è sposata con la sua guardia del corpo Dan Hayhurst, ma ha poi divorziato all'inizio del 2022. Tra le sue tante storie d'amore c'è anche quella del 2019 con l'ex calciatore del Milan Adil Rami, oggi al Troyes, di 18 anni più giovane di lei.
Pamela Anderson oggi tra attivismo e riservatezza
A differenza di molte star, Pamela Anderson odia i social network, ha un account Instagram, ma non lo usa e segue solo i suoi figli e Miley Cyrus. Si dedica principalmente ai suoi impegni da attivista a sostegno di diverse realtà che si occupano di diritti degli animali e di persone affette da AIDS. Passa molto tempo a leggere e a contatto con la natura, facendo lunghe passeggiate con i suoi cani, mentre non ama andare in palestra né ha un personal trainer, ma ogni tanto fa pilates. Ha parlato a cuore aperto anche degli abusi sessuali subiti da bambina e da giovanissima, per aiutare altre donne a superare questo tipo di traumi.
Pamela Anderson, da icona sexy a simbolo (non autorizzato) del femminismo. Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.
L’attrice torna alla ribalta con una serie tv e un documentario.
Icona sexy Anni 90, animalista, vegana, vittima di uno scandalo che ha segnato il modo di intendere gli scandali, amica, chiacchierata, di uno dei protagonisti più controversi dell’attualità recente. Pamela Anderson, 54 anni, è stata tutto e il contrario di tutto. Ciclicamente si parla di leandersi.
Dopo le campagne per i diritti degli animali e il sostegno al co fondatore di Wikileaks Julian Assange, Anderson è tornata alla ribalta per Pam & Tommy, serie tv, non autorizzata dai diretti interessati, sul caso della diffusione del video intimo con l’allora marito Tommy Lee, batterista dei Mötley Crüe.
Sul New York Times l’editorialista Jessica Bennett ha bollato la fiction come un tentativo di riabilitare Pamela Anderson in una chiave femminista forzata e non condivisa dalla stessa.
L’attrice intanto ha fatto sapere che sarà un documentario su Netflix prossimamente in uscita a raccontare la vera storia della sua vita.
Così è stato diffuso il video hot di Pamela Anderson. Carlo Lanna il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Come il sex tape ha cambiato la vita di Pamela Anderson. Lo racconta Pam & Tommy, la miniserie di Disney+ che arriva in streaming anche in Italia.
La cronaca che diventa fiction. Il gossip che diventa puro intrattenimento. Queste sono le due componenti fondamentali di Pam & Tommy, nuova serie tv di Disney+ (disponibile tra le pagine di Star) che arriva in Italia dal 2 febbraio. Al centro della vicenda c’è il più grande scandalo sessuale che ha attraversato buona parte degli anni ’90 e che, di conseguenza, ha segnato per sempre la carriera di Pamela Anderson. Sì, perché la serie che è disponibile in streaming racconta la vita privata (e lavorativa) della sexy bagnina di Baywatch, alle prese con la sua tormentata storia d’amore con Tommy Lee, leader di Montley Crue. Un amore intenso che finisce tra le prime pagine dei giornali e nelle aule dei tribunali a causa di un video hard che la coppia ha girato in luna di miele.
Composta da otto episodi di un’ora ciascuno, i primi tre arrivano su Disney+ dal due febbraio per proseguire poi a rilascio settimanale. Una serie che non è solo una fotografia bellissima e scanzonata di un decennio pieno di cambiamenti sociali e culturali, ma è soprattutto un atto di accusa alla stampa di settore che ha inseguito il guadagno finendo per speculare sulla vita di una giovane donna. Da quel momento in poi, fin da quando il video è stato diffuso, Pamela Anderson non è riuscita a scrollarsi di dosso quell’alone da diva sexy e spregiudica. In realtà, anche una donna come lei aveva le sue debolezze.
Sposati dopo quatto giorni di conoscenza, la trama di Pam & Tommy
"Questo è un video privato. Stiamo guardando qualcosa che non si dovrebbe vedere". Così si apre il trailer della serie tv sulla vita spregiudicata di Pamela Anderson e Tommy Lee. E fin da subito si intuisce quale sarà la direzione della storia. Prima che il sex tape arrivi sulla bocca di tutti, però, c’è da fare un passo indietro. La vicenda inizia nel 1995, anni in cui Pam & Tommy erano felicemente sposati. Lui era sulla cresta dell’onda, lei un’attrice richiestissima e all’apice della carriera. Non erano ben voluti da tutti, però. Rand Gautier (Seth Rogen) è il vero protagonista della vicenda.
Muratore squattrinato con un passato da pornodivo, architetta un piano per vendicarsi del batterista dei Montley Crue. Licenziato senza giusta causa dai lavori di ristrutturazione della villa del cantante, l’uomo ruba la cassaforte di Tommy e scopre per puro caso che i due hanno girato in luna di miele un video hot. In parallelo, la storia apre una lunga parentesi sull’amore folle e sconclusionato di Pamela e Tommy. Due persone agli antipodi che non nascondono le proprie fragilità. Con la diffusione del loro video, niente sarà più lo stesso. Tutto il resto, è già storia del gossip.
Un duo di attori in totale stato di grazia
Una serie di ottima fattura quella di Pam & Tommy. Non una fredda e calcolata ricostruzione storica, ma una fotografia brillante e poco edulcorata della realtà dell’epoca. Sicuramente, la punta di diamante è proprio il cast. Lily James, che abbiamo visto di recente al cinema nel sequel di Mamma Mia!, interpretata Pamela Anderson. Perfetta sotto ogni punto di vista, dalle movenze, all’accento americanizzano fino al tono di voce, l’attrice ha la capacità di umanizzare la mitica Pamela, tratteggiando il volto di una donna umile che è in cerca solo del vero amore. Per diventare la diva di Baywatch, la James si sottoponeva a tre ore di trucco ogni giorno.
Al suo fianco c’è Sebastian Stan. Attore di cinema conosciuto prettamente per essere stato il Soldato d’Inverno dei film Marvel e per aver sfiorato l’Oscar grazie a Io, Tonya, qui interpreta il compagno della Anderson. Tatuato e con la battuta sempre pronta, Stan ha incarnato (anche lui) alla perfezione il mito del vero Tommy Lee. Cantante, batterista e uomo dedito all’alcol e al sesso, in Pam & Tommy viene descritto come un artista che è alla continua ricerca di se stesso, fragile ma al tempo stesso irascibile e con la lingua biforcuta. Nella fiction è tremendamente innamorato della sua Pamela, nella realtà si dice che abbia sedotto l’attrice solo per vincere una scommessa.
Perché la serie è da vedere assolutamente?
È una serie dai contenuti forti, alquanto bizzarri e può non piacere. Questo è un dato di fatto. È estrema nei dialoghi e nelle scene di sesso, ma è in linea con l’identità della Anderson e di Tommy Lee. Merita di essere vista perché è una serie che non si prende mai troppo sul serio, che non prende né le parti dell’uno né dell’altro. Racconta i fatti, ciò che è veramente accaduto dietro le "quinte" della storia d’amore tra i due divi, senza lesinare nei dettagli. Convince perché non patteggia per nessuno dei due, facendo emergere un’immagine brutale del mondo dello showbiz e della stampa di settore che, già all’epoca, erano alla ricerca di “click” facili.
Gli anni ‘90 e l’avvento di internet: tutta la storia recente in Pam & Tommy
Un affresco nazional popolare senza vinti e senza vincitori. La serie strizzando l’occhio alla tradizione, ricostruisce tutto il bello del decennio del secolo scorso. Si racconta dell’avvento di internet e delle connessioni analogiche; come la nascita della tv via cavo; e si racconta anche della moda con quei vestiti attillati, le scollature vertiginose, e i jeans a vita bassa. Ma si rivolge anche uno sguardo alla cultura musicale con tutti i suoi tormentoni più particolari, in primis le hit dei Fatboy Slim; e infine si apre anche una parentesi alla cultura televisiva dell’epoca, dove si nota molto chiaramente come l’universo televisivo americano non è poi così cambiato rispetto al presente.
Dopo il divorzio lampo da Pamela Anderson, l’ex marito è già pronto a risposarsi
La verità dietro la fiction, la vita della Anderson sconvolta da un video tape
L’attrice era all’apice del successo quando il video è stato diffuso. Scovato per caso, l’ex muratore che ha trafugato la refurtiva, prima di venderlo al miglior offerente, lo ha diffuso a pagamento in rete. Scaricato poi illegalmente è diventato di dominio pubblico. La carriera della Anderson, anche se è stata travolta dallo scandalo, non ha subito contraccolpi. Anzi, ha accresciuto la sua fama e di conseguenza la popolarità dello show. Su Tommy Lee invece il video ha creato un effetto boomerang. La band prima si è sciolta poi il leader ha tentato la carriera da solista. Ma sui di lui pende anche l’accusa di violenza domestica. Trascinato in tribunale, ha scontato sei mesi di prigione. Con la Anderson ha avuto due figli e ha divorziato per ben tre volte.
Il video hot solo nel 1998 finisce nelle mani della Entertainment Group, colosso di internet, e per cercare di mettere a tacere la bufera mediatica, la Anderson e Lee hanno intentato una causa per violazione dei diritti d’autore, vincendo il contenzioso nel 2002. Il video però non scompare dalla rete, anzi, resta in vendita per gli iscritti al web e frutta al gruppo ben 70 milioni di dollari. Oggi l’attrice è sposata con la sua guardia del corpo, una relazione che sarebbe iniziata durante il lockdown del 2020.
Carlo Lanna. Nasco a Caserta, vicino Napoli, più di trent'anni fa. Fin da ragazzino ho sempre avuto l'amore per la scrittura, che sono riuscito a declinare negli studi e nel lavoro. Al secondo anno di università ho cominciato a scrivere per un blog e da quel momento in poi non mi sono più fermato, racimolando collaborazioni per magazine online e cartacei. Il cinema, le serie tv e la letteratura sono la mia passione (e ossessione). Amo la fotografia e viaggiare, oltre che la buona cucina. Seguo 30 serie tv all'anno, leggo due libri a settimana e vado a caccia di news e indiscrezioni su tutti - o quasi - gli attori di Hollywood. Da tre anni collaboro con IlGiornale.it per la sezione spettacoli. Nella vita di tutti giorni sono anche scrittore (a giugno del 2021 esce il mio quarto romanzo). Sono consulente e beta-reader per la Milena Edizioni
Gabriele Parpiglia per “Chi” il 26 ottobre 2022.
«Prima di iniziare questa intervista devo rispondere a Pamela Prati, che ha visto al Grande fratello Vip una parte del mio intervento a Verissimo. Cara Pamela, tu vuoi le prove che io sia vittima quanto te. Sono pronta a mostrartele e ad affrontarti».
Arriva su “Chi” la replica di Eliana Michelazzo: inevitabile, dopo che Pamela Prati ha riacceso al GfVip il caso Mark Caltagirone. Nella Casa Pamela, che era tornata sulla vicenda, ha scoperto che le sue ex agenti Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo sono accusate dalla Procura di Roma di concorso nel reato di sostituzione di persona: avrebbero approfittato della buona fede di un bambino per fargli interpretare il ruolo del figlio di Caltagirone, fantomatico fidanzato della Prati. La showgirl, che invece non è indagata, ha anche visto e commentato l’intervista che la Michelazzo ha rilasciato a Silvia Toffanin a Verissimo. Ora la parola passa nuovamente a Eliana.
Domanda. Che cosa pensa della reazione di Pamela Prati alla sua intervista?
Risposta. «Facciamo chiarezza. La Prati non è indagata per un semplice motivo: non è stata denunciata. Quindi il suo non essere indagata non è una notizia. Detto questo, andiamo avanti».
D. Continui, prego.
R. «Pamela non ha capito il senso della mia intervista a Verissimo. Credo provi ancora odio nei miei confronti. Ma è un errore. Ha chiesto le prove per capire se io sia vittima quanto lei. Sono pronta a incontrarla, a guardarla negli occhi, a mostrarle queste prove e poi, nel caso, ad abbracciarla. Siamo entrambe vittime dello stesso sistema».
D. Vittime fin dall’inizio e con pari responsabilità, ne è sicura?
R. «Vittime di un gioco al massacro che non siamo riuscite a fermare in tempo. Dobbiamo ammetterlo: siamo state bugiarde e dovevamo fermarci. Ma non eravamo lucide. Ci vogliono anni e anni di cure per capire, con l’aiuto di uno psicologo, dove volevamo arrivare».
D. Di chi è la colpa?
R. «Vorrei evitare querele. Ma rispondo dicendo che chi ha architettato un sistema che ha colpito non solo la Prati, non solo me, ma anche altra gente dello spettacolo e non, è una sola persona».
D. Quand’è l’ultima volta che ha sentito Pamela Prati?
R. «Maggio del 2019. Mi ha bloccato ovunque e non ho più avuto modo di parlarle. Mi spiace. Se oggi mi vedesse dinanzi ai suoi occhi, ripensando a quanto di bello abbiamo vissuto - perché non c’è stato solo il caso Mark Caltagirone - se ricordasse i bei momenti, potremmo ritrovarci. Sia chiaro: se Pamela ora è al GfVip è anche per “merito” di questo caos. Inutile negarlo. Come dice Sonia Bruganelli: “C’era la lira quando si parlava della fama di Pamela Prati”. Non voglio essere cinica, ma oggi lei al Grande fratello Vip, oltre a fare il suo percorso personale, sta lavorando. E non va dimenticato. Se lei ha la fortuna di rinascere e raccontare la sua storia, io sono felice, ma non voglio passare per truffatrice. E in ogni caso mi dispiace per questa situazione. Sì, vorrei abbracciarla».
D. Qual è stato il momento più brutto vissuto durante il Prati-Gate?
R. «Quando ho ammesso che la storia era falsa. In quel momento la mia vita è andata in frantumi. Ho perso tutto: lavoro, famiglia, soldi... il telefono non squillava più. Oggi mi sono reinventata un lavoro a Ibiza. Ricordo le banche che mi tampinavano per i soldi che non c’erano sul conto (piange, ndr), i contratti che avevo con la mia agenzia in frantumi. Nessuno che mi abbia mai chiesto semplicemente: “Come stai?”. Anche in questo capisco Pamela Prati. Anche lei era stata messa da parte, ghettizzata. Eppure non abbiamo ucciso nessuno (piange di nuovo, ndr). Bisogno abbassare l’odio e ripartire. Io so quanto Pamela sia stata male, ma anche io sono stata male, sto male».
D. Come ha reagito quando ha saputo che la Prati sarebbe andata al GfVip?
R. «Ero felice. Sono felice. Perché le seconde opportunità allora esistono. Spero un giorno di poter ripartire anche io con il sorriso e un po’ di serenità».
D. Dunque lei oggi vive a Ibiza, ha cambiato vita...
R. «Sei mesi fa sono andata via dall’Italia e ho aperto una società di concierge ed eventi. Vivo tra Roma e Ibiza, ma se in Italia non dovessi ritrovare la mia strada, mi trasferirò definitivamente lì e addio a tutto e a tutti».
D. Tornando indietro, che cosa non rifarebbe?
R. «Non donerei più la mia fiducia e il mio cuore alle persone sbagliate. Un errore che ho pagato sulla mia pelle. Riavvolgendo il nastro legato al caso Mark Caltagirone... paradossalmente avevo il ruolo di manager di Pamela e ho provato a tutelarla fino a quando è stato possibile. Poi sapete tutti come è andata a finire. Però non scordate una cosa: io come Pamela Prati ho amato un uomo che non esisteva. Per ben nove anni: si chiamava Simone Coppi. Pamela si è liberata di Mark, io di Simone. E questi casi, con prove alla mano, hanno dietro sempre la stessa persona».
Dagospia il 18 febbraio 2022. Anticipazione da “Belve”.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti.
Pamela Prati, intervistata senza filtri a Belve svela a Francesca Fagnani alcuni clamorosi e inediti particolari sulla sua vicenda pubblica e privata. Gli inizi “sexy”, i film erotici, gli anni gloriosi del Bagaglino e poi quelli neri dell’isolamento dopo la vicenda di Mark Caltagirone a proposito del quale Francesca Fagnani le chiede: “Se il sito Dagospia non avesse rivelato tutta la verità, come sarebbe finita?”.
“Non lo so, magari non sarei qui...” risponde la Prati. “Ma quel matrimonio ci sarebbe stato? Con un poveretto a far finta di essere Mark Caltagirone?”, incalza la giornalista. E a quel punto la rivelazione shock dell’ex primadonna del Bagaglino: “Non lo so, invece lei si deve domandare chissà se potevo essere ancora qui e potevo respirare”.
La Fagnani insiste: “mi sta dicendo che ha rischiato la vita?”: “Sì” risponde la Prati ammettendo di aver mentito perché costretta. Pamela Prati poi rispondendo alla conduttrice che le chiede come mai non è più ospite nei programmi Mediaset sgancia un’altra bomba, “sono in causa con Mediaset e con colei che ha divulgato delle cose bruttissime sulla mia persona”. Cioè? “Barbara D’Urso”
Pamela Prati: «Mark Caltagirone? Truffata come il pallavolista. Ma per lui c’è stato affetto, io ho avuto tutti contro». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.
La showgirl: «Il regalo più strano in camerino: una cassetta di aragoste». I doni di Marta Marzotto e l’amicizia con Pingitore, suo padrino di cresima. «Ninni è la persona più nobile che conosca». Il sogno: «Vorrei andare a Sanremo, come coconduttrice o in gara»
Fellini?
«Ho ancora il suo numero sul cellulare, non l’ho mai cancellato. Ho una polaroid con un leoncino in braccio fatta al circo, che lui amava. Adorava vedermi mangiare, mi portava ai Castelli: Pingitore dice sempre che è meglio regalarmi un vestito che portarmi a cena fuori».
Pingitore?
«Ci siamo visti anche l’altro giorno, è il mio pigmalione. Ma è anche mio padrino, mi ha cresimata. Lo chiamo Ninni o Maestro. È la persona più nobile, gentile, colta che conosco. Sa sempre come valorizzare un artista».
Jean Paul-Belmondo?
«Litigò con Laura Antonelli a causa mia. Erano venuti a vedermi al Paradise, prima che diventasse il Gilda. Io ero la soubrette e lui fece apprezzamenti che indispettirono lei, ai tempi erano fidanzati».
Robert De Niro?
«Ce l’ho memorizzato in rubrica come Bob De Niro. Ci siamo incontrati a Roma durante una cena. Aveva un bel sorriso».
Christopher Reeves?
«Girammo insieme Monsignore, lo ricordo con l’abito da prete, l’american smile, affascinante, bello, gentilissimo».
I quarantacinque anni di carriera di Pamela Prati, al secolo Paola Pireddu, classe 1958, vengono fuori dagli aneddoti di una vita professionale ricchissima, fatta di incontri, film, spettacoli teatrali, programmi televisivi e canzoni. Successi che messi in fila colmano la distanza siderale tra la bambina di Ozieri che davanti alla tv sognava di diventare come Raffaella Carrà e le gemelle Kessler e la star del Bagaglino che si è imposta sul piccolo schermo e nei palcoscenici di tutta Italia. Ora ritorna con un nuovo singolo, Sale del Sud, dedicato a suo nipote Alessio, figlio della sorella Sebastiana, scomparso da poco per un tumore.
Pamela, dove ha trovato la forza per incidere questa canzone?
«Io e Sebastiana siamo un’unica cosa, davvero un cuore che batte in un solo respiro. Da piccole dormivamo insieme abbracciate. Sento cosa prova lei, quando è felice e quando è triste. Alessio ci ha lasciati troppo presto, aveva 40 anni. Avevo già scritto Sale del Sud: ho riadattato il testo, con Daniele Piovani, pensando a lui».
Il sale ricorda la sua Sardegna.
«Già i romani ne avevano definito la sacralità: è il sale che purifica, il sale delle lacrime. Mia madre mi faceva tenere in tasca tre granelli di sale grosso per allontanare l’energia negativa».
Da quanto non torna nell’isola?
«Saranno vent’anni tutti. È difficile per me rientrare. Intanto sono claustrofobica e soffro sia in aereo che in nave. Ma poi ogni volta vengo travolta da sentimenti contrastanti: l’amore potente e fortissimo si mescola con il ricordo di un’infanzia travagliata...».
L’ha raccontato nella sua autobiografia «Come una carezza», scritta per Cairo editore: gli anni bui chiusa in collegio a Tempio Pausania con le sue sorelle, prima che vostra madre Salvatora cui eravate state tolte riuscisse a riprendervi. Eppure non rinnega la Sardegna.
«Io sono sarda sarda sarda al cento per cento. Orgogliosa di appartenere alla Sardegna, in ogni cosa che faccio. Guardi qui (mostra il tatuaggio sull’avambraccio sinistro con una rosa e la scritta “Anima sarda”, ndr) . Ma non riesco a non provare dolore, se mi volto indietro».
In casa la chiamano Paola o Pamela?
«Pamela, fin da bambina: è il nome che ho voluto io. Sono Pamela anche nei documenti, carta di identità, passaporto, tessera sanitaria, codice fiscale, perché è con questo nome che il pubblico mi ha scelta».
A 18 anni lasciò Ozieri e andò a stare da sua sorella Maria, che viveva a Roma.
«Mi trovai un lavoro da commessa. Con il primo stipendio, 140 mila lire, mi comprai due paia di jeans: i Levis’ 501 e i Pooh. Poi 50 mila lire le spedii a mia madre e altre 50 mila le diedi a Maria».
La svolta era dietro l’angolo. Conobbe il produttore Alberto Tarallo, che le fece ottenere la copertina di «Playboy».
«Diventai Playmate dell’anno e potei scegliere con chi posare. Chiesi Celentano. Mi presentai all’appuntamento con la giacca di daino con le frange e i jeans, i capelli raccolti, lui mi guardò a malapena. Poi quando indossai l’abito rosso fuoco e i sandali con il tacco altissimo abbinati cambiò espressione. Io ero una ammiratrice sua e di Claudia Mori. Facemmo le foto e lui ne volle utilizzare una per la copertina del disco Un po’ artista un po’ no».
Tra i grandi incontri della sua vita c’è Walter Chiari. Era innamorato di lei?
«Sì, ma non successe nulla. Era una persona molto fragile e sensibile, intelligentissima. Adoravo ascoltarlo. Una volta mi raggiunse in Giamaica: ho questa foto di noi che chiacchieriamo su una canoa a cui sono molto affezionata. Purtroppo non è ricordato come dovrebbe. Ne parlavo da poco con un amico, succede anche con tanti artisti sardi dimenticati».
Per esempio?
«Andrea Parodi dei Tazenda, Maria Carta, Marisa Sannia. La stessa Grazia Deledda. Io lancerei un premio, “Il corallo sardo”, dedicato ogni anno a un grande talento scomparso».
Abbiamo parlato di tanti incontri maschili. Ma ci sono state pure donne importanti nel suo percorso.
«Certo. Una è Anita Ekberg: le feci anche uno scherzo durante la mia conduzione di Scherzi a parte. Marta Marzotto è un’altra: generosissima. Ho ancora i regali che mi fece: una cappa di velluto con il cappello uguale e una ruche color prugna, una bellissima collana di giada, una borsa con le sue iniziali all’interno, un bracciale con una stella marina color glicine... Mi adorava».
Tra una edizione e l’altra di «Scherzi a parte» perse quindici chili per problemi alimentari. Se li è lasciati alle spalle?
«Purtroppo riaffiorano quando non sto bene. Fin da quando ero bambina ho paura di soffocare e nei momenti delicati della mia vita questa paura riaffiora e allora non mangio. Ho sempre con me una bottiglietta d’acqua. Il mio analista Paolo Crepet dice che non devo nascondere le mie fragilità: il problema non è mio, ma degli altri. Ed è un bene che oggi tutti comincino a parlare di più della loro salute».
Cosa mangia, allora?
«Non mangio il cibo molto secco. Amo tutto ciò che è morbido o liquido: vellutate, gelati, frutta morbida, insalate con cetrioli e finocchi tagliati finissimo».
Le spiace non avere avuto figli?
«Sì, ma sono una zia molto presente. Tra nipoti e pronipoti ne ho una trentina. Li ho seguiti e li seguo tutti».
In amore si considera fortunata o no?
«Penso di essere stata fortunata perché sono stata amata. Poi, si sa, l’amore non è eterno. Ma io non ho mai avuto avventure: sempre storie lunghe».
La più importante?
«È appena cominciata ed è con me stessa».
E prima?
«Direi tre. Con un uomo molto più anziano di me, di cui ho sempre protetto il nome. Poi con Adam, un modello più giovane con cui ci sentiamo ancora. E poi Ciro, che ho incontrato da poco a Villa Borghese: mi ha ricordato quanto siamo stati felici».
Mark Caltagirone?
«Preferirei che quel nome non comparisse in questa intervista. Ho subito una truffa affettiva crudele, tagliata su misura per me. Non voglio aggiungere nulla: se ne stanno occupando gli avvocati nelle sedi appropriate».
Quest’uomo non esiste. Posso chiederle come mai in alcune interviste, anche a Candida Morvillo qui sul «Corriere», ha raccontato il contrario?
«Nella mia autobiografia l’ho spiegato: sono stata spinta a farlo. Però vede che anche adesso sembra quasi mi debba giustificare? Nessuno ha chiesto conto a Roberto Cazzaniga, il pallavolista che ha subito una truffa simile. Per lui solo solidarietà e affetto: peraltro sacrosanti. Quello che mi dispiace è che tutti hanno pensato ci abbia guadagnato qualcosa, eppure da quando è successo io non ho più lavorato. Ho subito una violenza gravissima e francamente non posso che andare a testa alta per essere sopravvissuta».
Parliamo di futuro, allora. A Sanremo vorrebbe tornare da cantante in gara o da co-conduttrice per una sera?
«In entrambi i casi sarei molto felice».
Qual è la cosa più assurda che le hanno regalato i suoi ammiratori?
«Oltre a tantissimi fiori che spesso portavo in chiesa? Beh, l’omaggio più incredibile è stato una cassa di aragoste! Che a mia volta ho regalato, perché non le mangio. Mi fanno tenerezza, come gli agnellini, il maialino e i conigli».
E ritorniamo alle origini. Qual è il profumo della Sardegna che le manca di più?
«Quello della mia infanzia, del cibo che preparava mia mamma, le patate arrosto, le castagne, la frutta secca che prendevo dalle sue tasche. Penso ogni giorno a mia madre. Spero di averla resa orgogliosa di me». È sicuro.
Paola Barale: «Basta gossip degli amori di quando avevo 25 anni, chissenefrega. La tv? Se non segui il gregge è difficile». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Protagonista di «Ballando con le Stelle», la showgirl si racconta, dai suoi inizi come sosia di Madonna («mi offrivano un milione a sera») alla scelta di prendersi del tempo lontana da una televisione che non riconosceva più
Deve fare i conti con una certa aspettativa, Paola Barale. Eppure, sinceramente, dice di non capirne il perché. A «Ballando con le Stelle» partiva come favorita ma è stata eliminata. Ora è tornata a brillare a teatro, nello spettacolo Se devi dire una bugia dilla grossa, ma per lei il programma di Rai 1 non è proprio un capitolo chiuso. «Mi dispiace tanto essere stata eliminata anche se spero nel ripescaggio. Temo di essere un diesel». Il suo maestro di ballo, Roly Maden, le aveva detto in diretta tv di essere un po’ lenta nell’ imparare. «Roly ha avuto un’uscita infelice ma credo dovuta alla sua scarsa padronanza della lingua italiana. C’è chi è lento ad imparare una salsa in tre giorni e chi è lento a imparare una lingua in vent’anni - punzecchia -. Il fatto è che nel ballo mi viene chiesto di avere degli atteggiamenti che sono lontani da me, come l’essere sensuale... sono stata in difficoltà ma siccome le sfide mi piacciono, mi diverto molto. Però, ripeto, sono tutte cose anni luce lontane da me».
Eppure non si direbbe. Lei si è fatta conoscere come showgirl, penso alla sua «Buona Domenica»...
«Ma facevo solo delle piccole coreografie, che tra l’altro erano 25 anni che non facevo più. Inoltre anche il pubblico mi osservava in modo diverso... crescendo succede anche di cambiare. Io da piccola mi facevo i buchi alle orecchie da sola, ora non lo farei più».
In che senso?
«Mio padre non voleva che avessi il secondo buco e così me lo facevo da sola, in ascensore, fino a quando mi è venuta una mega infezione. Da giovane fai tante cose con una leggerezza diversa. Decidendo di partecipare a "Ballando" ho cercato di puntare su quella, sforzandomi per superare i limiti che mi sono costruita negli anni. Ora voglio sfruttare al meglio questa opportunità ma credo che le aspettative che ci sono su di me oggi siano legate a un’immagine di tanti anni fa che non mi rappresenta più così: sono sempre io, però sono cresciuta».
Cosa resta e cosa non c’è più?
«Grazie a "Ballando" ho ritrovato l’entusiasmo di quando ho cominciato a lavorare. Sono entrata in una macchina meravigliosa, capitanata da Milly Carlucci e piena di tanti professionisti. Ammetto che non credevo fosse così faticoso: è come andare dallo psicologo ogni volta, nel tentativo di superare dei paletti interiori che nemmeno immaginavo di avere, io che mi sono sempre descritta come una donna libera. Ho deciso di continuare con la danza anche una volta finito lo show, anche se non sarà la stessa cosa: qui è come se avessi un esame settimanale in cui dare tutto».
La televisione le mancava?
«Ho fatto tanta televisione, ma è molto cambiata. Ero abituata alla tv di una volta, quella di adesso mi starebbe stretta. Me ne sono andata via nel bel mezzo della mia popolarità e tutto perché non ci stavo dentro più. Figuriamoci ritornarci adesso. Ballando, non a caso, è un po’ quel genere di tv che ho sempre frequentato, fatto di professionismo: è la televisione che conosco. Non è un reality dove muori di fame o litighi di continuo, è una competizione vera e propria».
Quando ha preso le distanze pensava di stare via tanto a lungo?
«Ho voluto uscire di scena quando stava cambiando il linguaggio televisivo, ma certo non volevo uscire totalmente. Poi le cose sono andate come sono andate. Ma la mia crescita personale c’è stata e mi spiace se spiazza le persone. Tutti mi chiedevano di tornare: ho sempre avuto il supporto del pubblico però vorrei si capisse che sto solo cercando di essere coerente con me stessa».
Esistono dei programmi della tv attuale in cui sarebbe a suo agio?
«Sì, certo. Tutti quei programmi in cui c’è lo spettacolo, da "Italia’s got Talent" in poi. Oppure un programma di viaggi, basta non ci sia il gossip».
Che però, spesso, l’ha riguardata.
«Però basta, degli amori di quando avevo 25 anni chissenefrega. Anche perché, se sono finiti, ti rompi anche un po’ le scatole di parlarne. Essere un personaggio pubblico non vuole dire che appartieni al pubblico».
Ha iniziato come sosia di Madonna.
«Non mi ci rivedevo ma mi è servito tantissimo. Se non fosse esistita Madonna oggi sarei un’insegnante di ginnastica. Lei ai tempi era unica, senza considerare che ballava benissimo. Non era facile per me ma l’ho fatto perché all’epoca mia mamma mi dava 5mila lire di mancia a settimana mentre per fare Madonna mi davano un milione a sera».
Chi le ha fatto notare per primo la somiglianza?
«Me lo dicevano un po’ tutti e in effetti era vero. Bastava mettermi un rossetto rosso e diventavo lei. Grazie a questo lavoro ho preso il mio primo aereo. Mi ritrovavo con gli altri sosia, quelli di Michael Jackson, Grace Jones, eravamo un gruppo. Mia mamma mi cuciva i costumi. Ma una volta un imprenditore di Parigi, fan di Madonna, mi ha chiamata per uscire da una torta. E lì ho detto basta, non ce la posso più fare».
E arrivò la tv.
«Credo che anche Mike (Bongiorno, ndr) mi avesse scelta per via di questa somiglianza... però con lui ho iniziato ad essere Paola».
Non le sono rimasti amici in tv? Qualcuno a cui proporsi per un ritorno?
«In questi anni mi hanno offerto ogni genere di reality e al terzo o quarto no hanno smesso. Se non segui il gregge diventa difficile o forse non rispecchio quello di cui la tv ha bisogno adesso. Il mio non è un racconto drammatico, io non sono una persona triste: voglio portare energie positive».
Lo farà anche in televisione?
«Lo spero, ho in mente un progetto, vedremo. Per ora, oltre a Ballando, il 23 tornerò a teatro con Se devi dire una bugia dilla grossa con Paola Quattrini. Sento che ho dentro delle cose da dire e mi piacerebbe farlo».
Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 23 ottobre 2022.
[… ] il suo primo lavoro qual è?
«Non lo so: faccio un po' di teatro, un po' di tv e adesso anche un po' di danza (scoppia a ridere, ndr). Insomma, una cialtrona. Fortunatissima. Che al suo paese, lasciato molto presto, torna raramente».
E perché non ha avuto figli?
«Sono troppo impegnativi. Non me la sono sentita di prendere una responsabilità così grande. Ero esageratamente apprensiva con i cani, figuriamoci con i figli. E poi non ho mai avuto al mio fianco persone rassicuranti. Ho fatto bene a rinunciare, non sono pentita».
Per quale motivo non ha fatto l'insegnante di ginnastica a Fossano?
«Per i soldi. Nel 1985 come sosia di Madonna mi davano un milione di lire per andare in discoteca. Il primo aereo della mia vita l'ho preso per andare in una discoteca di Parigi a fare Madonna con i sosia di Michael Jackson e Grace Jones. Da allora non mi sono più fermata».
[…] Ho saputo che ha anche il bacino timido: che vuol dire?
«Non riesco a muovermi in maniera sciolta: ho la spondilolistesi, un disturbo che sposta in avanti una vertebra rispetto a quella sottostante (tira fuori le radiografie, ndr). Con un'operazione dovrei mettere una protesi per distanziarle, ma preferisco fare una ginnastica speciale. Insomma, ho più di mezzo secolo e si vede».
[…] Ha tradito?
«Sì. Adesso, invece, dico subito la verità. Non ho più bisogno di avere qualcuno vicino. Prima dopo mezza giornata da sola andavo in tilt. Ora sono serena così. Me la prendo solo quando mi chiedono le solite cose del passato: i miei ex, le scelte professionali, Mike, Costanzo, De Filippi, le chiacchiere sul mio orientamento sessuale... Io voglio vivere il presente e il futuro».
[…] A proposito, a Francesca Fagnani su Rai2 ha detto, la cito testualmente, «mi piace il fallo»: cos' era, un coming out al contrario?
«Esatto. Credo di essere l'unica eterosessuale al mondo ad aver fatto coming out per dire che mi piacciono gli uomini e non le donne, come si dice da anni. Comunque nessuno ci crede e a questo punto me ne frego. Come sempre».
Adesso com' è messa?
«Sono sola. E mi organizzo, ovviamente. Come dice la mia amica Eva Robin's, in attesa dell'uomo giusto mi diverto con quelli sbagliati. Io aggiungo solo che quello giusto non lo cerco».
Non crede più all'amore?
«Non ci credo più. Però mi diverto: davvero la gente pensa che una donna non fidanzata non trombi? Io non ho appeso il cappello al chiodo».
Per caso si organizza con app di incontri come Tinder?
«No. Mi piace frequentare come ai vecchi tempi. Per i giovani è normale, ma io così non ce la faccio. Portarmi a casa uno che non conosco mi spaventa. E poi amo essere corteggiata, per questo forse sono single... (ride, ndr)».
Sarà corteggiatissima, andiamo.
«Sì. Però a me piace un uomo che mi faccia sentire donna completa. Ce ne sono pochi».
Per caso intimidisce? Anni fa Manuela Arcuri disse che la prima volta con lei gli uomini facevano quasi sempre cilecca.
«Qualche episodio di ansia da prestazione c'è stato, ma poca roba. Può succedere, è anche divertente. Se dura poco... (ride, ndr)».
[…]
Negli anni d'oro della tv, sono parole sue, ha guadagnato un fracco di soldi: come li ha investiti?
«Un po' li ho messi da parte, il resto li ho spesi[…] Ma non ha idea di quanti me ne abbiano fregati».
Chi?
«Persone che avevano accesso al mio conto. Comunque ora con i soldi vorrei comprare un galagone».
E cos' è?
«Una scimmietta. Purtroppo ho scoperto che in Italia non si possono importare».
[…]
E con il cinema?
«Non mi considerano, neanche i provini mi fanno fare. Mi vedono ancora come show girl».
Non lo è più?
«Non lo sono mai stata».
Nel 2000 posò per un vendutissimo calendario: adesso farebbe il bis?
«Non verrebbe come quello, nonostante le magie del photoshop. Meglio vivere di ricordi».
Da liberoquotidiano.it il 6 ottobre 2022.
Paola Barale si appresta ad una nuova avventura televisiva, sarà a Ballando con le stelle su Rai1 a partire da sabato sera. Lei, bella più che mai, si allena dalla mattina alla sera. Ha un fisico mozzafiato ed è una delle donne più belle della televisione italiana. Adesso, concede un'intervista al settimanale F dove si racconta senza segreti.
Dalla lunga storia d’amore con Raz Degan, finita nel 2005 al matrimonio con matrimonio con Gianni Sperti. Ma la Barale è stata anche fidanzata con Marco Bellavia, l'ex volto di Bim Bum Bam che è recentemente uscito dal Grande Fratello Vip. Ora Paola è felicemente single. "Mi sono accorta che la vita da single è meravigliosa. Semmai il problema è che più stai da sola, più ti abitui a starci", dice. Poi arriva una confessione piccante: "Il se*** non manca. Come dice Eva Robin’s: in attesa di quello giusto – che però non cerco – mi diverto con quelli sbagliati".
Oggi la Barale, ex valletta di Mike Bongiorno, racconta di aver venduto sia la sua moto, sia la sua auto. A Milano, dove vive da tempo, gira solo in monopattino: una scelta ecologica. Ma per lei il tempo sembra essersi fermato a quando faceva Buona Domenica su Canale5. E che carriera! Prima Mike Bongiorno e poi entra nel cast del programma ideato e condotto da Maurizio Costanzo, un programma corale che le regala tanta popolarità. Nel 2016 conduce Flight 616 e l'anno successivo la vediamo all'Isola dei famosi come guest star, visto che il suo ex compagno Raz Degan è concorrente.
Paola Barale: «Non lasciai Buona Domenica per Raz Degan. Ricca non lo sarò mai, per questo dico no ai reality». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.
La showgirl e attrice si racconta: «Dalla provincia dovevo fuggire, mi sarei adagiata a fare l’insegnante di ginnastica senza inseguire i miei sogni. Tornare in tv con un reality? Mi offrono grandi cifre ma non hanno bei contenuti. Non avere figli è stata una scelta consapevole».
Paola Barale ha compiuto cinquantacinque anni. È sempre bellissima, bionda, super cool e molto amata dal pubblico, nonostante una lunga assenza dalla televisione. Una distanza mai troppo chiarita per chi le si era affezionato e aveva apprezzato la crescita professionale di questa ragazza di Fossano che era passata a vestire i panni di Madonna nei club per poi arrivare a La ruota della fortuna di Mike fino a ricoprire i ruoli apicali della tv. Barale ha attraversato questi anni di bagarre televisiva border line con i social con un certo charme, con l’atteggiamento di chi sa quello che sta succedendo, sa che potrebbe anche non essere a suo vantaggio e però non ne fa una tragedia. Per stare bene al mondo bisogna saper vivere. E saper giocare.
Intorno a lei si è creata un’allure di curiosità. Come quando è stata ospite del programma Belve, di Francesca Fagnani, sulla Rai, e le è stata posta la domanda che frullava in testa a molti, cioè se avesse mai avuto rapporti omosessuali, «nulla contro le donne, però prediligo il fallo» ha risposto. Del perché la sua carriera abbia avuto una battuta d’arresto, spiegazioni non ce ne sono (una come lei in tv ci starebbe ancora bene) però certo questo non le ha bloccato l’esistenza. Oggi, è il momento del teatro.
Paola Barale, «Se devi dire una bugia dilla grossa» è il titolo dello spettacolo teatrale che la vede con Paola Quattrini. Le piace il palcoscenico?
«Con il teatro sta andando come con la televisione: sto diventando brava. Sono soddisfazioni. Mi piace il teatro, è sempre diverso e non rischio mai di rivivere le medesime situazioni».
Pensi che noia se fosse diventata un’insegnante di ginnastica.
«Quando ero giovane mi sembrava la mia strada. Ho frequentato l’Isef di piazza Bernini. Poi ho iniziato a lavorare come sosia di Madonna, non mi piaceva molto però pagavano benissimo. Facevo le serate con i sosia di Liza Minnelli, Prince, Grace Jones…mia madre mi dava 5mila lire. Lì guadagnavo molto ma molto di più».
Come ha iniziato?
«A Fossano (dove è nata e cresciuta ndr ) c’erano e ci sono tuttora dei bravi fotografi, “Le foto di Marzo”. Secondo loro assomigliavo a Madonna. Mi dissero che per gioco avrebbero presentato le mie foto a Milano, all’agenzia dei sosia di Giancarlo Caremoli. La prima volta mi ci hanno portata loro».
E poi?
«Ereditai la macchina da mia sorella Gabri, come tutto, come i vestiti, ero la seconda. Era una 126 gialla con Snoopy dietro. Non mi piaceva viaggiare da sola così mi portavo anche Pistacchio, il mio gatto».
Lei è legatissima a Milano.
«Ho sempre amato Milano. Anche in tempi non sospetti, quando tutti dicevano che era brutta, moderna, troppo veloce. Oggi è anche molto migliorata. C’è un senso di speranza che proprio si percepisce. Io abito in alto e vedo sempre tante gru, lo skyline…tutto questo sviluppo è una meraviglia. Prima del Covid, la moda, il design da tutto il mondo si incontravano qui. Molti la descrivono uggiosa, nebbiosa. Non so, io dalle mie finestre vedo tramonti pazzeschi. Oggi è facile dire Milano è figa. Milano è sempre stata figa, dipende da cosa ci devi fare. Ti permette di lavorare, divertirti, è comoda, internazionale, ma non troppo grande. In Italia, o stai in un posto di mare oppure c’è solo Milano. O le Langhe».
Ci vivrebbe nelle Langhe?
«Quando vado a trovare i miei a Fossano, faccio la Genova-Alessandria ed esco a Tortona. Inevitabilmente, verso Alba-Bra mi perdo. E io adoro questa cosa. Faccio finta che non trovo la strada e mi godo il tramonto, faccio giri lunghissimi. Tante volte ho immaginato di prendermi una casettina e di mandarci i miei. Loro però non ci pensano neppure ad andare a stare a Cherasco o a Barolo o a Neive. Mi piacerebbe, ma poi succederebbe come con Ibiza».
Non ha più la casa a Ibiza?
«Io a Ibiza volevo viverci un tot di mesi l’anno. Ma con il teatro non ci riesco. E sono in un momento della vita in cui non voglio avere niente che mi limiti. Per lo stesso motivo non ho più cani, anche se li ho adorati e mi mancano».
Come sono i suoi genitori?
«La mia famiglia mi ha trasmesso i valori in cui credo di più: la lealtà e la trasparenza. Mio padre a volte mi sgrida ancora come se avessi 15 anni».
È stata una ribelle?
«Qualche volta ho trasgredito. Quando ho deciso di lasciare l’Isef non hanno apprezzato molto. Con i primi soldi mi comprai una Honda Paris Dakar 200 di seconda mano. Mia madre si arrabbiò tantissimo, mi disse che potevo pagarmi il dentista visto che avevo soldi da buttare. Andai a vivere da sola. Poi si rassegnarono al mondo dello spettacolo».
La provincia se l’è lasciata alle spalle?
«Sono scappata perché avevo bisogno di cose diverse, altrimenti sarei rimasta sempre lì. Mi sarei adagiata a insegnare ginnastica, ma la mia indole era un’altra».
La sua sliding door?
«Quando ho lasciato Buona Domenica».
Per Degan?
«No, lui arrivò un anno dopo. Me ne andai perché veramente avevo bisogno di fare altro. Quando lasciai era ancora il top».
Sarebbe la diva dei reality. Perché non ne fa?
«Me lo chiedono di continuo, mi offrono anche grandi cifre».
E allora?
«Non sarò mai ricca. Certo mi piace la bella vita. Ed è importante essere tranquilli quando, per esempio, si sta male e ci si deve curare. Ma so gestire il denaro e la mia felicità è più importante. I reality non hanno dei bei contenuti».
Cosa ama di sé?
«Il mio equilibrio. La mia determinazione, la passione, l’entusiasmo».
Ci ha mai pensato a un figlio?
«Non averne è stata una scelta consapevole. Credo di invecchiare bene anche perché, non avendone, mi sento libera di testa».
Paola Barale compie 55 anni: storia dei suoi amori, dal matrimonio con Gianni Sperti al rapporto con Raz Degan. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.
Vita, carriera e amori della showgirl nata a Fossano il 28 aprile 1967, che esordì come sosia di Madonna.
Voleva fare l’insegnante di educazione fisica
«Invece che piangermi addosso per il momento drammatico che stiamo vivendo, sto cercando di darmi da fare e sono serena nonostante tutto. Poteva andare peggio». Oggi Paola Barale compie 55 anni: nata a Fossano il 28 aprile 1967 ha iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo quasi per caso. Inizialmente infatti, come ha raccontato qualche anno fa a Pierluigi Diaco, avrebbe voluto fare tutt’altro: «Io non volevo fare questo mestiere, io volevo fare l’insegnante di educazione fisica infatti ho fatto l’Isef che poi non ho mai finito perché è arrivata questa occasione che mi dava la libertà». Qualcuno aveva iniziato a notare la sua somiglianza con una certa popstar…
Sosia di Madonna
«Non sapevo cantare e ballare - raccontava qualche anno fa la showgirl a Domenica In -. Madonna per me era Madonna. Non mi divertivo, perché dovevo fare qualcun altro. Però è stato il mio trampolino di lancio. L'ho sempre fatto con ironia, perché l'ironia ti salva sempre». La somiglianza era davvero incredibile, tanto che a distanza di anni la popstar o più presumibilmente il suo social media manager è incappato in una gaffe: nel 2016 su Instagram scambiò Paola per Miss Ciccone.
Mike Bongiorno? Un maestro severo
Dopo aver vestito i panni di littorina nel programma Odiens di Antonio Ricci nel 1989 Paola Barale diventa la valletta ufficiale di Mike Bongiorno in numerose sue trasmissioni, su tutte La ruota della fortuna (1989-1995). «Mike è stato un maestro abbastanza severo», ha ricordato al Corriere. Quando decise di lasciare il programma per condurre insieme a Gerry Scotti La sai l'ultima? Mike non la prese bene: «Mi fece un c******* in studio davanti a tutti - raccontò intervistata da Paola Perego a Non disturbare -. Dovevamo registrare ancora un mese di puntate e non mi rivolse più la parola. Non facemmo mai pace. Fu una sgridata da padre a figlia»
Perché è finita con Gianni Sperti
Proprio a La sai l’ultima? Paola Barale - che dal 1992 al 1995 è stata legata al conduttore di Bim Bum Bam Marco Bellavia - conosce il ballerino Gianni Sperti. I due si innamorano e convolano a nozze nel 1998, ma l’unione dura soltanto qualche anno: «Lui voleva dei figli - ha rivelato Paola nel 2020 intervistata da Peter Gomez -, io avevo altre priorità, come il lavoro. Lui lavorava, ma non sempre».
L’amore con Raz Degan
Un altro grande amore di Paola Barale è stato Raz Degan, con cui ha fatto coppia fissa dal 2002 al 2008 (in seguito c’è stato un ritorno di fiamma, ma nel 2015 è tutto finito). «Non sono amica con nessuno dei due», ha svelato la showgirl a Silvia Toffanin qualche mese fa parlando dei suoi ex: «Quando mi chiedono in che rapporti siete, non riesco a parlare di queste persone perché in realtà non le riconosco, sono dei conoscenti con cui ho dei ricordi ormai sbiaditi in comune, non li vedo e non li sento». Sia Gianni che Raz «con me si sono dimostrati allo stesso identico modo, cioè due persone che non hanno avuto il coraggio di mostrarsi per quello che realmente sono, non hanno avuto il coraggio di essere loro stessi. Io da un uomo ho bisogno soprattutto di verità, di lealtà, di complicità, di comprensione». Oggi, a proposito della sua vita privata, Paola Barale dichiara: «Non ho una relazione così importante da mettermi un uomo in casa. Sono diventata rigida, ma ho scoperto come si sta bene soli. Non ho bisogno di niente, ho tanti amici. Non mi manca nulla neanche dal punto di vista sessuale: non ho appeso il cappello al chiodo eh! Ma ognuno va a casa sua».
La pausa dalla tv
Dopo aver lavorato a Buona Domenica dal 1996 al 2001 accanto a Maurizio Costanzo (di lui ha detto «Con Maurizio non c'era un rapporto di amicizia vero e proprio io, l'ho sempre considerato come il mio datore di lavoro, non è che si usciva insieme a cena. Io sono abbastanza schiva, non frequento la gente dello spettacolo») per diversi anni Paola Barale è apparsa poco sul piccolo schermo. Non per sua volontà, come ha spiegato a Belve: «Qualche idea me la sono fatta sul perché improvvisamente non ho ricevuto più proposte lavorative o quelle che c’erano svanivano. Mi sono fatta delle domande e mi sono anche data delle risposte. Sicuramente c’è stato qualche blocco che è durato degli anni, poi quando esci dal giro è difficile rientrarci».
Le dicerie sul suo conto
«Ci sono state parecchie voci su di me» diceva nel 2019 Paola Barale a Pierluigi Diaco. Negli anni del suo successo infatti la showgirl è stata oggetto di parecchie dicerie, legate al suo orientamento sessuale. «Mi sono data una risposta - ha raccontato intervistata da Francesca Fagnani a Belve -. Una potrebbe essere che io non sono mai scesa a compromessi “di letto” per lavorare, quindi non concedendosi mai a nessuno per lavorare possono pensare che tu sia gay».
No ai reality
A Paola Barale sono stati proposti negli anni numerosi reality, ma la showgirl li ha sempre rifiutati tutti (ha partecipato soltanto nel 2015 a Pechino Express in coppia con Luca Tommassini): «Non ce l’ho con i reality, ma con i contenuti - ha detto al Corriere -. Io a litigare e a mettere in piazza i fatti miei, non ci vado. Dopo tanti anni di lavoro, mi sembrava di regredire. E ho detto dei no. In tv vorrei fare l’intrattenimento, una tv che è un po’ sparita. E così mi è tornata la voglia di rimettermi in gioco».
L’esordio in teatro
Attualmente Paola Barale sta affrontando una nuova sfida professionale, il teatro: è nel cast del classico della commedia «Se devi dire una bugia dilla grossa» con Paola Quattrini, Antonio Catania e Nini Salerno. Una proposta che è arrivata «al momento giusto, quando avevo la maturità per affrontare il teatro - ha svelato al Corriere -. È stato come tornare a scuola, mi ha ridato entusiasmo. Una rinascita vera. Facendo le prove con i miei colleghi così bravi, giganti del talento, era come se facessi un corso di recitazione, ma senza pagare». In passato la showgirl aveva già recitato, prima in «Cascina Vianello» (1996) con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello («Sono stati speciali, li ho amati moltissimo») poi in alcuni cortometraggi e film come «Colpo d'occhio» di Sergio Rubini (2008).
Mattia Buonocore per davidemaggio.it il 7 aprile 2022.
Non solo una Rettore shock. Nella puntata di domani, Francesca Fagnani accoglierà a Belve un’altra discussa protagonista dello spettacolo, Paola Barale. Si inizia la chiacchierata parlando della carriera che ha avuto momenti alterni dopo aver lasciato Canale 5 ai tempi di Buona Domenica.
“E’ finito il suo momento televisivo, come se lo spiega?” chiede la Fagnani. Barale lascia intendere che su di lei ci sia un blocco. La conduttrice allora chiede spiegazioni: “Ma un blocco di che tipo, televisivo o politico?”. Barale: “Un blocco! Si dice il peccato non il peccatore, è un blocco: a livello politico no…ci sono dei personaggi…”.
La Fagnani non si lascia scappare l’occasione: “Sono personaggi potenti, influenti, ieri come oggi?”. Barale invoca allora una domanda di riserva e poi chiedendo la complicità della Fagnani dichiara: “Ha capito, dai…”.
Non manca poi di sottolineare che sulla sua carriera ha influito moltissimo la brutta storia della droga, cioè quel blitz dei Carabinieri a casa sua, storia per la quale è stata assolta, e tuttavia: “Ero diventata una narcotrafficante, spacciavo e fumavo erba, se lei metteva su Google Paola Barale la prima parola che usciva era cocaina”.
Paola Barale racconta anche gli esordi con Mike Bongiorno: “Mi sgridò davanti a tutti, con i microfoni aperti….quella reazione fu too much”. Fagnani: “Avete fatto pace o vi siete lasciati così?”. Barale: “Ci siamo lasciati così, non ci siamo lasciati benissimo”.
Passando alla vita privata, Paola Barale smentisce la famosa “leggenda” che circola da anni, ovvero la sua preferenza per le donne: “Una volta per tutte, nulla contro le donne, però prediligo il fallo, ho bisogno di un po’ di testosterone”. Interpellata sui tradimenti di Raz Degan, commenta in modo netto: “L’uomo che tradisce è uno sfigato”.
Paola Barale: non ho una relazione importante e vivo sola. Il sesso? Non manca!» Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.
La show girl in teatro con «Se devi dire una bugia dilla grossa» ha detto no ai reality perchè «non amo le risse e dire i fatti miei. Ma spero un giorno di trovare il programma giusto per me».
«Invece che piangermi addosso per il momento drammatico che stiamo vivendo, sto cercando di darmi da fare e sono serena nonostante tutto. Poteva andare peggio». Paola Barale, 54 anni portati splendidamente, sta recitando a teatro, con un classico della commedia, «Se devi dire una bugia dilla grossa», rivisitata da Garinei, con Paola Quattrini, Antonio Catania, Nini Salerno. Sarà al Teatro Manzoni di Milano fino a domenica e poi fino alla fine di aprile, in giro per l’Italia.
Si è data al teatro perché era stufa di televisione?
«Diciamo che quello che volevo io, non era quello che mi offrivano».
Tipo i reality...
«Non ce l’ho con i reality, ma con i contenuti. Io a litigare e a mettere in piazza i fatti miei, non ci vado. Dopo tanti anni di lavoro, mi sembrava di regredire. E ho detto dei no. In tv vorrei fare l’intrattenimento, una tv che è un po’ sparita. E così mi è tornata la voglia di rimettermi in gioco».
Ed è arrivata la proposta teatrale
«Esatto. Al momento giusto, quando avevo la maturità per affrontare il teatro. E’ stato come tornare a scuola, mi ha ridato entusiasmo. Una rinascita vera. Facendo le prove con i miei colleghi così bravi, giganti del talento, era come se facessi un corso di recitazione, ma senza pagare».
Un cast simpatico e anche accogliente
«Sì, mi sono stati vicini e mi hanno aiutato. Io mi sono impegnata tanto, non volevo deluderli e deludere me stessa».
Il pubblico veniva a vedere com’era diventata Paola Barale secondo lei?
«Sì, ci sta. La gente è curiosa, si domanda “Adesso vediamo la Barale che fa?. Del resto mi hanno presa perchè sono un nome di richiamo, non perchè sono brava.. ».
E in camerino, amici, parenti, vecchi colleghi della tv che le hanno detto?
«Erano tutti molto stupiti . Dicevano “Ma non ce l’aspettavamo!”. Il bello è che la gente ride tanto, è un testo scritto bene anche se leggero e c’è un gran bisogno di divertimento. Quando senti la sala che ride è una grande soddisfazione. Perchè a teatro non c’è lo scalda pubblico come in tv...».
Bilancio molto positivo dunque quello del teatro
«Sì ho preso proprio la decisione giusta. Anche perchè io ho sempre viaggiato tanto e ora per mille motivi, per la situazione che stiamo vivendo, per stare un po’ più vicino ai miei genitori, non faccio più i miei lunghi viaggi di una volta. E il teatro mi ha dato anche modo di spostarmi su e giù per l’Italia che è davvero bella».
E a fine maggio una piccola parte in un film
«Sì un film in Calabria diretto da Giulio Ancora. “Even” è un dramma psicologico che esplora il fenomeno della violenza sulle donne».
Insomma il piccolo schermo proprio non offre nulla?
«Qualche progetto c’è, vediamo. E’ che non mi accontento».
Potesse scegliere che farebbe?
«Lo show dei record, Italia’s got talent, Lol. L’intrattenimento puro, forse perchè è quella che ho fatto io. Magari sono rimasta indietro, legata ai ricordi».
L’unico reality che ha fatto è stato «Pechino Express»?
«Meraviglioso, ma se avessi saputo che era così faticoso, non so se l’avrei fatto. Il bello di Pechino è che entri nelle case, nella cultura locale. Vedi come vivono: meno hanno, più ti danno. Pechino Express mi ha insegnato a chiedere aiuto senza imbarazzo. Al massimo ti dicono di no».
Di recente ha partecipato al «Costanzo show»: Maurizio suo vecchio compagno di lavoro a «Buona domenica»
«Mi ha fatto tanto piacere rivederlo».
E venerdì sera su Rai2, c’è l’intervista di «Belve» con Francesca Fagnani. Una brava giornalista che non fa sconti: lei si è comportata da belva?
«Macchè belva, sono una povera scema, anche se ultimamente sono un po’ diffidente».
Negli anni Novanta era diventata un modello estetico per le ragazze che si pettinavano e vestivano come lei. Adesso è rimasta bella e affascinante .
«Non sono succube della moda, ho bravi amici che mi danno consigli. Per valorizzarsi bisogna solo esaltare le proprie caratteristiche. Io però non mi sono mai piaciuta».
L’età che avanza la preoccupa?
«Sì, detesto invecchiare, hai meno possibilità, meno energie, e avere limiti non mi piace.Poi certo sono grata alla vita, ma non ho mai sentito uno di 80 anni che non vorrebbe averne 30, e non ho mai sentito un trentenne desiderare di avere 80 anni».
Come ha vissuto il lockdown?
«Sono diventata più responsabile. Potevo passare il lockdown a Ibiza dove ho una casa e invece sono rimasta qui per stare più vicina ai miei genitori. Mi sono iscritta alla Croce Rossa, perchè cercavano volontari. Invece che stare a casa a sentirmi vittima della situazione, uscivo e davo una mano per la raccolta alimentare».
Non ha sofferto di solitudine?
«Neanche un po’. Anzi ho pensato: meno male che sono sola . Perchè o vivi in una casa grande , sei la coppia perfetta, con figli perfetti e allora si può fare, se no è un incubo».
Fidanzati? Relazioni importanti?
«Non ho una relazione così importante da mettermi un uomo in casa. Sono diventata rigida, ma ho scoperto come si sta bene soli. Non ho bisogno di niente, ho tanti amici . Non mi manca nulla neanche dal punto di vista sessuale: non ho appeso il cappello al chiodo eh! Ma ognuno va a casa sua».
Lei ha avuto la fortuna di lavorare con i grandissimi della tv. Li ricorda ogni tanto?
«Sì certo, e mi mancano. Sono stata davvero fortunata. Mike è stato un maestro abbastanza severo; Sandra Mondaini e Raimondo Vianello sono stati speciali, li ho amati moltissimo».
Paola Cortellesi: «Laura Pausini non mi molla più. La nostra amicizia nata per via del nome delle nostre figlie». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 7 Settembre 2022.
Nell'intervista sul settimanale «F» l'attrice racconta: «Io ho chiamato mia figlia Laura e lei ha chiamato la figlia Paola, come me. Quando la cantante lo ha scoperto mi ha voluto conoscere»
Paola Cortellesi sta per tornare in televisione con la seconda stagione di Petra, la serie tratta dalle opere di Alicia Giménez -Bartlett (dal 21 settembre su Sky con quattro nuove storie dirette da Maria Sole Tognazzi) dove interpreta Petra Delicato, ispettrice della Squadra Mobile in una Genova dai risvolti noir. L'attrice si racconta a tutto tondo al settimanale F di Cairo Editore nella storia di copertina del numero in edicola mercoledì 7 settembre e nell'occasione parla di come è nata l'amicizia con la cantante Laura Pausini con cui, nel 2016, ha anche fatto lo show tv Laura & Paola.
«Non ci conoscevamo e abbiamo partorito a pochi giorni di distanza chiamandole, casualmente, l’una con il nome dell’altra: la mia Laura, la sua Paola. Non avevo social al tempo e non lo sapevo neanche, quando mi chiama Giorgia, la cantante, che è amica di entrambe. “Ti cerca la Pausini”, mi dice. “Posso darle il tuo numero?”. Penso, ma sì, mica è una stalker. E invece…». Invece? «Non mi ha mollata più (e qui Paola comincia a parlare in romagnolo imitando perfettamente la Pausini, ndr). “Ma è paSSesca questa cosa dei nomi delle bimbe. Dobbiamo assolutamente vederci!”. In quei casi rispondi “Certo” e pensi che finisca lì. Invece continuava a chiamare: “Beh, alòra? Avevamo detto che ci saremmo viste!”. Così ci siamo incontrate per un tè. Le bambine si sono volute bene. E io a 40 anni ho fatto amicizia con una star internazionale. Ma che per me è “solo” Laura, una donna incredibile, con cui amo andare in vacanza, scambiarci consigli, e che a Natale mi prepara i passatelli in brodo. Soprattutto un’amica vera. Anche se poi mi ha aperto un profilo Twitter in diretta tv».
Paola Cortellesi sulla copertina di «F»
Cortellesi nell'intervista, parla anche delle prossime elezioni. «In questo momento, non ci volevano. Di natura sono ottimista, ma tra pandemia e guerra alle porte vacillo anche io. Quel che so è che i ragazzi devono capire che saranno loro a costruire il Paese di domani, che in una Repubblica democratica hanno voce in capitolo e che non devono rinunciare in partenza. Un popolo che dorme è in pericolo. E purtroppo oggi vedo tanta sonnolenza in giro».
Alla domanda se ha pensato di farla in prima persona risponde: «Ho sempre votato a sinistra, ma come posso partecipare a una campagna elettorale — e me lo hanno chiesto, mi creda — e garantire per un’altra persona? Posso sostenere un’idea. E lo faccio con il mio lavoro, con l’umorismo che è uno strumento potentissimo per le coscienze (…) Da cittadina mi auguro un presidente del Consiglio in gamba, che porti alta la bandiera del Paese e ci renda credibili in Europa e nel mondo. Non mi interessa che sia uomo o donna. Vorrei, però, che a parità di merito ci fossero più donne. Invece spesso ci troviamo penalizzate per questioni che nulla hanno a che vedere con la nostra preparazione».
Al momento, l’unica leader di partito in corsa per guidare il governo è Giorgia Meloni. «Ecco, appunto. Non sarebbe stato male avere più candidate a questo ruolo».
Paola Cortellesi: quando cantò «Cacao Meravigliao», il successo con la Gialappa’s e altri 7 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.
L’attrice è la protagonista della miniserie «Petra» e del film «Ma cosa ci dice il cervello».
Ispettrice della mobile di Genova
Petra Delicato, ispettrice della mobile di Genova in «Petra» (miniserie ispirata alle indagini della detective di Barcellona Petra Delicado, nata dalla penna di Alicia Giménez-Bartlett), e Giovanna Salvatori, pilota dell’Aeronautica Militare nel film del 2019 «Ma cosa ci dice il cervello» diretto da Riccardo Milani, sono soltanto due dei tanti personaggi interpretati da Paola Cortellesi nel corso della sua carriera. In attesa di vedere il film (in onda mercoledì 15 giugno su Sky Cinema 4K alle 22.50) e nella serie tv (sempre su Sky Cinema 4K tutti i giorni alle 7.40) ecco una raccolta di curiosità poco note sull’attrice romana.
Quando cantò «Cacao Meravigliao»
Forse non tutti sanno che a 13 anni Paola Cortellesi ha interpretato la canzone «Cacao Meravigliao», sponsor immaginario della trasmissione con Renzo Arbore e Nino Frassica «Indietro tutta!» (1987).
Mai Dire Cortellesi
Il successo per Paola Cortellesi, dopo alcune esperienze in teatro, radio (ha collaborato con Enrico Vaime nella trasmissione «Il programma lo fate voi) e tv («Macao», «La posta del cuore», «Teatro 18»), è arrivato grazie ai programmi della Gialappa's Band nei primi anni Duemila. I suoi personaggi sono diventati cult, da Sharon (speaker del jingle pubblicitario della bambola Magica Trippy, vessata dal suo tirannico capo) a Mapi (parodia delle starlette che tentano di fidanzarsi con i calciatori per ottenere notorietà) passando per Silvana (finta inviata del programma La vita in diretta), senza dimenticare le numerose - esilaranti - imitazioni di personaggi del mondo dello spettacolo e della politica (Daniela Santanchè, Franca Leosini, Mariastella Gelmini, Letizia Moratti, Asia Argento e Romina Power soltanto per citare alcuni nomi). Una ulteriore curiosità: risale a quegli anni la relazione con Rocco Tanica («Diciamo che Paola si è fidanzata con me. Poi dopo non si è più fidanzata con me», scherzava nel 2019 il tastierista degli Elio e Le Storie Tese intervistato da Caterina Balivo a Vieni da Me).
«La descrizione di un attimo»
Nel 2000 l’attrice ha recitato nell'ironico videoclip «La descrizione di un attimo» dei Tiromancino come protagonista femminile (accanto a Valerio Mastandrea, all'epoca suo fidanzato).
Sul palco dell’Ariston
Nel ricco curriculum di Paola Cortellesi non manca il Festival di Sanremo: lo ha co-condotto nel 2004 insieme a Simona Ventura, Gene Gnocchi e Maurizio Crozza. Durante la prima serata ha presentato anche una canzone, «No perditempo», di cui era co-autrice insieme a Rocco Tanica (era stata proposta per la gara, ma era stata bocciata dall’allora direttore artistico Tony Renis). In seguito l’attrice è tornata all’Ariston nel 2017 come ospite insieme ad Antonio Albanese: i due, in arte «Valeria e Nicola», si sono esibiti in uno sketch musicale.
Premiata con un David di Donatello
Per la sua interpretazione di Alice in «Nessuno mi può giudicare» nel 2011 Paola Cortellesi ha vinto il David di Donatello come migliore attrice protagonista.
Doppiatrice in «Cars 2» e «Soul»
Sempre nel 2011 Paola ha prestato la voce al personaggio di Holley Shiftwell nel film Disney Pixar «Cars 2». Non è la sua unica esperienza nel doppiaggio: è stata anche, tra gli altri, Margalo in «Stuart Little 2» (2002), Marjane Satrapi in «Persepolis» (2007) e 22 in «Soul» (2020).
Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
Il 19 dicembre 2018 le è stata conferita un’importante onorificenza: Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.
Con Dario Fo
Tra le numerose interpretazioni di Paola Cortellesi c’è anche Maria Callas, nello spettacolo teatrale «Callas» scritto dal premio Nobel Dario Fo e Franca Rame sulla vita della Divina portato in scena nel 2015 (e trasmesso da Rai1). «Quando ho ricevuto la proposta, quasi non ci credevo - ha raccontato l’attrice -. Affiancare Dario significa realizzare un sogno. Dopo un minuto, ho dimenticato di lavorare con un grande maestro. Dario è un maestro che non fa il maestro. Dario vive le cose insieme a te e ti dà fiducia. La più grande ricchezza è stata quella di condividere un po' della mia vita con lui. Per me è stata un'esperienza di vita e non solo professionale».
Vita privata
Paola Cortellesi è sposata dal 2011 con lo sceneggiatore e regista romano Riccardo Milani («La guerra degli Antò», «Benvenuto Presidente!», «Mamma o papà?», «Come un gatto in tangenziale», «Tutti pazzi per amore»). La coppia ha una figlia, Laura, nata nel 2013.
Da rollingstone.it il 17 luglio 2022.
«Chi lo sa, vediamo…». Così Paola Iezzi commenta in una diretta Instagram la reunion di Paola e Chiara data da tutti per sicura. Sono bastati un dj set a Milano e la comparsata alla data zero del tour di Max Pezzali a Bibione per far parlare di un nuovo disco insieme, destinazione Sanremo 2023.
«Intanto ci viviamo questa esperienza meravigliosa con Max, quale artista migliore col quale ricominciare? È l’artista che per la prima volta ci ha offerto il suo palco grandissimo quando eravamo solo delle ragazzine, è come se si chiudesse un cerchio, e forse insieme si riapre una strada nuova… restiamo aperte a tutte le possibilità. Vedremo, vedremo…».
Paola commenta anche l’ondata di meme arrivata dai social: «Tutto questo momento non è solo divertente, anche se il divertimento c’è. Non so dirvi quanto mi fanno ridere i vostri meme. Uno di quelli che mi hanno fatto ridere di più è stato “La sinistra riparta da Paola e Chiara”: io ero per terra. Quasi quasi, invece che fare un disco nuovo, convincerà Chiara a candidarci per la sinistra, così magari li aiutiamo a trovare un varco di luce».
Oltre alle battute, anche tante confessioni sul rapporto con la sorella, stimolate dalle domande dei follower: «L’affetto personale tra noi non è mai mancato, abbiamo avuto le nostre difficoltà come tutti quando si sparano, le separazioni non sono mai facili. Ma l’affetto non è mai stato in discussione. È stato lo stress per il lavoro, per non essere capite, per essere rifiutate da tutte le radio sempre. Abbiamo fatto dieci anni da indipendenti che sono stati abbastanza hardcore, ogni singolo che portavamo in radio ci veniva letteralmente tirato in testa. Una volta portavamo un lento e non andava bene perché era lento, una volta uno veloce perché era veloce, e ci dicevano “Non è quello che vogliamo in questo momento, dovete essere più così, anzi no più colà”. Uno tiene duro ma poi molla, nel pop o c’è un minimo di riscontro da parte delle radio che ti devono supportare o muori».
E ancora: «E poi non c’erano i social, o almeno non erano ancora così potenti. Abbiamo una fatica della madonna per dieci anni cercando di tenere duro e producendoci sempre da indipendenti, sobbarcandoci tutti i costi delle produzioni, dei video, chiedendo favori agli amici… per anni abbiamo fatto una vita così, e io anche da sola quando ho fatto i miei singoli. Però è stata dura, uno può anche essere di ferro ma a un certo punto crolla. E anche il nostro percorso a un certo punto ha vacillato, ed è stato giusto così: uno non può tutta la vita sputare sangue».
Quindi, la decisione di chiudere il progetto: «Abbiamo deciso di chiudere perché c’era talmente tanta tensione, talmente tanto nervosismo, che non ce la facevamo semplicemente più a tenere botta. Anche tra di noi c’era troppa tensione, difficoltà, non viaggiavamo più allo stesso ritmo… non si può avere sempre lo stesso entusiasmo entrambe, a un certo punto uno non è che smette di crederci, ma non ce la fa più».
Adesso, l’affetto social: «Tutto questo amore che sento è frutto di quelle fatiche che ci avete visto sempre fare», prosegue Paola nella diretta. «Abbiamo tirato fuori bei dischi come Win the Game, che era avanguardistico, tutto in inglese, difficile da capire ma prodotto strabene, con dei remix fatti da deejay pazzeschi, e fatto tutto con le nostre forze, abbiamo girato un video in Islanda che ci è costato l’ira di dio… e dentro c’era Cambiare pagina, che era un pezzo pop della madonna – lo posso dire? Da fan del pop, non di Paola e Chiara – e Milleluci, Pioggia d’estate… ecco, tiri fuori un disco così e poi vedi che per tutte le radio è sempre no, e allora a un certo punto molli, andate avanti voi e fate la musica che volete, suonate quello che ve pare. Non riesci più mentalmente a resistere, a tenere sempre il coltello in mezzo ai denti».
«A un certo punto ci vuole un po’ di ossigeno», conclude Iezzi. «Ecco: quell’ossigeno è arrivato adesso. E non dalle radio o dai media: dalla gente. Poi son stati tutti carini, i giornali e le radio si sono accodati, ma appunto si sono accodati, perché siete voi che siete partiti anche grazie ai social. Se ci sarà un ritorno – e dobbiamo capire se questa non è solo un’ondata – sarà solo perché la gente l’ha voluto, perché ci avete inondato con questo amore che non si è mai spento».
Da corrieredellosport.it l'1 luglio 2022.
Per la prima volta dopo 9 anni di assenza dalla scena musicale, la celebre coppia di cantanti Paola & Chiara ha fatto una piccola reunion, facendo impazzire i fan. Paola Iezzi è stata ospite dell'inaugurazione del negozio Baulificio Italiano a Milano. L'occasione ha dato la possibilità all'artista di esibirsi in modo inaspettato: a sorpresa ha fatto il suo ingresso la sorella Chiara Iezzi. Le due hanno iniziato a cantare alcuni dei loro brani di maggiore successo, tra cui Vamos a bailar, Festival e Viva el amor.
La separazione di Paola e Chiara
Le due cantanti hanno deciso di sciogliere il loro sodalizio artistico nel 2013 (pare ci siano state anche delle incomprensioni tra le due che li ha portate a separarsi per un po'). Nel corso di una passata ospitata a Vieni da me, Paola aveva fatto sapere del loro rinnovato riavvicinamento. E proprio in quell'occasione la cantante dichiarò: "Siamo sorelle, siamo amiche, facciamo lavori diversi perché lei ama recitare, vive tra Los Angeles e Milano. Non è facile, lei adesso è diventata mora ed è un casino sta roba dei capelli. Le auguro tutto il meglio per la sua carriera di attrice. Ci diamo dei consigli, continuamente”.
Paola e Chiara, ve le ricordate? Ecco come sono oggi le due icone: da non credere. Libero Quotidiano l'01 luglio 2022
Ricordate Paola e Chiara, le due sorelle icone pop degli anni '90? Ecco ora tornano a cantare insieme. Le sorelle Iezzi, dopo ben dieci anni, hanno optato per una reunion. L'occasione è stata l'inaugurazione di un nuovo negozio milanese dove Paola stava curando il djset. Le due hanno intrattenuto i cittadini riproponendo i loro successi: da Vamos a Bailar a Festival, fino a Viva l'amor. Inutile dire che i video poi diffusi sui social hanno collezionato una pioggia di complimenti.
“Ma madreh te lo giuroh sono Paola&Chiaraaaaaah, cantano VivaElAmmmooorh!” ha scritto Paola sul suo profilo Instagram e la sorella Chiara commenta sotto un "Iris & Patrizia" facendo riferimento a Sensualità a Corte, lo sketch di Mai dire lunedì dove erano le sorellastre di Jean Claude. Le sorelle avevano deciso di prendere strade diverse nel lontano 2013. Nessun litigio tra di loro, solo la volontà di fare altro.
Proprio in questi mesi Chiara ha fatto preoccupare i fan. Colpa di un misterioso sfogo su Twitter dove si leggeva: "Pubblico un sorriso di quasi un anno fa. Da qualche mese non sorrido, sono giorni strani e complessi, spesso subisco violenze senza motivo, questo un piccolo messaggio per chiedere se si può smettere la violenza su di me. Un abbraccio, Chiara".
Chiara Iezzi allarma i fan: «Non sorrido più, spesso subisco violenze senza motivo». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.
Dopo mesi di assenza dai social, la cantante del famoso duo pop Paola e Chiara è tornata su Instagram con un messaggio dai toni volutamente criptici e preoccupanti, dove rivela di vivere una situazione personale molto negativa.
Un appello social che suona come una richiesta d’aiuto o un ammonimento nei confronti di un’altra persona, non meglio identificata. A pubblicarlo sul proprio profilo Instagram - da cui per la verità era sparita dal 20 gennaio scorso - è stata Chiara Iezzi, metà del famoso duo canoro Paola e Chiara. «Pubblico un sorriso di qualche anno fa. Da qualche mese non sorrido, sono giorni strani e complessi, spesso subisco violenze senza motivo, questo un piccolo messaggio per chiedere se si può smettere la violenza su di me. Un abbraccio, Chiara», ha scritto la ragazza e il messaggio, dai toni volutamente criptici e per questo ancor più allarmanti, ha subito messo in allerta i fan.
Ad accompagnare le inquietanti parole è infatti una bella foto della Iezzi sorridente, i capelli sciolti e il viso pulito. Come facilmente prevedibile, il post ha scatenato numerose reazioni e se la sorella Paola le ha risposto con l’emoji della forza e un cuore, l’ex Grande Fratello Filippo Nardi le ha chiesto invece di spiegarsi meglio. Cosa che però Chiara non ha voluto per ora fare, limitandosi a ringraziare i follower per il sostegno ricevuto («Grazie di cuore a tutti per i messaggi bellissimi. Vi voglio tanto bene», ha scritto infatti sotto i commenti).
Dopo essersi messe in luce come coriste degli 883, nel 1997 le sorelle Iezzi hanno vinto il Festival di Sanremo nella categoria Nuove Proposte con il brano «Amici come prima», diventando una delle novità più interessanti della scena pop italiana, con circa cinque milioni di dischi venduti in carriera. Una volta ufficializzato lo scioglimento del duo nel 2013, le due sorelle hanno preso strade diverse: Paola è rimasta nel mondo della musica, mentre Chiara ha studiato per diventare attrice.
· Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Gassman, Ugo Pagliai: «Vittorio lo diceva sempre: ma perché non vi sposate?». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.
Si sono conosciuti nel 1966 e, dopo mezzo secolo insieme, la loro coppia funziona ancora. Il segreto? «Le camere e i bagni separati aiutano».
La leggenda narra che lui si invaghì del suo kilt, lei dei suoi occhi azzurri. Era il 1966, e alle prove di uno spettacolo in un teatrino romano, Ugo Pagliai vedeva per la prima volta Paola Gassman. Un matrimonio lampo e una figlia dopo (Paola nel frattempo si era sposata con Luciano Virgilio da cui ebbe Simona), nel 1968 i due attori si rincontrano allo Stabile dell’Aquila, dove lei era stata scritturata per una piccola parte in Un debito pagato di Osborne, con Ugo protagonista assieme a Mariangela Melato. E lì comincia il loro viaggio umano, sentimentale e professionale, che li ha portati qui oggi con un figlio loro (Tommaso), quattro nipoti (Carlotta e Matteo, figli di Simona, e Matilde e Camilla, figlie di Tommaso) e due pronipoti (Alessandro e Ginevra, rispettivamente di Carlotta e Matteo).
Nella terrazza della loro casa romana dietro piazza Navona parlano del segreto di una unione così longeva (piccolo spoiler: la planimetria aiuta) e ripercorrono 54 anni vissuti pericolosamente insieme, dove un po’ guidava lui (in auto) e un po’ lei (nella vita). Un mese fa hanno dovuto interrompere causa Covid la tournée di Romeo e Giulietta. Una canzone d’amore , rilettura firmata Babilonia Teatri del celeberrimo classico di Shakespeare, dove sono i protagonisti (lo spettacolo si può guardare anche su RaiPlay).
Ma voi siete matti. Come avete potuto accettare in scena un lanciatore di coltelli?
Gassman: «Diciamo che siamo salvaguardati, ci proteggono. Non moriremo mai di coltelli perché il lanciatore, Francesco Scimemi, è un mago ed è bravissimo. Confesso però che un po’ di paura ce l’ho tutte le sere».
Pagliai: «Anche perché i coltelli sono veri!».
I coltelli rappresentano i pericoli nella vita di Giulietta e Romeo. Qual è il pericolo più grande che avete affrontato come coppia?
Gassman: «Non saprei localizzarlo. Forse è quando abbiamo avuto una compagnia nostra: sembrava rischioso condividere così tanto tempo, starsi sempre accanto. Ma invece affrontare certe cose insieme è stato una ricchezza».
Chi guidava?
Pagliai: «L’auto io!».
Gassman: «Quando sei in macchina è facile...».
Pagliai: «E tu dormivi sempre! Io cantavo Paoli, Endrigo, Battisti e ti addormentavi. Dicevi che eri un pacco. Legato con fiocchi stupendi».
Gassman: «Ero un pacco perché non gli dicevo prendi questa strada o quella, mi fidavo. Ma ho guidato tanto anch’io, in senso metaforico».
Quando?
Gassman: «Beh, con i figli per esempio. Io mi occupavo di più della parte vita, Ugo più della parte lavoro. Le due cose erano collegate».
Pagliai: «A fare la differenza è il fatto che sei stata un’amante, una sorella, una moglie, una mamma eccezionale. Lo devo dire».
Gassman: «Non usare queste parole, i difetti ci sono e gli sbagli pure! Tu parla della tua perfezione, non della mia. Il punto è che io ho voluto sempre vivere altrettanto profondamente la vita privata oltre a quella professionale. Non è stato facile, qualche cosa è stata sacrificata. Mio padre Vittorio, riferito alla professione, diceva che il Signore ci ha dato una vita sola e ha commesso un errore: doveva darcene una per provare e una per recitare. Ecco, io ho perso certi momenti della vita dei miei figli, della quotidianità, che in un’altra vita non riperderei. Ma ho sempre agito in buona fede e ho sempre fatto i salti mortali per stare con loro».
Ce ne racconta uno?
Gassman: «Ero capace di andare alla stazione subito dopo lo spettacolo, infilarmi in un vagone letto per ripartire la sera dopo. Quando erano bambini, ai miei figli non dicevo mai “sto via due mesi, un mese”, ma “sto via tre giorni, torno giovedì, sabato”. Poi qualche compromesso l’ho dovuto fare, ma se non avessi avuto la mia professione sarei stata una madre peggiore e se non avessi avuto figli sarei stata una donna peggiore. Per quanto mi riguarda il conto è abbastanza soddisfacente». Pagliai: «E quando non poteva prendere il vagone letto, è stata la più lesta nel comprare i primi telefonini, quelli giganteschi con l’antenna, così la sera stava un’ora al telefono a parlare di compiti, lezioni e poi d’un tratto diceva: “Adesso devo andare in scena!”».
Gassman: «Un anno abbiamo anche preso un camper per una tournée estiva, per far divertire i figli. La cosa bella è che ci lasciavano le chiavi di posti stupendi, il Vittoriale a Gardone Riviera, il parco della Versiliana a Viareggio... Io mi organizzavo con una ragazza alla pari, piazzavo l’ombrellone, mangiavamo insieme, correvo a teatro, tornavo indietro...».
Pagliai: «Ci davano le chiavi, ma soprattutto l’acqua calda!».
Gassman: «E siccome non sapevo mai se nella tappa successiva avremmo trovato l’acqua, costringevo i bambini a fare dieci docce al giorno».
State insieme da 54 anni. Perché non vi sposate?
Gassman: «No, perché cambiare?».
Pagliai: «Anche suo padre Vittorio me lo diceva sempre: “Ma perché non vi sposate?”».
Gassman: «Capirai, fosse stato per lui le avrebbe sposate tutte...».
Sarà questo il segreto della longevità della vostra unione?
Gassman: «Non ci sono metodi, c’è vivere giorno per giorno. Perché poi l’amore cambia, e ogni volta è un di più, è un’aggiunta. Ma bisogna alimentarlo, non dico che è un lavoro che pare negativo, ma è una cosa che si trasforma continuamente».
Dormite ancora insieme?
Gassman: «No, a un certo punto le abitudini cambiano e avendo le camere dei figli ormai libere, da poco mi sono trasferita in un’altra stanza, ma non del tutto, non vorrei che poi lui si allargasse».
Nella stanza tappezzata di vetri dipinti...
Gassman: «Sì, una collezione che ereditai presto da mia madre (l’attrice Nora Ricci, ndr ). La passione le era venuta con Luchino Visconti: Helmut Berger, il compagno, ha la più grande collezione privata. Uno dei miei arriva direttamente da Casa Barilla, che lo regalò a mia madre, e raffigura Il mercante di Venezia, è del ‘700».
Però stavamo parlando della camera da letto e delle abitudini che con l’età cambiano. In che modo?
Gassman: «Cose semplici. Lui si addormenta subito, io ho bisogno di leggere o di guardare un po’ la televisione. Lui soffre il freddo, io patisco il caldo. La mattina si alza prestissimo, io preferisco dormire di più».
Pagliai: «Però è stata una cosa naturale, di cui non mi sono neanche accorto». Gassman: «La cosa fondamentale nella vita coniugale, però, più ancora di dormire in camere separate, è avere due bagni. Non potrei mai litigare per il tubetto del dentifricio».
Chi lo lascia aperto?
Gassman: «Io!».
Pagliai: «Ma non te l’ho mai fatto pesare!».
Ditemi un pregio e un difetto l’uno dell’altra.
Pagliai: «Il pregio di Paola è che ha tutto quello che un uomo può desiderare da una donna: sensibilità, intelligenza, amore, affetto, e poi la bellezza. Per me è bellissima. La vedo così e non sono un bischero io».
Gassman: «Ecco, come dire: non sono stato stupido! Tutto sempre riferito a sé stesso».
Pagliai: «Vede che è polemica? È il suo difetto».
E cosa vogliamo dire di Ugo?
Gassman: «Non sapevo quanto fosse permaloso. È peggiorato con il tempo, ora lo è moltissimo. Il pregio è la profondità che mette in tutto quello che fa, quando recita o quando cucina. È dolcissimo e misterioso».
Cucina Ugo in casa?
Pagliai: «Non fosse per me morirebbe di fame!».
Gassman: «Ma cucini troppo!».
Paola, è stato più difficile lavorare con suo padre o con il suo compagno?
Gassman: «Più difficile con papà: come regista è stato terribile, non aveva pazienza. Amavo andarlo a vedere come attore importante, ma se devi essere guidato da un regista preferisci quello che ti sa trasportare piano piano».
Ugo, lei invece ha lavorato con la madre di Paola, Nora Ricci.
Pagliai: «Una volta eravamo insieme a Sarajevo e nell’ufficio turistico la signorina indugiava un po’ troppo nel darmi l’opuscolo. Nora se ne uscì con: “Io non dico nulla a Paola...”».
Gassman: «Ma perché vai a raccontare queste cose! Comunque, mia mamma era molto ironica. Non le piaceva nessuno dei miei fidanzati, il mio ex marito non l’ha mai voluto incontrare».
Chiudiamo citando Vittorio Gassman. Nella prossima vita recitate di nuovo insieme?
Gassman: «E speriamo!».
Pagliai: «Tanto ormai abbiamo provato tutto».
Estratto dell’articolo di Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” il 2 aprile 2022.
La chiamavano "la bambina prodigio": la Brigitte Fossey italiana, che negli Anni Cinquanta incantò il mondo del teatro e del cinema. Ora, a 78 anni, Paola Quattrini è (ovviamente) cresciuta ma ha mantenuto quella sua prodigiosità: basta andarla a vedere al Manzoni di Milano, dove è in scena con Se devi dire una bugia dilla grossa. Quando appare lei, non ce n'è per nessuno e, lì, capisci perché tutti la considerano la regina della commedia.
[…] Ha iniziato prestissimo, era bella e famosa: ha avuto più spasimanti o colleghi invidiosi?
«Decisamente più spasimanti. Mi sono molto divertita, lo ammetto: nemmeno lì mi sono risparmiata!».
Oggi molte star sono vittime di stalking. Era una deriva diffusa anche all'epoca?
«Personalmente non ho mai avuto a che fare con degli stalker. Però, quando ero piccola, più di un uomo ha provato a molestarmi. È stato un trauma! Sapevano che la mia famiglia contava su di me perché, a soli dieci anni, ero io che portavo i soldi a casa: papà era morto, mamma non lavorava. Allora se ne approfittavano dicendo: "Devi aiutare tua madre... Se sarai carina con me, metto una buona parola».
[…] Oggi dilagano le baby star e i baby influencer. Che ne pensa?
«Provo orrore. I bambini devo fare i bambini, punto. Spesso a loro non interessa nulla della notorietà: sono le madri, insoddisfatte, che proiettano i propri desideri sui figli».
Lei ha lavorato con i più grandi, Walter Chiari compreso. Ci dica una cosa che non sappiamo di lui.
«Era un uomo estremamente affascinante e galante: ti faceva sentire una donna, come pochi uomini sapevano fare. Mi piaceva la sua virilità: una qualità che non è proprio così diffusa, soprattutto tra gli attori, molto vanesi...».
Ora sono curiosa: c'è stato qualcosa tra voi due?
«Mah, una cosa piccolissima...». […]
PAOLA TURCI ON STAGE. Redazione L'Identità su L’Identità il 24 Novembre 2022
di Benedetta Basile
Riprende il tour di "Mi amerò lo stesso", il monologo che sta portando in giro per l’Italia l’apprezzatissima cantante Paola Turci, scritto con la collaborazione di Alessandra Scotti, prodotto da Stefano Francioni Produzioni e Friends&Partners per la regia di Paolo Civati.
La cantante romana, che ha una vita costellata di successi, di musica, di concerti e di amore, viene riconosciuta come una persona forte, decisa, volitiva, determinata e, soprattutto, impegnata.
Ma Paola è, prima di tutto, una donna come tante, che guardandosi allo specchio mette in discussione tutte le sue fragilità, le sue insicurezze e le sue incertezze.
Così l’artista porta sui palcoscenici italiani un monologo, che più che altro è un dialogo con la parte più profonda di sé e tratta una crescita e un’evoluzione, che sono le sue, ma che potrebbero essere di ognuno di noi.
A volte a parlare non è neanche più Paola, ma qualche personaggio incontrato nel corso della sua vita, a cui lei presta la voce per raccontare qualche fatto.
Ogni tanto a prendere la parola è sua mamma, che torna in ogni momento importante, a volte a parlare sono, invece, i protagonisti di un solo breve momento della sua vita.
"Mi amerò lo stesso" tratta il complicato rapporto della cantante con la bellezza, la sua continua ricerca di questa e allo stesso tempo il suo modo di rifuggirla, le sue insicurezze, la sua ironia, gli incontri, le esperienze e le sue speranze per il futuro, che l’hanno resa la donna di oggi.
"Ogni pagina della mia esistenza è l’anello di una catena che mi porta alla strada successiva. Un collegamento più o meno evidente e significativo che alle volte sembra soltanto ingombrante, ma il mio cammino prosegue, snodo dopo snodo, e io cerco di capire sempre più chiaramente che cosa c’è di fronte a me, a cosa vado incontro, a cosa credo. Vado avanti e nel frattempo guardo dentro ai miei sentimenti e lascio libero il cuore" afferma.
Paola tratta anche quello che sicuramente è stato l’evento più traumatico della sua vita, l’incidente stradale che l’ha coinvolta nel 1993.
Lo spettacolo è ovviamente arricchito dalla musica, che non poteva di certo mancare quando si parla di una cantante del calibro di Paola Turci, che porta in scena una scelta di brani tra quelli che hanno fatto da colonna sonora a ogni fase della sua esistenza.
Lo show è tratto dall’omonimo libro, dove la cantante si racconta sempre in maniera sincera, a tratti divertente.
Le prossime tappe del tour di "Mi amerò lo stesso" saranno il 26 novembre a Boretto, il 27 a Rio Saliceto, il 2 dicembre ad Aradeo, il 3 a Lecce, il 4 a Cerignola, il 5 a Fasano, il 10 ad Atessa, l’11 a Città Sant’Angelo, il 17 a Botticino, il 19 a Celano e il 7 gennaio a Pesaro.
Paola ha festeggiato pochi mesi fa i suoi 58 anni, ma vogliamo crederle quando afferma che "amerà lo stesso" la splendida donna che è diventata sia fuori, che dentro: la cantante trasmette con naturalezza la consapevolezza a cui l’ha portata la strada che ha fatto, che per sua stessa ammissione è stata anche di parecchie salite.
All’inizio dell’estate ha anche coronato, dopo circa due anni di amore, la sua storia con Francesca Pascale con un matrimonio, annunciato appena un paio di giorni prima, eppure molto partecipato e sentito.
La Turci, nata il 12 settembre, appunto di 58 primavere fa, nella Capitale ha iniziato la sua carriera cantando in alcuni locali della movida romana da giovanissima e venne notata dal produttore Mario Castelnuovo che le fece firmare il suo primo contratto discografico. Pubblicò il suo primo album "Ragazza sola, ragazza blu" nel 1988, a cui hanno fatto seguito molti altri album tra cui "Oltre Le nuvole", "Mi basta il Paradiso", "Il secondo cuore" e "Viva da morire". Ha partecipato a ben nove Festival di Sanremo di cui cinque consecutivi, dal 1986 al 1990, che ancora oggi è considerato un record e ottenne tre premi della Critica di fila e le venne anche proposto di cantare "Almeno Tu nell’Universo" dalla casa discografica, ma rifiutò non sentendosi adatta. La canzone andò poi a Mia Martini.
La Turci il suo enorme successo lo raggiunse comunque e oggi è una delle artiste più rappresentative e simboliche della musica italiana. E sì, Paola, amati lo stesso.
Marianna Aprile per “Oggi” il 17 marzo 2022.
«Voliamo liberi, voliamo alti. Basta con gossip, chiacchiericcio, illazioni e proviamo a riscoprire il valore della riservatezza. Non è necessario dichiarare chi si è. Si è e basta».
Lei è Paola Turci e in questi anni ha lasciato che quel chiacchiericcio si esercitasse sulla sua vita privata, senza intervenire. «Jodie Foster una volta ha detto: “Ho scelto di fare l’attrice, non il Grande Fratello”. Anche quando si è personaggi pubblici non si è obbligati a darsi in pasto agli altri».
Spiega così la decisione di non commentare neanche le foto pubblicate da Oggi che la ritraevano in barca con Francesca Pascale.
«Ripeto: la riservatezza è un valore. E se la sessualità non ha limiti, non è detto che non debba averne la comunicazione della sessualità: raccontare quel che ti piace ti mette in una casella, e per fortuna oggi non c’è più bisogno di sceglierne una».
Non pensa che sottrarsi alla rettifica abbia alimentato l’idea che in quelle foto ci fosse qualcosa per cui vergognarsi?
«Mi hanno sempre dato della lesbica, non l’ho mai considerato un insulto. A intenderla come offensiva sono solo gli omofobi o le persone profondamente ignoranti. Quando avevo 19 anni e cantavo all’Osteria dell’Orso, passò Adriano Panatta, mi vide e disse: “Ha i muscoli, la voce bassa: è lesbica”. Io allora non sapevo neanche bene cosa significasse. Poi hanno iniziato a dire che stavo con Gianna Nannini, che non avevo mai incontrato. Nel 1994, intervistata dalla rivista gay Babilonia, chiarii: “Se fossi lesbica lo direi”».
Il tema resta: il suo silenzio non ha avallato l’idea che ci fosse qualcosa da nascondere?
«Papa Francesco ha detto il chiacchiericcio è il male del nostro tempo. Avrei potuto mangiarci sul quel pettegolezzo, invece ho rifiutato copertine, soldi. Il mio silenzio ha comunicato che non è necessario dire quello che sei. Ho accettato questa intervista, in un momento in cui non ho niente da “vendere”, perché ho la speranza che passi questo messaggio. E perché sia chiaro che non è più il tempo in cui un’artista per sostenere una causa deve necessariamente incarnare un modello. Sono a favore dell’eutanasia pur non avendo esperienza diretta di quel tipo di dilemma, posso sostenere le battaglie Lgbtq+ anche senza definirmi».
Oggi non risponderebbe più «Se fossi lesbica lo direi»?
«No, perché ho capito quanto fastidio mi dia la definizione continua delle persone. Amo i dettagli, le sfumature, questa classificazione non mi appartiene. Ma oggi tutto è polarizzato».
Tranne la guerra. Su quella in Ucraina si assiste a mille distinguo. Perché?
«Questa guerra ci mette di fronte a verità difficili da ammettere. Per esempio che pretendiamo di “scegliere” profughi che ci somiglino di più, vestiti meglio di quelli che arrivano coi barconi. O che finora abbiamo deciso di ignorare guerre atroci quanto quella in Ucraina, come quella in Afghanistan, genocidi come quello nel Ruanda. Dopo questa guerra non saremo più gli stessi».
Vinse Sanremo Emergenti con Bambini, in cui raccontava che sono sempre loro a pagare il prezzo di una guerra. Era l’89, l’anno della caduta del muro di Berlino, del sogno di un’Europa unita. Oggi, 33 anni dopo, bimbi sotto le bombe ai confini dell’Europa.
«Quella canzone è drammaticamente attuale. “Bambino armato e disarmato in una foto, senza felicità”, cantavo. E oggi vediamo una bimba di 9 anni in mimetica e lecca lecca con un fucile scarico messole in braccio dal papà. Quella canzone sposa musica e impegno, due coordinate su cui mi muovo. E mi ha portata a visitare carceri minorili, ospedali pediatrici, a portare musica e attenzione dove non ci sono».
Sui suoi profili social si è schierata per eutanasia legale, cannabis legale, giornata della memoria, Ong, Ddl Zan. Ha ancora un valore che un’artista si schieri?
«Credo di sì e comunque è il mio modo per restituire l’immensa fortuna che ho avuto. Ho avuto il dono del canto, vivo di quel che amo, sono sana, libera. Canto spesso in ospedali e carceri e anche se un po’ del dolore in cui mi immergo quando entro lì mi rimane addosso, non è importante: c’è chi in quel dolore vive e lavora. Della prima volta in un carcere minorile, nel 1990, ho ricordi confusi. Ma me lo perdono: rimuovere quelle emozioni è un modo per difendersi».
È spesso in carcere. Perché?
«I riflettori vanno accesi dove la luce non entra. Amo cercare sensibilità dove non ti aspetti di trovarne. Le reazioni sono incredibili. A Secondigliano, un detenuto per omicidio mi si è avvicinato tremante con una rosa in mano. Tra il suo delitto e quella rosa c’è la vita, c’è tutto quello che abita una persona. Quando si canta, ci si connette con la bellezza dell’essere umano. Vado in carcere per assistere a quell'istante lì».
E per questo che dall'Ucraina arrivano tanti video di cori e persone che suonano e cantano sotto le bombe o nei bunker?
«Credo di sì. La musica è il modo per continuare a provare emozioni e sfuggire all'orrore. Cantare è qualcosa che tutti possono fare sempre e che nessuno più toglierti. È libertà».
Ha deciso di sostenere la campagna per l'eutanasia legale per ragioni personali?
«Non mi ero mai interessata finché non si è iniziato a parlarne. Sono credente, ma sono anche convinta che il libero arbitrio non possa essere à la carte: o c'è o non c'è. Quando non c'è più niente da fare, soffri le pene dell'inferno, e vuoi morire, forse anche Dio vuole che tu smetta di soffrire. Ci sono arrivata sulla mia pelle. Mi sono sposata in chiesa, volevo fosse un sacramento. Quando mi sono accorta che il matrimonio non funzionava, ho pensato "non posso divorziare, devo rassegnarmi". Ma stavo sempre peggio. Finché non ho pensato che non fosse possibile che Dio o chi per lui mi volesse così triste, lontana da ogni possibile felicità. E ho divorziato».
Lei sembra fuggire dai riflettori. Perché?
«La parte "effimera" del mio lavoro mi pesa, mi sembra che mi porti lontano dalla realtà. Ho sempre preferito stare in disparte e quando è arrivata la mia cicatrice, mi sono chiusa ancora di più. Ma a un certo punto ho capito che dovevo riappropriarmi di me. Nel 2014 ho scritto un'autobiografia, Mi amerò lo stesso. Ho fatto finta, con me stessa, di averla superata. Ma non era così. Ci ho lavorato. Poi un giorno c'è stato un momento in cui non avrei saputo dire se la cicatrice fosse a destra o a sinistra. È bellissimo immaginarsi come ci si piace e io ho iniziato a farlo».
Da ilnapolista.it il 13 novembre 2022.
Il Messaggero intervista Paolo Belli, ex leader dei Ladri di biciclette. Dal 2005 è nel cast di Ballando con le stelle, su Rai 1, al fianco di Milly Carlucci. Racconta di essere stato sul punto di investire Ligabue, una decina d’anni fa.
«Abitiamo a nove chilometri di distanza, lui a Correggio e io a Carpi. Una mattina guidando in una stradina fra i campi, lo vedo correre – al contrario di quello che di solito si fa – lungo il mio stesso senso di marcia, davanti a me. Bene, all’improvviso mi taglia la strada. Non l’ho preso per miracolo. Già mi immaginavo i titoli…».
All’epoca vi conoscevate?
«Certo. La prima chitarra elettrica l’ha comprata nel negozio di strumenti musicali dove da ragazzo, dopo aver fatto l’elettricista e il benzinaio, lavoravo come commesso. Voleva lo sconto».
Avete mai suonato insieme?
«Sì. Qualche anno fa, durante un intervallo di una partita della Nazionale Cantanti abbiamo duettato Knockin’ on Heaven’s Door di Bob Dylan. E prima ancora Liga aveva scritto una canzone per me, Tu dov’eri, che non ho inciso e nemmeno so dove sia finita».
Arrivato alla diciassettesima edizione, un musicista come lei non s’è stufato di “Ballando”?
«Per niente. In tv mi vede gente di ogni età, che spesso viene ai miei concerti, e non finisco mai di imparare. E poi c’è Milly, che mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato educazione e professionalità. Disciplina e concentrazione. Io prima ero solo un istintivo, con lei ho capito l’importanza dello studio e dei dettagli. Mi ha indicato nella misura il modo migliore per entrare nelle case degli italiani».
Paolo Belli racconta il periodo negativo vissuto con i Ladri.
«Con i Ladri dopo una partenza favolosa – Sanremo, tour con Vasco Rossi, due Festivalbar vinti nel 1989 e 1990 – è successo un casino. Nessuno può preparare al successo. E noi avevamo intorno gente che non ci aiutava, così prima di litigare abbiamo chiuso la baracca».
Avete litigato, sia sincero. I Ladri per un po’ sono andati avanti anche senza di lei.
«È vero. Eravamo troppo giovani: ci univa la musica, ma poi i soldi e la fama ci hanno diviso. Adesso è tutto a posto, ci frequentiamo e c’è anche sintonia. Uno suona con Umberto Tozzi, gli altri hanno aperto un ristorante o altre attività».
Dopo di loro lei ha vissuto una lunga crisi, come ne è uscito?
«Con mia moglie Deanna, che mi ha sempre detto di non mollare e che ai soldi per campare ci avrebbe pensato lei. “Sei nato per fare questo”, mi ripeteva. Faceva la parrucchiera, ora si occupa di me. Grazie a lei mi misi a studiare fino a quando non mi chiamò Piero Chiambretti, a metà del 1996, cinque anni dopo la mia uscita dai Ladri. Mi offrì di partecipare al suo show su Rai3, Il laureato Bis. Ricordo che quel giorno, sabato mattina, stavo per buttare il telefonino: ormai non mi chiamava più nessuno. Ero diventato trasparente»
Oggi è felice.
«Sto bene così. Faccio quello che sognavo di fare da bambino: lo show del sabato sera. Mi sento così fortunato che riesco anche a violare una delle leggi fondamentali dello spettacolo: mai farsi vedere dal pubblico prima di andare in scena. Io invece mezz’ora prima di Ballando, o di un concerto, mi butto in mezzo alla gente: parlo, firmo autografi,
faccio foto. E ringrazio. Mi godo tutto».
Crede in Dio?
«Vengo da una famiglia di comunisti, ma se faccio questa vita lassù qualcuno deve esserci. Sono un miracolato».
· Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis, il segreto della (non) coppia: "Dormire separati è un segno di civiltà". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 3 Dicembre 2022.
L’opinionista del GFVip ha spiegato che la scelta migliore è utilizzare appartamenti e letti diversi. Ma le versioni sulla nuova sistemazione fornite dal conduttore e dalla moglie hanno alcune differenze
Insieme ma separati. Uniti, ma ognuno a casa propria. In tanti continuano ad interrogarsi sulla coppia "scoppiata" Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis. Una "non separazione" che, secondo i due, sarebbe anche il loro segreto per la solidità del matrimonio: essere uniti ma distanti. Però le versioni della storia fornita dalla coppia ha qualche (non piccola) differenza.
I due appartamenti
Quando mesi fa Sonia Bruganelli ha raccontato di aver comprato un appartamento adiacente a quello dove abitava con Paolo Bonolis per andarci a vivere con la figlia si è pensato al divorzio. Tutto sbagliato.
Il segreto per durare come coppia
Il conduttore e l’opinionista del GFVip sono uniti più che mai e la loro decisione di vivere separati ma in due case vicine è stata maturata nel tempo. In una intervista al settimanale Nuovo, Bruganelli spiega che "per durare come coppia, serve un sano ignorarsi, è facilissimo. Ognuno fa la propria vita, ci si incontra ogni tanto dentro l’appartamento. Nemmeno il caffè prendiamo insieme. Io lo bevo a casa, lui invece va al bar. Sto sistemando la mia nuova casa dove mi trasferirò da sola con nostra figlia Adele". E specifica che "dormire in camere separate è un segno di civiltà”.
La versione di Bonolis
Paolo Bonolis è sempre stato più cauto sull'argomento e a Verissimo aveva specificato che i due appartamenti sono comunicanti: "Ho acquistato un appartamento adiacente al nostro. Abbiamo fatto una porta, abbiamo ampliato e poi si sono create più stanze. I lavori non sono ancora terminati. Io e mia moglie non potremmo essere più differenti. Stiamo insieme da 25 anni e va benissimo. È merito suo aver intuito che un po’ di distanza in più in realtà è un riavvicinamento”.
Case diverse e palazzi diversi
Ma Bruganelli – al Corriere della Sera – ha svelato che in realtà le due case sono in palazzi diversi. “Dormire in camere separate è un segno di civiltà!” – ha detto l'opinionista – Comunque noi adesso andiamo oltre: sto sistemando la mia nuova casa, dove mi trasferirò da sola con Adele (la figlia più piccola, ndr). Silvia (la figlia più grande, ndr) resta con lui. Stiamo ancora insieme, certo! Ma in palazzi diversi, comunicanti da una doppia porta sul terrazzo. È il segreto per restare insieme tutta la vita”.
Da leggo.it il 6 novembre 2022.
Le voci su una presunta crisi nel loro matrimonio, ormai, alimentano il gossip. E Paolo Bonolis, ospite della puntata di Domenica In del 6 novembre, ha voluto smentire alcuni rumors sulla sua vita privata insieme a Sonia Bruganelli. Non risparmiando nemmeno dei toni piuttosto coloriti.
La smentita al gossip
Paolo Bonolis, ospite nel salotto pomeridiano di Mara Venier, ha presentato il suo nuovo libro, il romanzo dal titolo «A notte fonda». Il noto conduttore però, incalzato da Zia Mara non ha esitato a raccontarsi chiarendo anche alcune indiscrezioni in merito al suo matrimonio.
Da tempo, infatti, si susseguono voci che vogliono il rapporto matrimoniale di Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli piuttosto in crisi, dopo che l'imprenditrice aveva dichiarato di dormire in case separate, alimentando così voci su una presunta separazione. Mara Venier non ha perso occasione, dunque, per sapere la verità. «La verità che mia moglie non si tiene un sorcio in bocca», esordisce Bonolis per poi continuare: «Non ho niente da chiarire, le cose sono molto più semplici di così».
«Fatevi i ca**i vostri»
Ma Mara Venier non è certo contenta della risposta e così continua a incalzare Paolo Bonolis. La padrona di casa insiste e chiede all'ospite se non gli diano noia le voci diffuse sulla sua vita privata: «Lasciali parlare, se una cosa è interessante la ascolto se è una fesseria», poi finalmente si sbottona e racconta il perché degli appartamenti separati. «Abbiamo preso un appartamento a parte, abbiamo fatto una porta, perché lei ha piacere ad avere una camera da letto con il bagno suo, lei sta con Adele e io sto di là con Davide . La gente vuole sapere se - e con la mano imita un amplesso - e io gli dico… 'fatevi i ca**i vostri'».
Le dolci parole a Sonia
Finita la curiosità sulla possibile crisi di coppia, Mara Venier manda in onda un filmato che vede protagonista Sonia Bruganelli e suo marito le dedica dolci parole: «È una splendida madre, si dedica tantissimo ai figli, sono stato fortunato ad avere figli con lei». Una bellissima dichiarazione d'amore che commuove anche zia Mara e sicuramente anche molti spettatori.
Bonolis: «C’è troppa fluidità, bisogna essere solidi. Mia figlia Silvia? Non ho armi per affrontare quello che è successo». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.
Il conduttore: «Non mi dispiace che mia moglie Sonia si sia trasferita perché è quello che desidera e quando vuoi bene a una persona, imporle qualcosa che non desidera è una pura cattiveria. Ma non è il mio percorso»
Paolo Bonolis, romano, 61 anni, conduttore televisivo e autore, in una foto del 1986 con il pupazzo Uan, protagonista del programma per bambini «Bim Bum Bam», uno dei suoi primi successi televisivi
Ha scritto a mano anche questo?
«Sì, uso sempre la penna e il quadernetto».
Qualcuno dei suoi familiari lo ha già letto?
«No, nessuno. Mia moglie se l’è portato a Parigi in questi giorni, ha una rubrica di libri...».
«I libri di Sonia» (Bruganelli). La inviterà senz’altro.
«Vedremo se le fa piacere».
Non si butti giù.
«Ma che ne so. Da lei è passata l’ira di Dio, da Veronesi a Cotroneo alla Ciabatti. Mo’ arrivo io...».
Con Perché parlavo da solo c’è andato.
«Ma quello era un capolavoro».
Intervistare Paolo Bonolis è come camminare sulle uova. Anche se ti impegni, è inevitabile romperne qualcuna. Alla impeccabile gentilezza corrisponde una riservatezza di ferro. E quando le due caratteristiche entrano in conflitto gli spunta una lievissima balbuzie, appena percettibile, che lascia all’interlocutrice la sensazione di aver fatto l’ennesimo passo falso. Ci incontriamo a Roma, negli Studi Elios, per parlare del suo primo romanzo, Notte fonda, ora in libreria a tre anni dall’autobiografia scritta sempre per Rizzoli. Dal monologo è passato al dialogo. Che si svolge tra marito e moglie nell’arco di una notte di primavera del 2023. Dice che assomiglia più a una pièce teatrale. Ed è vero. Dice che non c’è alcun riferimento familiare. E forse è meno vero. Almeno nelle sfumature, nelle scarpe di lei con il tacco che a lui piacciono, nella sottile elettricità che unisce la coppia, nell’esclamazione sconsolata: «Perché... perché... perché ama quella vipera» riferito alla consorte letteraria che nella scuola superiore forense primeggiava sull’interrogatorio e sul controinterrogatorio (dote preziosa se si soffre di gelosia retroattiva).
Davvero, Bonolis, niente di personale?
«No, zero. Ho scelto il dialogo tra moglie e marito perché scorre veloce. E in un mondo di Grandi Fratelli è come sbirciare nella vita intima del pensiero di una coppia e analizzare attraverso di loro le problematiche di tutti: il rapporto con la religione, con la gelosia, con la crescita dei figli in un’epoca iper digitalizzata così diversa dal nostro vissuto analogico».
Tornano alcuni temi a lei cari. Come quella che potremmo chiamare «Legge Bonolis»: l’idea di dare lo smartphone solo a chi ha compiuto 16 anni.
«Sì, ne sono convinto. La realtà si è spostata dal tridimensionale al bidimensionale. L’errore è nell’abuso, nell’esistenza delegata non tanto alla tecnologia binaria del computer, ma al prêt-à-porter, al fatto di portartelo sempre appresso. Così si perdono la memoria, le relazioni interpersonali, la noia che porta all’industriosità e allo sviluppo della fantasia, alla scoperta e all’esercizio del proprio carattere».
Lei che cellulare ha?
«Un Nokia: se mi vuole telefonare può farlo, se mi vuole mandare un sms lo ricevo. Se dobbiamo fare altre cose preferisco farle guardandola in viso, insieme».
A che età ha comprato il telefonino ai suoi figli?
«Non sono stato io, ma Sonia, perché lei invece utilizza tantissimo lo smartphone. Ma mia moglie ha avuto anche una crescita e uno sviluppo analogico, è in grado di distinguere la farina dalla crusca e per merito suo e per impegno mio ai ragazzi è stato concesso in maniera abbastanza equilibrata. Adele, Davide e Silvia stessa lo utilizzano, ma non ne abusano».
È già andato a veder giocare Davide con la Primavera della Triestina?
«Ancora non ha debuttato perché ha avuto un leggero infortunio al ginocchio e sta recuperando».
Fa il papà-allenatore?
«Io sono molto rispettoso. Poi è chiaro che se mio figlio mi chiede “come sono andato?”, io gli dico quello che secondo me poteva fare e non ha fatto o che poteva fare meglio. Se a un organismo in crescita non dici dove sta sbagliando e dove può migliorare non lo aiuti».
In Notte fonda c’è la suggestione degli odori. Può dirmene uno per ogni membro della sua famiglia?
(Chiude gli occhi) «Silvia è borotalco. Davide è sudore. Adele ha l’odore della carta stampata, l’odore di un libro. Sonia è Chanel N°5».
Proviamo anche con i suoi primi due figli, nati dal matrimonio con Diane Zoeller?
«Martina profuma di casa, Stefano ha un odore esotico, mutevole. Così però divento Jean-Baptiste Grenouille! (il protagonista di Profumo di Süskind, ndr)».
Cosa vuol dire «imbesuirsi»? Lo scrive a pagina 168.
«Rendersi animale nel comportamento. È abbastanza desueto».
Si riconosce quel po’ di «pedanteria etimologica» di cui parla nel romanzo?
«Alcuni interlocutori riesco a sterminarli con la pedanteria. Però devo dire che con il passare degli anni tendo a tornare spesso su determinati temi, forse in maniera un po’ pedante, perché vedo crescere attorno a me valori che non condivido e vedo perderne altri che ho sperato non venissero mai perduti».
Per esempio?
«Io credo che la fluidità sia un valore eccessivo perché fa perdere sostanza alla parola data e ai rapporti ottenuti. Non è un valore sbagliato di per sé, ma è facile approfittarsene per esasperarlo. In un mondo solamente fluido manca la solidità e la solidità è ciò che ci dà certezze».
Paolo Bonolis con la prima moglie, la psicologa americana Diane Zoeller, da cui ha avuto due figli, Stefano, nella foto, e Martina
Uno dei temi del libro riguarda il rapporto con Dio e la Chiesa. A proposito di fede, fa un paragone acrobatico fra l’Immacolata Concezione e il gol di Paolo Rossi ai Mondiali dell’82.
«Io Paolo Rossi l’ho visto fare certe cose, l’Immacolata Concezione no, infatti in Chiesa si recita il Credo, non il So. Se tu non riesci a dare un senso alla tua esistenza hai bisogno della religione. Ma noto una certa discrepanza tra il presunto messaggio iniziale - lasciate tutto quello che avete, datelo ai poveri e seguitemi - e una religione che ha uno Stato, una banca, patrimoni immobiliari, guardie, esercito».
Una volta ha incontrato il Papa. Si è emozionato?
«Non particolarmente. È un signore molto gentile, simpatico. Avevo molta curiosità. Ci aveva invitato in Vaticano, due anni fa circa. Abbiamo parlato di calcio, l’ho invitato a venire a guardare una partita insieme. È stata la grande gioia di Silvia, che voleva vederlo. Così me la sono portata con la sua assistente, ormai sorella, Denise. Lui è stato molto carino con lei».
Ha mai pregato?
«Io certo che prego. Ma non prego Dio, parlo con le persone che non ci sono più, mi rivolgo a loro salutandole ogni volta che vado a letto e ringraziandole per quello che mi hanno dato. La Chiesa, invece, è un’istituzione che si frappone tra chi ha bisogno di credere e la suddetta necessità. Dio non c’entra né come soluzione né come problema. Scusi, qui parlo per l’esperienza di mia figlia (un’ipossia durante un intervento in fasce ha compromesso parte delle capacità motorie e cerebrali di Silvia, che oggi ha quasi 20 anni, ndr). Comunque, sono piccole rabbie che uno conserva».
Pensavo che non fosse più arrabbiato per questo.
«Se me lo chiede, le dico che non sono felice di questa cosa. Sono felicissimo di Silvia, felicissimo di come è sempre allegra, le voglio un bene dell’anima, mi diverte, è piena di energia. Però quello che è successo è successo, e come disse il Marchese del Grillo: potrò essere ancora un po’ incazzato per ‘sto fatto? Mi fa rabbia perché non ho armi per affrontarlo se non l’accettazione e l’amore. Però a me fa male. Tutto qua».
Viaggia ancora con il vecchio Invicta bianco e blu?
«Hai voglia! Una delle ultime volte 4-5 anni fa, a Ortisei con i ragazzi. Dovevamo fare la discesa del Seceda: il problema è che ho sbagliato montagna e abbiamo camminato per oltre 14 chilometri. Adele era piccola, Davide l’ha acchiappata al volo mentre stava per finire in un precipizio».
Un viaggio che le manca?
«Tanti. Nuova Caledonia, Nuova Zelanda, Terra del Fuoco... Mi pare che le nuove generazioni non conoscano la geografia, non si studia più ed è assurdo perché questo è il pianeta in cui viviamo».
Lei la geografia l’ha imparata sul campo.
«I miei genitori risparmiavano per portarmi da qualche parte, poi ho cominciato a viaggiare da solo: uno stimolo per scrutare le diversità umane, territoriali, comportamentali. Invece oggi facciamo molto edera, poco spora».
Qual è il primo regalo importante ai suoi genitori?
«La casa al mare a Fondi».
Chi è stato più felice quel giorno?
«Buona parte della mia felicità è un rimbalzo della felicità altrui. Se poi gli altri sono felici grazie a me sono doppiamente contento».
Ha già fatto il testamento biologico?
«Ancora no, ma se qualcuno può avere necessità di quello che a me non serve più, che lo prenda pure. Dopotutto lo sto facendo già in vita, con molte donazioni della mia libertà: quando ti dedichi a qualcosa, rinunci a qualcos’altro».
Di sé ha scritto che è romantico. Le dispiace che sua moglie abbia deciso di trasferirsi nell’appartamento accanto?
«Non mi dispiace perché è quello che desidera e quando vuoi bene a una persona, imporle qualcosa che non desidera è una pura cattiveria. Non è certamente il mio percorso, ma essendo il suo corrisponde in piccola parte a quello che avevo detto prima: è una specie di testamento biologico in vita. Va bene, ci sta, anche perché poi stiamo parlando di una differenza di 40 metri».
Chiudiamo con il romanzo. Le piacerebbe vincere un premio?
«Non avrebbe senso. Sto leggendo La casa di marzapane, di Jennifer Egan. Ecco, ognuno faccia il proprio: c’è chi vince il Pulitzer e chi vince i Telegatti».
Da fanpage.it il 10 ottobre 2022.
Paolo Bonolis è stato ospite della puntata di Verissimo trasmessa domenica 9 ottobre. Il conduttore ha parlato della sua carriera e della sua vita privata, inoltre ha presentato il romanzo Notte fonda. Prima, però, ha scherzato con Silvia Toffanin: "Sto bene, anche te sei molto bella. Sei sempre in forma. Mangia un po' di più. Devi mangiare. Non ti abbandonare al destino che poi si alza il vento e non ti ritroviamo più". La conduttrice non è apparsa infastidita dalla battuta, al contrario – anche alla luce della confidenza tra loro – è scoppiata a ridere: "Hai ragione, devo mangiare di più".
Il figlio di Paolo Bonolis, gioca nella Triestina e la cosa entusiasma il conduttore. A Silvia Toffanin ha raccontato come è avvenuto il distacco con lui, quando il diciottenne ha dovuto trasferirsi a Trieste per questa nuova avventura:
Ora vedo da solo le partite e questo mi inquieta, ma ci sentiamo costantemente. La prima volta che l'ho accompagnato per il provino, immediatamente gli hanno fatto firmare il contratto. Gli ho detto che sarei tornato a Roma e lo avrei lasciato lì con i ragazzi, ma lui mi ha chiesto: "Per favore papà resta un'altra sera". Ho capito che c'era ancora un po' di difficoltà. Sono rimasto un'altra sera, poi la mattina dopo gli ho detto che dovevo andare, gli ho fatto le solite raccomandazioni e me ne sono andato, sperando che stesse bene.
Non è passato molto, prima che avesse notizie dal figlio. Bonolis, infatti, la sera stessa ha ricevuto una telefonata da un dirigente della Triestina:
La sera, verso mezzanotte, mi arriva una telefonata. Era un dirigente della Triestina, mi disse: "Guardi, abbiamo dovuto fare un rimbrotto a suo figlio e anche ad altri, mi dispiace, sanno che non devono andare sui social e invece erano in diretta in cinque e cantavano: ‘Dove sono le ragazze, dove sono le ragazze'. Dico: ‘Va bene, capisco. È giusto il rimprovero, però rendetevi conto che questi hanno gli ormoni che schizzano e quindi sono particolarmente ingordi e non solo di calcio'.
Il Grande Fratello lo seguo come posso perché dura tanto, tanto. Lei come sempre è molto brava, molto lucida e ha una peculiarità che in casa spesso ha creato problemi e a volte li ha risolti, non si tiene un sorcio in bocca. Questo, per quel genere di trasmissioni, è perfetto. Essendo una donna brillante e intelligente, cammina con serenità in quel territorio.
Nelle scorse settimane, la moglie ha dichiarato: "Io e Bonolis dormiamo in case separate". Il conduttore, ha replicato con ironia: Questo è un tema molto delicato. Nel senso che io ho acquistato un appartamento adiacente al nostro, abbiamo fatto una porta, abbiamo ampliato e quindi si sono create più stanze. I lavori non sono ancora terminati.
Però capisco che è un tema che può colpire profondamente l'animo degli italiani, mi ha chiamato anche Mattarella, anche Draghi voleva occuparsene, ma ora si sta spostando su altri fronti. Il nuovo Governo sta lavorando a un nuovo ministero che dovrebbe essere quello dei diritti e dei doveri coniugali, dove verrà fatta una legge per capire se sia possibile non avere la stessa ubicazione da dormienti.
Come ha superato il problema della balbuzie
Paolo Bonolis è tornato a parlare della balbuzie che lo ha afflitto in passato: "Soffrivo profondamente di balbuzie però a casa la si viveva con una certa ironia. Mio padre mi diceva: "Aò scrivi". Questa cosa l'ho superata non prendendomi troppo sul serio e trovando una persona che mi ha fatto fare delle cose a teatro". E ha continuato:
Mi sono accorto che se una cosa la sapevo a memoria non avevo problemi di balbuzie. Quando riesci a dare un ordine ai pensieri, riesci a dargli una corsia preferenziale, senza che ci sia quell'ingorgo che ti porta alla balbuzie. La mamma mi dava l'aglio due volte a settimana, perché non sapeva se fosse vero che guarisse dalla malattia, ma di sicuro avrebbe tenuto lontani quelli che avrebbero potuto attaccarmele. Infatti, avevo una fiatella…
Sonia Bruganelli: «Io e Bonolis? In case separate. Ho iniziato da fotomodella e volevo essere Sally Spectra». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022
L’imprenditrice, di nuovo opinionista al Grande Fratello Vip: «Con Orietta Berti andrà bene. Ma la prima volta alla “Fattoria” fu un disastro: ero conosciuta solo come la moglie di». Sul figlio Davide calciatore: «Quando è partito per il ritiro a Trieste ho pianto. Gli ho messo nella borsa un barattolo di Nutella»
Chi ha accompagnato Davide a Trieste?
«Alla presentazione della squadra c’eravamo io e la nonna».
Che effetto le ha fatto?
«Ero molto felice, è una cosa che lui ha sempre desiderato. E poi ho pensato a mio padre, Massimo, ex calciatore e allenatore dei portieri della Lazio. Fin da quando Davide aveva un anno è stato lui a seguirlo nel calcio. Trieste è l’ultima città che ha visto, due giorni prima di morire: non riesco a non vederci un collegamento».
Quando ha realizzato il distacco da Davide?
«Quando è partito per il ritiro, il 2 agosto. Lì ho pianto. Nel borsone strapieno gli avevo infilato un barattolo di Nutella: in volo è scoppiato e gli ha sporcato tutto. Dopo tre giorni di videochiamate mi ha detto: “Mamma dai, basta”».
Avrà scritto Bonolis sulla maglia?
«Certo, è il suo cognome. Anche se a me dà molto fastidio quando gli danno del raccomandato. Ma cosa c’entra? Se il figlio di un personaggio pubblico lavora, è grazie al padre; se non lavora, è un mantenuto. È contro ogni logica...».
Aperitivo al Ponte Milvio. Siamo partite dal secondogenito diciottenne appena arruolato nella Primavera della Triestina Calcio: Davide è nato dopo Silvia, 19 anni, e prima di Adele, 14, i tre figli che Sonia Bruganelli ha con Paolo Bonolis . Di lei si sa poco, a parte l’ovvio: è la moglie di P. (da 20 anni), ha un talento naturale per scatenare invidia social e la diabolica inclinazione a perseverare (da poco ha raccontato di avere sei conti correnti). Invece oltre al marito c’è (molto) di più, come scopriremo davanti a un bicchiere di Champagne Rosé.
Parliamo dei suoi genitori.
«Mio padre lavorava come ispettore della Banca d’Italia, ma la sua passione era il calcio. Al funerale sono venuti tanti ex giocatori della Lazio in divisa. Però ricordo ancora certi suoi racconti dei lingotti d’oro che trovava nei caveau».
Sua madre?
«Mamma Giulia era casalinga, ma ha sempre avuto un animo rock. È una che ha indossato la minigonna appena fu commercializzata. Oggi è amministratrice della mia società».
Dove lavora anche suo fratello.
«Sì, Marco, ha tre anni meno di me. È buono, ha pazienza: il mio opposto».
Da bambina cosa sognava di fare da grande?
«Questo! Ma non sapevo che si chiamasse imprenditrice. Sono cresciuta guardando Beautiful e il mio modello era Sally Spectra, non certo Brooke. Sognavo di diventare dirigente».
Il primo lavoro?
«Fotomodella. Una volta fui scelta per il cartellone delle cucine Gatto: è lì che Claudio Noto mi ha truccata la prima volta, lo fa ancora oggi».
Fotoromanzi, hostess per la Tim, televendite: tra queste, quella a Tira & Molla, dove conobbe Bonolis. Aveva 23 anni e stava per laurearsi in Scienze della comunicazione.
«Dopo che ci siamo fidanzati guarda caso mi hanno proposto di lavorare ad Aspettando Beautiful, con tanta visibilità. Dissi di no, preferivo fare la gavetta dietro le quinte. Paolo mi fece entrare nella redazione di Ciao Darwin , dove feci per moltissimo tempo fotocopie, caffè, griglie: Federico Moccia mi faceva sempre piangere».
Possibile?
«Ma sì, le griglie non gli andavano mai bene e non mi spiegava perché. Anni dopo mi ha detto che voleva un po’ di spazio dopo ogni riga di testo per aggiungere le sue note… Ma lo ringrazio. Se oggi ho la capacità di dirigere un’azienda è perché ho cominciato così».
Chi le piaceva da ragazza?
«Sebino Nela, che poi ho intervistato da adulta nel mio programma I libri di Sonia, Johnny Dorelli che vedevo a teatro, e John Taylor dei Duran Duran».
Nel 2005 ha aperto la società di scouting con Lucio Presta: Sdl 2005.
«E con la mia ginecologa Daniela Gaetano, che conobbi a Domenica in quando Paolo mi affidò lo spazio della maternità: gli avevo proposto di seguire una gravidanza fino al parto. Gli autori rosicavano e ci spostavano continuamente l’orario, per depotenziarci. Me li ricordo tutti, infatti a Ciao Darwin non ci sono più (ride, ndr). Il nostro competitor era Buona Domenica di Maurizio Costanzo. Lui lasciava la chiusura a Maria De Filippi con Uomini e Donne, ai tempi di Alessandra e Costantino. All’ultima puntata Cesare Lanza decise di mettergli contro noi, con il parto: loro fecero il 26 per cento di share, noi il 28».
E la società allora come nacque?
«Dopo quell’esperienza, con Daniela pensammo di raccontare altre storie e chiesi a Lucio di aiutarci: mi ha insegnato lui a fare i preventivi. Il primo lavoro fu scegliere il pubblico per La talpa . Oggi la società è mia, di mio fratello e di Paolo. Sono socio di maggioranza e curo la parte creativa. Diamo lavoro a una quindicina di persone, il triplo durante le produzioni: ci stiamo occupando del programma di Chiambretti, La carica dei 100 e 1 , e di Avanti un altro!».
Come opinionista esordisce a «La fattoria» di Paola Perego. Era il 2009.
«Una delle cose più brutte che ho fatto, non ero pronta. Ero conosciuta solo come la moglie di Bonolis che aveva appena fatto il secondo Sanremo. Non ero credibile e non ero creduta. Tra i concorrenti c’erano personaggi intoccabili: avevo troppi paletti ed ero troppo giovane».
Tutt’altra musica al Grande Fratello Vip, dove ha litigato con il conduttore, Alfonso Signorini.
«Mi aveva tolto la parola di malo modo. Quel litigio ci ha avvicinato. Ho scoperto una persona simile a me: ha una fragilità nascosta dall’essere eccentrico, sembra spietato, ma è un tenerone».
Aveva detto che non l’avrebbe mai rifatto. Invece dal 19 settembre la rivedremo su Canale 5.
«Ora è diverso. Sarò con Orietta Berti: l’ammiro e la stimo, non si prende sul serio, come me».
Ha raccontato che la proposta è arrivata in un momento per lei difficile.
«I ragazzi che diventano grandi, le dinamiche di coppia che cambiano, il famoso nido vuoto... Avevo bisogno di leggerezza: al Grande Fratello Vip devo solo farmi truccare e guardare in vasca il Day Time prima della puntata».
E lei si riguarda?
«Pochissimo. Penso ancora che quello non sia il mio lavoro. Quando torno a casa e Paolo commenta lo fermo subito».
I suoi figli la guardano?
«Silvia è sintonizzata h24. Del resto quando la allattavo guardavamo il GF di Taricone».
Come sta, Silvia?
«Sta bene. Ha 19 anni, è leggera. Ha frequentato il liceo fino al terzo anno, l’ho ritirata durante il Covid per l’ansia che si ammalasse, visti i suoi problemi cardiaci. Ma per le sue potenzialità deve soprattutto imparare a essere autosufficiente. Fa ippoterapia, musica, atletica».
Lavorerà in azienda?
«Sta imparando a fare le fotocopie, i numeri di telefono, a scattare le foto da pinzare nelle schede dei candidati. Quando sarà pronta farà la segretaria: dalla gavetta, come la mamma».
Quale delle cose fatte l’ha emozionata di più?
«Il primo anno a Ciao Darwin, per la contesa “Alti contro bassi”, mi ero occupata della selezione dei bassi. Quando è partita la sigla e li ho visti scendere tutti, è stato bellissimo: ce l’avevo fatta! Poi la gravidanza a Domenica in. Oggi mi emoziona vedere la mia squadra unita, anche fuori dal lavoro».
Il libro più bello che ha letto d’estate?
«Me lo ha consigliato Roberto Cotroneo: Il senso di una fine , di Julian Barnes».
Il più bello di sempre?
«Una vita come tante, di Hanya Yanagihara».
Davvero a 3 anni ha chiesto in dono un libro?
«No, a tre anni ho chiesto a mia madre di insegnarmi a leggere: lei mi raccontava le favole, ma andava subito al sodo e io capivo che mi stavo perdendo qualcosa. Ho imparato sui libri di Walt Disney. A tre anni e mezzo leggevo i giornali in spiaggia con mio zio».
Chi dei suoi figli ha ereditato la passione?
«Adele, la terza: ha imparato a leggere da sola. Ha appena pubblicato un romanzo a puntate sul giornalino di classe della sua scuola, il Tacito».
La inviterà a «I libri di Sonia»?
«Me lo chiede sempre anche lei. E le rispondo: ma certo amore! La prossima edizione del programma stiamo pensando di trasmetterla sulla SdlTv, dove ci seguono 700 mila persone».
Che effetto fa una quasi-santa in famiglia?
«Adele Bonolis, la prozia di Paolo? A me nessuno. Lui ci tiene, infatti ha voluto dare il suo nome a nostra figlia. Io sono una credente di quelle terribili: prego solo quando ho bisogno. Però parlo con le persone che non ci sono più».
Allora perché si è fatta tatuare Padre Pio?
«Silvia doveva fare un intervento delicato e la notte prima l’ho sognato. Mi sono ripromessa che se l’intervento fosse andato bene mi sarei tatuata il volto. Ce l’ho sull’avambraccio».
Gli hater le chiedono mai di togliersi il porro?
«Ammazza, sempre! Comunque me lo leverò, ma solo perché mi appesantisce la bocca e il mio truccatore non riesce ad allargarla».
Che rapporti ha con i primi due figli di suo marito, Stefano e Martina?
«All’inizio ero gelosissima del suo passato. Oggi abbiamo un ottimo rapporto. Martina ha creato una chat dove siamo solo io lei e il padre. Se vogliono chiedere qualcosa a Paolo ne parlano prima con me, per avere il mio supporto».
Non le ho chiesto quasi niente di suo marito.
«Deve proprio?».
Beh, intanto: con i figli chi fa il poliziotto buono e chi quello cattivo?
«Quando erano piccoli io ero quello cattivo, adesso i ruoli sono invertiti e meno male».
Dormite insieme o in camere separate?
«Dormire in camere separate è un segno di civiltà! Comunque noi adesso andiamo oltre: sto sistemando la mia nuova casa, dove mi trasferirò da sola con Adele. Silvia resta con lui».
Scusi, ma state ancora insieme?
«Certo! Ma in palazzi diversi, comunicanti da una doppia porta sul terrazzo. È il segreto per restare insieme tutta la vita».
Sonia Bruganelli: «Ho sei conti correnti e non mi ricordo i pin». E scoppia la polemica: «È necessario ostentarli?». Il Corriere della Sera il 24 Agosto 2022.
La moglie di Bonolis racconta una sua disavventura sui social. E in molti la criticano
Un vero e proprio sfogo social quello di Sonia Bruganelli, produttrice televisiva, opinionista del GF Vip e moglie di Paolo Bonolis, che su Twitter è scagliata contro il servizio clienti della sua carta di credito che è stata bloccata per tre giorni dopo un tentativo di acquisto.
La disavventura
Su Twitter la Bruganelli ha infatti scritto di aver comprato sulla piattaforma online di vendita di abiti Farfetch tre vestiti: «Vado al pagamento e mi dicono che la carta è bloccata per motivi di sicurezza. Chiamo il numero che mi scrivono, parlo con una signora che mi chiede generalità e numero di carta per dirmi che è bloccata per tutelare compere online, dico ok. Ora che sapete che sono io può sbloccarla? Mi risponde che mi passa al numero per lo sblocco. Dico ok. Mi risponde un altro al quale racconto la stessa cosa, mi chiede quando ho usato l’ultima volta la carta, gli dico che non ricordo e lui fa voce stranita, poi mi chiede data di nascita mia e io gliela do, poi mi chiede tutto il numero di carta e io ok, poi mi chiede data di scadenza e ultime tre cifre della carta e gli dico tutto alla fine mi chiede il numero di conto corrente a quel punto sclero. Gli dico che su due piedi non lo ricordo. Lui mi chiede ‘come mai?’ e sono costretta a vincere la mia proverbiale modestia e a dichiarare di averne sei per cui non mi ricordo i numeri di tutti conti correnti e lui imperterrito mi dice che se non gli dico il numero di conto non può sbloccare la carta. Io boh».
I commenti infastiditi
Una vicenda che ha ricevuto tanti commenti: a molti utenti infatti ha dato fastidio lo specificare il numero di conti correnti da parte di Lady Bonolis.” Noi poveri adesso sappiamo che ha sei conti correnti” scrive un utente; “qualche conto corrente in meno?” spalleggia un altro tweet. Lei ha poi raccontato il lieto fine della vicenda: «A dimostrazione che avevo ragione io, oggi abbiamo rifatto la procedura per lo sblocco della carta e nessuno ha chiesto il numero di conto corrente. Carta sbloccata e io ho i miei vestiti». La Bruganelli, 48 anni, tre figli, a inizio agosto era stata al centro di una discussione social nata da un suo post su Instagram. Nei giorni caldi in cui molti bagagli sono stati per colpa dei disservizi e degli scioperi degli aeroporti, lei aveva scritto: «Giuro che prima o poi la smetto. Per ora però preferisco pagarmi un aereo privato piuttosto che aspettare ore in aeroporto, rischiare di vedere annullato il mio volo, perdere bagaglio che arriverebbe forse a Toronto, riprendermi il covid e fare storie dove insulto tutte le compagnie low cost chiedendo ai miei follower di repostare il mio messaggio».
Sonia Bruganelli, polemica social sulle sue carte di credito: "Ho sei conti, non posso ricordare tutti i codici a memoria". La Repubblica su il 24 Agosto 2022.
Sonia Bruganelli, produttrice televisiva, opinionista del Grande Fratello Vip e moglie di Paolo Bonolis, si è scagliata contro il sistema clienti della sua carta di credito che è stata bloccata per tre giorni dopo un tentativo di acquisto.
"Ho sei conti correnti, non posso ricordare tutti i numeri"
Su Twitter ha raccontato: "Compro su farfetch (piattaforma online di vendita di abiti, ndr) tre abiti, vado al pagamento e mi dicono che la carta è bloccata per motivi di sicurezza. Chiamo il numero che mi scrivono, parlo con una signora che mi chiede generalità e numero di carta per dirmi che è bloccata per tutelare compere online, dico ok. Ora che sapete che sono io può sbloccarla? Mi risponde che mi passa al numero per lo sblocco. Dico ok. Mi risponde un altro al quale racconto la stessa cosa, mi chiede quando ho usato l’ultima volta la carta, gli dico che non ricordo e lui fa voce stranita, poi mi chiede data di nascita mia e io gliela do, poi mi chiede tutto il numero di carta e io ok, poi mi chiede data di scadenza e ultime tre cifre della carta e gli dico tutto alla fine mi chiede il numero di conto corrente a quel punto sclero. Gli dico che su due piedi non lo ricordo. Lui mi chiede 'come mai?' e sono costretta a vincere la mia proverbiale modestia e a dichiarare di averne sei per cui non mi ricordo i numeri di tutti conti correnti e lui imperterrito mi dice che se non gli dico il numero di conto non può sbloccare la carta. Io boh". Lieto fine della vicenda quando, sempre sui social, Sonia Bruganelli ha raccontato: "A dimostrazione che avevo ragione io, oggi abbiamo rifatto la procedura per lo sblocco della carta e nessuno ha chiesto il numero di conto corrente. Carta sbloccata e io ho i miei vestiti".
Quarantotto anni, tre figli, ex modella di fotoromanzi, oggi è alla guida di un'agenzia di scouting che si occupa, tra l'altro, dei casting delle trasmissioni del marito Avanti un altro e Ciao Darwin. Sui social si autodefinisce: "Molto madre, a volte moglie, ancora figlia, sempre sorella, altalenante amica e un po', ma solo un po' imprenditrice". Qualche settimana fa era stata al centro di una discussione social scaturita da un suo post su Instagram nei giorni in cui gli aeroporti erano intasati e molti bagagli dispersi per via dei disservizi e degli scioperi. Bruganelli aveva postato una sua foto su un aereo privato con questa considerazione: "Giuro che prima o poi la smetto. Per ora però preferisco pagarmi un aereo privato piuttosto che aspettare ore in aeroporto, rischiare di vedere annullato il mio volo, perdere bagaglio che arriverebbe forse a Toronto, riprendermi il covid e fare storie dove insulto tutte le compagnie low cost chiedendo ai miei follower di repostare il mio messaggio". Sul social gli utenti si erano divisi fra chi sosteneva che ognuno può fare ciò che vuole con i propri soldi e chi faceva notare che pochissime persone possono mettersi un volo privato.
Quest'anno Bruganelli tornerà come opinionista nel programma di Alfonso Signorini Grande Fratello Vip e questo ritorno (dal 19 settembre su Canale 5), dopo un iniziale passo indietro, ha sollevato una polemica con la ex collega Adriana Volpe, che invece non è stata riconfermata. Volpe infatti ha commentato su Nuovo: "Sonia Bruganelli? La gente, il pubblico, sa che nella vita c'è chi va avanti per meritocrazia, chi per simpatia e chi va avanti solo perché ha alle spalle potenti santi protettori. Questa è la vita. Probabilmente a me mancano tutti e tre".
La crisi con Bonolis? Una vacanza a Formentera mette a tacere le voci
All'inizio dell'estate un tweet ambiguo aveva fatto ipotizzare una crisi con il marito. Bruganelli scriveva "Gli amori finiscono. Le persone che si sono amate non finiscono mai", ma una vacanza a Formentera, immortalata dalle foto sui social e da un ballo sulle note di Can't stop the feeling! aveva fugato i dubbi.
Qualche giorno dopo era comparso - sempre sui social - quest'altro messaggio: "Amo chi rimane. Quando non è facile, quando la ragione ti spingerebbe a mollare, quando la vita ti regala opportunità che possono far paura. Amo chi rimane".
Adriana Volpe e Sonia Bruganelli fanno a gara a chi c'è l'ha più grande. Redazione su newsitaliane.it il 2 febbraio 2022.
Adriana e Sonia, Sonia e Adriana. Ormai è noto più o meno a ogni latitudine che la loro sia una relazione - come si usava un tempo scrivere su Facebook - complicata. Non c’è stata una volta, una sola in questa edizione dei record, lunghissima, in cui si siano trovate d'accordo su un vippone, un’azione, un atteggiamento, un look... Nulla.
Non c’è neanche bisogno che si comunichino il colore o lo stile dell'abito, tanto una arriverà vaporosa e glitterata (Volpe), l’altra con una mise, un'acconciatura, dei gioielli che punteranno l’attenzione su quel suo sguardo fantasmagorico (Bruganelli).
E fuori dallo studio, su quella collina di Cinecittà battuta da venti salmastri e circondata dai pini marittimi, là dove nei camper si consumano tartine, coca cole, pizzette e veleni? Stesso paesaggio.
A ciascuna il suo camper, che poi è il camerino delle opinioniste. Quello di Adriana è d’antan, quasi nostalgico, foderato di radica persino nel bagno (il materiale è talmente vecchio che quasi torna di moda). Dunque il suo camper è di quelli che toccano a chi non si impunta più di tanto.
Che sì, Adriana ha pure l'entrata “goldoniana", “permesso, posso”, ma poi sulla lunga distanza si fa sentire. Tranquilli. In ogni caso dentro, da lei, c’è sempre un ordine ai limiti del maniacale, dato soprattutto dal fatto che la Volpe, a fronte dell’immagine super brillante (quasi catarifrangente), è minimale fino al sillogismo: un parrucchiere, un truccatore, un cambio d'abito, that’s it. Tutta un’altra storia è quella che riguarda gli spazi di Sonia.
Da lei pure, in effetti, l'ordine regna sovrano, ma sono messi in fila outfit su outfìt, accessori e bijoux. matite per gli occhi (ah, quegli occhi magnetici, sguardo da attrice di Hitchcock), rossetti e fermagli.
Tutto stipato in un camper che non sarà di ultima generazione, ma rispetto a quello di Adriana sembra la macchina lanciata nello spazio da Elon Musk. Intorno alla “Brugi” poi si avvicenda uno stuolo infinito di persone: l’assistente, il truccatore, lo stylist, gli assistenti dei suddetti, gli amici, i figli, gli amici dei figli... Lei talvolta si muove verso il fondo del camper, lancia le scarpe in aria, butta la borsa sul letto (ha pure il lettone e la borsa è una Kelly di Hermès) e fa un bel sospirane: iniziamo! Ah, a proposito: il camerino di Alfonso Signorini come sarà? Alla prossima, magari...
Azzurra Della Penna per “Chi” il 2 febbraio 2022.
Adriana e Sonia, Sonia e Adriana. Ormai è noto più o meno a ogni latitudine che la loro sia una relazione - come si usava un tempo scrivere su Facebook - complicata. Non c'è stata una volta, una sola in questa edizione dei record, lunghissima, in cui si siano trovate d' accordo su un vippone, un'azione, un atteggiamento, un look... Nulla. Non c'è neanche bisogno che si comunichino il colore o lo stile dell'abito, tanto una arriverà vaporosa e glitterata (Volpe), l' altra con una mise, un'acconciatura, dei gioielli che punteranno l' attenzione su quel suo sguardo fantasmagorico (Bruganelli).
E fuori dallo studio, su quella collina di Cinecittà battuta da venti salmastri e circondata dai pini marittimi, là dove nei camper si consumano tartine, coca cole, pizzette e veleni? Stesso paesaggio. A ciascuna il suo camper, che poi è il camerino delle opinioniste. Quello di Adriana è d' antan, quasi nostalgico, foderato di radica persino nel bagno (il materiale è talmente vecchio che quasi torna di moda).
Dunque il suo camper è di quelli che toccano a chi non si impunta più di tanto. Che sì, Adriana ha pure l'entrata "goldoniana", "permesso, posso", ma poi sulla lunga distanza si fa sentire. Tranquilli. In ogni caso dentro, da lei, c'è sempre un ordine ai limiti del maniacale, dato soprattutto dal fatto che la Volpe, a fronte dell'immagine super brillante (quasi catarifrangente), è minimale fino al sillogismo: un parrucchiere, un truccatore, un cambio d'abito, that's it.
Tutta un'altra storia è quella che riguarda gli spazi di Sonia. Da lei pure, in effetti, l'ordine regna sovrano, ma sono messi in fila outfit su outfit, accessori e bijoux, matite per gli occhi (ah, quegli occhi magnetici, sguardo da attrice di Hitchcock), rossetti e fermagli.
Tutto stipato in un camper che non sarà di ultima generazione, ma rispetto a quello di Adriana sembra la macchina lanciata nello spazio da Elon Musk. Intorno alla "Brugi" poi si avvicenda uno stuolo infinito di persone: l'assistente, il truccatore, lo stylist, gli assistenti dei suddetti, gli amici, i figli, gli amici dei figli...
Lei talvolta si muove verso il fondo del camper, lancia le scarpe in aria, butta la borsa sul letto (ha pure il lettone e la borsa è una Kelly di Hermès) e fa un bel sospirone: iniziamo! Ah, a proposito: il camerino di Alfonso Signorini come sarà? Alla prossima, magari...
Ida Di Grazia per leggo.it il 29 gennaio 2022.
GF Vip, confessione a sorpresa di Sonia su Paolo Bonolis: «Mio marito è stato con un uomo». Se Alex Belli e Alfonso Signorini parlano di amore libero e menage a trois, a soprendere è l'affermazione della Bruganelli durante la diretta di venerdì 28 gennaio.
Dopo aver sviscerato in mille modi con Alex Belli e Delia Duran cosa sia l'amore libero, Alfonso Signorini ha voluto chiedere un parere anche alle due opinioniste del Grande fratello Vip. Sonia Bruganelli in particolare si è detta scioccata: «Io pensavo di essere avanti luce, e invece sentendo tutto questo sono davvero indietro».
Signorini però entra più nel dettaglio e le chiede se come Delia abbia mai avuto rapporti con un'altra donna e Sonia Bruganelli fa una confessione choc: «Io non sono mai stata con una donna, mio marito sì con un altro uomo». Gelo in studio. Signorini glielo richiede e lei annuisce senza far capire quanto ci sia di vero e quanto sia una delle sue provocazioni.
Da fcinter1908.it il 21 gennaio 2022.
Ospite di Silvia Toffanin, su Verissimo, programma di Canale 5, Paolo Bonolis ha avuto modo di parlare del suo amore per il nerazzurro. Ecco cosa ha risposto alla conduttrice, che è anche la compagna di Piersilvio Berlusconi:
-Tifo importante per l'Inter fin da bambino?
Sì, perché papà è stato tifoso dell'Inter. Vedevamo le partite insieme. Quelle che trasmettevano allora e mangiavamo il pane casereccio con olio e sale. Per me oggi, che le vedo con Davide, è un po' un modo per stare insieme a mio papà anche se adesso non c'è più. Sono le cose che rimangono da quando sei piccolo. Ho seguito papà con piacere e mio figlio sta facendo questo con me. Anche Stefano, l'altro mio figlio, mi ha scritto dagli States, aveva visto la finale di Supercoppa, il gol di Sanchez all'ultimo secondo.
-Quanto eri felice?
Si soffre, si gioisce. Il calcio è così.
-Io non tifo per una squadra in particolare quindi non lo so?
Ma sei pazza? Tu non puoi dirlo, ti diseredano. Tu devi tifare Milan, perché devi percepire la tua quota. Finirai in miseria.
-Ma Monza casomai...
Finirai alla Caritas. Devi tifare Milan, non ti pigliano più ad Arcore, fingi, che te frega.
-Non me la sento...
Pagherai questa sincerità nella tua vita. Io lo so come sono fatti quelli lì. (ride.ndr)
Per Bonolis un video messaggio dell'ex portiere nerazzurro, Walter Zenga. Di lui il conduttore ha detto:
«Grandissimo atleta, ma anche uomo molto brillante. Bella testa. Secondo me se gli capita la squadra buona è anche un grande allenatore. Mi auguro che possa fare la carriera che merita».
(Fonte: Mediaset-Verissimo)
Adriana Volpe contro Sonia Bruganelli: “Può dire quello che vuole perché fa di cognome Bonolis”. Scontro tra Sonia Bruganelli e Adriana Volpe al Grande Fratello Vip. Volpe alla collega: “Ha parlato la Marchesa del Grillo, che tanto può dire quello che vuole, perché il cognome è Bonolis”. A cura di Daniela Seclì su fanpage.it il 22 gennaio 2022.
Al Grande Fratello Vip, Alfonso Signorini ha voluto fare chiarezza sul battibecco avvenuto in settimana tra Sonia Bruganelli e Adriana Volpe. La prima, in un'intervista rilasciata al settimanale Chi, ha accusato bonariamente la "collega" di seguirla ogni volta che lei si alza per andare a parlare con un autore. Adriana Volpe si è offesa. Ne hanno parlato in studio.
Adriana Volpe ha preso la parola: "Ha detto che la seguo come se fossi la sua cagnolina. Ha parlato la Marchesa del Grillo, che tanto può dire quello che vuole, perché il cognome è Bonolis. Peccato che non hai l'ironia di tuo marito, non ti ci avvicini proprio". Sonia Bruganelli l'ha invitata a non esagerare: "Non scadere su queste cose. Mio marito non c'entra niente". Poi, ha aggiunto che spesso ironizzano sul fatto che si contendano l'autore e per questo non comprende la sua reazione. Adriana Volpe non è sembrata disposta a chiarire: "Andiamo avanti col programma, non sono qui per parlare di questo. Ma voi che siete qui, avete mai visto che la seguo? Poi, io ai miei amici ho anche detto che era bella in copertina. Non mi importa. Marchesa del Grillo mi inchino a lei. Così abbiamo fatto e andiamo avanti con il programma". Sonia Bruganelli ha concluso: "Non ho parole".
Nell'intervista rilasciata al settimanale Chi, Sonia Bruganelli ha detto di Adriana Volpe: "Vorrei rassicurare la Volpe che quando siamo in studio e parlo con un autore o uno dei presenti, lei non deve seguirmi perché magari pensa che io possa aver scoperto chissà quale segreto. Sembra mio fratello minore, col quale litigavamo per avere le attenzioni di nostra madre. Solo che lei potrebbe essere la mia sorella maggiore per questioni anagrafiche. Adriana stai serena…". Volpe aveva replicato piccata: "Brava Sonia, hai ragione: tu rispetto a me sei piccola, piccola piccola…e non mi riferisco ovviamente né all’età né all’altezza. Di grandi ci sono solo le bugie che dici e le libertà che ti prendi".
Paolo Bonolis mi ha aiutato così, la Bruganelli senza segreti. Francesco Fredella su Il Tempo il 24 gennaio 2022.
Parla la Bruganelli, moglie di Bonolis e opinionista del Grande Fratello Vip. Adesso racconta tutto senza segreti e senza filtri. Parla anche della sua carriera facendo una vera e propria operazione rewind. "Tutti pensano che mi abbia aiutato perché io volessi diventare famosa. Mi ha aiutato in un altro campo che era quello della produzione televisiva", Sonia Bruganelli - produttrice tv e moglie di Bonolis - si racconta a RTL 102.5 News. "Paolo Bonolis mi ha aiutato nel campo della produzione televisiva".
Durante l'intervista in radiovisione, l'opinionista di Signorini parla del suo primo incontro con Bonolis. "L'ho conosciuto in tv", dice. Per loro la tv è stata galeotta. Sonia, in passato, ha posato come attrice di fotoromanzi sul settimanale Grandhotel. "Per mantenermi all’università facevo fotoromanzi, nell’ultimo anno di università l’ho conosciuto perché ho fatto delle promozioni nel suo programma”, racconta. E poi la passione per il piccolo schermo: "Ho avuto la fortuna che, appena diplomata, è uscita la nuova facoltà di Scienze della Comunicazione, non sono riuscita a entrare alla prima ondata, poi ho avuto la fortuna di poter studiare e iniziare a lavorare nel settore che mi piaceva, grazie all’incontro con quello che poi è diventato mio marito".
Amata e odiata. Sicuramente imitata. Insomma, Sonia Bruganelli come opinionista spacca in due il pubblico. “Io cerco di essere un pochino normale, di dire quello che penso, credo che sia il motivo per cui Alfonso Signorini mi ha voluto lì, essendo un amante dei cambiamenti delle persone, un pochino tutti siamo influenzabili, ogni tanto provoco cercando di pungolarli un po’, questa cosa può piacere o no. In realtà sono dell’idea che non siamo tutti uguali”, racconta. E poi chiarisce la sua posizione sul Grande Fratello Vip: “Il 14 marzo finisce tutto, è quello che continuo a dire ad Adriana Volpe. Torno a fare la mamma!”.
Davide Desario per leggo.it il 9 giugno 2022.
«Io non sono cattiva, è che mi disegnano così» diceva Jessica Rabbit. E a Sonia Bruganelli sta a pennello. Lei, dopo una laurea in Scienze delle Comunicazioni riesce a farsi largo nel mondo dello spettacolo ma lontano dai riflettori come imprenditrice, sposa il conduttore Paolo Bonolis, ha tre figli (Silvia di 19, Davide appena maggiorenne e Adele di 14) e un po' per gioco, sicuramente all'improvviso, si è ritrovata negli ultimi tempi a diventare una di quei personaggi che dividono quell'Italia appiccicata al piccolo schermo come opinionista del Grande Fratello e al grande cellulare per i suoi post su Instagram. Quando fai il suo nome la gente sgrana gli occhi, pochi dicono di amarla ma alla fine tutti vogliono farsi gli affari suoi.
Ma, insomma, chi è Sonia Bruganelli?
«Una donna di 48 anni che fa l'imprenditrice divertendosi. E si diverte davvero. Ma non si prende mai troppo sul serio».
E, invece, chi si crede di essere?
«Bella domanda (fa qualche smorfia mentre ci pensa ndr). Non lo so. Devo ancora capirlo. Forse se lo sapessi non starei qui a fare questa intervista».
Ma è la Bruganelli che è divisiva o gli altri che sono pecoroni che seguono il pensiero unico?
«Io sono una molto divisiva. Per un motivo semplice: sono una persona coerente, dico quello che penso. Ma siamo circondati da persone che dicono una cosa, ne pensano un'altra e ne fanno un'altra ancora. C'è un'ipocrisia dilagante. Siamo sotto una dittatura del politically correct. Basti pensare ai tanti che per anni hanno accusato i politici per il loro finto comportamento ma poi nel proprio privato anche loro fanno e dicono la cosa più conveniente».
Lei no?
«Guardi io sono un'imprenditrice soddisfatta della propria vita. Non ho bisogno dell'approvazione altrui né di monetizzare nulla e infatti sui miei profili non troverete mai della pubblicità. Io non cercavo visibilità, ma tempo fa, d'estate quando certi giornali non sapevano cosa scrivere si sono attaccati a un mio post e complice la mia popolarità per osmosi mi hanno catapultato al centro dell'attenzione social. Ma io rispetto ad altri personaggi sono libera di dire quel che penso. E forse è questa la cosa che più dà fastidio».
Come quando ha difeso Elisabetta Franchi dagli attacchi social. Ma perché lo ha fatto?
«Ho voluto difendere la libertà di un'imprenditrice di scegliere con chi cimentarsi nella realizzazione di un progetto che magari richiede un impegno e della disponibilità eccezionali. Credo sia normale. Anche io quando preparo qualcosa di impegnativo faccio patti chiari con i miei collaboratori. Chi non se la sente o ha altre priorità deve dirlo subito, altrimenti diventa faticoso per loro e un problema per me. La Franchi credo volesse dire questo. L'ha espresso molto male e forse ha scelto l'occasione meno opportuna. E poi dipende tutto dalle persone».
In che senso?
«Non credo agli imprenditori tutti sfruttatori, ai dipendenti solo vessati, alle donne sempre e solo vittime di forme di violenza. Io credo che ci siano imprenditori bravi e altri infami, lavoratori eccezionali e altri che se ne approfittano, donne che devono lottare per farsi rispettare e ottenere quel che giustamente spetta loro ma tante altre che si approfittano della debolezza di certi uomini per fare carriera e ottenere quello che non meritano».
Prevedo una nuova shitstorm per lei.
«Ma che cos'è una shitstorm? Suvvia. E' una valanga di insulti che spesso provengono da profili falsi. Dura due giorni e poi finisce tutto».
Non crede però che molti vip, pseudo-vip e influencer usino il loro esercito come clava contro chi li critica? Non crede che questo possa togliere ad un giornalista la libertà di espressione?
«Se hai paura di una shitstorm di questi tempi forse allora è meglio che non fai il giornalista. L'importante è che dici la verità o che sai argomentare le tue critiche».
Comunque anche lei ha tanti follower, 765mila, e quindi tanto potere.
«Ho tanti follower ma pochi like. Quindi poco potere. Mi seguono per farsi gli affari miei anche se non condividono quel che posto. E si guardano bene dal mettermi i like».
Tipo il volo privato, il baule di Vuitton e il caffè da Chanel?
«Che palle. A me piace il bello. Lo vivo e lo posto senza bisogno di piacere agli altri. Gli influencer invece fanno finta di essere semplici per far credere che chiunque potrebbe essere come loro. Poi però scopri che si fanno il culo in palestra, non mangiano per essere magri, spendono in vestiti ma di nascosto. Ritorniamo alla schiettezza e alla coerenza».
Ma quindi alla fine questi social sono un bene o ha ragione suo marito che possiede un telefonino antidiluviano?
«Ho ragione io. Paolo può non avere i social perché al suo fianco ci sono io che gli cerco la foto, che rispondo a messaggi, che scrivo email. Troppo facile così. I social esistono e non se ne può più fare a meno. Hanno modificato moltissimi aspetti della vita. Anche il modo di fare televisione. Ormai più del programma interessa il backstage, come viene realizzato. Io per esempio per la prossima stagione sto cercando un presentatore e ho lanciato un casting pazzesco sui social».
E come è andato?
«Mille adesioni in pochi giorni».
Uno su mille ce la fa?
«Sì. La prima selezione l'hanno superata in 200. Il 25 giugno ci sarà la seconda selezione a Roma. Ne resteranno solo 50. E quelli li valuteremo uno a uno io e il mio staff».
Cosa c'entra tutto questo invece con il suo programma di libri?
«I libri di Sonia è una trasmissione nata per caso. Mi piace molto leggere e volevo raccontare i libri che mi piacevano. Poi man mano è cresciuta. E ho ospitato grandissimi scrittori come Sandro Veronesi, Chiara Tagliaferri, Teresa Ciabatti. Prossimamente anche Cotroneo e Lagioia. Insomma, tanto stronza evidentemente non sono».
Chi l'ha sorpresa?
«Veronesi su tutti. Aveva appena vinto il suo secondo Strega. Durante la trasmissione sono solita regalare all'ospite un libro scritto da uno sconosciuto. Tutti ringraziano, dicono che lo leggeranno e poi lo lasciano sulla sedia. Anche Veronesi l'ha fatto. Solo che poco dopo ha chiamato dal taxi per scusarsi ed è tornato indietro a riprenderlo. Ecco, questa è la differenza tra le persone».
E chi l'ha delusa?
«Vuole che le faccia dei nomi?».
Certo.
«Non glieli faccio. Non posso stare sempre a litigare. Però le posso dire che trovo inelegante e scorretto chi scrive e rivela particolari di una persona che non c'è più e quindi non può replicare».
Sbaglio o non parla mai di politica. Ha paura?
«Non ne parlo perché non ne capisco nulla. Sono ignorante in materia. Posso dirle che tanti anni fa mi appassionò la discesa in campo di Berlusconi. Ma poi con il passare degli anni un po' sono arrivati altri interessi, un po' capisci come vanno certe cose e alla fine mi sono disaffezionata. Come con la Roma».
E ora che c'entra la Roma?
«Quando nel 1983 la Roma vinse lo scudetto ero una tifosa sfegatata, sapevo la formazione a memoria. Oggi non le saprei dire nemmeno il nome di un calciatore. Non mi interessa più».
Ok, niente politica e niente calcio. Però con Padre Pio tatuato sull'avambraccio non vorrà mica negare di avere fede?
«Sono sempre stata una credente non praticante. Ho sempre e solo pregato quando avevo paura, bisogno. Direi una pessima credente. Poi però la notte prima che mia figlia doveva affrontare la seconda operazione al cuore ho avuto la visione di Padre Pio, nitida, davanti a me. Sa, come vanno queste cose... uno dice se va tutto bene mi tatuo Padre Pio. La mia Silvia sta bene e Padre Pio è sul mio avambraccio».
Luca Valtorta per “Robinson – la Repubblica” il 6 dicembre 2022.
È tutto un dileguarsi di alberi, fattorie, fiumiciattoli, cespugli ma anche, inevitabilmente, case e persino centri commerciali. E poi ancora ponti, silos, prati e ancora alberi, alberi, alberi, scheletriti dal pur tardivo autunno. E un cielo che sa costantemente di pioggia forse anche quando c'è il sole, come adesso, che sporca di rosa nuvole solitarie anch' esse in viaggio.
Arrivando da Roma in treno già si capisce perché questa è zona dove "come piove bene sugli impermeabili". Però se bastasse questo a fare un Paolo Conte, Asti ne sarebbe piena. E invece ce n'è uno e uno soltanto, riuscito a fare di una provincia un orizzonte così ampio che è quella stessa provincia a colonizzare gli immaginari più diversi alle più lontane e imprevedibili latitudini: Vienna, Brasile, Cuba, Messico, Parigi e ancor più in là. Migliaia e migliaia di chilometri e di tour che neanche Bartali.
A raccontare per il mondo una provincia fatta di perdenti e di Mocambo, il locale metafora di tutti i fallimenti possibili che nell'epopea di Conte ritorna come un fantasma, forse triste, ma che sa di aver vissuto ed è disposto a pagare pegno. Eroi di un tempo, mondi lontanissimi. Sobrio palazzo con una porta di legno e una targa sul lato sinistro: "Avvocato Conte", recita. «Lo gradisce un caffè?», chiede con gentilezza inusuale, alzandosi per stringere la mano, elegante come solo lui può, ma anche inaspettato con un paio di pantaloni ocra e un maglione a girocollo grigio scuro.
Si risiede a una scrivania piccola e antica: «Questa è la casa di famiglia», spiega, «l'aveva fatta costruire nel '30 mio nonno quando qui dopo la piazza c'erano solo campi, ma lui aveva già intuito che Asti si sarebbe espansa verso Nord».
Allora qui c'è proprio la memoria. Si sente?
«Oh sì, incombe eh, incombe. Mi guardano, mi controllano (ride)».
Com' è una giornata di Paolo Conte?
«Disegno, dipingo, ascolto molta musica classica, soprattutto alla sera, o qualche vecchio disco di jazz».
E suona immagino.
«Una volta suonavo tutti i giorni, adesso non più. Ho suonato così tanto adesso preferisco fare le cose a cui ho potuto dedicare meno tempo».
Tra poco lo farà su un palco d'eccezione: il 19 febbraio è stato invitato a suonare alla Scala di Milano: è la prima volta che viene chiesto a un cantautore....
«È un grande onore, la Scala è uno dei teatri più importanti al mondo, universalmente considerato un tempio della musica. Per l'occasione realizzerò una scaletta speciale: sarà una sorpresa».
La Scala è famosa anche per un pubblico di persone competenti, in particolare i famosi "loggionisti".
«Appassionati, impetuosi, gente che si riunisce a tavola e discute animatamente: un pubblico caldo con molte donne e giovani. Un tempo uno dei loggioni più severi era quello di Parma e poi veniva quello di Asti che, come si sa, è una città abbastanza chiusa che non si esprime molto. Probabilmente era il retaggio di esser stata la città di Vittorio Alfieri con prime di spettacoli di livello internazionale: bisognerebbe proprio farla una storia dei loggioni, sarebbe interessante».
Se non sbaglio "Dal loggione" era proprio la canzone che lei aveva dedicato alla presunta "zia di Benigni". Mi sembra fosse il premio Tenco dell'81.
«Ah sì, certo, perché lui aveva fatto la canzone dedicata a mia moglie, "A me piace la moglie di Paolo Conte" e così ho dovuto ribattere (ride)».
Tutto improvvisato al momento.
«Assolutamente: era una di quelle cose che succedevano al Tenco negli anni d'oro».
Ha risposto con una canzone bellissima piena di romanticismo e al tempo stesso d'ironia.
«Ho cercato di parare il colpo».
Anche perché c'erano molti significati in quel pezzo «Un pochino sì». Il testo diceva : "Su, su dal loggione io ti osservo/ Bella/ Che tuo marito ne è superbo": da lì con Benigni nacque un sodalizio e un'amicizia: vi vedete?
«Di persona non tantissimo, ci siamo però telefonati e scritti molto, soprattutto per motivi di enigmistica di cui siamo tutti e due appassionati ed esperti».
Sapevo di lei ma non di Benigni.
«Ci completiamo perché io sono più un autore, di rebus soprattutto e di crittografie, mentre lui è un solutore velocissimo. Una volta avevo creato un gioco molto difficile e dopo mezz' ora è arrivata la sua risposta. L'enigmistica è un mondo interessantissimo in cui gli autori hanno nomi di battaglia come Maga Circe o Dragomanno. Una volta una signora mi ferma per strada e mi dice: "Sono la Maga Circe, facciamo due chiacchiere?". A casa mia la Settimana Enigmistica è una presenza dai tempi della guerra, la compravano mio padre e prima di lui mio nonno. Mi ricordo da bambino mio fratello che ce l'aveva sempre in mano: ogni volta che arrivava era una piccola festa».
Che intelligenza ci vuole per risolvere rebus e affini?
«Non so se è intelligenza, di sicuro in chi crea giochi linguistici c'è una sorta di ossessione nell'incastrare le sillabe e da lì far venir fuori dei significati diversi, che poi il significato dell'enigma è il doppio senso. Ma ci sono anche cose meno a incastri e più mnemoniche, o anche, a volte, più fantasiose: le più difficili».
Conoscerà Bartezzaghi.
«Come no? Una volta gli avevo scritto una lettera per altri motivi con una frase finale che diceva: "Film blasfemo".
Nella risposta sembrava non ci fosse nulla a riguardo, poi mi accorgo che dietro c'era la soluzione: "Proiezione offensiva di Chiesa". Perfetta. Chiesa sarebbe il giocatore di calcio, non quello di adesso, ma suo padre Enrico che era già un grande giocatore».
Utilizza questo linguaggio anche nella composizione?
«Qualche volta l'ho usato. In Sotto le stelle del jazz per esempio quando dice "non si capiva il motivo", che significa anche "non si capiva il perché"».
C'è anche una citazione nel finale di questa sua passione: "Nel tempo fatto di attimi/ e settimane enigmistiche". La bellezza dei testi sta anche nel fatto che spesso sono enigmatici. Per esempio, Gino Paoli, mi raccontava che "Il cielo in una stanza" parlava di un... orgasmo! E anche una delle sue canzoni più belle e più famose, "Azzurro", si presta a diverse interpretazioni
«Un po' l'avevo intuito (ride) No, Azzurro non ha questo tipo di retrosignificati, è molto più pudica».
C'è una cosa che mi chiedo da quando sono bambino a riguardo, ovvero quel verso pieno di poesia che dice: "Stanno innaffiando le tue rose/ il leone chissà dov' è".
«Il protagonista si trova nel giardino di casa sua dove cerca di farsi compagnia con dei ricordi da bambino, l'oratorio, le domeniche ma si annoia e allora si immagina "un po' di Africa in giardino/ tra l'oleandro e il baobab" ma lo disturbano e così il leone non appare».
Tra "stanno innaffiando le tue rose" e il "leone chissà dov' è" c'è però anche un senso di mistero che funziona a livello non razionale ma emotivo.
«Sì, certo. Non è per niente razionale: sono immagini. Le immagini, il paesaggio mi hanno sempre interessato molto anche dal punto di vista etnico: in Diavolo rosso, in Genova per noi, un certo paesaggio nasconde anche i suoi abitanti, il loro modo di essere».
Con Paoli vi conoscete?
«Poco. Ci siamo incontrati in qualche trasmissione. Mi ricordo però una volta la faccia che aveva fatto al Tenco quando un intervistatore fece la fatidica domanda: "Ma voi cantautori siete anche dei poeti?". Di solito tutti rispondevamo cose come: "Sono due arti diverse", "La poesia ha le sue regole", "La musica è un'altra cosa", invece quella volta mi venne da rispondere : "Sì. Siamo dei poeti". E lui fece una faccia come per dire: "Che coraggio che hai avuto" ma anche di contentezza che significava "Finalmente, diciamolo!"».
De Gregori si stizziva quando lo chiamavano poeta.
«Ma anch' io lo avevo detto tante volte, in effetti sono due arti diverse: con la poesia parti da un foglio bianco da riempire, con la musica invece hai degli appigli per far le rime e poi nella poesia sei solo».
Dopo che a Bob Dylan è stato tributato il premio Nobel “per forza visionaria e intensità poetica”, De Gregori è in minoranza. A proposito, è vero che lui era preoccupato di aver rovinato la sua “Un gelato al limon”, quando l’ha rifatta insieme a Lucio Dalla nel tour e poi nel disco di “Banana Republic”?
«Io e mia moglie stavamo andando a un ristorante a Roma e già da lontano vediamo anche lui con sua moglie che si sbraccia dicendo: “Perdonami, perdonami”. Aveva paura di averla tradita perché ne aveva fatto una versione più rock ma io ero contentissimo: hanno sicuramente contribuito a farla conoscere. Ci siamo sempre voluti bene: è un ragazzo dolce. E voglio aggiungere che tra Dylan e De Gregori qui scegliamo De Gregori!».
I suoi primi due album, pur bellissimi con pezzi come “Onda su onda”, “ La Topolino amaranto”, “La ricostruzione del Mocambo”, “Genova per noi”, non ebbero subito successo. Bisogna proprio arrivare a “Un gelato al limon” con pezzi come “Bartali”…
«I primi due li ho fatti appunto con la RCA a Roma mentre il terzo l’ho fatto a Milano con un altro direttore artistico, Nanni Ricordi, per provare un’altra strada. Era il ’79».
Nel frattempo al Premio Tenco aveva ottenuto grande gradimento.
«Sì ho vinto tanti premi, avevano addirittura fatto la “giornata contiana”».
Il Tenco veniva considerato la riserva indiana della sinistra mentre lei non è mai stato schierato.
«Sì io non sono mai stato schierato, non mi interessava proprio ma sono sempre stato accolto molto bene: una volta mi hanno fatto una sorpresa. Mentre stavo suonando Sudamerica sono saliti sul palco De Gregori, Fossati e Benigni che ha preso le maracas e faceva la scimmietta. Quando con la coda dell’occhio li ho visti avvicinarsi mi son detto: “Cosa vogliono questi?”».
Si dice che la cosa più bella del Tenco fosse quello che succedeva dopo l’esibizione ufficiale: è vero?
«Dominava la goliardia con bottiglie di Rossese a go-go, barzellette, follie: i fondatori Amilcare Rambaldi e “Bigi” avevano quello spirito lì. Guccini poi era l’istigatore, il capo carismatico. Era davvero formidabile: aveva una resistenza incredibile, poteva andare avanti fino alle otto del mattino quando gli altri si alzavano».
E lei?
«Io stavo lì una mezz’oretta e poi me ne andavo a dormire (ride)».
Da buon piemontese. Ritorniamo un attimo al passato: i suo genitori suonavano ma suo padre faceva il notaio. Dove avevano imparato?
«Mio padre era un ottimo pianista, mia madre era un po’ meno brava ma era uno spirito artistico. Entrambi avevano studiato privatamente. Io e mio fratello amavamo ascoltarli, glielo chiedevamo noi la sera di suonare. Nel periodo in cui il fascismo lo proibiva loro riuscivano a procurarsi dei dischi americani, francesi delle partiture, non so bene come…».
A proposito, il jazz a lei come è arrivato?
«Con l’ascolto dei dischi: una folgorazione».
Che dischi erano? Ce li ha ancora?
«Erano 78 giri: li ho tutti qui di sopra. Nonostante il fruscio che può dare un po’ fastidio, mi hanno spiegato che dal punto di vista del suono sono superiori a qualsiasi supporto perché la velocità di 78 giri è equivalente all’onda musicale e le matrici erano nate proprio a 78 giri. Costavano 700 lire: un bel po’!».
Dove li comprava?
«A Torino c’erano dei negozi molto belli».
C’era qualche disco che l’aveva colpita?
«Ne ricordo due che mi aveva regalato mia mamma: uno era del trio di Benny Goodman e l’altro di Sidney Bechet.
E poi avevo trovato in solaio un disco di Fats Waller che probabilmente apparteneva a mio padre e da lì è nata una passionaccia per quei pianisti lì».
Ma i suoi cosa dicevano del jazz?
«Un po’ di jazz, quello suonato con swing, non quello improvvisato, lo praticava anche mio padre. Era più prudente sulle avanguardie che erano più disordinate dal punto di vista che poteva avere uno come mio padre ai tempi. E allora si tirava un po’ indietro».
Credo che anche a lei il free jazz non piaccia molto…
«Io da grande appassionato ho seguito tutta la storia del jazz. Ma per me le vere meraviglie erano all’inizio, negli anni ’20. Penso alla rivoluzione arrivata con Louis Armstrong o Jelly Roll Morton, con cui davvero si passava da un tipo di musica a un’altra. Poi sono arrivate forme jazzistiche che si sono concentrate nel ’45 con il be-bop, la seconda ondata. E da lì in poi una caduta continua».
Quel mondo veniva cantato dai poeti della beat generation, Kerouac ha anche scritto un libro intitolato “Scrivere Bop”. Lei però non è mai stato influenzato da quel mondo: anche se entrambi magari parlate di viaggi, per esempio, lo fate però in modo diverso…
«È vero. Per loro il viaggio era la ricerca della libertà in un territorio immenso come quello americano».
Ma ai tempi li aveva letti?
«Avevo letto un po’ di Kerouac e un po’ di Ferlinghetti. E, anche se non del tutto associabile a quel mondo, mi era piaciuto molto John Fante: aveva una gran classe. Credoche abbia influenzato parecchio anche Dylan».
Beh, Dylan è famoso per aver preso molto da svariati artisti e, come dice lui, aver poi “riportato tutto a casa”, creando qualcosa di nuovo. Un po’ come ha fatto lei che ha preso il jazz dagli Stati Uniti e l’ha portato ad… Asti.
«Sì, è un bel viaggetto anche quello (ride)».
Eravate considerati dei marziani?
«Devo dire che Asti, nella sua profonda provincialità, ha dato più musicisti jazz di altre città molto più grandi. Da qui sono venuti fuori Gianni Basso, Dino Piana, Giancarlo Pillot. Ragazzi di non grandi possibilità economiche, non erano degli studentelli ma gente a cui toccava la scelta tra fare l’orchestrale in provincia o correre un rischio ancora maggiore con il jazz che allora non aveva un circuito ben definito. Sono stati molto coraggiosi a scegliere il jazz».
Perché allora secondo lei il jazz proprio ad Asti?
«Ad Asti non c’è mai stato nessun poeta, nessuno che abbia mai scritto cose un po’ dolci. Solo tragedie, come l’Alfieri. Siamo tagliati con la scure. Quella del jazz è una scelta di quel tipo lì, tranchant: scegliamo una musica difficile e facciamo che è tempo di capirla».
Anche “le donne odiavano il jazz/ non si capisce il motivo”. Poi l’ha capito?
«Di fronte a un’automobile un uomo spesso vuole capire come funziona il motore. Alle donne il più delle volte interessa la carrozzeria. Il jazz era una musica da smontare per trovare i punti di raccordo delle armonie, dei ritmi, delle melodie: il nostro era quasi un gusto da meccanici. Il jazz era spigoloso soprattutto in un tempo in cui andavano di moda le melodie, le voci tenorili e una certa idea di romanticismo. Però approfitto per spezzare una lancia in favore delle vecchie canzoni italiane che ci davano fastidio per gli interpreti di estrazione lirica, un po’ dolciastri con testi molto banali. Ma le musiche degli anni ’30-’40 erano magnifiche, non avevano nulla da invidiare alle canzoni francesi o del Sud America».
Qualche esempio?
«A Milano c’era Giovanni D’Anzi (autore diO mia bela Madunina, ndr) che è stato un grandissimo, basti pensare aMa l’amore no che ha un veleno dentro che poche canzoni hanno: e poi c’è un accordo stregato... A Roma invece c’era Cesare Andrea Bixio (Parlami d’amore Mariù, Violino tzigano, ndr) che era molto prolifico».
Nelle sue canzoni invece il veleno è poco.
«In qualcuna c’è, ma non dico in quale».
E quanto jazz c’è invece nella sua musica?
«In realtà sono più le parole che ne parlano che non la musica: il jazz è più che altro un ricordo del passato, un modo per cercare dei personaggi».
Che spesso sono perdenti.
«Beh sì, tutta la saga del Mocambo parla dell’eroe perdente: l’uomo del dopoguerra che sognava più in grande di quanto fossero le sue disponibilità economiche ed era destinato al fallimento. Ma era un bell’uomo, ci sapeva fare, era simpatico. In America la faccia più vicina a questo tipo era Humphrey Bogart che a quanto ho letto poi era molto intellettuale».
E in Italia c’era qualche personaggio di questo tipo?
«Per me una faccia da Mocambo era Franco Fabrizi che ha lavorato in molti film di Fellini in ruoli minori».
Immagino che da giovane riscuotesse grandi successi.
«Come un po’ tutti gli artisti».
Vinicio Capossela ha scritto che uno dei fulcri della sua opera è dedicata al racconto del “grande enigma dei rapporti tra uomini e donne”. È vero?
«Per me la musica stessa è sostanzialmente donna. Io risalgo sempre ai miei anni giovanili: noi non avevamo, come è successo dal ’68 in poi, un dialogo con il mondo femminile, eravamo separati. Per noi era un mondo immaginario e misterioso, ma ne sentivamo il fascino, la forza. E forse un po’ di questo è rimasto nelle canzoni. E poi la musica stessa è sensuale. La sensualità è sempre stata lì per me: nella donna, nell’arte…».
Non a caso lei ha dedicato “Un gelato al limon” a sua moglie. Diceva: “La sensualità delle vite disperate/ ecco il dono che io ti farò”. E anche: “Donna che stai entrando nella mia vita con una valigia di perplessità”. Queste perplessità sua moglie le ha poi vinte?
«Mmmm, no è rimasta ancora perplessa (ride)».
Immagino riguardassero un po’ il lavoro dell’artista, vagabondo sempre in giro…
«Non è detto comunque che una canzone contenga per forza una confessione sincerissima: si costruisce come un romanzo, come un film, per cui mi stava bene questo momento di perplessità che coglie questa donna».
Ma il mistero resta?
«Assolutamente sì, anche se forse non vale al contrario».
Torniamo all’eleganza…
«Da giovane ci tenevo molto, lo ammetto. Mi piaceva un bel vestito, una bella giacca. Un tempo li chiamavano i “gagà”, gli “elegantoni”. La città dove ce n’erano di più però era Roma: avrebbero ucciso per una cravatta!».
Dove comprava i vestiti?
«In giro per il mondo».
Lei è uno dei pochi ad avere un seguito all’estero.
«Ho sempre detto che ho un piccolo pubblico ma in molti paesi: mettendolo tutto insieme diventa grande».
Però ha scelto di rimanere sempre qui ad Asti. Non ha mai pensato di trasferirsi in un posto caldo, che so, il Messico, oppure a Parigi dove la adorano?
«No. Forse a Parigi un briciolo ma non di più. Forse per pigrizia. Non ho neanche un attaccamento particolare con la mia città che però rimane un po’ la cuccia. In realtà non ho un grande interesse per le città, soprattutto poi vedendole cambiare e modernizzarsi».
Già in 900 lei cantava “che decadenza la realtà”, figuriamoci oggi…
«Guardi, non so cosa dire: per noi che abbiamo una certa età quello che stiamo vivendo oggi è impensabile».
Durante il lockdown in Italia la gente cantava Azzurro: cosa ha pensato?
«Mi ha fatto molta tenerezza».
Lei ha dichiarato che non ha mai avuto velleità di successo personali.
«È verissimo. Tutto quello che ho fatto, non l’ho fatto per me ma per le mie canzoni».
Grazie mille per la sua gentilezza.
«Grazie a lei per essere venuto fin qui. Ci diamo del tu, dai? Ti auguro buon viaggio».
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 14 Giugno 2022.
Il camerino nel backstage dell'Auditorium Parco della Musica di Roma, dove domenica e ieri sera si è esibito sul palco della Cavea di fronte a settemila spettatori complessivi (entrambe le date erano sold out), è un via vai di amici, giornalisti, addetti ai lavori.
Tutti in fila per rendere un tributo al cantautore baffuto che ha cambiato faccia alla canzone italiana con quel suo modo di rendere universali storie di provincia e di trascinare con le parole e con le note gli ascoltatori in una dimensione nuova, per tre minuti o poco più.
Azzurro («Rimane una canzone importante e non l'ho mai dimenticata», dice del successo scritto per Celentano il geniaccio astigiano), Insieme a te non ci sto più, La Topolino amaranto, Gelato al limon (dedicata alla moglie Egle, che conobbe nel 1975 e dalla quale non si è mai separato), Sparring partner, Via con me: parla per Paolo Conte il suo repertorio.
A 85 anni, nonostante la stanchezza, l'Avvocato che ha lasciato le campagne di Asti a marzo per affrontare un'altra tournée con orchestra non si nega. Più che un orso solitario, burbero e inquieto, come molti lo definiscono, appare tenero, gentile e disponibile, mentre accetta di raccontarsi ancora una volta.
Ha pensato di appendere il microfono al chiodo?
«Sì. Ma c'è questa signora (indica la manager Rita Allevati, ndr) che la pensa al contrario di come la penso io. Però adesso che finisce il tour (l'ultima data è in programma il 26 giugno al Lucca Summer Festival, ndr) voglio riposarmi. Non ho più tanta voglia di musica. Una volta passavo tutte le mattine al piano. Adesso da due anni non tocco la tastiera.
Per fortuna che c'è la pittura, una mia vecchia passione, addirittura più antica della musica. Dipingere mi rilassa, la musica mi tiene in tensione».
L'ha detto anche Guccini: «La musica non la sopporto più».
«Lo capisco. Il fatto è che abbiamo lavorato tanto, troppo: quando è così, senti il serbatoio che si esaurisce».
Quindi? Meglio smettere?
«Sì. Provi a scrivere, ma non esce fuori nulla».
Forse perché si avverte il peso del confronto con un passato ingombrante? Perché le nuove canzoni non sono all'altezza dei classici?
«Non faccio neanche una questione di questo tipo. È che è proprio difficile concepire canzoni nuove. È come provare ad arrampicarsi sui vetri».
La forza e l'energia per affrontare questa nuova tournée dove l'ha trovata?
«Non lo so neanche io. Mi stanco. E mi stanco molto più di prima. Ho accettato di fare queste date perché erano in sospeso da due anni, da prima della pandemia. Andavano recuperate. Anche per amore del pubblico: quando lo incontro riesco ancora ad emozionarmi, dopo tutti questi anni».
C'è sempre un affetto speciale e forse anche esagerato nei suoi confronti, testimoniato in questi ultimi tempi anche da operazioni celebrative come il film Via con me (presentato a Venezia nel 2020) e l'omonimo libro (appena uscito per Sperling & Kupfer) di Giorgio Verdelli. Uno come lei, notoriamente schivo, non si sente in imbarazzo di fronte a questo tipo di venerazione?
«Un po' sì. Non so neppure se me lo merito, tutto questo affetto. Forse il pubblico è troppo buono nei miei confronti. Però un motivo ci sarà, se c'è questo tipo di venerazione nei miei confronti. Magari è nascosto nella musica che scrivo».
Le capita mai di essere fermato per strada da fan che le chiedono selfie?
«Sì. I selfie li trovo terribili, insopportabili».
Si è mai negato?
«Approfitto di scuse per scappare: Ho un aereo, mi spiace ma non posso perdere tempo. I fan sono simpatici, ti fanno sentire importante. Ma a volte sono inopportuni».
Un episodio imbarazzante che ha vissuto con un fan?
«Una volta uno mi chiamò con un altro nome, Febo Conti. Un personaggio della radio e della tv italiana degli Anni 50».
Evidentemente non era un fan.
«Era un signore anziano, un po' confuso. Feci finta di niente».
Dove sta andando la musica italiana?
«Non lo so, ahimè. C'è bisogno di un messia che rimetta le cose a posto. C'è confusione».
I nuovi protagonisti della scena, da Achille Lauro in giù, li capisce? La incuriosiscono?
«Non li conosco bene. Mi è capitato di vedere in tv qualcosa, qualche apparizione. Non saprei nemmeno come giudicarli. Dovrei ascoltare i loro dischi».
Ed è interessato ad ascoltarli?
«No. Onestamente non me ne frega niente (ride)».
Cosa ascolta nelle sue giornate?
«Solo musica classica su Sky e vecchi dischi di jazz antico. Louis Armstrong, Art Tatum, Sidney Bechet».
Dell'attualità, invece, cosa pensa? C'è confusione anche nella politica?
«Eccome se ce n'è. Io, onestamente, non so cosa pensare. Non appartengo al presente: sono un nuovo del Novecento, di un'altra epoca. Mi sento fuori contesto, oggi. Questo nuovo secolo è ancora da decifrare. Si farà capire solo tra un po' di tempo».
Cosa pensa quando prova a scrivere qualcosa di nuovo e non esce fuori nulla?
«Ma chi te lo fa fare? Basta così»
Paolo Conte: «Di politica non capisco niente, a 85 anni ho un ottimo rapporto con lo specchio». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2022.
Il cantante e musicista agli Arcimboldi di Milano: «Ho sempre lavorato per difendere l’identità delle mie canzoni. Di me stesso non voglio raccontare niente»
«Torno ancora volentieri sul palco per incontrare i miei musicisti e il mio pubblico: questione di amicizia». Paolo Conte parla così del tour che oggi e domani lo porterà agli Arcimboldi, dove, sulla scia del nuovo album «Live at Venaria Reale», proporrà brani come «Via con me», «Gli impermeabili», «Aguaplano». E l’inedito del disco, «El Greco», dedicato al pittore cretese, maestro del Rinascimento spagnolo, Domínikos Theotokópoulos. «Mi piacciono le sue figure allungate e sparate verso l’alto, i toni metallici della sua tavolozza. Nella canzone alludo anche all’avvenuto transito di folklore nomade, quello degli zingari gitani, dall’Est all’Ovest latino: Spagna, Portogallo, addirittura Sudamerica. Discorso che vale prima di tutto per la musica, ma anche per la pittura».
Compositore per Caselli e Celentano
Lo sa bene, lui, ex avvocato che ama disegnare, leggere gialli, risolvere e inventarsi rebus e crittografie, avvicinatosi al mondo della canzone negli anni 60 componendo per altri. Sua la musica di successi quali «Insieme a te non ci sto più» (Caterina Caselli) e «Azzurro» (Celentano). Fu il produttore Italo Greco, nel ’74, a convincerlo a diventare interprete dei suoi pezzi. È così che sono nate «La Topolino amaranto», «Sotto le stelle del jazz», «Gelato al limon»: dal gusto per le piccole storie in grado di esprimere un’epica, per una ricerca compositiva rigorosa tradottasi in un mix di jazz, swing, melodia e suggestioni esotiche che lo ha reso una star in Italia come in Francia. Ma il carattere è rimasto schivo. «Ho sempre lavorato per difendere l’identità delle mie canzoni, di me stesso non voglio raccontare niente: l’arte è invenzione, non compendio».
«Ho un ottimo rapporto con lo specchio»
È il Conte-pensiero, lo stesso che gli fa dire: «La mania di lanciare “messaggi”, tanto più se politici, non mi ha mai interessato; di politica non capisco niente». E se gli chiedi delle Feste dell’Unità che lo hanno visto protagonista in passato, risponde serafico: «Erano frequentate da persone colte e simpatiche». C’è chi lo ha definito burbero, chi sornione, chi misterioso e sexy. All’età di 85 anni, lui ironizza: «Con lo specchio ho un ottimo rapporto, posso fare tutte le smorfie che voglio». A Milano lo lega la stima per Enzo Jannacci, che incise le sue «Bartali», «Sudamerica», «Mexico e nuvole». «Ho sempre avuto una predilezione per lui, e la percezione che il miglior italiano si scriva, probabilmente, in Lombardia. In Jannacci trovo la mistura tra una carezza antica, anche in musica, e l’improvviso scatto di astrazioni tutte sue. “L’avvenire è un buco nero in fondo al tram”, “anche da lontano si vede, che non mi vuoi più bene” e tante altre invenzioni. Uno dei suoi brani che preferisco è “El me indiriss”». Poi c’è «la malinconia per il tempo andato, gli amici scomparsi, per quell’impalpabile bilanciamento tra il voler ricordare e il non ricordare».
Pigrizia e ozio
Di recente ha confidato di aver perso la voglia di comporre. «Non sarebbe la prima volta che mi metto a riposo, ma non ne soffro, anzi. Ho sempre lavorato. Pigrizia e ozio, che non mi appartengono, mi sono, però, simpatici. Oggi trascorro le mie giornate dipingendo, disegnando, “quasi sognando”, come El Greco».
Paolo Conte: «Nella bara di mamma c’è il testo di Azzurro». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.
Il cantautore: «Io mai iscritto a un partito. La musica entrò nella mia vita grazie a una grancassa rubata all’oratorio»
Paolo Conte, qual è il suo primo ricordo privato?
«Un’aria di Giuseppe Verdi che, incantandomi, mi ha fatto cadere dal cavallo a dondolo, semisvenuto».
E il suo primo ricordo pubblico?
«La notte in cui, finita la guerra, sono ritornate le luci nelle città. La racconto in una canzone, “Nottegiorno”».
Che memoria ha della guerra?
«Una nostra giovane cameriera, di Boves, aveva tre fratelli partigiani. Tre volte una sua vicina di casa le telefonò a casa nostra per comunicarle la fucilazione. Mi ricordo dei frammenti di dialoghi: “Dove lo hanno colpito”, “Ha sofferto?”, “È morto subito?”. Una cosa tremenda».
Fenoglio o Pavese?
«Pavese. Anche se, da astigiano, prendo un po’ le distanze dal suo linguaggio. È un discorso tra indigeni».
Coppi o Bartali?
«La storia dello sport non può che dare la palma a Coppi, il campionissimo. Ma se il naso di Coppi era futurista, aerodinamico, quello di Bartali era più «umano», condivisibile».
Come entra nella sua vita la musica? Nel bellissimo film biografico, suo fratello Giorgio racconta di un’orchestra messa insieme pezzo a pezzo, con la grancassa rubata all’oratorio… lei suonava davvero il vibrafono?
«Ho suonato prima il trombone, poi il pianoforte, poi il vibrafono. Ho anche rappresentato l’Italia nel quiz radiofonico internazionale ad Oslo in Norvegia…».
Quanto arrivò?
«Terzo».
È vero che odiava la fisarmonica?
«La fisarmonica a quei tempi mi sembrava uno strumento troppo popolano, legato al ballo liscio. Solo dopo ne ho scoperto la dolce poeticità»
È vero che a scuola era un disastro?
«Solo in un anno: mi sono preso sei materie ad ottobre. Avevo dimenticato di andare a scuola per rincorrere la musica».
Gelato al limon è dedicato a sua moglie Egle: «Donna che stai entrando nella mia vita…». Come vi siete incontrati?
«All’epoca eravamo già innamorati e sposati. Non è una canzone nata con intento seduttivo».
Tutti pensavamo che Benigni scherzasse quando cantava «mi piace la moglie di Paolo Conte», invece dal film pare che gli piacesse davvero…
«La bellezza di mia moglie è irresistibile».
Da dove viene l’immagine della Topolino Amaranto? Ne ha davvero posseduta una?
«Mai. Però ci sono salito, sulla Topolino. Piccola e molto bella».
Come nasce Azzurro? Andava davvero all’oratorio, oltre che per rubare la grancassa?
«All’oratorio ci andavo da “esterno” per giocare a football, non per rubare grancasse».
È vero quel che si racconta nel film? Che lei depose il testo di Azzurro nella bara di sua madre?
«Sì, è vero».
E che sua madre aveva pianto quando aveva letto le parole?
«Sì. Mia madre diceva che questa canzone era antica e moderna insieme. L’antico era soprattutto nella musica, come una tenerezza d’altri tempi, e proprio in questo sentimento risiedeva anche la sua modernità: era una canzone trasgressiva nell’epoca beat in cui è nata. Capimmo subito che era una canzone vincente. Rimane una canzone importante per me e non l’ho mai dimenticata».
Lei ha scritto pure la musica de La coppia più bella del mondo. Pensava davvero a Claudia Mori e a Celentano? «Il vero amore per sempre unito dal cielo» fu letto come un verso contro il divorzio»…
«Ma io ho scritto solo la musica; con le parole non c’entro. Ero a Roma a dare l’esame di Stato quando arrivò il telegramma di mio fratello: “Probabile Celentano”… Ho saputo, a cose fatte, che con quel testo si festeggiava l’ingresso nel Clan di Claudia Mori».
Com’è il suo rapporto con Celentano?
«Celentano è nato il 6 gennaio 1938, esattamente un anno dopo di me. Affinità elettive? Chi lo sa?».
Pupi Avanti nel film confessa la sua invidia: «Paolo Conte è bello, piace alle donne». Jane Birkin la trova sexy, Patrice Leconte la paragona a Mastroianni…
«Tutte balle».
È vero che al Théatre de la Ville e all’Olympia non canta la strofa sui «francesi che si incazzano»?
«Non ho mai cantato Bartali in Francia. Mi offrirono il privilegio di invitarmi e fu un successo lusinghiero, in un certo senso mi hanno adottato. Nelle mie canzoni non ho mai voluto far passare delle idee particolari. Quello che mi ha sempre interessato è raccontare l’uomo che nel dopoguerra si è rifatto una vita, ma anche quello dei fallimenti. Ai falliti ho offerto una tazza di caffè fumante».
Appunto: chi è il personaggio che ricorre nelle sue canzoni, l’uomo del Mocambo?
«L’uomo del Mocambo è il prototipo dell’uomo del dopoguerra nella frenesia della rinascita, che aveva sogni più grandi delle sue possibilità economiche. Un simpaticissimo eroe perdente».
«Ricordo che la canzone era “Avanti, bionda”. Ma non ricordo altro…».
Come fu il suo esordio sul palco?
«Il mio primo vero concerto forse è stato quello di Verona, organizzato da Enrico De Angelis. Eravamo nell’hangar di una vecchia funivia ristrutturata. Durante le prove avevo posato in terra una bottiglia d’acqua minerale. Entrando poi in scena, nel buio, le ho dato un calcio e si è rovesciata in platea».
Disastro.
«Grande successo».
Come mai non ha mai smesso di fare l’avvocato?
«Ho smesso sì, da tantissimi anni».
Le fece piacere o la infastidì quando Dalla e De Gregori rivisitarono, senza avvertirla, Gelato al limon?
«Francesco mi corse incontro per chiedermi scusa. Ma no! Io ero contentissimo. Del resto l’esecuzione era in perfetta linea con lo stile del loro disco Banana Republic».
Lei sostiene che Jannacci – per cui compose Messico e Nuvole - è stato il nostro cantautore più grande. Perché?
«Mi basta il suo verso «si vedeva anche da lontano che non mi volevi più bene».
«Via con me» è una fuga d’amore? C’è una storia dietro?
«Dietro una canzone ci può essere di tutto. Solo l’autore sa»
Può risolvere almeno il giallo di Onda su Onda? Il protagonista è scivolato in mare dalla nave o l’hanno spinto?
«Mi piace lasciare aleggiare il mistero».
«Nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche…». Lei è davvero appassionato della Settimana Enigmistica?
«Fin dall’infanzia. Ma niente parole crociate; solo i giochi che contengono l’«enigma«, cioè i rebus e le crittografie. Di questi giochi ne ho creati anch’io, alcuni pubblicati su riviste specializzate. Che goduria!».
Quanto conta invece la pittura? Perché dipinge?
«Come perché? Perché mi piace. E’ un vecchio «vizio« nella mia vita, più antico di quello per la musica. Ho un mio stile, le mie tecniche».
Il successo popolare arriva per lei negli Anni 80. Il decennio del riflusso, all’epoca molto criticato a sinistra, oggi rivalutato. Lei che ricordo ne ha?
«Sono stato ospitato nel novero dei “cantautori” perché apparivo, nel mio modo di scrivere e di interpretare, un artista “alternativo”, parola molto in voga a quel tempo».
Cosa votava nella Prima Repubblica?
«Vengo da una famiglia di opinioni liberali. Resto fedele ad uno dei grandi insegnamenti morali che mi ha lasciato mio padre: non iscriverti da nessuna parte, neanche alla bocciofila».
C’è un politico che ha ammirato?
«Non ci capisco niente di politica».
Come ha passato la pandemia?
«In campagna, isolato e protetto».
Nel film si sente lei che canta in napoletano, applauditissimo dai napoletani. Per un piemontese non è scontato. Cos’è Napoli per lei?
«Napoli è la patria di capolavori musicali e poetici trascendentali».
Ha avuto una vita felice?
«Direi fino ad ora che sì, ho avuto una vita felice».
Come immagina l’Aldilà?
«Spero in un bel sonno».
Paolo Conte: «Mai fatto psicanalisi: “ghe pensi mi”. Jane Birkin dice che sono sexy? Abbiamo cantato insieme...» Antonio D’Orrico su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.
Paolo Conte compie oggi, 6 gennaio 2022, 85 anni: per l’occasione ripubblichiamo l’intervista uscita su 7 nel 2020 quando venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il documentario «Paolo Conte, Via con me» di Giorgio Verdelli.
Oggi, 6 gennaio 2022, Paolo Conte compie 85 anni. Ripubblichiamo l’intervista pubblicata su «7» nel 2020, quando il documentario «Paolo Conte, Via con me», di Giorgio Verdelli, fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, e andò poi nelle sale cinematografiche.
Se al Festival del cinema di Venezia volessero quest’anno fare un colpo di vita, dovrebbero dare il Leone d’oro alla carriera a Paolo Conte. Le sue canzoni sono alcuni dei più bei film della nostra vita. Pensate a Sparring partner, che ha il touch di un Clint Eastwood, o all’epopea dell’uomo del Mocambo, che è l’altra faccia del Sorpasso di Dino Risi. C’è anche l’occasione giusta per onorare il Maestro. La Mostra del Cinema 2020 ospita in anteprima Paolo Conte, Via con me di Giorgio Verdelli, un film sulla sua vita e le sue opere. L’Avvocato di Asti appare finalmente in prima persona sul grande schermo.
Marcello Mastroianni riteneva il cantautore astigiano l’unico che avrebbe potuto prendere il suo posto sul set
Marcello Mastroianni, che ne capiva, lo riteneva l’unico che avrebbe potuto prendere il suo posto sul set. Nel cast del film troviamo Roberto Benigni, Pupi Avati, Caterina Caselli, Jane Birkin, Francesco De Gregori, Jovanotti, Giovanni Veronesi, Vinicio Capossela e Luca Zingaretti, che fa la guida in un viaggio tra milonghe, maccaie genovesi, cassiere che masticano caramelle alaskane, palcoscenici di grandi teatri parigini, londinesi, americani, napoletani, tarantolate esibizioni di Enzo Jannacci al Club Tenco e Monica Vitti che canta Avanti, bionda. Grazie al ricchissimo archivio personale dell’artista (esplorato con l’aiuto di Rita Allevato, manager di Conte, che da anni desiderava questo film) Verdelli ha messo in scena la memoria di Conte. E non si tratta soltanto della sua memoria, ma di quella di un’epoca, di più generazioni. Forse, si tratta della memoria (oggi fortemente in pericolo) dell’italianità stessa e dei suoi testimonial contiani: Gino Bartali, la Topolino amaranto...
Un ultimo suggerimento agli organizzatori del Festival, prima di passare all’intervista a Conte. La sera in cui gli consegnerete (come spero vivamente) il Leone, proiettate la scena del film di Verdelli in cui Giovanni Veronesi racconta che una delle canzoni preferite da un grande del cinema come Robert De Niro è Onda su onda. Bob la canticchia spesso con viso sognante: «Son caduto dalla nave, son caduto / mentre a bordo c’era il ballo... Tu stai danzando insieme a lui / con gli occhi chiusi ti stringi a lui».
Maestro, prima di cominciare, possiamo osservare un minuto di silenzio per la scomparsa del dragueur , del ballerino di balli lenti, eroica figura del dopoguerra che danzava sapendo a memoria dove voleva arrivare? Se avesse voglia di spendere qualche parola in suo ricordo...
«Questo individuo andava osservato prima di tutto quando, con un’aria quasi professionale, si avvicinava alla dama per invitarla a ballare, e ancora più, quando, con aria altrettanto “professionale”, accoglieva il diniego di lei e si allontanava, evitando il grandissimo errore di rivolgere lo stesso invito a qualche amica di lei seduta nei paraggi, e si spostava verso altri parcheggi. Scena che avveniva in un silenzio di tigri».
Ho fatto un quiz che circola su internet e misura il grado di cultura contiana. La prima domanda è: “In che lingua è la parola sijmadicandhaapajiee ?”. Risposte possibili: A) Aramaico. B) Sanscrito. C) Dialetto astigiano. Ho scelto la C. Come sono andato?
«La risposta è esatta, ma non esattissima. Il contenuto è in dialetto astigiano (significa: siamo dei cani da pagliaio), ma la grafia è di tipo azteco».
(Ho capito: rimandato all’esame di Cultura generale contiana). Jane Birkin dice di lei: «L’Avvocato c’est sexy ». E pronuncia la parola “avvocato” come se fosse piena di erre da arrotare, anche se non ce n’è nemmeno una.
«Con Jane abbiamo cantato insieme Chiamami adesso ».
Una delle sue canzoni più sensuali. Mi racconti.
«Mi ricordo un gentile gesto di Jane: portò alla mia orchestra un pacchetto di pasticceria».
In Elisir lei canta: «Si suona così, con grazia plebea. Le mani che sudano». È questa la ricetta per fare «brava musica»?
«Quando sento disquisire di “canzone popolare” provo un po’ di confusione: pop, per gli americani, mi sembra che stia per “canzone di successo”, per me significa qualcosa di più simile a “popolano” nel senso che appartiene al popolo non per l’acquisita notorietà, ma per un’essenza più intimamente “indigena”. In Elisir mi sono spinto per questo ad usare la parola “plebea”».
Certe sue cantanti (Caterina Caselli, Gianna Nannini, la stessa Birkin, Malika Ayane), posseggono la grazia plebea?
«Sempre nel senso che dicevo prima, sceglierei Caterina Caselli, per la quale mi ricordo di aver scelto in passato la definizione “canta come le lavandaie”».
Caterina Caselli racconta che perse la testa quando sentì Insieme a te non ci sto più . E dice: «Se fosse stato un quadro in un museo, sarei stata colpita dalla sindrome di Stendhal». È il primo caso di sindrome di Stendhal provocata da una canzone.
«La grande Caterina ha sempre scelto bene il suo repertorio, forse il repertorio più coerente che una cantante italiana abbia mai avuto. E per di più autenticamente beat. Insieme a te non ci sto più è una delle rare canzoni beat che io abbia composto».
La grazia plebea ce l’ha anche Celentano?
«Assolutamente sì».
Ma cosa ne sa un laureato di Asti, figlio d’arte notarile, dal lato paterno, e di proprietari terrieri, da parte materna, della grazia plebea?
«Io “ondeggio” tra l’ammirazione per la musica colta (ma non necessariamente accademica) e il fascino più segreto dell’ ethnos ».
Avvocato, la sua causa più bella è la difesa dell’uomo del Mocambo, l’avventuriero sognatore che incarna un certo tipo di italiano del dopoguerra. Lei è stato il curatore del suo fallimento rimanendogli cavallerescamente a fianco fino all’ultima ingiunzione.
«Distinguiamo sempre tra il fallimento di una grande azienda e quello di un piccolo imprenditore solitario. È a quest’ultimo che va la solidarietà (compassione) di un curatore dall’animo buono». (Chi ha orecchie per intendere...).
Li guardava, al tempo, i telefilm di Perry Mason?
«Vedevo Perry Mason e, dopo, Nero Wolfe. Perry Mason risolveva gialli giudiziari a beneficio del proprio cliente innocente. E (pragmatismo americano?), smascherava il colpevole, facendolo comparire addirittura in aula. Trovo, a questo proposito, che il nostro Gianrico Carofiglio sia andato oltre: il suo avvocato Guerrieri riesce a far assolvere il suo cliente innocente, e basta lì. È una lezione di giustizia più alta di quella americana». (Anche qui: chi ha orecchie ecc.).
Una curiosità: è mai andato dallo psicanalista?
«Mai fatto psicanalisi, ghe pensi mi (come diceva Tino Scotti, se lo ricorda?)».
Come no, il bauscia milanese. E le serie televisive tanto di moda le guarda?
«In tv vedo Montalbano, Derrick, Downton Abbey... il resto è football».
Chi è stato il più grande: Maradona, Pelé, Messi o Ronaldo?
«Tra i quattro scelgo Puskas, detto il Maggiore a cavallo. L’ho visto dal vivo. La gloriosa scuola calcistica ungherese, l’eleganza del football magiaro, la leggenda della Squadra d’oro».
Pupi Avati dice che lei è un essere umano di una tenerezza struggente e racconta che lei disse addio a sua madre deponendo nella bara, come un fiore, le parole di Azzurro.
«Abbiamo entrambi molta tenerezza, Pupi ed io. E, a distanza, ci vogliamo molto bene».
Però Avati, masticando un po’ amaro, dice che lei, a differenza di lui, è bello.
«Ma io Pupi lo trovo bellissimo».
Sua madre quando ascoltò Azzurro la prima volta si mise a piangere perché la trovò antica e moderna. Dov’è il passato e dove il futuro in Azzurro ?
«Domanda da un milione di dollari. Il passato è in quel di “teneramente antico” che c’è soprattutto nella musica, il futuro è nella trasgressione, diciamo così, di comporre una canzone del genere in piena epoca beat».
Lei canta suo padre in Eden , una canzone che definirei dantesca, perché va a cercarne il sorriso in Paradiso.
«Il brano non è strettamente autobiografico. Semplicemente un padre e un figlio. E l’ambientazione è, sì, dantesca».
È la sua canzone più religiosa?
«No, direi piuttosto Un’altra vita ».
Ma in terza liceo, quando fu bocciato per troppe assenze, cosa faceva quando non andava a scuola? Cherchez la femme, come dicevano i commissari di una volta?
«Mi spiace tanto per il suo commissario, ma sta seguendo una pista sbagliata. Cherchez la musique et la paresse (la pigrizia), questa è la pista giusta».
Il film di Verdelli comincia con lei che fuma l’ultima sigaretta prima di un concerto. Salire sul palco ha qualcosa del salire sul patibolo?
«Facciamo del doppio senso: è un’esecuzione musicale».
Benigni, che parla ormai come Dante, dice che per chi ascolta un suo concerto «tutto si slarga e si infinita». E, modestamente, lo confermo anche io.
«Vi ringrazio di cuore, ma si patisce sempre un po’ lo stesso prima di andare in scena».
Gelato al limon è dedicata a sua moglie. È una dichiarazione d’amore a Egle. Certo che le piaceva vincere facile: come avrebbe potuto Egle resistere a una dichiarazione così?
«È una dichiarazione d’amore, ma non seduttiva o malandrina. Eravamo già innamorati e addirittura sposati».
Però lei canta: «Donna che stai entrando nella mia vita con una valigia di perplessità». Quali perplessità nutriva Egle?
«Allora non lo sapevo. Comincio a capirlo adesso».
Egle, da vera diva, fa nel film una partecipazione straordinaria nascondendosi la faccia con un giornale mentre, al Club Tenco, Benigni canta sfrontatamente Mi piace la moglie di Paolo Conte .
«Ha detto bene: atteggiamento da vera diva. Roba da Greta Garbo!».
La musica di Se telefonando fu ispirata a Morricone dal suono della sirena di un’ambulanza a Marsiglia? Le è mai capitato qualcosa di simile?
«All’inizio di tutto, quando da bambino stavo in campagna da mio nonno e passavo molto tempo sopra un poggio a guardare e ascoltare un trattore che arava nella valle sottostante. Se il trattore si avvicinava alla mia postazione emetteva dei suoni “presenti” di ferraglia, quando si allontanava emetteva dei sobbalzanti muggiti bufaleschi che m’incantavano. Era un’essenza segreta della musica».
Ethnos puro. E quindi domanda in omaggio alle sue radici e al suo illustre concittadino Vittorio Alfieri. Qual è la sua canzone più tragica?
«Mi farebbe effetto andare a cercare del tragico tra le mie canzoni. Già che parliamo di Asti e di Alfieri, riascoltiamoci Teatro (orazione d’onore per il teatro Alfieri di Asti chiuso da tempo). “Anticamente / Si sguainavano là dentro le parole / Uccidere il tiranno questa sera / Ei pera, pera”».
Nella canzone Pesce veloce del Baltico il ristorante dell’albergo proponeva con sussiego pesce veloce del Baltico e torta di mais, ovverosia baccalà e polenta. Mi vengono in mente i masterchef odierni. Pecco di cattiveria?
«No, no! Aumentiamo la cattiveria! Nouvelle cuisine, nouvelle vague, bossanova».
Lei scelse il primo strumento, il trombone, per la sua sensualità. Può darmi qualche dettaglio in più?
«Sul trombone le note si ottengono facendo scorrere un tubo che si chiama “coulisse”, cioè glissando: questo produce un effetto sinuoso che mi ricorda le movenze di certe belle donne grasse. Non si può suonare il trombone senza pensare ad una bella donna nuda».
A proposito, Carmen Villani, per la quale scrisse le sue primissime canzoni (la bellissima Se ), era molto molto sensuale, e fu anche attrice al cinema di commediole scollacciate ( La supplente ). Come era vista da vicino?
«Una bellissima ragazza, mai scollacciata, come del resto i suoi films che erano allusivi solo in apparenza. Ne approfitto per salutarla. Una cara amica».
Mi faccia raccomandare al proto di non levare la “s” finale a”films”, se no lei poi mi toglie il saluto. Ora le chiedo chi è il personaggio femminile che predilige nelle sue canzoni. Sbaglio o è Marisa di Sotto le stelle del jazz ?
«Promosso stavolta. Marisa è un nome che mi ha sempre intrigato fin dagli Anni 40. Ero già un buongustaio?».
Maestro, le vogliono tutti bene. Dove ha sbagliato? Dica una cosa che possa essere usata contro di lei.
«Se lo dico, non mi credono».
La penso ogni volta che leggo i bellissimi romanzi di Colin Dexter. Il protagonista, l’ispettore Morse, ha le sue stesse passioni (la musica, i gialli e l’enigmistica) e il suo stesso senso dell’umorismo.
«Conosco l’ispettore Morse. Mi piacciono molto lui e la sua Jaguar. A proposito, facciamo un po’ di enigmistica. Questa è mia. Chiavi di lettura: per capire a fondo una Jaguar ci va una chiave inglese»
CARTA D’IDENTITÀ
La vita — Paolo Conte nasce ad Asti, nel 1937. Suo padre è notaio, e grande appassionato di musica come la madre. Nel 1962 si laurea in Giurisprudenza, a Parma, e inizia a lavorare nello studio del padre, continuando però a coltivare studi musicali. Nel 1974 decide di abbandonare la carriera di avvocato per dedicarsi esclusivamente a quella artistica.
La musica — Negli Anni 50 impara a suonare trombone e vibrafono. Poi il pianoforte. Fonda il Paul Conte Quartet, con il fratello Giorgio alla batteria. Fino agli Anni 70 lavora come autore e compositore per altri artisti. Nel 1974 esce il suo primo 33 giri, Paolo Conte, e inizia a firmare le sue canzoni. Dopo quello ha pubblicato altri 32 album. Nel 1999 è stato nominato Cavaliere al merito in Italia e, nel 2001, in Francia.
Marinella Venegoni per “La Stampa” il 6 gennaio 2022. Non c'è mai un'età giusta per compiere gli anni con soddisfazione. Se poi ci si mette il fatto che a Paolo Conte i compleanni non piacciono, lasciar perdere parrebbe la scelta più educata.
E tuttavia al telefono l'umore del grande Astigiano suona positivo, la cortesia notevole. Troveremo modo di accennare a queste 85 primavere che arrivano oggi, e che non si penserebbero proprio, solo a ricordare l'energia degli ultimi meravigliosi concerti, accolti da entusiasti a migliaia, che della sua musica non ne avrebbero mai abbastanza.
Ma l'attesa si prolunga. Tempi duri, caro Paolo.
«Senza dubbio. Le dico una frase: mai ho sentito come adesso incombere il futuro. Purtroppo si capisce ben poco di quel che succede, si riceve una informazione spesso contraddittoria».
Lei sta fra le colline del Monferrato, come sempre.
«Ci muoviamo il meno possibile. Non è una novità, ho sempre fatto una vita solitaria. Mi va bene così. Con Egle facciamo dei giri col cane, poi torniamo a casa. Qualche volta scendo ad Asti, ma tanto non c'è niente da vedere».
E la musica quanto aiuta?
«A me è passata la voglia. Da tempo non tocco il pianoforte, la sera sento classica su Sky... Ho sentito una bella serie di Rachmaninov. Non ho voglia di comporre, ma ho già avuto periodi di astinenza lunghi, è solo questione di aspettare le ispirazioni; se arrivano, arrivano, però sono sempre a contatto con l'arte».
Magari dipinge?
«Brava. Più che dipingere, mi è tornato il vecchio vizio del disegno, ho scoperto che mi piace usare i pastelli su cartoncino nero. Non mi danno grandi sorprese ma è divertente».
Vengono amici a casa?
«Qualcuno. È stato a cena Massimo Pitzianti, grande musicista e fisarmonicista... ce la contiamo sulla decadenza della musica».
Cioè?
«Ormai viene usato il computer, tutto è uguale, ci sono sistemi che non sono più umani. Mi domando dove godano: non sanno nemmeno dove godono. Per fortuna ho una collezione di tanti dischi di belle musiche del passato. Andrei addirittura di 78 giri, anche se sono scomodi; ho la mia collezione, la tengo cara. Mi hanno detto che i vinili vengono comperati da collezionisti che non li tolgono nemmeno dalla busta di cellophane».
Cosa ascolta di più?
«Vecchio jazz, la mia passione. Anni 20-30. Louis Armstrong, Art Tatum, Sidney Bechet. Jazz pittorico nella sintassi»
L'hanno ispirata, costoro.
«Direi nutrito più che ispirato, mi sono ispirato da solo, mi hanno nutrito fin da bambino. Lì sono cominciate le grandi rivoluzioni estetiche. Anni Venti, erano il dopoguerra della la prima Guerra mondiale».
E «Razzmatazz»? Si parlava di farne uno spettacolo.
«Ci vogliono tanti soldi. Aspettiamo di vedere se arriva qualche magnate a fare offerte. Qualche nababbo. Sono tempi difficili... Far pensieri a lunga scadenza, lei mi capisce. Razzmatazz tra l'altro è stato ripubblicato dalla Feltrinelli: il libro di Allemandi, più il Dvd».
Che cosa legge?
«Gialli scandinavi che sono fatti bene. Degli italiani mi piace Vitali, mi piacciono le storie dei paesi, e i libri della Sellerio. Mi piace Robecchi, e Camilleri l'ho letto tutto».
Un suo libro, caro Paolo?
«Qualche volta ci penso ma poi mollo la presa. Adesso ho un'idea, ci sto riflettendo».
Le canzoni che ha scritto che le piacciono di più?
«Come musica Gli impermeabili, per i testi Genova per noi e Gelato al Limon».
Un album del quale non ritoccherebbe nulla?
«Una faccia in prestito».
Ci sono molti appassionati dei suoi primissimi dischi.
«Eh lì c'era la verginità. Il serbatoio era più ampio».
Le canzoni di altri autori?
«Francesco De Gregori oppure il Guccini di Bisanzio. Nei cantautori c'è stato un grande sforzo letterario».
Quando le accadrà di poter tornare alla musica dal vivo?
«Ho già recuperato qualche mese fa, adesso dovrei riprendere ad aprile, ci sono serate pagate ed esaurite, speriamo di poterlo fare. C'è l'incombere del futuro che non si conosce, non c'è nessuna arma per leggerlo. Da un lato sono catastrofista, dall'altro speranzoso: in bilico tra speranza e delusione».
Possiamo parlare del compleanno di oggi?
«Non mi piacciono le ricorrenze, ma ogni tanto bisogna festeggiare. Sono fatti anagrafici, un po' di ottimismo ci vuole. Però festeggiamo da soli».
Vinicius de Moraes diceva: «la vita, amico, è l'arte dell'incontro».
«Come amici, posso dire i musicisti della mia orchestra che ormai dura da trent' anni anni. C'è convivenza, amicizia, complicità. Poi ricordo con tanto affetto il mio manager Fantini: era anche modesto, ma aveva le idee chiare. Rambaldi il fondatore del Premio Tenco? Un uomo di gusto e cultura francese, bravo. Un fioraio sì, ma i grandi dilettanti contavano più che i professionisti».
Che cosa vorrebbe oggi come regalo?
«Un ritocco all'anagrafe».
Paolo Calabresi, la confessione a «Oggi è un altro giorno»: «Quella volta che mi finsi Nicolas Cage per vedere la partita della Roma». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022.
L’attore ha raccontato a Serena Bortone di quando, nel 2000, si presentò a San Siro per vedere Milan – Roma spacciandosi per la star (e tutti ci cascarono).
Il divo di Hollywood Nicolas Cage in tribuna a San Siro per vedere la partita Milan-Roma. È successo davvero…o forse no: ci ha pensato Paolo Calabresi, ospite nella giornata di ieri del programma Oggi è un altro giorno, a far luce sull’aneddoto. L’attore, interprete di Arturo nella saga «Smetto Quando Voglio» e del mitico Biascica in «Boris» (soltanto per citare due celebri personaggi a cui ha prestato il volto), sfruttando la sua somiglianza con la star - e la sua abilità come trasformista - nel 2000 si è presentato allo stadio per assistere al match: «Erano finiti i biglietti e, quindi, per ottenerli a scrocco li ho chiesti a nome di Nicolas Cage. Fu il Milan, che ospitava la partita, che fece partire una macchina mediatica tanto che sono stato costretto ad andare fingendomi davvero Cage», ha raccontato Calabresi a Serena Bortone (che in questi giorni sta conducendo il programma da casa perché risultata positiva al Covid).
«Ricordo - ha aggiunto - che quando arrivai allo stadio la televisione mi inquadrò e annunciarono che Nicolas Cage era arrivato. E da quel momento dovevo davvero fingere: non so quanti autografi ho firmato quel giorno». Travestimento perfetto quindi, tanto che ci cascò anche l’allora capitano giallorosso Francesco Totti: «Mi aprì la porta Capello, chiamò Totti che mi guardava come fossi una star, e io idem».
Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 14 marzo 2022.
È la storia vera di un dolore enorme, che tramortisce e cambia per sempre, e di un'ossessione che stravolge ogni cosa e porta il protagonista a perdere quasi tutto. L'attore romano Paolo Calabresi, 57 anni, moglie e quattro figli, uno dei volti più noti del cinema e della tv italiana (Smetto quando voglio, Boris, Le Iene etc), nel suo primo libro Tutti gli uomini che non sono ha messo questo ed altro. La morte, per esempio, che non è esattamente quello che ci si aspetta da uno come lui.
Che fa, con il titolo scimmiotta un po' Emmanuel Carrère e il suo Vite che non sono la mia?
«Mi sono accorto dell'assonanza dopo averlo scelto, giuro. In realtà avevo pensato di rubare il titolo alle Vite degli altri (il film del 2006 sulle spie della Stasi, ndr) o all'Uomo che non c'era dei fratelli Coen del 2001».
Cosa ha scritto?
«Non la solita autobiografia del famosetto, l'attore che sfrutta uno straccio di popolarità per far cassa, ma la storia delle mie follie trasformiste di vent' anni fa (da Cage a Marilyn Manson, John Turturro, Mister Babu etc.), nate da tre lutti che all'epoca mi stesero».
Quali?
«Nel 1997 i miei genitori sono morti a distanza di dieci giorni uno dall'altro. Quando a mamma a 63 anni dissero che per il suo tumore non c'era altro da fare, papà che era sanissimo - non si scompose.
Andò a dormire e a 69 anni non si è più svegliato. Infarto. Dieci giorni dopo, stessa sorte per mamma. E tre mesi dopo anche per Giorgio Strehler, la persona che mi ha insegnato tutto della recitazione. Dall'87 al 90 ho frequentato la sua scuola del Piccolo di Milano, e dal 90 al 97 mi ha scritturato in tutti i suoi spettacoli».
Reazione?
«Nessuna. Ho fatto finta di niente. Zero lacrime. Anestetizzato».
Ha mai pensato all'analisi?
L'avevo appena finita. Per il mio terapeuta, scuola junghiana, ero a posto».
Perché c'era andato?
«Posso solo dire che dopo poche sedute avevo incontrato il mio inconscio e avevo ripreso a sognare dopo anni che non lo facevo».
Va bene. Poi?
«Dopo due anni è scoppiato il bubbone».
Come?
«Con il primo travestimento, quello di Nicolas Cage del 2000. Io volevo solo andare a San Siro a vedere Milan-Roma, spacciandomi per la star americana, ma poi riuscì tutto così bene che non mi sono più fermato».
Il segreto?
«Non avevo niente da perdere. Facevo qualsiasi cosa. Mi sentivo libero».
E quindi?
«Capii subito che era una cosa importante. In una serata avevo ritrovato l'entusiasmo perso».
Tutto vero quello che c'è nel libro?
«Sì. Tranne lo psichiatra che ha in cura Paolo C. e mia moglie che mi molla».
Non è andata così?
«Per fortuna, no. Fiamma è sempre stata al mio fianco. E non è stato facile perché ero un uomo a pezzi che con i travestimenti aveva perso completamente il controllo. Non pensavo ad altro e per i trucchi, gli spostamenti e i complici spendevo quasi tutti i soldi della gestione familiare. Nessuno mi pagava. Meno male che mia moglie, all'epoca pubblicitaria e oggi agente, lavorava. Una volta, con Mediaset, me la sono anche vista malissimo».
Che intende dire?
«Nel 2003 per il Galà della pubblicità di Canale 5 mi finsi Marilyn Manson, in Italia per promuovere un ketchup piccante, ovviamente una cazzata colossale. Mi fecero firmare una lettera in cui mi impegnavo a comprare spazi pubblicitari da Publitalia. Dopo che si scoprì il trucco volevano farmi causa. Mi avrebbero spennato, mi salvai perché si accontentarono dei filmati».
Sua moglie sempre d'accordo?
«A chi, anche in famiglia, le diceva che dovevo smetterla assolutamente, lei rispondeva: Paolo sta bene così. Sa quello che fa».
Lo sapeva?
«Insomma... Non del tutto. Diciamo che vivevo in maniera estrema l'aspetto più romantico e creativo del mio lavoro. Come nel film Tootsie ero un attore che aveva bisogno di far bene il suo lavoro e dare un senso alla sua vita, ma sfasciava tutto il resto. D'altra parte Strehler lo diceva sempre: come i bambini giocate a far finta di essere qualcun altro. Seriamente, però. Altrimenti non funziona».
Quando ha smesso di funzionare?
«Stress, fatica e responsabilità dopo quasi otto anni mi hanno fermato. E poi entrando nel sistema è cambiato tutto».
In che senso?
«Da scheggia impazzita, che non doveva rendere conto a nessuno, con le Iene ho accettato le regole. I miei travestimenti sono stati scambiati per Scherzi a parte e tante cose che ho fatto non mi sono piaciute. Con Eva Grimaldi sono stato crudelissimo.
Ripresi i panni di Nicolas Cage e le feci fare un provino in cui doveva diventare una pantera a quattro zampe. Fu penoso».
Fra le vittime chi si è arrabbiato di più?
Walter Veltroni non prese bene l'incontro con il mio Mr. Babu, l'ex capo del governo del Botswana, quando lui voleva tanto andare in Africa. John Turturro invece quando seppe che ai David di Donatello nel 2001 mi trasformai in lui, ma venni scoperto da Leo Gullotta, si mise a ridere come un pazzo. Me lo fece conoscere il produttore Domenico Procacci a casa sua. Quando bussò alla porta mi chiese di andare ad aprire e... Insomma, mi è successo di tutto: farò un documentario».
Sui travestimenti?
«Sì. Ho ore di girato. Mi ispiro a quello realizzato da Jim Carrey (Jim & Andy: The Great Beyond, ndr) mentre girava Man on the moon, il film di Milos Forman sul comico americano Andy Kaufman. Ma non lo dirigerò io, ci vogliono occhi esterni».
E quando debutterà come regista?
«Spero presto. Vorrei dirigere una commedia sentimentale tipo Harry ti presento Sally, con attori bravi che vanno fino in fondo».
Finora pensa di aver raccolto il giusto?
«Ho avuto tantissimo, ma credo che avrei dovuto fare un percorso diverso. La tv mi ha fatto entrare in quell'area di mercato che da anni mi porta a essere cercato solo per fare commedie».
Poteva rifiutare.
«Ero stanco, non avevo un soldo e volevo un po' di tranquillità. Non rinnego nulla, sia chiaro, però è andata così. Ricordo che Oliviero Beha mi disse di ascoltarmi sempre e fare solo le cose giuste per me: non l'ho ascoltato».
E adesso?
«Non mi lamento, ma con questo libro e magari con il documentario vorrei far capire che non sono solo un attore leggero, ma so fare - bene - anche altro».
Le sale torneranno a riempirsi o è finita: le piattaforme hanno cambiato tutto per sempre?
«Spero di no. Anche quello è spettacolo dal vivo. Il problema è che la gente stava sul divano anche prima del Covid. Netflix, Disney e gli altri ormai hanno preso tutto».
Mai che cosa, adesso?
«I reality. Tutti. La realtà lì dentro non esiste. Hanno abbassato il gusto e la qualità in maniera spaventosa».
E se Maria De Filippi, per esempio, dovesse invitarla per la promozione del libro?
«Spero non lo faccia. Ci tengo davvero tanto, potrei accettare».
Paolo Crepet e la moglie Cristiana Melis: «I suoi maglioncini colorati? In casa l’ammorbidente non manca mai». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022
Lo psichiatra-scrittore: «È riservata ma non timida, questo mi piace molto. E non è una di quelle che mi seguono nelle conferenze. Anzi, non mi segue proprio». Lei: «Lui sa stupirmi. Ma non sono una delle sue fan»
Quando si incontrarono per la prima volta si trovavano nelle Langhe, con altre persone, all’aperto. Venne, improvviso, un temporale. Lui si accorse che il rumore dei tuoni e i lampi la mettevano a disagio e allora si inventò un gioco di società con i grissini: perdeva chi restava con il grissino in mano. Perse lui, ma in compenso lei rise molto. Era abbastanza: da allora Paolo Crepet e Cristiana Melis sono una coppia serena e longeva. Quattordici anni d’amore, due di matrimonio, tanti progetti in comune. Lo psichiatra settantenne e l’imprenditrice di 53 anni, però, condividono qualcosa di più sottile: un’ironia inaspettata, mai esibita, gentile. Colta.
Che cosa vi ha attratto sin dall’inizio l’uno all’altra?
Paolo: «A me ha catturato il suo low profile , il suo saper essere riservata ma non timida. Mi piace anche perché non è una mia fan, una di quelle persone che mi seguono nelle conferenze. Anzi, lei non mi segue proprio».
Cristiana: «Non sono una fan del personaggio Crepet. Ma sono una grande fan di Paolo. Lo seguo poco nelle sue trasferte perché il mio lavoro non me lo permette, e quando lo faccio amo sedermi tra il pubblico, lontano. È un modo per riscoprirlo. Mi piace quando mi cerca con lo sguardo. Un continuo ritrovarsi».
Un ricordo dei primi tempi insieme?
Paolo: «Non è mica stato facile con lei. Non è una che si lascia ammaliare, è una persona da scoprire poco per volta. È complicata, certo, ma è quello che mi piace».
Cristiana: «Le racconto un episodio che dice tanto di lui. Al nostro primo appuntamento mi portò a cena in due ristoranti. Al primo mi consigliò di ordinare solo una pasta. Poi pagò il conto e mi portò ad un secondo ristorante dove mi consigliò di ordinare un pollo alla brace. Ecco, lui ha la capacità di stupirmi e per me che mi annoio molto facilmente è salvifico».
Originale!
Cristiana: «Allora le racconto anche questa: una volta, tornando da un lungo viaggio, me lo trovai al binario della stazione con una torta in mano e le candeline accese. Era ovviamente il giorno del mio compleanno. Lui è così, definirlo imprevedibile è riduttivo. Quando c’è è “piacevolmente impegnativo”, quando non c’è, mi manca».
Entrambi avete la passione per gli oggetti strani, le opere d’arte e anche quelle bizzarre. Un regalo curioso che vi siete fatti?
Paolo: «Una volta le ho regalato un’urna funeraria».
Allegria!
Paolo: «Ma era un oggetto bellissimo! Ero andato in un borgo, non ricordo bene quale, per lavoro. Come sempre, mi misi a curiosare tra i banchi dei rigattieri. Trovai questo oggetto e lo comprai per lei. Poi a casa, nel cuore della notte, la svegliai e le dissi: guarda cosa ti ho portato».
Cristiana: «Sì, l’urna mi ha fatto ridere. Ma l’ho interpretato come un dono di eternità: mi disse che se fosse successo prima a me quell’urna sarebbe servita per portarmi sempre con lui nei suoi viaggi. Però, se dovesse accadere, sono certa che mi dimenticherà nella stanza di qualche albergo, scorda sempre qualcosa».
E lei, Cristiana, che regalo bizzarro gli ha fatto?
Cristiana: «Forse quello che gli ho fatto per i suoi 70 anni: un calcio balilla piemontese del 1951 — stesso luogo e stesso anno di nascita. Gliel’ho regalato per farlo continuare a giocare e per scorgere nei suoi occhi lo stupore dei bambini che spesso lui ha».
Viaggiate spesso insieme?
Paolo: «Non amo i viaggi molto lunghi, preferisco andare alla ricerca di cose curiose. Per lavoro io ho girato il mondo. India, Africa, America. Oggi trovo più piacevole, per esempio, scoprire un piatto a base di cocomero e pomodoro gustato nella cucina di Niko Romito, in Abruzzo. Ma non nel suo ristorante: abbiamo avuto il privilegio di mangiare assieme ai cuochi».
Cristiana: «Con Paolo è sempre un viaggio. Anche quando non lo facciamo insieme. Ovunque si trovi, mi chiama per dirmi che cosa vede, mi manda le foto, mi telefona per condividere la gioia di una cosa bella. Un giorno ero a casa e lui in viaggio per lavoro. Ricevetti un suo messaggio: “I viaggi senza te sono fermi”. Fu il più bel non-viaggio per me. Tra quelli fatti insieme, porto nel cuore i nostri giorni a Tangeri. Eravamo immersi nei nostri colori».
Una coppia solida sa condividere anche i silenzi.
Paolo: «Sì, ma non esageriamo. Una volta siamo andati in una sorta di convento, non dico quale perché è conosciuto. Diciamo uno di quei posti dove ti fanno fare esperienze conventuali, condividendo vita e abitudini dei frati. A pranzo eravamo in una stanza spoglia, seduti tutti su una panca di legno e, di fronte, niente, solo un muro. Dovevamo mangiare in silenzio. Be’, mi sono addormentato».
Paolo, lei si è addormentato anche quella volta che era in giuria a «Miss Italia», con tanto di telecamere a certificare il cedimento.
Paolo: «È colpa mia se pure io mi annoio facilmente? Anche in questo Cristiana è importante, perché condivide le cose che amo, anche le stranezze. Se lei si cibasse solo di miglio, per esempio, non potrei andarci d’accordo. Ma lei ama persino le lunghissime scarpinate che facciamo tra i mercatini di antiquariato!».
E dei maglioncini color pastello che hanno reso famoso il professor Crepet, che cosa dite?
Cristiana: «Dico che a casa spesso manca il latte in frigo ma l’ammorbidente non manca mai. Paolo è come una “cartella colori”, i suoi maglioncini colorati non sono altro che la sua visione della vita, fatta di emozioni, progetti, curiosità, del suo saper essere morbido e delicato in contrapposizione al suo coraggio e alla sua determinazione. È persino contagioso: pensi che io ho cambiato le mie scelte nel vestire, ora cerco spesso abiti colorati perché ho imparato che i colori fanno bene all’anima».
Paolo: «Guardi che anche Rossana Rossanda amava i miei maglioncini! Il problema è che la televisione stravolge tutto, si guardano queste cose invece che altre, più importanti. Le mie tre lauree, il lavoro fatto con Franco Basaglia, l’esperienza come psichiatra e come educatore in tv passano in secondo piano. Ecco perché non vorrei passare alla storia come “quello dei maglioncini” e basta».
E veniamo alla collezione di cose belle che avete messo assieme. Un oggetto curioso scoperto insieme?
Cristiana: «Difficilissimo sceglierne una tra le tantissime. La prima che mi viene in mente è una Madonna lignea salvata dagli “angeli del fango” durante l’alluvione di Firenze del 1966. L’abbiamo scovata in un momento molto particolare della nostra vita e rappresenta tanto per noi».
Paolo: «Ma ce ne sono così tanti! Io ho un’ossessione per gli oggetti. E ormai non sappiamo più dove metterli. Cristiana mi ha anche insegnato a scegliere, a mettere ordine».
E lei, Cristiana, che cosa ha imparato da lui?
Cristiana: «La gioia. Si sveglia sempre con il sorriso. Mi ha accolta nel suo mondo con garbo, lui insegna senza farlo, semplicemente facendoti vivere tutto insieme a lui».
Paolo Crepet: «Ho vissuto in India e sono stato in coma tre volte. La tv? Ha danneggiato la mia carriera». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Lo psichiatra si racconta: il padre (del quale parla per la prima volta nel nuovo libro), gli attacchi dopo le puntate di «Porta a Porta», il legame con Franco Basaglia.
Professor Crepet, lei è un personaggio molto popolare: la tv, i giornali, le conferenze. Però della sua vita privata si sa poco.
«Be’, nel nuovo libro, Lezioni di sogni, parlo per la prima volta di mio padre».
Uomo duro, di stampo calvinista.
«Non mi ha mai detto “bravo”, nonostante le mie due lauree e la specializzazione in Psichiatria. Era normale, per lui, avere un figlio bravo. Solo nel giorno del suo funerale scoprii che mi apprezzava. Fu un suo caro amico a confidarmelo».
Un’educazione durissima. Però lei, da psichiatra-sociologo, ha sempre difeso questa impostazione, e in questo ultimo libro è il tema centrale.
«Certo, penso che molti genitori che in gioventù hanno scelto di contestare i genitori poi abbiano finito per diventare servi dei propri figli. Il permissivismo non è educazione, così come non lo è l’assurda scelta di installare sul loro cellulare una app per geolocalizzarli: quello per me è un mettersi l’animo in pace».
Educare, allora, è anche accettare con serenità che i nostri figli possano anche sbagliare e persino soffrire?
«Ma certo. Meglio prendere un quattro e rialzarsi che galleggiare tra il sei e il sette. Sono scomodo, lo so, ma che cosa è un intellettuale se non quello che dice cose scomode?»
Come quando, in tv, lei lesse un passaggio delle «Lettere Luterane» di Pasolini per commentare il delitto di Novi Ligure?
«Apriti cielo. Era un passo bellissimo, in cui si parlava della gioventù e degli errori. Io volevo mettere in luce il fatto che il nostro sistema educativo fa acqua da decenni, ovviamente pochi colsero la grandezza di Pasolini se riferita a Erika e Omar. E quindi, email di insulti, attacchi, minacce».
Lei è stato uno di quelli che hanno istituzionalizzato la figura dell’opinionista esperto in televisione. Novi Ligure, Cogne: a ogni delitto, l’analisi di Crepet.
«Guardi che io ho pagato molto caro la mia presenza assidua a trasmissioni come “Porta a Porta”. Certi ambienti accademici mi hanno chiuso i cancelli. Ma io non mi pento di aver fatto una buona divulgazione. Una volta un famoso psicoanalista, per criticare un mio testo, disse che io “scrivo per le lavandaie”. Mi ferì, certo, eppure trovai quella frase conforme a ciò che tentavo di fare nel mio lavoro. Divulgare non significa volgarizzare, ma trovare un lessico capace di parlare a chiunque».
Rifarebbe tutto?
«Ogni cosa».
Perché?
«Perché non dobbiamo avere paura di farci capire. E di capire, a nostra volta, chi fa cose diverse da noi. Si chiama apertura mentale, curiosità. La televisione mi ha fatto conoscere persone meravigliose. Zavoli, Costanzo, Limiti. Anche Vespa, certo».
Rifarebbe anche quella edizione di Miss Italia in cui si addormentò in diretta tv?
«Ero in giuria, chiedo venia se mi annoiavo a morte».
Ha fatto anche Sanremo.
«Dove ho avuto modo di trascorrere una bellissima giornata assieme a Dustin Hoffman. Parlo inglese meglio di altri miei colleghi, lui apprezzò».
C’è chi dice che sia stata la tv a far cambiare radicalmente due intellettuali come Freccero e Cacciari.
«No. È che si invecchia».
Una laurea in Medicina, poi una in Sociologia e infine la specializzazione in Psichiatria.
«Ho settant’anni e ho fatto tantissime cose. Non tutti sanno che io sono stato in India a studiare i costumi delle comunità rurali. A Toronto con venti gradi sotto zero, a Chandigarh arsa dal sole alle pendici dell’Himalaya, in periferie londinesi sporche e nebbiose o in quelle ancor più pericolose di Rio de Janeiro. Così è stata la mia formazione emotiva e professionale, proprio come quella di tanti altri della mia generazione. Lo dico anche nel mio libro. Ho sentito dire tante volte da un adulto a un giovane che sta facendo le valigie: “Ma chi te lo fa fare, che ti manca qui…”. È un terribile imbroglio, nella vita di tutti i giorni deve mancare sempre qualcosa».
E rischiare.
«Io sono stato tre volte in coma».
Tre volte?
«Sono sopravvissuto a tre incidenti stradali, il più grave con la moto. Io viaggio, sono curioso, la conoscenza non mi basta mai. E quei tre episodi non sono stati gli unici nei quali ho rischiato la vita».
Racconti.
«Ero alla stazione di Bologna quel terribile 2 agosto 1980. In arrivo, dovevo cambiare treno. Un boato e poi un odore di morte e polvere. Non c’era Internet, nessuno poteva sapere nell’immediato che cosa stesse succedendo. Eppure, lo capimmo. A pelle. A volte viviamo cose che non abbiamo mai sperimentato, ma che conosciamo».
Professore, non tutti sanno che lei è stato un grande amico — sebbene molto più giovane — di Franco Basaglia.
«Ho avuto il privilegio di accompagnarlo in molti posti, di ascoltarlo parlare di musica, letteratura, cinema. Indegnamente ho frequentato quello che ritengo essere stato il nostro Martin Luther King, perché pochi come lui hanno difeso i diritti umani».
Che uomo era?
«Coltissimo, tollerante, parlava con tutti. Con lui sono stato a casa di Dario Fo e Franca Rame, con Fo che dava lezioni di mimo. Con lui sono stato a Parigi a casa di un famoso compositore con il quale Basaglia compose all’impronta un concerto. Con lui sono stato a Berlino, poco prima che lui si ammalasse. Ricordo che andammo vicino al Muro e lui disse: “Questo lo butteranno giù, vedrai. Ma poi ne alzeranno uno ancora più alto”. I geni spesso dicono cose che avvertono nel profondo, a favore di chi ascolta».
Eppure non sempre Basaglia venne capito. Molti pregiudizi oscurarono le sue idee. In «Lezioni di sogni» lei invita a mettere da parte i preconcetti e a coltivare la fiducia.
«Mi chiedo quali potranno essere le ricadute dell’opera continuata e insistente di delegittimazione della fiducia nei confronti del prossimo. Se un genitore educa i propri figli a pensare che di un medico, di una terapia non ci si dovrebbe fidare, come potranno crescere credendo nel sapere di chi sa? Insinuare dubbi sul merito è una pratica che nulla ha a che fare con l’educare. Si tratta di una comunicazione che contiene una protervia detestabile: educare all’idea che i nostri figli saranno monadi, che ognuno di loro dovrà bastare a se stesso, che nell’altro si nasconde l’inganno. Non è forse, questa, una pedagogia dell’odio?»
Da dove viene il suo cognome?
«È francese. Un mio avo è stato il curatore degli scritti di Baudelaire. Mio nonno, artista, ha lavorato con Modigliani e ha bevuto il caffè con Picasso. Ma io questo non l’ho mai saputo da mio padre, l’ho scoperto studiando la storia della mia famiglia. Ecco allora che mi pare di tradire l’understatement di casa, forse parlo troppo».
No, i suoi racconti sono interessanti.
«Allora le racconto di quella volta che ho incontrato Mastroianni. Come spesso accadeva, accompagnavo Basaglia in giro. Venimmo invitati a casa di una signora dell’alta aristocrazia romana, c’era tanta gente. Molti attori. A un certo punto, Mastroianni non si trovava più. Era tutto un “Dov’è Marcellino?”. Lo trovammo rintanato in un angolo del corridoio. Alzò la testa, ci guardò con malinconia e disse: “No, è che mi stavo chiedendo che cosa direbbe mamma se mi vedesse qui”».
Lei qualche volta se lo è chiesto?
«Sì. Ma penso che lei sia stata contenta di me».
Me lo racconta un amore?
«Sì, per un manichino».
Professore...
«Sono serio. Una volta a Napoli c’era un uomo meraviglioso che riparava le bambole. Tra le tante cose meravigliose che aveva, c’era uno di quei modelli femminili a grandezza naturale che un tempo servivano alle sarte dell’alta aristocrazia per prendere le misure di donne nobili che mai avrebbero potuto toccare con le mani. Questa “donna” è bellissima: alta, bruna, occhi di vetro. L’ho corteggiata per quattro anni, era la mia fidanzata napoletana. Alla fine quell’uomo acconsentì a vendermela. Ora è parte della mia stravagante collezione d’arte».
C’è una cosa che ha imparato dai suoi pazienti?
«Più di una. Ricordo un pittore aretino, un uomo che andava in giro con la tavolozza sotto al braccio e la giacca sporca di colori. Un giorno mi disse: “Dottore, ho capito che più si è battuti e più si è critici”. Voleva dire che più si esercita il male e più il bene vince. Un pensiero degno di Primo Levi, secondo me».
Come vorrebbe essere ricordato Paolo Crepet?
«Non so, ma di certo non solo come “quello dei maglioncini”. Non è deprimente?»
Paolo Rossi: «Facevamo tanta satira (troppa?). Oggi? Tutti anti qualunque cosa». Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.
Il comico, milanese d’adozione e ultimo testimone di un’età dell’oro recente della commedia dell’arte, condivisa al fianco di Fo, Jannacci e Gaber, prima della pandemia ha detto addio a Milano e si è trasferito a Trieste. Racconta la sua nuova “vita”
Dalla finestra del suo studio lo sguardo di Paolo Rossi si perde nel mare di Trieste. «Città simbolo oggi di vero multiculturalismo. Quando mi metto a riflettere sullo scoglio non lontano da casa, posso abbracciare con un solo colpo d’occhio Italia, Slovenia e Croazia. Tre mondi con uno sguardo». Il comico, milanese d’adozione e ultimo testimone di un’età dell’oro recente della commedia dell’arte, condivisa al fianco di Fo, Jannacci e Gaber, prima della pandemia ha detto addio a Milano e si è trasferito a Trieste, da sempre simbolo dell’Austria Felix. «Guardi, sono nato a Monfalcone, in provincia di Gorizia. Un po’ come ritornare casa. E poi mi creda, Trieste e Austria Felix non sono più un binomio. Anzi. Se escludiamo l’arredamento di qualche caffè e qualche palazzo storico, questa è una città carica di energia. Crocevia di culture e stimolo costante per chi, come me, si mette in gioco ogni sera in scena».
Ma ha litigato con Milano?
«La città che mi ha adottato. Vi ho debuttato, gli anni nella compagnia dell’Elfo e poi lo Zelig. Litigi? No. Si abbandona un luogo o una persona per due ragioni: si ritiene di non essere più considerati abbastanza dall’altra parte, oppure non si ricevono più stimoli».
Nel suo caso?
«Trovare nuovi stimoli. Il destino di ogni cantastorie. Amo vedermi così. Trieste mi sta offrendo questo. Sia chiaro però: in me convivono sempre due anime, più passioni».
Non mente e la conferma è la sua presenza come ospite d’onore della serata dei festeggiamenti per i 150 anni dall’inaugurazione del Teatro Dal Verme (il 14 settembre 1872 con l’opera Gli Ugonotti di Meyerbeer), tra i palcoscenici simbolo di Milano. Cartellone di manifestazioni curato da Maurizio Salerno, direttore artistico della Fondazione I Pomeriggi Musicali, aperto dall’inaugurazione della mostra fotografica Teatro in mostra. Una storia lunga 150 anni con una performance di Paolo Rossi, un suo testo inedito in spirito Futurista. «Una serata Futurista come quelle di Marinetti. Si ricorda che la prima venne fatta nel 1910 proprio a Trieste? Confermata la mia doppia anima triestino-milanese».
Futurismo, Marinetti e il potere della parola. La base della satira. Da sempre nelle sue corde.
«Satira e potere della parola. Riferimenti irrinunciabili. Specie per chi come me è un improvvisatore».
In scena, sempre senza paracadute?
«Scherza? L’improvvisazione è un’arte. Ha dei codici ben precisi. L’improvvisazione in scena è il frutto di un lungo lavoro a monte».
Con maestri, per lei, come Dario Fo
«Mi creda Fo non improvvisava. Il più grande? Enzo Jannacci. Un maestro. Un esempio di satira eccezionale. Ricorda il suo brano Vincenzina e la fabbrica? Di una forza eccezionale. Una denuncia dal valore politico profondo. Oggi non si potrebbe più fare».
Perché? Cosa è cambiato di così profondo?
«Il mio riferimento, quando ho iniziato, era la comicità dell’americano Lenny Bruce, il suo saper gestire le parole, il loro peso e valore. Poi gli anni Novanta. Attori e comici hanno vissuto un momento d’oro. I comici facevano satira, tanta. Forse troppa. E si prendevano molto sul serio».
Poi cosa è successo?
«Siamo finiti nell’epoca del politicamente corretto. Tutto alla fine si è come appiattito e svuotato. Come si reagisce nel mondo? Proclamandosi “anti” qualunque cosa. E poi? Il passo successivo per neutralizzare una situazione di disagio? Ecco quello non c’è. E si resta sulla comoda posizione di essere solo antitetici».
Satira, oggi: rien ne va plus?
«Le rispondo così: canzoni come Margherita di Cocciante o Il bombarolo di André oggi non sarebbero immaginabili».
Un improvvisatore e cantastorie, come lei si è definisce, cosa fa oggi? Satira no, le istituzioni che fanno fatica a sostenere la cultura.
«Durante la pandemia le tante serate nei cortili, non solo a Trieste, intitolate “Visite guidate alle prove degli spettacoli” hanno creato un nuovo collante con il pubblico. Quello di cortili e spazi aperti, fuori dalle sale. Per le istituzioni politiche è più complesso supportare il mondo dello spettacolo. Ha una voce, a volte urla. Statue e musei? Diciamo sono meno insistenti. Capisce cosa intendo».
Soluzioni?
«La sfida di offrire al pubblico “sano intrattenimento”. Sano perché non deve mettere a rischio la salute; intrattenere in modo intelligente, dribblare il politicamente corretto, condividere con gli spettatori i problemi di ogni giorno. Esorcizzandoli. Dovrebbero poter tornare a casa arricchiti e con animo più leggero. Senza pubblico i teatri chiudono. Molière e Shakespeare insegnano come fare».
Improvvisi un viatico per il pubblico
«Restare sempre con un fondo di ignoranza. Lo diceva Jannacci: lasciare uno spazio nella mente nel cuore per poter aggiungere o imparare qualcosa».
Da mowmag.com il 3 giugno 2022.
Senza mai perdere la vena ironica che lo contraddistingue, sia in teatro che in Tv, quando chiamiamo Paolo Rossi ci confessa candidamente di essersi perso in un museo. Trovata l'uscita, ci concede un'intervista che accompagna con il suo realismo gioioso e diretto. L' artista, passato dal cabaret al teatro, dai programmi televisivi alla musica, ha dato voce anche a un brano che altrimenti avrebbe rischiato di restare chiuso in un cassetto, assumendosi la responsabilità, direttamente dall’iconico palco dell’Ariston, di consegnare di nuovo al grande pubblico la penna di Rino Gaetano.
E, a quarantuno anni dalla sua scomparsa, ci ha raccontato com’è nato il progetto di “In Italia si sta male”, e il perché sia stato chiamato proprio lui a interpretarlo. Spaziando poi dalla politica ai temi più attuali, il ritratto della politica italiana che ci ha consegnato è piuttosto triste e desolante: “In Italia il periodo più florido è stato quello dei Comuni”. E ancora: “Ogni paese ha il governo che si merita”.
Ricorda quando ha ascoltato per la prima volta una canzone di Rino Gaetano?
La memoria più vivida la ho nella canzone che ho portato a Sanremo “In Italia si sta male”, perché era la prima registrazione fatta in casa, incompiuta e quindi mi sembrava di assistere all’atto creativo. Credo che la prima canzone di Rino che ho ascoltato sia “Aida”.
Le sue canzoni, nonostante abbiano più di quarant’anni, sono sempre d’attualità. Secondo lei perché?
Perché il mood della scrittura della canzone, sia dal punto di vista melodico che il testo in sé, hanno a che fare con la natura umana e la storia. Quindi per forza di cose non passano mai. La storia e le storie, come dicono in Andalusia, spesso ritornano ma non in modo uguale. Le canzoni a volte ricordano questa circolarità.
Tra l’altro lei è uno dei pochi ad aver cantato un suo brano inedito, nel 2007 a Sanremo. Com’è nato quel progetto?
Come spesso capita nel mio mestiere mi hanno chiamato proponendomi di farlo. Presumo che cercassero più un cantanteattore che un cantante, per cui la scelta è ricaduta su di me. L’interpretazione era più importante del virtuosismo vocale. L’attore porta la canzone e quindi porta anche il ricordo di chi l'ha scritta, anche se in quel caso era un inedito.
A parte questa, quale canzone di Rino le sembra adatta ai tempi che stiamo vivendo oggi?
Due anni fa avrei risposto “Ma il cielo è sempre più blu”, ma oggi che è divorata dal consumismo devo trovarne un’altra. A me piace molto “Aida”. La storia del proprio paese si racconta molto meglio quando c’è dentro una storia d’amore. Questo non vale solo per la musica ma anche per il teatro, la letteratura e tanto altro.
Che tempi stiamo vivendo, sia a livello sociale che politico?
Stiamo vivendo dei tempi che ci mettono con le spalle al muro riguardo la coerenza. Faccio un esempio riguardante il mio campo: è più politico fare uno spettacolo impegnato sulle periferie molto di sinistra, però in un monologo da solo in un grande teatro borghese, oppure prendere una compagnia e andare a fare uno spettacolo in periferia di sano intrattenimento.
In questo momento la cosa più politica, e credo che Rino Gaetano sarebbe d’accordo con me, è che dovremmo considerarci un genere di conforto visto che siamo in guerra. Non è solo la guerra dei telegiornali, ma anche quella psichica e nelle nostre case. Il conforto in guerra è importante, perché sono i viveri e le munizioni.
Lei si sente un po' il Rino Gaetano della nostra epoca?
No, io sono un burattinaio. Credo che la cosa più importante sia che non si deve diventare il più bravo, ma imparare a fare ciò che si sa fare e che nessun altro potrebbe fare in modo uguale. Questa è la differenza.
Forse Rino Gaetano oggi avrebbe preso in giro il politicamente corretto. Qual è invece il suo rapporto con quella che sembra una censura preventiva?
Io ho vissuto una censura in un passato recente in cui era tutto più semplice. C’erano degli schieramenti molto chiari, oggi si ha a che fare con l’invisibile, con la polvere che non ti fa vedere bene le cose rischiando l’autocensura.
Io credo che ogni volta che c’è un problema il compito degli artisti sia quello di aggirare l’ostacolo, farne uno spunto creativo. Giocare con il paradosso. Questa censura è peggio della precedente, e non voglio neanche immaginare come sarà la prossima.
Ricordo suoi spettacoli e monologhi in cui ha preso in giro la classe politica, anche in maniera feroce. Oggi sarebbe ancora possibile?
Oggi il vero obbiettivo è la natura umana, perché ognuno ha il governo che si merita.
Cosa la fa più arrabbiare della politica attuale?
Non mi fa più arrabbiare perché non la considero politica.
Quale governo vorrebbe in un prossimo futuro? Pd? Pd-M5S? Pd-Meloni? Salvini, Meloni e Berlusconi?
Io non credo sia necessario un governo, ci sono paesi che vivono benissimo senza. In Italia il periodo più florido è stato quello dei Comuni. Credo che la democrazia sia in crisi in tutte le sue forme e istituzioni. Quando votiamo una persona votiamo anche i suoi segretari, i sottoposti, i figli, gli amici e quelli che potrebbero ricattarlo. Votando una persona in realtà se ne votano circa 280.
E cosa direbbe il suo amico Enzo Jannacci di una figura come Draghi?
Lui si interessava poco della figura dei politici, non voleva renderli delle star. Oggi sarebbe ancora più difficile, rispetto a prima, imitare uno che è già un imitatore. Fare la parodia della parodia è impossibile. Quando sono già ridicoli loro bisogna trovare un’altra via.
In passato ha collaborato con tanti grandi artisti, compreso il premio Nobel Dario Fo, un altro che è sempre andato contro il conformismo. Chi sono gli artisti che oggi, oltre lei, le sembrano più interessanti e fuori dagli schemi?
Mi sento sempre più solo.
Chi sono i politici che le rubano il mestiere, cioè le sembrano così comici che è difficile ironizzarci?
No, bisogna solo trovare una via traversa. Il nostro compito è anche quello di risvegliare la mente, e portare un po' di lucidità. Portare emozioni anche attraverso le canzoni di Gaetano. Un cambiamento, se non si può cantare e non si può ballare a me non interessa.
Rino Gaetano cantava nel 1976 “Mio fratello è figlio unico”, denunciando la condizione degli sfruttati e malpagati. Con il precariato, le partite Iva e lo sfruttamento nella logistica siamo sicuri di stare meglio di allora?
Assolutamente no, si sta meglio rispetto al medioevo o all’800 e basta poco per stare peggio.
Ci dica la verità, le è mai capitato di essere palpato da una fan come è accaduto a Blanco?
Mi viene da rispondere purtroppo di no.
Se le fosse successo l’avrebbe considerata una molestia?
Mi sarei chiesto il perché, ma non l’avrei considerata una molestia.
A parte tutto, vogliamo salutarci pensando che comunque domani “il cielo è sempre più blu”?
A Roma sì, è più blu che da altre parti. Anche a Trieste è abbastanza blu, nonostante sia più vicina a Kiev che a Reggio Calabria.
Paolo Ruffini a tutto tondo: "Oggi siamo in una fasciodemocrazia". Tra politicamente corretto e la difficoltà delle sale, Paolo Ruffini a tutto tondo ai nostri microfoni: "Il vero bullismo è sui social". Massimo Balsamo su Il Giornale il 3 Novembre 2022.
"È un film che sento addosso, in cui credo fortemente, e che considero urgente. Un film che ha voglia di sorridere con speranza, con l’augurio di sentirsi davvero migliori e di farcela": Paolo Ruffini è orgoglioso del suo "Ragazzaccio", nelle sale da giovedì con Adler Entertainment. Da lui scritto e diretto, il film racconta la storia di un adolescente insofferente alle regole, un bullo ingabbiato a causa del Covid-19. Ma anche la storia di migliaia di ragazzi, che si sono trovati ad affrontare il momento storico più difficile della loro generazione: la prima ondata di una pandemia mondiale, che ha lasciato una risacca invisibile ma lacerante: quella della fragilità emotiva, della solitudine, del disagio sociale, dell’iper-connessione tecnologica, i cui risvolti reali stiamo scoprendo solo recentemente, a molti mesi di distanza. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con l'artista livornese.
"Ragazzaccio" accende i riflettori sul forte disagio degli adolescenti nel pieno della pandemia, un unicum nel cinema italiano...
"Mi sono chiesto anche io il perché. Quando l'ho fatto, ho pensato anche a quanti autori ne avrebbero parlato. Invece non ho capito perché non ne ha parlato nessuno. Francamente non so il perché. Penso che ci sia stato un problema di sottovalutazione. La mia punizione quando ero giovane era il 'non esci'. Ora i ragazzi hanno vissuto tre mesi di reclusione come tutti, ma per un adolescente la reclusione sociale penso sia un elemento ancora più grave. E questi ragazzi non meritavano neanche il senso di colpa legato alla malattia, con i possibili rischi del contagio ai genitori o ai nonni. Penso che sia stato un momento terrificante per tutti, ma in un'età formativa come quella adolescenziale è stata ancor più terrificante. E l'onda lunga dei danni psicologici non penso che sia stata calcolata bene. Per questo ho raccontato la storia di questo piccolo uomo, bullo, che pensa che il mondo faccia schifo. E per un momento lo abbiamo pensato tutti. Poi gli capita questa sfiga meravigliosa di innamorarsi nel periodo più sbagliato. E si racconta che la cosa più contagiosa al mondo è l'amore, non il Covid. E questa è una notizia che i telegiornali non danno".
Anche in "Ragazzaccio" troviamo uno dei temi a lei più cari, la celebrazione della bellezza della vita. Anche da questo punto di vista, non una consuetudine per il nostro cinema...
"Io non ho fatto un film per me. Anche perché il cinema italiano è già pieno di autori che fanno film per guardarli loro (ride, ndr). Ho fatto un film emozionante, ma sempre mettendo al centro il pubblico, che viene spesso dimenticato. Oggi si fanno i film per compiacere l'eco autorale o per il tax credit".
"Ragazzaccio" restituisce il linguaggio autentico degli adolescenti, parolacce comprese. Nessun timore di quelli che si scandalizzano facilmente?
"Non mi sono posto assolutamente il problema. Un cinema politicamente corretto è un ossimoro. Anche qui sarò una mosca bianca, che ci posso fare... I ragazzi parlano così oggi. Se avessi fatto un film dove i ragazzi parlano come gli adulti pensano che i ragazzi parlino, sarebbe stato un film scollato e i 1500 studenti presenti all'anteprima non lo avrebbero seguito e capito. Mentre loro girano e pensano in verticale, con le storie di Instagram. Se nel 2022 ci sconvolgiamo ancora perché si ritiene scandaloso dire 'cazzo'...Mi viene in mente il monologo del colonnello Kurtz in 'Apocalypse Now': 'Addestriamo dei ragazzi a sganciare Napalm sulla gente, ma i loro comandanti non vogliono che scrivano cazzo sugli aerei perché è una parola oscena'".
Lei ha dovuto fare i conti con questo politicamente corretto?
"Io me ne sono fottuto, perché ho avuto la possibilità di farlo. Negli ultimi anni ho fatto lo spettacolo teatrale 'Up & Down' con persone scorrette geneticamente. Ho fatto un documentario sull'Alzheimer ('PerdutaMente' ndr), questo film e poi altre due commedie. Io ho cercato altre vie, ma non per scappare: volevo raccontare delle storie con il linguaggio giusto. Ma non ci sono dubbi che il politicamente corretto sia una tragedia per la satira e per la commedia. Oggi ciò che posso dire o non posso dire non lo decide un regnante, ma un oligarchia su Twitter. Se tal Cettina78 dice su Twitter che l'intervento di Paolo Ruffini è volgare, altre persone condividono e dicono che Ruffini è uno stronzo e un pezzo di merda. E noi andiamo dietro a Cettina78".
Effettivamente sembra funzionare così...
"Paradossalmente la censura è sempre stata uno strumendo anche di destra, ma ora è roba di radical chic che dicono 'certo, certo'. Ma gli artisti di sinistra che io conosco sono sempre stati scorretti. Oggi sarebbe stato possibile Pasolini? Sarebbe stata possibile la Wertmuller, con Giannini che dà della 'bottana industriale' alla Melato? E ancora, sarebbe stato possibile Benigni che tocca il pacco a Pippo Baudo? Lo ripeto: arte politicamente corretto è un ossimoro, come dire ghiaccio bollente. Penso al nostro bagaglio culturale, al nostro immaginario collettivo, anche televisivo. Ti immagini 'Drive In' oggi? A me manca la volgarità, ma c'è stato sempre un grande equivoco: la volgarità era fatta da persone colte. Per essere volgare devi avere una certa cultura. Shakespeare faceva cinepanettoni ai suoi tempi (ride, ndr). Noi abbiamo voluto sentirci un pochino più importanti dicendo che le parolacce non vanno bene, in favore di una morale bigotta che castra qualsiasi creatività".
Il suo pensiero è condiviso da molti altri artisti...
"Oggi c'è un problema reale di pubblico. Quello che posso dire o non dire non lo decide il pubblico. È come se ci fosse una fasciodemocrazia: è un fascismo democratico che si esprime sui social. Gli utenti pensano di avere tutti i diritti di censurare un artista in base al loro giustizialismo. Questo è il vero bullismo. Se io faccio lo sgambetto a uno, è uno sgambetto, è uno scherzo. Ma la gente arriva a chiedere la pena di morte. Come fai a gestire tutto ciò?".
Il suo "Ragazzaccio" è un film che si rivolge a tutti, ma le sale sono in palese difficoltà...
"Sì, si rivolge a tutti, studenti e professori, genitori e figli. E poi dire di aver fatto un film al giorno d'oggi è una lusinga. Perché il cinema è l'unica arte che ha anche un luogo. A differenza della musica, il cinema è un'arte che ha lo stesso nome di un posto e non può essere un caso. Il cinema non lo puoi tenere in mano grazie a uno smartphone. Io credo che il pubblico debba fare un po' fatica e pensare che non tutto possa arrivare a casa. Io ho fatto un film, non un contenuto. Io ho fatto un film che va visto in orizzontale, mentre i giovani oggi pensano in verticale: se li porti a vedere 'C'era una volta il West' non sanno dove guardare. Io spero che il pubblico dia fiducia non solo a me ma anche alla sala. Mi auguro che il pubblico possa fare un po' di fatica, anche se un po' lo capisco. Noi magari non abbiamo fatto film meravigliosi - perché ne sono stati prodotti tanti - e il biglietto costa tanto, me lo ha detto anche mia nipote (ride, ndr). Si potrebbe fare che 5 euro ce li mette lo Stato e 5 euro ce li mette il pubblico, può essere una buona idea".
Quali sono i suoi progetti futuri?
"Presto usciranno due film: 'Rido perchè ti amo', una commedia sentimentale dove sono regista, sceneggiatore e attore, e 'Uomini da marciapiede', in qualità di attore e sceneggiatore. Entrambi usciranno nel 2023. E poi c'è un progetto molto bello per il teatro che è l'adattamento del film 'Quasi amici' con me e Massimo Ghini".
Paolo Sorrentino: «I monologhi nei miei film? Nascono dalla velleità di fare letteratura. Sono tutti libri lasciati a pagina 9». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.
Grande folla per il regista ospite al Tpe per il Tff. «Lo spettatore cerca una verità. Ma la verità è quella che uno inventa».
«Il monologo mi dà la possibilità di camuffare come colpo di scena qualcosa che non c’è». Sono parole di Paolo Sorrentino, che stasera, venerdì 2 dicembre, è arrivato al Teatro Astra, ospite del Tpe per uno degli ultimi grandi eventi legati al 40esimo Tff. Il regista, intervistato da Steve Della Casa e David Grieco, ha parlato dei monologhi nei suoi film e del loro legame con il teatro, grazie anche alle suggestioni di Andrea De Rosa, direttore di Fondazione Tpe, nella cui stagione è stato inserito l’incontro. «La mia esigenza di fare i monologhi — ha rivelato Sorrentino — nasce dalla velleità di fare letteratura. Sono quasi tutti libri che ho iniziato a scrivere e poi ho lasciato a pagina nove». E sono stati suddivisi in tre tipologie, con diversi spezzoni proiettati davanti a una sala gremita, con code all’ingresso e anche all’uscita, nella speranza (vana) di scattare una foto con il regista.
Ci sono i monologhi interiori, con un rimando a Shakespeare, come quello di Giulio Andreotti interpretato da Toni Servillo ne Il Divo, o lo stesso Servillo ne Le conseguenze dell’amore. «Il monologo del Divo — ha detto Sorrentino — non c’era nelle prime stesure della sceneggiatura. Nasceva dall’esigenza legata alla indecifrabilità di Andreotti: l’unico modo che trovai per avere un mio punto di vista era uscire dal personaggio. Pensai: verremo uccisi (visto che Andreotti ai tempi era ancora vivo, ndr). Chiesi a Toni di farlo con lo stesso stile con cui faceva un monologo a teatro in Rasoi». Un teatro che torna sempre, anche se appare più un’influenza dovuta alla formazione napoletana di Sorrentino negli anni 90, a contatto con il lavoro di Mario Martone e Toni Servillo (entrambi peraltro ospiti del Tff).
Poi ci sono i monologhi in cui il personaggio, come in Cechov, si rivolge a qualcuno che non parla. È il caso di Michael Caine in Youth. «Facemmo una quindicina di ciak — ha ricordato il regista — perché Michael attendeva moltissimo quel momento, forse troppo, e sbagliò parecchio, arrabbiandosi con se stesso. Nell’altro di Toni Servillo in Le conseguenze dell’amore mi piaceva invece la battuta sull’acquisto della petroliera. Toni è un finissimo intellettuale, trova significati anche nelle cose che scrivo per divertimento, che poi — ha scherzato — riutilizzo nelle conferenze stampa». Si arriva alla terza tipologia, quella forse più cult, l’invettiva, come nel Misantropo di Molière. Ed è celebre il «monologo a Stefania» ne La grande bellezza, o quello di Rachel Weisz in Youth. «Lo spettatore cerca una verità dentro il film — ha aggiunto Sorrentino —, io perseguo l’obiettivo opposto. Molto spesso c’è questo Moloch della verità, in realtà è come nel monologo di Berlusconi in Loro (quando si spaccia per il venditore Augusto Pallotta, ndr) per il quale sono molto debitore al vero Berlusconi: la verità è quella che uno inventa».
Nella conclusione, però, resta la vocazione per il cinema. «Non ho mai pensato di fare teatro — ha ammesso Sorrentino — e ultimamente ho ripreso gli spettacoli di Mattia Torre ma stavo impazzendo, mi piace di più il set, ma poi non lo saprei fare. Da ragazzo facevo l’assistente volontario in produzione, dopo alcuni errori fui declassato a guardia di un proiettore lontanissimo dal set, che illuminava un palazzo sullo sfondo, in un posto malfamato di notte. Pensai: me ne vado. Quando mi diedero il cambio andai dritto dai produttori, ai quali avevo mandato il mio primo cortometraggio, ma non feci in tempo a parlare perché mi dissero di averlo trovato interessante. Quindi pensai: allora non me ne vado».
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 16 novembre 2022.
Nel giardino dell'hotel Mamounia, l'albergo leggendario, a due passi dalla piazza Jema El-Fna, che aveva incantato personaggi come Winston Churchill e Yves Saint Laurent, Paolo Sorrentino, presidente di giuria del "Festival du film de Marrakech", fa una dichiarazione talmente inedita e sincera che quasi quasi sembra uno scoop: «Sono diventato grande e ho scoperto che rallentare i ritmi è bellissimo, per tanti anni sono stato un lavoratore indefesso, ora mi sto prendendo un po' di tempo. Dopo È stata la mano di Dio, un film impegnativo, molto emotivo e personale, so che non ho intenzione di intraprendere una carriera di film autobiografici, e per adesso non ho ancora deciso quale sarà il prossimo film, ne ho vari in cantiere, vedremo».
Ha girato un film su Giulio Andreotti e un altro, in due capitoli, su Silvio Berlusconi. Le è per caso passata per la testa l'idea di farne un altro, su uno dei personaggi che animano l'attuale scena politica?
«Sotto il profilo professionale, l'attualità su di me ha poca presa, non me ne sono mai interessato. Su figure come Andreotti e Berlusconi ho fatto film riferendomi al passato, quando le cose erano ormai chiare e circoscritte, ragionando senza l'isteria dell'attualità che comporta prese di posizioni, polemiche. Quei film non erano programmatici, avevano al centro sempre gli uomini, e gli uomini sono grigi, un caleidoscopio immenso di sfaccettature che certe volte riguardano il bene, altre il male, altre ancora il nulla.
Nel Divo volevo raccontare la complessità di un essere umano, non certo descrivere la Democrazia Cristiana, e lo stesso vale per Loro. Ho fatto due film su due uomini politici, è abbastanza, farne un terzo sarebbe una fissazione».
Che pericoli si corrono parlando dell'oggi?
«Nel fare film sulla cronaca si rischia di sbagliare, i film hanno una loro gestazione, magari è più interessante cercare di anticipare qualcosa del futuro. Per mia formazione preferisco fare film su realtà sedimentate, forse questo atteggiamento è dettato dai miei interessi, siccome sono italiano e occidentale mi dedico ai sentimenti dei personaggi. E poi non ho una predilezione per i film a tesi, con un messaggio. Per me il film è un'avventura che ricalca la vita, trascendendola. E siccome la vita è un enigma, preferisco film enigmatici, che suggeriscono possibilità, senza fare affermazioni».
In Italia impazza il dibattito sulla crisi del cinema nelle sale, Nanni Moretti ha detto che intorno ai film c'è un clima depresso, altri indicano altre motivazioni e altre ricette. Lei che cosa ne pensa?
«Moretti parla da imprenditore, quindi da una prospettiva molto più ampia che io non conosco. Non so esattamente che cosa si debba fare per salvare il cinema in sala, non ho ricette. Da spettatore ritengo che i problemi siano vari, ma sono anche moderatamente ottimista. C'è stato il Covid e poi c'è stata l'estate, mesi in cui in Italia nessuno ha mai avuto l'abitudine di andare al cinema. Per questo aspetterei a dichiarare la resa totale.
Un film come La stranezza mi sembra un buon segnale, è ovvio che la prima cosa importante sia fare film buoni, e poi bisogna rendere le sale più attraenti. Penso all'esperienza dei ragazzi del Cinema America, hanno creato una specie di club dove i ragazzi vanno a leggere e a studiare, si sono fatti venire duecentomila idee. È un po' quanto accaduto nei ristoranti, vent' anni fa ci si andava sapendo che il menù era fisso. Adesso i ristoratori si inventano di tutto, la novità del giorno, il piatto speciale».
Stiamo tentando di superare i due anni di pandemia e restrizioni. Che cosa le hanno lasciato queste esperienze?
«Ci penso sempre, ma non riesco a capire esattamente che cosa sia rimasto di tutto quello che abbiamo vissuto. Di sicuro non è accaduto quello che mi aspettavo, pensavo, come tanti altri, che ci sarebbe stata una esplosione di gioia, simile a quella vissuta nel dopoguerra, un grande senso di liberazione e di eccitazione collettiva. Tutto questo non c'è stato, si vedono di nuovo un sacco di turisti in giro, nient' altro. La verità è che per capire ci vorrà del tempo. Sicuramente ha messo un po' tutti in difficoltà. Forse i ragazzi, con il loro naturale slancio verso il futuro, si sono riboccati le maniche meglio di noi adulti che il futuro lo abbiamo in gran parte alle spalle».
Che cosa la interessa del cinema che si fa oggi nel mondo, intravede novità?
«Con l'avvento delle piattaforme il livello tecnico si è molto alzato, tanti giovani registi italiani sono tecnicamente più bravi di quanto lo fossero i giovani di alcuni anni fa, me compreso. Questa sapienza tecnica ha raggiunto un livello di saturazione, c'è una forma molto curata anche nei film piccoli. Questo, da un lato, è meglio, offre allo spettatore la possibilità di trascorrere una serata gioiosa con un film.
Dall'altro lato, però, essendo io cresciuto con registi atipici, scorretti, talvolta sconclusionati, avrei piacere di ritrovare quel tipo di autonomia. Qui a Marrakech c'è Jim Jarmusch, i suoi film erano così, penso a Daunbailò. Quando un autore comunica libertà e follia diventa incoraggiante per chi è alle prime armi. Per me fu così, vedendo quei film pensai che avrei potuto trovare la mia forma di follia».
Tornerà a lavorare per le piattaforme?
«Le piattaforme sono meravigliose, consentono a persone che vivono in luoghi dove il cinema non c'è di vedere i film, e poi danno la possibilità di lavorare a registi che erano usciti fuori dal circuito della produzione. Penso solo che adesso gli autori possano fare più film per il cinema, anche per aiutare le sale. Moretti, Bellocchio, Garrone stanno facendo così. Una cosa è evidente, il cinema medio commerciale in sala non funziona più. Lì restano i grandi blockbuster e i film d'autore, quelli che riescono a diventare eventi. È anche vero che poi ci sia un cinema d'autore un po' prevedibile e che oggi, dopo anni di smarrimento, sia necessario trovare idee nuove».
Arianna Finos per “la Repubblica” il 13 giugno 2022.
Quella città che ha lasciato ventenne con un dolore diventato cinema è oggi un approdo di tenerezza e allegria. A Napoli Paolo Sorrentino ha girato il primo film, L'uomo in più , e un po' dell'anima di quella città l'ha portata nei film che attraversavano il mondo, i festival, gli Oscar. Scegliendola, a cinquant' anni, per il suo racconto più intimo, È stata la mano di Dio.
Lei ha detto: "Napoli non la conosco", che è forse la cosa più giusta, di fronte a una città così piena di ricchezza e complessità. Ma cos' è per lei Napoli oggi?
«Il luogo dove sono cresciuto, mi sono formato. Un luogo di nostalgia, ma dove torno con entusiasmo. Una città che malgrado i suoi difetti è sempre viva, in costante stato di eccitazione».
"È stata la mano di Dio" è stato abbracciato dal pubblico napoletano.
«Sì, penso che sia piaciuto, anche perché è un film che non pretende di raccontare la città, spiegarla. I napoletani mal sopportano quando si cerca di incasellare la città dentro certe definizioni. È semplicemente un appuntamento con i ricordi di un periodo storico, gli anni Ottanta: chi li ha vissuti ha ritrovato cose che lo riguardavano e si è appassionato, o intenerito, o divertito, a seconda delle circostanze».
Nel film racconta la Napoli del post terremoto, un momento buio.
«Mi ricordo la cupezza di fine anni Settanta e inizio Ottanta, le tensioni legate alla criminalità e alla politica di quegli anni, anche se ero bambino. Ne parlavano gli adulti, i miei fratelli grandi, in casa. Il terremoto mise in ginocchio la città, un caos che si aggiungeva a quello dei decenni precedenti. La città ha invece avuto un periodo di grande forza nei Novanta, con Bassolino, si è vista per la prima volta una Napoli cambiata. Ma il mio sguardo sugli Ottanta è filtrato dallo sguardo del 16 enne che ero».
Che cosa ha rappresentato per lei, giovane artista con la fame di cinema, l'esistenza di Teatri Uniti.
«È stata decisiva. In tanti avevamo la passione del cinema, ma senza Teatri Uniti l'avremmo vissuta a casa, senza risultato. Teatri Uniti era un luogo dove potevi andare, parlare, trovare persone, sperare di entrare a far parte di quel mondo.
Potevi lavorare, vedere come funzionava un set, portare i tuoi progetti. Era un luogo bello, dove si oziava tanto e si lavorava tanto allo stesso tempo. Ci si raccontavamo le cose, nascevano progetti. Era una specie di casa del cinema napoletano.
Lì abbiamo potuto conoscerci gli uni con gli altri, il mio primo produttore Nicola Giuliano, Angelo Curti, Toni Servillo, che è stato ed è l'attore con cui lavoro più spesso. E poi ci sono stati gli apripista, Mario Martone che faceva film quando non sapevamo neanche come si organizzassero. Al di fuori di Teatri Uniti, ma fondamentali, Pappi Corsicato e Antonio Capuano: grazie a loro noi ragazzi pensavamo "se si fanno i film a Napoli con registi napoletani, forse ce la possiamo fare anche noi"».
A Massimo Troisi lei scrisse una lettera tenerissima.
«Non l'ho mai conosciuto di persona. Ma la sua figura è stata unica perché capace di rendere umano un mondo del cinema che a un diciottenne sembrava inaccessibile, scorbutico. Ti faceva credere che si potesse far cinema con dolcezza, tenerezza, ironia, intelligenza, doti che da ragazzo cerchi di coltivare più di altre. Troisi è stato un esempio nel modo di stare al mondo e affrontare il cinema».
Francesco Rosi amava i giovani e amava il suo cinema.
«Mi ha chiamato dopo il primo film, lo faceva con i giovani registi che apprezzava. È nata una bella amicizia. Era nel mondo degli idoli, un grande maestro che ho avuto la fortuna di conoscere, pieno di semplicità e passione. A lui e La Capria facevo vedere i film appena montati. Rosi era sincero ma dolce nelle cose che diceva, nel giudizio, mai inutimente aggressivo».
"Napule è" di Pino Daniele chiude "È stata la mano di Dio".
«Una canzone simbolo della città, piena di malinconia ma anche di apertura sul futuro. Ero bambino e Pino Daniele, al primo disco, era già un astro nascente. Ai miei occhi un predestinato. Queste figure sono importanti quando si è ragazzini e si ha voglia di fare le cose e non si sa bene come farle».
Napoli è un bacino di creatività unico in Italia.
«È una creatività che viene da lontano, pittura, musica, scrittura, teatro. Eduardo, Totò, una città radicata nello spettacolo e ci si aggancia tutti a quello. Nelle cose che faccio io c'è tanto di questo, degli autori che abbiano nominato, Martone, Capuano, Corsicato.
Libera fu importante: si poteva affrontare l'ironia, la comicità senza vincoli, strampalata, non era scontato che esistesse un film del genere all'epoca, come non lo è oggi. Film fuori dai canoni come lo erano Morte di un matematico napoletano e Vito e gli altri , capaci di sfuggire a qualsiasi idea commerciale e di costruirsi un futuro con quella libertà.
Senza obbedire a calcoli, alle idee dominanti che venivano da Roma, come sempre accade perché il cinema viene da Roma. Erano film fatti secondo la volontà degli autori, autonomi in tutto e per tutto. Mi hanno insegnato che il cinema vale la pena se te lo fanno fare in modo libero.
Ho fatto L'uomo in più e Le conseguenze dell'amore esattamente come volevo, hanno avuto riscontri e fatto sì che i produttori mi lasciassero libero. Tutto sommato è andata bene. Oggi per i giovani è diverso, la televisione si è affiancata al cinema in modo forte, le cose sono incanalate in un percorso industriale. Venticinque anni fa c'era possibilità di fare cinema in maniera più ingenua, c'erano meno aspettative sui film, anche questo ci lasciava liberi».
Giovani autori napoletani che le piacciono?
«Gianluca Iodice è molto bravo, ha un grande futuro. Lo conosco da ragazzino, è sempre stato un regista prima di fare i film, ne conosceva i segreti. Ed è sufficientemente stravagante da fare i film che piacciono a me.
Michelangelo Gelormini, che ha una sua idea di cinema, di racconto. Leonardo Di Costanzo ha fatto documentari meravigliosi, com' era prevedibile si è rivelato un grande regista anche di finzione».
La cena a casa sua, prima della notte dei David di Donatello, è una foto simbolo dell'armonia del cinema napoletano.
«È una cosa rara: nessuno di noi ha una forma di rivalità. Con Mario Martone e Leonardo Di Costanzo c'è una grande simpatia reciproca, una voglia di vedersi e di divertirsi insieme. È capitato quella sera prima dei David e tante altre volte. Abbiamo tutti quanti raggiunto un sufficiente appagamento lavorativo per riuscire ad essere in armonia.
La premiazione degli Academy Awards il 27 marzo. “È stata la mano di Dio” candidato al Premio Oscar: Paolo Sorrentino nella cinquina per il miglior film internazionale. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Febbraio 2022.
Paolo Sorrentino candidato all’Oscar. È la seconda volta nella sua carriera: dopo che nel 2014 aveva vinto la statuetta degli Academy Awards con La Grande Bellezza. È stata la mano di Dio è entrato nella cinquina dei migliori film internazionali: si tratta del film più intimo del regista napoletano; ambientato nel capoluogo campano, appunto, e ispirato alla sua giovinezza. Un romanzo di formazione, con la tragedia e la scoperta del protagonista alter ego del regista. La proclamazione e la premiazione finali si terranno il prossimo 27 marzo a Los Angeles. Oltre a Sorrentino, tra gli italiani, nominati anche Massimo Cantini Parrini per i costumi di Cyrano ed Enrico Casarosa per il miglior film di animazione Luca. È stata la mano di Dio
“Sono felicissimo di questa nomination. Per me è già una grande vittoria. E un motivo di commozione, perché è un riconoscimento prestigioso ai temi del film, che sono le cose in cui credo: l’ironia, la libertà, la tolleranza, il dolore, la spensieratezza, la volontà, il futuro, Napoli e mia madre”, ha commentato a caldo all’Ansa Sorrentino. Il film ha già conquistato il Leone d’Argento Gran Premio della giuria alla Mostra del cinema internazionale di Venezia. Per la statuetta è in corsa con: Drive my car, The worst person in the world, Flee, Lunana: a yak in the classroom. Drive my car del regista giapponese Ryusuke Hamaguchi è candidato in quattro categorie. Il film che ha ricevuto più nomination in assoluto è The Power of the Dog, già vincitore in tre categorie, tra cui miglior film, ai Golden Globe, con 12 candidature. A seguire Dune con 10 nomination.
Le candidature sono state annunciate nel corso di una presentazione in diretta streaming sul sito dell’Academy e sulle pagine social dell’attore Leslie Jordan e dell’attrice e produttrice Tracee Ellis Ross. La nomination per Sorrentino arriva a pochi giorni dall’endorsement di Robert De Niro. “Ci sono davvero tantissimi aspetti pazzeschi in È stata la mano di Dio, il ricco romanzo di formazione di Paolo Sorrentino. È un film intensamente personale. Sorrentino, che lo ha scritto e diretto, ha creato il suo surrogato Fabietto dal suo DNA e dalle sue esperienze, e ha ambientato la pellicola a Napoli, la sua terra d’origine”, aveva scritto la stella di Hollywood, di origini molisane, sulla rivista Deadline.
È stata la mano di Dio è uscito nei cinema lo scorso 24 novembre e dal 15 dicembre è in streaming sulla piattaforma Netflix. Sta riscuotendo un ottimo successo di pubblico e di critica. È ispirato alla vicenda personale del regista. La “mano di Dio” del titolo è un riferimento alla celebre “mano de dios”, il goal che Diego Armando Maradona segno all’Inghilterra ai Mondiali del 1986. “A me Maradona ha salvato la vita. Da due anni – ha raccontato Sorrentino a Il Corriere della Sera – chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare il week end in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli”. Il giorno dopo Sorrentino tornò nella casa di città quando all’improvviso squillò il citofono. Il futuro regista pensava fosse l’amico passato a prenderlo ma era il portiere del palazzo. “Mi avvertì che era successo un incidente … papà e mamma erano morti nel sonno. Per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio”. A prestare il volto ai genitori del protagonista Fabietto, alter ego dell’adolescente Sorrentino interpretato da Filippo Scotti, nel film sono gli attori Toni Servillo e Teresa Saponangelo.
Tutte le candidature agli Oscar nelle principali categorie:
Miglior film
Belfast
CODA
Don’t Look Up
Drive My Car
Dune
King Richard
Licorice Pizza
Nightmare Alley
The Power of the Dog
West Side Story
Miglior regista
Kenneth Branagh (Belfast)
Ryûsuke Hamaguchi (Drive My Car)
Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza)
Jane Campion (The Power of the Dog)
Steven Spielberg (West Side Story)
Miglior film internazionale
Drive my Car
È stata la mano di Dio
The Worst Person in the World
Flee
Lunana: A Yak in the Classroom
Miglior attore protagonista
Javier Bardem (Being the Ricardos)
Benedict Cumberbatch (The Power of the Dog)
Andrew Garfield (Tick, Tick … Boom!)
Will Smith (King Richard)
Denzel Washington (The Tragedy of Macbeth)
Miglior attrice protagonista
Jessica Chastain (The Eyes of Tammy Faye)
Olivia Colman (The Lost Daughter)
Penélope Cruz (Parallel Mothers)
Nicole Kidman (Being the Ricardos)
Kristen Stewart (Spencer)
Miglior film di animazione
Encanto
Flee
Luca
The Mitchells vs. the Machines
Raya and the Last Dragon
Miglior attrice non protagonista
Jessie Buckley (The Lost Daughter)
Ariana DeBose (West Side Story)
Judy Dench (Belfast)
Kirsten Dunst (The Power of the Dog)
Aunjanue Ellis (King Richard)
Miglior attore non protagonista
Ciarán Hinds (Belfast)
Troy Kotsur (Coda)
Jesse Plemons (The Power of the Dog)
J.K. Simmons (Being the Ricardos)
Kodi Smit-McPhee (The Power of the Dog)
Migliori costumi
Cruella
Cyrano
Dune
Nightmare Alley
West Side Story
Miglior sceneggiatura originale
Belfast, Kenneth Branagh
Don’t Look Up, Adam McKay, David Sirota
King Richard, Zach Baylin
Licorice Pizza, Paul Thomas Anderson
The Worst Person in the World, Eskil Vogt, Joachim Troer
Migliore colonna sonora
Don’t Look Up, Nicholas Britell
Dune, Hans Zimmer
Encanto, Germaine Franco
Parallel Mothers, Alberto Iglesias
The Power of the Dog, Jonny Greenwood
Miglior sonoro
Belfast
Dune
No Time to Die
The Power of the Dog
West Side Story
Miglior corto animato
Affairs of the Art
Bestia
Boxballet
Robin Robin
The Windshield Wiper
Miglior corto live action
Ala Kachuu – Take and Run
The Dress
The Long Goodbye
On My Mind
Please Hold
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Fulvia Caprara per “La Stampa” il 9 febbraio 2022.
La risorsa, oggi, per Paolo Sorrentino, può essere anche in quella maturità che negli ultimi tempi ha spesso dichiarato di aver raggiunto: «Mi sento invecchiato - dice paragonandosi ai tempi dell'Oscar alla Grande bellezza -, però, fortunatamente, oggi ho un rapporto meno nervoso con le cose, sono più pacificato, e questo è uno dei pochi benefici legati all'avanzare dell'età. Il che non vuol dire essere meno appassionati, solo che adesso mi sento più pronto ad accogliere quello che viene, nel bene e nel male, senza farmene un cruccio. Quando sono andato agli Oscar con La grande bellezza ero più agitato».
Alla fine di un pomeriggio frenetico di messaggi e felicità, Sorrentino si sottopone a un fuoco di fila di domande cariche di speranza: «Non mi aspettavo la candidatura - spiega -, ma certo ci speravo. Mi faceva piacere entrare di nuovo nella cinquina. Entrare una volta può essere anche un caso, entrare due volte è stupendo. Sono molto contento, perché è una soddisfazione personale, perché il film è per me molto importante, perché sono stato quattro mesi avanti e indietro per gli Stati Uniti e, in tempi di Covid, fare tanti viaggi e incontrare tante persone è stato abbastanza faticoso».
In questa avventura così profondamente personale, il sentimento predominante è «la commozione. Questo film mi ha commosso in tutte le sue fasi, quando l'ho scritto, quando l'ho girato e montato, quando l'ho mostrato. Gioisco commuovendomi e non esultando». La competizione si preannuncia dura: «Ci sono un sacco di film molto buoni, non è entrato un grande regista come Farhadi che ha girato un film molto importante, e questo dimostra che il gioco era complicato e inatteso. Il favorito è Drive My Car, candidato anche per miglior film e miglior regia, e io, stavolta, nel non essere favorito, mi sento molto a mio agio. Per usare una metafora calcistica, mi piace molto di più partire dalla panchina».
Il calcio c'entra sempre, nella storia su Instagram dove Sorrentino ha postato una foto di Maradona («Ho sul telefono una cartella di foto di Maradona, non ricordavo di avere anche quella, l'ho messa perché mi è sembrato un giochino da fare») e anche nelle valutazioni sull'Italia che torna in gara tra i migliori film stranieri dopo l'Oscar alla Grande bellezza: «Entrare è anche frutto di convergenze fortuite, non vuol dire che, negli anni precedenti, non ci siano stati film altrettanto buoni, che potevano andare agli Oscar. È un gioco e, come succede nelle partite di calcio, se capita di perdere all'ultimo minuto non è perché una squadra è più forte dell'altra, ma perché succede qualcosa di imprevedibile».
La vera vittoria, aggiunge l'autore, «è essere entrati in un gruppo ristretto di registi che vengono considerati bravi, per me questa è la più grande soddisfazione». L'esperienza, come sempre, aiuta, anche se non è facile decifrarne il senso: «Non ho capito molto da quello che è successo in passato, non mi sembra ci siano regole cui adeguarmi e infatti mi fa molto sorridere quando i miei detrattori dicono "questo è un film concepito per vincere l'Oscar". Sarebbe bellissimo avere a disposizione una formula, ma non ce l'ho io e non ce l'ha nemmeno Steven Spielberg che conosce benissimo il meccanismo. Le regole sono misteriose, se ho capito bene quest' anno le persone che votano sono diecimila, è impossibile rintracciare una regola fissa che attraversi diecimila teste».
Dei rivali diretti, quelli della stessa cinquina, «non è di buon gusto» parlare, ma se si chiede a Sorrentino qual è il suo titolo preferito tra quelli in corsa nelle altre categorie risponde senza incertezze Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson: «Nella sua semplicità, nella sua apparente convenzionalità, è un capolavoro. Un film complicato da fare che riesce a raggiungere un tasso altissimo di emozione e leggerezza».
Tra i critici che hanno recensito È stata la mano di Dio c'è uno fra gli attori più grandi della storia del grande schermo: «Ho provato felicità pura, per me, per quelli della mia e di varie generazioni, De Niro è una specie di divinità. È anche citato nel film, perché il protagonista insegue vanamente l'occasione di vedere C'era una volta in America. Mi sembra che quell'articolo sia il segno di un giro che si compie, il "me" adulto ha avuto la possibilità di incontrare De Niro e addirittura di leggere quello che ha scritto sul film. De Niro è il cinema, è come essere incoronati da uno dei re del cinema».
Tony Damascelli per "il Giornale" il 31 gennaio 2022.
Sono cinquantuno gli stati membri degli Stati Uniti d'America. Prevedo la smentita: no, sono cinquanta più il distretto di Colombia. Ma Robert De Niro ha scritto una lettera di amore e passione, e forse di interesse, indirizzata a Paolo Sorrentino e alla sua ultima opera cinematografica È stata la mano di Dio, parole mille di affetto ed esaltazione del nostro Paese, di Napoli e poi Roma, siti del film del premio Oscar e dunque celebrazione dell'Italia, di quell'Italia che è rimasta nella memoria dell'attore newyorkese con radici, per parte dei nonni, di Ferrazzano, terra di Campobasso.
Italia cinquantunesimo stato, con la comunità straniera più numerosa, una storia di immigrazione incominciata a metà dell'800 per definirsi negli anni Trenta. Non è più il tempo di pizza, mandolino, mafia e brokkolino, alla voce Little Italy, la stessa nella quale crebbe Bob Milk, come lo chiamavano per il pallore della carnagione.
Cristoforo Colombo ha fatto il percorso inverso, gli americani hanno riscoperto l'Italia, non più come i soldati della liberazione, niente più chewing gum e boogie woogie, sbarcano, arrivano, viaggiano da Indiana Jones all'inseguimento di pietre che loro non hanno mai avuto epperò cercano di possedere, dunque l'arte e il cibo, la grande bellezza di città e borghi, il loro Moma da noi è un museo a cielo aperto, senza confine.
De Niro spinge Sorrentino dopo aver accarezzato Bernardo Bertolucci in Novecento (era, lui, Alfredo Berlinghieri, il possidente terriero) e Sergio Leone (C'era una volta in America), l'Italia si veste di nuovo, non è terra da liberare, arrivano i nostri è repertorio fumettistico, le legioni americane piazzano accampamenti in ogni dove, Sinatra era mezzo italiano? Dean Martin non si chiamava davvero Gaetano Alfonso Crocetti?
E Joe Pesci che roba si porta in quel cognome e Madonna Ciccone e Alfredo James Pacino e lady Germanotta detta anche Gaga che ha scelto di vestire, al cinema, lady Gucci? Tarantino, Coppola, de Palma, Scorsese, Di Caprio e Geraldine Ferraro e Nancy Pelosi, occupanti del torpedone di italoamericani che si ricorda del presepe natale e qui torna scoprendo il senso della vita smarrito nella Grande Mela e negli altri parchi da divertimento americani.
C'è quell'America che si era innamorata di Caruso prima e di Pavarotti dopo e, oggi, flirta e sballa con i Maneskin la facciata B, molto yankee, della musica italiana rivista e scorretta. Quello che era stata, sul finire degli anni Cinquanta, l'inizio dell'Americanizzazione dell'Italia ha subito un ribaltamento che ha portato la nostra cultura, le nostre capacità imprenditoriali, operative, lavorative a occupare la realtà sociale americana, uno scambio non più mercantile ma creativo.
Se il cinema del dopoguerra, soprattutto con Paisà di Roberto Rossellini, aveva tentato di spedire un messaggio di riappacificazione, il tempo successivo ha ristabilito un rapporto più democratico e di minore soggezione, anzi con una italianizzazione degli Stati Uniti. Loren e De Sica, Fellini e Antonioni, sono stati messaggeri della settima arte, la nostra dolce vita è stata esportata a New York, la Vespa di Vacanze Romane resiste a qualsiasi tentativo di imitazione, Fiat ha incontrato Crysler tradotto in Fca, Torino e Detroit in un matrimonio inseguito da sempre.
La commossa lettera di Robert De Niro è una confessione e quasi un pentimento, se è esistita una immagine dell'italiano che furbescamente si arrangia, in una vita elegante però malavitosa, quella appartiene a un passato o trapassato che tutti riteniamo remoto, una camicia bagnata che ci siamo tolti di dosso, il cinquantunesimo stato d'America sa parlare molte lingue e non è più soltanto chiacchiere e distintivo, come urlava proprio Capone-De Niro ne Gli Intoccabili. Verrà Hollywood, verrà l'Oscar, forse la mano di Dio sfiorerà i ricci di Sorrentino, il gigante Netflix prepara la tavola per la statuetta. Crocetti Martin aveva anticipato Sorrentino: «And you' ll sing Vita bella, back in old Napoli, that' s amore».
(ANSA il 30 gennaio 2022) - ''Ci sono così tante cose fantastiche in "E' stata la mano di Dio", la ricca storia di formazione di Paolo Sorrentino'', scrive Robert De Niro in una intensa lettera al regista italiano, dedicata al film in corsa per l'Oscar, apparsa su Deadline.
''È un film incredibilmente personale. Sorrentino, che ha scritto oltre che diretto il film, ha creato il suo surrogato Fabietto dal proprio DNA e dalle proprie esperienze e ha ambientato il film nella sua nativa Napoli.
Il co-protagonista più importante di Fabietto - continua De Niro - non è un membro del meraviglioso cast bensì la città stessa. L'amore di Sorrentino per Napoli si condivide da subito nelle prime inquadrature bellissime di un avvicinamento aereo alla città dal Golfo di Napoli.
Amore che si vede nel suo affetto per la varietà dei personaggi della storia: eccentrici, spesso molto divertenti, "larger than life", appassionati, pieni di gioia e speranza. Sono stato a Napoli solo poche volte, ma per me questo film è decisamente napoletano nel modo in cui molti dei film di Martin Scorsese (Wolf of Wall Street, Al di là della vita, Mean Streets, Taxi Driver, ecc.) come molti altri film di Woody Allen (Annie Hall, Broadway Danny Rose, Manhattan, ecc.) sembrano essenzialmente New York City. Napoli per molti versi mi ricorda la New York italo-americana che amo''.
Sottolinea De Niro che ''Nonostante la tragedia che è al centro del film, "E' stata la a mano di Dio" trabocca di divertimento''.E aggiunge: ''E c'è Capuano (il vero Antonio Capuano, famoso regista napoletano, divenne mentore del giovane Sorrentino). In una scena meravigliosa verso la fine di "E' stata la mano di Dio", Fabietto supplica Capuano di dargli una direzione.
Capuano lo interroga e allo stesso tempo lo rimprovera, le loro voci si alzano, quasi musicalmente. Sembra la scena di una grande rappresentazione operistica''. E conclude: '' Fabietto va comunque a Roma alla fine del film.. E ora - 35 anni dopo - Sorrentino è tornato a Napoli grazie a "E' stata la Mano di Dio". Va bene. Mille Grazie, Paolo!''
Da leggo.it il 24 settembre 2022.
Pomeriggio di scoop per Barbara d’Urso. La conduttrice di Canale 5 si è ritrovata a dover gestire un gossip molto intricato che l'ha messa a dura prova. Tutto è cominciato quando in trasmissione si è iniziato a parlare di Patrizia Rossetti, una delle concorrenti del Gf Vip 7, nonché una delle più celebri conduttrici di televendite della televisione italiana.
L’argomento che Barbara d’Urso ha approfondito con i suoi ospiti in studio è stata la storia personale di Rossetti, con particolare riferimento ad un evento passato che l’avrà fatta molto soffrire. La presentatrice, infatti, è stata sposata per ben 15 anni con un uomo, Rudy Londoni, che con una scappatella ha rovinato il matrimonio. Patrizia Rossetti, tra l’altro, aveva scoperto il tradimento in prima persona, beccando il compagno con le mani nel sacco, in diverse occasioni.
Una storia difficile che la stessa Rossetti ha raccontato proprio all’interno della casa del Gf Vip: «Ho preso le corna e di più. L’ho beccato sul colpo proprio. L’ho perdonato due volte, ma alla terza basta, il lupo perde il pelo ma non il vizio…» ha detto la presentatrice, aggiungendo che la terza incomoda era in effetti sempre la stessa persona.
Parlando con le sue coinquiline, Patrizia Rossetti ha poi fornito ulteriori dettagli sulla situazione. La gieffina ha infatti raccontato che questa donna misteriosa lavora più o meno nel suo stesso settore. «Lei è del mio stesso ambiente di lavoro. Il mio ambiente di lavoro certo! Non era mia amica, ma la conoscevo bene da 30 anni» ha specificato.
Quando il servizio si è concluso, la d’Urso è tornata in studio per parlare del tema. Forse era stata tagliata l'ultima parte in cui la gieffina rivela altri particolari sulla donna. Fatto sta che, in studio, Samantha De Grenet, ospite della puntata, ha rivelato che la donna con cui Rudy ha tradito la Rossetti sarebbe «una donna bionda con le meches che farebbe la barista alla Mediaset».
Questa frase ha destato la presentatrice di Pomeriggio 5 che è subito intervenuta, dicendo: «Io non so niente!». Samantha De Grenet, ad ogni modo, ha tenuto a specificare che questo scoop l’ha tirato fuori la stessa Patrizia Rossetti all’interno della casa. «Dopo vado a prendermi un caffé al bar» ha ribattuto la d’Urso, cambiando poi argomento.
Marinella Venegoni per "la Stampa" il 30 dicembre 2021. C'è qualcosa di solenne, e di disarmante, nel profilo di Patti Smith quando si offre nelle occasioni ufficiali, come l'altro giorno alla City Hall di New York, dove ha ricevuto le chiavi della città dal sindaco De Blasio. Lei che nei '70 veniva definita la sacerdotessa del punk, ha mantenuto una sua divisa che si fa beffe del lavorio estetico di tante colleghe. Lunghi capelli bianchi, sempre in nero, rughe in bella vista, ci mostra che il carisma è una faccenda per pochi.
Oggi Patti compie 75 anni: dalla sua casa di New York, in una lunga chiacchierata, con vocina giovanile ci spiega una filosofia imbattibile a base di scrittura e bucato. Cara Patti, anche in questo fine 2021 lei è la donna del momento. A New York come a Viareggio, da dove le è arrivato l'annuncio che ha vinto il Premio Puccini.
«Vivo a New York fin dal 1967, qui ho incontrato tanti di quelli che sono diventati i miei amici. Ho inciso il mio primo album Horses nel 1974 qui, agli Electric Lady Studios. Con il mio lavoro mi sento internazionale: ma ricevere qui le chiavi, che sono la quintessenza dei premi, e il premio Puccini in Italia, mi ha stordita. Ho amato Puccini fin da quando l'ho scoperto per caso in radio, avevo 6 o 7 anni. Mi ha fatto scoprire l'opera, mi ha aperto la mente».
Per ora in Italia non riesce a venire, vero?
«Sono molto triste per non poter essere là, con questa pandemia. In questa stagione nel suo Paese ci sono occasioni ghiotte, a partire dalla prima della Scala, poi volevo proprio andare a Viareggio. Spero nella primavera: ho dovuto rinviare vari impegni di lavoro».
Era previsto un suo concerto a New York stasera per festeggiare i 75 anni. Che cosa farà oggi invece?
«Che peccato. Oggi penso che posso lavorare a casa, scrivere ed essere produttiva come ogni giorno, ma niente concerti per il momento. Oggi spenderò un po' di tempo con mia figlia Jesse, che avrebbe dovuto suonare stasera con me. Adoro stare con lei. Penso anche che prenderemo la metropolitana e in un quarto d'ora potrò essere davanti all'Oceano, che amo molto, a respirare il mare».
Lei è una brava mamma. I suoi figli suonano nella sua band.
«I miei figli hanno perso il papà da piccoli, e suonano entrambi con me. Jackson ha 40 anni e ha un figlio di 9 che si chiama Frederick come mio marito, Fred Sonic Smith: è molto protettivo nei suoi confronti, non ci sono foto sui social e da nessuna parte e fanno bene. Abitano nell'Upper Michigan, mi telefona ogni giorno».
Che cosa ha pensato e fatto quando l'altro giorno è tornata a casa con le chiavi di New York?
«Ho scritto un po', e ho fatto il bucato. Fare il bucato è un modo per rimanere con i piedi per terra».
E quando le hanno detto che aveva ricevuto da Viareggio il Premio Puccini?
«Sono rimasta molto sorpresa. Io non ho una voce magnifica, non ho studiato da cantante. Ma sentendo le sue arie e la Callas che le cantava, seguendo poi su YouTube le lezioni di Pavarotti che insegna come cantare senza spendere un soldo, ho imparato a fare narrazione con la musica e comunicare emozionalmente le mie canzoni. Spero di poter venire in Italia in primavera a ritirare questa statuetta».
La musica è il centro della sua vita?
«La musica ma anche il potere delle parole. Metto la mia musica nei libri e viceversa. Ora sto scrivendo un libro molto impegnativo su ciò che mi ha fatta diventare quello che sono, i miei, i miei fratelli e anche Puccini. Ci vorrà molto tempo, lavoro sempre a tre o quattro cose per volta».
Lei compie 75 anni, ed è così vitale, positiva. Quando si esibisce, la sua forza colpisce. Sta tracciando bilanci, in questi giorni?
«Alla mia età cerco di prendermi cura di me stessa, di far convivere la musica e il bucato, di mangiare cibo buono, perché non mi piace andare dal medico. Faccio lunghe passeggiate, ho uno stile di vita semplice; l'unico vizio, che non lascio, è il caffè italiano. Cerco di essere grata ed entusiasta comunque vada la vita e se brutte cose accadano: grata per quel che sono e ho avuto».
Si può definire felice?
«Faccio sempre il meglio che posso, non ambisco alla perfezione. I miei rimpianti sono molto personali. Mi mancano mio padre e mia madre, vorrei parlare con lei ancora una volta e una volta anche con mio marito. Sento che la gente è contenta di quel che sono, mi fermano e leggono Instagram. Mi sento connessa a loro e non mi sento una star».
Quale è stato il suo disco più importante?
«Davvero non ne ho idea, non è un fatto di dischi ma di pezzi. Banga è stato un buon disco. Sto ora leggendo canzoni per un nuovo album, che cosa è meglio lo decide la gente: è importante ricordarsene».
E le canzoni che ama di più?
«People Have The Power, scritta per la gente. Ma anche Pissing In A River del '76, che trovo ancora molto potente. E anche Dancing Barefoot, che cantava il mio amore per mio marito, scritta nel '79 prima di ritirarmi. Sono sempre fiera dei miei testi».
Viene in mente, per i suoi gusti personali, che forse i Pink Floyd e David Bowie non sono nelle sue corde...
«Amo la spontaneità. Sopra tutti Jimi Hendrix, Coltrane, Wagner. Sto ascoltando la nuova Adele, ha fatto un buon lavoro. Bowie e i Pink Floyd hanno scritto grandi canzoni, ma non è il mio mondo».
Penélope Cruz: «Fredda icona? Per questo film ho pianto 10 volte». Ubiqua, poliglotta, oggetto del desiderio di registi sulle due sponde dell’oceano, ma fedele agli amici. La star spagnola accompagna al Lido “L’immensità” di Emanuele Crialese in cui è una madre in cerca di libertà e di un cambiamento. Come la figlia adolescente. Con cui ha girato scene molto, molto commoventi. PAOLA PIACENZA su Iodonna.it il 27 agosto 2022.
Luc Dardenne in Addosso alle immagini, diario di vita e di cinema appena pubblicato dal Saggiatore, alla vigilia della prova costumi del film Due giorni, una notte, il 24 aprile 2013, annotava un imperativo: «Disiconizzare Marion Cotillard!». Una star irrompeva in un microcosmo retto da regole proprie. Andava ricondotta alla sua dimensione umana. Aspettiamo di vedere L’immensità, il quinto film di Emanuele Crialese, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e poi al cinema il 15 settembre, per conferma. Ma sospettiamo che la questione-Dardenne per il regista italiano non si sia posta. La superstar che entrava nel suo microcosmo, «in fondo prima di tutto un film sulla famiglia, sull’innocenza dei figli e sulla loro relazione con la madre», è Penélope Cruz, diva «ubiqua» come l’ha definita di recente il quotidiano francese Libération, in occasione del passaggio di un documentario a lei dedicato sul canale Arte.
L’ubiquità è certamente una delle sue qualità (alla Mostra la troviamo anche nella sezione Orizzonti, nello spagnolo En los márgenes, in queste settimane è in Italia sul set di Ferrari di Michael Mann, in cui è Laura Ferrari, moglie di Enzo).
Penélope Cruz, come Sophia Loren
Un’altra qualità che non le fa difetto è il tempismo (ce lo conferma lei in questa intervista). Sempre al momento giusto: quando il cinema spagnolo si stava rigenerando, quando Hollywood apriva le braccia ai talenti migranti alla fine degli anni ’90 (e Penélope sarà allora la diva latina perfetta per ogni mercato, brasiliana, colombiana, messicana), quando la mondanità divenne ingrediente indispensabile dello statuto di diva (l’unione con Tom Cruise, il ri-matrimonio – per restare nei canoni del cinema classico – con il collega Javier Bardem, conosciuto sul set di Prosciutto prosciutto di Bigas Luna), e poi le 4 nomination all’Oscar e la vittoria per Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen.
Farsi amare dall’Europa e conquistare l’America, senza mai davvero partire. Se c’è una storia che assomiglia alla sua forse tocca guardare alla parabola di Sophia Loren. Simili la classe sociale di origine, il talento folgorante, l’ascesa, l’amministrazione impeccabile della carriera, tra filmoni e cinema d’autore, red carpet e pubblicità milionarie, glamour hollywoodiano e materia terrena, coscienza, storia dolorosa.
L’incontro di Emanuele Crialese con Penélope Cruz
Emanuele Crialese del suo film ha scritto che «poteva prendere vita solo nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, con la sua sensibilità e la sua straordinaria capacità di interazione con tre giovanissimi non attori che non avevano mai recitato prima». Un’altra grande attrice (ma che per sé rifiuta quella definizione), Tilda Swinton, sfruttando una metafora sportiva quando parla del proprio lavoro conclude: «Sono un ricevitore. È nell’ascolto che mi vengono le idee, non nel chiuso di una stanza d’albergo con il copione in mano. Il mio cervello inizia a lavorare nella conversazione con gli altri».
Penélope, L’immensità, ha dichiarato Emanuele Crialese, è il suo film più desiderato e più personale, «il film che inseguo da sempre: è sempre stato “il mio prossimo film”, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro». Come si entra nell’universo intimo di un autore?
Io ed Emanuele ci siamo incontrati a Londra la prima volta ed è scattata subito una grande intesa, è stato come trovarsi di fronte a un vecchio amico. 40 minuti sono subito diventati 3 ore. In un attimo ho sentito che mi potevo fidare. Ho capito quanto questo film fosse importante per lui, ma era importante anche per me diventare parte di questo team.
Il talento di una famiglia
Negli anni ’70, periodo in cui è ambientato il film, lei era bambina. Sono stati anni di trasformazione, di speranza e di illusioni perdute. Che ricordi ha?
Sono nata nel 1974 e ricordo che, soprattutto alla fine del decennio, quando avevo più consapevolezza, quelli sono stati per me anni di sogno. Ero una grande sognatrice, pianificavo tutta la mia vita futura. In casa c’era musica e si guardavano un sacco di film, mio padre registrava tutto in super8, faceva foto e video. Nessuno di noi bambini pensava allora di diventare artista (Cruz ha una sorella Mónica, attrice e ballerina e un fratello, Eduardo, musicista, ndr), ma io già a 4 anni ho cominciato a frequentare classi di danza classica, ed ero una grande fan dell’opera lirica, mentre mio padre era pazzo del cinema. Quegli anni hanno coinciso con la presa di coscienza: volevo a tutti i costi rappresentare qualcosa dentro quel mondo. Se poi ci sono riuscita devo tutto alla mia famiglia e a quel momento storico.
Penélope Cruz in L’immensità.
Il film ha al cuore il rapporto tra una madre e una figlia. E il desiderio di entrambe di una vita diversa: un’alternativa alla famiglia per la madre, un’altra identità per la figlia. Che cosa ha portato di sé nel personaggio?
Non so se posso rispondere a questa domanda. All’ipotesi secondo cui avrei potuto concepire diversamente questa storia se non fossi una madre. Io sono quella che sono, con la vita che ho fatto, quello che ho dietro le spalle, le lezioni che ho appreso, i traumi che ho subito, le relazioni che ho avuto, tutto quello che ha fatto di me ciò che sono oggi e che mi ha dato lo sguardo che ho su questa storia. Ed Emanuele mi ha permesso di vedere tutto questo da un luogo che è il mio, soprattutto la relazione, perché, per rispondere alla sua domanda, è vero, madre e figlia cercano di sfuggire alla realtà, entrambe si sentono in prigione. Questo è ciò che crea la connessione tra di loro, soprattutto nelle scene musicali cui immaginano di essere diverse. Scene che sono state persino più commoventi per me quando ho visto il film finito: durante quella proiezione ho sentito che quelle erano le scene più tristi del film. Perché da spettatore vedi dove quelle due persone vogliono andare, fino a che punto meritano quella libertà, come la creatività sia parte di loro, il desiderio di essere ciò che veramente sentono di essere intimamente. Questo è uno dei film per cui ho pianto di più, guardandolo ho pianto almeno 10 volte!
Oggi sta parlando in inglese, ma ricordo come in Non ti muovere parlasse bene la nostra lingua. È possibile che l’accento spagnolo che conserva quando parla in inglese rappresenti una presa di distanza dall’universo hollywoodiano di cui fa parte a pieno titolo, ma con lo statuto dell’attrice europea?
Avere un accento quando lavoro e lavorare sull’accento per trasformarlo in qualcosa di diverso è una delle cose che preferisco del mio lavoro. Per esempio ora nel film di Michael Mann recito in inglese con un accento italiano, ma ho anche affinato lo spagnolo con accento cubano, colombiano… Ho fatto film in 4 lingue nella mia vita, e in ognuna di queste lingue ho dovuto lavorare ad accenti diversi. La lingua di un personaggio è una delle caratteristiche più delicate di cui un attore deve prendersi cura, richiede mesi di preparazione e concentrazione, quando ho girato Non ti muovere di Sergio Castellitto, ho dovuto lavorarci per mesi, e per molte ore al giorno: interpretavo una donna italiana con un accento albanese, dovevo completamente annullare l’accento spagnolo. In tanti hanno provato a scoraggiarmi. Mi dicevano: «Non ce la puoi fare», ma sono stata felice che invece tutto quel lavoro sia stato ben speso. In L’immensità sono una donna spagnola che ha vissuto in Italia per lungo tempo, quindi il mio accento spagnolo per una volta non lo devo nascondere.
Il personaggio, come un puzzle
Ha mai sentito che lo statuto di icona, così raro, riservato a poche e pochi tanto in Europa come in America, la riguardasse? E che intimidisse chi lavora con lei?
Icona… Non so, non me lo chiedo mai quando preparo un personaggio. Ogni volta parto da zero, mi dico: «Creiamo questo nuovo essere umano che nasce dalla pagina scritta, soprattutto se è scritta bene, partiamo dal vuoto», e questo comprende tutto, anche il modo in cui appare fisicamente, non ci possono essere capricci, il personaggio ha bisogno di tutto quel che serve per muoversi nel mondo, camminare, parlare, vestirsi. Ogni dettaglio è un pezzo del puzzle, uno strato, una risposta alle domande che ci poniamo, non può essere: «Come apparirò?». Deve essere: «Come posso darle più verità?». Perciò anche una decisione su quali scarpe scegliere diventa importantissima, perché influenzerà il modo di camminare, muoversi e quindi di essere. Se sono le scarpe sbagliate, la pagherà il personaggio e la pagherò io. La questione non è mai “mi staranno bene o male?”, è sempre “saranno le scarpe che lei avrebbe scelto?”. Quindi penso che sarebbe pericoloso sentirmi un’icona. Mi sento grata e fortunata a poter essere quello che ho sempre voluto essere: sono un’attrice, ho opportunità di lavoro interessanti, mi sento ancora una studentessa, imparo ogni giorno. Eppure quando sognavo questa vita da ragazza pensavo fosse un sogno impossibile.
Un documentario, Penélope Cruz, les reflets de la passion di Charles Antoine de Rouvre, e un libro, Penélope Cruz di Ann Davies, hanno provato ad esplorare il suo percorso. Come si sente al pensiero di essere diventata materia di studio? Essere stata una presenza importante e nuova nel momento in cui il cinema spagnolo cambiava, con Bigas Luna e Almodóvar, è stato cruciale nella sua storia. Che ricordi ha?
Non ho visto il documentario e non ho letto il libro. Sono convinta che gli autori avessero le migliori intenzioni quando li hanno realizzati, io non ho niente a che vedere con quei progetti. Ma riguardo la mia presenza nel cinema spagnolo degli anni ’90 è bellissimo aver fatto parte del mondo di quegli autori. Bigas è morto troppo giovane, ma ho fatto due film con lui e siamo stati molti vicini. Con Pedro siamo a 7 film insieme, e spero che ne faremo molti altri, è una persona importantissima nella mia vita, lo adoro, è parte della mia famiglia. Quando ero bambina sognavo che sarebbe successo, ma è difficile si avverino sogni così specifici. Invece è successo. Ricordo con precisione la prima volta che mi hanno cercata. Dopo il provino mi hanno rispedita a casa dicendomi: «Sei troppo giovane, ma ti richiameremo». Lì per lì mi sono detta che forse era una scusa, che quelle sono le cose che si dicono. Invece non dicevano bugie, mi hanno richiamata entrambi, anni dopo, per chiedermi di fare un film con loro. È cominciato tutto così. iO Donna
Paolo Giordano per “il Giornale” il 18 settembre 2022.
Ascoltarlo è un piacere. Quando canta, si sa, Peppino Di Capri ha un repertorio come pochi. E, quando parla, ha il garbo senza tempo che rende fascinoso ogni racconto. Ottantatrè anni e non farli sentire. «La Bussola? Che tempi quei tempi».
La sua prima volta?
«Nel 1960. Però l'anno prima avevo partecipato al tour Bussola On Stage in giro per l'Italia con Romano Mussolini, Chet Baker e altri. Ma nel 1960 mi sono esibito proprio alla Bussola con la mia band. Stavamo lì per un mese, suonando tutta la sera anche se poi a una certa ora arrivava l'attrazione principale. Quell'anno c'era Caterina Valente. Ma poi ci furono Ray Charles e altri...».
E Mina?
«Lei era in cartellone nel 1961, era già famosa, aveva cantato Tintarella di Luna e Le mille bolle blu».
Come fu il vostro incontro?
«In realtà la conoscevo già da anni, direi dal 1958. A Ischia io cantavo al Rangio Fellone, lei al Moresco che era a cento metri. Si chiamava ancora Baby Gate e andava sul palco con la sua band, I solitari. Eravamo giovanissimi. Lei era bellissima, molto simpatica e si faceva notare. Chi finiva prima, andava a prendere l'altro. Quando toccava a me, prendevo la mia Lambretta, la accendevo e partivo».
Più o meno a che ora?
«Si iniziava alle 22 circa e non si finiva prima delle 3.30 o le 4».
E poi?
«Andavamo in giro a svegliare pescatori o cuochi per fare uno spaghetto alle vongole o un piatto di pesce perché avevamo una fame pazzesca. Lei non lo può certo sapere, ma i nostri concerti avevano un ritmo frenetico, mica potevamo mangiare tra una canzone e l'altra. Appena rallentavamo un po' il ritmo, il proprietario del locale arrivava subito a dire: E allora? Forza su! Suonate, suonate così la gente balla. Quanti ricordi, che tempi».
Quindi alla Bussola vi conoscevate già.
«Eccome. Ed eravamo pure in qualche modo concorrenti. Però io alla Bussola credo di esserci andato molte più volte».
Ci fece pure il pranzo di nozze.
«Con Roberta, la mia prima moglie, mi sposai lì vicino, alla chiesa delle Focette. L'avevo conosciuta a Ischia, dove la vidi ballare con William Holden. Lei faceva l'indossatrice».
Oggi si direbbe modella.
«Mi innamorai subito e le dedicai una canzone. Sergio Bernardini ci offrì di fare il pranzo di nozze proprio alla Bussola: Ci penso io, tu pensa ai 200 invitati. Accettammo. Fu un pranzo meraviglioso con tanta gente, tutti elegantissimi. Gino Paoli arrivò in jeans, ma lui è sempre stato un tipo strano».
E poi?
«Dopo aver aperto tutti i regali di nozze, mi accorsi che mancava proprio quello di Bernardini. Pensai che, come regalo, mi avesse offerto il pranzo. E invece no».
Niente regalo?
«Anzi, il direttore della Bussola mi chiese quattro milioni e mezzo di lire di allora. Io gli dissi: Ma il regalo?. E lui rispose: Quello è già stato scalato».
Da cosa?
«Dal debito che avevo scoperto di avere».
Oddio.
«Dopo i concerti avevamo preso l'abitudine di giocare a carte. Io, Sergio, Carletto Pirovano il cuoco della Bussola che sapeva preparare piatti favolosi anche alle quattro di notte, poi Bruno Martino, Fred Bongusto e altri».
Scusi quale gioco?
«Allora si chiamava ramino pokerato. Però se vincevo io, Sergio Bernardini voleva subito la rivincita. Se vinceva lui, segnava subito. Alla fine dovetti pagare 4 milioni e mezzo per il mio pranzo di nozze, anzi no per il debito a carte».
Poi partì per il viaggio?
«Sì ma durò due giorni perché avevo già un concerto fissato al Covo di Nord Est a Santa Margherita Ligure».
C'era la Bussola e c'era il Bussolotto, una sorta di privè con musica più sofisticata.
«Un anno alla Bussola arrivò Joao Gilberto ma nessuno se lo filò. Allora Bernardini lo fece suonare al Bussolotto, dove noi andavamo ad ascoltare i grandissimi Renato Sellani, Romano Mussolini e tutti i jazzisti più famosi».
C'è una foto in cui lei alla Bussola canta in piedi sopra il pianoforte davanti a una platea di ragazzi che ballano.
«Era l'epoca di Let's twist again e Saint Tropez, erano tutti scatenati».
Scatenati ma elegantissimi.
«Erano belli puliti, il look non era certo da rockettari. Alla Bussola arrivavano persone importanti, tanto per capirci arrivavano anche Gianni e Umberto Agnelli... L'atmosfera era divertita e scatenata ma c'era un certo stile, uno stile indimenticabile ma pure irripetibile perché quell'epoca della Bussola non tornerà più. Adesso è cambiato tutto e si riparte daccapo».
Peppino Di Capri: «Io e Mina diciottenni ogni sera in giro in Lambretta. Da bimbo suonavo al night». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2022.
Ischia, estate 1959. «Io e Mina, che si chiamava ancora Baby Gate, ogni sera cantavamo in due locali rivali, a cento metri l’uno dall’altro, io al Rangio Fellone, lei al Moresco. E quando finivamo, verso le tre di notte, passavo a prenderla con la mia Lambretta rosa salmone — l’avevo comprata grigia, poi me l’ero fatta ridipingere da un amico carrozziere — e insieme andavamo a svegliare qualche pescatore per farci preparare un piatto di spaghetti: chi ci apriva, chi ci mandava a quel paese. Eravamo diciottenni e spensierati, lei simpaticissima e, se mi posso permettere, una bonazza che si faceva notare», racconta meglio di una cartolina illustrata Peppino Di Capri (nato Giuseppe Faiella «finché il mio primo discografico mi chiese: “Come ti chiamano a casa?”. “Peppino”. “E di dove sei?”. “Di Capri”. “Ecco, da oggi sei Peppino Di Capri”»), 519 canzoni, 35 milioni di dischi venduti, 15 Sanremo, 2 vittorie e 83 gagliardi anni da compiere il 27 luglio e da innaffiare inevitabilmente con un «cameriere, Champagne».
Nel 1943, a quattro anni, Peppiniello suonava per le truppe americane. «Nonno era musicista nella banda del paese, papà Bernardo aveva un negozio di strumenti, eravamo poveri, non possedevo giocattoli, solo qualcuno usato che i vicini mi regalavano per Natale — che delusione quando misi nell’acqua della vasca un cacciabombardiere di legno e affondò subito — il mio unico divertimento era un pianoforte scordato, imparai da solo a strimpellare i motivetti ascoltati alla radio e ogni fine settimana mia sorella Margherita, tre anni più di me, mi accompagnava all’hotel Morgano Tiberio, dove alloggiava il generale Mark Clark».
Le davano la paghetta? «Sul piano c’era un piatto d’argento per le offerte, ci mettevano le Am-lire, banconote quadrate. Tornato a casa, svuotavo le tasche e andavo a letto. E la mattina, per farmi stare sveglio a scuola, mamma mi preparava tanto zabaione».
La maestra di pianoforte la cacciò. «Elizabeth Rudolf, tedesca, severissima. Aveva scoperto che a sette anni la notte facevo il giro dei night, mi mandò via imprecando».
Nel 1956 partecipò a una gara canora in tv con Enzo Tortora. «“Primo applauso”, una specie di talent dell’epoca, in onda sull’unico canale della Rai. Imitavo Johnny Ray, un cantante degli anni Cinquanta che piangeva e si strappava i capelli».
Già, i suoi capelli, una cofana ondulata, inconfondibile come gli occhialoni. «Indomabili. Avevo tre anni e la vicina, la signora Trieste, si era fissata, voleva per forza farmi i boccoli con un ferro caldo, io mi arrabbiavo perché poi gli amichetti mi prendevano in giro. Negli anni Settanta invece, siccome andavano di moda, me li facevo arricciare io».
A quel concorso vinse un televisore. «Uno in due, io e il batterista Ettore Falconieri detto Bebè. Non potevano tagliarlo a metà, perciò decidemmo di venderlo per 52 mila lire».
Autunno 1958, Peppino e i suoi Capri Boys salgono a Milano in cerca di gloria. «Con la Fiat 1100 beige del sassofonista. Senza autostrade, un viaggio interminabile, arrivammo dopo giorni, conciati tipo Totò e Peppino. Sostenemmo una decina di provini per la Carish, cantando Malatia, Nun è peccato, poi ci dissero: “Vi faremo sapere”, un classico. Ero convinto che non ci avrebbero chiamati più».
Invece? «Tornati a Roma, ogni mattina passavo al negozio di dischi, con il colletto del montgomery alzato per non farmi riconoscere, chiedendo se per caso vendevano l’ellepì di Peppino Di Capri. “No, chi è?”. Finché un giorno il commesso esclamò: “Anche lei? Oggi vogliono tutti il 33 giri di questo Di Capri, è una mania!”».
Che serataccia, con Aristotele Onassis. «Suonavo al Number Two di Capri. Questo tizio inquietante, vestito di scuro, si piazzò per tutta la sera alla coda del pianoforte e mi fissava dietro gli occhialoni neri, non ne potevo più. Andai da mio zio Ciro che faceva il barman. “Zi’ Cirù, toglietemi da davanti questa ciucciuvettola, questa civetta”. Mi mollò una scoppola sul collo. “Suona e zitto, ha già ordinato sei bottiglie di champagne”. Scoprii dopo che al tavolo c’erano pure Maria Callas, Ranieri e Grace di Monaco».
Nel '61 l’Italia ballò con «Let’s twist again». «Tuttora il mio 45 giri più venduto, 1 milione e 200 mila copie, a parte quelle false. Era una cover di Chubby Checker, a mandarmi lo spartito fu Gerry dei Brutos, da Parigi. “Qui va fortissimo”. Una settimana dopo ogni stamperia di Milano stava incidendo il mio disco. Mi invitarono a cantarla a “Studio Uno” sulla Rai. Le ballerine indossavano per la prima volta le calze a rete, alle 17 del pomeriggio non era ancora arrivato il via libera della censura, fu il panico».
Un anno dopo cantava: «A St. Tropez, la luna si desta con te». «Che poi non ci avevo mai messo piede. Ci andai tempo dopo con Gino Paoli, era inverno, tutto chiuso, una tristezza. Il sindaco mi consegnò le chiavi della città, grazie a me avevano triplicato i turisti. La ragazza che ballava il twist in copertina era una sconosciuta Raffaella Carrà».
Nel 1965 aprì i concerti italiani dei Beatles. «Non ci hanno mai rivolto la parola per tutto il tour, il massimo della concessione è stata una foto insieme, pure un po’ scocciati. Dormivamo nello stesso hotel, loro avevano requisito un piano intero e noi, dalla nostra stanza, li guardavamo fare il bagno in piscina».
Per tre anni nel 1967 smise di cantare e si ritirò a Capri. «Ero convinto che la mia carriera fosse finita. Divenni radioamatore, nome in codice Labrador. Non come il cane, come il marmo nero e argento che avevo in salotto. Poi un giorno, ascoltando Georges Moustaki, mi dissi: che ci faccio io qui? E tornai a Roma, treno di seconda classe. Bussai alle porte dei night, andava forte Fred Bongusto, con cui avevo stretto un patto: non scendiamo mai sotto un certo cachet. Mi proposi. Risposero: “Costi troppo, lui chiede il trenta per cento meno di te”. Furbone. Così mi abbassai il compenso e rientrai nel giro».
Alla grande. Nel 1973 vinse Sanremo con «Un grande amore e niente più» («Io e te, le nostre corse fin laggiù»), testo di Califano. «“Aho, io vado a dormi’ alle cinque de matina, nun me scocciate, ve lascio er fojo sotto la porta” ci intimò. Claudio Mattone, suo amico, gli rispose con un biglietto: “Fa schifo, riscrivila”. Alla fine trovò le parole giuste. “Ragazzi, è perfetta, non si cambia una virgola” annunciai».
Stesso anno, «Champagne». «A Canzonissima, arrivai quinto su nove in finale, vinse la Cinquetti, un disastro. Avevo passato la notte a compilare le cartoline di voto, senza nemmeno mangiare, spendendo una fortuna, però non c’era gara, il buon Mino Reitano ne riceveva a tonnellate. Mia zia si giocò al lotto i voti sulle palette della giuria e mandò la figlia in ricevitoria. Quella invece se ne andò a ballare, i numeri uscirono tutti e cinque, la zia non vinse niente e le diede un sacco di mazzate».
Quante volte l’avrà cantata, ha mica tenuto il conto? «Almeno cinquemila, solo nei concerti, l’anno prossimo compie 50 anni. Se non la eseguo c’è la rivolta. Tutti la usano ai matrimoni, per il taglio della torta, ma lo hanno ascoltato bene il testo? “Per brindare a un incontro, con te, che già eri di un altro...”. Non mi pare tanto adatto».
Eduardo De Filippo le consigliò di cambiare mestiere. «Albergo di Napoli, tramonto, entro, lui è in poltrona che legge il giornale, gli occhialini sulla punta del naso. “Guagliò, arapete ‘nu ristorante!”. Apriti un ristorante. Non gli piace come canto, ne dedussi. “Ricordati che la gente dovrà sempre mangiare”, aggiunse. Dopo sei anni lo incrocio di nuovo, stesso hotel, stessa poltrona, stessa posa. “Guagliò, t’aje araputo ‘o ristorante?”. Il dubbio che non gradisse mi è rimasto».
Nel caso, sapeva cucinare? «No. Con la mia prima moglie Roberta preparavamo delle torte, che mettevamo a raffreddare sul davanzale, ritrovandole piene di formiche».
Quella di «Roberta, perdonami, ritorna ancora vicino a me»? «In realtà quando la scrissi andavamo d’amore e d’accordo, non doveva perdonarmi niente, nel testo però suonava bene».
Totò le sottopose una sua composizione. «Mi porse lo spartito, cominciai a suonare, il pezzo non era granché, non sapevo come dirglielo. “Principe, non è Malafemmena” azzardai. “O perbacco!” rispose lui, che si muoveva proprio come nei film. Roberta intanto rideva come una matta».
L’aveva conosciuta a Ischia. «Era bella, indossatrice, notai la gonna rossa, ballava con William Holden. Le feci un complimento. La mattina dopo la trovai davanti al night, con in braccio un cucciolo di leopardo, pensai fosse matta. La rividi l’inverno dopo, mi lasciò un bigliettino sulla tastiera, con il suo numero di telefono».
Erano servite quelle ore passate sulle scale in piazzetta a imparare le tecniche di conquista dai playboy capresi? «Macché, come playboy ero un disastro, risultati sotto zero. Una volta con un amico rimorchiammo due sorelle svedesi, bellissime. Le portammo a fare il giro di Capri, ci provammo in ogni modo, niente».
Il papà di Giuliana, la sua seconda moglie, scomparsa tre anni fa, non la considerava proprio un bellone. «Le disse: “Chist s’ pò senti’ ma nun se pò vede’”. Morì, non ha mai saputo che me la sono sposata».
Memorabili le sue giacche di lamé. «Me le faceva un sarto fiorentino con stoffe importate dalla Cina. Ne avevo una decorata con rami d’oro, uccellini e farfalle, su fondo nero, ci tenevo tanto, l’avevo poggiata sulla sedia, mi sono distratto per firmare un autografo — ero a Maranello — e quando mi sono girato non c’era più, quanto mi è dispiaciuto».
Peter Dinklage, dal bullismo al Trono di Spade. Vittorio Vaccaro il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Peter Dinklage, che ha interpretato Tyrion Lannister ne "Il Trono di Spade", è stato bullizzato da piccolo: prima di Got gli offrivano solo ruoli caricaturali.
Non so voi, ma se c’è una serie tv che mi ha emozionato, fatto sognare e tenuto incollato per ore allo schermo, è proprio “Il Trono di Spade”. Tanti i personaggi che hanno fatto volare la mia fantasia: tra questi Tyrion Lannister, interpretato da Peter Dinklage, meraviglioso attore oggi diventato famoso in tutto il mondo.
Peter nasce nel 1969 a Morristown, Stati Uniti. Alla nascita purtroppo gli viene diagnostica l’acondroplasia, una malattia rara ed ereditaria che porta le gambe e le braccia a crescere meno dal resto del corpo. Praticamente Peter è un nano e attualmente la sua statura è di 135 centimetri.
Da sempre i nani sono stati considerati buffoni di corte, utilizzati nei circhi come attrazione, dipinti nelle menti comuni come diversi, come fenomeni da baraccone. E anche Peter non sfugge. Viene deriso a scuola fin da ragazzo, schernito, preso in giro con scherzi crudeli, ma lui non si è abbatte, anzi decide di intraprendere un lavoro che lo metta in evidenza, che lo mostri per quello che è, senza nessuna paura: scegli di fare l’attore.
Nel 1991 si laurea in arte drammatica e si trasferisce a New York, ma non è facile per lui lavorare nelle compagnie teatrali, perché i ruoli offerti sono sempre caricaturali e lui non accetta. E per anni è costretto a fare l'impiegato in una società informatica. Nel 1995 però arriva il primo ruolo al cinema e viene molto apprezzato, cosicché molti registi iniziano a volerlo nel cast.
Nel 2009 arriva il successo planetario, interpreta uno dei personaggi più belli, completi e forse difficili della serie “Il Trono di Spade”. Vince quattro premi Emmy e un Golden Globe come miglior attore non protagonista.
In un’intervista Peter racconta:
I nani appaiono spesso nel genere fantasy, e quando lo fanno sono sempre delle caricature... Tyrion invece è uno dei personaggi più ricchi che io abbia mai visto. È un essere umano.
Diventa vegetariano, si sposa con la regista teatrale Erica Smith dalla quale ha due figli e s'impegna per gli altri, dichiarando di essere un portavoce di tutte le persone piccole.
E anche questa volta abbiamo conosciuto, chi da ragazzo considerato lo scemo del villaggio, da grande è diventato un genio del mondo. Vittorio Vaccaro
· Phil Collins.
Phil Collins controtendenza (forse troppo). Paolo Giordano il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.
Ma doveva finire proprio così? La scena è da fine di un'epoca.
Ma doveva finire proprio così? La scena è da fine di un'epoca. Phil Collins seduto su di una seggiola sul palco della O2 Arena di Londra sabato sera ha annunciato che «questo è stato l'ultimo concerto dei Genesis». Lungo applauso prima della battuta di rito: «Ora dovrò trovarmi un vero lavoro». Risate amare. Finisce così la storia di uno dei gruppi rock più seguiti e influenti di sempre, testimonial del progressive quando il progressive era una fucina di idee e poi lucido amministratore di una credibilità musicale conquistata a suon di grandi dischi e grandi concerti (anche quando, come nella loro prima tournèe in Italia nel 1972, i Genesis vendevano così poco da ritrovarsi a sostituire il Mago Zurlì ad Adria). Per carità, non è certo un annuncio a bruciapelo. Da molto tempo Phil Collins (71 anni a gennaio) attraversa guai fisici, puntualmente comunicati con meticolosi resoconti durante le interviste: non riesce più a suonare la batteria e gli è difficile pure camminare. Ma ne attraversa anche altri, di guai, per fortuna meno fisici ma ugualmente dolorosi e forse più umilianti, visto che il suo ultimo matrimonio si è inabissato con le parole della ex moglie Orianna Bates che lo ha accusato di non lavarsi, di bere e di essere impotente. Per farla breve, l'ultimo giro di concerti dei Genesis più che un tour è stato un calvario per questo artista che, con Paul McCartney e Michael Jackson, è l'unico ad aver venduto oltre 100 milioni di album in tutto il mondo sia come solista che come membro di una band. Una storia esaltante che ha costruito dal 1970 con musicisti fenomenali come Peter Gabriel, Tony Banks e Mike Rutherford e che, da solo, ha illuminato di pop con brani best seller come Another day in Paradise o In the air tonight. Tutto bene, tranne il finale. Incassi a parte, che senso ha chiudere una carriera così gloriosa con un annuncio così notarile, così poco progressive? Nell'epoca dell'immagine a tutti costi, bella e rifatta anche a costo di sembrare ridicoli, Phil Collins è andato in controtendenza. Pure troppo. Anche il grande rock, in fondo, ha il proprio galateo da rispettare.
Phil Collins l’ultimo concerto: «Sto male, non riesco più a tenere le bacchette in mano». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.
L’addio ai fan durante il live dei Genesis. «Ora dovrò trovarmi un lavoro vero».
«Ora dovrò trovare un lavoro vero». Il disincanto dell’ironia mescolato al dolore (nel fisico e nell’anima) della tristezza. Phil Collins appende le bacchette al chiodo e dice addio ai live. Una data da segnare: il concerto dei Genesis di sabato 26 marzo a Londra, alla 02 Arena, è stato l’ultimo della sua vita (così dice, come era per la verità successo anche in passato, ma stavolta sembra davvero diverso: «Sto male, ho otto viti nella schiena» è una frase che sa di sentenza). Una leggenda della musica — 150 milioni di copie vendute nel mondo, successi che tutti hanno sentito anche solo per sbaglio, da Another Day in Paradise a One More Night — che a 71 anni si deve arrendere agli acciacchi di un fisico che non risponde più ai comandi del cervello come una volta.
Debole e affaticato, fragile
Dopo 14 anni di assenza la tournée dei Genesis — con il tastierista Tony Banks e il chitarrista-bassista Mike Rutherford — ha mostrato un Phil Collins debole e affaticato, fragile, che si è esibito stando seduto e non è riuscito neanche a usare il bastone per camminare. Il suo è stato, nel tempo, un lento e inesorabile declino fisico: «È successo gradualmente, la prima avvisaglia durante la reunion dei Genesis nel 2007 — aveva raccontato a Rolling Stone —. Poi una sera ho suonato con Clapton e ho provato una sensazione tipo: “Non può succedere proprio a me”. Mi sono spaventato. Una delle mie poche certezze era che potevo sedermi alla batteria e fare qualcosa di buono, e all’improvviso non ero più in grado». Una discesa negli inferi, da batterista fenomeno a uno che riusciva «a malapena a tenere una bacchetta in mano», tutto partito da uno schiacciamento delle vertebre a causa della posizione in cui suonava la batteria: di qui un primo intervento chirurgico, poi un secondo, che gli hanno causato lesioni ai nervi.
Bevevo vodka dal frigo al mattino
A peggiorare il quadro clinico, i problemi di diabete, la pancreatite acuta, la dipendenza, pesante, dall’alcol: «In pochi mesi bevi vodka dal frigo al mattino e cadi davanti ai bambini. Non sapevo di essere vicino alla morte. Se avessi continuato a bere, i miei organi avrebbero smesso di funzionare. Mi stavo rovinando, perché mischiavo alcol e antidolorifici». Nato il 30 gennaio 1951, Phil Collins rappresenta un caso molto raro nella storia del rock: negli anni 70 ha iniziato la sua carriera con i Genesis come batterista, diventando poi la voce del gruppo quando Peter Gabriel lasciò nel 1975. Con lui la band artisticamente ha cambiato strada, ma ha ottenuto quel successo planetario da cui Gabriel era fuggito. Ma non basta: da solista Collins non solo si è creato una carriera da star, ma si è tolto anche lo sfizio di incidere uno dei «fill» di batteria più famosi della storia, quello di In The Air Tonight. Tantissimi alti e qualche basso, ogni tanto il proposito di ritirarsi che spunta, come nel 2010 per i soliti problemi di salute e la voglia di dedicarsi maggiormente alla propria famiglia.
Tre mogli e un divorzio da capogiro
Una vita professionale di stratosferico successo e una vita privata inquieta, fatta di tre matrimoni, l’ultimo concluso in modo (per lui) traumatico. Collins si era sposato una terza volta con la svizzera Orianne Cevey, nel 1999. Dopo 11 anni e 2 figli era arrivato un divorzio da 25 milioni di sterline (all’epoca la separazione più cara mai capitata a una celebrità britannica). Quindi — surprise — nel 2016 il ricongiungimento con la ex moglie, ma quattro anni più tardi il cantante presentò un avviso di sfratto contro la donna dopo che lei aveva segretamente sposato un altro. Gli aveva lasciato un biglietto lapidario: «Ho trovato un altro uomo e voglio provare ad essere di nuovo felice».
"Ironia, rigore, estetica. I miei anni meravigliosi con quel gran viveur geniale di Rossini". Paolo Scotti il 22 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il regista festeggia con una serata speciale quarant'anni al Festival lirico di Pesaro
Come un gioiello, incastonato in un diadema. Quarant'anni di prodigiosa creatività, al centro di settant'anni d'impareggiabile carriera. Questo il significato di Tra rondò e tournedos: il galà celebrativo con cui - il prossimo 21 agosto, a Pesaro - si festeggeranno gli incredibili quattro decenni di presenza al Rossini Opera Festival (Rof) del più celebrato regista rossiniano del mondo: Pier Luigi Pizzi. Occasione assolutamente unica per il festeggiato (serate simili solitamente si dedicano ai cantanti; non ai registi) e per la serata in sé stessa: sorta di antologia del meglio creato, in ben tredici produzioni, dal genio immaginativo del novantenne maestro, basilare figura di riferimento nella storia del più prestigioso festival lirico nazionale.
Come si spiegano ben quarant'anni al servizio della stessa rassegna, dedicata ai capolavori spesso dimenticati, talvolta nascosti - di un solo autore?
«Prediligo Rossini perché lo ritengo un benefattore dell'umanità. Ci diverte, ci commuove, ci sorprende sempre; perfino quando si ripete non è mai uguale a sé stesso, perché trasforma il buffo in malinconico, l'amaro in ironico. Un genio musicale che amava vivere. Per questo il titolo Tra rondò e tournedos allude anche alla simpatia del bon viveur che, al rifiuto d'uno chef parigino di cucinargli un filetto secondo la sue indicazioni, lo invitò a tourner le dos, a girare le spalle, e dettò la ricetta dei Tournedos alla Rossini: filetto in salsa di Madera, foie gras fresco del Perigord e abbondanti sfoglie di tartufo nero di Acqualagna».
Questa serata non sarà, però, un semplice concerto celebrativo.
«No: saranno frammenti di spettacolo, tratti da ciascuno dei tredici che ho creato per il Rof, dal Tancredi dell'82 al Moise et Pharaon del 2021, con brani affidati a nove cantanti fra cui Eleonora Buratto, Vasilisa Berzhanskaya, Dmitry Korchak, Giorgio Caoduro, diretti da Diego Matheuz e con scenografie e costumi originali».
Vogliamo provare a fare un bilancio di tanti successi, spesso anche pietre miliari nella riscoperta di Rossini?
«Facciamolo; anche io se non amo i bilanci. Potrei anche stavolta ripetere ciò che ho recentemente detto ricevendo due premi alla carriera, l'Abbiati - il mio ottavo - e il Flaiano. Questi omaggi fanno piacere, purché non li si intenda come una sorta di benservito, ma incentivi a lavorare con la passione di sempre».
Lo spettacolo che ha amato di più e quello sul quale ha avuto un ripensamento?
«Sono legatissimo al primo dei miei tre Tancredi, quello storico dell'82, eseguito con doppio finale tragico e lieto, con Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani, concepito in un indimenticabile fervore d'entusiasmo generale. Amo molto anche il Barbiere di Siviglia del 2018: ci sono arrivato ad 88 anni, ma nella giusta pienezza della maturità. Ho qualche pentimento, invece, per il secondo Tancredi, del '91, in cui mi feci prendere un po' la mano dal vasto spazio del Palasport a scapito dell'approfondimento psicologico. Privilegiai più il contenitore del contenuto, insomma. E infatti il terzo Tancredi, nel '99, mutò pelle».
Le immagini visive dei suoi spettacoli che più rimangono nella memoria?
«Nessuna in particolare: sono troppe. Ma condivido quelle che mi suggerisce lei: Samuel Ramey nel Maometto II portato in trionfo sul suo scudo, e Cecilia Gasdia, nello stesso spettacolo, coraggiosamente riversa sulle scale. La foresta di abeti in cui ambientai il Guillaume Tell del '95, o la villetta novecentesca a due piani, completa di campo da tennis e piscina, in cui nel 2002 trasferii la Pietra del paragone».
Più difficile o più stimolante doversi confrontare con titoli sprovvisti di una tradizione interpretativa?
«Meravigliosamente stimolante. Anche perché si trattava, ogni volta, di creare mondi differenti si pensi alla Venezia rinascimentale di Otello, così diversa da quella di Bianca e Falliero, ispirata al Veronese - anche se comunque riconducibili al mio stile. Che credo di poter riassumere in tre parole: estetica, rigore, ironia».
A quali compagni di viaggio, lungo questo quarantennale percorso al Rof, pensa oggi con gratitudine?
«Innanzitutto a Gianfranco Mariotti, che il Rof lo ha creato, ad Alberto Zedda, motore della Rossini renaissance, a Gigi Ferrari ed Ernesto Palacio. Poi ad artisti ineguagliabili come la Horne, la Valentini-Terrani, la Ricciarelli, la Devia, la Dessì, Chris Merrit, Samuel Ramey, Rockwell Blake. E potrei continuare a lungo».
L'ultima domanda è anche la più inevitabile, maestro. E per il futuro?
«Preparo nuove produzioni di Orfeo ed Euridice e Macbeth. Nella prosa una nuova Venexiana, oltre alle tournée di Pour un oui ou pour un non, di Nathalie Sarraute, con Orsini e Branciaroli, e de La dolce ala della giovinezza di Williams, con Elena Sofia Ricci. Tutto questo se Dio mi assiste, naturalmente».
· Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pif: «Ecco il mio libro d’amore, ma non sono uno scrittore». Racconta l’ultimo lavoro dedicato a Carmen Consoli e chiede per il suo funerale di cantare «Bella ciao». Maria Grazia Rongo su La Gazzetta del Mezzogiorno l’8 Dicembre 2022
Ognuno di noi ha sette anime gemelle, e secondo Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, una di queste abita in Salento. «Avrebbe preferito Bari, eh?» - ci chiede mentre iniziamo la nostra conversazione - ma ho soltanto fatto il giro del mondo che conosco meglio. «A Lecce ho un caro amico che vado a trovare ogni anno. Anche Bari conosco, ci sono venuto tante volte e sempre sono andato nei panifici di Barivecchia per la focaccia, avrei potuto mangiarne all’infinito».
Pif, autore e conduttore di programmi televisivi e radiofonici di successo, regista di successo, scrittore di successo, diventato celebre con «Le Iene», ha debuttato nel 2013 alla regia cinematografica con il pluripremiato La mafia uccide solo d’estate, e ora è in libreria con il suo nuovo romanzo, per Feltrinelli, La disperata ricerca d’amore di un povero idiota (pp. 219, euro 18) con protagonista Arturo, quasi quarantenne, alle prese, appunto, con la ricerca dell’anima gemella. L’incontro con un vecchio compagno di scuola fa al caso suo perché l’amico sta sperimentando una app che rileva l’affinità tra le persone grazie alla quale scopre che ci sono ben sette anime gemelle che lo aspettano in Italia e nel mondo. Così Arturo inizia il suo viaggio alla ricerca dell’amore, e non solo.
Pif, un libro sull’amore. Perché?
«Per la vecchiaia. A cinquant’anni, con figlia a carico di due anni è come se si fosse chiuso un capitolo della mia vita per aprirne un altro. Viene naturale girarsi e chiedersi com’è che sono arrivato fin qua. Magari non tutti si fanno queste domande, ma io che sono il re delle fisse mentali, me le faccio. Una volta me le facevo anche struggendomi, invece ora lo faccio in maniera divertita e serena. Cose importanti della mia vita le ho fatte grazie al caso, a cominciare dalla mia svolta quando ho seguito un corso come autore televisivo a Milano dove ho conosciuto il capo autore delle “Iene”. Sono le sliding doors. Certo, poi ci devi mettere anche del tuo, non è che cade tutto dal pero, però è un mix tra la tua volontà e il destino».
Questo è il suo terzo libro. Alle tante cose che fa possiamo ora aggiungere la voce “scrittore”?
«Alla fine forse sì. Io continuo a dire che non sono uno scrittore. Nella mia testa scrivo soggetti di film, ma ora dovrò arrendermi, perché al terzo libro devo cominciare a dire che anche questa è una mia attività. Lo vivo come un aspetto del mio lavoro. Devo comunicare delle cose e per alcune di queste il mezzo migliore è un film, un programma radiofonico, uno spettacolo teatrale o un libro».
Ma se dovesse definirsi cosa direbbe? Pierfrancesco Diliberto, professione?
«Autore. Una volta avrei detto regista perché era il mio sogno e tutt’ora è la cosa che forse preferisco. Però per prendere tutto forse c’è autore».
La cifra della sua arte è l’ironia. È riuscito a ironizzare persino sulla mafia. Si può parlare di tutto con ironia?
«Non è una cosa che scelgo a tavolino ma mi viene spontaneo raccontare il mondo così. Quando hai il coraggio di affrontare la vita con ironia c’è sempre una speranza. Provo un fallimento quando discutendo con qualcuno o affrontando qualcosa perdo l’ironia e sono solo incazzato. Anche la mia incazzatura la voglio accompagnare con l’ironia».
Lei ha portato avanti battaglie importanti, su tutte «Giustizia per Giulio Regeni». Pensa che per un personaggio pubblico e popolare questo sia doveroso?
«Per come sono fatto io sì. Non c’è scritto da nessuna parte che bisogna farlo però non potrei mai pensare di avere la possibilità di intervenire su una cosa grazie alla mia popolarità e non farlo. Questo non vuol dire risolvere il problema, però accendi una luce su un fatto. Per me il massimo della goduria è quando grazie alla popolarità riesci ad accendere l’attenzione e alcune volte anche a risolvere. Al mio funerale vorrei che venisse cantata “Oh bella ciao” perché vivo la vita come una perenne Resistenza».
Pif e la politica. Come va oggi?
«Diciamo che per uno che ha le mie idee potrebbe andare decisamente meglio, a proposito di Resistenza. Ciò che mi fa più arrabbiare è che ci sono politici che sono inutili. E anche se qualcuno la pensa come questo politico non lo dovrebbe seguire perché è inutile. Questo credo sia peggio che avere a che fare con una persona che la pensa in maniera opposta alla tua. Di politici inutili ce ne sono sempre stati ma ora c’è proprio un’esaltazione».
La rivedremo presto anche in tv?
«Dal 9 gennaio andrà in onda la nuova edizione de “Il Testimone”. E da gennaio torno anche in tv sulla Rai con “Caro Marziano”».
Infine, una curiosità: perché ha dedicato questo romanzo a Carmen Consoli?
«Perché è la mia passione. In realtà non me ne fregava niente di scrivere libri, ma volevo farne uno per dedicarglielo e comunicare al mondo che ho una passione sfrenata per lei, una donna meravigliosa, il meglio che la Sicilia possa esprimere. Mi onoro di conoscerla, francamente neanche così bene, non so neanche se è fidanzata, non mi interessa, perché il mio è un amore che deve rimanere nell’eternità».
Pif: «Tra tutte le mie anime gemelle vi spiego perché ho scelto Lei». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.
Pierfrancesco Diliberto presenta a Torino il suo ultimo libro «La disperata ricerca d’amore di un povero idiota».
«Mi sono sempre servito delle storie d’amore per raccontare la politica. Questa è la prima volta che racconto l’amore e basta». Venerdì alle 21 Pierfrancesco Diliberto, Pif, porta al Circolo dei Lettori il suo ultimo libro (Feltrinelli) «La disperata ricerca d’amore di un povero idiota». Racconta di come il protagonista Arturo scopra, attraverso un’app, che nel mondo ognuno di noi ha ben sette anime gemelle. Ecco che parte — speranzoso, goffo e timido — alla ricerca di ognuna di loro, da Siena alla Svezia, da Dubai alla Groenlandia. Tutto questo nonostante stesse nascendo una simpatia con Olivia, la ragazza dal sorriso raggiante che lavora nella mensa aziendale. In sottofondo, c’è la voce critica dell’autore che si fonde con la tenerezza e le contraddizioni del nostro tempo. E tanta ironia.
A proposito d’amore: torna al Circolo dei Lettori.
«Ho conosciuto la madre di mia figlia (Nabila Ben Chahed) proprio lì durante la presentazione del mio primo romanzo. Sono legato a Torino anche dal fatto che la prima nazionale di La Mafia uccide solo d’estate fu al Reposi. È un ricordo importante».
La presenta Luciana Littizzetto.
«Mi doveva un favore (ride), perché io ho presentato a Palermo il suo romanzo. Quando mi hanno detto che i posti erano esauriti il mio ego si è gongolato, poi ho capito che sono esauriti perché c’è lei. La trovo un’artista molto interessante, è una comica ma non è ossessionata dalla battuta».
A questo punto della carriera, non si stanca a essere conosciuto con un soprannome?
«Ormai solo mia madre mi chiama Pier. Non so quanto potrà andare ancora avanti, se a 70 anni mi si soprannominerà ancora Pif».
Questa cosa delle anime gemelle?
«Ho sempre pensato che l’incontro tra un uomo e una donna, per mia esperienza, fosse una questione di pura casualità. Non credo ci sia altro al di fuori di essa. Quindi, la mia teoria, è che non ci sia una sola anima gemella, ma di più».
E non toglie romanticismo all’amore?
«È il contrario: se ci sono più anime gemelle per ognuno di noi, e io e te stiamo insieme, significa che ci amiamo davvero».
Quale è stata la sua sliding door per eccellenza?
«Sicuramente quando feci un corso per diventare autore televisivo. Era il 2000 e internet non era così diffuso. Ogni volta che mi mettevo lì a fare la domanda online, cadeva la linea. Avrei voluto mollare. Ma c’era con me un amico-fratello-avvocato che mi diceva: “Insisti, insisti”. E da lì venne tutto: Le Iene, Mtv, i film. Penso spesso a cosa sarei diventato se non ci fosse stato lui».
A proposito: lei è una «Iena» storica. Cosa pensa della questione su cui si sta dibattendo contro il servizio di Matteo Viviani in seguito al quale c’è stato un suicidio?
«Per la prima volta nella mia vita, passo. Non faccio più parte delle Iene ma col cuore ancora sì, mi sono rimaste molte amicizie. Devo riprendere il giudizio, ragionarci sopra con delicatezza».
Come mai non c’è politica nel libro?
«Nella vita tutto è politica. Quando parlo di messaggio politico, intendo che non vado in giro a dare indicazioni di voto. Una posizione pubblica è di per sé politica».
Ne è meno interessato?
«No, anzi. È un periodo che bisogna essere ben svegli e schierarsi pubblicamente. Prepararsi alle barricate».
Come?
«Ognuno usa “l’arma” più consona. Io, per esempio, mi arrabbio quando ho l’incazzatura senza l’ironia. È segno di debolezza».
Pif compie 50 anni: assistente alla regia di Zeffirelli, le origini del soprannome, 7 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 4 Giugno 2022.
Gli inizi come assistente alla regia
Con la sua telecamerina sempre in mano ha lanciato un nuovo modo di raccontare la realtà: Pierfrancesco Diliberto, meglio conosciuto come Pif, oggi compie 50 anni. Nato a Palermo, il 4 giugno 1972, inizia ad appassionarsi al cinema a dieci anni. Dopo aver studiato a Londra nel 1999 muove i suoi primi passi come assistente alla regia di Franco Zeffirelli in «Un tè con Mussolini» (1999). L’anno successivo è sul set de «I cento passi», film dedicato all'attivista antimafia Peppino Impastato (vincitore di quattro David di Donatello e di un premio alla Mostra del Cinema di Venezia), come assistente alla regia di Marco Tullio Giordana. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Perché si chiama Pif?
Nel 2001 Pif è autore del programma di candid camera Candid & Video Show su Italia 1, prima di passare - come autore e in seguito come inviato - a Le Iene. Collaborerà con la trasmissione fino al 2011 e nel 2016 tornerà in veste di conduttore insieme a Nadia Toffa. Una curiosità: è stata proprio una «Iena», Marco Berry, a dare a Pif il suo nome d’arte.
Il testimone
«Questo programma è stato involontariamente all’avanguardia: ero una sorta di antenato degli youtuber»: così ha descritto Pif al Corriere Il testimone, il programma da lui ideato nel 2007 per Mtv (ripreso da Sky Documentaries nel 2021). Armato di telecamerina ha raccontato, con ironia e leggerezza, la vita quotidiana di personaggi legati al mondo dello sport, della politica, dello spettacolo e non solo. «Avevo cominciato a 34 anni, adesso ne ho quasi 50. Quando mi inquadro faccio dei primi piani stretti e si vede la differenza: le rughe, i capelli bianchi, i peli dal naso che prima non c’erano...Ma anche se si vedrà il mio evidente declino fisico, continuerò. Poi, qualunque cosa faccia, la gente che mi ferma mi dice: “Tutto bello... ma "Il testimone"?”». Una curiosità legata a Il testimone: durante le riprese di una puntata Pif ha fatto un cameo nella soap di Rai 3 «Un posto al sole».
La mafia uccide solo d'estate
Pif esordisce nella regia cinematografica nel 2013 con il film «La mafia uccide solo d'estate» (da cui nel 2016-2018 è stata tratta una serie tv). Per la pellicola ha vinto due Nastri d’argento e due David di Donatello. Il suo secondo lungometraggio «In guerra per amore» arriva nel 2016 (e vincerà il premio David giovani). Nel 2021 esce il terzo lavoro scritto e diretto da Pif, «E noi come stronzi rimanemmo a guardare», sul mondo dei rider.
L’impegno civile
Dal racconto della mafia attraverso il suo film «La mafia uccide solo d'estate» («Quella bomba ci ha svegliato - ha detto Pif al Corriere ricordando l’attentato a Giovanni Falcone -. Noi palermitani non negavamo la mafia, ma pensavamo che non fosse pericolosa») alla vicenda di Giulio Regeni a cui ha dedicato una puntata de Il testimone: spesso l’autore e regista si è messo al servizio delle cause che più gli stanno a cuore. Nel 2017 ha partecipato a una manifestazione organizzata da persone con disabilità presso la sede della presidenza della Regione Siciliana: ha telefonato, molto infervorato, al presidente Rosario Crocetta chiedendo lo stanziamento delle risorse destinate all'assistenza di 3600 persone disabili o, in alternativa, le sue dimissioni (il video della telefonata è diventato subito virale e qualche mese dopo Pif ha scritto una lettera aperta sul Corriere). Nel 2020 è salito sul palco delle Sardine durante una manifestazione a Bologna.
Ha pubblicato un romanzo
Nel 2018 Pif (già nel 2007 autore del libro «Piffettopoli. Le fatiche di un quasi vip») pubblica il suo primo romanzo in cui racconta - con ironia - la società: «...che Dio perdona a tutti» (Feltrinelli). Nel 2021 esce «Io posso: due donne sole contro la mafia» (Feltrinelli), volume sulla storia delle sorelle Maria Rosa e Savina Pilliu scritto con Marco Lillo.
Vita privata
Da sempre molto riservato sulla sua vita privata Pif, che dal 2011 al 2016 ha avuto una relazione con Giulia Innocenzi, è oggi legato a Nabila Ben Chahed (i due sono apparsi insieme lo scorso anno sul red carpet della Festa del Cinema di Roma). La coppia, che mantiene la storia d’amore molto lontana dai riflettori, nell’estate 2020 ha avuto una figlia, Emilia. A Sette Pif ha raccontato a proposito della paternità: «Coltivo l’ingenuità, mi piace stupirmi e inventare personaggi che capiscono soltanto alla fine. Ho sempre avuto un’attrazione per i bambini, non voglio fare il padre che parla solo della figlia, ma è inevitabile. Ora declino tutto al femminile. Appena vedo un bebè penso subito che sia femmina. Crescendo Emilia influenzerà sempre di più il mio lavoro. Da quando c’è lei faccio cose meno pericolose, soprattutto ne Il testimone. Certo, anche l’età sta facendo il suo (ride). Mi terrorizza sapere che tra poco avrà a disposizione tutta questa tecnologia prima di essere strutturata. Quando non avevo figli pensavo “Almeno una preoccupazione in meno”. Per fortuna la mia compagna è più giovane di me, compenserà le mie paturnie».
Pif: «La lotta alla mafia va raccontata, perché non è un capitolo chiuso». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Lo sceneggiatore e regista ospite al Salone del Libro: «Un linguaggio nuovo per superare la retorica».
«La distanza fra oggi e la strage di Capaci è pari a quella che separa la Seconda guerra mondiale dalla mia data di nascita. Non è un fatto percepito come lontano, ma di più». Parte da questo ragionamento Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, classe 1972, nell’affrontare uno dei temi principali del Salone Internazionale del Libro in partenza oggi: l’eredità dell’antimafia. «Uno che nasce ora avrà la difficoltà di capire quanto la lotta alla mafia non sia una cosa passata. La realtà non è un capitolo chiuso». In occasione dei 30 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la kermesse letteraria al Lingotto Fiere dedica diversi appuntamenti al tema. L’autore e sceneggiatore palermitano è uno degli autori più attesi.
Pif, al Salone in tanti parleranno di questo tema ai più giovani. Come si fa a spiegarlo a loro?
«Per i bambini e per i ragazzi serve un linguaggio diverso perché le generazioni cambiano, quindi occorre adeguarsi a un nuovo modo di parlare. È uno dei motivi per cui con altre persone (l’associazione culturale “Sulle nostre gambe”, ndr ) abbiamo creato la app NoMa, che dà vita alle lapidi per raccontare la storia delle persone uccise dalla mafia. Serve usare un linguaggio più moderno, ma serve anche raccontare questi personaggi come persone normali, perché presentarli come santi laici tante volte allontana. La loro storia è incredibile, proprio perché non avevano superpoteri. Io dico sempre nelle scuole: “leggetene come se fossero vivi”, altrimenti appassisce tutto».
Questo aspetto come influisce sul racconto?
«È un problema di comunicazione. Rinnovare il linguaggio serve per stare al passo con le generazioni. La cosa importante è che tutto non diventi una storia morta, ma sempre attuale. So che sembra una bestemmia, ma deve essere anche una cosa allegra».
In che senso?
«Ogni tanto mi scappa e dico che il 23 maggio vado a “festeggiare Falcone”. Una volta lo dissi a Maria Falcone e lei, che aveva tutti i motivi per offendersi, mi diede ragione. Andiamo a festeggiare queste persone perché le ricordiamo in maniera positiva, non attraverso una storia lagnosa, triste e retorica. Ricordiamo che Palermo, la Sicilia e l’Italia sono cambiate grazie a persone come Giovanni Falcone. Sempre nel rispetto di quanto accaduto, esiste una storia positiva»
Lei presenterà oggi Illegal, l’agenda della legalità, con Marco Lillo (Sala Oro, ore 15.30), edita da PaperFirst. Che cos’è?
«Vogliamo dimostrare quanto è rivoluzionario e alternativo rispettare le regole, cioè quello che la mafia non vuole. Questa agenda scolastica ricorda le persone che sono state uccise e ci informa, un’altra cosa che le mafie non vogliono. Informarsi è un’arma pericolosa per loro. Non è un’agenda lagnosa e triste, ma ci permette di raccontare delle storie e capire quanto le persone abbiano cambiato il Paese. È un’agenda che definisco “positiva” perché grazie a queste persone oggi stiamo meglio. Parte del ricavato, peraltro, andrà a finanziare l’app NoMa. La retorica? È giusto metterla, ma crediamo nell’allegria dell’antimafia».
Che eredità ci lascia l’antimafia?
«Spesso rischia di autodistruggersi, ma ho capito che l’unico modo per non rimanere delusi è pensare che la leadership della lotta alla mafia non venga delegata, dobbiamo darci noi stessi questa leadership, noi guidiamo la nostra lotta contro la mafia. Non mi deve interessare se un tizio, parente di un morto ammazzato, sia antipatico nella vita, mica devo fare un viaggio con lui, devo chiedermi se fa qualcosa di utile o no. Il concetto è che la mafia è il nemico, non dobbiamo implodere altrimenti facciamo un favore ai mafiosi. L’eredità è ricordare che non è una storia chiusa, ma dipende da noi».
"Riconosciuta dai tatuaggi? Ma...". Poi Zelig cancella il comico. Novella Toloni il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dopo la battuta infelice su Carol Maltesi, la 25enne uccisa e fatta a pezzi, Pietro Diomede è finito al centro di una bufera social. Il comico doveva essere a Zelig, ma lo show lo ha escluso.
Si chiama Pietro Diomede ed è salito alla ribalta della cronaca non per un monologo comico sensazionale, ma per un tweet di pessimo gusto su Carol Maltesi, la 25enne uccisa e smembrata dal vicino di casa. "Che il cadavere di una Pornostar fatto a pezzi venga riconosciuto dai tatuaggi e non dal diametro del buco del culo non gioca a favore della fama della vittima", ha scritto il comico attraverso il suo profilo Twitter e le sue parole lo hanno fatto finire nella bufera.
"Scherzo su tutto senza limiti. Infatti il personaggio che cerco di portare anche sul palco si chiama Cattivissimo Diomede", aveva dichiarato in un'intervista rilasciata nel 2017. Ma questa volta la sua comicità cinica gli è costata cara. Il cinguettio condiviso sul popolare social network su uno dei fatti di cronaca più cruenti degli ultimi tempi gli è costato non solo gli insulti del popolo del web, ma anche la partecipazione allo show Zelig.
Diomede - di cui si conosce ben poco - avrebbe dovuto prendere parte allo show in programma il prossimo 12 aprile sul palco di Zelig a Milano "con un monologo devastante", aveva annunciato il comico sui suoi canali social. Ma su quel palco non ci salirà proprio. In seguito al clamore suscitato dalle sue parole e dalle migliaia di segnalazioni, gli organizzatori di Zelig hanno deciso eliminarlo dal cartellone. "Abbiamo ricevuto segnalazioni in seguito al tweet di un artista che avrebbe dovuto esibirsi presso lo Zelig il 12 Aprile. Ci dissociamo completamente da quel Tweet, che disapproviamo nella maniera più assoluta. Di conseguenza, l'artista è stato escluso dalla programmazione Zelig", si legge sulla pagina ufficiale dello show.
Il food blogger, l'ex pornostar pentita e il massacro tenuto nascosto per mesi
Da ore su Twitter il profilo del comico è bersaglio di messaggi di sdegno e offese e il suo account è oggetto di segnalazioni in massa. Anche l'attrice hard Malena si è detta scioccata dalle parole di Diomede nei confronti di Carol Maltesi, madre di un bambino di 6 anni ed ex attrice hard con il nome d'arte Charlotte Angie. "Mi auguro che Zelig non lo ospiti, questo non è umorismo da comico", ha scritto nelle storie del suo profilo Instagram Malena, stringendosi al fianco della famiglia della vittima. Al momento il comico non ha rilasciato dichiarazioni. Di sé lui scrive sui social: "Sono l'anello di congiunzione tra una testa e un cazzo". Non servono altre parole.
Il tweet vergognoso e la cacciata da Zelig. Chi è Pietro Diomede, il comico e la ‘battuta’ su Carol Maltesi: “Non ho limiti perché ho sofferto troppo”. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022.
E’ stato cancellato dallo Zelig di Milano, dove doveva esibirsi il prossimo 12 aprile, in seguito a una ‘battuta’ disgustosa fatta su Twitter che ironizzava sulla morte di Carol Maltesi, la 26enne uccisa e fatta a pezzi nella sua casa di Rescaldina, nel Milanese, dal vicino di casa Davide Fontana. Quest’ultimo poi l’ha tenuta ‘nascosta’ per due mesi, fino a buttarne i resti in un dirupo a Borno, nella Val Camonica.
Pietro Diomede è un comico, noto per la partecipazione a diversi show televisivi. E cresciuto a Follonica in Toscana (oggi vive a Rho, in provincia di Milano) e non ha mai nascosto il suo forte spirito critico e la sua satira che “deve essere cattiva, deve colpire”, raccontò prima della sua esibizione a Eccezionale Veramente su La7.
Più volte in passato ha sottolineato di non concepire argomenti intrattabili e nel 2017, alla rivista GQ, raccontò di aver avuto un passato segnato da tre grosse perdite, tutte dovute al cancro: quelle di suo padre, sua madre e sua sorella, quest’ultima morta a 29 anni.
“Per dieci anni della mia vita ho dovuto frequentare il reparto oncologico di Pisa dove ho visto morire la mia famiglia colpita da una serie di tumori uno dietro l’altro: padre, madre e sorella. La comicità mi ha salvato. Potevo dire che la vita è una merda e invece ho deciso di ridere alla vita, quindi le battute che faccio sui terminali e la malattia nascono da un’esperienza personale. Questa è la vera chiave per cui estremizzo e vado oltre ogni limite perché io sono stato costretto ad andare oltre ogni limite. Adesso posso spaziare da tutte le parti e mi sento autorizzato a farlo.”
Pietro Diomede si definisce politicamente scorretto su tutto “e non solo sui morti ma anche sui disabili, i malati di tumori e ho anche una sottile vena di sessismo perché scrivo le cose che alla gente non piace sentirsi dire. Hai presente ciò che uno pensa ma non vuole dire? Io lo dico”.
L’ultima “perla” l’ha vomitata sull’omicidio di Carol Maltesi: “Che il cadavere di una Pornostar fatto a pezzi venga riconosciuto dai tatuaggi e non dal diametro del buco del culo non gioca a favore della fama della vittima”, facendo riferimento ai video hard postati dalla giovane vittima sulla piattaforma Onlyfans e alla svolta nelle indagini arrivata grazie alla diffusione da parte degli inquirenti dei tatuaggi della 26enne, che hanno spinto alcuni ‘followers’ a indicarla come possibile vittima quando ancora non era chiaro di chi fossero i resti trovati a Borno.
LA FAMIGLIA DI CAROL: “VALUTIAMO AZIONI LEGALI, CATTIVERIA ASSURDA”
Raggiunta dall’agenzia Ansa, l’avvocato Manuela Scalia, legale della mamma di Carol, annuncia: “Valuteremo eventuali azioni legali, trovo inconcepibile che davanti alla morte di una ragazza di 26 anni, ci sia chi si permette di dire certe cose, di fare battute indecenti. La cattiveria delle persone la stiamo percependo in questi giorni – ha proseguito Scalia – E’ assurdo che invece di concentrarsi sul fatto che una ragazza giovane sia stata trucidata da un mostro, ci si concentri sulle sue scelte professionali“.
Soldato Diomede. Il problema non sono le battute offensive, ma quelle scarse. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Marzo 2022. Il caso del giorno è un comico imbarazzante e pieno di sé che non fa ridere e che ha sbagliato mestiere.
A margine della questione dello smataflone, un amico – uno che di mestiere fa il comico – l’altro giorno diceva che la colpa della battuta di Chris Rock non era d’essere offensiva: era d’essere fiacca. A me sembrava dignitosa, per essere una battuta improvvisata (le cronache da dietro le quinte degli Oscar dicono che alle prove Rock non l’avesse detta: probabilmente è stato vedendosi davanti Jada Pinkett Smith che gli è venuto in mente Soldato Jane).
Poi, ieri, abbiamo tutti scoperto l’esistenza di Pietro Diomede, e ci siamo vergognati d’aver dubitato, e abbiamo chiesto scusa l’uno all’altra e confermato che sì, Chris Rock è un gigante del pensiero e dell’azione, e abbiamo annuito concordi: il problema sono le battute scarse.
Dell’esistenza di Pietro Diomede fino all’altroieri non ero – come credo molti di voi – al corrente. Sospetto che egli non sia fuori media rispetto a quel mezzo disastro che è la comicità italiana, levando dalla quale Guzzanti e un’altra mezza dozzina (scarsa) di nomi resta gente per la quale perlopiù imbarazzarsi.
Diomede, però, se la sente caldissima – che è un’espressione romana per la quale non ho ancora trovato un corrispondente italiano. Diomede è evidentemente convinto d’essere un genio incompreso, e lo è da un bel pezzo: ieri su Google il primo risultato che lo riguardava era un’intervista rilasciata a GQ nel 2017. Lo so, non vi ho ancora detto perché ieri Diomede era la notizia del giorno, ma lasciate che prima vi ricopi degli stralci della sua intervista di cinque anni fa, non voglio siate condizionati dall’attualità nel leggerla.
«Non ho un genere, ma la cattiveria è il trait d’union [mi sono permessa di correggere: il giornalista scriveva “trade union”]»; «Sono battute in cui se devo dire le cose non mi pongo freni»; «Il mio confine è sicuramente il buon gusto»; «La prima battuta non è quasi mai buona»; «Sono un bastardo poliedrico. Sto sul cazzo a tutti e vado avanti. C’è chi mi accusa di essere di destra, comunista, nichilista. A rotazione colpisco tutti e vengo attaccato».
Quindi, si chiederanno i miei piccoli lettori, questo autocertificato feroce ma anche autocertificato esigente con sé stesso quale battuta ficcante avrà fatto ieri? Meno male che esistono i link, così non devo copiarvela, perché ho uno stomaco abbastanza forte rispetto all’irriverenza ma quando sembri un dodicenne con un’erezione davanti a un cadavere di cui s’intraveda un capezzolo sono un po’ a disagio.
Diomede fa quindi questa battuta imbarazzante su una ragazza uccisa, e – come dicono i giornalisti – i social insorgono. Vista la subitanea impopolarità del ragazzo, Zelig gli cancella uno spettacolo già annunciato. E qui il tema è: ma prima li faceva ridere? È lo stesso tema dei conduttori di talk che stracciano il contratto agli ospiti improvvisamente impopolari: ma criteri di valutazione vostri non ne avete?
Il giorno prima Diomede – già scarsissimo come comico ma già smaniosissimo di farsi notare – aveva fatto una battuta su Bebe Vio che pure univa il voler essere feroce al non saper essere efficace. In generale, sul suo Twitter – che l’intervista ci spiegava essere una palestra, come per chiunque lavori con le parole – non c’è una battuta decente praticamente mai. Dice che le prime le scarta sempre, quindi quelle scemenze che posta sono pure il frutto di revisioni.
Sospetto che il livello di Zelig quello sia (il fatto che sia passato di lì Zalone non fa media: i talenti eccezionali non fanno mai media), e che quindi, finché non è diventato lo scandale du jour, Diomede gli andasse benissimo.
Fa abbastanza ridere (assai più della battuta media di Diomede) che questo carneade si trovi con la carriera stroncata da una rivolta dell’internet nei giorni in cui quella stessa internet tiene a dirci che Chris Rock è un povero sfigato che ha approfittato di Will Smith per diventare famoso.
Fa abbastanza ridere (anche se non quanto una battuta qualunque scartata da Chris Rock perché troppo debole) che, per accorgerci che uno che di mestiere dovrebbe far ridere non fa in realtà ridere, ci serva l’argomento sensibile, la reazione suscettibile, il signora mia ma questo è offensivo. Come se fare una battuta scarsa non fosse assai più offensivo che fare una battuta su un cadavere.
Nell’intervista di cinque anni fa, Diomede spiegava d’aver passato molto tempo nei reparti di oncologia, essendogli morta tutta la famiglia. Come tutti gli scarsi, offriva giustificazioni: sono tagliente come reazione al dolore.
Mi aspetto, per oggi, analoga intervista in cui spieghi che dire cose che non fanno ridere è il suo modo di elaborare il lutto. Ci conto, su questa botta di tardivo vittimismo. Abbiamo già la scarsezza professionale, l’internet che chiede teste, i datori di lavoro che non fanno un plissé se sei scarso ma si terrorizzano se i cuoricinatori si turbano. Manca solo la dolenza autobiografica, e poi Diomede, pur fallimentare come comico, sarà quella perfettamente riuscita figura professionale che cercano i navigator: un contratto a tempo indeterminato come incarnazione del postmoderno non glielo leva nessuno.
Maria Volpe per corriere.it il 30 marzo 2022.
Abbiamo appena finito (non ancora per la verità) di discutere sulla battuta del comico conduttore della serata degli Oscar, Chris Rock, sulla testa rasata della moglie dell’attore Will Smith (che si è alzato colpendo con un pugno, il conduttore) chiedendoci che limiti deve porsi la comicità e già ci si presenta un altro caso, tutto italiano. E decisamente più grave.
Una battuta disgustosa su una povera ragazza uccisa e fatta a pezzi. Il comico (comico??) Pietro Diomede, legato a Zelig, ha scritto un tweet rivoltante sul corpo di Carol Maltesi, giovane madre di 26 anni, attrice hard (nome d’arte Angie Charlotte), uccisa, fatta a pezzi e gettata in un dirupo da Davide Fontana, suo vicino di casa di 43 anni.
I social si sono rivoltati e molti tweet hanno chiesto a Zelig di allontanare l’attore. Immediatamente l’account ufficiale di Zelig ha scritto: «Abbiamo ricevuto segnalazioni in seguito al tweet di un artista che avrebbe dovuto esibirsi presso lo Zelig (locale in viale Monza, a Milano, ndr) il 12 aprile. Ci dissociamo completamente da quel tweet che disapproviamo nella maniera più assoluta. Di conseguenza l’artista è stato escluso dalla programmazione di Zelig».
Durissimo il tweet di Alessandro Gassmann: «Signor Pietro Diomede io penso che lei rappresenti a pieno, il gradino più basso e repellente della specie umana. Si vergogni e chieda scusa alla famiglia della vittima». Una battuta che decisamente va oltre il dibattito su dove si deve fermare la comicità. Qui si è andato oltre, senza se e senza ma.
Grazia Sambruna per mowmag.com il 30 marzo 2022.
Pietro Diomede è uno stronzo. Ma chi è Pietro Diomede? Abbiamo contattato telefonicamente il comico il cui nome è tra le tendenze di Twitter in queste ore. E l'hashtag non è seguito da belle parole nei suoi riguardi.
Anzi, tanto forti sono state le reazioni a un suo cinguettio su Charlotte Angie, la pornostar uccisa dall'ex fidanzato, che Zelig ha comunicato ufficialmente di aver cancellato il nome del comedian dalla scaletta della serata prevista nello storico locale di viale Monza il prossimo 12 aprile.
"E questa è stata una pagliacciata", commenta Diomede. Che non si scusa, anzi, rilancia: "Se fosse morto fatto a pezzi un attore hard, mettiamo pure Rocco Siffredi, nessuno si sarebbe scomposto davanti a una battuta sul suo cazzo".
Possibile dargli torto? A quanto pare, a furor di popolo dell'internet, sì. Il politicamente corretto ha rotto i coglioni? Ecco a voi, in esclusiva, la versione di Diomede.
Quindi da oggi non sei più un “comico di Zelig”...
Beh, non lo sono mai stato. Semplicemente, mi ero proposto per una serata a microfono aperto prevista per il 12 aprile allo Zelig di Milano, il locale di viale Monza. Quando accettarono la mia partecipazione, chiesi: “Ma posso dire tutto?” e mi risposero di sì. Aggiungendo di invitare gli amici e di portare gente. Ora, da come tutti ne stanno parlando, pare che mi abbiano cacciato dagli Arcimboldi (ride, ndr)
Ci è rimasto male?
Ma va. Erano due anni che non mi esibivo su un palco per via della pandemia. Aspetterò ancora, non mi cambia niente. Spero che tutto il casino che è scoppiato possa dare visibilità a questa serata del 12 aprile allo Zelig. Intanto il mio nome è in trending topic su Twitter, cosa che non era riuscita nemmeno al programma quando è andato in onda dagli Arcimboldi con Claudio Bisio e Vanessa Incontrada. Per dire.
Lei ha saputo di essere stato cancellato dalla serata via Twitter?
No, Giancarlo Bozzo mi aveva chiamato per comunicarmi la decisione presa. E ha avuto tutta la mia comprensione: c’era gente che gli scriveva minacciando di distruggergli il locale se fossi salito sul palco. Cos’altro doveva fare? Il modo in cui ha comunicato la notizia sui social, però, mi ha lasciato basito…
Come mai?
Perché mi sono sentito trattato come una sorte di criminale, quando Davide Fontana, l’assassino di Carol - tengo a chiamarla Carol perché tutti quelli che danno notizia della sua morte usano il suo nome d’arte, Charlotte Angie - Davide Fontana me lo immagino ora in carcere a chiedersi: “Oh, ma come mai nessuno parla di me e stanno tutti dando dello stronzo a Pietro Diomede?”. Capisci che è surreale questa cosa?
Entriamo nel merito della battuta?
Le battute non si spiegano. Fanno ridere oppure no. E questo dev’essere. Ho visto che tutti stanno parlando di me da Selvaggia Lucarelli a Lorenzo Tosa, passando per Andrea Scanzi che mi ha definito: “la parte peggiore di Pio e Amedeo”.
E lei cosa pensa di Andrea Scanzi?
Penso che Pau dei Negrita, ai tempi, non gliene abbia date abbastanza.
Di Selvaggia Lucarelli, invece? Non è la prima volta che vi scontrate...
Di Selvaggia dico che l'amore non è bello se non è litigarello.
La Lucarelli sostiene, via Instagram, che "il cerchio si chiude sempre". Sente che il suo cerchio si sia chiuso?
Mah, al massimo sento stringersi il cappio. Intorno all'informazione italiana se si ritrova "costretta" a parlare così tanto di quanto sia stronzo Pietro Diomede.
Come si spiega queste reazioni?
Non me le spiego. Ho scritto di molto “peggio”, se è per questo e tanto ho ancora da dire: ho già pronte una serie di battute per quando tornerò libero di postare su Facebook. Per adesso, ho quattro profili: tutti bloccati.
Comunque credo che tutti i particolari morbosi e davvero rivoltanti con cui la stampa italiana sta riportando la notizia della morte di Carol, sia la parte peggiore. Se proprio dobbiamo etichettare una “parte peggiore”.
Credo anche che se fosse morto un attore hard, mettiamo caso - facendo le corna - Rocco Siffredi, allo stesso modo ovvero fatto a pezzi, nessuno avrebbe avuto nulla da eccepire se avessi scritto: “Ah, ma come? L’hanno riconosciuto dai tatuaggi e non dal cazzo?”. Tutto il resto, ovvero quello che si sta scatenando su Twitter in queste ore, è pura ipocrisia.
Ipocrisia o no, lei ha perso una serata - sia pure di poco conto - e in genere molti comici hanno preso l’abitudine di scusarsi per battute postate sui social che ricevono un’accoglienza negativa. Le cito Michela Giraud, per esempio, che cancellò, chiedendo poi perdono, il tweet in cui paragonava Demi Lovato al Mago Otelma per via del pronome “loro”...
Eh, grazie al cazzo. Quando cancellò quel tweet, scusandosi, aveva in promozione un film a tematiche LGBTQ+ in uscita su Prime Video, ha dovuto scusarsi per forza! A parer mio non certo perché si dolesse profondamente di quella battuta…
Lei si duole della sua?
No. Né di quella su Carlo né di tutte le altre che trovate e troverete sempre sui miei profili (finché non li bannano, ma tanto poi torno). E a maggior ragione, l’idea di scusarmi non mi è passata neanche per l’anticamera del cervello. Non lo farò mai.
Trova sbagliato che i comici lo facciano?
Questo è affar loro. Trovo sbagliato, sicuramente, che molti comici che consideravo amici oggi mi attacchino e prendano le distanze da me via social…
Qualche nome?
Non posso farlo. Anche perché, da gran coraggiosi, non mi citano espressamente nei loro tweet e post. Ma il riferimento è chiaro. Dopotutto, li capisco: ognuno di noi deve arrivare alla fine del mese come può.
E lei come ci arriva? Con le battute che mette sui social?
Ma va! Io nella vita sono un impiegato fantozziano, quello è il mio lavoro. Per il resto, sono solo un cazzaro che si diverte a fare battute.
Ma se il pubblico le dimostra di non divertirsi, per usare un eufemismo, non pensa che dovrebbe cambiare strada?
Io posto quello che fa ridere a me: il mio metro di giudizio, prima di pubblicare una cazzata che mi viene in mente, è: “Questa cosa è perseguibile penalmente?”, se la risposta è “no”, la posto. Il resto non mi interessa.
Punta a prendersi un cartone in faccia da Will Smith?
Ma magari! (ride, ndr)
Cosa pensa di quell’episodio?
Guardi, ci ho pure twittato sopra come hanno fatto tutti. Ma, battute a parte, penso che entrambi, sia Will Smith che Chris Rock, si siano comportati da tamarri di periferia. Dando, tra l’altro, un bell’assist ai razzisti americani. Quei due, così facendo, hanno alimentato lo stereotipo che già purtroppo esiste e che negli Stati Uniti è duro a morire.
Lei non crede di essere un tamarro di periferia, considerato quello che posta sui social?
Io sono un tamarro di periferia. Però me lo posso permettere: mica sono Will Smith.
Per lei Will Smith, dunque, non è l’eroe romantico che ha difeso l’onore della propria donna - sì è letto anche questo negli ultimi giorni?
Ma le pare? La cosa che mi fa più sorridere di questo episodio è che chiunque abbia riportato la notizia, abbia parlato di Jada Pinkett chiamandola “la moglie di Will Smith”. Poi dicono che sia un problema scherzarci su perché è una donna e ha una malattia. Ok, ma intanto almeno cominciate a chiamarla per nome.
Per lei è lecito scherzare sulle malattie?
Per me è lecito scherzare su qualunque cosa. Basta che faccia ridere. Poi ci terrei a dire che Jada Pinkett ha l’alopecia, mica un cancro. Sono stati in molti a fraintendere la cosa. Comunque, avrei scherzato anche sul cancro. Mi piacciono le battute sulla morte.
Che le piacciono l’abbiamo notato. Sa dirmi come mai?
La morte fa parte della vita di ognuno di noi, non vedo perché debba necessariamente essere un argomento tabù. Poi, soprattutto, fa parte della mia vita.
In che senso?
Nel senso che ho visto morire tutta la mia famiglia, madre, padre e sorella nel giro di pochissimi anni. Per cancro. Sì, come la moglie di Giallini che ho citato in un post preso d’assalto dal Tribunale di Twitter. Io quella battuta la farei davvero sul palco dei David dei Donatello. Perché a me fa ridere. E pensare che, prima che la mia famiglia andasse all’altro mondo, ero un musone, non scherzavo mai. Dopo, ho cominciato a fare battute. Credo sia stato il mio modo per esorcizzare quanto successo.
Me lo sta dicendo per giustificarsi?
Assolutamente no. Non penso di avere il patentino sulle battute riguardo alla morte solo perché mi è morta la famiglia, non sono mica uno di Twitter! L’unica cosa che mi infastidisce è che la morte dell’ultimo famigliare che mi era rimasto, mia sorella, risale al 2006, quando i social ancora non avevano il peso che hanno ora: pensi quanti like mi sono perso!
Però almeno non ha dovuto “ereditare” profili social da gestire. Tre sarebbero stati un bel po’ di lavoro…
Cazzo, sì. Alla fine, ho avuto culo.
Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.
Uno choc che ha accompagnato il produttore cinematografico Pietro Valsecchi fino ad oggi. Che lo ha spinto a regalare a Roma la casa dove Pier Paolo Pasolini visse agli inizi degli anni Cinquanta, quando i ragazzi di vita stavano per essere immortalati nel romanzo diventato l'identità del poeta.
«Volevo restituire a Roma quello che Roma mi ha dato. Tantissimo».
Una casa in periferia, nella borgata di Rebibbia, comprata all'asta, un progetto che insieme con sua moglie Camilla Nesbitt ha condiviso con il sindaco Roberto Gualtieri e l'assessore alla Cultura Miguel Gotor: l'idea è di farne un polo culturale per gli abitanti del quartiere, per coinvolgere soprattutto i più giovani.
«Roma è una città che in troppi cercano di saccheggiare invece di custodire. Ripartire dalla cultura è necessario per far ripartire il Paese». Un regalo che coincide con un anniversario importante per Pasolini, il centenario della sua nascita. «Penso che verranno fatte altre cose per ricordarlo. So per esempio che Marco Tullio Giordana sta preparando qualcosa su di lui», spiega Valsecchi.
Nato a Crema, studente al Dams di Bologna, il giovane Pietro Valsecchi approda nella Capitale e conosce Dacia Maraini e Laura Betti, e finire sulle tracce di Pierpaolo Pasolini è stato quindi un percorso quasi inevitabile.
Racconta ora il produttore: «Laura stava preparando un libro su Pasolini e le servivano gli articoli pubblicati sul Secolo d'Italia dove si parlava della sua morte. Mi chiese aiuto. Mi improvvisai studente universitario per consultare l'archivio del giornale».
Il destino, però, aveva già messo Valsecchi sulla strada di Pasolini: «Facevo l'attore e avevo avuto un contatto con lui per il film Salò . Mi aveva dato un appuntamento, ma non mi presentai, per timidezza».
Per timidezza all'epoca, per reverenza oggi. O forse qualcosa in più.
Ha prodotto fiction impegnative come quella su Falcone e Borsellino,, Valsecchi, o film come Un eroe borghese su Giorgio Ambrosoli. Ma un lavoro su Pasolini non lo farebbe mai: «Mi sento come un nano sulle spalle di un gigante e davanti a un gigante si può avere solo rispetto. Pasolini posso soltanto guardarlo o leggerlo». Poeta, regista, sceneggiatore, scrittore, attore, drammaturgo: «Difficile trovare un erede con una simile complessità. C'è però Claudio Caligari che come regista può considerarsi un suo erede, di lui ho prodotto Non essere cattivo . Ha una poetica vicina a quella di Pasolini nel racconto degli ultimi e delle borgate. Poi, certo, ci sono altri grandi registi oggi come Paolo Sorrentino e Matteo Garrone e altri, ma ognuno di questi ha sviluppato un proprio percorso personale».
Favino, uno, nessuno, centomila: «Quando recito non sono più io. Se in un film muoio, mia madre sta male». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2022.
L’attore racconta il suo nuovo personaggio, il “Colibrì”: «Mi somiglia. Io sono resiliente. Non baratto i miei affetti e i miei valori piccolo borghesi. E ha un modo di abitare il mondo femminile che io ho sperimentato in famiglia».
Pierfrancesco Favino è nato a Roma nel 1969. I genitori sono pugliesi e ha tre sorelle. Vive con la compagna Anna Ferzetti e le due figlie
Esterno giorno, Roma. Piove che Dio la manda. Siamo in un bar di San Saba, quartiere quieto nel cuore della città. Sullo schermo scorrono le immagini della vittoria di Giorgia Meloni. Quando arriva l’attore Pierfrancesco Favino indossa una felpa con il cappuccio, ha le tempie rasate e un fungo di capelli in alto: è un po’ criminale è un po’ francescano. Il Libanese s’è fatto prete? «No, il taglio di capelli è propedeutico al trucco», spiega con l’aria stralunata, perché le riprese del nuovo film sono di notte: «Vivo con una specie di jet lag». Le occhiaie appesantiscono le ciglia lunghe, spariscono quando il sorriso allaga di luminosità il volto. Lo copre una volta con le mani, quando racconta un suo incubo.
Al bar lo salutano come Picchio, soprannome che gli diede il padre, Aldo. In giornata arriva la notizia che Nostalgia di Mario Martone (piaciuto molto alla madre di Picchio, la signora Stella) è la proposta italiana per gli Oscar. L’occasione del nostro incontro è l’uscita (14 ottobre) di un altro film che lo vede protagonista: Il colibrì, dal romanzo di Sandro Veronesi, la storia di un uomo che attraversa perdite terribili e amori assoluti. La regia è di Francesca Archibugi, che Favino incontrò da adolescente, grazie a una professoressa che portava gli studenti a vedere film e incontrare registi: «Chiesi quanto c’era di autobiografico in Mignon è partita. Francesca disse “niente”, con mia sorpresa e i compagni che ridevano».
Partiamo da qui, dalla domanda che il giovane Favino forse farebbe al grande attore ch’è diventato, capace di passare da Bartali a Buscetta, da Craxi ad Ambrosoli, per citare alcuni personaggi storici. Quanto c’è di autobiografico nel suo protagonista del Colibrì ?
«Non parto dal pensare a cosa c’è di mio in un personaggio, ma alla fine del lavoro capita di scoprirlo. Della parabola di Marco Carrera, il protagonista, mi piace che dopo i fallimenti amorosi, successivi alla morte dell’unica figura femminile che lo capiva, cioè la sorella, lui riconquista un centro di sé nel femminile quando diventa padre e nonno. Io sono cresciuto con tre sorelle, abito il femminile da sempre. Quella capacità di intuire gli elementi dell’altro, capire quando fermarsi in attesa che dopo la furia emotiva del momento arrivi la spiegazione. Con l’età sono diventato più morbido, meno muscolare e nervoso nel far emergere le cose. Femminile? Io non credo all’identità, che le persone siano una cosa sola, né alle divisioni tra maschile e femminile, o fluido, sono divisioni sociali. Sono i contesti a spingerci, sta a noi decidere se restare fedeli a quei contesti o se troviamo valvole di espressione: il mio lavoro è questo».
Marco Carrera è chiamato Colibrì perché sa volare stando fermo. Lei?
«Il soprannome nasce dall’aspetto, minuto, e per la capacità di volare tenendo la posizione. Ho letto il romanzo di Sandro Veronesi prima della pandemia, e ne ho apprezzato il sentimento di resilienza, la pandemia poi l’ha reso più comune. Mi piace lo sforzo di mantenersi saldi e solidi su ciò in cui crediamo; io sono paziente, resiliente riguardo le cose che non voglio barattare: le persone cui voglio bene e i miei valori, che sono piccolo borghesi».
Mi fa un esempio?
«Cose banali, ma ci sono dettagli che poi possono ripercuotersi nel tempo. Ad esempio non lavoro mai nei giorni dei compleanni delle mie figlie».
Jean Luis Trintignant disse di no a Bertolucci per Ultimo tango a Parigi. La figlia disse che poi a scuola l’avrebbero presa in giro per le scene di sesso. Pure lei avrebbe detto no?
«Il fare o non fare certe scene non è una pruderie di tipo morale, ma la consapevolezza che non sei solo tu nella vita e attorno a te c’è un universo di persone coinvolte. Ma forse, penso oggi, direi di sì, pur di lavorare con Bertolucci».
Per Silvio Soldini ha girato scene molto esplicite in Cosa voglio di più .
«Sì, ma la mia nudità è altro. Mi sono trovato più nudo quando ero vestito che non nelle scene di nudo. Quando lavoro non penso di essere io. Dopo, sì, mi rendo conto che attorno mi percepiscono come me. Se in un film muoio, mia madre sta male, se nel film ho bisogno di soldi, lo zio chiama per offrire aiuto...».
Nel Colibrì la resilienza è messa a dura prova dai traumi della vita. C’è un evento che l’ha segnata a fondo?
«Non ho mai veramente elaborato ciò che la morte di mio padre ha generato in me. Fu un evento molto forte, stavo lavorando a El Alamein, nel deserto».
Quanti anni aveva?
«Avevo 33 anni. Quasi 33 anni, non ancora 33. Da giovane uomo mi trovai all’improvviso uomo a tutti gli effetti. Ma non mi sono reso conto subito, né poi l’ho ammesso facilmente, che alcune scelte successive potessero derivare da quello. Il piglio, il senso di urgenza con cui ho agito dopo, vengono da lì. Ora se tornassi indietro non farei così».
Suo padre la chiamava Picchio, per la vivacità. E molti lo fanno ancora. Le sue figlie come la chiamano?
«Papà, in genere. “Papo”, quando serve qualcosa. Per studiare, fare una passeggiata, un giro in bici...».
Cosa le piace fare con loro?
«Con la grande, Greta, 16 anni, vediamo film. L’altro giorno Memento di Nolan; si fa domande esistenziali e quel tipo di cinema la intriga. Con lei mi piace parlare, anzi, ascoltare, e leggerla, scrive molto bene. Con Lea, più piccola, ci divertiamo a fare imitazioni, giochi, scherzi telefonici in cui ci fingiamo un’altra persona: in lei rivedo cose della mia infanzia, l’inventarsi la realtà».
Due folgorazioni l’hanno spinta a fare l’attore: vedere Totò in tv e uno spettacolo teatrale di Lavia. Dopo il liceo ha frequentato l’Accademia, una scelta in contrasto con suo padre, il cui antagonismo però fu uno sprone, ha detto. Lei che padre è?
«Quella contrapposizione lo portò a una solitudine emotiva, una scelta difficile, coraggiosa. Per fortuna abbiamo fatto in tempo a ricucire, mettendo al bando i silenzi. Io non ho un figlio maschio, non c’è quella specularità di genere che può produrre conflitto, stimolare orgoglio e indipendenza; con le mie figlie ho un rapporto emotivamente più diretto. Questa estate Greta è andata negli Usa per una vacanza studio: una cosa bella, ma è stato doloroso vederla sulla banchina, da dietro, partire. Il distacco fa male, ma educa all’indipendenza».
Sui cellulari come vi regolate in casa?
«La grande ce l’ha, la piccola non ancora. Ci sono tentativi di regole, ma conta l’esempio. E capire: Greta parla di evoluzione, dice che se chiude gli occhi può mandare un messaggio, io no. Vero. Inutile lamentarsi, serve vigilare se questo va a detrimento di altre attività».
Nel Colibrì c’è una conversazione tra il protagonista e la figlia sulla morte. Lei come ne ha parlato alle sue figlie?
«La piccola sta vivendo proprio il momento in cui ti chiede dove va chi non c’è più. Noi diciamo nel modo più semplice: sulle nuvolette e vedono tutto da lassù. Poi la nuvoletta non basta più».
La sua compagna è l’attrice Anna Ferzetti. Come l’ha conosciuta?
«Ballando, a una festa romana di amici comuni, uno stava lasciando casa».
In che anno?
«Era il 2004».
Che giorno?
«2 febbraio, 2 febbraio 2004».
Che musica era?
«Una specie di salsa».
Chi ha fatto la prima mossa?
«Credo lei, anche se prima io le ho pestato un piede per sbaglio. Ero di spalle mi sono girato e ho detto “scusa”, lei pure “scusa”, e abbiamo preso a ballare. Per noi ballare è un canale di dialogo».
Lei crede nelle coincidenze?
«Sì, penso che ci sia un elemento molto magico nella vita. Le riconosco, ci credo, ma non le inseguo».
Nel Colibrì, tra le coincidenze radicali, ci sono eventi traumatici per cui la resilienza vacilla.
«Il suicidio della sorella del protagonista, come ogni suicidio, è un’esperienza che porta le persone attorno a darsi delle colpe. Se ti porti dentro quella cosa lì, hai voglia a spiegarla razionalmente, ti senti sempre accusato; una parte di te è convinta di essere responsabile, e poi ti chiedi cosa avresti potuto fare perché non accadesse. E dal punto di vista del padre della ragazza è terribile: la perdita di un figlio deve essere terribile».
Marco Bellocchio ha raccontato lo stupore per il suo provino per Il traditore , dove ha recitato la scena in cui Buscetta piange per i figli.
«Quando l’ha raccontato?»
Nel volume Il collezionista di anime (Cosmo Iannone ed.). Bellocchio dice che il provino fu «superlativo», che lei andò «oltre la professionalità». Come preparò quella scena?
«Spesso pensiamo che la tecnica sia sostitutiva di qualche altra cosa. Nella recitazione, nella scrittura, si crede che là dove non arrivi con l’organicità del tuo sentire, l’empatia, puoi arrivare con la tecnica. No, la tecnica è proprio ciò che ti permette di lasciarti andare...»
È evidente nel jazz, si studiano le scale per poter improvvisare...
«Stavo per arrivare alla musica. A Keith Jarrett, nel famoso concerto di Colonia, quando entra dicono: “È nato suo figlio”. E lui esegue al piano le note che in genere avvisano il pubblico che sta iniziando lo spettacolo, ma quelle note sono già lo spettacolo. Ecco, quella per me è la tecnica. Al cinema significa che se la sceneggiatura è scritta bene tu hai solo da lasciarti andare, quella è l’essenza di un attore, la capacità di empatizzare fino in fondo con ciò che tu non sei, mettendo da parte il giudizio morale o politico verso il personaggio, per abbracciare quello che può significare in quell’istante un evento importante per lui e quindi anche per te».
Favino nel ruolo di Tommaso Buscetta in «Il traditore» di Marco Bellocchio
Nel caso di Buscetta, mafioso pentito, la morte dei figli uccisi per vendetta.
«La morte non ha colore, e io in quell’occasione lì ho avuto semplicemente bisogno di respirare e iniziare a dire quelle cose con quell’emozione che evidentemente io sento perché è una cosa che mi spaventa... A volte sogno, ed è uno dei pochi incubi che posso avere, che accada qualcosa del genere».
Il suo Buscetta nel 2019 ha ricevuto applausi unanimi, il suo Craxi diretto da Amelio del 2020 ha invece diviso.
«Craxi ha diviso in vita e naturalmente ha diviso anche trasposto in un film».
Forse Buscetta è un criminale agli occhi di tutti, e lei l’ha umanizzato; Craxi invece per alcuni era un grande statista, punto, per altri un criminale, punto. Senza sfumature.
«Non sono un sociologo, per esperienza però incontro più persone che mitizzano il Libanese che non Pinelli».
Quando ha interpretato un disabile in Corro da te alcuni hanno detto che sarebbe stato meglio vedere un attore disabile. L’inclusività al cinema non rischia di essere ideologica? Altrimenti anche il suo monologo a Sanremo sugli sradicati, recitato con una cadenza straniera, poi diventa appropriazione culturale...
«Gli attori esistono da quando Tespi si è fermato, è sceso dal suo carro e ha deciso non di raccontare una storia ma di far finta di esserne il protagonista. Abbiamo firmato un contratto non verbalizzato in cui decidiamo che ci sono esseri umani che decidono di essere altro da sé in modo tale che noi capiamo attraverso le storie di quelle persone chi siamo noi. Non è che per fare Craxi devi essere socialista! O per fare Buscetta devi essere affiliato! Diciamo che mi andrà bene questa cosa nel momento in cui Ferrari lo farà un italiano, Gucci lo farà un italiano; siamo l’unico Paese al mondo in cui ancora oggi attori americani interpretano il ruolo di italiani».
Lei in quale dei suoi personaggi si è riconosciuto di più?
«Di Vittorio, il sindacalista, per le mie origini, pugliesi come lui, e per una attitudine politica che ho sentito vicina. Ma non mi chieda per chi ho votato».
No, ma da attore che studia e usa il linguaggio del corpo, cosa l’ha colpita di Giorgia Meloni, Enrico Letta e Giuseppe Conte? Non intendo contenuti ma gesti, toni, dettagli.
«Parliamo di emissione vocale. Meloni, dal punto di vista tecnico, sembra dire davvero ciò che pensa. Qualcosa nel tono ci dice che è connessa con il corpo. In altri, invece, si avverte un filtro. Letta dà l’impressione di una mediazione tra il pensiero e la dichiarazione; Conte ha una conformazione vocale bloccata alla laringe, il centro del respiro, e su alcuni toni può essere respingente, in altri casi, invece, persino suadente».
Il programma di Diaco e i sentieri della consolazione. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 Settembre 2022.
«Bella Ma’», a partire dal titolo, è uno dei più velleitari e inconsistenti programmi della storia della Rai
Sarebbe fin troppo facile sostenere che «Bella Ma’», a partire dal titolo, è uno dei più velleitari e inconsistenti programmi della storia della Rai. È un format ideato e condotto su Rai2 da Pierluigi Diaco ed è spacciato come «il primo talent di parola della tv italiana», uno scontro fra concorrenti della «generazione Z» e «Boomers» (solo a scrivere scempiaggini del genere mi vengono i brividi). I programmi possono riuscire o non riuscire, vanno e vengono, il vero problema è chi resta, cioè Diaco. Sono anni che non mi spiego questo mistero, questo bluff, questo «tuttologo del niente», come è stato a suo tempo definito. Eppure è in azione tutto l’anno, in radio, in tv o come badante di ex «mostri sacri».
La sua mania principale è di confessare gli altri, come se la parola fosse un boccone, un’informe poltiglia che passa e ripassa da mascella a mascella, come se lo psicologismo finisse in tv solo quando è in stato di avanzata putrefazione. Diaco usa un linguaggio povero, il più disonesto dei linguaggi perché consente di esprimere solo le misere idee compatibili con il suo lessico. E infatti, fateci caso (o anche no) Diaco si esprime in un vortice di ammiccamenti, di ricerca di complicità, di falò sentimentaloidi che fanno luce ma non riscaldano. Un giorno ho letto questa sua dichiarazione e ho seriamente temuto per Viale Mazzini: «È un progetto portato avanti in stretta collaborazione con Antonio Di Bella (direttore del daytime Rai) e condiviso dall’amministratore delegato (Carlo Fuortes, ndr). La mission che mi è stata data è di mettere insieme innovazione e tradizione». Passi per Di Bella, ma l’idea che Fuortes discuta un programma con Diaco e gli dia una mission mi è sembrata una scena tragica finita per caso in un vaudeville. Il paraDiaco vuole fare dello spettatore un complice per fare strada insieme lungo i sentieri della consolazione. Non sempre gli riesce.
Diaco su Rai2: «Figli con il mio compagno? Mi piacerebbe, ma credo nei processi culturali». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
Riparte da martedì 12 aprile il programma del giornalista in seconda serata su Rai2. Otto puntate che tra gli ospiti vedranno Arisa, Christian De Sica, Orietta Berti.
Pierluigi Diaco riparte da Drusilla Foer, «un mix di intelligenza, regalità e charme». È lei la prima ospite della nuova edizione (la terza) di «Ti sento», programma in cui il giornalista, dal 12 aprile ogni martedì in seconda serata su Rai2, coinvolge i suoi ospiti in interviste che prendono il via da esperienze sonore imprevedibili. Nel corso delle otto puntate, anticipa Diaco, arriveranno Arisa, Christian De Sica, Orietta Berti «più altre sorprese». «Mi piaceva l’idea di partire con la rivelazione tv degli ultimi mesi, l’ho seguita negli anni, specie a teatro - racconta -. Tutti sanno che dietro questo personaggio c’è Gianluca Gori, ma io intervisterò Drusilla. Non avrebbe senso giocare sulla dualità, staremo invece in un territorio onirico, favoloso e meraviglioso».
Diaco ama improvvisare le interviste: «Il gioco sta proprio nel non sapere cosa succederà. La grammatica della trasmissione è legata all’ascolto di un suono che evoca più di un’immagine nel mondo interiore di un ospite». In parallelo alla televisione, prosegue l’appuntamento con «Ti sento» su Rai Radio2 e RaiPlay (dal lunedì al venerdì dalle 20 alle 21), in un format cross-mediale che accompagna Diaco alla cifra tonda, il prossimo giugno, dei 30 anni di radio: «Ho iniziato a 15 anni e sono cresciuto con i miei ascoltatori. Non lascerei mai la radio, è la mia terapia e mi ha insegnato ad avere a che fare con le persone mettendo in campo una delicatezza che provo a portare anche in tv».
Da settembre condurrà un nuovo programma pomeridiano su Rai2: «L’idea è quella di portare a giocare a fare la tv chi si è affacciato sulla rete. Persone che hanno reinventato se stesse con progetti sul web, giovani ma anche boomer», racconta. Nei mesi scorsi si era parlato di un suo possibile ritorno su Rai1 con una trasmissione («Signora mia») poi cancellata in seguito a polemiche per ipotetiche pressioni di Giorgia Meloni: «Sono uscite una serie di indiscrezioni che hanno stupito anche me. La mia prima matricola Rai è del 1997, ho sempre lavorato in azienda, ma di cosa stiamo parlando? — commenta Diaco —. Ho sottoposto dei progetti all’azienda che poi mi ha proposto di misurarmi con un entusiasmante seriale su Rai2. Magari un giorno si farà anche “Signora mia”, ma attualmente il lavoro con l’amministratore delegato Carlo Fuortes e il direttore Antonio Di Bella è di strettissima collaborazione»
In futuro, dice invece Diaco, «mi piacerebbe fare un programma con dei bambini, così come idealmente avere un bambino come ospite a “Ti sento”, anche se la fascia oraria non lo permette. Non penso che le grandi interviste siano legate al tasso di notorietà dell’intervistato». E prosegue: «Pur non vivendo la dimensione paterna appieno, avendo un compagno, mi capita di viverla con nipoti e figli di amici». Vorrebbe dei figli? «Tantissimo. Ma credo nei processi culturali. Non ricorrerei mai alla maternità surrogata, sono per un dibattito più ampio sull’adozione, ma credo che l’essere genitore sia una dimensione che si può vivere in tanti modi».
Da oggi.it l'1 settembre 2022.
Piero Chiambretti riparte dagli affetti più cari. Dopo la morte della madre che ancora sente vicina come racconta al settimanale Oggi in edicola: “Credo in una forma di aldilà e alcuni eventi incredibili che in questi due anni e mezzo si sono manifestati mi danno la convinzione che esiste qualcosa che ti accompagna anche quando la persona più cara della tua vita se n’è andata”. Dopo il contenzioso legale con l’ex moglie per la riduzione dell’assegno di mantenimento della figlia di cui dice “Mi hanno trasformato nello strangolatore di Boston, per fortuna esiste la giustizia: ci sarà un’udienza definitiva a settembre”
Con la figlia undicenne Margherita ha passato l’estate: “Sono state vacanze esagerate, 24 ore su 24. Veder crescere una figlia anche d’estate è impagabile, perché in inverno lei ha la scuola e io il lavoro… Adesso che ha 11 anni e una dimensione già avanzata del pensiero, Margherita mi fa domande, e dà delle risposte che sono peraltro utilissime nella costruzione del mio nuovo programma”.
IN TV - Chiambretti infatti tornerà in tv con La carica dei 100 e 1: “È una scommessa che posso realizzare grazie alla fiducia di Pier Silvio Berlusconi, ma con tutta l’energia che i bambini e solo loro, in questo mondo depresso e depressivo, ci possono ancora dare. I bambini non hanno filtri, non hanno tessere di partito, non devono accontentare nessuno”.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it l'1 settembre 2022.
“Ho trovato veramente sgradevole il modo in cui sono stato trattato. Mi hanno trasformato nello strangolatore di Boston“, rompe il silenzio Piero Chiambretti. Il conduttore parla a “Oggi” dopo le numerose polemiche dei mesi scorsi in seguito alla richiesta al Tribunale di Torino, con citazione dell’ex compagna Federica Laviosa, mamma della sua Margherita, di modificare le condizioni di affidamento e mantenimento della figlia. Una riduzione del contributo mensile da 3.000 a 800 euro.
“Il fatto è che più un personaggio pubblico viene attaccato e infangato, meglio è per la vendita dei giornali. Per fortuna esiste la giustizia; per fortuna ci sarà un’udienza definitiva a settembre“, ha aggiunto il presentatore torinese. La richiesta di modificare l’accordo trovato a dicembre 2016 era nata anche a fronte di entrate dimezzate, dai 55 mila euro al mese del 2017 ai 26 mila percepiti nel 2021. Il tutto accompagnato dal sospetto che la donna “utilizzi il contributo di mantenimento per le sue personalissime esigenze”. Chiambretti dal canto suo ha assicurato alla figlia le abitudini sempre e la disponibilità di far fronte a qualsiasi circostanza per il suo benessere.
Massimiliano Peggio per lastampa.it il 17 ottobre 2022.
Piero Chiambretti ha perso la sua battaglia giudiziaria per la riduzione dell’assegno di mantenimento a favore della figlia avuta con Federica Laviosa. Il tribunale civile di Torino ha respinto la sua istanza, confermando quanto avevano stabilito nel 2016 i giudici di La Spezia, dove era stata decisa la causa di separazione tra lo showman torinese e la sua ex compagna, riconoscendo un assegno mensile a beneficio della figlia di 3000 euro.
La vicenda
Chiambretti nei mesi scorsi aveva chiesto un taglio cospicuo della somma da pagare, da 3000 a 800 euro, affermando che la sua capacità reddituale era peggiorata notevolmente. Al contrario, secondo gli accertamenti del tribunale di Torino, non c’è stato alcun peggioramento nella sua condizione reddituale tale da giustificare la riduzione dell’importo fissato dai giudici spezzini.
La decisione, attesa da giorni, è stata notificata stamane alle legali di Federica Laviosa, le avvocate Marcella De Simone e Claudia Villani. «Il tribunale di Torino è stato chiarissimo – spiegano - ha ritenuto senza ombra di dubbio che non ci siamo motivi validi per ridurre l’assegno mensile».
Piero Chiambretti, assistito dall’avvocata Benedetta Azzurra Baggi, è stato condannato anche al pagamento delle spese processuali. «La sua volontà è esclusivamente quella di soddisfare tutte le esigenze della figlia nel rispetto dei dettati normativi e dell’accordo intercorso tra le parti e recepito dal tribunale di La Spezia nel 2016» ha aveva detto l’avvocata, in risposta alle polemiche nate dopo la notizie sulla causa intentata al tribunale di Torino. A questo punto, forse, lo showman potrà tentare un secondo round in appello.
Irene Famà per “la Stampa” il 18 ottobre 2022.
«Non ci sono bottiglie da stappare né da far festa. Mi interessa solo il bene di mia figlia. Piero? Gli auguro di essere felice, perché con il rancore e l'odio ci si avvelena e basta». Il tribunale civile le ha dato ragione, ma Federica Laviosa sa bene che quando una relazione finisce davanti a un giudice, ridotta a recriminazioni sul mantenimento dei figli, non ci sono vincitori. E non ci sono vittorie.
«Tutti da me si aspettano chissà quale gioia, ma è una storia talmente spiacevole», racconta. E in fondo, come descriverla altrimenti. Federica Laviosa e lo showman Piero Chiambretti hanno avuto una relazione. Seguita da discussioni e dissidi. Nel 2016 avevano trovato un accordo sull'affidamento condiviso della figlia, poi recepito dal tribunale di La Spezia.
Ma il conduttore tv nei mesi scorsi ha trascinato l'ex compagna a Palazzo di Giustizia a Torino per chiedere la riduzione dei 3 mila a 800 euro mensili dell'assegno di mantenimento. Perché? Il suo reddito sarebbe notevolmente peggiorato, complice il contratto scaduto a maggio con Mediaset per la trasmissione Tiki Taka. E, parole dello showman, l'ex compagna avrebbe «utilizzato il contributo anche per le sue esigenze personali».
Il Tribunale di Torino, che ha analizzato nel dettaglio la situazione economica di Chiambretti, è stato di diverso parere. «È stato chiarissimo. E ha ritenuto senza ombra di dubbio che non ci siano motivi validi per ridurre il contributo del padre alla figlia», spiegano le legali Marcella De Simone e Claudia Villani che rappresentano Federica Laviosa.
«Prendo atto della sentenza - dice Chiambretti -. Ovviamente, cercherò di fare appello. Vorrà dire che per il momento continuerò a mantenere con grande piacere mia figlia. D'altronde, non ho mai pensato di non mantenerla al meglio delle mie possibilità. E con lei cerco di mantenere al meglio anche la mamma».
La legale dello showman, Benedetta Azzurra Baggi, quindi, prepara le carte del ricorso. «Se lui ha voglia di spendere altri soldi», chiosa Laviosa. Ed è l'unica frecciatina che si concede. «Certo, non mi è piaciuto finire in tribunale, una cosa del genere alla madre di tua figlia non si fa. Avrei sperato che i rapporti si sviluppassero diversamente, c'è una figlia di mezzo e si è comunque una famiglia».
I due si erano conosciuti nel 2007, quando Piero Chiambretti conduceva Markette e Federica Laviosa faceva uno stage negli studi del programma. «Mi ricordo ancora la prima frase che mi ha detto quando mi ha incontrata, com' era vestito, il primo appuntamento. So che sembra assurdo, ci davamo addirittura del lei. Ma appena l'ho visto, ho percepito una sintonia. Ero molto più giovane di lui, avevo 23 anni, e mi sono innamorata della sua personalità, del suo carisma».
Le malelingue hanno detto di tutto. E anche di più. «In molti hanno insinuato, eppure io economicamente non ho mai avuto bisogno di lui. Né prima, né dopo». Rimorsi? «No, ma ora, che sono una donna adulta, posso dire che l'amore è un'altra cosa. Nei suoi confronti ero dipendente affettivamente. Mi sono trovata giovanissima in un mondo che non era il mio. Nel nostro rapporto ci credevo e infatti abbiamo avuto una bambina.
Pensi che non abbiamo vissuto insieme, neanche un giorno. Non voleva la famiglia del Mulino Bianco. Ma l'amore è rispetto e complicità, è parlarsi. È tante cose che la nostra relazione non era».
E aggiunge: «Quest' esperienza, dolorosa per tutti, mi ha dato una consapevolezza maggiore. Il rapporto con Piero non era sano. Era di dipendenza affettiva, di accondiscendenza. Dispiace, però, che siamo arrivati a odiarci. E strumentalizzare le situazioni per colpirmi non lo trovo corretto. Perché su una cosa non ho dubbi: questa guerra è stata iniziata solo per attaccare me».
Federica Laviosa, 38 anni, e Piero Chiambretti, 66 anni, ormai si incrociano solo in tribunale. Come spiegare a una ragazza di 11 anni il malessere e il rancore dei genitori? «Davvero, non so cosa fare. Non posso farmi carico di questo da sola. Vorrei rivolgermi a una professionista e almeno su questo con Piero vorrei trovare un accordo».
Piero Chiambretti Da leggo.it il 19 giugno 2022.
Guadagnava in media 50 mila euro al mese Piero Chiambretti, quando un accordo tra lo showman torinese e la sua ex compagna, la spezzina Federica Laviosa, 37 anni, aveva fissato a tremila euro al mese l'assegno per le spese di mantenimento della figlia, che oggi ha 11 anni.
Ma ora che il suo reddito si è dimezzato, Chiambretti, 66 anni, lo showman torinese ha intenzione di chiedere che venga rivista la cifra sull’assegno mensile abbassandola a 800 euro, a cui si aggiungono comunque le spese per l’affitto, spese condominiali e utenze della casa in cui vivono mamma e figlia - 180 metri quadrati nel centro di Torino, non lontano da lui - e la retta della scuola privata.
Era stato il tribunale di La Spezia nel 2016 a ratificare l’accordo tra i due ex, che domani si incontreranno di nuovo davanti al giudice (stavolta il foro competente è Torino) per discutere delle nuove condizioni.
A motivare la richiesta di Chiambretti, oltre ai sospetti di un uso improprio del denaro da parte della donna, c’è a suo dire principalmente la riduzione del reddito, che ora è di 26 mila euro al mese. Inoltre, le cronache dal mondo dello spettacolo riportano del “divorzio” di Chiambretti dalla trasmissione Tiki Taka, che renderebbe ancora più instabile il reddito del conduttore televisivo, nonostante ci siano rumors di una sua futura trasmissione in prima serata sempre su Mediaset.
Dunque, secondo quanto riportato da Chiambretti nell’atto di citazione della sua ex, le condizioni sarebbero molto cambiate rispetto a sei anni fa, quando la coppia, che si era lasciata da pochi mesi, si era trovata davanti ai giudici liguri per discutere dell’affidamento della piccola, che in quel momento si era trasferita al mare ma era costretta a faticosi viaggi con la babysitter per andare a trovare il padre. Di qui la decisione di una casa a Torino per mamma e figlia, oltre a un assegno che ora si chiede di ridurre.
Chiambretti taglia l'assegno di mantenimento della figlia. "Da 3mila a 800 euro: il mio reddito si è dimezzato". La Repubblica il 19 Giugno 2022.
Lo showman torinese guadagnava circa 50 mila euro al mese. La bimba di 11 anni è figlia dell'ex compagna Federica Laviosa
Guadagnava in media 50 mila euro al mese Piero Chiambretti, quando un accordo tra lo showman torinese e la sua ex compagna, la spezzina Federica Laviosa, 37 anni, aveva fissato a tremila euro al mese l'assegno per le spese di mantenimento della figlia, che oggi ha 11 anni. Ma ora che il suo reddito si è dimezzato, Chiambretti, 66 anni, lo showman torinese ha intenzione di chiedere che venga rivista la cifra sull’assegno mensile abbassandola a 800 euro, a cui si aggiungono comunque le spese per l’affitto, spese condominiali e utenze della casa in cui vivono mamma e figlia - 180 metri quadrati nel centro di Torino, non lontano da lui - e la retta della scuola privata.
Era stato il tribunale di La Spezia nel 2016 a ratificare l’accordo tra i due ex, che domani si incontreranno di nuovo davanti al giudice (stavolta il foro competente è Torino) per discutere delle nuove condizioni.
A motivare la richiesta di Chiambretti, oltre ai sospetti di un uso improprio del denaro da parte della donna, c’è a suo dire principalmente la riduzione del reddito, che ora è di 26 mila euro al mese. Inoltre, le cronache dal mondo dello spettacolo riportano del “divorzio” di Chiambretti dalla trasmissione Tiki Taka, che renderebbe ancora più instabile il reddito del conduttore televisivo, nonostante ci siano rumors di una sua futura trasmissione in prima serata sempre su Mediaset.
Dunque, secondo quanto riportato da Chiambretti nell’atto di citazione della sua ex, le condizioni sarebbero molto cambiate rispetto a sei anni fa, quando la coppia, che si era lasciata da pochi mesi, si era trovata davanti ai giudici liguri per discutere dell’ affidamento della piccola, che in quel momento si era trasferita al mare ma era costretta a faticosi viaggi con la babysitter per andare a trovare il padre. Di qui la decisione di una casa a Torino per mamma e figlia, oltre a un assegno che ora si chiede di ridurre.
Piero Chiambretti si difende: "Non voglio ridurre l'assegno per mia figlia, le ho già dato un milione". La Repubblica il 22 Giugno 2022.
Il conduttore televisivo precisa in una nota i dettagli del contenzioso con l'ex compagna: "La volontà è di soddisfare unicamente tutte le esigenze della bambina".
"Piero Chiambretti non ha mai avuto intenzione di sottrarre parte dell'assegno di mantenimento alla figlia di 11 anni a favore della quale, dalla nascita a oggi, ha versato circa un milione di euro". La sua volontà "è esclusivamente quella di soddisfare unicamente tutte le esigenze della figlia, nel rispetto dei dettati normativi e dell'accordo intercorso tra le parti e recepito dal Tribunale di La Spezia nel 2016". Lo precisa, in una nota, l'avvocato del conduttore televisivo, Benedetta Azzurra Baggi, a proposito del contenzioso in corso al Tribunale di Torino con l'ex compagna Federica Laviosa e sulla presunta richiesta dello stesso Chiambretti.
"Si vuole, inoltre, chiarire - continua la nota - che la richiesta di Piero Chiambretti ha come solo e unico scopo il benessere della figlia, come confermato anche dalla madre della stessa, e contrariamente a quanto insinuato negli articoli usciti sino a oggi". Infine, "data la delicatezza della situazione e sperando di aver chiarito qualsivoglia dubbio, anche e soprattutto nell'interesse della minore", il legale di Chiambretti chiede di "lasciare ogni considerazione e opportuna verifica esclusivamente al Tribunale".
Irene Famà per “la Stampa” il 20 giugno 2022.
Certi amori finiscono. E ciò che ne resta si discute in tribunale. È la realtà.
«Amara», aggiunge Federica Laviosa, 37 anni, ex compagna del conduttore Piero Chiambretti. La loro relazione è durata più di dieci anni, poi sono iniziate le incomprensioni e la scelta di lasciarsi. Una vicenda come tante, su cui la decisione ultima spetta alla giustizia civile. Lo showman, 66 anni, ha citato l'ex davanti a un giudice per chiedere «la modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento della figlia», una ragazzina di 11 anni.
In sintesi: ha chiesto di versare non più 3.000 euro al mese, ma 800. Le sue entrate si sarebbero dimezzate, complice il contratto scaduto a maggio con Mediaset per la trasmissione Tiki Taka, passando dai 55 mila euro mensili del 2017 ai 26 mila del 2021.
Inevitabile, in questa storia, iniziare con il parlare d'amore e finire con il parlare di soldi. Anche se sia Chiambretti sia Laviosa su una cosa sono d'accordo: entrambi ribadiscono di avere un unico interesse, il futuro della bambina. «È lei il focus. Non io, non lui», ribadisce Laviosa.
Che non nasconde l'amarezza: «Avremmo potuto parlarne senza arrivare a questo punto, senza finire in tribunale. È spiacevole e si sarebbe potuto evitare. Pensi che un accordo l'avevamo anche trovato».
Nel dicembre 2016 per l'affidamento condiviso, poi recepito dal tribunale di La Spezia, dove abitavano Laviosa e la bimba.
«Ognuno ha il suo carattere, il suo modo di reagire alle situazioni». Lei la commenta così: «Dopo una relazione tanto lunga, un grande amore, è brutto che tutto finisca in questo modo».
Nel ricorso per la riduzione del contributo paterno alla figlia, c'è anche l'accusa che la donna «utilizzi il contributo di mantenimento per le sue esigenze personali».
Laviosa risponde raccontando parte della sua storia: «Non è vero nulla, ho presentato anche gli estratti conti. Sono una persona normale, che vive una vita normale con la sua bambina».
Non nega di essere una donna fortunata, «ho una bella casa in centro città. Ma non c'è altro. Ho combattuto e combatto ancora contro tanti pregiudizi».
«In molti pensano che con Chiambretti volessi sistemarmi. Come si dice, volessi "appendere il cappello al chiodo". Non è vero niente. È stato un grande amore».
Il trasferimento a Torino?
«Mi sono spostata perché mia figlia potesse stare vicino al padre e per evitarle lunghi viaggi in auto da La Spezia. Anche se qui mi sono ritrovata da sola, senza nessuno. Ho lavorato come commessa e ho cresciuto la mia bambina. Lo faccio ancora ora, senza tata fissa. L'unica cosa che mi preme è bene della piccola. E che non consideri mai suo padre un "cattivo padre"». Entrambi i genitori lo ribadiscono. Il resto si risolverà in tribunale.
Irene Famà per “la Stampa” il 21 giugno 2022.
Giovedì Piero Chiambretti era a cena allo Sfashion Cafè con la figlia.
Qualcuno si avvicina per un selfie, una stretta di mano.
Lo showman è un personaggio pubblico: a Torino, come altrove lo conoscono tutti. Una sera padre e figlia come tante. Così pare. Nel pieno di una battaglia legale con l'ex compagna, Federica Laviosa.
"C'eravamo tanti amati".
Questo in sintesi, il discorso di lei. Ma l'amore è finito e ora si fanno i conti. Il conduttore televisivo l'ha citata in tribunale per ridurre i versamenti dovuti alla figlia da 3 mila a 800 euro mensili.
Perché? Meno entrate. E le recriminazioni, l'accusa alla ex di utilizzare il denaro per i propri interessi.
Dissidi da adulti. La bimba, undici anni, giovedì era a cena con il papà. Ieri sera a fare il saggio di danza con la mamma. Che torna a dire: «Lei è la mia priorità».
I genitori, nel pomeriggio, si sono ritrovati in tribunale.
Un appuntamento, sì. Ma obbligato. Per due persone che, «dopo un grande amore», e Laviosa quel sentimento non lo nasconde, ora si ritrovano a comunicare unicamente tramite avvocati. E quando si ritrovano uno davanti all'altra non si scambiano nemmeno un saluto.
«Avremmo potuto parlarci», ribadisce la donna. «Ma ognuno ha il suo carattere».
E così si spiega la giornata di ieri a Palazzo di Giustizia.
Federica Laviosa, rappresentata da due legali di Bologna, Marcella De Simone e Claudia Villano, in Tribunale arriva presto. Venti minuti prima dell'udienza. I riflettori li scansa con eleganza: non è uno show.
«Tutto questo avrei preferito evitarlo. Emotivamente è difficile». Lei, 37 anni, del mondo dello spettacolo non ne ha mai fatto parte. A recitare non ci pensa proprio. E così non nega la difficoltà della situazione: «Nella nostra storia ci credevo, nonostante i pregiudizi e le cattiverie che in questi anni in tanti mi hanno riservato».
All'arrivo di Piero Chiambretti mormora: «Dove posso andare per non incrociarlo?».
Il conduttore televisivo compare una decina di minuti prima delle 14. Abito blu, cravatta a righe blu e rosse, pochette. Sorride, allarga le braccia, saluta. Sessantasei anni, uomo di spettacolo, affronta le telecamere: «Siete una manica di sciacalli. Faremo i conti con media. Quello che c'era da dire, è già stato detto». Un altro sorriso. È abituato ai riflettori, non a quelli della giustizia. Su una cosa è certo:
«È una vicenda spiacevole, soprattutto visto che c'è di mezzo una bambina». In udienza si discutono le istanze delle parti. I legali si confrontano, producono dichiarazioni dei redditi, estratti conti, memorie. Si cerca un accordo, che non si trova. La giudice si riserva, si pronuncerà prossimamente.
Sono i tempi della giustizia civile. I tempi dei dissidi. Federica Laviosa tenta un sorriso, ma poco convinta: «Speravo che questa vicenda, triste e amara, si risolvesse già ora. Non mi intendo di procedimenti giudiziari, ma lo speravo per il bene di mia figlia». Anche Piero Chiambretti lascia l'aula. Avvocata al seguito. Tra i due nessun saluto. E nessun accordo. Dissidi da adulti, appunto. E da grandi, si sa, fare la pace non è cosa semplice.
Massimiliano Nerozzi per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Entrando a palazzo di giustizia, poco prima delle 14, Piero Chiambretti pare aver rispolverato il piglio irriverente del Portalettere che fu su Rai 3: «Ecco gli sciacalli», dice sorridendo (stretto) ai fotografi, completo blu elettrico e cravatta in tinta, a righe rosse.
Poi respinge con garbo le domande: «Nulla, grazie».
Poco prima era arrivata la sua ex, Federica Laviosa, elegante senza essere appariscente, che il conduttore tv ha citato davanti alla settima sezione civile del tribunale di Torino, per «la modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento della figlia», 11 anni: chiede al giudice di ridurre il contributo al momento versato, da 3.000 a 800 euro al mese. Per due motivi, principalmente: le entrate dimezzate, da 55 a 26 mila euro mensili; e il sospetto che la ex utilizzi quei soldi «per sue personalissime esigenze».
Almeno secondo quanto sostenuto nel ricorso firmato dall'avvocato Benedetta Azzurra Baggi, che lo tutela con il collega Nunzio Alfredo D'Angieri, detto «Pupi», personaggio leggendario: ex ambasciatore del Belize in Italia e (per Forbes) uno dei 600 uomini più ricchi del mondo.
Va da sé, tra Chiambretti e Laviosa - assistita dagli avvocati Marcella de Simone e Claudia Villani - i rapporti sono a zero: non si guardano, non si salutano.
«Devo proprio vederlo?», sussurra lei, in attesa dell'udienza. Su una cosa sono d'accordo: «La priorità dev' essere la felicità di nostra figlia», come detto due giorni fa dalla donna. Che aveva respinto le accuse: «Sulle spese, ci sono gli estratti conto». Piuttosto, si è trovata a combattere contro i pregiudizi: «Molti pensano che con Chiambretti volessi sistemarmi, ma non è vero: è stato un grande amore».
Lui, spiffera qualche amico, è invece arrabbiato per la piega presa dalla storia e avvilito perché la questione è diventata pubblica. Chi lo conosce giura sul suo amore per la piccola: mai ha pensato di dimezzare alcunché, semmai vorrebbe ridistribuire ciò che da sempre dà. Facendo i calcoli, sul milione di euro, dal 2011. Morale: la figlia, avuta a 55 anni, è un tesoro da tenersi stretto.
Ci sono anche le carte bollate, però, come l'accordo di affidamento condiviso del dicembre 2016, in un patto recepito dal tribunale di La Spezia, dove abitavano mamma e bambina. Un atto reso necessario dalla mancata intesa tra i due, che si erano lasciati nel gennaio precedente, e che ora Chiambretti chiede di modificare. Ribadendo però l'intenzione di assicurare alla figlia le abitudini di vita di sempre e la disponibilità a far fronte a qualsiasi circostanza per il suo benessere. Insomma, non sono in discussione gli altri impegni sottoscritti dal papà - pagamento dell'affitto, spese straordinarie e retta scolastica - ma, appunto, il contributo alla ex per la figlia.
Dopo la rottura della relazione, la donna aveva vissuto prima a Parma, poi a La Spezia, sua città natale. Fino al trasferimento a Torino, in un appartamento poco lontano dall'abitazione di Chiambretti, per rendere più agevole la gestione: visto che la bambina dovrebbe stare con il padre due week-end al mese, impegni di lavoro permettendo. Fallito il tentativo di accordo davanti al giudice relatore Isabella Messina, ora toccherà alle parti produrre documenti e depositare memorie: prossima udienza, dopo l'estate.
Chiambretti si difende: «Mai pensato di tagliare i soldi per mia figlia». Redazione online su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.
Nota del legale del conduttore televisivo: «Dalla nascita a oggi le ha versato circa un milione di euro».
«Piero Chiambretti non ha mai avuto intenzione di sottrarre parte dell’assegno di mantenimento alla figlia di 11 anni a favore della quale, dalla nascita a oggi, ha versato circa un milione di euro». La sua «volontà è esclusivamente quella di soddisfare unicamente tutte le esigenze della figlia, nel rispetto dei dettati normativi e dell’accordo intercorso tra le parti e recepito dal tribunale di La Spezia nel 2016». Lo precisa, in una nota, l’avvocato del conduttore televisivo, Benedetta Azzurra Baggi, a proposito del contenzioso iniziato davanti al tribunale di Torino con l’ex compagna Federica Laviosa, nel quale lo stesso Chiambretti ha chiesto al giudice di modificare le condizioni di affidamento e mantenimento della figlia.
«Si vuole, inoltre, chiarire — continua la nota — che la richiesta di Piero Chiambretti ha come solo e unico scopo il benessere della figlia, come confermato anche dalla madre della stessa, e contrariamente a quanto insinuato negli articoli usciti sino a oggi». Infine, «data la delicatezza della situazione e sperando di aver chiarito qualsivoglia dubbio, anche e soprattutto nell’interesse della minore», il legale di Chiambretti chiede di «lasciare ogni considerazione e opportuna verifica esclusivamente al tribunale». L’udienza è stata rinviata a dopo l’estate.
Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2022.
«È stato un brutto colpo». Per Piero Chiambretti non è semplice avere di nuovo a che fare con il Covid dopo che due anni fa «mi ha fatto stare per quindici giorni in ospedale, tra la vita e la morte, portandosi via mia mamma». Ora è diverso, «è come se fosse un virus più garbato». Tanto che domani sera, su Italia 1, sarà comunque alla guida di Tiki Taka . Ma in smart working, da casa.
«Non mi faccio mancare nulla. Ovviamente avrei preferito andare in studio con le mie gambe, ma ormai la tv si può fare da remoto... essendo però un artigiano del tubo catodico, preferisco le cose classiche. Sarò aiutato da Monica Bertini e ci saranno anche i miei validissimi ospiti».
Come ha scoperto di essere di nuovo positivo?
«Avevo sintomi precisi: mal di gola insistente, forte emicrania - dovrebbero chiamarlo Emicron non Omicron -. Quindi, nonostante un primo tampone negativo al mattino, ho voluto farne un altro la sera, diverso, che intercettasse questa variante, ed ero positivo. Mi sono bruciato con l'acqua calda e ora mi fa paura anche la fredda».
Psicologicamente come va?
«Questa cosa non fa bene al morale e nemmeno al fisico. Ma grazie a quello che ci siamo iniettati la vivo come una forte influenza. Penso però sia inevitabile per chi ha passato quello che ho passato io temere sempre il peggio. Tutto è successo a pochi giorni dalla terza dose. Ma rimango un convinto si vax: come hanno spiegato quelli bravi e anche quelli meno bravi, il vaccino ti permettere di resistere a un attacco virale così forte che ti manda in ospedale. Mia madre sarebbe andata a piedi scalzi a farsi vaccinare e tutto sarebbe stato diverso».
Molti calciatori, oggi, sono nelle sue stesse condizioni.
«Sì, ho seguito in maniera sistematica quello che succede a loro. E dire che prima di questa ennesima caduta in basso avevo fatto molta attenzione. Motivo per cui non mi sono fidato del primo tampone, il che fa pensare al caos in cui siamo, perché potevo uscire e infettare qualcuno».
Come vede il campionato in questa nuova ondata?
«Già pensavo di affrontare il tema caldo del rapporto tra Covid e calcio, certo non immaginavo lo avrei fatto da casa, da positivo. Io penso che così il campionato sia falsato. Squadre decimate, incontri che saltano... c'è chi può permettersi dei cambi e chi no... così i valori e i pesi delle gare non sono quelli reali».
Che opinione si è fatto sul caso Djokovic?
«Che in queste situazioni bisogna considerare anche il rovescio della medaglia: hanno ragione tutti e nessuno».
Confessi: domani, da casa, condurrà in pigiama?
«No: la mia eleganza è riconosciuta anche dai medici».
Mattia Marzi per il Messaggero il 28 aprile 2022.
La loro parte l'hanno fatta, portando il rock italiano dagli scantinati della Firenze degli Anni '80 a una dimensione internazionale. Ora i Litfiba sperano che siano i giovani a raccogliere il testimone di una carriera lunga quarantadue anni, tra milioni di copie vendute 10 in tutto e migliaia di concerti tra Italia, Europa e resto del mondo: «I Maneskin sono i nostri eredi. Nessuno ha la sfera di cristallo per dire se lasceranno davvero un segno. Dipenderà da quello che diranno. Se a 23 anni Damiano ha voglia di urlare Fuck Putin, che lo faccia. Meglio che lo urli che rimanga zitto», dicono Piero Pelù e Ghigo Renzulli, 60 e 68 anni, da sempre voce e chitarra della rock band toscana.
Lo scorso martedì i Litfiba hanno dato il via dal Gran Teatro Geox di Padova al tour Ultimo girone con il quale fino alla fine di agosto festeggeranno i loro quarant' anni (più due, quelli legati allo stop per la pandemia) di attività e al tempo stesso daranno l'addio al proprio pubblico. Anzi, l'arrivederci. Perché il frontman ha già in programma una nuova reunion: «Preparatevi per le celebrazioni del cinquantennale di carriera: è una promessa».
L'anniversario cadrà nel 2030, quando Pelù avrà 68 anni e Renzulli ne avrà 76: «Non poniamo limite alla potenza del rock' n'roll», dicono loro. Nelle due ore e mezza di concerto il rock spigoloso e tagliente dei Litfiba con Pelù e Renzulli ci sono Luca Martelli alla batteria, Fabrizio Simoncioni alle tastiere e Dado Neri al basso: Maroccolo e Aiazzi, gli altri membri storici, hanno declinato l'invito non risparmia nessuno.
Così come la lingua di Pelù, che arriva pure a suggerire a Trump, Putin e al miliardario imprenditore Elon Musk (ha appena acquistato Twitter: «Diventerà il prossimo presidente Usa», prevede) di «fumarsi un po' di erba». Putin viene attaccato subito, su El Diablo, quando il rocker indica le quattro x alle spalle del palco (una per decennio di attività): «Sono più forti di quelle z sui carrarmati».
Parlando della guerra, Pelù si dice favorevole all'invio di armi a Kiev: «Sono obiettore dall''83. Ma dopo due mesi di orrori una posizione va presa. Pacifisti sì, ma non masochisti». Era il 1989 quando Litfiba e CCCP andarono in tour nell'allora URSS: «Se lo rifarei? Sì, per farmi quindici anni di galera. Non so se oggi ci farebbero entrare», risponde Pelù. Che rivela di voler coinvolgere Ligabue in una nuova iniziativa benefica dopo Il mio nome è mai più (il singolo con Jovanotti del '99, ispirato dalla guerra del Kosovo): «Anche se oggi è più complicato di allora, i Litfiba sono disponibili».
Su Paname ricorda gli Anni 80 a Parigi: «Eravamo fuori di testa. Non ci facevamo mancare nulla». Anche quando la band si scioglierà, lo spettacolo andrà in un modo o nell'altro avanti: «Lo cantiamo anche ne Lo spettacolo, ispirata dalla morte di Cobain. Da ragazzo ebbi pensieri suicidi anche io, legati a delusioni sentimentali. Ero fragile rivela Pelù quel gesto mi fece capire che era sbagliato reagire così e che lo spettacolo doveva ancora cominciare».
I Litfiba all'"Ultimo girone": un tour per l'addio ai fan. Ferruccio Gattuso il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale.
Dopo 40 anni di rock la band di Piero Pelù annuncia il ritiro e una serie di concerti, a partire dal 26 aprile.
Giralo come vuoi, il simbolo dei Litfiba, ma si sappia che spiega tutto. Il cuore rosso con le corna (la band che difende l'amore e la libertà ma conserva una ribellione sulfurea tutta sua) o le corna con il cuore (ragazzacci molto rock, che non te le mandano a dire, epperò in fondo sono buoni come il pane). Dipende dai punti di vista. Quello che oggi sfoggiano Piero Pelù e Ghigo Renzulli, la coppia anima dei Litfiba, è il punto di vista migliore di tutti: quello a distanza. «Da lontano vedi tutto meglio dice Pelù - e noi guardiamo da quarant'anni di distanza. Anzi, quaranta più Iva. Perché ci sono questi ultimi due maledetti e strani anni: quelli sono l'Iva».
Chissà se la pandemia ha qualcosa a che fare con la scelta dei Litfiba perché, sì, questi due maturi toscanacci ipnotizzati dallo stesso idolo (la musica) e sempre pronti a litigare («se ci date l'occasione, noi si litiga anche per lo zucchero nel caffè: a noi gli Oasis ci fanno il solletico») hanno deciso di dire basta: il 2022 sarà l'anno del capolinea. Loro, che da sempre hanno giocato col Diablo, lo chiamano furbescamente «L'Ultimo Girone». È questo il titolo del tour d'addio che la rock band fiorentina annuncia da Milano, e le prime dieci date sono lì, nero su bianco: si parte il 26 aprile da Padova e nel giro di un mese si toccano le grandi città, Napoli, Roma, Firenze e Milano (biglietti disponibili da ieri).
«Rimpianti? Quelli normali, che hanno tutte le persone quando mettono su qualche anno continua Pelù che, dei due, ha pensiero e lingua più agili, non a caso di lavoro fa il front-man e esibisce un giubbotto in pelle rosso fuoco - Ma se siamo giunti a questa decisione è perché ci sentiamo super appagati. Quando cominciammo, nei primi anni Ottanta, davvero non immaginavamo la strada che avremmo fatto. Non ci vedevamo più in là di qualche anno. Eravamo cinque raccattati, come si dice a Firenze, che provavano in cantina: piano piano abbiamo creato il nostro sound e una storia da raccontare». La strada è quella lastricata di successi e cifre, che marchiano i Litfiba come una delle band simbolo del rock italiano: dieci milioni di copie di dischi («ora la fila ai negozi non la si fa più per i dischi in uscita, ma per gli iPhone»), tredici album in studio, sei dal vivo, migliaia di concerti in Italia, in Europa («cominciammo dalla Francia quando in Italia ci conoscevano solo pochi fan agguerriti e ancor meno giornalisti»), perfino in Australia.
La storia è quella della libertà, che talvolta ha fatto girare le scatole a qualcuno: «I politici degli anni Novanta, ad esempio sorride beffardo Pelù Loro non ci sono più, noi siamo ancora qui. Negli anni ci hanno accusato di vilipendio alla bandiera, istigazione alla diserzione. Quando misi il profilattico sul microfono di Vincenzo Mollica venne giù il mondo: ma erano gli anni dell'Aids, in Africa morivano migliaia di persone e in tutto il mondo, meno che in Italia, si aveva una chiara percezione di cosa stesse succedendo».
In fondo, quello era il mestiere del rock: spettinare l'ambiente circostante. Se però si chiede a Pelù e Renzulli dove stia andando oggi il rock, se in museo o di nuovo in classifica grazie a exploit come quello dei Maneskin, i due armonizzano la risposta: «Non ci sono solo i Maneskin: il problema per le rock band attuali è la mancanza dei club, che stanno morendo anche a causa della pandemia. Teatri di prosa e d'opera hanno ricevuto sovvenzioni, i club no. A Firenze, la mitica Flog non riaprirà. Dove suonano questi ragazzi? La gavetta, questa parola bistrattata, se la farebbero anche. Che poi, se parti dalla cantina, suoni nei club e anche arrivi a un talent, se non tradisci la tua musica, non c'è niente di male».
Ad accompagnare i Litfiba sul palco nell'ultimo tour insieme a Luca Martelli alla batteria, Fabrizio Simoncioni alle tastiere e Dado Neri al basso - ci sono «almeno settanta canzoni da far ruotare in scaletta» e i numerosi ricordi: «Ricordi nati da curiosità e incoscienza, da sempre la nostra benzina. Come quando fummo circondati dai Vopos in Germania Est a causa di una foto con sfondo militare proibito, o quando andammo a suonare in Russia nel 1989, c'era anche Giovanni Lindo Ferretti con i suoi Cccp: fu lì che cominciò ad avere crisi di coscienza. Decollammo con un Tupolev scassato insieme a cinquanta membri del Balletto Ucraino che, al momento di staccarci da terra, si fecero tutti il segno della croce».
Ora è il momento giusto per dirsi addio, «anche se resteremo sempre musicisti, perché questo abbiamo imparato a fare. E poi Robert Plant e Jimmy Page fecero due album a loro nome, senza usare quello dei Led Zeppelin». Ecco, appunto, chissà.
Pierò Pelù compie 60 anni: «Salvo dall’inferno della mia generazione, l’eroina (e Jeeg non la cantavo io)». Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.
Il cantante si confessa, tra ricordi struggenti (dalla sua Raffaella Carrà al batterista scomparso per overdose) e miti metropolitani smentiti (dai cartoon al matrimonio). Qualche giorno fa abbiamo appreso con sbigottimento che Vasco Rossi è arrivato al fatidico traguardo dei 70 anni. Sbigottiti perché si pensa che i rocker non invecchino mai. Ma oggi, la doppietta è di quelle che lasciano tramortiti, perché a compierne 60 è Piero Pelù: «Se penso a quanti se ne sono andati della mia generazione, portati via dall’eroina, è un miracolo» dice, tra il sollevato e il malinconico, dalla sala prove vicino Firenze. Dove sta provando con i Litfiba per il tour «L’ultimo girone» in cui si è ritrovato con l’amico ( talvolta anche rivale) Ghigo Renzulli per il valzer d’addio di quella che rimane una delle più importanti rockband italiane.
Insomma, come per Vasco, il tempo passa anche per il rock’n’roll...
«Beh lui, come Mick Jagger e Iggy Pop, rimane un bel punto di riferimento. Significa che qualche annetto posso andare ancora avanti...».
Lui e lei, Piero, andaste a Sanremo, appena finito. Un posto apparentemente impensabile per voi .
«Nel 2020, erano quaranta gli anni della mia carriera. E volevo provare anche un palco dove non ero mai stato».
E ci è andato a modo suo, con la corsa in mezzo al pubblico, come Grignani, e la celebre borsetta «rubata» a una signora.
«Grignani non l’ho visto, ero a Verona, a un concerto di mia moglie: io, per conto mio, sono una gazza ladra... Ho visto però i vincitori, Mahmood e Blanco, bravissimi».
Amadeus è stato chiamato da Mattarella: da sempre il suo cuore batte a sinistra, Piero. Cosa pensa della rielezione?
«Che c’è rimasto solo lui. E che, se i miei valori sono quelli di sempre, oggi credo solo nel partito del rock’n’roll»
E a Sanremo conobbe la compianta Raffaella Carrà.
«Nel 2001 mi fece fare un monologo sulle mine anti-uomo, quando non si usava parlare d’altro, come oggi. Da allora l’ho amata svisceratamente. Tanto più a «The Voice», dove abbiamo fatto coppia fissa. E dove ho scoperto che fumava come una camionista turca: pensi un po’, il rocker che doveva rimproverare la conduttrice perbene».
A Sanremo sono tornati i Måneskin.
«Nonostante il successo planetario, sono un gruppo che si migliora sempre. Impressionanti».
Loro iniziano, voi finite. Ma chi sono stati i Litfiba?
«Abbiamo toccato delle corde che non pensavamo, ciò che sentivamo noi, sentiva il pubblico. Non ho mai fatto musica con intenzioni mercenarie; era il solo modo per salvarmi dal mio disagio, dalla mia inadeguatezza, dalla mia ombrosità, dalla mia solitudine, dalla mia timidezza».
A proposito di salvataggi: il tour si chiama appunto «L’ultimo girone», con Aldo Cazzullo legge Dante, forse un inferno a cui è scampato è l’eroina di cui sopra.
«Sì, è stato il nostro Vietnam negli anni 80, per l’eroina ho perso più che un compagno di band, un fratello, Ringo De Palma. Io la odiavo e mi preoccupa che stia tornando di nuovo e i ragazzi di oggi non sappiano cosa significhi».
A 60 anni si smentiscono le leggende metropolitane: la prima, alimentata dagli altri, è che lei avesse cantato la sigla di «Jeeg Robot d’acciaio»
«Ah ah, magari. No, si chiamava Roberto Fogu il cantante. Forse l’equivoco è nato dal fatto che entrambi i nostri cognomi finissero per u. Comunque poi l’ho incisa anch’io».
Un’altra, alimentata da lei, ai tempi de «L’anello no, no non te lo do» è che non si sarebbe mai sposato. Perché ha ceduto?
«Se trovi una donna con cui hai così tanti punti in comune, uno scambio continuo così profondo e sincero, perché non farlo?»
I figli sono tre, è anche nonno, pensate al quarto?
«No, non mi vedo a 76 anni a litigare con un adolescente, ad aspettarlo in incognito con baffi finti e occhiali fuori da una discoteca».
E a 60 anni si fanno i bilanci: la cosa di cui va più fiero?
«Essermi occupato appieno delle mie figlie. E, artisticamente, non aver mollato mai, neanche nei momenti più bui».
L’errore più grande che ha commesso?
«Ne ho fatti talmente tanti, ma non rinnego niente. Perché se sono qua oggi è anche per quegli errori».
Pinguini Tattici Nucleari: «Cantiamo per divertire, ma diamo voce ai ragazzi che cercano un posto nel mondo». «Il nostro obiettivo è far distrarre il pubblico che viene ad ascoltarci, ma le tematiche affrontate nei testi sono spesso molto seri». Il lavoro, la precarietà, il pacifismo: dialogo con il frontman della band Riccardo Zanotti. Antonia Matarrese su L'Espresso il 23 Agosto 2022
Succedono molte cose durante i concerti dei Pinguini Tattici Nucleari: c’è chi chiede la mano dell’amata, con tanto di anello. Chi fa coming out davanti a migliaia di persone. Chi lancia messaggi appallottolati sul palco. Messaggi (non "in a bottle”, come cantavano i Police) che vengono raccolti al balzo e letti dal frontman della band lombarda, Riccardo Zanotti.
Età media intorno ai trent’anni, i sei “Pinguini” (il nome è un omaggio alla birra inglese Tactical Nuclear Penguin, ad alto tasso alcolico) spopolano nelle top ten di vendite e ascolti estivi: dalle radio a Spotify passando per Amazon. Ma, dietro il ritornello orecchiabile e ballabile del brano “Giovani Wannabe”, si nasconde il grido di protesta (o di aiuto) dei ragazzi che vogliono avere un posto nel mondo.
«Siamo prima di tutto degli intrattenitori e il nostro obiettivo è far distrarre il pubblico che viene ad ascoltarci (target di età: 18-25 anni al Nord, un po’ più alto al Centro-Sud ma con una quota consistente di ragazzini, ndr) anche se le tematiche affrontate nei testi che scrivo e che racconto da moderno cantastorie sono spesso molto seri», esordisce Zanotti, 28 anni, di Albino in provincia di Bergamo, una laurea in Commercial Music alla Westminster University. «Non si parla mai abbastanza dell’accesso al mondo del lavoro, del precariato, delle finte partite Iva, della sicurezza. Sono un sostenitore della minima retribuzione oraria come avviene nel Regno Unito dove ho studiato e lavorato. Pagando le tasse. La pandemia ha accentuato il problema dei contratti brevi e dell’incolumità per chi sta nel back-stage e viene retribuito a giornata».
“Stessi diritti, stesse scuole, stessi autobus e cinema”, cantano i Pinguini Tattici Nucleari nella canzone forse meno commerciale della loro produzione discografica, Cancelleria, più volte ri-arrangiata nelle 28 tappe del “Dove eravamo rimasti tour” (una frase che vuole essere un omaggio a Enzo Tortora) concluso a Olbia il 15 agosto scorso con 250 mila presenza complessive. «È un brano smaccatamente pacifista, scritto sui banchi del liceo scientifico di Alzano Lombardo dove abbiamo studiato più o meno tutti. C’era in ballo una versione di latino sul tiranno Dionigi di Siracusa e avevo davanti a me matite, biro, gomme….così, immerso nei miei pensieri, nacque il libero stato di Cancelleria. Dieci anni fa l’orizzonte era sereno. Oggi manca il dialogo».
Ad attirare l’attenzione dei fan ma anche di molti genitori che li accompagnano ai live, sono le scenografie e la grafica che animano l’ipertesto caleidoscopico dei Pinguini Tattici Nucleari. La loro visual artist si chiama Giulia Argenziano, scenografa teatrale, bergamasca pure lei. Bravissima nel creare una sorta di narrazione che corre di pari passo con la poetica dei brani. Il tutto condito con Photoshop, After Effect e trucchi vari del mestiere come gli “easter eggs”, presi in prestito dal mondo dei videogiochi, che lanciano riferimenti ai vari aspetti della cultura pop.
«Abbiamo conosciuto Giulia a un concerto ed è nata questa fortunata collaborazione, proprio con il brano Cancelleria che si guarda e si ascolta saltando e pogando. La prima tournée insieme è del 2019 con il “Fuori dall’hype tour” (dal titolo del quarto album, che ha superato i 70 milioni di streaming e triplo disco di platino, ndr). Siamo cresciuti con i manga e le graphic novel: dai vampiri a Dragon Ball passando per i Pokémon. E ci hanno dedicato anche un libro a fumetti per le edizioni BeccoGiallo che illustra la nascita di alcune canzoni. Ne andiamo fieri».
E il prossimo album? «Sarà più intimo, con tristezze personali e qualche bilancio. C’è un pezzo che parla dei nostri inizi in giro sul furgone preso in prestito con la scritta Dentisti Croazia: pochi soldi in tasca e un pubblico di trenta persone. Ma ci saranno anche canzoni ballabili con molte contaminazioni, dal soul alla musica indiana. Insomma, con un respiro più internazionale. Siamo dei maratoneti. Più duri sulla scena, più lasci qualcosa a chi ti segue».
I Pinguini Tattici Nucleari e la differenza fra essere pop e fare pop. Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.
La band ha chiuso (con tre sold out al Forum di Assago) il tour nei palazzetti e parte per un’estate sui palchi all’aperto
Essere pop o fare pop. Dipende tutto dalla mossa iniziale. Chi «fa» pop cerca di arrivare applicando formule e regole di successo e allora la direzione non può essere che quella delle canzonette usa e getta. «Essere» pop, avere cioè le skill per arrivare a tanti, vuol dire saper semplificare il linguaggio senza però cedere all’adeguamento verso il basso. E questo è il modo di operare che ha contraddistinto la carriera dei Pinguini Tattici Nucleari arrivati, dopo anni di gavetta, al mainstream.
La band aveva annunciato i primi palazzetti della propria carriera — nata lontano dai riflettori e arrivata ben oltre chi sotto quei riflettori ci passa le giornate — prima di ufficializzare la presenza al Festival di Sanremo 2020. L’Ariston ha fatto esplodere «Ringo Starr» nell’immaginario nazionalpopolare ma nel giro di pochi giorni la musica, non solo la loro, si è fermata. Il loro tour è stato il primo in Italia ad essere fermato causa covid. Un coitus interruptus, con l’aggravante della prima notte d’amore. Ed ora eccoli. Con le tre date al Forum di Assago (4-6 e 7 luglio) si è chiusa con 14 sold out la parte indoor del tour e ora saranno in giro per l’estate sino a Ferragosto.
È proprio un discorso di Riccardo Zanotti su questi due anni ad aprire lo spettacolo. E poco dopo, quando arriva «Antartide» l’argomento diventa un gancio per coinvolgere il pubblico con un sondaggio su come sia cambiata la vita di ciascuno da quando aveva acquistato il biglietto. La capacità di creare un dialogo con la platea è uno dei punti di forza dello show. Riccardo Zanotti, il front man, chiacchiera, scherza, inquadra i brani. I Pinguini Tattici Nucleari hanno sempre rivendicato una gavetta fatta di feste in piazza e localini, posti dove il pubblico non arriva per te e te lo devi conquistare strappandolo alla coda per la birra. «Storia sghemba e spuria di provincia», così la definiscono ripercorrendola con aneddoti e foto e video amatoriali dell’epoca prima di «Bergamo», la canzone che in piena emergenza covid hanno dedicato alla loro provincia.
«Scrivile scemo» e «Ringo Starr» (con una marching band di 10 elementi) sono karaoke per 11mila persone. Come, poco prima lo era stato «Giovani Wannabe», uno dei tormentoni di questa estate (il più trasmesso in radio e al terzo posto nello streaming) che non ha bisogno di passare dai ritmi latin o dalle atmosfere anni 60. Ecco, il pop che non vuole per forza parlare la lingua che parlano tutti gli altri.
Se Zanotti è il leader e la fase creativa di scrittura e produzione delle canzoni è un processo solitario, nei tour esce lo spirito di gruppo. Elio Biffi, tastierista, prende il microfono e il palco quando l’atmosfera vira verso il metal su «Cancelleria» e «Freddie». Più avanti il bassista Simone Pagani è la voce di «Sashimi». Il chitarrista Nicola Buttafuoco è invece l’ideatore di un medley elettronico in cui ci sono, anche solo per pochi secondi, citazioni di tutte le canzoni del repertorio della band. Così nessuno può dire che mancava la sua preferita. A completare la formazione Lorenzo Pasini (chitarra) e Matteo Locati (batteria).
C’era stato anche un momento acustico, con i 6 sulla passerella che taglia la platea per far uscire la loro animal irish-folk. Qui il coinvolgimento del pubblico prevede l’utilizzo di una app che manda giochi di colore a tempo della musica per «La storia infinita» e quello di un mazzo di chiavi da far tintinnare per ricordare «chi le chiavi non le ha perché non ha un’auto e nemmeno una casa perché scappa da una guerra e non fa parte di questo nostro Primo mondo». «Verdura» ricorda il loro salto nel pop. «Non sempre te lo perdonano se arrivi dal rock». A loro l’hanno perdonato, proprio perché è arrivato il senso più nobile del pop. «Non ci saremmo aspettati che ci avresti aspettati» dice Zanotti prima dei saluti di «Pastello bianco». E invece...
Pinguini Tattici Nucleari e il nuovo singolo «Giovani Wannabe»: «Un brano per una generazione che non ha spazio». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.
Dopo due anni di stop per la pandemia, è in partenza il tour del sestetto di Bergamo guidato da Riccardo Zanotti. «Prima dei concerti vomitavo per l’ansia».
Avere 25 anni, annunciare i primi concerti nei palazzetti dopo una carriera che passo dopo passo ha scalato feste della birra, centri sociali e club, ricevere un invito a Sanremo che si trasforma nel bacio nazionalpopolare. Era il 2020 e dopo una lunga gavetta i Pinguini Tattici Nucleari, sestetto di Bergamo guidato da Riccardo Zanotti con Elio Biffi (tastiere), Nicola Buttafuoco (chitarra), Matteo Locati (batteria), Simone Pagani (basso) e Lorenzo Pasini (chitarra), erano pronti a esplodere. «La data zero del tour, 27 febbraio 2020 a Pordenone, è stata la prima a essere cancellata per la pandemia», ricorda Zanotti. «Oltre al danno anche la beffa. Avevamo fatto prove e allestimento, il simulacro di quella che sarebbe stata la gioia più grande. Avevamo assaporato qualcosa e la reclusione e la solitudine conseguenti, in una Bergamo così colpita poi, sono state ancora più dure». Ribattezzo ironicamente «Dove eravamo rimasti», il tour finalmente è in partenza, la prima data a Conegliano il 14 giugno, e venerdì 27 maggio è uscito anche il nuovo singolo «Giovani Wannabe», che dopo il triplo platino dell’ep «Ahia!» uscito in pandemia, lancia la corsa verso il primo miliardo di stream della band.
Con chi ce l’ha il titolo? Chi sono quelli che vorrebbero essere giovani?
«Va letto in positivo. Ci sta dietro il concetto di riappropriazione culturale: mi piace quando un gruppo sociale o etnico si riappropria di un insulto e ne fa una bandiera. I giovani, più che anagraficamente noi lo siamo per “fame”, in questo mondo non hanno spazio. Il senso del testo è che dobbiamo chiudere gli occhi e pensarci dove vorremmo essere: ci prendiamo lo spazio negato immaginandocelo».
Nella musica con lo streaming c’è stata una rivoluzione che ha tolto spazio a chi ha più di 30 anni...
«Vero, ma socialmente non è così. Forse nell’arte è successo perché è più avanti. Per il resto vedo ancora discutere di stipendi dei camerieri o del dover lavorare 12 ore al giorno... Va bene farsi il culo sul lavoro, ma non se col tuo culo qualcuno ci si fa la camicia. Ci vuole una dignità nel lavoro. A 27 anni sono al giro di boa, l’età in cui o muori o vai avanti e magari diventi più pop. Io ho fatto questa scelta».
Nella canzone citate Jimi Hendrix, che a 27 anni è morto...
«Lui è uno dei miei idoli. A chi lodava i Beatles, McCartney diceva di ascoltare Hendrix. È stato metafora di rivoluzione, non solo nella musica: aveva una carica sociale il fatto che fosse nero ed è stato anche simbolo di rivoluzione sessuale».
«Giovani Wannabe» è il racconto di un amore con l’estate in sottofondo...
«È la prima volta che facciamo il pezzo per l’estate. Nella musica ci sono codici precisi da seguire, non solo quelli della scrittura che è rapporto matematico fra gli accordi, che noi non sempre rispettiamo. Siamo una retta incidente fra molte rette parallele. Attraverso quella del reggaeton non siamo ancora passati, ma da qualche anno non c’è solo la musica latina nell’estate italiana. Vedi il caso di “Mi fai impazzire” di Blanco l’anno scorso».
La sua canzone dell’estate?
«“50 special” di Cesare Cremonini. La prima che mi ha detto: questa è l’estate, un sentimento happy-go-lucky perfetto per la stagione. All’inizio, avevo tre anni, però pensavo che parlasse degli insetti».
Nel brano canta «Si nasce soli e si muore solisti»... I Pinguini scricchiolano?
«La frase continua dicendo “per fortuna esisti, sei tutta la mia band”. Nessun pericolo all’orizzonte per il gruppo, è un’allegoria per dire che nella vita non voglio stare solo. Scrivo io le canzoni per i Pinguini Tattici Nucleari, lo trovo un fatto personale, ma siccome sul palco ci andiamo tutti insieme, gli arrangiamenti per i concerti li facciamo in sei. E anche le decisioni importanti le prendiamo insieme».
La prima data. Attese?
«Il magone e la magia. Durante il concerto so che starò bene, ma so anche che prima ci saranno ansia e paura».
Dopo due anni ci sta…
«L’ansia c’è sempre stata. Nasco chitarrista e siccome nessuno voleva cantare le mie canzoni ho deciso di farlo io. Mi sento inadeguato da sempre, ho la sindrome dell’impostore (meglio di quella dell’impostato) che sin dagli esordi nei centri sociali mi fa stare male prima dei live. Mi capitava anche di vomitare, adesso mi limito al mal di pancia... Col training autogeno ho imparato a concentrarmi sullo spazio fisico che c’è fra me e il pubblico durante i primi brani, creo una zona di privacy che a un certo punto cade».
La scaletta?
«Ci saranno tutte le nostre canzoni, ma proprio tutte. Alla fine dei concerti ricevi sempre messaggi in cui qualcuno ti dice “Non avete fatto la mia preferita”. Ci sarà un medley di 4 minuti con qualche secondo di tutte le canzoni che non facciamo per intero, tutto gestito da Butt in versione deejay».
Pino Donaggio, la vita «Come sinfonia». Fabrizio Papitto su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022.
Il compositore presenta sua biografia, scritta con Anton Giulio Mancino, giovedì 13 gennaio alla Casa del Cinema.
A ripercorrere la vita di Pino Donaggio, 80 anni lo scorso novembre, sembra di perdersi tra le calli della sua Venezia. «Butite nel mar grando», gli ripeteva la madre: «Buttati nel mare grande». E lui l’ha fatto. Violinista al conservatorio, stella della musica leggera e infine artigiano della musica per immagini al servizio del cinema.
Oltre 200 colonne sonore tra grande e piccolo schermo. Fra gli ultimi lavori, Una sconosciuta di Fabrizio Guarducci e Spin me round del regista americano Jeff Baena. A tracciare le rotte della sua carriera è la biografia Come sinfonia scritta con Anton Giulio Mancino, docente di cinema all’Università di Macerata che sarà presentata giovedì 13 gennaio (ore 18) alla Casa del Cinema.
Quando avviene il suo primo contatto con la musica?
«Mio nonno cambiava i rulli dei pianoforti a puntine nelle osterie. I suoi tre figli erano tutti musicisti, mio padre suonava il violino e ci teneva che studiassi. Mi fece iscrivere al Conservatorio di Venezia, percorso che ho proseguito a Milano».
A 19 anni il primo Sanremo con «Come sinfonia».
«Avrebbe dovuto cantarla Mina se non avesse già fatto il provino per Io amo, tu ami e Le mille bolle blu. Fu lei a intercedere per me col direttore di quell’edizione Ezio Radaelli. Le mie emozioni però sono legate a quando mio padre mi raggiunse a Milano per incidere il disco. Fuori nevicava».
Nel 1965 torna con «Io che non vivo (senza te)».
«La melodia è venuta spontanea quando ho messo le mani sul pianoforte. Non l’ho trascritta subito, volevo vedere se l’indomani me la sarei ricordata. Al Festival era presente anche Dusty Springfield che l’avrebbe trasformata nella hit You Don’t Have To Say You Love Me, ripresa anche da Elvis. Lo seppi leggendo la classifica di Billboard».
Nel 1973 il film «Don’t Look Now» di Nicolas Roeg segna il suo esordio in veste di compositore. Come inizia la sua seconda vita?
«Erano le 6 del mattino. Ugo Mariotti, coproduttore del film, si trovava sulla riva opposta della stazione mentre rientravo in laguna a bordo di un vaporetto. Quando mi vide pensò si trattasse di un’apparizione in sintonia col tema parapsicologico del film. Un segno del destino».
Che poi si legherà a quello di Brian De Palma.
«De Palma cercava qualcuno che sostituisse Bernard Herrmann, scomparso mentre lavorava a Taxi Driver. Il suo amico Jay Cocks, critico del Time, gli fece ascoltare Don’t Look Now».
C’è una sua musica alla quale è legato?
«In una scena di Carrie si vede una mano che esce dalla tomba e in sottofondo si sente un mio canone. Quando George Lucas andò a vedere il film, durante quella sequenza saltò sulla sedia. Poi si girò verso di me sorridendo, come a dire: mi hai giocato un bello scherzo».
Si specializzò nell’horror con registi come Joe Dante, Dario Argento e Lucio Fulci. Ma nelle sue musiche c’è anche nostalgia.
«Forse deriva dall’aver perso mia madre quando lei aveva 58 anni. Il funerale di Don’t Look Now l’ho scritto per lei che era appena mancata».
Luca Pallanch per “La Verità” il 17 gennaio 2022.
La doppia vita di Pino Donaggio: cantante di successo al Festival di Sanremo e autore di brani famosi in tutto il mondo negli anni Sessanta, compositore di colonne sonore di film hollywoodiani dagli anni Settanta. Un libro, dal titolo emblematico, Come sinfonia (Baldini+Castoldi), orchestrato insieme ad Anton Giulio Mancino, con tanto di ouverture e quattro movimenti, svela i segreti di un maestro della musica schivo e riservato.
Come ha iniziato?
«Mio padre aveva un'orchestrina. Mio nonno e i miei zii erano tutti musicisti, uno di loro era primo flauto alla Fenice. Ho fatto 12 anni di Conservatorio, a Venezia, ero uno dei più bravi a suonare il violino. Dopo sono andato al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove mi ha sentito Claudio Abbado e anche se non ero diplomato mi ha voluto nella sua orchestra, I Solisti di Milano, con la quale abbiamo fatto tanti concerti all'estero. Ero nato per fare il violinista. Tutto quello che è venuto dopo è stato, come ho scritto nel libro, per fatalità».
Come mai da violinista è finito al Festival di Sanremo, il tempio della musica leggera?
«A Milano, nelle ore libere, ho cominciato a scrivere delle canzoni. Tornato a Venezia, ho detto a mio padre: "Proviamo a eseguire le canzoni che ho scritto", per vedere l'effetto sul pubblico. Grandi applausi, ma mio padre ha commentato: "Ti applaudono perché sei mio figlio". Per fargliela vedere, sono andato a Milano alla Curci a far sentire le canzoni, però era l'orario di chiusura, per cui mi hanno mandato via. Fatalità l'ascensore si è fermato al piano di sotto, dove c'erano le Messaggerie Musicali. "Bah, forse anche le Messaggerie vanno bene". Dentro c'era Bruno Pallesi, un cantante e paroliere dell'epoca: "Fammi sentire cosa canti". A metà canzone mi ha fermato e mi ha riportato su alla Curci, dove mi ha presentato come il nuovo Paul Anka! Mi hanno fatto il contratto. È stata una svolta: così ho cominciato a cantare».
Nel 1961 ha partecipato per la prima volta a Sanremo, con il brano che dà il titolo al libro, Come sinfonia.
«Doveva cantarla Mina, che ha fatto il provino, ma aveva giù due canzoni, Io amo tu ami e Le mille bolle blu, allora mi ha detto: "Se entrano queste canzoni, non posso cantare la tua". Quando sono state ammesse entrambe, lei ha parlato con Ezio Radaelli, il patron del festival: "Guarda che è un bravo autore, scrive bene". La canzone è piaciuta e mi sono ritrovato a Sanremo, dove ho ottenuto un grande successo. Come sinfonia ha cambiato la mia vita».
L'ha cantata in coppia?
«Sì, con Teddy Reno».
Con chi l'è piaciuto particolarmente duettare nelle sue numerose partecipazioni al festival?
«Credo che le migliori coppie le abbia fatte insieme a Cocky Mazzetti con Giovane giovane, Frankie Avalon con Motivo d'amore e Peppino Di Capri con L'ultimo romantico».
È stato tante volte primo in classifica, ma non è mai riuscito a vincere Sanremo.
«Io puntavo più alla hit parade che a vincere il festival, anche perché le mie canzoni entravano un po' dopo nella testa della gente. A distanza di tempo posso dire: "Meno male che non ho vinto, così ho continuato a partecipare anche l'anno successivo" e così ne ho fatto dieci».
Com' è nata Io che non vivo (senza te), un successo planetario?
«È nata perché una mattina mi hanno portato un pianoforte nuovo. Stavo con la mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie, e come ho messo le mani sul piano mi è venuto questo tema, quindi è dedicata a lei. Però non ho scritto la canzone: "Se me la ricordo anche domani, vuol dire che è molto valida". Infatti il giorno dopo me la ricordavo tutta. Allora sono andato a Milano a farla sentire e tutti hanno capito che era un bel pezzo, ma nessuno pensava che avrebbe avuto un successo così. Ci sono state anche in questo caso una serie di coincidenze: al Festival di Sanremo del 1965 Dusty Springfield, essendo stata eliminata la sera prima, era in platea quando l'ho cantata. Si è innamorata di questa canzone e l'ha messa nel suo repertorio. Sono andata a trovarla a un concerto a New York e mi è saltata addosso: "Hai scritto la canzone della mia vita", e io: "Anche della mia!". L'ha incisa anche Elvis Presley».
L'ha conosciuto?
«No, perché quando ha cantato al Madison Square Garden, Little Tony e Bobby Solo sono andati a sentirlo, ma non me l'hanno detto. "Se mi chiamavate, venivo con voi, magari conoscevamo Elvis"».
Loro lo hanno conosciuto?
«No, Elvis neanche li vedeva. Sai quanti imitatori aveva nel mondo? Se fossi andato io, magari l'autore di You don't have to say you love me l'avrebbe ricevuto!».
Quindi era già famoso in America?
«Sì, però non tutti sapevano che fossi io quello di You don't have to say you love me. Brian De Palma lo è venuto a sapere perché quando abbiamo fatto il primo film, Carrie (Lo sguardo di Satana), c'erano delle canzoni da inserire nella colonna sonora. "Queste le facciamo fare a qualche gruppo". "Però le scrivo io". "Tu scrivi canzoni?". "Sì, ho scritto You don't have to say you love me". "Come? È tua quella canzone?". È una cosa che non ho mai sbandierato nel cinema».
Com' è avvenuto il passaggio nel cinema? La sua prima colonna sonora è stata A Venezia un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, nel 1973.
«Io cantavo ancora e dopo una serata, siccome avevo guidato tutta la notte, ho preso un vaporetto alle sei del mattino per ritornare a casa. Ero nella parte scoperta per prendere un po' d'aria, dalla riva mi ha visto il produttore associato del film, Ugo Mariotti, il quale si è messo in testa, vedendomi passare, che fossi un'immagine mandata dall'aldilà, come mi ha rivelato successivamente. Per lo stesso motivo hanno scelto anche Massimo Serato, una mattina all'alba a piazza Navona».
Un'altra fatalità!
«Mi ha presentato il regista, non parlavo inglese, quindi Mariotti traduceva: mi ha detto cosa voleva e io dopo una settimana ho registrato dei demo sul Nagra proprio al Conservatorio di Venezia. Roeg li ha sentiti e gli sono piaciuti molto, soprattutto il tema che ha inserito subito nel montaggio di una scena d'amore. A Londra il produttore Peter Katz non mi voleva: "Non possiamo dare un film così importante a uno che non hai mai scritto per il cinema", però è arrivato il finanziatore americano - io per questo sono un po' legato agli americani -, che ha visto il film con la moglie e ha detto: "Il film è bellissimo e quella musica che c'è sotto cos' è?". "Mah, è di uno di Venezia che però non ha mai fatto film". "Se scrive così, che problemi abbiamo?". Così sono stato preso».
Il suo nome come compositore è legato al cinema di Brian De Palma.
«Sempre per fatalità. Un tizio è passato per Londra, ha comprato il mio disco e quando De Palma cercava il musicista perché era morto Bernard Hermann, gli ha detto: "Vieni a mangiare da me. Ti faccio sentire un musicista". L'ha sentito e gli è piaciuto, anche perché usavo gli archi come li usava Hermann e quindi ha trovato delle affinità. Mi ha chiamato e sono andato in America».
Com' è umanamente?
«Non è molto espansivo, è un po' orso, ma quando ha sentito una scena di Carrie molto lunga mi ha fatto gli applausi in sala: "L'avrò vista mille volte per montarla, per girarla, per prepararla... ma ora è la prima volta che la vedo! Mi ha dato un'emozione che non avevo provato". Lui al massimo ti dà una manata sulla spalla, non come Antonino Cannavacciuolo ma quasi, e ti dice: "Very good"».
È il regista con il quale ha creato il sodalizio più proficuo dal punto di vista artistico?
«Sì, quando si vuole divertire dice una battuta: "Ti ho tirato fuori dai canali di Venezia!" ed è vero in fondo perché devo a lui la popolarità in America. Ho fatto tanti altri film proprio perché i registi avevano sentito quello che avevo fatto con lui».
Ha vissuto anche in America?
«A periodi, sei mesi, sette mesi, poi tornavo perché preferivo scrivere a Venezia, il luogo che mi dà l'ispirazione. Nel mio studio sul Canal Grande respiro arte».
Quando compone una colonna sonora, lavora sulla sceneggiatura o ha bisogno di vedere il film girato?
«Per scrivere la musica devo avere i punti dove va inserita la musica, che vengono decisi insieme al regista. Quindi il film deve essere finito perché ogni scena da coprire ha una durata diversa e bisogna essere precisi. Tagliare sulla musica già composta è più difficile».
Non le è mai capitato che un regista le abbia dato carta bianca, dicendo: «Componga la musica e poi la adattiamo alle immagini»?
«Sì, con Lucio Fulci per Black Cat. Mi ha detto: "So che sei bravo, fai tutto te, ciao" e non l'ho più visto!».
Strano perché Fulci aveva un passato musicale, da autore di canzoni come 24.000 baci e Il tuo bacio è come un rock.
«Sì, l'ho conosciuto a Sanremo al mio debutto, ma non ci eravamo più incrociati. In una proiezione in Francia di due-tre film suoi, quando ha annunciato che preparava un nuovo film, gli hanno fatto il mio nome, dicendo che ero bravo e avevo lavorato con De Palma, e allora mi ha chiamato».
Fra i registi con cui ha lavorato chi ha orecchio musicale?
«A parte De Palma, Dario Argento e Sergio Rubini».
Come si è trovato con Argento?
«Bene. Abbiamo fatto Due occhi diabolici, Trauma, Do You Like Hitchcock?. Argento non vuole una colonna sonora uniforme dall'inizio alla fine, vuole sonorità diverse, passare dal jazz al rock».
Il libro come nasce? Da una fatalità anche questo?
«Sì, perché Anton Giulio Mancino voleva conoscermi e, tramite un giornalista amico comune, è venuto a trovarmi nel mio studio, con alcuni dischi da farmi firmare. Dopo un po' di giorni mi ha telefonato: "Ti piacerebbe raccontare la tua storia?". Quando nel 2015 ero andato al Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti, a prendere il premio per i 50 anni della canzone Io che non vivo, dopo di me è salita sul palco Virginia Raffaele che ha fatto una battuta: "Pino Donaggio che persino i parenti credevano fosse morto!". Ho detto: "Ca, qui nessuno sa quello che ho fatto dopo aver smesso di cantare, allora forse la biografia può illuminare qualcuno"».
Da liberoquotidiano.it il 30 gennaio 2022.
Ha ripercorso la propria carriera Pino Insegno a Verissimo. E non senza strappare un sorriso a Silvia Toffanin. Nella puntata di sabato 29 gennaio andata in onda su Canale 5 l'attore ha raccontato il suo esordio.
"Gli inizi sono stati molto difficili perché è il mondo dell'attore-doppiatore è molto meritocratico - ha ammesso - se perdi un provino tu lo vince un altro bravo, è un mondo di grandi professionisti, io ho cominciato con film particolari che uscivano nei cinema a luci rosse".
Una confessione che scatena subito l'ironia in studio e su cui lui stesso ora ama scherzare. "Adesso è divertente ripensando a quei titoli, a quei film, ma era molto imbarazzante godere per nove ore di seguito al giorno senza un motivo. Questa è stata la mia gavetta, è successo a molti di noi, anche a grandi professionisti". Poi però sono arrivate le soap opera. Da Quando si ama, Febbre d'amore, Falcon Crest, La valle dei pini e tanto altri. Tutti un'occasione per imparare i trucchi del mestiere.
"C'era questo preconcetto che un attore comico non potesse doppiare un film drammatico, quando un attore è un attore", ha anche aggiunto ricordando che all'inizio usava uno pseudonimo. Pseudonimo che gli ha portato fortuna: "Ho fatto un provino per Belli e dannati con Keanu Reeves con il nome di Mario Persichetti e ho vinto. Ho scelto questo nome perché una sera a Trastevere una persona urlava questo nome. Il film fu doppiato molto bene, da me e Fabio Boccanera". E da lì i successi non sono mai mancati.
Pino Insegno: «Ho ingannato Cecchi Gori per doppiare Keanu Reeves. Papà mi pagò il debutto». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
Il comico: «Gli esordi? Prestavo la voce agli attori porno, anche John Holmes». Il Signore degli Anelli: «Viggo Mortensen mi telefonò per invitarmi a mangiare una pizza, pensai a uno scherzo e riattaccai».
Pino Insegno, come va la colite?
Ride.
Si assuma le sue responsabilità. Lo ha scritto pure nell’autobiografia appena pubblicata per Giunti, «La vita non è un film».
«Ecco, appunto. Ho sempre manifestato lì la tensione. Una volta ero sulla Pontina con tanto di autista quando arriva l’ultimo crampo... Ho visto dei bambini che giocavano dietro un cancello e mi sono avvicinato. “Mamma, corri, c’è Pino Insegno!”. La madre pensava di essere su Candid Camera. L’ho supplicata di farmi usare il bagno. Fuori dalla porta si erano appollaiati i parenti: stavano festeggiando una comunione».
Parliamo dei suoi esordi nel porno.
«Come doppiatore!».
Certo.
«Erano due giornate a settimana. Ogni volta ero doppiamente sfinito, per la stanchezza fisica e per quella psicologica».
La cosa più difficile?
«Se ansimi a vuoto per più di 30-40 secondi mandi in iperventilazione il cervello. In Platoon, per esempio, qualcuno svenne».
Il personaggio più famoso che ha doppiato?
«John Holmes».
Solo il parlato, immagino.
«No no, tutto. E lui parlava poco e godeva tanto! Guardi che quarant’anni fa non c’erano le videocassette e i film porno erano costosi, girati bene, con signori registi, costumisti... Ben Dur, per dire, era fatto benissimo».
L’esperienza nel porno ha condizionato il salto? Oggi può vantarsi di aver doppiato, tra gli altri, Keanu Reeves, Viggo Mortensen, Will Smith, Robert De Niro, Sasha Baron Cohen.
«Per Keanu Reeves in Belli e dannati dovetti fare il provino con il nome falso di Mario Persichetti, perché Vittorio Cecchi Gori non voleva uno della Premiata Ditta. A creare scetticismo non era il porno, il problema era la tv. Finora ho doppiato 400 film da protagonista».
Rivedersi che effetto le fa?
«Ah, quello è il mio momento, perché non sono io che presto la voce a loro, ma loro che prestano il corpo a me».
Come attore, però, è stato doppiato.
«Sì, al primo film: Mezzo destro mezzo sinistro, dove interpretavo un veneto. Lo scoprii al cinema e ci rimasi male. Poi ho lasciato perdere: se sei Aragorn nel Signore degli Anelli che ti importa di un ruolo dimenticabile da attore?».
A proposito del «Signore degli Anelli», dovette superare le resistenze dei tolkieniani.
«Ammazza! Però poi mi hanno amato. Sono anche uno dei fortunati ad avere uno degli anelli usati nel film, una ventina nel mondo».
Con Viggo Mortensen è diventato amico?
«Lui è l’attore cui sono più affezionato. Una volta mi chiamò per propormi di raggiungerlo a Campo de’ Fiori per una pizza. Io stavo facendo il bagnetto a mio figlio e ho riattaccato, pensavo a uno scherzo. “Se tu sei Viggo Mortensen io so’ Tom Cruise”. Richiamò, e buttai giù di nuovo. La terza chiamata me la fece Enrico Lo Verso: “Pino, ma cosa hai detto a Viggo? Dai, vieni qua che ti aspettiamo!”. Nel frattempo mio figlio aveva imparato a nuotare...».
E l’incontro come andò?
«Mi trovai davanti questo ragazzo normale, maglietta bianca, jeans. Parla sette lingue, è scultore, pittore! Dopo andammo a fare due passi, dei borgatari mi riconobbero e uno mise in mano a Viggo la macchinetta digitale: “A biondi’, che ce fai ‘na foto?”. Io allibito gli dissi: “Ma ti rendi conto di averlo chiesto al Signore degli Anelli?”. E lui: e che m’importa se er biondino c’ha ’na gioielleria?».
Torniamo indietro agli esordi nel teatro. La leggenda narra che per il primo spettacolo suo padre fece un prestito di sei milioni di lire.
«Mio padre Armando sta per compiere 90 anni, faceva il vetrinista. Aveva già due mutui e una voglia pazza di starmi vicino».
Quei soldi non glieli ha mai restituiti.
«Non li rivoleva! Peraltro i soldi guadagnati con Giulio Cesare è... ma non lo dite a Shakespeare li reinvestimmo subito. Con mamma invece sono riuscito in qualche modo a sdebitarmi, ma lei era diversa, le piaceva vantarsi di me al mercato, gioiva quando le mandavo un autista per portarla a teatro a vedermi. A lei sono riuscito a regalare una Fiat 126, con un bel fiocco. Quanto avrei voluto che conoscesse mia moglie Alessia... E una delle cose che mi fanno amare ancora di più mia moglie è che quando abbiamo deciso di sposarci, mi ha chiesto: “Beh, ora non mi porti a conoscere tua madre?”. E siamo andati insieme al Monumentale. Non ero più tornato al cimitero dopo il funerale: è morta il 15 dicembre 2003».
Quel giorno andò comunque in scena: debuttava al Parioli con «Gli Allegri Chirurghi».
«Sì, mamma era morta la mattina. Lo decidemmo con mio fratello, Claudio, che curava la regia, e con mio padre, che venne in platea. Dopo, andammo insieme a mangiare una pizza. È una perdita che fa sempre male. Quando ho doppiato Jamie Foxx in Ray, c’è un momento in cui lui dice, a proposito della madre: “Lei è qui, non se n’è mai andata”. Mi commuove ancora adesso. Ai tempi, aspettai due ore prima di riuscire a fare la battuta».
Una parte del suo successo professionale è legata alla Premiata Ditta. Quando vi siete sentiti l’ultima volta?
«Con Roberto (Ciufoli, ndr) ieri. Stiamo ragionando su quando riusciremo a riportare in scena Vieni avanti Cretino».
Vi rivedremo tutti insieme?
«A me piacerebbe una serata d’onore in Rai. Francesca Draghetti è la mia direttrice di doppiaggio in American Dad!, lei preferisce stare un passo indietro. Tiziana Foschi è rimasta la stessa. Non c’è mai stata gelosia tra noi. C’è stato un unico momento difficile con Roberto: ci conosciamo da quando eravamo bambini a Monteverde Vecchio e forse ha sofferto di più quando ho intrapreso la mia carriera da solista. Ma lo abbiamo superato subito».
E di «Bbiutiful» cosa mi dice?
«Nacque da una intuizione di Francesca, che ci segnalò la soap con protagonisti due uomini e due donne. Perfetta per noi. La Carrà ci mise al centro del suo programma, Ricomincio da due. Enza Sampò, che curava uno speciale serale su Beautiful, per due settimane ci proibì di andare in onda. Il massimo fu registrare le puntate con gli attori originali!»
Fa tanta beneficenza, ma non ne parla mai.
«Preferisco così. Non amo farla a beneficio di telecamera».
Possiamo almeno dire che sta per dare la sua voce ai malati di Sla e ai sordomuti?
«Non è ancora il momento per parlarne, ma è un progetto al quale ho lavorato con il Campus Bio-Medico, il Niguarda, NeMo...».
È stato amico di Troisi e Pino Daniele.
«Massimo mi telefonò dopo che avevo lanciato un appello a Domenica in per farmi accogliere nella Nazionale di calcio attori. Aveva risposto mia mamma: “Pino, c’è uno che imita Troisi che ti vuole parlare...”. Non avrebbe nemmeno potuto giocare a calcio, il ticchettio nel petto lo sentivi sempre. Mi diede una prova di amicizia quando si rifiutò di scendere in campo dopo che i senatori della squadra si erano rifiutati di farmi entrare per un solo tempo. Quando morì mi avvisò Pino Daniele».
E con lui come andò?
«Diventammo molto amici. Capodanni insieme, mi faceva sentire i suoi brani in anteprima. Poi ci allontanammo. Ma ho tanti ricordi».
L’applauso più bello?
«La verità? A teatro fa sempre piacere, ma in qualche modo lo hai guidato tu. L’applauso davvero più bello è quello dopo un gol, qualunque sia il pubblico: 25 persone o 2.500».
Lei voleva fare il calciatore.
«E sarei anche arrivato ai Mondiali dell’82. Mi hanno stroncato la carriera al Settebagni».
Però ha fatto il presidente.
«Sì, della Ruco Line Lazio, calcio femminile. Convinsi la Panini a fare l’album. Al Flaminio per vederci contro il Bayern Monaco vennero in diecimila. A Pisa vincemmo il campionato e purtroppo avevo promesso di fare uno spogliarello vero, non come quello della Ferilli...».
Dispiaciuto che il suo primogenito Matteo, 23 anni, nato come Francesco dal precedente matrimonio con Roberta Lanfranchi, abbia smesso di fare il calciatore?
«Quando me lo disse replicai: ma scusa, sono l’unico padre al mondo che dice al figlio di lasciar perdere gli studi e di continuare con il calcio e tu smetti? Ma lo capisco. A 15 anni era già nomade. Aveva giocato nel San Paolo, Lazio, Perugia, Pisa, Teramo, Pescara...».
Francesco, 18 anni, gioca a basket.
«Giocava. Ha lasciato quest’anno in B».
E Alessandro, il primo dei due figli avuti con sua moglie Alessia Navarro?
«Fa nuoto e basket, ha 7 anni. Mentre Valerio, di due, dice già “basta”, “sono sazio”, “faccio da solo”. Ma chi gliel’ha insegnato?».
Cosa può dirci di Alessia?
«Quando l’ho conosciuta aveva 29 anni e io 48, ma lei era come se ne avesse 70-80. Matura, consapevole, mi ha ridato una famiglia. Con lei mi sento protetto, anche quando lavoriamo insieme. Lei riesce, sia in famiglia che sul palco, a farmi dare il meglio di me».
Incontri ravvicinati memorabili?
«Tantissimi. Ho una stanza piena di foto alle pareti, con Maradona, il Papa, attori. Una volta in sala doppiaggio mi dissero: “A Pi’, esci che ce sta Sean Connery”. Pensavo fosse il doppiatore, Pino Locchi: “E s’aspettasse n’attimo che ce sta prima n’artro Pino”. Era l’originale...».
Chi è Iktomi?
«Lo spirito guida. È il nome che mi diede Floyd “Red Crow” Westerman, il mio secondo padre... Lo conobbi grazie a Gianni Minà».
Come si vive con un solo testicolo?
«Bene. Scoprii da bambino che l’altro mi era stato asportato. Ho temuto solo di non poter avere figli. Poi ne sono arrivati quattro!».
Pio e Amedeo: «Da Telefoggia al Nord, anche nella vita siamo stati scrocconi». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022
Il duo in tv che gira il mondo a spese dei vip: «Ci ispiriamo a due tifosi del Foggia incontrati su un bus». «La nostra prodezza? Totti con un capitone in mano. Anche Antonio Conte con noi si lascia andare, alla fine è un terrone»
Vi siete conosciuti a 10 anni.
Amedeo: «Pio era una creatura tutta tonda, non si sa bene come riuscisse a deambulare».
Pio: «Lui invece era un batuffolo di pelo nero».
Amedeo: «Mi sono sviluppato presto, grazie a Colpo Grosso».
Amici subito.
Pio: «Due bambini atipici, per fisicità e provenienza, capimmo presto che non ci avrebbero mai presi sul serio. Primo lavoretto: vendere le palme benedette, già tre mesi prima di Pasqua».
Amedeo: «Che poi erano più che altro le palme di Benedetto, il tizio che ci aiutava a tagliarle. Passavamo porta a porta. Pagamento in nero».
Ma la storia che siete nati nello stesso reparto di maternità di Foggia, a cinque giorni di distanza, in due culle vicine, è una fandonia che propinate ai giornalisti?
Pio: «No, è vera, l’abbiamo scoperto dodici anni fa».
Amedeo: «Esiste una foto, l’hanno ritrovata le mamme, una carrambata, compare pure nella sigla di Emigratis». Già, la trasmissione cult (prime tre edizioni su Italia 1, l’ultima su Canale 5) in cui Pio D’Antini (39 anni) e Amedeo Grieco (idem, è lui che ha 5 giorni in più), si trasformano nella più rumorosa coppia di villani/ignoranti/trogloditi/decerebrati della tv (se lo dicono da soli: i testi interpretati da Francesco Pannofino sono loro), ovvero il Bufalone e il Messicano, che in zoccoli, pelliccia, canotte, slippini fluo e occhiali a specchio perseguitano vip ricchi e famosi, scroccando contanti, orologi, vestiti, cene. Buzzurri ma buoni: il malloppo stavolta ha finanziato pozzi in Kenya per l’Amref (battezzati supercafonamente i «Moana pozzi»).
Quasi non oso chiedervi dei tempi della scuola.
Amedeo: «Ero bravo — l’intellettuale del duo sono io, si capisce da lontano — poi mi sono perso. Ho fatto lo scientifico, lui ragioneria, rappresentanti di istituto, ci si ritrovava in testa ai cortei, per fare casino, senza un perché».
Pio: «Che poi il tipico motivo per fare sciopero era il riscaldamento rotto in classe, quando fuori c’erano 40 gradi con gente in maniche corte».
Poi, l’idea.
Pio: «Ci venne in mente di guadagnare qualche soldino divertendoci, come animatori nei villaggi turistici».
Primo spettacolino?
Amedeo: «A 17 anni e mezzo. Ottanta posti sold out, perché i parenti erano numerosi, esaurite pure le repliche».
Debutto a Telefoggia, pochi mezzi, tanta fantasia.
Pio: «C’era una telecamera e una videocassetta, la stessa del tg. “Avete mezz’ora, poi riportatela che hanno sparato a uno”. Sognavamo in piccolo».
Amedeo: «Avremmo firmato per ottenere anche molto meno. Questo mestiere ti dà una soddisfazione importante: far ridere la gente. Come quando vedi i tuoi figli felici e sei felice anche tu».
Esisteva un piano B?
Pio: «Figlio di statali, i miei sognavano laurea e posto fisso. “Che mi laureo a fare? Il posto fisso non lo voglio”».
Amedeo: «L’università l’abbiamo fatta, Scienze della Comunicazione, ci mancano sei esami. Uno avremmo dovuto sostenerlo con Maurizio Costanzo, non abbiamo avuto il coraggio di presentarci. Anni dopo, quando lo abbiamo conosciuto, abbiamo provato a corromperlo. “Dai Maurì, facci passare, dacci il 18 politico”. Niente da fare».
Pio: «Ogni volta che si avvicinava un esame spuntava fuori un lavoro. Mi riducevo a studiare gli ultimi tre giorni, prendendo ripetizioni dal più secchione. E poi, il giorno prima, istruivo Amedeo».
Amedeo: «Pure i miei premevano per una sistemazione sicura, ma io non volevo lavorare tutti i giorni. L’ideale sarebbe stato un posto da bidello. Due mesi di ferie pagate, gli altri passati a fare il venditore abusivo di pizzette».
Pio: «Però non lo scriva che siamo quasi laureati, ci rovina il curriculum».
Non sia mai. Gavetta dura.
Pio: «A volte abbiamo proprio fatto la fame. Quando lasciammo Telenorba per salire a Milano, andammo a vivere a scrocco da amici e parenti».
Amedeo: «E abbiamo definitivamente perso la dignità».
Un tour di casa in casa.
Amedeo: «Il primo a ospitarci fu un amico. Ci piazzammo sul divano del salotto. Tornavamo alle tre del mattino. Le due coinquiline, studentesse, ci odiavano. Poi siamo passati da un altro compaesano. E infine dal fratello di Pio, che dormiva nel letto matrimoniale con lui. Io invece avevo la cameretta di Mondo Convenienza. Una sera però il fratello aveva accalappiato una ragazza. Immagini quanto si spaventò, nel cuore della notte, vedendosi entrare questo coso qui sotto le coperte».
Lo show più sfigato?
Pio: «Domenica di Pasqua del 2001, un buco di locale a Baselice, vicino Benevento».
Amedeo: «Dei 12 avventori in sala, non rideva nessuno. Dopo 25 minuti i camerieri ormai ci passavano davanti con i piatti, non abbiamo avuto il coraggio di chiedere i 75 euro. Non c’era il camerino. Ci siamo cambiati sul terrazzino, sotto la neve».
A chi vi siete ispirati per i due zoticoni scrocconi?
Pio: «A due tifosi del Foggia incontrati sull’autobus. Il nostro cafone è un ignorante tenero che si adatta al mondo come può, ma nasconde una sua dignità, una sua bontà».
Amedeo: «Facciamo i forti con i forti, non con i deboli. La gente ci vede come due Robin Hood. Rubiamo ai ricchi per dare a ai poveri: noi».
Quei vestiti assurdi dove li trovate?
Amedeo: «Lo zoccolo è un must, un’icona assoluta».
Pio: «La camicia con gli ananas è il mio pezzo forte perché fanno dimagrire».
Amedeo: «Se li mangi, non se li indossi».
Pio: «La pelliccia bianca l’abbiamo trovata a Mediaset, forse era di Pamela Prati.
Amedeo: La nera era il visone di mia madre, con la tasca bucata e le palline di naftalina. Per comprarlo ci fu un G8 tra parenti, andarono in 12».
Prodezze di cui siete fieri.
Pio: «Francesco Totti con il capitone in mano, Maria De Filippi sul divano in ciabatte».
Amedeo: «Avere insegnato a sputare a Valentino Rossi».
Pio: «Io porto al polso l’orologio di Alvaro Morata».
L’orecchietta che vi ha tatuato sul braccio Mike Tyson ce l’avete ancora?
Amedeo: «Certo che sì».
Avete osato spettinare la frangetta di Antonio Conte.
Amedeo: «Fissato con il lavoro, però ha un lato tenerone e con noi si lascia andare».
Le vittime non insorgono?
Pio: «Il ricco in fondo si diverte, è uno scossone alla monotonia della vita».
I parenti si vergognano?
Amedeo: «Sono peggio di noi, le nostre mamme, in crociera pagata da Graziano Pellè, tutto compreso tranne le bevande, sono partite con due casse di minerale».
Come riuscite a farvi prendere sul serio dai figli?
Amedeo: «I miei vogliono scappare di casa».
Pio: «Io alla mia ho detto che sono lo zio».
Pio e Amedeo contro tutti e tutto. E la loro comicità fa del bene. L'epilogo di Emigratis, il programma comico di Pio e Amedeo, è stato nel segno della beneficenza. Le donazioni ricevute dai vip incontrati in giro per il mondo hanno consentito la realizzazione di nuovi pozzi d'acqua in Kenya. Novella Toloni su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.
Elisabetta Canalis, Marvin Vettori, Adriano Leite Ribeiro, Felipe Massa e poi lui, il re della boxe mondiale, la leggenda Mike Tyson. L'ultima puntata di "Emigratis - La resa dei conti", il programma irriverente di Pio e Amedeo, ha messo in fila uno dietro l'altro una serie di personaggi, che si sono prestati alle gag e all'ironia del duo pugliese più impudente della storia della televisione italiana. Tra battute, sfottò e intermezzi trash alla fine Emigratis si è chiuso con un risvolto inatteso e benefico e i conti, quelli veri, sono stati fatti.
Già, perché Pio e Amedeo hanno fatto sorridere (molti), arrabbiare (qualcuno) e vergognare tanti vip e in un clima di crescente ostracismo sono andati controcorrente con la loro comicità perché "la vera differenza è la cattiveria e oggi bisogna poter scherzare su tutto, perché il problema non è linguaggio". Lo dissero a Felicissima Sera e lo hanno ribadito anche nel corso delle quattro puntate di Emigratis, tenendo la scena con la loro satira irreverente contro i perbenisti, i radic chic e la cultura della cancellazione, dove ogni parola è pretesto per polemizzare.
Alla fine della fiera Pio e Amedeo hanno scroccato di tutto ai volti noti incontrati in ogni angolo del mondo, ma hanno anche raccolto migliaia di euro che hanno devoluto ai progetti in Africa portati avanti dall'associazione Amref. Dopo avere pranzato con Elisabetta Canalis a Los Angeles, brindato a base di champagne con Felipe Massa e dopo essersi tatuati sul corpo un'orecchietta con Tyson (al quale hanno donato persino la tigre senza orecchie, sfidando la sorte) Bufalino e Messicano - i due scrocconi interpretati nel programma - sono volati in Africa, in Kenya, per fare la loro donazione con il loro solito sarcasmo.
"Perc... il reddito di cittadinanza, a noi serve": la folle polemica contro Pio e Amedeo
"Non è che il problema dell'Africa lo possiamo risolvere noi ora. Abbiamo fatto quello che potevamo fare, cose che vi faranno avere un futuro migliore", hanno detto al gruppo di bambini accorsi a salutarli al loro arrivo e lanciando spray antizanzare e palette ammazza insetti. Salvo poi indossare t-shirt con il volto di Moana Pozzi e festeggiare gli omonimi pozzi realizzati con i soldi raccolti. Perché sì, si può anche scherzare su chi non c'è più se le intenzioni sono le migliori. Con buona pace dei criticoni (e dei fautori del politically correct).
Pio e Amedeo, «Emigratis» e la pigrizia a rinnovarsi. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2022.
Se lo stesso canovaccio si ripete per anni bisogna essere artisti sublimi per fare musica con una sola nota
Su Canale 5, sotto la tutela «morale» di Maria De Filippi, avrebbero dovuto fare un salto, se non di qualità almeno di novità. E invece Pio e Amedeo continuano a fare sé stessi, a ripetere la stessa gag all’infinito (scroccare qualcosa), a recitare la parte dei cafoni. All’inizio delle loro apparizioni televisive, una proposta fondata esplicitamente sulla scorrettezza, sull’esagerazione, sulla maleducazione poteva piacere. In «Emigratis» (emigrati «a gratis») i due giocavano a fare i villani, i malvestiti, gli incivili, redarguiti di continuo da una voce fuori campo (Francesco Pannofino). Il tutto montato con cura, ovviamente, riservando alla postproduzione il compito di ricostruire un filo narrativo. Ma se lo stesso canovaccio si ripete per anni bisogna essere artisti sublimi per fare musica con una sola nota.
E poi, mi riferisco alla puntata di Miami, se gli interlocutori sono Gianluca Vacchi, Raffaella Zardo (la ricordate? Era la meteorina di Emilio Fede, ora organizza eventi), Marco Mazzoli (quello dello «Zoo di 105»), Andrea Damante (ex tronista), la figlia di Raf tutto sa di combinato, di messinscena. Non c’è niente di più triste della finta spontaneità, del saccheggio di negozi preordinato, dei pranzi a scrocco con la telecamera che riprende tutto. Poi hanno incontrato anche Fabio Fognini e Matteo Berettini (mercoledì ha perso malamente e vede allontanarsi ancora di più il sogno Finals. Colpa di Pio e Amedeo, il Bufalone e il Messicano?). Insomma, se non si rinnovano (il che mi pare difficile visto anche il modesto esito cinematografico con la regia di Gennaro Nunziante), c’è il rischio che tutto quello che prima faceva ridere ora si ritorca loro contro. Quello che è inspiegabile è perché Mediaset li abbia trasferiti da Italia 1 a Canale 5. Ma forse, con il Grande Fratello Vip di Alfonso Signorini tutto è comprensibile.
Il duo comico più eversivo della televisione italiana arriva in prima serata su Canale 5 con una nuova stagione di Emigratis. A Panorama parlano di politici, elezioni e del nuovo modo di fare tv con toni felicemente dissacranti. E, soprattutto, divertenti. Pio e Amedeo: «Il politically correct? E chissene...» Maurizio Caverza su Panorama il 10 ottobre 2022.
Sono la forza dell’ignoranza: una cosa molto studiata. Stavolta, Pio (D’Antini) e Amedeo (Grieco) da Foggia, il duo comico più eversivo della televisione italiana, interpretano Bufalone e Messicano, due personaggi creati per poter dire quello che vogliono. Come in quest’intervista, in cui rispondono come una persona sola.
In quattro episodi su Canale 5 il programma Emigratis va a Londra, Napoli, Dubai, Las Vegas: è il giro del mondo del politicamente scorretto?
Esatto. Ormai si stava esagerando, siamo arrivati al punto che il principe non può più baciare Biancaneve. Per dei comici che vogliono alleggerire la vita degli italiani, il politicamente corretto è rischiosissimo.
Perché?
Per mezza parola c’è subito qualcuno che si offende. Ogni giorno si sveglia un influencer e decide quello che si può e non si può dire. Se poi uno appartiene a una comunità…
O a una minoranza…
Noi terroni lo siamo da sempre, ma non ci piangiamo addosso, ci intrufoliamo... Il segreto è fregarsene degli haters e dei social che sono il vero Metaverso. Sì, l’invenzione di Bufalone e Messicano è una paraculata, ma è la risposta giusta a tutte queste costrizioni.
Da dove avete seguito la campagna elettorale?
Nella sala di montaggio di Cologno Monzese abbiamo visto le performance dei politici sui social.
Chi vi ha divertito di più?
La punta più alta è stata il volo di Luigi Di Maio nella pizzeria di Napoli.
Chi è la figura più comica di queste elezioni? Tutti i politici fanno i simpatici. Silvio Berlusconi è un genio della comunicazione, come si è visto su TikTok. E nella guerra alle mosche... Ha riflessi pronti nonostante l’età. Il fatto che non sia insorto qualche animalista è già un passo avanti.
Enrico Letta? Lui non sta simpatico nemmeno ai suoi elettori.
Emigratis in prima serata su Canale 5 è una consacrazione?
La consacrazione c’è stata con Maria De Filippi e Felicissima sera. Una consacrazione confermata dalla crescita degli ascolti dopo la prima puntata. Vogliamo capire se Emigratis può abbracciare un target più ampio, pur con il suo linguaggio veloce e i sottotitoli. Non è scontato che, siccome ha funzionato su Italia 1 debba farlo anche su Canale 5. Il pubblico va sempre rispettato, perciò abbiamo concepito lo show con una trama che aiuta a incollarsi alla storia.
È uno Scherzi a parte on the road?
È difficile definire il genere. Non è una fiction, non è un reality, non è un varietà costruito. È tutto vero, lo scrocco è vero, l’imbarazzo è vero, la telecamera è nascosta. Viene in mente Nanni Loy. Il paragone ci lusinga, ovviamente. Ma la nostra è un’evoluzione della candid camera perché le vittime non vedono la telecamera, ma sanno che da qualche parte c’è.
Il momento clou della seconda puntata?
Il nostro approdo in diretta sulla Bbc.
Voi alla Bbc è l’attrazione degli opposti.
È il nostro format. Due buzzurri in contesti super lussuosi, due sfigati che ci provano con le donne e non ci riescono mai o quasi mai, e fanno tenerezza come i perdenti dei film. Gli italiani di solito ce la fanno per il rotto della cuffia. La differenza dalle altre stagioni è che quest’anno non sempre ce la facciamo.
La vittima che vi ha divertito di più?
Mike Tyson. Dovevamo stare con lui pochi minuti e abbiamo finito per fare insieme una notte da leoni. La serie inizia e finisce con lui, con una sorpresa. E quella che vi ha impietosito di più? Il cinismo di Bufalone e Messicano non ha limiti. Emigratis è un tentativo di livellamento sociale. Andiamo a rubare nelle case dei ricchi per conto di quelli del popolo.
Come dei Robin Hood travestiti?
Dai Blues Brothers italiani, come qualcuno ci ha definiti, a Robin Hood il passo è breve.
Avete mai provato a mettere in mezzo Fiorello?
No, perché è sempre in Italia. E siccome siamo amici ci dispiacerebbe togliergli dei soldi. Ma mai dire mai.
Sono davvero situazioni non concordate?
La maggior parte sì, sanno che arriviamo, ma non cosa facciamo. Soprattutto i calciatori non sanno come comportarsi. Improvvisiamo, non c’è un copione scritto, tranne le «voice over» recitate da Francesco Pannofino, che però scriviamo dopo il montaggio.
Si arriva a suonare alla porta di Mike Tyson senza accordarsi con l’agente, la sicurezza, l’ufficio stampa?
O ad agganciare Neymar che ha appena firmato il nuovo contratto con la Nike di non so quanti milioni... Uno come lui per concedere 20 frame della sua immagine deve parlare con dieci persone. Se però conosci Marco Verratti e lui fa da intermediario... Tyson ha un’agente italiana nostra fan, e quindi... Molti dei calciatori che abbiamo agganciato erano rappresentati da Mino Raiola. Sua moglie è di Foggia... Ogni personaggio ha un avvicinamento diverso, il lavoro è come arrivarci, scalare «i 6 gradi di separazione».
Perché la serie è sottotitolata La resa dei conti?
Perché dopo quattro anni di assenza questo può essere un ultimo atto, vedremo. In più i conti sono anche dei ricchi nobili che, quando ci vedono, si arrendono. Infine, siamo sempre lì a contare il frutto dello scrocco, facendo i conti in tasca ai conti.
Un altro filo conduttore della serie è l’ecosostenibilità?
Bufalone e Messicano sono partiti dall’aumento dei costi dei consumi e dal rincaro delle bollette, ma il loro obiettivo è salvare il mondo. Perciò siamo andati a Londra e all’Expo di Dubai, dove si parla di consumi ed energie rinnovabili. E dove abbiamo scoperto che l’ecosostenibilità è pure lei un business.
L’ecosostenibilità è sopratutto marketing?
Lo vediamo nella moda usa e getta. Tanti grandi marchi si celano dietro il green, la nuova politica ecologista che, stringi stringi, è un circo messo su per pulirsi l’immagine ma, sotto sotto, è un affare. La moda cheap alimentata dai social e dagli influencer serve a questo. Una volta c’erano l’abito da lavoro e quello della domenica, adesso bisogna cambiarsi più volte al giorno per essere all’avanguardia. L’espansione delle produzione di abbigliamento, soprattutto dei capi di largo consumo pieni di fibre artificiali, fa male all’ambiente. Se lo capiscono due buzzurri come noi, lo possono capire anche i ragazzi che affollano i grandi magazzini.
L’ultimo vostro film s’intitolava Belli ciao, avete visto cos’è successo a Laura Pausini?
Come fai sbagli. Se invece di rifiutarsi avesse cantato Bella ciao l’avrebbero attaccata quelli della parte avversa. Nessuno si è chiesto cosa voleva dire il suo rifiuto. Cantare Bella ciao è il green pass di artisti e attori? Se non la canti quasi non sei un vero artista. È come una patente. Usare il piedistallo dell’artista per manifestare il proprio orientamento è da presuntuosi. Pensiamo che sia corretto informarsi e affidarsi a chi ne sa di più. Gli artisti non facciano i politici e viceversa. La gente paga il biglietto per vedere il nostro candore, altrimenti si rivolgerebbe a qualche influencer.
Se Messicano e Bufalone dovessero tendere degli agguati ai politici da chi comincerebbero?
Con alcuni sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Se vai adesso da Di Maio lo trovi nella sua cameretta ad ascoltare la Pausini.
Mai pensato di mettere in mezzo qualche conduttore di talk show?
No. Però abbiamo fatto un patto: se, per vendicarsi, qualche vittima ammazzerà uno di noi, il superstite dovrà portare il plastico a Bruno Vespa.
Cinema e tv, i sogni realizzati di Pippo (Santonastaso). Francesco Mattana il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Mutuando lo slogan del suo scopritore Marcello Marchesi, il quale diceva "Con quella bocca può dire ciò che vuole", per Pippo Santonastaso si può coniare "Con quella faccia può divertire quando vuole".
Mutuando lo slogan del suo scopritore Marcello Marchesi, il quale diceva «Con quella bocca può dire ciò che vuole», per Pippo Santonastaso si può coniare «Con quella faccia può divertire quando vuole».
Ottantacinque anni, in linea teorica, è età di pensionamento, ma la «vecchia canaglia», come da titolo di una sua recente prova cinematografica, ben lungi dal parcheggiarsi in quella panchina che fu oggetto di scena di uno degli sketch col fratello Mario, suo sodale in scena, ha pubblicato un libro di memorie intitolato Voglio fare l'attore (Edizioni Pendragon). Un'infanzia, durante la guerra, fatta di privazioni, ma c'era allegria in quella famiglia, capitanata da un padre giocherellone e da un ramo materno con trascorsi nel cinema muto. Galeotto fu un magnetofono, che il papà comperò firmando parecchi cambiali, per esercitare la sua verve artistica. Pippo ancora non lo sa, in quell'inverno del 1950, che era destinato a far ridere tutta la città ma apprese, cammin facendo, che dopo la sua città (prima Levanto in riviera ligure, poi Bologna) avrebbe riso tutta Italia. La prima occasione d'oro, per lui e per Mario, fu un programma ideato da Marchesi. Da lì, i teleutenti si affezionarono a un umorismo che sembrava venuto dalla luna e difatti, in una delle loro scenette, ribaltavano l'epica di Neil Armstrong, raccontando di un astronauta che doveva scansare le deiezioni della cagnetta Laika dispersa nello spazio... Memorabili le gag mute come quella della panchina in cui, anticipando Ale e Franz, c'era uno che tediava un altro, a cui però si aggiungeva una pulce ballerina, le cui acrobazie nell'aria scompigliavano.
Il duo, di fatto, si è separato solo con la scomparsa di Mario un anno fa, ma entrambi hanno dato grandi prove da singoli e Pippo, nella fattispecie, ha fatto tanto cinema e televisione oltreché operetta, ritagliandosi caratteri su misura in classici tipo Al cavallino bianco e La vedova allegra. Curiosamente, questo libro langue di aneddoti per quanto concerne le sue esperienze nel cinema brillante, lasciando più spazio alla narrazione degli affetti più intimi. Avrebbe fatto piacere scoprire qualche dietro le quinte delle sue partecipazioni ai film con Adriano Celentano, Paolo Villaggio, Lino Banfi, ma non è da escludere che sia una strategia. Pippo lo sa che c'è tempo per scrivere un'altra autobiografia. Francesco Mattana
· Peter Gabriel.
Peter Gabriel, il genio senza fretta che torna con un disco di inediti dopo 20 anni. Gianni Poglio su Panorama l’8 Dicembre 2022.
Come voglio, quando voglio: è questo lo stile libero di un artista che non ha mai avuto il calendario del music business come punto di riferimento. Dal vivo in Italia il 20 e 21 maggio L'ultimo disco di canzoni inedite Up, risale al 2002, l'ultimo tour, in compagnia di Sting, ha attraversato gli Stati Uniti nel 2016. Peter Gabriel non è mai stato "posseduto" dal demone della fretta, della necessità a tutti i costi di pubblicare dischi e annunciare tour. Dopo aver chiuso con i Genesis, Gabriel si è lanciato in una carriera solista fatta di album e spettacoli live formidabili. Tra il 1977 e il 1982 ha pubblicato quattro album, seguiti dal leggendario disco dal vivo Plays Live.
Poi si è preso una pausa consistente per realizzare con il produttore e musicista Daniel Lanois, So, il suo disco più popolare, un album praticamente perfetto con brani eccezionali come Sledgehammer, Red Rain, Don't give up (con Kate Bush) e poi ancora In Your Eyes e Big Town. Ci sono voluti altri sei anni per arrivare nel 1992 ad un'altra perla della sua discografia, ovvero Us, un album incentrato sulle relazioni umane, splendido quanto raffinato, popolato da pezzi indimenticabili. Da Come Talk To Me a Blood of Eden (con Sinead O'Connor) , Steam e la title track. Eccellente come sempre il team di uscisti che lo accompagna: Tony Levin al basso, David Rhodes alla chitarra, Manu Katchè alla batteria e Brian Eno alle tastiere in Love to be Loved. Segue uno dei più intensi tour di sempre, immortalato sull'album Secret World Live, testimonianza sonora di uno show spettacolare, futuristico e tecnologicamente avanzatissimo. Tra Us (1992) e Up, trascorrono dieci anni. Up esce nel settembre del 2002 dopo un lunghissimo periodo di gestazione. Ampiamente sottovalutato nelle recensioni, l'ultimo album di canzoni inedite di Gabriel è invece un disco di grande spessore caratterizzato da mini suite ispiratissime come Darkness e Signal To Noise (presente nella colonna sonora di Gangs of New York e con la partecipazione del musicista e cantante pakistano Nusret Fateh Ali Khan). Nel 2010 viene pubblicato Scratch my back, un album di cover che include tra le altre Heroes di Bowie, Philadelphia di Neil Young e Street Spirit (Faye Out) dei Radiohead. Nel 2011 è a volta di New Blood in cui Gabriel rilegge in chiave orchestrali alcuni brani della sua storia solista. Qualche settimana fa, dopo un lungo silenzio, è finalmente arrivata la notizia di un nuovo tour europeo con due date in Italia (il 20 e 21 maggio a Verona e Milano). Durante lo show verranno presentati alcuni brani tratti dal nuovo disco (di cui non è nota la data di pubblicazione) intitolato i/o.
ALBERTO MATTIOLI per ilfoglio.it l'1 settembre 2022.
Povero Placido Domingo. Torna all’Arena di Verona per una due giorni glorificatoria che si conclude in catastrofe sia per il Topone cantante che per il Topone direttore d’orchestra (sì, nell’ambiente è soprannominato così, non chiedetemi perché). Chi scrive non c’era, per fortuna, ma fonti fededegne riferiscono di un Domingo duale ma egualmente disastroso. Come baritono, era tutta un’afonia e un’amnesia, in una serata di spezzatino verdiano con un atto di Aida, uno di Simone e uno di Macbeth, finché dagli altoparlanti non è arrivato l’annuncio liberatorio che stava male e, in scena, un Macbetto di riserva.
Come direttore, ha mandato a scatafascio Turandot, tanto che l’Orchestra dell’Arena per protesta non si è alzata quando agli applausi finali, che pure ci sono stati, Domingo l’ha invitata a farlo: bacchettata la bacchetta, insomma. Sono seguiti un comunicato delle femministe locali (per pregressi scandali sessuali) e uno della Cgil, entrambi molto critici con il diretto interessato e la Fondazione Arena, cui sovrintende l’unica sorella d’Italia competente piazzata in un ruolo di responsabilità culturale, l’ex soprano Cecilia Gasdia, a sua volta in attesa di rinnovo del mandato da parte del neosindaco di sinistra di Verona, il pio ex calciatore Damiano Tommasi. E avanti con gli articoli in cui si scopre che Domingo ha 81 anni e sarebbe ora che si ritirasse.
Fin qui la cronaca. Tre premesse prima del commento. Prima: Domingo in realtà non è nato nel 1941 come dice e come ha anche fatto incidere sulla lapide della casa natìa, a Madrid, ma qualche annetto prima, con precisione non si sa perché la sua vera data di nascita rimane il segreto meglio custodito della lirica mondiale. Seconda: sul #metoo che l'ha pesantemente coinvolto sorvoliamo, perché è stato sbattuto fuori dai teatri americani senza che ci fosse non dico una condanna penale, ma nemmeno un'indagine. Terza: sì, effettivamente sarebbe meglio che si ritirasse, e se non lo decidesse lui, nei secoli fedele al suo motto "If I rest, I rust", se mi fermo arrugginisco, dovrebbe deciderlo per lui la sua corte di familiari e agenti. Ma il Topone, evidentemente, dispensa ancora delle uova d'oro.
Detto questo, soltanto chi non sa di cosa sta parlando può pensare che ci sia qualche motivo artistico per interessarsi alle esibizioni di Domingo. A ottantuno e forse più anni, semplicemente, non si canta: né da tenore qual era, e grandissimo, né da baritono quale non è mai stato e nemmeno da basso quale magari diventerà. Le amnesie non sono certo una novità: nel 2017, nel Tamerlano di Händel alla Scala, andò in bambola durante un lungo recitativo secco, cantò "Oh, la mia testa!" e si buttò a terra (sensazione generale: in platea, si svegliarono dall'abituale torpore perfino i più stagionati reperti assiro-milanesi). E come direttore ha sempre diretto male, o almeno non bene.
Se si va ancora a vedere Domingo non è per ragioni musicali, ma sentimentali, non prive di una certa componente necrofila (come sarà messo? Morirà in scena?). E' come la Regina Elisabetta: indipendentemente da quel che fa, gli si è affezionati perché c'è sempre stato e, si direbbe, sempre ci sarà. L'eternità del Topone ci dà l'illusione della nostra. E poi l'abbiamo troppo amato per criticarlo.
Per la sua statura artistica, quando nell'ultimo atto di Otello faceva piangere tutta la Scala, ma anche per il suo modo aristocratico e scanzonato di porsi, la sua sprezzatura ironica e un po' cinica, il suo saltabeccare in jet privato da una recita all'altra, in una bulimia di successo, di fama, di donne, di soldi così sfacciata da risultare innocente: cialtrone talvolta, grande artista spesso, signore sempre. Com' è futile, peggio: feroce, scoprire oggi che non ha più voce e nemmeno memoria, se l'unica memoria che ci interessa non è la sua, ma la nostra, quella del tempo che fu, quando la sua voce faceva la magia di esprimere quello che tutti sentiamo. E' finito? Sai che notizia. Ma perché infierire?
Lo dice anche padre nostro Verdi per interposto Monterone: "Slanciare il cane al leon morente è vile" ( Rigoletto , atto primo, scena sesta).
"Meglio smettere di cantare a una certa età": la Ricciarelli stronca Placido Domingo. La cantante lirica ha detto la sua sulla recente direzione di Placido Domingo criticato da orchestrali e coristi e ha invitato la Fondazione veronese a rivedere il galà dedicato al tenore. Novella Toloni l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.
Le due serate di Placido Domingo all'Arena di Verona continuano a fare discutere. La lettera di protesta del sindacato Slc Cgil, che ha dato voce alle maestranze, ai professori d'orchestra e agli artisti che sono andati in scena con il tenore, ha aperto un vero e proprio caso su Domingo, sul quale oggi è intervenuta anche Katia Ricciarelli, voce lirica d'eccellenza nel panorama internazionale.
Il direttore d'orchestra Placido Domingo avrebbe mostrato evidenti incertezze vocali e amnesie sia nella serata Opera Verdi Night sia in quella della Turandot e la plateale protesta messa in atto dai musicisti a fine spettacolo - che si sono rifiutati di alzarsi per raccogliere gli applausi al direttore da parte del pubblico - è stata il culmine di una serata definita dai sindacati "pessima e umiliante".
"Tutti i cantanti dovrebbero smettere di cantare a una certa età", ha detto senza giri di parole Katia Ricciarelli, parlando di questione fisiologica: "Le corde vocali sono muscoli che, con l'età, non funzionano più come una volta. Per questo non faccio più opera: non voglio rischiare". Dopo oltre mezzo secolo di carriera, alla soglia degli 82 anni - che il tenore compirà il prossimo gennaio - Domingo, secondo la Ricciarelli, dovrebbe fare un passo indietro e dedicarsi a altro. Un piano b, fatto di film, teatro e televisione, è quello sul quale lei ha puntato e che potrebbe essere nel futuro anche del direttore d'orchestra madrileno.
Placido Domingo, molestie e abuso di potere: "Accetto la piena responsabilità per le mie azioni"
"Siamo creature del pubblico e dobbiamo accettare il giudizio che ci viene dato - ha dichiarato Katia Ricciarelli intervistata dal Corriere del Veneto - Ci vuole autocritica". La soprano, però, non ha mancato di sottolineare un fatto avvenuto nella carriera di Domingo, che ha segnato un cambiamento importante, che potrebbe averlo penalizzato: "Lui è sempre stato un grande tenore: perché diventare baritono negli anni? È qualcosa che non capisco".
Dopo il flop delle due serate veronesi, il dibattito ora si è spostato sul prossimo appuntamento che lo vedrà protagonista all'Arena, il galà a lui dedicato in programma nel 2023. I sindacati e gli artisti hanno chiesto che la sua presenza venga "rivista" e che la serata si trasformi in un omaggio a Domingo piuttosto che una nuova esibizione, sui quali le maestranze nutro dubbi. E la Ricciarelli ha sposato la stessa visione: "Se Placido Domingo è già stato inserito nella programmazione 2023, quel galà potrebbe trasformarsi in un tributo con ospiti che raccontano momenti della sua carriera. Detto questo, ognuno è libero di fare quel che vuole". Per capire cosa succederà a Verona il prossimo anno, però, ci sarà da aspettare ancora un po'.
Pierachille Dolfini per “Avvenire” il 4 settembre 2022.
«Non ci sono scusanti». Non usa giri di parole Placido Domingo nella lettera inviata al presidente della fondazione Arena, il sindaco di Verona Damiano Tommasi, e al sovrintendente e direttore artistico Cecilia Gasdia nella quale esprime «un dispiacere grande tanto quanto l'amore che porto nel cuore per l'Arena» per l'esito delle due serate che la scorsa settimana lo hanno visto protagonista nell'anfiteatro veronese.
Una lettera che sarà consegnata oggi all'orchestra e che siamo in grado di anticiparvi, nella quale l'81enne musicista spagnolo fa autocritica sulle sue esibizioni prima come interprete del Verdi gala night (ma nell'ultima parte il tenore che ora canta da baritono, che subito era apparso non in serata, ha dovuto rinunciare a cantare per un improvviso abbassamento di voce) e poi sul podio per dirigere Turandot di Puccini (chi c'era racconta di alcuni passaggi difficili nel terzo atto).
«Sono consapevole che il livello della mia prestazione artistica per le serate del 25 e del 26 agosto non è stato all'altezza delle mie e delle vostre aspettative» scrive Domingo nella lettera che ha voluto inviare, tramite la Gasdia all'orchestra che agli applausi finali al termine della recita di Turandot e non avevano voluto alzarsi in piedi. Un atteggiamento spiegato in una lettera inviata alla sovrintendenza dalla Slc Cgil.
Una posizione che ha avuto eco mediatico (insieme alle cronache della serata) e che ha visto molti, specie sui social, dire che per Domingo è tempo di ritirarsi. In questo scritto il musicista prova a spiegare le sue ragioni.
«Per stare sul palcoscenico e ancora di più sul podio la concentrazione è fondamentale. Purtroppo in quei giorni a Verona ammetto di essere stato molto provato» spiega Domingo il cui nome di recente è comparso nelle intercettazioni di un'inchiesta (che però non lo vede indagato) su una setta criminale argentina accusata di tratta e sfruttamento sessuale di giovani donne.
«Ho confidato fino all'ultimo che l'energia positiva di una Arena gremita e di tutti i suoi lavoratori potesse darmi la forza di portare avanti queste due serate, dove ho comunque cercato di dare il massimo per il pubblico, giunto in gran parte da molto lontano, e per il rispetto che sento verso tutti coloro che hanno lavorato per creare uno spettacolo nato appositamente per me».
Domingo ringrazia i coristi, i ballerini, le sarte, gli addetti a trucco e parrucco e tutti i tecnici di ogni settore. Ma soprattutto ringrazia «i professori tutti dell'orchestra, in particolare coloro che non si sono alzati agli applausi finali della Turandot: amano il loro lavoro e amano l'Arena e credo sia questo che hanno voluto significare con il loro gesto. Un gesto che, non lo nascondo, mi ha molto ferito, ma da musicista sento che è stato un atto di rispetto verso lo standard artistico che l'Arena rappresenta. Con la vostra professionalità mi avete sostenuto in una serata nella quale ero davvero in difficoltà, tutti protesi verso l'obiettivo di una resa musicale degna della fama della vostra meravigliosa Arena».
Dagonews il 6 settembre 2022.
C’è qualcosa di stonato nella valanga di inviti a ritirarsi rivolti dai giornali italiani a Plácido Domingo, ufficialmente nato a Madrid il 21 gennaio 1941, ma in molti sostengono qualche anno prima. L’atto di nascita è andato perduto fomentando la leggenda. Comunque, a quasi 82 anni (forse cinque in più), con moglie, figli, nipoti e una valanga di iniziative potrebbe darsi a quelle senza appannare la straordinaria carriera.
Ma, si sa, sono in molti a non riuscire a smettere e temere l’horror vacui e, tra questi, vanno annoverati più o meno tutti i giornalisti e commentatori che negli ultimi giorni, specie dopo il flop di Verona, hanno scritto articoli invitando Domingo a smettere “perché è venuta l’ora”.
Lo scrittore Ferdinando Camon (Urbana, 14 novembre 1935) giovedì primo settembre 2022 tuona dalle pagine di “Avvenire”, dove non cessa di inviare pezzi alla redazione Cultura: “Deve ritirarsi. Ma sarebbe stato meglio se si fosse ritirato prima”.
Per una volta “il Giornale” e “Il Fatto quotidiano”, quasi sempre di opposto parere, sono d’accordo. A unirli è Katia Ricciarelli (Rovigo, 18 gennaio 1946) che interviene consigliando a Domingo di smettere (“Ad una certa età meglio smettere”). Esatto, peccato che l’abbiamo vista l’anno scorso protagonista in tv nel “Grande Fratello vip”: appanna maggiormente la carriera Domingo in Arena o la Ricciarelli che canticchia nell’arena del Grande Fratello?
Al Corriere, a scrivere due articoli è la giornalista Giuseppina Manin, in pensione da circa dieci anni ma incapace di lasciare la “penna” ai più giovani: “Domingo, l’incapacità di dire basta”, appunto, basta. Simile “La Stampa”, dove il 31 agosto a parlare del “Tragico Domingo, fine di un mito” è Egle Santolini, anch’essa collaboratrice in pensione.
Il primo settembre, su “la Repubblica”, interviene Francesco Merlo (Catania, 8 aprile 1951), anche lui formalmente in pensione da anni, ma editorialista: “più la voce è stata grande più merita il riposo”. Amen. Sebbene, va detto, Merlo stigmatizzi, giustamente, la mancanza di rispetto verso una leggenda.
Insomma, visto da che pulpito vengono le prediche a Domingo non resta che continuare in buona compagnia, almeno in Italia, di giornalisti, scrittori e portieri come Buffon…
Che brutta quella gogna mediatica contro Placido Domingo. Il caso del il tenore spagnolo contestato da musicisti e femministe. “Lungi dal voler condannare” è la sofisticata versione in chiave giustizialista del sempreverde “non sono razzista ma...” Daniele Zaccaria su Il Dubbio l'1 settembre 2022.
Tutti contro Placido Domingo, dai sindacati dei musicisti alle femministe di Non una di meno, per ragioni diverse, ma con la stessa intensa determinazione. In scena all’Arena Verona con la Turandot, il tenore spagnolo è stato preso di mira dall’incredibile contestazione degli orchestrali che sono rimasti seduti durante gli applausi a fine esibizione. Mai visto prima.
«Non è più all’altezza della sua fama», sostengono in un imbarazzante comunicato a firma Slc-Cgil che critica la performance mediocre dell’artista, lo scarso impegno nelle prove e l’approssimazione dello spettacolo. «Ci siamo sentiti umiliati!», spiegano. Con grande senso del tempismo su Domingo si sono scagliate anche le femministe, bacchettando il neosindaco Damiano Tommasi (che è anche presidente dell’ente lirico) per averlo invitato al Gala dell’Arena. Tra il 2019 e il 2020 Domingo è stato accusato di molestie sessuali da alcune donne ed è indagato per la presunta affiliazione a una setta argentina responsabile della tratta di giovani ragazze. Il fatto che nessun tribunale lo abbia ancora ritenuto colpevole delle accuse che gli sono rivolte sembra un fastidioso dettaglio: «Lungi dal voler condannare chicchessia prima della conclusione delle indagini , siamo costernate per questa scelta incomprensibile e grottesca», si legge nella lettera che Non una di meno ha scritto all’amministrazione scaligera.
“Lungi dal voler condannare” è la sofisticata versione in chiave giustizialista del sempreverde “non sono razzista ma…”, ovvero una premessa ipocrita e farisaica che serve a colpire il mostro di turno e a consumare l’ennesimo processo mediatico a furor di popolo. Se non altro la sinistra dei diritti sociali e del lavoro e quella progressista dei diritti civili si ritrovano per un giorno fianco a fianco, nel nome dell’ umiliante crociata contro un signore di 81 anni che forse non canterà più bene come una volta, ma che resta innocente fino a prova contraria.
Marianna Peluso per corriere.it il 30 Agosto 2022.
È stato un flop, quest’anno, Placido Domingo in Arena. A decretarlo non è stato solo il pubblico presente al «Verdi Opera Night» del 25 agosto, deluso dalle ripetute amnesie dell’artista durante «Macbeth» e dalla sua uscita di scena prima del finale giustificata da un «improvviso abbassamento di voce», ma anche dai musicisti e professionisti del settore che reputano «una debacle totale le due serate dedicate a Placido Domingo, il «Verdi Opera Night» e la «Turandot» diretta dallo stesso artista» la sera successiva.
Questo è quello che si legge in una nota del Slc (Sindacato Lavoratori della Comunicazione) Cgil Verona del 29 agosto sulla Fondazione Arena. «A dire il vero – si legge a seguire — l’esito delle serate, viste le imbarazzanti prove, era stato previsto e denunciato dagli stessi artisti del coro, professori d’orchestra e tecnici di palcoscenico, i quali avevano subito capito che Domingo non era all’altezza della sua fama e del compito affidatogli da Fondazione Arena di Verona.
Il risultato delle due serate è stato pessimo e soltanto la professionalità delle maestranze artistiche e tecniche di Fondazione Arena ha permesso che l’evento non si tramutasse in un gigantesco fallimento. Nella «Turandot» (opera impervia, tanto più se non vengono fatte le dovute prove) tutte le maestranze si sono sentite abbandonate a loro stesse in più di un’occasione, rischiando più volte di andare tutti gambe all’aria.
A conferma di ciò, c’è stata una protesta dell’orchestra che, consapevole della mediocrità dello spettacolo appena terminato, ha rifiutato di alzarsi in piedi al consueto segno del direttore che li invitava a prendere gli applausi. Molti professori d’orchestra e artisti del coro non hanno dubbi: quella del 26 è stata una delle serate più umilianti per tutto il settore artistico».
Il nome di Domingo, da oltre cinquant’anni nei cartelloni areniani, è probabilmente più una scelta commerciale che artistica, dato che continua a catalizzare l’attenzione. «L’integrità della persona non ha prezzo, non può essere barattata con compensazioni economiche», sono le parole della lettera aperta inviata, giovedì scorso, dalle associazioni femministe e femminili di Verona al sindaco Tommasi, in qualità di presidente dell’ente lirico, chiedendo esplicitamente di cancellare il nome dell’artista madrileno dal cartellone dell’anno prossimo, alla luce dei reati per cui è indagato.
«A nostro parere, merita di più anche il pubblico – è la conclusione della nota sindacale, nutrita da una proposta costruttiva —. Auspichiamo che la direzione artistica ripensi all’organizzazione del Galà Domingo 2023. A nostro avviso sarebbe opportuno annullarlo (anche alla luce degli scandali degli ultimi anni), ma se pretendere questo è troppo, pensare di organizzarlo come tributo a Domingo, senza che egli ne sia principale protagonista, è una richiesta da prendere in seria considerazione».
Placido Domingo, le ragioni di un declino: le molestie sessuali, la voce scomparsa, l’incapacità di dire basta. Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.
Il tenore reduce da un fiasco all’Arena di Verona avrebbe più motivi per ritirarsi.
Due serate da dimenticare. Meglio, da non ripetere mai più. Atteso all’Arena di Verona per cantare in un gala verdiano e per dirigere un’opera, Turandot, Placido Domingo è entrato nell’anfiteatro romano da leggenda della lirica e ne è uscito come un mito infranto. Preceduto dalle accuse di un suo presunto coinvolgimento in una setta argentina che forniva dietro cospicui compensi schiave sessuali, Domingo non si è tirato indietro. Sfidando le polemiche, le richieste di annullamento, il caldo, gli acciacchi dei suoi 80 e più anni (quanti esattamente resta un mistero) ha voluto onorare l’impegno con il teatro dove è di casa da oltre mezzo secolo, dove aveva trionfato con Don Carlo, Turandot, Manon Lescaut.
Ma stavolta è bastato che comparisse alla ribalta per capire che il leone di un tempo non c’era più. Al suo posto un anziano signore malfermo, bisognoso di sostegno, dall’aria un po’ spaesata. Una fragilità rispecchiata anche dalla voce. La sua voce meravigliosa, per decenni sfolgorante da tenore poi capace di reinventarsi nelle tonalità brunite del baritono, ha perso il suo smalto. Incrinature vocali aggravate da vuoti di memoria, nonostante la presenza di un suggeritore fin troppo udibile e due “gobbi” di supporto. E così, a metà concerto, dopo arie da Aida e Don Carlo, arrivato al brindisi del Macbeth, Placido ha dovuto gettare la spugna. Al suo posto è subentrato il russo Roman Burdenko, già pronto tra le quinte debitamente truccato e in costume a riprova che il forfait era previsto.
Non andrà meglio la sera dopo, venerdì, quando nell’altra sua veste di direttore d’orchestra, Domingo è salito sul podio di Turandot. Opera di per sé impervia, difficilmente sostenibile per il maestro, che per tenere il passo con il suo carnet frenetico, aveva previsto una sola prova. L’esito è stato talmente deludente che alla fine gli orchestrali, invitati dal direttore a alzarsi per i consueti ringraziamenti, sono rimasti ostinatamente seduti in segno di protesta. Insomma, una doppia débâcle. Imbarazzante per l’Arena ma ancor più per un artista che è stato davvero un fuoriclasse e avrebbe meritato un’uscita di scena più decorosa. Lo choc è stato tale che ieri i rappresentanti del Sic, Sindacato lavoratori comunicazione Cgil Verona, hanno inviato una nota in cui chiedono alla Fondazione Arena e al suo presidente, il sindaco Damiano Tommasi, di annullare il gala Domingo già previsto per la prossima stagione o almeno ridurlo a un “tributo” alla carriera da parte di artisti amici.
Invecchiare bene è sempre difficile. Ancora più difficile è capire quando è il momento di dire basta. La longevità straordinaria di Domingo non sembra portagli consiglio: a 80 anni suonati continua a seguire ritmi da quarantenne. Basta guardare il suo calendario, che a settembre lo porta in 15 giorni da Siviglia a Muscat, in Oman, e pure in Turchia. E poi da Amburgo a Budapest, dalla Bolivia al Paraguay. Dal Belgio alla Croazia Dubai… Ore e ore di aereo, fusi orari, jet lag, affrontati temerariamente. Forse in nome della fama, forse del botteghino, forse della fede in una vita eterna, almeno sulla scena. “If I rest, I rust”, se mi fermo arrugginisco. Il suo mantra, la sua condanna. Più saggio il motto di una sua famosa collega, Giulietta Simionato: «Meglio farsi rimpiangere che farsi compiangere».
"Placido Domingo in una setta che sfruttava schiave sessuali". Redazione su Il Giornale il 18 agosto 2022.
Si torna a parlare di Placido Domingo per un nuovo scandalo sessuale. Il nome del tenore spagnolo, 81 anni, compare in un'indagine su una setta criminale argentina accusata di tratta e sfruttamento sessuale di giovani donne. Oltre che di riciclaggio di denaro e pratica illegale di medicinali. Secondo alcuni quotidiani latino americani, Domingo sarebbe nella lista degli uomini intercettati nel corso dell'indagine della polizia di Buenos Aires. Ad accusarlo, una serie di nastri audio sequestrati durante i raid per sbaragliare la setta che, dietro la facciata di una «Escuela de Yoga», nascondeva tutt'altro. Tanto da far ribattezzare l'indagine giudiziaria «Geishado Vip». Ma più che geishe, le giovani coinvolte erano delle schiave sessuali.
Tra i clienti vip ci sarebbe anche il tenore, che nelle intercettazioni risulterebbe coinvolto in un presunto incontro sessuale con «Mendy», una donna che fa parte della setta. Le ragazze erano reclutate da Juan Percowicz, sedicente maestro spirituale, oggi 84 enne. Adepte ingenue, giovani e carine, da poter soggiogare con la promessa di felicità e benessere. In cambio era richiesta la totale sottomissione al Maestro, soprannominato l'Angelo. Tra i suoi compiti, quello di «generare denaro attraverso attività sessuali». Soprattutto con partner ricchi e potenti, uomini d'affari, politici, artisti di fama. Finora le vittime della setta sarebbero 170 solo in Argentina, 19 le persone arrestate, molti i sequestri di proprietà e i beni congelati.
Piera Anna Franini per “il Giornale” il 19 agosto 2022.
Mendy, adepta di una setta, spiega a un uomo non identificato: «Plácido ha detto che può venire a trovarci, cioè che verrà a trovarmi. Perché sta tornando a casa a New York e si ricorda di ieri. Dovrò sacrificarmi ancora una volta, ho una grande vocazione da servire». Premesso che le indagini sono ancora in corso, è questo uno dei tre audio che dimostrerebbe il coinvolgimento del tenore spagnolo Plácido Domingo nelle operazioni di sfruttamento sessuale gestite dal Gruppo BA e dalle controllate Escuela de Yoga e CMI-Abasto.
Sulla carta, una scuola di yoga e una clinica che promette guarigioni, di fatto una setta con tutti i crismi, con sede a Buenos Aires, filiali a Las Vegas, Chicago e New York, capitanata da Juan Percowicz, per gli adepti: l'Angelo.
Le indagini delle autorità argentine hanno portato a 50 perquisizioni, al sequestro di 37 proprietà e a 19 arresti, in cima quello di Percowicz che tra l'altro avrebbe combinato in prima persona l'incontro sessuale con il cantante. Tanta carne al fuoco, in primis le 170 vittime, tuttavia il nome che più fa scalpore è quello Placido Domingo: è la stella lirica di prima grandezza nonostante gli 81 anni, eternità per l'ugola, e le accuse di molestie sessuali costate - però - la messa al bando dal suolo (artistico) statunitense. Al momento rimane confermata la serata in suo onore organizzata per il 25 agosto dall'Arena di Verona.
Tra le fonti di finanziamento della setta c'era il reclutamento «VIP geishado» o «palomear», giovani disposti/e a incontri sessuali con personalità influenti in cambio non di denaro ma di felicità, così voleva il maestro spirituale Percowicz che tanta serenità l'aveva promessa anche nel 1992 quando venne accusato degli stessi crimini. Gli inquirenti ritengono che l'organizzazione reclutasse «studenti maschi e femmine» almeno dal 2004, e tutti inquadrati in una struttura gerarchica e piramidale con l'Angelo ai vertici, dunque gli Apostoli (livello 6), i Geni (livello 5), gli Allievi (livello 4), alla base persone ordinarie.
Le prestazioni sessuali consentivano agli adepti di guadagnare posizione, promozione al quadrato se avessero ceduto proprietà e pagato rette più onerose. Una volta entrate nella scuola, le donne erano costrette a subire un apprendistato da geisha così da essere pronte a incontrare la clientela. Una voce tra quelle intercettate, e che le autorità sostengono essere quella di Domingo, dice all'adepta Mendy: «Quando usciamo dalla cena andiamo separatamente, facciamo così perché i miei agenti salgono nelle loro stanze a quel punto. Poi salgo anch' io all'appartamento. Stanno sullo stesso piano».
Il cantante, racconta la donna a Percowicz, si lamentava per gli effetti del #metoo: «Ha fatto un casino, Juan, mi dispiace, non gli auguro nulla di male, ma è così bello vederci brillare e volare nell'aria, e lui ha fatto un casino». Proprio.
Placido Domingo, nuovo scandalo: è accusato di far parte di una setta che sfruttava schiave sessuali. Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.
Il tenore coinvolto in un’indagine in Argentina su un gruppo di vip che faceva incontri con giovani donne, soggiogate da un guru presso una sedicente scuola di yoga
Stavolta gli sarà davvero difficile scamparla. Stavolta Placido Domingo è di nuovo alla ribalta per un’altra storia di sesso. Brutta, molto brutta. Perché stavolta il nome del tenore spagnolo, considerato a 81 anni ancora l’icona della lirica mondiale, torna alla ribalta in un’indagine su una setta criminale argentina accusata di tratta e sfruttamento sessuale di giovani donne. Oltre che di riciclaggio di denaro e pratica illegale di medicinali.
La notizia sui giornali latinoamerican i
A riferire che il nome di Domingo sarebbe nella lista di quelli intercettati nel corso dell’indagine aperta dalla polizia di Buenos Aires, sono alcuni quotidiani latino americani come La Nacion dell’Argentina e El Observador dell’Uruguay. A accusarlo, una serie di nastri audio sequestrati durante i raid messi in atto per sbaragliare la setta che, dietro la facciata di una “Escuela de Yoga”, nascondeva ben altro. Tanto da far ribattezzare l’indagine giudiziaria come Geishado Vip. Ma più che geishe, le fanciulle coinvolte nel turpe traffico erano delle vere schiave sessuali.
L’intercettazione del tenore
E tra i clienti Vip ci sarebbe anche il tenore, che nelle intercettazioni risulterebbe protagonista di un presunto incontro sessuale con “Mendy”, una donna che fa parte della setta. A lei Domingo avrebbe detto: «Quando lasciamo la cena arriveremo separatamente. Lo faremo in questo modo perché i miei agenti saliranno nella loro stanza quando salirò io e rimarranno allo stesso piano». A fargli compagnia delle tante ragazze reclutate da Juan Percowicz, sedicente maestro spirituale, oggi 84 enne, operante nella sede di Villa Crespo, quartiere di Buenos Aires frequentato da artisti e calciatori. Adepte ingenue, giovani e carine, da poter soggiogare con la promessa di felicità e benessere. In cambio era richiesta la consegna di ogni loro bene e la totale sottomissione al Maestro, detto l’Angelo. Tra i compiti che l’Angelo gli affidava, quello di “generare denaro attraverso attività sessuali”.
170 vittimew
Soprattutto con partner ricchi e potenti, uomini d’affari, politici, artisti di fama. Finora le vittime della setta sarebbero 170 solo in Argentina, 19 le persone arrestate, molti i sequestri di proprietà e i beni congelati. La notizia è arrivata proprio alla vigilia dell’esibizione del cantante in Messico, la prima dopo 10 anni. E a un paio d’anni fa risalgono le accuse di molestie sessuali che l’avevano travolto dopo le denunce di una decina donne, costringendo Domingo a dimettersi dalla carica di direttore generale dell’Opera di Los Angeles e a cancellare ogni esibizione al Met di New York. Allora Placido si era scusato dicendosi «sinceramente dispiaciuto per le sofferenze causate, pronto a accettare la piena responsabilità delle mie azioni». Aveva aggiunto di essersi «impegnato a intraprendere un cambiamento positivo». Dopo questo nuovo scandalo, credergli sarà molto più difficile.
Dagospia. Da “Un giorno da pecora – Rai Radio 1” il 3 dicembre 2022.
“Io sono già candidata” alla Regione Lombardia ed “entro un paio di settimane ci incontreremo col nuovo Partito Socialista, un partito che ha passato, presente e futuro, che mi rispecchia totalmente”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l’attrice hard Priscilla Salerno, neo candidata alla guida della Lombardia per il nuovo Partito Socialista.
Lei ha detto che Craxi sarebbe fiero di lei. Non le pare esagerato?
“No, chi mi conosce sa quanto mi batta per i diritti. Da quando andavo a scuola sono sempre stata leader dei diritti”.
Per chi ha votato alle ultime politiche?
“Alla Meloni, le voglio dare assolutamente fiducia, è una donna fantastica”.
Pensa di togliere voti anche a Letizia Moratti?
“Lei è molto brava ma è ora di dar spazio ai giovani”.
Si candiderà col nome di Fortunata Ciaco o come Priscilla Salerno, suo nome d’arte?
“Ci saranno entrambi i nomi”.
Quali sono i punti fermi del suo programma?
“In alcune interviste ho detto alcune cose del mio programma e me le hanno già rubate”.
Chi lo avrebbe fatto?
“Fontana - ha sostenuto l'attrice a Un Giorno da Pecora -, ho letto che vuole fare alcune cose che io ho detto, specie sulla Sanità e sull’Ambiente”.
Lei è una nota attrice del mondo dell’hard. Come si definirebbe?
“La star del porno”.
Quanti film ha fatto?
“Una ventina e quattro d’autore, l’ultimo è un documentario”.
C’è un politico con le piacerebbe fare un film hard?
“C’è una politica, una donna”.
E chi è?
“Mara Carfagna, è molto intrigante”.
E chi è il politico che la affascina di più?
“Appena diventato premier mi piaceva Giuseppe Conte, poi però è diventato molle…”
Anticipazione da “Telelombardia” il 24 novembre 2022.
“Fino ad oggi ho fatto l'attrice hard imprenditrice. Non è che mi viene in mente all'improvviso di candidarmi, è una scelta ponderata. Sono ormai 6 mesi che l'avevamo deciso con il nuovo PSI e adesso ufficializziamo la candidatura a Telelombardia”
Come farai a confrontarti con Letizia Moratti?
“Mi piacerebbe molto confrontarmi con Letizia perché sicuramente imparerei qualcosa in più”
Una pornostar che vuole fare la presidente della Lombardia sembra un assurdo?
“Non è un assurdo. Cicciolina fu una provocazione riuscita anche bene con i radicali. Ed è stata votata dal popolo. Io ho delle idee concrete, ho delle proposte serie per la Lombardia.
Intanto sono un'imprenditrice prima di ogni cosa, poi che ho scelto un lavoro particolare. Solo in Italia questo lavoro è particolare, in America una panettiera è uguale a un'attrice hard basta che paga le tasse. Io sono cattolica”
Hai il garofano ma tu ti senti socialista?
“Sì io mi sento socialista a tutti gli effetti. È un partito che non ha pregiudizi, dà meriti a chi deve averne. Bettino Craxi sarebbe fiero di me. Non è una provocazione, sono in politica da 6 anni, nel sociale combatto per i diritti delle donne. Voglio una legge che permetta alle donne di essere tutelate veramente.
In Lombardia ci sono tante cose da cambiare, la delinquenza, le infrastrutture, migliorare il welfare, la sanità, il turismo. Questi politici che abbiamo oggi prendono le metropolitane? Io prendo la metro, non ho autista, ho problemi a trovare parcheggio, faccio ticket per ospedale, vado al parco e ho paura dei borseggiatori.
Io vivo tra Milano e Verona quando sono in Italia da sempre perché per il mio lavoro Milano è un'istituzione. Io conosco benissimo tutte le dinamiche di Milano e della Lombardia”
Perché un lombardo dovrebbe votarti?
“Devono votare me i lombardi perché siamo stanchi di questa politica stantia, di questa politica solo di parole e fatti loro, non fatti nostri.
La signora Moratti è ora che si debba riposare. È in gamba, ha fatto tutto. Ci vogliono persone che hanno voglia di agire, di ascoltare, di mettersi in gioco, di aiutare chi ha bisogno”
Moratti e Fontana hanno esperienza, lei no
“Esperienza si fa con il tempo, io mi circonderò di persone competenti. Io ho visto interviste in tv di Majorino, di Fontana, della Moratti ma io non capisco niente. Parlano, bisogna fare i fatti”
Come pornostar potrebbe affrontare un problema come il Covid?
“Intanto un ex pornostar è una donna pensante, è una donna che ha vissuto il Covid in 2 situazioni, estera e italiana. Perché durante la prima ondata ero a Miami, ci ho messo un mese a rientrare. Sono tornata in Italia, ho fatto i vaccini e dopo una settimana ho preso la variante delta.
Ci sono persone competenti che mi aiuteranno a fare un piano sanitario ad hoc per la Lombardia. Io chiedo ai lombardi di allearsi con me affinché insieme possiamo cambiare le cose perché la politica deve essere democratica. La politica è il popolo, siamo noi. Chiedo alle persone di raccontarmi i loro bisogni e chi è meritevole ad affiancarmi sarà chiamato per queste elezioni. Il mio slogan è: meriti e bisogni”
“Abbiamo chiesto a Fortunata Ciaco, detta Priscilla, nostra iscritta, responsabile dipartimento infanzia donna, violenza sulle donne della nostra segreteria, di volersi impegnare politicamente per la regione Lombardia per riportare la regione Lombardia ad essere il locomotore economico-sociale-politico dell’Italia e dell’Europa come lo era ai tempi dei Socialisti di Bettino Craxi e di De Michelis”.
Lo ha dichiarato l’ex senatore Lucio Barani, segretario del Nuovo PSI questa sera durante la trasmissione Iceberg Lombardia. “Con lo slogan ‘’meriti e bisogni’’ Priscilla for President chiediamo agli uomini e alle donne che si riconoscono in questo progetto da creare, da costruire dalla base, ai lombardi di proporsi tramite social e iscrizioni online che apriremo, di impegnarsi in tutte le province per avere dei nostri rappresentanti con il nostro progetto e il nostro programma per far grande la Lombardia. Siamo stanchi dei Fontana, dei Moratti, una famiglia che ha più longevità della regina Elisabetta. Priscilla for President”
Gabriele Bojano per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 7 luglio 2022.
La pornostar Priscilla Salerno ha coronato il suo sogno, entrare in politica con un ruolo di spessore: responsabile del dipartimento nazionale del Nuovo Partito Socialista contro la violenza sulle donne e sui rischi del revenge porn e della rete. È la stessa diva hard ad annunciarlo ai suoi fans sui social postando la lettera ufficiale d’incarico che ha ricevuto a firma del coordinatore nazionale del Nuovo Psi Lucio Barani, in cui colpisce in calce il suo vero nome, con cui dovrà firmare per accettazione: Fortunata Ciaco.
Il ringraziamento
«Grazie onorevole Barani, grazie Gaetano Amatruda... non deluderò la vostra fiducia», sono le poche parole di ringraziamento scritte da Priscilla che proprio domani pomeriggio, non a caso, partecipa a Vietri sul Mare a un incontro pubblico sul tema «Donne, politica e antichi pregiudizi».
Da tempo la pornostar, che è anche imprenditrice nel settore, annunciava che era pronta per entrare in politica: alle ultime amministrative della sua città, Salerno, si era parlato anche di una sua candidatura ma poi era stata Forza Italia a metterle i bastoni tra le ruote e farla desistere. «Il porno è una vocazione - ha detto ospite a «Zona Bianca» - mi hanno insultata talmente tanto che la ritengo una violenza. Non si sono però sbarazzati di me, mi candiderò alle prossime elezioni».
Estratto dell'articolo di Concetto Vecchio per repubblica.it il 15 Dicembre 2022.
La destra prova a ordire la sua egemonia culturale. È il grande orizzonte a cui ambisce il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (“Basta con i sacerdoti del politicamente corretto!”), che cita spesso Antonio Gramsci.
Prova ne è il dibattito “Per un nuovo immaginario italiano” che andrà in scena domani alla festa di Fratelli d’Italia, in piazza del Popolo. Oltre a Sangiuliano ci saranno lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, il neopresidente del Maxxi Alessandro Giuli, il presidente della Commissione cultura Federico Mollicone, il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi: le nuove leve dell’intellighenzia meloniana. Ospite d’onore è una griffe del nostro cinema, Pupi Avati, 54 film all’attivo, alcuni, come “Regalo di Natale”, indimenticabili.
Pupi Avati, perché ha accettato di partecipare al dibattito di Fratelli d’Italia?
“Semplicemente perché me l’hanno chiesto. Per me è l’occasione di dire la mia sullo stato del nostro cinema. Nessun partito me l’aveva mai domandato prima”.
Lei è di destra?
“Né di destra né di sinistra”.
Come si definirebbe allora?
“Cattolico. Ma mi rendo conto che oggi non vuol dire più niente”.
Abbiamo tutti un orientamento culturale.
“Eh, so bene che quelli che dicono di non essere né di destra né di sinistra alla fine vengono etichettati come di destra. Ma io sono i miei film. I primi furono sessattottini, perché risentivano di quel clima, ma dopo sono sempre stato semplicemente me stesso”.
[…] Il cinema in genere guarda a sinistra?
“Io non ho mai avuto di queste schizzinosità. Domani proverò a trasmettere un po’ di esperienza. Ho iniziato questo lavoro circondato da maestri come Fellini, Antonioni, De Sica, e ora?. I film costano tanti soldi, ma in gran parte non sono più cultura”.
[…] Per chi ha votato il 25 settembre?
“Non intendo dirlo”
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
“Penso che sia una donna di una grandissima forza e di altrettanta coerenza personale”
Quindi la promuove?
“Mi commuove pensare che una donna così minuta sia alle prese con una simile responsabilità”
Addirittura?
“Non dovremmo essere tutti contenti che una donna ce l’abbia fatta ad arrivare a palazzo Chigi?”
Non è estrema destra?
“Non avverto nessun tipo di cambiamento rispetto al governo Draghi, che pure non mi dispiaceva”
Lei usa i contanti o il Pos?
“Che discussione mediocre! In Iran impiccano in piazza i manifestanti e in Ucraina infuria la guerra e noi discutiamo di Pos e tetto al contante. Sempre lo stesso dibattito in tv, con una compagnia di giro di ospiti che migra da un canale all’altro”.
[…] La sinistra ha esercitato un’egemonia culturale sulla cultura italiana?
“Non esiste un cinema di sinistra o di destra, esistono bei film o brutti. Lo Stato deve sostenere la qualità, dargli un valore. La mia società se la passa così così proprio perché io ho sempre cercato di non accontentarmi”.
Pupi Avati: «Dante nell’Italia di oggi farebbe la fame». Un ragazzo pieno di talento che lotta, soffre, fa l’amore. È il Sommo Poeta nel film che ha realizzato il regista bolognese. Dopo diciotto anni di tentativi. «Un Alighieri inedito e fragile a cui ho voluto togliere di dosso la polvere dell’Accademia» Claudia Catalli su La Repubblica il 15 Settembre 2022
Un ragazzo pieno di talento che ama, sogna, compone poesie, poi va in battaglia, soffre, si dispera, fa l’amore e lotta per quello in cui crede. È il Dante che propone Pupi Avati nel nuovo film tratto dal suo romanzo “L’alta Fantasia - Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” (ed. Solferino) e realizzato dopo diciotto anni di tentativi: «Più lo proponevo, più i committenti si rivelavano spaventati dalla figura di Dante, invece questo per me non è un film, è il film». Lo sottolinea più volte il cineasta bolognese nel corso di quest’intervista, per la quale si precipita da Todi a Roma, facendo aprire appositamente una sala proiezioni. Non è stanco di rivedere il suo “Dante”, dal 29 settembre nelle sale italiane: «Potrei guardarlo all’infinito, è un unicum nella mia filmografia: ha qualcosa di speciale che nessuno dei miei film aveva e nessuno avrà più».
Per questo ha voluto mostrarlo al Presidente della Repubblica?
«Non l’avevo mai fatto prima, non ci avevo neanche mai pensato. A fine film Mattarella si è precipitato ad abbracciarmi e mi sono messo a piangere».
Il suo Dante, interpretato da Alessandro Sperduti, è un ragazzo pieno di sogni che si infrangono con il reale. Finisce esiliato, povero, frustrato, sposato con la donna “sbagliata”…
«È un Dante inedito, molto fragile. Essere fragili è una preziosa qualità della vita. Me lo insegnò Ugo Tognazzi, che raccontava tutte le cose che gli erano andate male ed era divertentissimo».
Il suo Dante è anche un poeta scomodo, dissidente, quasi un intellettuale militante.
«Non era solo un poeta, ma un poeta dentro il suo tempo. Volevo insistere sul suo impegno politico, sulla condizione di estrema difficoltà in cui si trovava, sulla sua sofferenza nell’essere esiliato dalla sua amata Firenze. Emilio Pasquini, emerito dantista tra i consulenti del film purtroppo venuto a mancare causa Covid a fine sceneggiatura, insisteva tanto: “Mi raccomando, racconta quanto l’esilio l’avesse umiliato”».
Dante è morto lontano da casa, senza mai aver ottenuto quel riconoscimento pubblico che gli spettava. Trova che dal Medioevo ad oggi l’Italia abbia cambiato atteggiamento verso gli intellettuali?
«No. Troppi incompetenti ricoprono ruoli per cui non hanno né vocazione né competenza. Incontro spesso persone che ricoprono cariche importanti e mi chiedo come ci siano arrivate e perché possano decidere della mia vita».
Come mai nel Paese che ha dato i natali a Dante la cultura non è mai la priorità, neanche in campagna elettorale?
«Ci sono responsabilità precise di chi lavora nelle istituzioni preposte a occuparsi di cultura. È curioso, siamo conosciuti nel mondo per i nostri artisti e geni del passato, ma il presente sembra non esistere. Oggi Dante farebbe di nuovo la fame».
Era indigente, eppure geniale.
«Dante ai miei occhi resta un enigma, non c’è nulla nel suo albero genealogico che facesse prevedere il suo genio. La fine della sua vita ha coinciso con il culmine della sua opera. A me stava a cuore togliergli di dosso la polvere dell’Accademia. La scuola produce una distanza enorme da lui, insegna quanto sia incomprensibile la sua dismisura poetica e la sua onniscienza, quanto sia distante da noi. Quando la scuola dice Dante dice la nostra inadeguatezza. Anche questo anno delle celebrazioni non ha aiutato ad avvicinarlo, anzi fanfare, tricolori e appropriazioni indebite l’hanno reso ancora più distante».
Ricorda il suo primo approccio con i testi danteschi?
«Da bambino mia zia Rina aveva un enorme testo in pelle illustrato de “L’Inferno”, me lo lasciava in cucina squadernato sul tavolo e io con la lente d’ingrandimento andavo a cercare le donne nude. Poi la storia me l’ha fatto odiare».
Boccaccio, suo primo biografo, nel film viene interpretato da Sergio Castellitto.
«Il viaggio di Boccaccio incaricato di portare dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico a Suor Beatrice Alighieri, figlia del poeta, era un pretesto per raccontare un Dante inedito, che defeca, va in guerra, va con le donne, che fosse un lussurioso Boccaccio lo ripete più volte. Mi colpiva la dedizione di Boccaccio verso Dante, l’amore che prova è lo stesso mio, certe sue battute sono mie».
Ad esempio?
«“Nello sguardo di Dante e Beatrice c’è l’emozione del mondo”. Non l’ha detto Boccaccio, è un mio pensiero, perché quello tra Dante e Beatrice è un innamoramento simile a quello che ho vissuto io con mia moglie. Da giovani c’è l’attrazione fisica, poi nel tragitto siderale che compiono due persone che vivono le varie sfumature dell’amore si affievoliscono certe pulsioni. Resta però una consapevolezza di fondo, un legame speciale. Per questo la mia Beatrice (Carlotta Gamba, ndr) è una ragazza consapevole, non una Barbie come altri l’hanno descritta. In una scena addirittura suggerisce a Dante uno dei sonetti più famosi, “Tanto gentile e tanto onesta pare”».
Nel finale del film Castellitto con le lacrime agli occhi interpreta il sentimento di chi guarda: siamo tutti orfani di Dante.
«Perché ci manca il sublime, la sacralità. Vengo dalla cultura contadina che educa al sacro in ogni cosa, non allo spreco e allo scarto, ma a rendere prezioso il poco che si ha. Il sacro è nei nostri occhi e nel modo di guardare le cose, oggi manca questa ambizione. Specie al nostro cinema».
Si sente ancora un outsider?
«Difficile trovare un regista più alternativo di me: ho iniziato nel ‘68 e non sono mai stato di moda. Il protagonista del mio film precedente “Lei mi parla ancora” è un comico ottantenne che non aveva mai fatto un film drammatico (Renato Pozzetto, ndr). Scommetto sulle storie, punto sulle emozioni, su quello che mi commuove e che mi sembra bello. È un impegno che assumo con me stesso. A volte ci riesco, altre meno».
Nel suo film Dante scrive una serie di personaggi sul lenzuolo: è vero che lei a casa ha la Via degli Angeli, una parete con i nomi dei suoi cari venuti a mancare?
«Non solo una parete, ho anche un file nel pc che aggiorno. Tutte le sere, come fosse un breviario, leggo i nomi di chi non è più con me. L’ultimo è Piero Angela, che conoscevo bene. Un jazzista vero: non è meraviglioso che a novant’anni sia rimasto così ragazzo da voler incidere un album?».
C’è un modo per rimanere così giovani?
«Credere di esserlo. Sono un quattordicenne, l’età in cui un ragazzo è convinto di poter inventare ogni giorno un futuro e la vita è sinonimo di infinite possibilità».
Il segreto per trasformarle in realtà?
«Bisogna avere i sogni grandi e nessun piano B, altrimenti il piano A non funzionerà mai».
Pupi Avati: «Dante vi sedurrà. È Boccaccio che lo salva per noi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
Al cinema con il regista di un film frutto di coraggio e purezza: «Mi sentivo inadeguato, ho studiato 20 anni ma ce l’ho fatta. Il Poeta come essere umano credo di averlo intuito»
Pupi Avati, 83 anni, sul set di Dante con Sergio Castellitto, che interpreta Boccaccio
Ci vogliono coraggio e purezza per fare un film su Dante.
Per i settecento anni dalla morte del più grande poeta che non solo l’Italia ma l’umanità abbia mai avuto, la tv non ha fatto nulla. Assolutamente nulla. Il cinema, l’industria della fiction: nulla.
Dante non interessa. O, meglio, spaventa. Fa perdere ascolti (o si pensa che li faccia perdere). Non è solo l’antica regola, per cui l’impresario che ha investito sul cattivo gusto del pubblico non ha mai perso i propri soldi. È che Dante è considerato complicato; mentre in realtà è profondo.
Per portarlo al cinema ci volevano il coraggio e la purezza di Pupi Avati. Non purezza angelicata: nel film Beatrice compare nuda, come nella visione notturna di Dante; e Dante fa l’amore con una prostituta (del resto Boccaccio lo definisce «lussurioso»: gli piacevano molto le donne, ed ebbe varie storie durante l’esilio, in cui non fu seguito dalla moglie). Ma purezza spirituale. Amore per la poesia. Capacità di cogliere la «misteriosa grandezza» del poeta, o almeno lasciarsene affascinare.
Spiega Pupi Avati, nella saletta dove vediamo insieme il suo film intitolato appunto Dante - al cinema dal 29 settembre - che la mancanza di coraggio altrui non lo scandalizza, anzi. «Dante comunica a tutti un senso di inadeguatezza. Crea complessi di inferiorità, e giustamente. Apre una distanza per la sua onniscienza, per la sua dismisura poetica, per il suo mistero. Io ho tentato di rendere Dante seducente. E per farlo ho studiato vent’anni».
Il film, racconta il regista, si doveva fare nel 2002. «Avevo già il contratto con la Rai, concluso con Giancarlo Leone. Ma, se le scrivanie sono sempre le stesse, le persone cambiano; e di Dante non hanno più voluto sentir parlare». Nel frattempo, Pupi Avati ha continuato a pensarci. A lavorarci. E a scriverne.
Il film nasce dal bellissimo romanzo che il regista ha pubblicato da Solferino, L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante. E, come il libro, anche il film cuce insieme tre storie, utilizza tre registri per raccontare la vita del poeta.
Il primo è la sua passione giovanile per Beatrice, ricostruita dalla viva voce di Dante, che ci parla attraverso la Vita Nova e i suoi commoventi sonetti d’amore.
Il secondo è la genesi dell’ Inferno; e quando si vede Dante armeggiare attorno al lenzuolo da cui non si separava mai, che portava legato al petto e dispiegava la notte per disegnare la mappa dell’abisso ultraterreno e i nomi dei vari personaggi da collocare nei diversi cerchi, torna in mente Shakespeare in Love, il film premio Oscar in cui John Madden racconta alla sua maniera la nascita di Giulietta e Romeo.
Boccaccio al centro della scena
Il terzo registro è il viaggio di Boccaccio sui luoghi della vita di Dante. È questa l’intuizione fondamentale di Pupi Avati: «Boccaccio ha salvato Dante. Ha salvato la sua opera, ricopiandola a mano per almeno tre volte. Le ha cambiato il nome: non più solo Commedia, ma Divina Commedia. Ne ha evitato fisicamente la distruzione: ai conventi era fatto divieto custodire una copia del capolavoro di Dante, perché si parlava male dei Papi, in particolare di Bonifacio VIII e di Giovanni XXII. Inoltre, Boccaccio ha inaugurato la lunga tradizione delle Lecturae Dantis, le Letture di Dante in pubblico, leggendo l’ Inferno, lui già malato, sino allo sfinimento, con enorme successo e grande commozione dei fiorentini».
Riparare al male fatto
Il film prende spunto proprio dal rinsavimento dei fiorentini. Per riparare in parte al male fatto al loro illustre concittadino - esiliato, braccato, i beni «confiscati, devastati, distrutti», la condanna a morte per decapitazione e abbruciamento, i tentativi di sopprimerlo fisicamente, sino al desiderio del cardinale Del Poggetto di bruciarne le ossa per non far restare di lui alcuna traccia -, i fiorentini hanno incaricato Boccaccio di portare una somma di denaro e una richiesta di perdono all’unico discendente di Dante rimasto in vita: sua figlia Antonia, divenuta suora con il nome di Beatrice.
Boccaccio è malato. Ha la scabbia. È sopravvissuto alla peste, che gli ha ucciso tre figli. Gliene è rimasta una, una bambina di nome Violante, che però non lo riconosce come padre. Lui tenta invano di riconquistarla portandogli in dono la bambola nuziale appartenuta a Beatrice: quasi un presagio di sventura (una scena che ricorda un classico dell’irregolare Pupi Avati, che nel 1976 ne La casa dalle finestre che ridono si è cimentato pure con l’horror).
Padri e figli
Prima di partire alla ricerca della figlia di Dante, Boccaccio deve riconoscere il proprio padre, morto nella terribile peste del 1348, che ridusse a un terzo la popolazione di Firenze. È una scena terribile e splendida: il monatto solleva con l’apposito gancio il sacco che copre il volto dei defunti, fino a quando Boccaccio non riconosce i tratti, deformati dal male dall’agonia, del proprio genitore carnale. È un addio definitivo; perché Boccaccio si considera spiritualmente figlio di Dante, «il padre di tutte le gioie della mia vita».
«Ho delegato a Boccaccio il compito di raccontare Dante», sorride il regista; «perché Boccaccio spesso pensa e dice le cose che penso e dico io».
Nella Toscana ancora pervasa dal «puzzo della peste», Boccaccio ripercorre le tappe dell’esilio di Dante, e incontra i testimoni del suo passaggio. Il Casentino, dove fu accolto da una donna bella benché gozzuta, che lo salvò dai sicari fiorentini incaricati di eliminarlo. Il castello di Romena, dov’era custodito (ora non si trova più) l’unico manoscritto di Dante: una lettera in cui chiede perdono ai figli del conte Alessandro perché non può venire al funerale del padre, in quanto la povertà l’ha privato di armi e di cavallo (Boccaccio si commuove leggendo la lettera e baciandola; e anche lo spettatore fatica a restare insensibile). Proprio a Romena Dante si è fatto raccontare da una figlia del conte Ugolino la storia della crudele morte del padre; mentre sul campo di battaglia di Campaldino ha conosciuto Bernardino Da Polenta, che gli ha raccontato l’assassinio di sua sorella, Francesca.
La nascita del Paradiso
A Ravenna, Boccaccio vede il mosaico dell’abside di Apollinare in Classe, con tutte le stelle della volta celeste, di cui Dante conosceva «il vero nome». Gli raccontano che a volte il poeta si faceva chiudere dentro la chiesa tutta la notte, per attendere le prime luci dell’alba. Il Paradiso nacque lì.
Infine, Boccaccio arriva nel convento dove vive la figlia del poeta. Che rifiuta di riceverlo: è troppo offesa con i fiorentini, non vuole perdonarli («una suora che non perdona?», si chiede Boccaccio). Ma nella notte lo scrittore e la suora si incontrano come per caso, e la figlia di Dante riconosce in Boccaccio un proprio fratello.
Boccaccio è Sergio Castellitto. La sua interpretazione è straordinaria. Intensissima, anche fisicamente. Non sono un critico cinematografico, anzi con i critici mi trovo talora in disaccordo, e certo hanno ragione loro e torto io. Il giudizio critico su un film, come quello su un attore, è anche un fatto tecnico, e come tale va lasciato agli esperti.
Attori straordinari
Ma il cinema, come tutte le arti, parla alla mente e al cuore degli uomini, e allora da spettatori possiamo dire che gli attori di Pupi Avati in questo film sono straordinari. Anche perché sono i “suoi” attori. Gianni Cavina ad esempio interpreta un notaio ravennate, amico di Dante, che sta morendo; e durante la lavorazione del film Gianni Cavina stava veramente morendo, gli restavano solo due mesi. Il Dante morente è invece Giulio Pizzirani (quello giovane è Alessandro Sperduti, che ha retto con dignità un ruolo difficilissimo). Alessandro Haber è l’Abate di Vallombrosa, che recita con tono di cospiratore i versi del Paradiso contro il Papa. Ma è convincente, e mai caricaturale, pure Leopoldo Mastelloni quando interpreta un Papa sensuale e cinico come Bonifacio VIII, anch’egli malato e vicino alla fine.
Fame e orgoglio
La morte è la vera coprotagonista del film. E qui torna in mente un altro capolavoro di Pupi Avati: Magnificat, ambientato nella settimana santa dell’anno 926. Nel Medioevo la morte è incombente. Si crede fermamente nell’aldilà perché lo si sente prossimo, separato dalla vita soltanto da un velo sottile. Ed è una morte pubblica. Nessuno muore da solo. È pubblica la morte di Bella degli Abati, la madre di Dante, che ha appena cinque anni, e si pulisce la bocca dopo aver baciato la mamma appena spirata. È pubblica la morte di Beatrice, il bel volto deturpato dal vaiolo: meravigliosa la scena della sepoltura, con le donne che confortano la defunta, «non sei sola nel sepolcro, c’è tua sorella Ravegnana...». Ed è pubblica anche la morte di Dante, ucciso dalla malaria e dalle amarezze di una vita tormentata e feconda.
Resta una domanda. Forse la vera biografia del poeta è la sua opera.
Grandezza e umanità
Nella Divina Commedia ci sono tutti. Il suo ispiratore, Virgilio. La donna amata, appunto Beatrice. Il maestro, Brunetto Latini. E i personaggi in cui Dante ritrova sé stesso. Pier delle Vigne, morto suicida: e pure il poeta pensò al suicidio durante l’esilio. Il conte Ugolino, che vede morire di fame i suoi «figliuoli» (in realtà due figli e due nipoti); e pure Dante, poverissimo, vide i figli - che a differenza della moglie l’avevano seguito in esilio - patire la fame e gli stenti, a causa del suo orgoglio. E soprattutto Ulisse, l’eroe della conoscenza, che rinuncia alla dolcezza della famiglia per diventare esperto del mondo, e dell’animo umano.
Ma, spiega Pupi Avati, portare al cinema la Divina Commedia sarebbe stato troppo, e troppo poco. «È un’impresa con cui si sono cimentati in tanti», ricorda il regista. «Zeffirelli. Fellini. Ma è un’impresa destinata a fallire. Perché l’ Inferno è un’opera totalmente risolta. Oltre Doré, il meraviglioso illustratore francese, è difficile andare. E poi produttivamente l’ Inferno sarebbe un kolossal. È un modo di fare cinema troppo grande, che non mi appartiene. Ma il Dante come essere umano credo di averlo intuito». E ce lo ha restituito, nella sua grandezza ma appunto anche nella sua umanità.
Da “I Lunatici – Radio2” il 18 giugno 2022.
Pupi Avati è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e le quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa.
Il popolare regista ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Soprattutto quando ero ragazzo le cose più spaventevoli mi venivano in mente di notte. Ho avuto tanta fantasia su quel versante. Adesso, con l'età, la notte fa sì che mi addormenti e tenda ad essere frequentato dagli incubi.
Gli incubi che ho riguardano sempre situazioni di set, in cui ho contro tutti, gli attori ecc, che vorrebbero fare una cosa e io vorrei farne un'altra. Poi mi sveglio e mi accorgo che per fortuna era un sogno. Quando ho capito che il cinema sarebbe stata la mia strada? Io non l'ho ancora capito. Non è civetteria. Arrivato a 83 anni devo ancora capire cosa fare della mia vita. Sono ancora uno che va a cercare se stesso. Lo strumento attraverso il quale raccontarmi.
Col cinema ho detto molto di me stesso. Ma ho anche molto mentito. Prima o poi, prima di andarmene, vorrei trovare il modo di essere totalmente sincero raccontandomi per quello che sono. Pupi Avati è molto timido, molto ambizioso, anche se fa finta di non esserlo, con una visione delle cose del mondo, credo di buonsenso.
E mi trovo in un mondo in cui tutti straparlano. Sono talmente timido, ho una sorta di senso di inadeguatezza, per cui ad esempio nel dibattito politico non sono mai intervenuto, mi sono sempre tenuto da parte, pagando tra le altre cose anche un prezzo non indifferente. Perché l'appartenenza politica ha aiutato molti miei colleghi. Se ho paura della morte? Cerco di parlarle.
Sono cresciuto in una cultura contadina, il rapporto con la morte non era come quello di adesso. Ho un rapporto con la morte per cui quando prego, prego dicendo i nomi dei morti, delle persone che mi sono state vicine, che mi sono state care. Che sono sempre di più. E alla sera io cerco di ricordarmele tutte, dicendo i loro nomi. E' una forma di preghiera".
Su 'La casa dalla finestre che ridono': "L'abbiamo pensato sulle favole che ci raccontavano da bambini. Ci raccontavano che c'era un prete donna che vagava per la campagna. E' una delle paure ancestrali, questo prete donna che di notte esce da un loculo di un cimitero e si avvia per le campagne.
Ci mandavano a letto dicendo 'dormite subito, altrimenti arriva il prete donna'. E chi ci riusciva a dormire? In quel film ho conosciuto un attore che è diventato addirittura me stesso in una serie di operazione televisiva. Parliamo di Lino Capolicchio, che se ne andato a maggio, uno degli interpreti più fedeli e coincidenti anche umanamente e culturalmente. Lino era una persona molto colta, mi piaceva intrattenermi con lui per parlare di cinema ma anche dall'altro".
Sul cinema: "Il cinema oggi sta molto bene, se ne fa tanto, anche se ho qualche perplessità nei confronti delle serie. Però lavorano tutti e questa è una cosa magnifica. Purtroppo però i cinema sono vuoti.
La fruizione non avviene più attraverso la sala. Credo che questa tendenza sia impossibile da invertire. La tecnologia ormai ci domina. Sarebbe antistorico pretendere che tante persone tornino in sala a vedere film.
Andare al cinema non sarà più una cosa di diffusione popolare. Stavamo in piedi, in cinema affollatissimi, c'era la guerra per sedersi. Oggi è un'altra cosa. E pensare che oggi la fruizione del film al cinema è arrivata ad una qualità straordinaria".
Su Regalo di Natale: "Non mi stanco mai di parlarne, sono felice che sopravviva. Anche se più passa il tempo e meno è mio. Ci sono cose che fai di cui si impossessa una platea talmente ampia che quella cosa non diventa più tua. Per quel film convinsi Abatantuono a recitare con la sua voce normale, abbandonando lo slang del terroncello.
Al posto suo doveva esserci Lino Banfi, che però preferì andare a fare un film con Dino Risi. Alessandro Haber? Tutto quello che racconta è reale. Io credo che sia il miglior attore italiano, quello più vero, impulsivo, difficile da controllare.
E' un portatore di verità sul set che non ha eguali. Mentre giravamo 'Regalo di Natale' non ci rendevamo conto di fare un capolavoro. Non so se sia un capolavoro.
Dovevamo fare un film di recupero, non potevamo fare un film costoso, abbiamo immaginato la storia più economica possibile. Molto spesso nella mia vita i film più spericolati ed economici mi hanno dato soddisfazione, mentre quelli in cui disponevo tutti i mezzi necessari hanno deluso".
Su 'La rivincita di Natale': "Non era facile tenere coperte le carte fino alla fine. Sono stati gli attori che volevano a tutti i costi fare il seguito dopo diciassette anni. Io mi sono opposto, loro hanno fatto scrivere una sceneggiatura da qualcuno, io l'ho letta e mi sono reso conto che sarebbe stata una catastrofe.
Allora ho detto che l'avrei fatta io. Quando ci siamo incontrati era come se il giorno prima avessimo finito di girare 'Regalo di Natale'. Era come se il tempo non fosse passato":
Sulle attrici: "Una delle attrici più positive, che auguro a chiunque in un film, è Micaela Ramazzotti. E' portatrice di verità e entusiasmo. Aveva una energia contagiosa, gli attori per me devono essere portatori di energia".
Sullo schiaffo di Will Smith: "Per me era finto. Era tutta una finta, se lo guarda, c'è anche un fuorisinc tra lo schiaffo e il rumore. Ora non possono più tornare indietro, sarebbe troppo infantile ammettere che era una finta. Per me è una finta. Non ha nessun senso come cosa, stimando entrambi credo che lo abbiano pensato in modo goliardico, per fare una cosa divertente. Io penso che sia così, magari mi sbaglio".
Sul #metoo: "Doveva esistere negli anni 20, negli anni 30. Quando iniziai a fare cinema nel 1968 c'erano delle mamme che portavano le loro figlie e dicevano dai fatti vedere dal dottore. Mi trovai improvvisamente ad avere davanti a me delle opportunità affettivo-sessuali che non avrei mai immaginato.
Che i produttori nei loro uffici avessero regolarmente dei divani, lo sapevano tutti. Quei divani lì raccontano delle storie. L'approfittarsi dell'uomo accadeva anche negli uffici, non solo nel cinema. Si verifica in qualunque contesto in cui ci sia una prevaricazione. Adesso il maschio non lo fa più. E' terrorizzato".